Camera dei Deputati
VIII Commissione – Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici
Presidenza dell’On. Pietro ARMANI
Indagine conoscitiva sulla programmazione delle opere idrauliche
relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio nazionale.
Riepilogo Audizioni…
Seduta del 22.12.04 - Delibera Programma dell’Indagine . . . . . . . . pag.
2
“
“ 25.01.05 - Audiz. APAT – Agenzia naz. Protezione ambiente .
“
3
“
“ 27.01.05 - Audiz. Dipartimento Protezione civile . . . . . . . . “
15
“
“ 01.02.05 - Audiz. RID – Registro Italiano Dighe . . . . . . . . . “
30
“
“ 08.02.05 - Audiz. AIPO – Agenzia iterreg. Per il fiume Po . . . “
35
“
“ 16.02.05 - Audiz. Magistrato delle Acque di Venezia . . . . . . “
46
“
“ 17.02.05 - Audiz. Conferenza Regioni e Province autonome . . “
51
“
“ 22.02.05 - Audiz. Comit. Naz. Lotta alla siccità e alla desertif. . “
63
“
ANCE – Associazione nazionale costruttori . . “
70
“
ANBI – Ass.ne naz. Bonifiche irrigazioni ecc. “
74
“
“ 24.02.05 - Audiz. ANCI – Associaz. nazionale comuni italiani . “
83
“
“ 08.03.05 - Audiz. Autorità di bac. dei fiumi: Po, Arno e Tevere “
86
“
UPI – Unione Province d’Italia . . . . . . . . “
98
“
“ 15.03.05 - Audiz. Autorità di Bac. dei fiumi: Adige e Volturno
“
102
“
“ 27.04.05 – Proroga del termine: al 15.07.2005 . . . . . . . . . . “
108
“
“ 10.05.05 – Audiz. Associazioni ambientalista . . . . . . . . . . . “
108
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Seduta del 22 dicembre 2004
Presidenza del vicepresidente Francesco STRADELLA.
La seduta comincia alle 14.35.
Deliberazione .
Francesco STRADELLA, presidente, sulla base di quanto convenuto nella riunione
dell'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, di giovedì 16
dicembre 2004 ed essendo stata acquisita l'intesa con il Presidente della Camera, ai
sensi dell'articolo 144 del Regolamento, propone lo svolgimento di un'indagine
conoscitiva sulla programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua
presenti sul territorio nazionale, con il seguente programma e le seguenti modalità di
svolgimento:
PROGRAMMA DI UN'INDAGINE CONOSCITIVA SULLA
PROGRAMMAZIONE DELLE OPERE IDRAULICHE RELATIVE AI CORSI
D'ACQUA PRESENTI SUL TERRITORIO NAZIONALE
Il continuo verificarsi di episodi di esondazione e di eventi alluvionali che interessano
fiumi e laghi, nonché di fenomeni che riguardano alcune acque lagunari, pone al centro
dell'attenzione del Parlamento l'esigenza di affrontare con serietà e coerenza il problema
delle competenze e delle iniziative in materia di gestione dei corsi d'acqua, così come
definiti ai sensi del decreto legislativo n. 112 del 1998.
Non si tratta, peraltro, di svolgere gli opportuni approfondimenti solo nelle materie di
tradizionale competenza della VIII Commissione, quali la difesa del suolo ed il dissesto
idrogeologico, bensì di verificare quale sia il sistema di competenze in tema di gestione
delle opere idrauliche (quali manutenzioni delle opere in alveo, mantenimento delle
sezioni di deflusso attraverso la gestione dei materiali lapidei e la vegetazione in alveo,
adeguamento e sicurezza delle arginature, delle opere di laminazione delle piene e la
gestione degli invasi ad uso plurimo), che rappresentano spesso il vero strumento di
intervento preventivo sui corsi d'acqua, per evitare conseguenze più pesanti al momento
del verificarsi di eventi calamitosi.
Allo stato, appare evidente che dette competenze risultano ripartite tra numerosi
soggetti, a livello sia centrale che regionale e locale, con il risultato di creare, almeno ad
una valutazione di massima, un meccanismo farraginoso e complesso, che
probabilmente impedisce la realizzazione di interventi mirati e sistematici, facendo sì
che il ruolo pubblico si collochi, di fatto, quasi esclusivamente nella «fase postemergenza», piuttosto che in quella di determinazione delle linee di indirizzo per la
prevenzione dei rischi.
Le difficoltà interpretative in materia di competenze sulle opere idrauliche risultano
peraltro alimentate dalla circostanza che non è, ad oggi, a disposizione del Parlamento
un quadro completo dei dati sulle attività effettuate, che sia unanimemente condiviso dai
pubblici poteri e dagli operatori del settore. A tali problematiche deve altresì
aggiungersi la considerazione che, in relazione a questa materia, esiste un altro
significativo aspetto da affrontare, che risiede nell'opportunità di una seria «analisi
costi/benefici», dalla quale si possa concretamente valutare l'entità ed il peso delle
misure adottate (o da adottare) in relazione ai rischi effettivi. In questo senso, è
2
opportuno raccogliere le valutazioni e i dati forniti dagli operatori del settore più
direttamente interessati alle descritte problematiche.
Occorre dunque che la VIII Commissione sia posta in grado di acquisire ulteriori
elementi conoscitivi su tale tematica, individuando il quadro dei problemi esistenti.
Occorre altresì conoscere lo stato di attuazione dei Piani per l'assetto idrogeologico, la
loro adozione e vigenza ai sensi delle leggi n. 183 del 1989, n. 267 del 1998 e n. 365 del
2000, nonché una verifica dell'omogeneità degli obiettivi e delle linee normative dei
piani medesimi, al fine di valutare le ricadute economico-sociali sul Paese. La VIII
Commissione è infine interessata a valutare lo stato di attuazione dell'articolo 4, comma
10-bis, del decreto-legge n. 576 del 1996. In relazione a tale situazione, l'Ufficio di
presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, della VIII Commissione (Ambiente,
territorio e lavori pubblici) ha pertanto convenuto sull'opportunità di svolgere
un'indagine conoscitiva, ai sensi dell'articolo 144 del regolamento, sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale.
L'indagine conoscitiva si articolerà nelle audizioni dei rappresentanti:
del Dipartimento della Protezione Civile;
della Direzione generale per la qualità della vita e della Direzione generale per la difesa
del suolo del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio;
del Comitato nazionale per la lotta alla siccità e/o alla desertificazione;
del Dipartimento per il coordinamento dello sviluppo del territorio del Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti;
delle principali Autorità di bacino;
dell'Agenzia interregionale per il fiume Po;
del Magistrato alle acque di Venezia;
del Registro Italiano Dighe (RID);
dell'Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici (APAT);
della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autono me;
dell'UPI;
dell'ANCI;
di associazioni ambientaliste;
di associazioni rappresentative delle imprese esercenti cave e torbiere;
dell'Associazione nazionale dei costruttori edili (ANCE);
dell'Associazione nazionale bonifiche, irrigazioni e miglioramenti fondiari (ANBI).
L'indagine conoscitiva potrà altresì prevedere lo svolgimento di sopralluoghi, con
particolare riferimento alle questioni che la Commissione riterrà di maggiore interesse,
anche alla luce degli elementi informativi acquisiti nel corso dell'indagine stessa.
Il termine per la conclusione dell'indagine è fissato per il 30 aprile 2005.
La Commissione approva quindi la proposta del Presidente.
La seduta termina alle 14.40.
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Seduta del 25 gennaio 2005
Presidenza del Presidente Pietro ARMANI
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La seduta comincia alle 10,15.
Audizione di rappresentanti dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i
servizi tecnici (APAT). – Durata: 55 minuti
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, l'audizione di rappresentanti dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente e
per i servizi tecnici (APAT).
Ringrazio i rappresentanti dell'APAT per aver corrisposto all'invito della Commissione
a partecipare alla seduta odierna. Rendo noto ai colleghi che i rappresentanti dell'APAT
hanno cortesemente consegnato alla Commissione una documentazione, di cui autorizzo
la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna.
Do senz'altro la parola al direttore generale, ingegner Giorgio Cesari.
GIORGIO CESARI, Direttore generale dell'APAT. L'Agenzia per la protezione
dell'ambiente e per i servizi tecnici, istituita dal decreto legislativo n. 300 del 30 luglio
1999, nasce dalla fusione tra l'Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente e il
Dipartimento per i servizi tecnici nazionali della Presidenza del Consiglio dei ministri fatta esclusione per il servizio sismico e per il servizio dighe - secondo quanto previsto
dal decreto del Presidente della Repubblica n. 207 del 2002. Ha il compito di svolgere
attività tecnico-scientifiche per la protezione dell'ambiente, per la tutela delle risorse
idriche e la difesa del suolo. Nell'APAT sono confluiti in particolare il servizio
idrografico e mareografico e il servizio geologico.
Fondamentale per la difesa del suolo è la legge n. 183 del 1989, che ha lo scopo di
assicurare la difesa del suolo, il risanamento delle acque e la tutela degli aspetti
ambientali e che richiama con forza la funzione della pubblica amministrazione, la
quale deve svolgere ogni opportuna azione di carattere conoscitivo, di programmazione
e pianificazione degli interventi, ma anche di diffusione della conoscenza delle
problematiche all'interno della pubblica amministrazione e della pubblica opinione.
L'attività conoscitiva riguarda tutti gli aspetti legati alla conservazione del suolo, il
problema della regolazione dei corsi d'acqua e quelli relativi alle coste, la difesa dalle
inondazioni dei versanti e delle aree instabili, nonché la difesa contro i movimenti
franosi, i servizi di polizia idraulica e la manutenzione ordinaria e straordinaria delle
opere. Come purtroppo il nostro recente passato dimostra, mentre nel nostro paese si sta
facendo della prevenzione, anche se non sempre nella forma dovuta, certamente
l'aspetto su cui vi è maggiore carenza è la manutenzione ordinaria e straordinaria degli
interventi. Chiaramente i dati vengono raccolti, elaborati ed aggiornati.
Le stazioni di misura delle portate e le reti di rilevamento manuale, automatico e in
telemisura dei parametri idro- meteo-pluviometrici sono state trasferite dallo Stato alle
regioni. Gli uffici del servizio idrografico e ma reografico nazionale sono diventati di
competenza delle regioni, fatto salvo un centro funzionale che dovrà essere realizzato,
ma ancora non abbiamo avuto la finalizzazione della convenzione da parte della
Protezione civile presso l'agenzia. I centri periferici sono stati allocati nelle regioni non
sempre in maniera omogenea, alcuni presso le agenzie regionali di protezione
dell'ambiente, altri presso le regioni. In particolare, differenze più marcate sono state
riscontrate nei casi di alcune regioni e province autonome.
Al servizio idrografico e mareografico dell'APAT sono affidate la rete ondametrica
nazionale - in particolare l'APAT gestisce 14 ondametri -, la rete mareografica nazionale
- 26 mareografi - e la rete mareografica della laguna di Venezia, unico dipartimento
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periferico che è rimasto nelle competenze dell'Agenzia nazionale. Solo nella laguna di
Venezia, data la delicatezza oltre che la notorietà della zona, vi sono ben 52 stazioni. In
totale, quindi, l'Agenzia nazionale gestisce direttamente 52 stazioni, 26 mareografi, 14
ondametri.
Abbiamo un sistema idro- meteo- mare che partendo dagli stati di pressione, temperatura
e ventosità, permette di conoscere in tempo reale il moto ondoso in tutto il bacino del
Mediterraneo. Questo servizio, quindi, è molto utilizzato da tutti i naviganti. In
particolare la valutazione del moto ondoso, e quindi dello stato del mare, riguarda anche
l'Adriatico e questo permette di definire il livello della marea a Venezia, per il quale noi
emettiamo sempre un messaggio di previsione che viene trasmesso alla pubblica
amministrazione e ovviamente al pubblico stesso.
Come è stato sancito più volte, l'unitarietà a scala di bacino idrografico rappresenta un
elemento cardine per quanto riguarda la tutela delle risorse, intesa non soltanto
nell'accezione della qualità, ma anche in quella della quantità.
La nuova direttiva europea - nuova per modo di dire, visto che si tratta della direttiva
2000/60 che ci auguriamo venga recepita a breve dallo Stato italiano - prevede il
distretto idrografico. Anche se il distretto ha delle caratteristiche diverse, allargate,
rispetto al bacino idrografico, certamente la legge n. 183 e l'impostazione data in Italia
all'unitarietà a scala di bacino idrografico segnano un passo in avanti nella prevenzione
rispetto ad altri paesi.
Noi abbiamo anche il compito di costituire e gestire una rete nazionale integrata per il
rilevamento e la sorveglianza dei parametri idro-meteo-pluviometrici. Questa attività
chiaramente richiede l'acquisizione di dati a livello regionale e quindi l'APAT stessa è
stata individuata in numerosi accordi interregionali come soggetto che deve ricevere i
dati dalle regioni (e in particolare per certe stazioni pluviometriche che costituiscono, in
un numero ritenuto congruo, la rete idrologica nazionale). Dobbiamo dire che questa
rete idrologica nazionale è ancora in costruzione e non è ancora finalizzato l'invio dei
dati alla sede centrale.
Esistono in questo senso degli accordi interregionali che hanno coperto due bacini di
interesse nazionale, il bacino del Po e il bacino dell'Arno; viceversa vi sono degli
accordi regionali limitatamente ad alcuni bacini all'interno di una singola regione, che
sono il Magra, il Conca Marecchia e il Reno. Gli accordi tra le regioni quindi, ai sensi
del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 2002, si trovano ancora ad uno
stadio abbastanza limitato.
Lo stato informativo costituito dai dati idrografici, mareografici e meteorologici è
strumentale alla redazione dei piani d'ambito territoriale, come previsto dalla legge n. 36
del 1994, dei piani di tutela delle acque, previsti dal decreto legislativo n. 152 del 1999,
e dei piani di gestione dei distretti idrografici, ai sensi della direttiva 2000/60 del
Parlamento europeo.
Occorre, inoltre, sottolineare come il monitoraggio quali-quantitativo delle acque sia
importante per la valutazione del rischio da attività antropiche che spesso si svolgono in
aree vulnerabili al rischio idraulico. Si fa riferimento, in particolare, agli stabilimenti
industriali a rischio di incidenti rilevanti di cui al decreto legislativo 17 agosto 1999, n.
334, agli impianti nucleari esistenti e relativi siti di stoccaggio delle scorie, ai siti di
bonifica di interesse nazionale. Per tutte queste attività, nell'impossibilità della
dislocazione, occorrerebbe prevedere idonei interventi di protezione idraulica.
L'APAT è membro dei comitati tecnici e partecipa ai gruppi di lavoro delle autorità di
bacino nazionali, alle quali la stessa legge attribuisce come compito anche quello di
individuare tra le opere di difesa idraulica proposte da regioni, consorzi di bonifica ed
amministrazioni comunali quelle con maggiore priorità.
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È da rilevare che la determinazione delle classi di priorità degli interventi non sempre
risponde ad un'analisi omogenea dei rischi sul territorio nazionale e a criteri omogenei
tra le stesse autorità di bacino che, come noto, sono suddivise in tre livelli territoriali
(regionale, interregionale e nazionale). Solo quelle di livello nazionale hanno il tavolo
comune del comitato istituzionale presieduto dal ministro dell'ambiente e tutela del
territorio. Non sempre tutte le regioni hanno trasferito alle ARPA o alle APPA il
servizio idrografico che prima era centralizzato.
La gestione operativa delle piene di un corso d'acqua dipende dal grado di
antropizzazione del territorio e dalle opere idrauliche presenti nel bacino idrografico atte
a modificare il deflusso naturale. Anche in questo caso si può affermare che l'evento
delle piene, visto l'elevato grado di antropizzazione, ha assunto degli aspetti certamente
preoccupanti in tutta Italia. L'impermeabilizzazione dei terreni e l'abbandono delle aree
marginali sta definendo una condizione di deflusso più preoccupante di quella degli
anni passati.
I bacini idrografici in Italia sono quasi tutti regimati ed hanno in molti casi opere
idrauliche rilevanti, quali dighe o casse di espansione, la cui regolazione in caso di piena
deve essere attuata attraverso elementi conoscitivi in tempo reale sull'afflusso e sul
deflusso e sulla previsione meteo.
Nel caso dei bacini regionali la gestione operativa ricade direttamente
sull'amministrazione regionale. Nel caso di bacini interregionali o bacini di interesse
nazionale non è stato istituito un apposito ente che coordini la gestione operativa delle
piene, con esclusione del bacino del fiume Po (infatti per quest'ultimo è stata costituita
l'Agenzia per il Po, AIPO, che è subentrata nelle competenze operative dell'ex
Magistrato per il Po). Devo dare atto del fatto che molte autorità di bacino stanno
sviluppando modellistica e iniziative atte a contenere questo problema. Sono stati
costituiti i centri funzionali previsti dal decreto legislativo n. 180 (da una prima ipotesi
di 10 centri collocati presso gli ex uffici idrografici si è passati agli oltre 20 centri, uno
per regione). Presso i nostri uffici dovrebbe essere attivato, attraverso un finanziamento
della protezione civile, il centro funzionale nazionale.
In Italia le competenze inerenti la gestione integrata delle coste sono state affidate alle
regioni con la legge n. 59 del 1997 e il decreto legislativo n. 112 del 1998, che
conferiscono e disciplinano le funzioni e i compiti amministrativi trasferiti dallo Stato
alle regioni e agli enti locali. In particolare, sono trasferite alle regioni e agli enti locali
le funzioni relative alla programmazione, pianificazione e gestione integrata degli
interventi di difesa delle coste e degli abitati costieri. All'amministrazione centrale
rimangono, secondo quanto previsto dal decreto legislativo n. 112 del 1998, i compiti
relativi agli indirizzi generali ed ai criteri per la difesa delle coste. Tali compiti sono
esercitati dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, direttamente o
attraverso gli organismi tecnic i ad esso facenti capo, tra cui l'APAT, in cui opera il
servizio difesa delle coste. Le regioni a loro volta hanno promulgato leggi regionali per
l'elaborazione di piani e di programmi di gestione integrata delle coste, anche in
attuazione della raccomandazione del Parlamento europeo del 30 maggio 2002.
La pianificazione e gestione della fascia costiera e il controllo dell'erosione sono dunque
promossi dalle autorità regionali e sono finanziati anche dall'amministrazione centrale.
Non è stata predisposta finora una regolamentazione nazionale specifica riguardo la
gestione integrata delle zone litoranee. Allo stato attuale le norme di riferimento sono le
seguenti: il decreto del Presidente della Repubblica 17 giugno 2003, n. 261 Regolamento di organizzazione del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio;
la legge n. 179 del 31 luglio 2002 - Disposizioni in materia ambientale (in particolare
l'articolo 21, riguardante l'autorizzazione per gli interventi di tutela della fascia
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costiera); il decreto legislativo n. 112 del 31 marzo 1998 - Conferimento di funzioni e
compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo
I della legge 15 marzo 1997, n. 59 (in particolare, l'articolo 70, comma 1, lettera a:
protezione ed osservazione delle zone costiere; l'articolo 89: programmazione,
pianificazione, gestione integrata degli interventi di difesa delle coste e degli abitati
costieri); la legge n. 979 del 31 dicembre 1982 - Disposizioni per la difesa del mare.
Le misure legislative o amministrative adottate dalle varie regioni per la ICZM
(Integrated Coastal Zone Management) sono varie e in molti casi incomplete. Alcune
regioni (Liguria, Abruzzo, Toscana, Marche, Lazio ed Emilia-Romagna) hanno
disciplinato la materia mediante leggi, norme tecniche e piani territoriali. Altre hanno
affrontato la tematica nell'ambito dei POR (Piano operativo regionale), tipico strumento
di programmazione e di finanziamento del Mezzogiorno; ci riferiamo in particolare alla
Calabria, alla Sardegna ed alla Sicilia. Sono invece ancora in via di organizzazione
Campania, Puglia, Veneto, Friuli- Venezia Giulia, Basilicata e Molise. Le gestioni
integrate delle coste non hanno soltanto un valore corrispondente all'alto valore turistico
delle coste italiane, ma da sempre sono sede di importantissime aree produttive o di
importanti nodi di traffico.
Per quanto riguarda le coste, negli ultimi anni le amministrazioni regionali e locali
italiane hanno eseguito numerosi interventi di protezione dei litorali dal fenomeno di
erosione, attuando sia provvedimenti programmati e finalizzati al recupero di spiagge e
degli habitat costieri, sia interventi di emergenza, per difendere strade, ferrovie e
abitazioni prossime al mare, sia misure di difesa sperimentali. Non sempre i moli sono
stati accompagnati da ripascimenti di sabbia e quindi, oltre a deturpare il paesaggio, non
sono stati ottenuti grandi risultati attraverso le cosiddette opere di protezione rigide.
Molte di queste opere sono state realizzate in Calabria, in Liguria, in Toscana, in
Emilia-Romagna. Le opere di difesa delle coste richiedono programmi estesi a unità
fisiografiche di decine di chilometri e consolidata esperienza progettuale. È bene che il
minimo livello di aggregazione della competenza non scenda al di sotto di quello
regionale.
Dopo avere affrontato il problema, venendo agli aspetti più collegati al suolo, abbiamo
il Progetto di cartografia geologica aggiornato al novembre 2004 per la copertura in
scala 1:50 mila della carta geologica d'Italia, elemento cardine per la conoscenza del
territorio finalizzata a qualsiasi tipo di azione. Esistono iniziative importanti su cui
chiederò ai colleghi di fornire alcuni approfondimenti.
Un altro importante progetto riguarda i fenomeni franosi in Italia ed è finanziato dal
Comitato dei ministri per la difesa del suolo e realizzato tramite convenzioni con le
regioni e le province autonome, con una ripartizione di oltre 4 milioni di euro.
L'obiettivo di questo progetto è quello di avere un quadro conoscitivo aggiornato e
permettere una valutazione del rischio di frane su una base cartografica informatizzata e
su un adeguato database.
Esiste un'attività che l'APAT svolge attraverso il coinvolgimento delle regioni e di altri
soggetti, con una metodologia di lavoro articolata in tre livelli: fotointerpretazione;
analisi dei dati storici e ricerca di archivio; rilevamento di campagna. Si predispongono
delle schede di frane sulle quali sono indicati tre livelli di approfondimento progressivo.
Il primo livello, relativo alle indicazioni generali, deve essere compilato per ogni frana.
Il secondo livello è obbligatorio per le frane perimetrate ai sensi della legge n. 267 del
1998. Il terzo livello è facoltativo e contiene informazioni sui danni e sugli interventi.
Le fasi di avanzamento del lavoro comportano chiaramente un'attività lunga, comunque
attualmente in fase non solo di avvio ma anche di realizzazione.
Il documento che lasciamo alla Commissione presenta un quadro che raffigura lo stato
7
di avanzamento del progetto IFFI nelle varie regioni. Come si può vedere, in alcune
regioni è stata effettuata la consegna definitiva, in altre le carte sono ancora oggetto di
verifica da parte dell'APAT, in altre si è giunti alla consegna finale, in altre ancora alla
consegna intermedia.
Dallo stesso documento è possibile conoscere la distribuzione delle frane sul territorio
nazionale. Ad oggi sono state censite oltre 383.831 frane, con un picco in Lombardia
(118.076, quasi un terzo del totale), oltre 40 mila nelle Marche e oltre 30 mila in
Piemonte, in Emilia- Romagna e in Umbria. Ciò dimostra anche come purtroppo il
nostro paese abbia con il fenomeno delle frane un dialogo continuo, che prevede un
intervento continuo di ricostruzione, ma anche - come speriamo avvenga con il progetto
IFFI - di prevenzione.
Il decreto legislativo n. 180 del 1998, che ha permesso di accelerare le procedure
previste dalla legge n. 183 del 1989 attraverso l'intervento straordinario, prevede piani
straordinari, piani stralcio di bacino per l'assetto idrogeologico e programmi di
intervento urgenti per la riduzione del rischio geologico idraulico. Ai sensi del decreto
legislativo n. 180 del 1998, gli obiettivi del monitoraggio consistono nell'avere un
quadro conoscitivo complessivo, valutare l'efficacia dei fondi erogati e la qualità
ambientale delle opere e il loro riequilibrio con il bacino.
L'APAT si occupa del monitoraggio di varie forme di dissesto: alluvioni, frane, dissesti
cosiddetti misti, valanghe e incendi. In totale sono stati stanziati 836 milioni di euro, di
cui quasi la metà destinata alle frane e la stragrande maggioranza del rimanente alle
alluvioni (poi, in forma minore, dissesti misti, valanghe e incendi).
Ci siamo permessi poi di indicare nel documento le nostre considerazioni politiche, ma
nel senso di policy, senza voler intervenire nelle decisioni che spettano al Governo e al
Parlamento. Riteniamo che l'ampliamento del database con gli interventi finanziati da
altre norme (n. 183 del 1989, Protezione civile) sia un elemento importante. Riteniamo
altresì importante costituire un sistema informativo che associ i dati disponibili;
utilizzare i dati disponibili per istruire meglio richieste di fondi, in modo che non vi
siano sovrapposizioni e soprattutto sia garantita la capacità di spesa; infine, vincolare
parte del finanziamento al piano di manutenzione. Si tratta di una vecchia questione. Il
presidente poc'anzi ricordava il Granducato di Toscana, ma tutti ricordiamo anche
l'imperatrice Teresa, la quale destinava una certa quota dei fondi alla realizzazione
dell'opera e un'altra quota alla manutenzione.
L'APAT, oltre all'attività costante di monitoraggio e coordinamento, ha distribuito ai
sindaci e alle pubbliche amministrazioni l'atlante delle opere strutturali per la difesa del
suolo e l'atlante delle opere di sistemazione dei versanti, non tanto con la pretesa di
voler unificare le strutture, quanto per fornire dei manuali che siano meno affidati
all'inventiva di soggetti che possono non avere le competenze. Abbiamo già effettuato
cinque ristampe e lo abbiamo distribuito anche a progettisti, enti locali ed università.
Infine, vi è l'atlante delle opere di sistemazione fluviale, dalle opere per l'aumento delle
portate a quelle per la riduzione delle piene, dalle opere per il controllo del trasporto
solido e per la difesa dell'erosione a quelle di difesa dalle colate di detrito e fango.
Molte volte queste opere, per quanto riguarda i grandi interventi, possono essere note a
chi se ne occupa, ma molte altre volte questi fenomeni rigua rdano aree talmente vaste
che la diffusione della comunicazione è altrettanto importante. Un altro atlante è quello
delle opere di sistemazione costiera, realizzato in collaborazione con l'ICRAM e con
vari dipartimenti. Infine, l'atlante delle opere per la mitigazione del rischio
idrogeologico, di cui si prevede l'uscita per il novembre 2005, tratterà le tematiche
sull'instabilità dei versanti.
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PRESIDENTE. Abbiamo deliberato questa indagine conoscitiva con una specifica
attenzione ai problemi relativi alle opere idrauliche sul territorio nazionale, ma in
particolare al problema del dragaggio dei torrenti, dei fiumi, dei laghi, delle lagune,
dei canali di Venezia e via dicendo. Il collega Vianello, giustamente, è particolarmente
interessato a quest'ultimo argomento, poiché l'acqua alta a Venezia nasce anche dal fatto
che gli ultimi dragaggi sistematici credo risalgano alla Serenissima.
Ci siamo preoccupati di questo perché abbiamo la sensazione che la frammentazione
delle competenze determinata dai decreti della Bassanini e, a cascata, le sovrapposizioni
burocratiche che si sono create di conseguenza tra le autorità di bacino, i magistrati alle
acque e via dicendo, abbiano determinato un vero e proprio abbandono. Ho visto che i
vostri atlanti ai fini della prevenzione si preoccupano giustamente dell'arginatura, della
sistemazione, del rallentamento del flusso delle acque; tuttavia, non mi pare si parli di
dragaggio, anche perché questa competenza gradualmente si è trasferita ad altri livelli
burocratici.
Noi abbiamo bisogno pertanto di avere indicazioni in merito, perché vorrei che alla fine
di questa indagine potesse essere formulata una proposta di legge che in qualche modo
tenga conto dell'attuale titolo V della Costituzione, delle prospettive che si aprono con
la modifica del titolo V - che ha avuto già due letture, prima al Senato e poi alla Camera
- e delle prospettive che si possono aprire eventualmente con l'attuazione della delega
ambientale, che adesso è diventata legge (anche se mi si dice che la delega ambientale si
occuperà più che altro del problema delle risorse idriche, poiché vi è stato un passaggio
di competenza dal Ministero delle infrastrutture al Ministero dell'ambiente in questo
settore, mentre si occuperà meno di questo aspetto che io invece vorrei approfondire).
Questa è dunque la nostra finalità, per cui vi sarei grato se i vostri interventi ci
chiarissero questi aspetti. Francamente noi dobbiamo affrontare dei problemi sui quali
interviene a posteriori la protezione civile, mentre è totalmente assente la prevenzione.
Al di là degli aspetti elencati nei vostri atlanti, resta il problema dei dragaggi e della
fornitura di materiale da costruzione alle imprese edili. Affrontare questo tema,
eventualmente con la prospettiva di intervenire legislativamente per eliminare queste
strozzature di carattere burocratico che impediscono di attribuire le responsabilità, è il
compito che la nostra Commissione si è attribuita con questa indagine conoscitiva.
Vorrei orientare le vostre esposizioni, che noi valuteremo attentamente, all'interno
dell'ottica della nostra indagine.
GIORGIO CESARI, Direttore generale dell'APAT. Prima di passare la parola ai miei
collaboratori, vorrei fare soltanto una breve premessa riguardo ai problema dei
dragaggi. Noi studiamo da sempre (recentemente abbiamo firmato una convezione con
l'amministrazione provinciale e l'università di Venezia) un progetto sofisticato di
misurazione del trasporto solido attraverso le bocche di Venezia, un fatto poco
conosciuto, ma di dimensioni rilevanti. Dal mare alla laguna, e viceversa, la corrente
porta un milione di tonnellate di sedimenti. Si tratta di correnti spaventose dal punto di
vista della velocità e vederle è uno spettacolo della natura.
PRESIDENTE. Si tratta di un problema che non verrebbe risolto dal MOSE!
GIORGIO CESARI, Direttore generale dell'APAT. Esatto, quest'ultimo è soltanto in
funzione di protezione dalla piena. Mi permetto di segnalare questo lavoro, che si basa
su dati già in parte noti, perché in un'ottica di medio periodo potrà fornire dei risultati
interessanti.
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PRESIDENTE. Questo trasporto solido è condizione per poi dragare i canali.
GIORGIO CESARI, Direttore generale dell'APAT. O anche per assicurarsi
dall'erosione della costa. Vi sono delle navi arenate contro la parete del molo a difesa
della terraferma che sono ormai insabbiate, perché si è innescato un processo di
deposito, ma l'erosione potrebbe essersi verificata in un altro tratto perché è venuto
meno un altro deposito. Il problema non riguarda soltanto la laguna, ma anche delle aree
che rappresentano i cordoni di protezione della stessa.
LEONELLO SERVA, Capo del Dipartimento difesa del suolo dell'APAT. Attualmente
dirigo il Dipartimento di difesa del suolo, ex servizio geologico nazionale. Vorrei
portare un esempio concreto alla nostra discussione. Ssono originario di Cantalice, un
paese alle pendici del Terminillo, che si trova su un costone della montagna verso la
piana di Rieti, il cui fondovalle è stato tombato per ricavare dei parcheggi. A monte di
questa zona vi è una valle che porterebbe molto materiale in caso di alluvione, così se
non vengono dragate le briglie a monte del paese la prossima alluvione distruggerà
mezzo paese. Mi sono attivato insieme al sindaco del paese per ripulire la zona, anche
perché il materiale è utilizzabile come inerte e quindi possiede un valore economico. Per
chiedere l'autorizzazione, dopo un serie di sondaggi ed indagini siamo riusciti a stabilire
che la competenza attuale spetta alla provincia. In materia esiste una parcellizzazione di
responsabilità che non permette di comprendere chiaramente a quali soggetti siano
attribuite le competenze.
Da parte nostra abbiamo realizzato l'atlante anche perché le modalità con cui vengono
assegnati i finanziamenti, che devono affrontare tutta una serie di passaggi, sono
talmente farraginose per cui vi sono delle opere con finanziamenti stanziati nel lontano
1998 che ancora non hanno superato la fase della progettazione. Il monitoraggio che
svolge l'APAT, l'unico fatto in Italia, mette in luce proprio queste problematiche. È
inutile parlare di difesa del suolo e di prevenzione, quando per realizzare un'opera
urgente non bastano sei anni per giungere alla fase di progettazione. Molte volte non
esiste una cultura a livello locale per realizzare delle opere significative, quindi la
funzione principale dell'atlante è quella di fornire informazioni fondamentali ai sindaci e
ai professionisti locali del settore.
Nel caso del Lazio la parcellizzazione delle responsabilità è distribuita nel seguente
modo: Autorità di bacino del Tevere; strutture regionali; provincia; comune; comunità
montana; genio civile. Questi sono i passaggi che occorre affrontare per togliere del
materiale che, se piovesse domani, provocherebbe un'alluvione, magari uccidendo
anche qualcuno.
PRESIDENTE. Senza dimenticare la competenza dell'ente parco in alcuni casi specifici.
GIORGIO CESARI, Direttore generale dell'APAT. Quando poi vi è un territorio diviso
fra più regioni e comuni, si crea anche una certa competizione tra le diverse strutture.
LEONELLO SERVA, Capo del Dipartimento difesa del suolo dell'APAT. Per quanto
riguarda il monitoraggio, nel 2002 noi abbiamo redatto una relazione per la Corte dei
conti, che ha permesso alla magistratura contabile di valutare come vengono impegnati
a livello nazionale i fondi stanziati per il rischio idrogeologico. Purtroppo oggi soltanto
la protezione civile opera in difesa dal rischio geologico ed idraulico, perché una piccola
alluvione gli permette di gestire fondi equivalenti a que lli stanziati annualmente in Italia
per la prevenzione. Stiamo cercando di allargare il nostro database anche alle opere
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finanziate con le ordinanze della protezione civile e con le leggi regionali, tuttavia
abbiamo molte difficoltà nel reperire questo materiale. In Italia non si riesce a condurre
un censimento su come sono stati impiegati i finanziamenti per la riduzione del rischio
idrogeologico.
GIORGIO CESARI, Direttore generale dell'APAT. È altrettanto difficile - il dottor
Serva ne è testimone - effettuare qualsiasi tipo di censimento per sapere quanto è stato
speso per la riparazione dei danni.
PRESIDENTE. Il problema è che tutto questo avviene soltanto in occasione di
determinati eventi, mentre manca completamente una programmazione ordinaria di
interventi che sia indipendente dal verificarsi di eventi straordinari. Ad esempio, vi sono
delle opere pubbliche a Torino che vengono portate avanti soltanto perché nel 2006 si
terranno le Olimpiadi e non perché sono necessarie alla città di Torino. In altre parole,
quando vi è un evento straordinario come l'alluvione, allora si interviene, però poi in via
ordinaria non è previsto alcun intervento, neanche di prevenzione. Questo è il problema
che vorremmo approfondire, soprattutto in relazione alla sovrapposizione di
competenze.
STEFANO CORSINI, Rappresentante dell'APAT. Vorrei tornare per un momento sulla
riforma Bassanini e sul trasferimento di competenze alle regioni, anche per raccontare
l'esperienza del servizio idrografico. Il trasferimento alle regioni degli uffici
periferici che gestivano parzialmente l'informazione idrografica - sia in termini di
precipitazione, sia in termini di portata dei fiumi, sia per quanto riguarda il trasporto
solido - fornendo un'informazione a livello nazionale che rivestiva una discreta
utilità per la programmazione, è avvenuto in maniera assolutamente disomogenea.
In molti casi questi uffici e le loro competenze sono stati trasferiti alle ARPA o alle
regioni, a vari assessorati, in altri casi alla Protezione civile di determinate regioni, con
enormi difficoltà dal punto di vista della gestione omogenea del sistema e altrettante
difficoltà nella gestione delle reti di misura, soprattutto degli strumenti di misura
manuali che venivano gestiti attraverso un sistema che storicamente si basava
sull'osservatore volontario, generando serie storiche centennali che consentivano
effettivamente di progettare e valutare la risposta di un corso d'acqua agli eventi ordinari
(che rappresentano poi gli eventi che devono essere alla base della programmazione).
Questo sicuramente ha determinato una serie di problemi che poi si riflettono
tipicamente nella difficoltà di programmare la manutenzione dei corsi d'acqua e di
valutare l'opportunità di mantenere gli alvei nelle condizioni che devono
consentire il transito di certi eventi.
Quantunque si valuti l'opportunità di dragare i corsi d'acqua per mantenere i livelli di
alveo, la parcellizzazione delle competenze effettivamente è totale. Le autorità di bacino
a volte prevedono dei piani stralcio, altre volte no, e l'attività programmatoria su questo
argomento è comunque estremamente rarefatta. Devo dire che sono state poche le
autorità di bacino che hanno promosso un piano stralcio sulla gestione dei sedimenti
fluviali, nonostante questo sia un problema centrale, sia per la difesa idraulica, sia per
tutta una serie di aspetti collaterali, tra cui anche quello della difesa della costa che,
come ben sappiamo, è economicamente una delle fasce di territorio più redditizie e a
maggior tasso di sviluppo, in un paese come il nostro in cui il turismo riveste
un'importanza fondamentale.
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PRESIDENTE. Ad esempio, sulla costa del Cilento - dove ci siamo recati qualche anno
fa - vi è un problema di erosione tale per cui vi sono strade che addirittura sono franate e
alberghi e villaggi turistici che hanno dovuto essere abbandonati o comunque sottoposti
ad ingenti interventi di manutenzione.
STEFANO CORSINI, Rappresentante dell'APAT. Quello del Cilento è un altro
discorso, perché alcuni anni fa sono stati stanzia ti parecchi soldi che poi non sono stati
spesi.
PRESIDENTE. Sì, mi hanno detto che in quel caso la provincia...
STEFANO CORSINI, Rappresentante dell'APAT. La ragione è che esiste un sistema di
difficile gestione, che si riflette anche sui fiumi, che è quello degli enti attuatori.
PRESIDENTE. Noi abbiamo bisogno di un consulente che abbia una visione completa
dei problemi e che ci guidi. Ad esempio, lei ha citato la Bassanini: ebbene, vorremmo
sapere come è stata frantumata la competenza in questo settore perché, se dobbiamo
intervenire dal punto di vista legislativo, evidentemente va rivista tutta l'articolazione.
STEFANO CORSINI, Rappresentante dell'APAT. Ad esempio, il trasferimento delle
competenze alle regioni ha fatto sì che queste ultime, attraverso leggi regionali,
subdelegassero le competenze alle province e ai comuni. Molto spesso la
programmazione regionale si traduce nella nomina di enti attuatori a livello
provinciale e comunale, enti che dovrebbero realizzare interventi anche cospicui,
come diceva il dottor Serva, ma che non possiedono la necessaria capacità
progettuale e la professionalità per affrontare certi tipi di problemi e chiamano in
causa consulenti che poi in qualche modo possono indirizzare le politiche locali
verso determinate scelte (magari non sempre condivisibili). In questo contesto, è
chiaro che la Protezione civile prende il sopravvento.
PRESIDENTE. Certo, anche perché possiede strumenti che sovrastano tutti gli altri.
Quando si verifica una alluvione, le ordinanze della Protezione civile rappresentano
l'unico modo per contrastare la frantumazione delle competenze a livello territoriale.
Essa dovrebbe avere anche una corrispondente capacità di sopravanzare le varie
competenze territoriali, non tanto per l'emergenza quanto per la manutenzione.
STEFANO CORSINI, Rappresentante dell'APAT. La Protezione civile insiste molto sul
concetto della prevenzione; tuttavia, programmazione non vuol dire prevenzione, è
molto diverso. La prevenzione può studiare i rischi relativi ad un determinato tipo di
eventi, la programmazione si preoccupa appunto di programmare gli interventi.
PRESIDENTE. Se, ad esempio, la Protezione civile sta studiando il piano di
evacuazione intorno al Vesuvio, questa non è prevenzione, è un altro problema: è
sempre in funzione dell'emergenza!
STEFANO CORSINI, Rappresentante dell'APAT. Per quanto riguarda i dragaggi, come
abbiamo detto, sui fiumi la competenza è regionale. Vengono predisposti i piani delle
attività estrattive, in cui vengono definite le posizioni da cui si può prelevare il
materiale. Spesso tuttavia nei piani delle attività estrattive regionali l'unico statement è:
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è impedito il prelievo dei materiali in alveo. Questo ovviamente, in certe situazioni, è
corretto.
PRESIDENTE Mi pare peraltro che vi siano delle forme surrettizie, nascoste di
escavazione dei fiumi.
STEFANO CORSINI, Rappresentante dell'APAT. Sì, è vero. Come dicevo, ciò in certi
casi è corretto. Ad esempio, nella zona di Gizzeria, nel golfo di Sant'Eufemia, in
Calabria, vi è stato un gravissimo fenomeno erosivo. Nel 1986 la regione Calabria ha
impedito tutti i prelievi in alveo e in zona di foce e nell'arco di un anno si è ristabilito
immediatamente l'equilibrio costiero. Quindi, sicuramente le situazioni vanno valutate
caso per caso.
Un altro caso è quello di Amantea, dove, dopo una lunga discussione, sono stati
prelevati materiali in alveo sulle briglie che interrompono il trasporto solido per
proteggere la ferrovia che corre lungo il mare e sono stati utilizzati per il ripascimento
delle coste e la difesa dei tratti dove l'erosione era molto avanzata. In altre parole, nel
primo caso il prelievo dei materiali è stato impedito, nel secondo caso è stato consentito.
L'attività programmatoria a livello regionale, all'interno di un contesto professionale
sufficientemente approfondito, consente di «maneggiare» il problema. Per quanto
riguarda i dragaggi, l'APAT è stata incaricata dal Ministero dell'ambiente e della tutela
del territorio di presentare una proposta di normativa tecnica secondaria, in base
all'articolo 35 della legge n. 152 del 1999, per fornire le linee guida a cui devono
attenersi le regioni che hanno acquisito la competenza autorizzativa. Abbiamo
consegnato la nostra proposta, elaborata insieme all'ICRAM, al ministero verso la metà
di novembre e siamo in attesa di riscontri.
PRESIDENTE. Mi sembra, però, che non siano stati stabiliti termini per le regioni.
STEFANO CORSINI, Rappresentante dell'APAT. Una delle obiezioni avanzate dalle
regioni è stata che già esistono delle leggi regionali in materia. È indubbio però che la
materia delle linee guida e dei criteri faccia capo allo Stato e non alle regioni; dovranno
pertanto essere queste ad adeguare la loro normativa.
PRESIDENTE. Certo, anche alla luce dell'attuale titolo V della Costituzione la difesa
idrogeologica è sicuramente di competenza statale.
STEFANO CORSINI, Rappresentante dell'APAT. Sotto tale aspetto anche il comune di
Venezia, una zona sensibile su cui si stanno investendo molte risorse, ha sicuramente
interesse a che questa normativa giunga ad approvazione il più presto possibile.
LEONELLO SERVA, Capo del Dipartimento difesa del suolo dell'APAT. Vorrei
soltanto aggiungere un'ultima considerazione. Per ragioni di lavoro ho attraversato
praticamente tutto il territorio nazionale e ho constatato che la maggior parte dei piccoli
centri hanno tombato il loro fondovalle per ricavare spazi da adibire a parcheggi o altro.
Il problema del dragaggio è fondamentale, la tombatura realizzata senza dragare il
fondovalle a monte del paese è la condizione per provocare vittime e danneggiamenti. Il
70 per cento dei piccoli comuni italiani è in queste condizioni. Due mesi fa un'alluvione
in Sardegna ha provocato lo smottamento di una grande quantità di materiale proprio
perché dei comuni hanno intubato il fondovalle e nessuno ha ripulito a monte.
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PRESIDENTE. Quando lei parla di «tombatura» cosa intende?
LEONELLO SERVA, Capo del Dipartimento difesa del suolo dell'APAT. Significa
chiudere il corso del vallone per ricavare parcheggi, luoghi utili per i mercatini di paese.
GIORGIO CESARI, Direttore generale dell'APAT. Purtroppo dobbiamo rassegnarci
con serenità al fatto che l'Italia non viva delle emergenze, perché il nostro territorio è
notoriamente esposto ad eventi calamitosi naturali. In Sardegna in un anno piove quanto
in Germania, ma le piene del Reno sono molto diverse da quelle dei torrenti sardi o
delle fiumare calabre. Il terreno dissestato che ormai ereditiamo da centinaia di anni è
un dato di fatto. La Protezione civile e la sua capacità di gestire l'emergenza in maniera
centralizzata in termini di danni causati e di rimedi posti era ed è fondamentale; su
questo non vi sono dubbi. Tuttavia la stessa emergenza rende difficile la gestione del
bacino, perché l'esempio della tombatura dell'alveo o di casi in cui l'alveo è diventato la
strada cittadina, come in alcuni luoghi della Sardegna, deriva dal fatto che l'evento
calamitoso è talmente raro che viene addirittura dimenticato a memoria d'uomo: tre anni
fa, vicino a Cagliari, morirono due donne perché la loro casa era stata costruita
esattamente sul fiume. Chi si ricorderà ancora, tra quaranta anni, che nel 1966 Firenze
ha subito una alluvione di dimensioni eccezionali? Pochi, perché si sarà persa la
memoria d'uomo; la rarità degli eve nti porta a sottostimare la pericolosità di questi
fenomeni.
Soltanto attraverso una conoscenza del territorio e una vera opera di prevenzione,
realizzata anche analizzando l'emergenza, potranno essere raggiunti risultati
soddisfacenti. È chiaro che non si può immaginare di gestire tutti questi fenomeni come
casi eccezionali, anche perché nessun paese al mondo ha risorse sufficienti per farlo.
Questo si può fare nelle realtà minori dove c'è una attenzione meno diffusa.
Il dragaggio da un lato trova una fo rte opposizione a causa del mancato ripascimento
delle coste. Al riguardo sono stati messi sotto accusa gli sbarramenti, anche se è stato
dimostrato che, tranne in alcuni casi, questi non abbiano causato alcun danno. Purtroppo
esistono anche casi di dragaggi abusivi. Si può aggiungere che il dragaggio molte volte
viene fatto dove non servirebbe necessariamente, tanto che in molti casi diventa un
arricchimento, non dico illecito, ma sicuramente spropositato rispetto all'utilità
ambientale dello stesso. Una valutazione attenta degli oneri di concessione sui dragaggi
potrebbe consentire di sistemare diverse cose dal punto di vista della prevenzione.
PRESIDENTE. Abbiamo bisogno di indicazioni in merito agli interventi di carattere
legislativo e amministrativo da realizzare.
GIORGIO CESARI, Direttore generale dell'APAT. Certo, presidente, anche se tutti
sappiamo come vi sia attualmente una legge delega che ha attribuito al Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio il riordino della materia.
PRESIDENTE. Certo, ma voi saprete anche qual è la procedura relativa ai decreti,
procedura prevista inizialmente dalla legge delega, che era stata eliminata al Senato per
poi essere nuovamente reintrodotta qui alla Camera, durante il famoso «turismo
parlamentare» compiuto da quel provvedimento. Restiamo quindi in attesa della vostra
documentazione e vi ringraziamo per la vostra disponibilità.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 11,10.
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Seduta del 27 gennaio 2005
Presidenza del Presidente Pietro ARMANI
La seduta comincia alle 15,05.
Audizione di rappresentanti del Dipartimento della protezione civile.
Durata 80 minuti
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, l'audizione di rappresentanti del Dipartimento della protezione civile.
Avverto che i nostri ospiti hanno consegnato una documentazione, della quale autorizzo
la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi
allegato).
Do subito la parola al dottor Bertolaso, al quale diamo atto dell'impegno prestato dalla
Protezione civile nella vicenda del maremoto che ha colpito le regioni del sud-est
asiatico. Siamo stati i primi ad intervenire con la nostra protezione civile e ciò è stato
davvero importante anche sotto il profilo dell'immagine del nostro paese. Ci
congratuliamo quindi con la struttura da lui diretta per lo sforzo compiuto.
GUIDO BERTOLASO, Capo del Dipartimento della protezione civile. Ringrazio il
presidente della Commissione per l'opportunità fornitaci di svolgere una riflessione
sullo «stato dell'arte» relativo ad un tema assolutamente prioritario. Vorrei, per le
competenze specifiche sul tema, presentare alla Commissione il professor Bernardo De
Bernardinis, direttore generale responsabile dell'Ufficio pianificazione, valutazione e
prevenzione dei rischi del Dipartimento della protezione civile. Egli è realmente
un'autorità nel campo: prima di accettare di far parte della nostra struttura, è stato uno
degli artefici e dei protagonisti di una serie di iniziative che hanno interessato il nostro
territorio, al fine del monitoraggio, dell'analisi e della verifica della situa zione
idrogeologica nel nostro paese. È universitario presso l'università di Cagliari, ingegnere
idraulico e rappresenta per noi una risorsa assai preziosa. È indubbiamente la persona
più indicata per fornire tutta una serie di elementi conoscitivi che consentiranno alla
Commissione di adottare le determinazioni che riterrà opportune. Intendiamo inoltre
sottoporre alla Commissione una relazione assai dettagliata sull'argomento.
Credo di poter dire, come voi potrete valutare, che sono stati compiuti molti passi in
avanti nell'ambito della prevenzione, per quanto riguarda le competenze della
Protezione civile, attraverso tutta una serie di provvedimenti che hanno consentito di
fare chiarezza in un settore «confuso», nel quale le competenze spesso si articolano e si
intersecano, provocando talvolta deresponsabilizzazione rispetto a certe iniziative e
decisioni che possono compromettere realmente l'incolumità di beni e di persone.
Con riferimento a questa mia specifica preoccupazione in ordine ad un'assenza di
chiarezza nei riguardi di chi è responsabile delle diverse attività, mi sia consentito, a
conclusione di questa mia introduzione e prima di lasciare la parola, se il presidente è
d'accordo, al professor De Bernardinis, di fare riferimento ad una situazione
emergenziale. Essa riguarda soprattutto la viabilità dell'Italia meridionale, con
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particolare riferimento alla situazione attualmente in corso nell'autostrada SalernoReggio Calabria, che è bloccata ormai da circa 18 ore. Numerosi automobilisti sono
tuttora bloccati nelle loro vetture dalla neve: si tratta di automobilisti bloccati anche da
ventiquattr'ore.
PRESIDENTE. Vi è quindi un problema di fornitura di beni di prima necessità.
GUIDO BERTOLASO, Capo del Dipartimento della protezione civile. Certamente: vi è
un problema di primo soccorso. A questo proposito, non posso non fare riferimento alla
risoluzione n. 38, approvata dalle Commissioni VIII e IX il 13 luglio 2004, risoluzione
che nasce da analoghe vicende, che caratterizzarono soprattutto l'Italia settentrionale nel
tratto emiliano dell'autostrada. Mi rifaccio alle considerazioni negative che espressi
sulla prontezza operativa delle strutture competenti per garantire la viabilità di quella
zona. Vorrei ricordare, e non soltanto al Governo, che il Dipartimento della protezione
civile espresse parere favorevole circa la costituzione di un centro di coordinamento
nazionale in materia di viabilità presso il Ministero dell'interno, con il compito di
disporre interventi operativi, anche di carattere preve ntivo, per fronteggiare le crisi
connesse ad eventi meteorologici, con particolare riferimento alla rete stradale ed
autostradale; inoltre, ci pronunciammo favorevolmente sul fatto che tale centro
operativo di livello nazionale fosse posto in grado, nelle occasioni segnalate, di
garantire l'effettivo coordinamento di tutte le strutture interessate. Questo strumento di
indirizzo è stato approvato il 13 luglio 2004. Lascio alla Commissione anche una
piccola cronistoria di quanto è accaduto da quella data sino ad oggi: si sono infatti
tenute una serie di riunioni di coordinamento presso il Ministero dell'interno, che la
commissione aveva identificato, con l'approvazione del Governo e la totale adesione
della Protezione civile, come punto di coordinamento per la gestione di questo genere di
problematiche.
Purtroppo, questo centro di coordinamento non è stato ancora costituito, sebbene si sia
lavorato molto su tale versante. Come è ovvio, la Protezione civile, anche per
dimostrare che non nutriva alcuna velleità di egemonia o di primazia al riguardo, anche
alla luce di qualche battuta critica pronunciata nel corso della vicenda dell'autostrada
Bologna-Milano, ha compiuto un passo indietro, limitandosi a fornire tutte le
informazioni meteorologiche di competenza e dando tutta una serie di «allerta meteo»,
ormai da quattro giorni.
Abbiamo quindi informato il paese sul rischio neve (prima nel centro Italia, con
particolare riferimento alla Sardegna: vorrei ricordare che la superstrada Carlo Felice
Cagliari-Sassari è rimasta bloccata per 12 ore, causa neve). Infine, abbiamo insistito
moltissimo sulla certezza di nevicate sul meridione d'Italia, in particolare per la
Basilicata, la Campania e la Calabria, dove è accaduto quello che purtroppo temevamo.
La macchina organizzativa preventiva e di intervento per assistere gli automobilisti
purtroppo non ha funzionato. Con grande amarezza e con grandissima delusione devo
prendere atto di questa vicenda. Immagino che nelle prossime ore e nei prossimi giorni
ciò sarà oggetto di dibattito, polemiche e, temo, anche di «scaricabarili». Lo segnalo
perché è materia di vostra competenza e, non per mettere le mani avanti, ma per
dimostrare quanto abbiamo fatto in questa problematica, sono in grado di fornirle lo
«stato dell'arte» della risoluzione da voi approvata, nonché un cronoprogramma del
nostro operato, dal momento in cui abbiamo lanciato il primo «allerta meteo» sul rischio
nevicata, e delle successive iniziative che abbiamo cercato di adottare per mitigare al
massimo i disagi che, purtroppo, si stanno ancora verificando.
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PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Bertolaso. Ricordo che le Commissioni adottarono
quella risoluzione in occasione degli eventi dello scorso inverno. Prendo atto della
documentazione che lei ci fornisce. Ci attiveremo nei riguardi del Ministero dell'interno,
che avrebbe dovuto farsi promotore di questa iniziativa; non so a che punto sia il
relativo iter.
GUIDO BERTOLASO, Capo del Dipartimento della protezione civile. Mi risulta che il
decreto sia alla firma del ministro delle infrastrutture, che deve esprimersi insieme al
ministro dell'interno. La volta scorsa la società Autostrade SpA era direttamente
interessata alla vicenda della pianura padana; questa volta è l'ANAS che, sia in
Sardegna sia sulla Salerno-Reggio Calabria, ha la responsabilità per questo genere di
questioni. Come si dice, ai posteri l'ardua sentenza: credo tuttavia che il problema si
risolverà nelle prossime ore. Non sarà difficile capire come sono andate le cose e a chi
sono da attribuirsi le responsabilità di questa vicenda.
FRANCESCO STRADELLA. Devo delle scuse «postume» al dottor Bertolaso, perché
ha ragione quando, ricordando quelle audizioni, evidenzia il fatto che personalmente
criticai un presunto tentativo di protagonismo da parte della Protezione civile. Devo dire
che allora pensavo che le organizzazioni che facevano capo al Ministero dell'interno e a
quello delle infrastrutture si sarebbero attivate per evitare di attribuire ad una istituzione
che ha funzioni ben diverse e molto importanti per la vita del nostro paese,
un'incombenza tipica del Ministero dell'interno e di quello delle infrastrutture.
PRESIDENTE. Sicuramente: il coordinamento di tutte le autorità.
FRANCESCO STRADELLA. Devo scusarmi con il dottor Bertolaso perché, da allora
ad oggi, la Protezione civile ha svolto il proprio compito, ha attivato tutte le procedure
di sua competenza per evitare il ripetersi di questi episodi. Purtroppo, devo riconoscere
una certa inerzia da parte dei due ministeri, soprattutto per il fatto che con l'estate ci si è
dimenticati che l'inverno arriva una volta all'anno e che le conseguenze possono essere
pesanti.
PRESIDENTE. Nonostante l'effetto serra, l'inverno arriva!
FRANCESCO STRADELLA. È la stessa questione delle alluvioni, perché la primavera
e l'autunno ogni anno sono piovosi. È inutile che si parli e si facciano dibattiti in estate
ed in inverno quando il problema non esiste, con tutti che hanno la «ricetta» e, poi,
nessuno metta in atto comportamenti virtuosi.
RAFFAELLA MARIANI. Anch'io vorrei riferirmi alle reiterate richieste che funzionino
certi organismi di coordinamento - a volte è stato letto con un certo fastidio il nostro
insistere, con interrogazioni che riguardavano anche altri argomenti come le vicende
della sismica - o, perlo meno, di collaborazione tra la Protezione civile, il ministero, le
autorità dei lavori pubblici, in questo caso le infrastrutture, in materia di sicurezza
stradale. Questo aspetto è uno degli elementi che, comunque, ogni volta crea ritardi:
quando si tratta di messa in sicurezza e di emergenza, ovviamente, ci si deve far carico
di porre spesso il problema e, forse, l'abbiamo fatto anche troppo poco.
Comunque, su questi temi si evidenzia un fallimento da parte del Governo, perché ogni
volta che si deve ricercare la collaborazione di un dipartimento con un ministero o
alcuni settori dello stesso si incontrano difficoltà che poi si ripercuotono sull'efficienza
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dei servizi esistenti e sulla creazione di nuovi. Chiedo quindi al presidente se sia
possibile avere un chiarimento nelle prossime ore o nella prossima settimana, per non
dover essere costretti a presentare un'interpellanza al Presidente del Consiglio per capire
come mai questo organismo non funzioni.
PRESIDENTE. La mia idea è, intanto, di mettere a disposizione della Commissione la
documentazione che ha presentato il dottor Bertolaso e, successivamente, di inviare una
lettera al ministro dell'interno e, per conoscenza, al ministro delle infrastrutture.
RAFFAELLA MARIANI. Che spesso è presente nelle televisioni per parlare di patente
a punti e non di tali questioni.
PRESIDENTE. Come ha detto il collega Stradella, effettivamente si tratta di un
problema che si ripropone ogni volta e, naturalmente, ogni inverno.
RAFFAELLA MARIANI. Poco fa il nostro collega Iannuzzi ha espresso la
preoccupazione riguardo a quel tratto di autostrada.
PRESIDENTE. In questo caso, rispetto a quello dell'anno scorso, con due aggravanti.
L'anno scorso la società Autostrade - che è un concessionario, tra l'altro privato - era
stimolata ad intervenire perché si pagava un pedaggio e, quindi, sussisteva tutta una
serie di vincoli. In questo caso l'ANAS non fa pagare pedaggi in una fase di
realizzazione dell'autostrada e, quindi, avrebbe dovuto intervenire, anche perché non si
tratta di un privato ma di una società a controllo pubblico.
L'altro aspetto significativo è che nel caso dello scorso anno, bene o male, all'autostrada
c'era l'alternativa dell'alta velocità o, comunque, una linea ferroviaria di alto traffico
abbastanza efficiente, a parte gli incidenti che ogni tanto si verificano anche su quella
linea. Viceversa, nel sud non esiste questo tipo di servizio alternativo perché per la linea
ferroviaria al di sotto di Napoli - ahimè - stanno ancora programmando l'alta capacità.
Quindi, esiste un ulteriore elemento di vincolo e mi pare che, in quel caso, sia anche
molto difficile indicare strade alternative, perché nella Pianura padana si possono
trovare ma nella zona montuosa tra la Basilicata e la Calabria evidentemente è molto più
difficile: sussistono pertanto problemi di emergenza ancora più gravi. Credo di
interpretare la richiesta dei colleghi, di maggioranza e di opposizione, perché la
Commissione si attivi affinché questa delibera, tra l'altro accettata dal Governo, venga
al più presto attuata e si giustifichi il fatto che non è stata ancora applicata, nonostante
essa risalga alla scorsa estate.
GUIDO BERTOLASO, Capo del Dipartimento della protezione civile. Dalla primavera
già se ne parlava.
PRESIDENTE. Dalla primavera già se ne parlava, avevamo svolto delle audizioni e,
quindi, non si capisce perché non sia stata applicata rapidamente.
RAFFAELLA MARIANI. Scusi presidente, magari si provveda anche con misure di
emergenza ad alleviare il disagio, perché se aspettiamo la prossima settimana per avere
una risposta sulla delibera da parte del Governo...!
PRESIDENTE. Credo che le misure di emergenza siano già a carico della Protezione
civile, ma non si può vivere di emergenza. Avevamo presentato la risoluzione proprio
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per creare una struttura che avesse la capacità di prevenire e di organizzare in relazione
ad emergenze che potevano sopraggiungere attraverso le rilevazioni meteorologiche.
Quindi, ci doveva essere una struttura già pronta per intervenire ed affiancare la
Protezione civile, soprattutto per coordinare le varie autorità interessate (prefetti, enti
locali, regioni, province).
GUIDO BERTOLASO, Capo del Dipartimento della protezione civile. Si può vivere di
emergenza quando vi sono dei fenomeni che non possono essere previsti, come i
terremoti. In questo caso, con 72 ore di anticipo abbiamo detto che sarebbe nevicato,
che vi sarebbero stati disagi e i mass media hanno ampiamente diffuso la notizia.
Assistere poi a quello che sta accadendo, francamente, fa «cascare le braccia» e fa
riflettere se sia il caso di andare avanti con questo impegno e con questa passione su
questo genere di attività perché, evidentemente, non tutti la pensano come noi.
Presidente, proprio per queste ragioni chiedo di potermi allontanare, per vedere
nuovamente come tamponare la situazione.
PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Bertolaso per la sua partecipazione e do la parola al
professor Bernardo De Bernardinis, al quale ricordo che la nostra indagine conoscitiva
muove soprattutto dalla preoccupazione della prevenzione di certi fenomeni
alluvionali, che, talvolta, nascono dalla cattiva manutenzione dei corsi d'acqua, dei
fiumi, dei torrenti e dei canali. Quindi, sussiste la necessità di approfondire eventualmente arrivando alla fine dell'indagine alla definizione di una proposta di legge
- i «colli di bottiglia» e i nodi che ancora esistono, soprattutto per quanto riguarda
sovrapposizioni di competenze amministrative e necessità di interventi preventivi.
Abbiamo sollevato il problema in quanto ci sembrava che i mancati interventi
sistematici sul dragaggio dei fiumi e dei torrenti fossero uno degli elementi che, in
caso di alluvione, determinano la tracimazione e l'esondazione delle acque, anche
perché, non essendo mantenuti gli argini e il letto dei fiumi e dei torrenti, il continuo
trasferimento di materiale nel corso d'acqua determina l'elevamento del livello ed una
continua rincorsa degli argini ad alzarsi per poter seguire questo fenomeno. Non sono
un tecnico, ma mi pare che sia una questione di buo n senso. Occorre individuare il
modo ed anche il coordinamento delle autorità per dragare preventivamente i corsi
d'acqua, evitando così questo continuo «inseguimento» fra il livello delle acque e gli
argini che devono essere alzati (ad esempio, il Po ogni tanto ci dà questo tipo di
problemi).
BERNARDO DE BERNARDINIS, Direttore generale responsabile dell'Ufficio
pianificazione, valutazione e prevenzione dei rischi del Dipartimento della protezione
civile. Abbiamo cercato di tracciare il ruolo della Protezione civile nell'ambito di un
quadro a cavallo tra l'ordinario e lo straordinario. Vorrei collegarmi ad alcune finalità
dell'indagine conoscitiva e partire dall'esempio di Lagonegro, che conosco molto bene
perché, prima di trasferirmi a Roma e poi a Cagliari, sono stato per dieci anni presso
l'università della Basilicata. Quello che si sta manifestando adesso è un «extrarischio»,
ovvero una quantità di rischio residuo che emerge improvvisamente proprio perché i
soggetti ordinari non provvedono adeguatamente a confrontarsi con tale situazione. In
questo caso si manifesta improvvisamente, in maniera intensa ed imprevedibile, mentre
sono prevedibili le situazioni che possono portare a quello stato di fatto.
Se si affronta il quadro legislativo, che in qualche modo sottende alle opere idrauliche,
in una categoria molto più ampia rappresentata dalla manutenzione del territorio - non si
può infatti parlare di opere propriamente fluviali o in alveo, senza avere un quadro
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generale della manutenzione del territorio - inviterei, per un vizio accademico, a
prestare grande attenzione in termini di linguaggio nell'affrontare tali problematiche,
perché altrimenti si rischia di procurare danni, quando invece si vuole bene operare.
Farò in tal senso riferimento ad un atto che affronta proprio la questione dei prelievi in
alveo, ovvero al decreto legislativo n. 576, all'articolo 10-bis, come strumento
estremamente delicato al quale prestare molta attenzione.
Ciò che abbiamo cercato di tracciare nel documento riassume un'affermazione: il quadro
legislativo, ancorché sia estremamente complesso, non è poi così farraginoso. Questa
presentazione inizia illustrando una preoccupazione che noi abbiamo sempre avuto,
«importata» anche nella gestione Bertolaso e che è presente nelle leggi che hanno
riguardato le autorità di bacino interregionali e nazionali. In buona sostanza, occorre
fare propria, come parte della cultura di questo paese, la manutenzione del territorio, in
particolare dell'idrografia primaria e secondaria. Infatti, si tende a parlare sempre del
Po, ma oggi questo fiume fa pochissima paura. Dalla popolazione di Casale si
accetta, quasi normalmente, l'idea di avere 10 centimetri di acqua nel proprio
giardino: si tratta di un rischio ordinario, accettato ed accettabile. È un concetto
importante: noi lo introduciamo nella direttiva del 27 febbraio 2004 del Presidente del
Consiglio sul sistema di allertamento nazionale. È un concetto maturo già in paesi come
la Francia e la Spagna, quale elemento di riferimento anche per il sistema assicurativo.
Dobbiamo partire da un concetto di rischio accettabile ed accettato dal paese e dalla
popolazione. Questo è diverso da zona a zona: 50 centimetri di neve creano disagi nella
zona di Lagonegro, mentre sul Brennero o presso il traforo del Monte Bianco sono cosa
assolutamente accettabile. C'è quindi una «zonizzazione» di questo rischio.
Occorre allora privilegiare la manutenzione dell'idrografia secondaria e dei piccoli
bacini, in buona sostanza delle zone urbane, ed anche intervenire sulle soluzioni
progettuali, non colpose, ma che nel tempo si sono dimostrate inadeguate per affrontare
situazioni meteo-climatiche come quelle che si registrano in questi giorni.
PRESIDENTE. Ad esempio, la copertura di corsi d'acqua in zone urbane.
BERNARDO DE BERNARDINIS, Direttore generale responsabile dell'Ufficio
pianificazione, valutazione e prevenzione dei rischi del Dipartimento della protezione
civile. Infatti: vi sono alcuni esempi che riguardano gli ultimi eventi nel nuorese,
riportati in calce al documento che abbiamo sottoposto all'attenzione della
Commissione; vi sono inoltre vicende che riguardano la zona di Genova.
All'interno di questo quadro legislativo, che non è banale e che parte dal testo unico
sulle acque - quindi dal 1933 - dipanandosi, sino ad arrivare al decreto legislativo n. 152
del 1992, riusciamo ad identificare molto bene la struttura delle autorità e dei soggetti
preposti all'attuazione degli interventi.
Vorrei fare una breve storia del quadro legislativo. Abbiamo avuto una grande legge, la
n. 183 del 1989. Da un'attenta lettura dell'articolo 1, molto spesso disatteso, si nota che
la legge n. 183 presenta una serie di finalità che, se viste a livello del quadro legislativo
esistente, sono state via via «dipanate» in altri filoni. Ad esempio, questo accade per la
salvaguardia ambientale (pensiamo alla legge originaria e allo stesso decreto legislativo
n. 152), sino ad arrivare ad alcuni oggetti che rappresentano tipicamente materia di
protezione civile. All'interno della legge n. 183, vi è un «rimescolamento» tra ciò che
doveva avvenire in termini di pianificazione del territorio e di manutenzione - quello
che noi chiamiamo del «tempo differito» - su una scala ordinaria dello sviluppo
territoriale e di quello sostenibile (tra 20-50-100 e 200 anni), e quelle che erano attività
che noi chiamiamo del «tempo reale», ovvero che devono avvenire prima, attraverso
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una previsione e sistemi di allertamento, in rapporto con un intervento che in buona
sostanza è di prevenzione non strutturale. È quello che stiamo facendo attraverso
un'attività di contrasto agli effetti che possono manifestarsi, che può tradursi in una
attività di prima assistenza alla popolazione.
È evidente - sintetizzo il concetto - che quanto meno le attività ordinarie di
pianificazione (penso ai piani di assetto idrogeologico - PAI - e all'attuazione dei
programmi di intervento di questi ultimi) o la manutenzione ordinaria del territorio
non sono perseguite con continuità (questo lo prevede una circolare del capo
Dipartimento, molto precisa, dell'agosto 2003) tanto più cresce la quota di rischio
residuo che improvvisamente può manifestarsi e alla quale dobbiamo, per legge,
prestare attenzione. Ciò avviene anche perché determinate manifestazioni meteoidrologiche stanno mutando, non sappiamo se per un periodo breve o lungo o se per un
cambiamento climatico. Stanno comunque cambiando: gli eventi molto intensi e difficili
da prevedere in spazi e tempi sono sempre più frequenti e spesso ci mettono alla berlina.
L'esempio citato di Villagrande e di Villanova, nel nuorese, riguarda 270 millimetri di
pioggia in 15 ore di media, con punte anche di 400 millimetri in 4 ore. Vi è stata quindi
una differenza tra la distribuzione reale e quella puntuale estremamente rilevante, per la
quale anche alcune, non colpose, soluzioni non sono più adeguate dal punto vista
progettuale.
La canalizzazione idrica che si trova a Villagrande, a Bonorva e in buona parte
dell'Appennino, in termini del tutto virtuosi sia quanto a dimensionamento sia con
riferimento ad una progettualità, che non è per nulla di secondo livello, si dimostra del
tutto inefficace al presentarsi di fenomeni così localizzati, che cambiano lo scenario
progettuale. Un esempio: se invece di portare acqua si portano pietre, cespugli ed alberi,
quella soluzione che inizialmente si era pensata non è più adeguata. Succede così quello
che è successo a Villagrande.
Se guardate i soggetti ai quali ci rivolgiamo, questi sono assai precisi. Noi assumiamo
che la pianificazione territoriale sia compiuta dalle autorità di bacino, o dalle regioni in
quanto autorità di bacino, ai sensi dell'articolo 10 della legge n. 183. Assumiamo che i
piani di previsione e prevenzione, per quanto riguarda il rischio idrogeologico, ricadano
all'interno dei programmi triennali delle autorità di bacino. Assumiamo che gli
interventi idraulico- forestali siano compiuti e pianificati dalle regioni ed attuati dai
consorzi di bonifica, in quanto enti strumentali regionali. Ricordiamoci che ai sensi del
decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977 i consorzi di bonifica sono stati
trasferiti nelle competenze delle regioni e che la Corte costituzionale ha definito enti
strumentali regionali questi ultimi, la cui pianificazione, anche negli interventi pubblici,
è allo stesso livello dei piani di coordinamento territoriale delle province. Non c'è quindi
ambiguità ed i consorzi di bonifica sono i soggetti attuatori chiamati, nell'ambito della
pianificazione regionale, che è coordinata all'interno di quella nazionale, a compiere
interventi di manutenzione del sistema idrografico, e non soltanto in termini di bonifica,
ma anche che insistono sul sistema di bonifica. Attenzione, bisogna leggere il quadro
storico legislativo per accorgersi che non è farraginoso: è complesso, ma
sostanzialmente disatteso.
PRESIDENTE. Si potrebbe procedere alla massima razionalizzazione ma, se non
venisse attuata, sarebbe tutto inutile.
BERNARDO DE BERNARDINIS, Direttore generale responsabile dell'Ufficio
pianificazione, valutazione e prevenzione dei rischi del Dipartimento della protezione
civile. Noi richiamiamo i soggetti ordinari ai loro compiti e dobbiamo fare solo attività
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urgente ed indifferibile, che ancora ci compete, per tamponare alcune situazioni.
Tuttavia, la nostra attività si espande - mi sono occupato della legge n. 183 del 1989
ancora prima della sua approvazione - perché si disattende alle proprie competenze ed
attività, questione che deve essere affrontata e che cerchiamo di evidenziare.
Allora, il punto centrale non è approvare una norma che cambi alcune cose, ma fare un
atto da Protezione civile, cioè armonizzare e coordinare, chiamando ognuno alle proprie
responsabilità e, magari, eliminando alcune conflittualità o gelosie istituzionali: in
questo modo il quadro potrebbe perfettamente funzionare. A tal fine vi invito ad
analizzare le ordinanze di Protezione civile, ad esempio, relative all'emergenza idrica,
nelle quali puntualmente chiamiamo i commissari a rispondere alla pianificazione
ordinaria e tutti gli atti al controllo delle autorità di bacino. Se poi tutto ciò viene
disatteso non è certo colpa del dipartimento né dell'ordinanza del Presidente del
Consiglio, ma è sostanzialmente una carenza che viene creata da qualcun altro rispetto
ai propri compiti e funzioni.
Io ho fatto una scelta di campo ed ho partecipato alla Protezione civile dopo aver
cooperato ad alcuni atti legislativi regionali, quali l'autorità di bacino di Puglia e
Basilicata nonché il Comitato istituzionale dell'autorità di bacino, che si chiama
aggregato. É un Comitato istituzionale di un'autorità di bacino che ha al suo interno una
rappresentanza del Comitato dei ministri: si tratta di un tavolo con i presidenti delle
giunte più il Comitato dei ministri e, quindi, è un'autorità di bacino a livello nazionale.
Se guardassimo attentamente al valore della nostra Costituzione e ai valori pregnanti
delle autorità, ci accorgeremmo che il nostro paese ha compiuto dei progressi
eccezionali che dobbiamo soltanto applicare.
PRESIDENTE. Compreso l'articolo 120 della Costituzione, secondo il quale lo Stato
può sostituirsi agli enti locali nel caso di mancato rispetto di norme.
BERNARDO DE BERNARDINIS, Direttore generale responsabile dell'Ufficio
pianificazione, valutazione e prevenzione dei rischi del Dipartimento della protezione
civile. Ad esempio, in una situazione di magra del Po ci siamo rifiutati di dichiarare lo
stato di emergenza ed abbiamo chiamato tutti i soggetti ordinari attorno all'autorità di
bacino del Po per far sì che ci fosse una concertazione. Abbiamo guidato questa
concertazione ed abbiamo dichiarato l'emergenza solo per realizzare un bilancio idrico
diverso, che permettesse l'attività di Porto Tolle e, al tempo stesso, non danneggiasse
troppo l'agricoltura, consentendo a Ferrara di alimentarsi ancora d'acqua e di compiere
una serie di scelte integrate. Infatti, trattandosi di un sistema molto integrato, deve
essere visto tutto insieme e non in maniera frammentaria.
Allora, il nostro compito è quello di coordinare, di far lavorare insieme, di mettere
insieme le specifiche competenze ed autorità attorno ad un tavolo per una precisa
finalità: questo vale anche per la gestione del rischio idraulico.
PRESIDENTE. Quindi, in quel caso di magra bisognava dragare il Po.
BERNARDO DE BERNARDINIS, Direttore generale responsabile dell'Ufficio
pianificazione, valutazione e prevenzione dei rischi del Dipartimento della protezione
civile. No, in quel caso abbiamo rilasciato dei bacini montani, abbiamo riunito i
gestori dei bacini ad uso idroelettrico e ad uso plurimo, abbiamo riunito i consorzi di
bonifica. Ad alcuni abbiamo detto di rilasciare l'acqua e ai consorzi di bonifica di
consumare meno. Di conseguenza, abbiamo mantenuto una certa portata di magra del
Po che ha consentito almeno alla centrale di Porto To lle e alle varie alimentazioni di
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continuare a funzionare: in questo modo abbiamo superato la crisi. Analogamente si
procede in caso di piena, perché si riordinano attorno ad un tavolo i soggetti competenti
e si governa l'eccezionalità.
Il punto è che, a fianco ad un'attività di tipo straordinario come questa, noi sollecitiamo
- come richiama il capo del dipartimento nella circolare evidenziata in premessa - i
soggetti ordinari a svolgere i compiti loro assegnati. Questo tipo di attività ha avuto dei
momenti di stanca e di ripresa molto forte a seguito di emergenze - basti pensare a
Sarno, a Soverato, al decreto legislativo n. 180 del 1989, alla legge n. 267 del 1998 -,
con un nuovo intervento da parte del dipartimento. Tale attività oggi è passata
ordinariamente al Ministero dell'ambiente e alle autorità di bacino, già previste nel
decreto legislativo n. 180 del 1989.
Inoltre, devono essere avviate una serie di iniziative di adeguamento degli interventi
sugli alvei e manutenzione degli stessi, che nascono dal quadro pianificatorio. Tutte le
volte che in alcuni corsi d'acqua della Campania, tra cui lo stesso Sarno, si verificano
determinate situazioni, alcune zone vanno sott'acqua. Faccio presente che, nel momento
in cui devono attivarsi delle manovre da alcune dighe, già previste nel piano di
Protezione civile di loro esercizio, comunque ci troviamo in determinate situazioni, per
cui occorre attivare un piano di emergenza. Noi e le autorità di bacino, cioè il nostro
interlocutore rispetto al tempo differito, abbiamo molto chiaro il quadro nazionale e
quello che si dovrebbe fare.
Ad esempio, con l'autorità di bacino dell'Arno, del cui comitato tecnico-scientifico fa
parte l'ingegner Pagliara, collaboriamo strettamente, così come con l'autorità di bacino
del Tevere e del Po, attuando la nostra parte che copre l'extrarischio assieme alla
copertura del rischio ordinario. Tale autorità prevede nel suo PAI un intervento di 1500
miliardi per coprire al 100 per cento il livello di mitigazione oggi possibile - quindi,
non la messa in sicurezza, la quale non esiste perché ci sarà sempre un'attività di
Protezione civile -, cioè quello che il PAI prevede come livello di rischio accettabile o
accettato. Un'analisi del segretario del comitato tecnico-scientifico e, quindi, una
proposta del segretario generale è di intervenire con 200 milioni di euro a coprire
almeno l'80 per cento del rischio rispetto al tempo di ritorno, cioè fare tutti quegli
interventi che garantiscono da eventi che abbiano un tempo di ritorno minore di 100
anni, lasciando come extrarischio quello superiore ai 200 anni: quindi, il rischio si
riduce al 20 per cento su tutto il bacino.
Quel 20 per cento, nonché il periodo per realizzare quelle opere per 200 milioni di euro,
è coperto, sostanzialmente, da un'attività di Protezione civile coordinata e concertata:
questa è la ratio. Alla fine, quando sarà realizzato l'80 per cento di quel livello di
rischio, il nostro compito sarà coprire l'altro 20 per cento più tutto l'extrarischio residuo
che si può, comunque, manifestare: questa è l'unione tra i due sistemi che perseguiamo
nella pianificazione ordinaria. Non ci compete fare gli interventi dei PAI, ma è nostro
compito stimolare chi deve attuarli perché, finché non vengono svolti, siamo tenuti
comunque ad intervenire nel tempo reale (sui beni culturali o portando via la gente).
Tuttavia, se via via stimolassimo i soggetti ordinari a creare un quadro delle priorità - il
caso dell'Arno è esemplare - e, quindi, una pianificazione finanziaria dell'intervento,
non avremmo molto da scoprire. Credo che in Italia ci sia tutto per fare ciò: conoscenza,
saggezza, esperienza e professionalità.
Parallelamente, ci siamo preoccupati di creare un sistema che possa contrastare il
rischio residuo nel tempo reale. Abbiamo introdotto un sistema di previsione delle
condizioni che possono mettere a rischio le popolazioni, che opera in tempo reale e
sufficiente ad attivare gli interventi di protezione civile. Abbiamo creato un sistema
nazionale che coinvolge le regioni. Perché proprio le regioni e i presidenti delle regioni
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come commissari delegati? Ve ne sono di diversa estrazione politica.
La ratio era legata al fatto che il presidente della regione risponde al proprio elettorato,
alla giunta e al consiglio delle scelte di pianificazione che adotta come commissario. In
realtà, egli non si potrebbe dimenticare del fatto che incorpora due aspetti istituzionali,
anzi tre, che sono fortissimi. Se programma qualcosa in termini di POR, non può
contraddirlo come commissario. Vi sarebbe qua lcosa che non torna: ecco allora spiegata
la ratio della scelta dei presidenti delle regioni.
Noi abbiamo creato un sistema di allertamento nazionale con le regioni, e non contro le
regioni. Abbiamo un percorso nazionale che ha portato regioni a statuto ordinario, a
statuto speciale e province a condividere un sistema in grado di prevedere fenomeni tali
da attivare il sistema emergenziale. Questo funziona ed ha funzionato nel nuorese:
abbiamo dato l'allarme 24 ore prima ed abbiamo rinforzato l'alveo tre ore prima. Questo
sistema oggi funziona.
Inoltre, vi sono soggetti ordinari che non continuano la loro opera pianificatoria che
oggi già esiste sul territorio. Lo abbiamo riportato con umiltà nel documento, con
l'attenzione e la passione con la quale svolgiamo il nostro lavoro. Riportiamo anche lo
stato di fatto degli interventi previsti ai sensi della legge n. 267 del 1998.
Per quanto riguarda la legge n. 183 del 1989, vi sono altre attività tipicamente di
protezione civile: in primo luogo, l'attività di prevenzione e di «allerta» svolta dagli enti
periferici operanti sul territorio (il sistema di allertamento nazionale ha sostituito questo,
riportando all'interno delle tematiche della protezione civile tutto ciò); lo svolgimento
funzionale dei servizi di piena e di pronto intervento idraulico.
Il decreto legislativo n. 112 del 1998, ai cui lavori ho preso parte, lasciava il tema degli
interventi di piena e di pronto intervento idraulico nella materia della difesa del suolo.
In realtà, il pronto intervento idraulico, se parliamo di controllo delle arginature o/e,
come dice la direttiva del Presidente del Consiglio, di criticità di qualsiasi tipo
significative dal punto di vista idraulico, anche per i tratti non arginati, è un'attività
tipicamente di vigilanza e di protezione civile. Il pronto intervento idraulico non è altro
che l'intervento tecnico urgente. La pulizia di alcune parti di un ponte, per garantire in
buona sostanza un deflusso, altro non è che un intervento tecnico urgente: lo dico da
idraulico! Il servizio di piena non è altro che quello che facciamo adesso in telemisura e
che prima si svolgeva in buona sostanza stando sugli argini e monitorando il livello dei
fiumi.
La direttiva specifica che tali servizi, anche con riferimento alle frane, devono essere
riportati a livello provinciale, ancorché comunale, coinvolgendo la «catena» delle
responsabilità, che non è affatto sconosciuta. Infatti, il decreto legislativo n. 112 del
1998 trasferisce il servizio di piena alle regioni e precisa che in qualche modo questo
dovrebbe essere trasferito agli enti locali. Molte regioni lo hanno fatto attraverso
un'autorità unica - ad esempio, l'AIPO - o addirittura interregionale, come l'Agenzia
regionale per la difesa del suolo (ARDIS), oppure affidandolo alle province, come nel
caso della Toscana.
Per noi questo quadro delle competenze è dunque molto chiaro. Esso va coordinato e,
per quanto riguarda le attività di protezione civile, noi possiamo farlo. Sicuramente può
essere importante che la Commissione richiami ad una maggiore coralità ed
integrazione le autorità già esistenti (ricordo in proposito la Commissione Veltri e gli
atti di questa Commissione). Ribadisco quindi che il quadro delle competenze è chiaro e
che non è poi così esteso. Ad ognuno va riportata la responsabilità di fare esattamente
ciò che compete al suo livello: nulla di più e nulla di meno! Infatti, spesso mi trovo
dinanzi ad autorità di bacino che «tornano indietro» e fanno il preannuncio, cosa che
non gli compete più. Allora, ognuno svolga il proprio compito e lo faccia sino in fondo.
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Dal punto di vista dei finanziamenti, occorre dire che se quelli ordinari non vanno nella
giusta direzione, succede che i finanziamenti straordinari siano «spogliati» e che
debbano essere impiegati per gli interventi urgenti. Non possiamo quindi essere accusati
di usarli in modo sbagliato, perché non siamo noi, ma è il sistema che ci chiede di
utilizzarli erroneamente.
Come ha ricordato il dottor Bertolaso, noi abbiamo la coscienza del coordinamento;
sono gli altri, probabilmente, che accettano male quello che non è protagonismo, né sete
di potere. È un ruolo molto umile mettere intorno al tavolo diverse «teste» e farle
confrontare. Questo è il compito della Protezione civile: è un compito di regia, in modo
da far esprimere ad ognuno di questi enti la propria posizione. Il prefetto che siede al
mio fianco o il capo di Stato maggiore responsabile del Centro operativo intercomunale
in quel momento non si spogliano dei propri poteri, ma devono usarli al meglio per
coordinarsi con il presidente della regione o con quello della provincia. Ognuno attui ed
esprima la sua competenza per una finalità di protezione civile.
Lo dico accoratamente, perché la difesa del suolo e la manutenzione del territorio
rappresentano non soltanto una grande impresa nazionale ed un grande obiettivo, ma
anche l'unica risposta in grado di coordinare e rendere efficace il ruolo ed il lavoro della
Protezione civile. Diversamente noi, pur mettendoci un'ottima buona volontà, saremmo
sopraffatti. Si tratta di problemi che devono essere risolti ordinariamente, come è
accaduto per il torrente Bisagno. In quel caso, ci siamo trovati ad accelerare un processo
che - lo ricordo come ordinario di idraulica presso l'Università di Genova - ha
rappresentato un percorso virtuoso. Infatti, sul Bisagno si è avuto un piano stralcio di
bacino, definendo esattamente i programmi e gli interventi, con un'intesa tra enti
territoriali.
Credo che l'accorato richiamo del dottor Bertolaso, tra le righe - lo condivido non
soltanto dal punto di vista istituzionale - non debba essere letto come espressione di
protagonismo e di sete di potere da parte della Protezione civile. Quest'ultima vuole
soltanto coordinare e stimolare i soggetti ordinari a legiferare e ad attenersi alle leggi.
Questo vale anche per i prelievi in alveo, che sono delicatissimi. La storia degli inerti è
una storia degli umani perché è come intervenire sulle coste: prelevare, mettere o
lasciare ad alveo non è un'arte facile, ma va realizzata con delicatezza. Se analizzassimo
l'articolo 10-bis del decreto legislativo n. 576, tutto ciò rientrerebbe nell'attività
ordinaria e dovrebbe essere pianificato con attenzione, perché non è sempre vero che il
sovralluvionamento è negativo, così come non è sempre vero che costituisce un
bell'assetto ambientale. Allora, tutto ciò che riguarda le dinamiche fluviali, così come
quelle delle coste, deve essere svolto in un quadro non troppo giustificativo perché, poi,
i miei colleghi effettuano studi e ricerche, ma deve esserci la coscienza di provare ad
andare in una direzione ed anche di tornare indietro.
Occorre dunque un sistema dinamico di abbattimento e di aumento del rischio, rispetto
al quale noi stessi ci conformeremo e cercheremo di coprire meglio il rischio residuo
maggiore, oppure ci «riposeremo» un po' avendo un rischio residuo minore.
PRESIDENTE. Desidero riferirmi all'ultima parte del chiaro ed efficace intervento del
professor De Bernardinis. Da estraneo a questi problemi e al di fuori da ogni
competenza in questo campo, ritengo che, anzitutto, i prelievi dagli alvei debbano essere
un'attività ordinaria. Come ha giustamente detto il professore, possono essere prelievi
ma anche ripascimenti. Alcuni rappresentanti dell'APAT ci hanno mostrato che anche
certe coste vengono erose dal mare e debbono essere reintegrate: quindi, devono essere
dati anche prelievi ed apporti. Nel campo dei fiumi questi prelievi possono fornire
l'inerte per alcune attività produttive - ad esempio, per le attività di costruzione -, che
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può essere prelevato senza spaccare le colline: basta andare sull'Autostrada del sole
verso Caserta per vedere intere colline tagliate per le cave, che, fra l'altro, una volta
esaurite, prevedono anche costi di ricostituzione ambientale a carico di coloro che
hanno effettuato i prelievi. In un paese che ha esigenze di costruzione, fortemente
antropizzato e con centri urbani in continua trasformazione sussiste l'esigenza di
produzione di inerte a favore dell'industria edilizia.
In secondo luogo, credo che i prelievi siano importanti per ricostituire la navigabilità,
perlomeno, del Po. Lei ha evidenziato i problemi emersi durante il periodo di magra del
Po, che è stato fronteggiato con aperture di dighe per reintrodurre acqua nel suo alveo.
Allora cerchiamo di reintrodurre, attraverso i prelievi e questa attività ordinaria piuttosto
che straordinaria, la navigabilità del Po. Quest'ultima potrebbe essere anche uno
strumento di difesa ambientale perché, intensificando i trasporti fluviali, si
utilizzerebbero in modo minore le autostrade con le relative forme di inquinamento. A
Cremona esiste addirittura un porto che è stato completamente abbandonato, nonostante
potrebbe essere ricostituito e svolgere una funzione, ad esempio, in collegamento con un
interporto lombardo, che potrebbe essere alimentato anche dal trasporto fluviale lungo il
Po.
Credo che situazioni di questo tipo debbano essere trasferite all'attività ordinaria - mi
pare di capire che la Protezione civile si preoccupa di stimolare questo tipo di attività e, di fronte all'inerzia di tutti coloro che dovrebbero essere abilitati anche
istituzionalmente ad intervenire ordinariamente in questo settore (regioni, autorità di
bacino, province, comuni e via dicendo), mi domando se non sia opportuno, al limite,
utilizzare l'articolo 120 della Costituzione. Esiste ancora la possibilità da parte dello
Stato di sostituirsi di fronte all'inerzia. Allora, mi domando se esistano strumenti che,
pur nell'ambito delle attuali competenze assegnate alle regioni e agli enti locali dal titolo
V della Costituzione, mettano lo Stato in condizione di sostituirsi quando, nonostante
l'esistenza di competenze istituzionali ben definite da un'attività legislativa ormai chiara,
di fatto i poteri che dovrebbe intervenire non lo fanno.
Questo è uno dei punti sui quali dovremmo fare una riflessione, indipendentemente
dall'attività della Protezione civile, che è benemerita ma che ha funzioni di
coordinamento e soprattutto di intervento quando si determinano situazioni di
emergenza.
Do ora la parola ai colleghi che intendano porre delle domande.
RAFFAELLA MARIANI. Vorrei sottolineare un aspetto perché - in verità, in
Commissione ne abbiamo discusso molte volte ed abbiamo anche svolto un serio lavoro
di individuazione delle tematiche e dei problemi, anche attraverso audizioni - sto
rilevando una certa situazione, come ho detto prima con una certa verve polemica nei
confronti del Governo. Ora siamo tutti in grado di usare il buonsenso, ma lo stesso cade
ogni volta che occorre attuare un coordinamento effettivo. Presidente, dobbiamo anche
smetterla di attribuire un'inefficienza alle regioni e agli enti locali, perché nel momento
delle emergenze si comportano in maniera molto più lineare e corretta.
In questo caso, alcuni aspetti emergono quando si tratta di coordinare più ministeri e più
organismi all'interno dello stesso ministero. Faccio riferimento alla questione della
Protezione civile per la mia regione, la Toscana. Quando si era già stabilito quale
doveva essere il nuovo assetto della Protezione civile e il rapporto tra dipartimento e
regione, scaturì una forte istanza dal Ministero dell'interno, per cui i prefetti scrissero ai
presidenti delle province e ai sindaci, abbiamo dovuto reinterpellare il dipartimento e
ricorrere alle ultime ordinanze. Insomma, tutto ciò si verifica con uno smarrimento
anche da parte degli enti locali, con i sindaci che non sanno se rispondere al prefetto o al
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presidente della provincia, e lo chiedono al presidente della regione.
Nell'ultimo anno abbiamo assistito numerose volte a queste disfunzioni e non possiamo
dire che non esistono perché sarebbe negare la realtà. Il riferimento del dottor Bertolaso
anche alla situazione di queste ore mi sembra che lasci intendere ciò, un po' per la
polemica che era sorta sub ito dopo l'evento dell'Autostrada del sole (anche in quel caso
c'era chi credeva che ci fosse un desiderio di primazia della Protezione civile: guai a
toccare i vari livelli delle infrastrutture quando si tratta di ambiente). Più o meno, i fatti
sono questi.
D'altronde, noi abbiamo sempre detto che la difesa del suolo è la grande opera per la
quale tutti dovremmo impegnarci a trovare investimenti ed organizzare efficaci
interventi. Quando si parlava delle grandi opere, abbiamo detto che la più grande opera
del nostro paese sarebbe individuare risorse ed intervenire con più coerenza sul tema
della difesa del suolo. Quindi, su questo piano, darei perfettamente ragione al professor
De Bernardinis; anzi, stimolerei anche il dipartimento sulle questioni riguardanti il
coordinamento, cui lei faceva riferimento e che la legge facilita in qualche modo.
Lei dice che sul versante vi è chiarezza: anche in questo caso, noi auspichiamo che
questo genere di comunicazioni, a partire dagli enti locali, sia effettivamente compiuto.
Lei fa riferimento a confusioni che possono sorgere, anche sulle questioni relative
all'allertamento.
Ciò porta alla vicenda dei finanziamenti delle opere compiute. Abito in una provincia
che ha compiuto numerosissime opere di messa in sicurezza, sia pure non definitive, ma
sicuramente migliorative delle condizioni di sicurezza e di riduzione del rischio,
attraverso l'utilizzo di «fondi di emergenza», perché purtroppo non vi sono soluzioni
che derivano dall'utilizzo dei fondi ordinari. Ciò è strettamente legato alla quantità di
risorse da destinare al sistema che è molto complesso, in parte perché esso richiede una
notevole individuazione di risorse, ma anche perché, come ricordava il dottor Bertolaso,
molte competenze si intersecano.
Occorre effe ttuare anche una valutazione rispetto ai cosiddetti PAI: spesso infatti,
nell'individuazione delle priorità in tali piani, abbiamo registrato questioni che
potrebbero essere discusse rispetto alle vicende dei territori. Facciamoci allora carico di
sottolineare queste cose, anche nel corso della discussione che verrà svolta.
In conclusione, dovremo individuare le responsabilità, ma anche un organismo che, in
qualche modo, dovrà richiamare ognuno al rispetto delle proprie responsabilità.
Individuare infatti soltanto un quadro normativo più certo e più chiaro non è sufficiente,
se non si effettua anche un monitoraggio sull'applicazione di quest'ultimo.
Questo spetta al Parlamento: tuttavia, anche rispetto al ruolo del Governo, chiedo quali
siano le responsabilità. Questo avviene oggi per un'emergenza che riguarda la neve, ma
investe anche altre questioni che presentano un più indefinibile quadro di responsabilità.
Non so indicare quali possano essere le soluzioni: seguendo il buonsenso, sembrerebbe
che, una volta individuato il quadro delle responsabilità, tutto debba funzionare.
Spetterà poi a tutti noi chiederci come mai in tante occasioni, anche una volta
individuato il quadro di responsabilità, si verifichino una serie di disagi.
BERNARDO DE BERNARDINIS, Direttore generale responsabile dell'Ufficio
pianificazione, valutazione e prevenzione dei rischi del Dipartimento della protezione
civile. Per quanto riguarda il prelievo di litoidi in alveo, e quindi l'autorizzazione ed il
controllo delle attività in alveo, non è, come è evidente, un'attività di protezione civile;
si tratta infatti di attività del tutto ordinaria, regolata nell'ambito della legge n. 183 del
1989 e del decreto legislativo n. 112 del 1998.
Vorrei ricordare l'esperienza della regione Friuli- Venezia Giulia, che è molto
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significativa sotto il profilo degli eventi alluvionali. Dopo il novembre 2003, presenti
l'autorità di bacino, la regione, il Dipartimento della protezione civile e i diversi sindaci
dei comuni interessati, si aprì una discussione sul fatto che buona parte degli effetti
fosse conseguente alla mancata pulitura dei sovralluvionamenti. In quella sede e «a
caldo», mi assunsi la responsabilità di dire che il ragionamento sulle autorizzazioni ai
prelievi in cava ed in alveo doveva essere svolto in tempi ordinari: questo innanzitutto
per capire se fosse possibile intraprendere iniziative del genere e, qualora quelle
iniziative si configurassero come negative rispetto ad uno stato ordinario, per poter
recedere da quella situazione. Credo che questo sia un ragionamento estremamente
importante.
Basti pensare a fiumi come il Brenta, che oggi sono sopraelevati perché sottoposti a
troppi prelievi. I fiumi, come le coste, sono organismi viventi, con propri equilibri;
ironizzando, può dirsi che possono essere anche delle pessime suocere, con caratteri non
facili! Occorre tuttavia rispettare il loro carattere e bisogna conoscerli per un certo
periodo, altrimenti si rischia di commettere errori pesanti.
È evidente che occorre cercare un equilibrio - lo dico da ex componente della
Commissione valutazione impatto ambientale nazionale - e valutare anche il fatto che il
prelievo in alveo, sicuramente meno incisivo dal punto di vista del paesaggio, non
diventi però maggiormente negativo di una cava aperta. Una pianificazione
dell'utilizzazione degli alvei deve essere vista come un problema di carattere
complessivo.
PRESIDENTE. In questo caso, lei suggerirebbe una serie di interventi legislativi ad
hoc?
BERNARDO DE BERNARDINIS, Direttore generale responsabile dell'Ufficio
pianificazione, valutazione e prevenzione dei rischi del Dipartimento della protezione
civile. Vi sono i piani di bacino (nei quali deve essere contemplata la sostenibilità di
determinate utilizzazioni) all'interno dei quali le regioni, tra cui la Toscana, devono
concedere o meno il prelievo. Gli strumenti sono previsti: basta attuarli. È una
responsabilità del presidente Martini, così come del presidente Ghigo o di Errani.
Credo che, in questo momento, rispondendo come struttura della Presidenza del
Consiglio, il nostro compito sia quello di far sedere intorno ad un tavolo i soggetti e
coordinarli. Ci sono i comitati istituzionali: bisogna però essere presenti e «pesare» in
quella sede. Non sono sufficienti cinque minuti di presenza. Credo che da parte della
Commissione e del Parlamento debba venire una forte indicazione per fare in modo che
certi strumenti istituzionali funzionino.
Non ci si può recare nella sede istituzionale dell'Autorità del bacino del Po per soli
cinque minuti ed in breve tempo prendere decisioni che hanno conseguenze di carattere
economico, industriale, ambientale di notevole portata. Una regione non può, a cuor
leggero, decidere, in una fase «eccitata» come quella emergenziale, se una certa misura
sia adatta o meno allo scopo. Deve anche prendersi la responsabilità politicoistituzionale di «distaccarsi» rispetto ai cittadini.
Credo che voi abbiate gli strumenti per richiamare il quadro istituzionale legislativo
ordinario a funzionare perfettamente. All'interno del documento sono richiamate le
competenze e dal nostro punto di vista il quadro è sufficientemente chiaro. Può esserci
una sfumatura soltanto su un punto, ma non certamente sulla previsione-prevenzione:
con la parola «prevenzione» intendo dire strutturale (emergenze ed interventi) e non
strutturale (sistemi di allertamento). Continuo a girare tutte le regioni e credo che ormai
tutto ciò sia assorbito dalla componente statale, cioè la componente prefettizia.
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Quindi, l'unico punto è il primo intervento emergenziale di livello C e nel quadro
legislativo c'è un problema fondamentale: quando si verifica un evento non si sa mai se
sia di livello A, B o C. Citando il Friuli, la ratio è quella di stare vicino alla regione in
cui si sta verificando un certo evento e la stessa chiede aiuto: quel caso diventa di livello
C. Nel caso di Palagiano in tre ore si è andati su un evento che è durato un'ora e mezza e
a cui, sostanzialmente, né il sistema statale né quello regionale riuscivano a far fronte.
Per il resto, tutto è assolutamente chiaro. Non solo, stiamo attivando i centri funzionali e
il prossimo sarà quello della Toscana. Nella direttiva del Presidente del Consiglio si
chiede sostanzialmente il quadro delle procedure di attivazione degli allertamenti come
condizione per attivare e dare autonomia anche dal punto di vista della valutazione degli
avvisi meteo. Cinque sono stati già attivati, tra cui le province autonome di Trento e
Bolzano, ed arriveremo ad undici in brevissimo tempo: è stato un lavoro di
concertazione lunghissimo ma significativo.
Parlo di lavoro di concertazione perché per tutto ciò che riguarda la manutenzione del
territorio nonché la Protezione civile la concertazione è l'elemento primario: bisogna
avere la pazienza di discutere e di arrivare ad un'idea e ad un risultato comune. Noi
facciamo senz'altro il monitoraggio, ma il punto centrale è che le aree sono
un'indicazione di massima. Ad esempio, dal nostro punto di vista oggi la zona di Sarno
è, forse, quella più sicura, mentre ci preoccupiamo di tutto il resto. In quel caso esiste
tutto un sistema ed ormai è tutto a posto, mentre esistono molte altre situazioni sulle
quali dobbiamo sorvegliare. Il punto centrale è che monitoriamo quello che viene fatto
per capire il luogo e l'altezza di un rischio residuo. Noi assolviamo a questa funzione,
ma credo che questa Commissione e il Parlamento possano richiamare altri istituti, a cui
partecipiamo anche noi, al loro ruolo e alla loro attività.
MARISA ABBONDANZIERI. Presidente, il mio intervento si riferisce ai problemi di
protezione civile e del maltempo di cui avete discusso prima. Tra l'altro, nella mia
regione, le Marche, i disservizi dell'ANAS stanno rendendo la viabilità sempre più
ingestibile. Lei si ricorderà che in occasione del maltempo seguii la questione della
risoluzione relativa al centro di coordinamento ed abbiamo avuto possibilità di
conoscere il decreto ministeriale, più o meno fermo sul tavolo del ministro Lunardi. Mi
pare che esso non corrisponda allo spirito della risoluzione e vorrei che lei in qualche
modo si facesse interprete di tale questione. A tutto avevamo pensato, ma non che il
centro nazionale fosse presieduto dal direttore del servizio della polizia stradale, i cui
poteri sono assolutamente inadeguati alla portata dei problemi emersi nelle ultime 48-72
ore.
La prego, quindi, di intervenire, anche perché l'opposizione non si è opposta alla
risoluzione (altrimenti, ci sarebbe stato detto che siamo contrari anche quando
ragioniamo per sintetizzare e migliorare le questioni). Nel testo attuale, il decreto
ministeriale istituisce un centro di coordinamento che non potrà intervenire per
avversità atmosferiche come quelle che si sono manifestate in questi giorni e che,
purtroppo, si manifesteranno in futuro. A questo punto, si è indotti ad affermare che il
decreto ministeriale era fermo sul tavolo del ministro e che non si sa se i fatti dell'altro
ieri, di ieri e di oggi si siano verificati per quel problema o perché nessuno ha
coordinato: i fatti sono di una tragicità assoluta. Vediamo di risolvere tale questione,
perché abbiamo anche interesse a che quando emaniamo un atto di indirizzo, come nel
caso della risoluzione, non si produca una situazione peggiore di quella precedente.
PRESIDENTE. Onorevole Abbondanzieri, lei ha perfettamente ragione. Affidare il
coordinamento di questa struttura al direttore della polizia stradale - che dovrebbe
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coordinare dei prefetti - mi pare che non sia opportuno. Invieremo una lettera al
ministro dell'interno e, per conoscenza, al ministro delle infrastrutture prendendo spunto
dal testo. Tra l'altro, il decreto non è stato ancora approvato perché manca il concerto
del Ministero delle infrastrutture. Pensavo ad un coordinamento di carattere politico e,
quindi, al ministro o, per sua delega, ad un sottosegretario, perché solo quello, e non il
direttore della polizia stradale, può essere un elemento di coordinamento dei prefetti, dei
presidenti delle regioni, delle province e dei sindaci.
Ringrazio i nostri ospiti per la loro partecipazione e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 16,25.
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Seduta del 1° febbraio 2005
Presidenza del Presidente Pietro ARMANI
La seduta comincia alle 14,50.
Audizione di rappresentanti del Registro italiano dighe (RID).
Durata 30 minuti
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, l'audizione di rappresentanti del Registro italiano dighe (RID).
L'indagine in corso nasce a seguito di una serie di preoccupate riflessioni sulle
implicazioni che - per i centri abitati e le popolazioni residenti - possono derivare
dall'alterazione dei normali corsi d'acqua in seguito al verificarsi di alluvioni. Alcune
domande ed una serie di riflessioni animano i nostri lavori: ci domandiamo se per
prevenire e fronteggiare fenomeni simili non sia necessario innanzitutto sistemare le
competenze tra i vari livelli di Governo e di responsabilità burocratica, e se non sia
necessario poi introdurre e comunque codificare norme di riferimento in materia,
trovando il modo di rendere regolare il dragaggio di torrenti, fiumi, corsi d'acqua, per
evitare che periodicamente si scarichino quantità enormi di materiali in alcune aree del
territorio.
Ringrazio quindi i rappresentanti del Registro italiano dighe per aver corrisposto
all'invito della Commissione a partecipare alla seduta odierna e rendo noto ai colleghi
che i nostri ospiti hanno cortesemente consegnato alla Commissione una
documentazione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico
della seduta odierna.
Do quindi la parola al presidente del Registro italiano dighe, ingegner Marcello Mauro,
che è accompagnato dall'ingegner Paolo Paoliani.
MARCELLO MAURO, Presidente del Registro italiano dighe (RID). Intervenendo
sullo specifico oggetto dell'indagine conoscitiva, svolgerò alcune sintetiche
considerazioni. Riguardo alla pianificazione delle opere idrauliche, il Registro italiano
dighe - privo di una competenza specifica in materia di programmazione delle opere interviene sulla sorveglianza e il controllo delle dighe e dei progetti relativi alle dighe,
sia in esercizio sia in fase di costruzione.
La domanda che lei ha posto, signor presidente, è estremamente interessante e offre lo
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spunto per svolgere alcune riflessioni. Il problema della sicurezza deve - a mio avviso essere esaminato sotto due punti di vista, il primo dei quali attiene all'affidabilità
dell'opera in sé, requisito ric hiesto ad ogni struttura edificata ed in quanto tale
sottoposta, ad esempio, a rischi di crollo.
PRESIDENTE. Come la diga del Vajont...
MARCELLO MAURO, Presidente del Registro italiano dighe (RID). In quel caso il
problema fu diverso, fu un'altra la causa...
PRESIDENTE. Ha ragione.
MARCELLO MAURO, Presidente del Registro italiano dighe (RID). Personalmente,
sul primo fronte appena considerato, ritengo che non vi siano particolari problemi, in
quanto esiste il Registro italiano dighe - precedentemente esisteva il Servizio nazionale
dighe -, deputato specificamente al controllo di queste opere, che ritengo costituiscano
le uniche opere idrauliche ad essere sottoposte ad un monitoraggio continuo e
sistematico; ad ogni modo, se la Commissione ritiene, potrò in seguito descrivere
diffusamente le azioni di controllo svolte dal Registro italiano dighe sulle dighe in
costruzione o in esercizio.
Vi è poi un altro aspetto da considerare, relativo alla sicurezza idraulica (in caso di
esondazione, alluvione...). Si tratta di un problema che ricade ovviamente nell'ambito
degli studi di pianificazione di bacino. In Italia, come è noto, sono le autorità di bacino i
soggetti preposti alla sistemazione e allo studio dei bacini imbriferi, mentre il piano di
bacino rappresenta lo strumento normativo, conoscitivo, tecnico-operativo con il quale
si interviene in tali bacini. Le dighe rappresentano uno strumento di sicurezza del
sistema appena descritto. Ricordo che la sicurezza delle dighe è stato un argomento
diffusamente esaminato dalla commissione De Marchi, che nel 1970, ad esito dei propri
lavori, presentò un documento conclusivo estremamente accurato, analizzando tutti gli
aspetti di sicurezza idraulica ed ipotizzando la costruzione di serbatoi destinati ad
incamerare le piene nei casi in cui si verificassero; per ogni bacino, venivano inoltre
individuati località e volumi da destinare a questo tipo di funzione.
Sono trascorsi molti anni da allora e naturalmente il problema in parte si ripropone, in
altra deve essere interpretato con una visione diversa, culturalmente più ampia. Una
diga non può servire soltanto a funzionare sporadicamente, ogni qualvolta si verifichi la
piena storica: essa, piuttosto, costituisce un'infrastruttura utilizzabile costantemente.
L'acqua invasata ha un valore e può essere destinata ad usi molteplici, da irriguo a
potabile; la funzione di serbatoio destinato alla laminazione pertanto si concilia bene
con altre (soddisfazione dei bisogni alimentari della popolazione, finalità potabili,
irrigue, o anche industriali come nel caso dell'impiego di risorse idriche per la
realizzazione di centri di energia elettrica).
Un aspetto utile da sottolineare è che nelle autorità di bacino il RID non fa parte dei
comitati di bacino. Forse in una visione di integrazione degli organi che si occupano
della materia potrebbe essere utile che nei comitati di bacino fossero presenti o sentiti
dei rappresentanti del Registro italiano dighe, i quali potrebbero fornire un apporto di
competenza tecnica sugli aspetti di sicurezza idraulica.
Il problema della sicurezza idraulica presenta due aspetti, il primo dei quali è di natura
strutturale: i fiumi devono essere controllati e debbono esserci dei volumi destinati ad
accogliere le piene. Il secondo aspetto riguarda la gestione dell'emergenza, che è
un'operazione di Protezione civile. Ovviamente, più il bacino è strutturalmente
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sistemato, minori saranno le necessità di intervento in situazioni di emergenza. Quindi,
occorre ridurre quel rischio residuo di cui ogni tanto si sente parlare - come
nell'audizione del dottor Bertolaso -, cioè quando si verificano situazioni di rischio
dovute ad insufficienza delle strutture, occorre intervenire in una fase successiva di
emergenza.
Le leggi ci sono e le autorità preposte sono definite, ma probabilmente il problema di
una maggior sicurezza risiede in una migliore integrazione tra i vari soggetti. Forse
questo è un problema organizzativo o di altra natura, ma all'epoca lo stesso De Marchi
sottolineava che tutto si gioca sull'integrazione delle competenze e delle strutture.
Infatti, i bacini idrografici sono organismi fisiologicamente unitari e, quindi, vanno
affrontati e trattati con una logica unitaria, che non sia solo di studio o concettuale ma
anche operativa, cioè con attività da svolgersi in tempi programmati e secondo
metodologie ben stabilite.
PRESIDENTE. Ringrazio il presidente del Registro italiano dighe, che, fra l'altro, ha
posto il problema molto importante della presenza di tale ente nelle autorità di bacino.
Abbiamo visto che la magra del Po è stata superata dall'immissione di acqua presa dal
sistema di dighe che fa capo ad un bacino imbrifero e, quindi, tale presenza è un fatto
importante da proporre nelle nostre conclusioni.
Vorrei sottolineare un altro aspetto che coincide con quello che ha detto la Protezione
civile, cioè le leggi ci sono e bisogna farle applicare: quindi, occorre che tutte le
istituzioni coinvolte dalle leggi nel sistema del coordinamento lavorino perché vengano
applicate. Questo è un altro punto importante che non spinge ad attuare grandi
rinnovamenti legislativi ma, invece, a fare in modo che ognuno svolga i propri compiti
ed operi in coordinamento con tutti gli altri soggetti interessati. Infatti, quanto si parla
della regimentazione delle acque, tut ti gli interventi - ordinari, straordinari, preventivi e
successivi - debbono essere effettuati lavorando in convergenza e non separatamente,
come, purtroppo, spesso avviene in questo paese.
MARCELLO MAURO, Presidente del Registro italiano dighe (RID). A proposito dei
materiali, vorrei aggiungere due questioni. Innanzitutto, sappiamo che ad un certo punto
i serbatoi si interriscono. Ricostituire le capacità dei serbatoi interriti può essere
un'occasione anche per estrarre materiale utile con un doppio risultato: acquisire
materiale utile e ricostituire un volume utile. Nei documenti che consegneremo sono
presenti una breve sintesi dell'attività svolta dal Registro italiano dighe, un volume con
tutte le norme più pertinenti rispetto alla nostra attività ed infine un grafico che riassume
il numero delle dighe costruite nel corso degli anni. Come si può vedere, negli ultimi
anni praticamente non si sono più costruite e il parco di cui si occupa il servizio dighe,
costituito da 548 opere, comincia ad avere un'età media molto elevata.
Sussiste allora un problema di manutenzione delle opere e forse è il caso di effettuare
operazioni di ristrutturazione, cioè demolizione e ricostruzione. Comunque, nessuno
demolisce una diga perché uno dei motivi fondamentali è che non si sa più se si può
ricostruire. Quindi, sarebbe opportuno favorire un'operazione di rinnovo del parco dighe
per motivi di sicurezza e di efficienza generale del sistema infrastrutturale del paese.
Nel nostro documento sono contenuti l'elenco, il numero regione per regione e i volumi
delle dighe. Attualmente il volume di invaso autorizzato è di 12.188 milioni di metri
cubi, cioè 12 miliardi di metri cubi. In Italia mediamente piovono 300 miliardi di metri
cubi d'acqua, di cui una metà filtra e l'altra scorre. Quindi, il fabbisogno italiano di
acqua è di 10 miliardi di metri cubi per uso potabile, 20 per uso irriguo e 5 per uso
industriale, con un totale di 35 miliardi di metri cubi. Di conseguenza, invasiamo 12
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miliardi di metri cubi e l'occorrenza è di 35.
Da un punto di vista teorico sembrerebbe che, comunque, le disponibilità idriche siano
eccedenti il fabbisogno; in effetti, questi sono valori medi, ma poi ci sono gli anni di
magra perché la localizzazione nel tempo e nello spazio non è uniforme. Al momento,
stiamo vivendo una fase di disponibilità idrica; occorre però considerare anche i periodi
di scarsità di risorsa. Ricostruire le dighe o edificarne di nuove, oltre che rispondere ad
una esigenza di sicurezza idraulica per la difesa del suolo e del territorio, permetterebbe
di soddisfare anche il bisogno di disponibilità idrica necessaria ad uno sviluppo
sostenibile del paese. Questo aspetto dovrebbe essere considerato, tenendo conto ripeto - dei problemi che possono verificarsi nei periodi di siccità: in tal senso, reputo
necessario pensare anche alla creazione di serbatoi che abbiano la capacità di regolare
pluriennalmente la risorsa idrica.
Nel caso della Sardegna, la diga della Cantoniera, di recente costruzione, rappresenta
oggi una grandissima risorsa per la regione (800 milioni di metri cubi di acqua): è di
immediata evidenza, del resto, che la possibilità di disporre agevolmente di risorse così
rilevanti per il territorio non potrà che incidere in misura notevole sul tessuto
socioeconomico della nazione. Ricopro il mio incarico da pochi giorni, ma una delle
prime iniziative che tenterò di promuovere sarà quella di dar corso ad uno studio
specifico sull'incidenza delle infrastrutture di cui vi parlo sulla formazione del prodotto
interno lordo nazionale: al di là del valore dell'opera, o della produzione elettrica, oltre
alla destinazione della risorsa idrica ad uso potabile o irriguo, occorre valutare il
beneficio che la presenza di acqua, consentita dai serbatoi, può produrre per il paese. È
sufficiente pensare che esistono località sulla riviera adriatica (è il caso di Rimini) il cui
sviluppo, anche turistico, è favorito proprio dalla presenza di acqua che consente di
utilizzare i beni territoriali più generalmente intesi.
PRESIDENTE. Colgo un altro spunto dalle sue parole. Mi sembra di capire che molte
dighe siano nate intorno agli anni venti e che tra il 1920 e il 1940 si sia verificata la
prima impennata della curva tracciata all'ultima pagina del documento che ci ha
consegnato (un'ulteriore impennata, naturalmente, si verifica tra 1940 e il 1960 ed una
terza tra il 1960 e il 1980). Se ho ben compreso, però, le dighe in origine erano
essenzialmente destinate alla produzione elettrica e non ad altri usi che oggi invece sono
altrettanto importanti. Senza dubbio, necessitando di energia ed avendo rinunciato al
nucleare, noi che attualmente importiamo petrolio otterremmo un grande vantaggio
dalla possibilità di costruire altre dighe per la produzione idroelettrica (ipotesi che ci
salverebbe dal Protocollo di Kyoto, trattandosi di una produzione di energia rinnovabile
e non inquinante). D'altra parte, l'antropizzazione del territorio italiano pone dei limiti a
progetti simili.
Tornando al suo intervento, mi sembra comunque che lei abbia voluto evidenziare la
molteplicità di funzioni a cui una diga è capace di assolvere, dall'irrigazione alla
produzione industriale all'assicurazione di risorse da destinare ad uso potabile.
MARCELLO MAURO, Presidente del Registro italiano dighe (RID). Concorrendo a
porre le condizioni per lo sviluppo turistico...
PRESIDENTE. A suo parere, inoltre, le dighe andrebbero soprattutto rinnovate
periodicamente o, se del caso, edificate ove ciò sia richiesto (come si è dimostrato nel
caso della secca del Po dello scorso anno, quando è stato necessario ridurre gli invasi
per ricostituire l'acqua del fiume, calata al di sotto del limite di navigabilità).
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MARCELLO MAURO, Presidente del Registro italiano dighe (RID). Ritengo siano
molteplici gli aspetti da considerare, ambientali, sociali ed economici.
FRANCESCO BRUSCO. Colgo la presente occasione per invitare il presidente del
Registro italiano dighe a visitare la diga di Alento Montestella, nell'area del Cilento, in
provincia di Salerno. Si tratta di una struttura dotata di un particolare impianto di
monitoraggio, utile anche per altre dighe; non essendo esperto in materia, non sono però
in grado di definire esattamente il tipo di controlli che è possibile svolgere. In ogni caso,
la diga alimenta tutta l'area, soprattutto nei momenti di grave crisi idrica: si è rivelata di
estrema utilità negli anni passati, supplendo esaustivamente alla carenza di risorsa in
un'area peraltro particolarmente sovraffollata in estate per la presenza di turisti lungo la
fascia costiera. Quella diga ha alimentato tutta l'area interessata non solo per
l'irrigazione, ma anche per lo sviluppo turistico. Invito il presidente a tenerne conto,
come esempio cui poter fare riferimento.
MARCELLO MAURO, Presidente del Registro italiano dighe (RID). Ovviamente,
queste infrastrutture oggi vanno viste in un'ottica nuova e non con il sospetto della
cementificazione: esistono dighe bellissime che si inseriscono armoniosamente nel
paesaggio. Naturalmente, perché questo obiettivo sia raggiunto, occorre che le opere
vengano realizzate, interpretate e concepite in simbiosi con l'ambiente per sostenere
l'ambiente, assicurando il deflusso minimo vitale dei fiumi e facendo, così, rifiorire il
paese anche dal punto di vista dello sviluppo socioeconomico.
PRESIDENTE. Quindi, anche se per certi aspetti «violentano» l'ambiente, in realtà lo
sostengono e lo migliorano...
MARCELLO MAURO, Presidente del Registro italiano dighe (RID). Signor
presidente, svolgerò soltanto una considerazione. La regione Toscana, una delle più
belle del nostro paese, è frutto dell'uomo. L'uomo plasma il territorio.
FRANCESCO STRADELLA. L'ingegner Mauro ci ha fornito ulteriori elementi di
riflessione, che però esulano in parte dalla ragione che muove queste audizioni, la
sicurezza dei corsi d'acqua. Certamente, comunque, le questioni che ci ha esposto sono
molto interessanti e - a mio parere - meriterebbero un reale approfondimento, per
valutare esattamente i vari aspetti sollevati in relazione al contributo sociale ed
economico che la presenza di una diga offre ad un territorio.
Alla luce dei problemi evidenziati, un fatto però - già sottolineato dal presidente - mi
lascia veramente perplesso. In una situazione in cui tutti dovrebbero concorrere a creare
condizioni di sicurezza per le popolazioni, limitando al minimo il pericolo potenziale pur sapendo che le popolazioni rivierasche saranno comunque costrette a correre
qualche rischio, per il solo fatto di vivere a stretto contatto con un fiume - mi sembra
inconcepibile che un'organizzazione tecnic amente così importante non faccia parte del
consiglio tecnico delle autorità di bacino. Il fatto che il tutore della diga, l'autorità che
presiede alla sua sicurezza, il suo custode, non abbia nessun contatto con tutto ciò che
accade a valle, mi sembra un fatto assolutamente non accettabile.
Ritengo pertanto che la prima operazione da fare sia proprio quella di consentire che
questo organismo faccia parte a pieno diritto delle autorità di bacino, considerato che si
tratta di un soggetto perfettamente in grado di offrire un contributo di tipo tecnico, come
dimostrano le sue competenze (ad esempio per i casi di interventi di svuotamento, o di
ricostituzione del fondo diga). Non capisco perché in questo paese i corpi dello Stato
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debbano essere sempre separati e non collaborare mai nella funzione, ad essi propria, di
tutelare la sicurezza e l'incolumità dei cittadini.
MARCELLO MAURO, Presidente del Registro italiano dighe (RID). Nell'ambito della
sicurezza, come nel caso di una piena, abbiamo anche la funzione di supportare la
gestione della cosiddetta laminazione dinamica. Tutto ciò non è ancora operativo, ma
dovrà esserlo anche in base alla direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 27
febbraio 2004. Quindi, si dovrà arrivare a gestire lo svuotame nto di un serbatoio in
occasione di un evento di piena in maniera dinamica ed intelligente, in modo tale da
smaltire quel tanto necessario per poter invasare una piena in arrivo e minimizzare gli
effetti negativi a valle.
Noi abbiamo il know how tecnico per poter gestire queste evenienze ma, per effettuare
questa operazione, manca ancora il collegamento hardware tra i serbatoi e le nostre
sedi. Il decreto-legge n. 79 del 2004 ha destinato 5 miliardi al Servizio dighe per poter
rendere operativo il monitoraggio dei serbatoi anche a tal fine: tali disponibilità sono
arrivate e, quindi, ci impegneremo per poter realizzare immediatamente questo sistema.
PRESIDENTE. Molte dighe ed invasi sono di proprietà di società che producono
energia elettrica (ad esempio, le dighe della Valtellina sono di proprietà della AEM di
Milano). Quando fate il monitoraggio e, poi, la programmazione dello svuotamento e
della pulizia, avete il potere di imporre al gestore, al proprietario della diga o all'impresa
che produce energia di intervenire? Per esempio, quando si è proceduto allo
svuotamento per alimentare il Po, chi è intervenuto materialmente per imporre alle
dighe di vuotarsi? Dico ciò anche perché è importante che voi partecipiate ai consigli
delle autorità di bacino.
MARCELLO MAURO, Presidente del Registro italiano dighe (RID). Noi siamo
destinati a fornire solo un supporto tecnico ma, ovviamente, la decisione va presa dal
sistema di Protezione civile. Comunque, una regola precisa stabilisce che, al di là del
concessionario e della concessione, è preminente la funzione di sicurezza sociale: tale
principio esiste, ma si scontra con il fatto che bisogna indennizzarlo.
PRESIDENTE. Chiaramente, se il concessionario svuota la diga o la pulisce perde la
produzione di energia.
MARCELLO MAURO, Presidente del Registro italiano dighe (RID). Quindi, la
decisione è della Protezione civile, ma un qualunque errore o un eccesso può portare a
dover rispondere del danno.
PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti per la loro partecipazione e dichiaro conclusa
l'audizione.
La seduta termina alle 15.20.
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Seduta dell’8 febbraio 2005
Presidenza del Presidente Pietro ARMANI
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La seduta comincia alle 13,40.
Audizione di rappresentanti dell'Agenzia interregionale per il fiume Po (AIPO).
Durata 50 minuti
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, l'audizione di rappresentanti dell'Agenzia interregionale per il fiume Po
(AIPO).
Ringrazio i rappresentanti dell'AIPO per aver corrisposto all'invito della Commissione a
partecipare alla seduta odierna e rendo noto ai colleghi che i nostri ospiti hanno
cortesemente consegnato alla Commissione una documentazione, di cui autorizzo la
pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna.
Do la parola al presidente dell'AIPO, professor Marioluigi Bruschini, che è
accompagnato dall'ingegner Piero Vincenzo Telesca.
MARIOLUIGI BRUSCHINI, Presidente dell'AIPO. Rivolgo un saluto ai componenti la
Commissione e sottolineo l'importanza della questione relativa all'Agenzia
interregionale per il fiume Po. L'AIPO vive, in pratica, da tre anni ed ha preso il posto
del Magistrato per il Po, costituito nel 1959 dopo la rotta di Occhiobello e quella del
Polesine del 1951. Si tratta della prima applicazione regionale, del primo esempio di
organismo gestito dalle quattro regioni interessate: l'Emilia-Romagna, la Lombardia, il
Piemonte e il Veneto.
Pur essendo assessore in Emilia-Romagna, vi parlo a nome di tutti i colleghi delle
regioni appena ricordate (mentre per quanto riguarda una piccola parte del bacino del
Po, cioè i rami sorgentizi della Bormida e del Tanaro, essi non sono entrati nell'AIPO
pur facendo parte dell'Autorità di bacino del Po, così come per la Valle d'Aosta con la
Dora Baltea, che non è nell'AIPO anche se come concetto di bacino vi rientra).
L'Agenzia interregionale si è trovata a ricevere l'eredità del vecchio Magistrato per il
Po. Le sue competenze riguardano la gestione delle opere idrauliche sui tratti di fiumi di
prima, seconda e terza categoria.
PRESIDENTE. Qual è la distinzione tra prima, seconda e terza categoria?
MARIOLUIGI BRUSCHINI, Presidente dell'AIPO. La distinzione è la seguente. La
prima categoria riguarda i tratti di fiume che, come nel caso del Reno, appartengono a
due diversi paesi europei (Francia e Germania). La seconda categoria è il Po e
comprende tutti i tratti arginati, cioè con argini maestri. Il concetto di argine maestro è
molto importante perché in caso di collassamento di un tratto le conseguenze sono
facilmente prevedibili.
PRESIDENTE. I miei antenati avevano una casa sul Crostolo che è stata travolta nel
1966!
MARIOLUIGI BRUSCHINI, Presidente dell'AIPO. Abbiamo costruito una cassa di
espansione sul Crostolo.
PRESIDENTE. Ricordo che io e mia moglie ci recammo a Santa Vittoria di Gualtieri
per vedere cosa fosse accaduto alla casa (ormai non più di mia proprietà, ma di parenti)
però non riuscimmo a trovarla. Incontrammo allora un signore anziano in bicicletta che
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sull'accaduto fece una battuta: disse che il Crostolo avrebbe dovuto rompere gli argini a
Guastalla, ma lì c'era il vescovo!
MARIOLUIGI BRUSCHINI, Presidente dell'AIPO. Di fronte a certi poteri anche
l'ingegneria idraulica si piega!
Mi fa piacere che lei abbia dei legami con il Crostolo che, pur essendo un piccolo
affluente del Po, è comunque assai temibile. Per questo motivo, abbiamo fatto costruire
una cassa di espansione per decapitare eventuali onde di piena e garantire più sicurezza
a quell'area. Le seconde categorie comprendono, quindi, come dicevo, tutti i tratti
arginati.
Le terze categorie, invece, riguardano quei tratti di affluenti del Po (come il Taro, la
Trebbia nel piacentino o la Secchia nel modenese) che non sono arginati e però
rivestono grande importanza dal punto di vista idraulico, perché hanno delle portate di
piena, anche cinquantennale, dai culmini notevolmente pericolosi.
Pertanto, il primo compito dell'AIPO riguarda la gestione di tutte le opere idrauliche
sulle prime, seconde e terze categorie.
PRESIDENTE. Quindi, anche i dragaggi?
MARIOLUIGI BRUSCHINI, Presidente dell'AIPO. Certamente, così come tutto quanto
compete alla officiosità idraulica del tratto del fiume o torrente in questione: insomma,
sono compresi tutti gli interventi che noi chiamiamo di manutenzione ordinaria o
straordinaria, soprattutto a scopo preventivo.
Inoltre, l'AIPO svolge compiti di polizia idraulica, sempre sui tratti di fiume che ho
caratterizzato poc'anzi, di sorveglianza delle opere idrauliche, di controllo e repressione
degli abusi e via dicendo. Vi è poi il famoso servizio di piena, cioè quell'attività che
studia le piene con modelli matematici e gestisce tutte le reti idropluviometriche
disposte nel bacino e, quando si verificano le piene, garantisce una presenza 24 ore su
24, per gestire tali eventi sugli argini.
Questi sono i compiti istitutivi dell'AIPO che, come ho già ricordato, opera da circa tre
anni: in questo lasso di tempo le quattro regioni, che hanno lavorato con una concordia
ed un senso di fraternità notevoli, si sono fatte carico del rinnovamento strutturale, con
il passaggio da quello che era un organismo statale - il Magistrato per il Po, alle
dipendenze del Ministero delle infrastrutture - alla configurazione di un rapporto
contrattuale di lavoro regionale, con un conseguente aumento delle retribuzioni.
Abbiamo infatti introdotto alcuni meccanismi, come le posizioni organizzative, per
incentivare anche la crescita dei quadri interni.
Per tutto quanto attiene alle maggiori spese, come recita il decreto legislativo n. 112 del
1998, lo Stato ha trasferito le funzioni, ma a «costo zero». Gli stipendi sono dunque
identici a quelli erogati tre anni fa: ovviamente, in questo momento paghiamo stipendi
per il personale decisamente maggiori ed il cui onere è stato accollato alle regioni.
PRESIDENTE. Speriamo dunque che, a fronte di maggiori costi, vi sia stato un
incremento di produttività.
MARIOLUIGI BRUSCHINI, Presidente dell'AIPO. Su questo profilo non c'è il minimo
dubbio. Tuttavia, il problema reale è un altro: nella giornata di lunedì prossimo in quel
di Parma - ci ha garantito la sua presenza il direttore generale del Ministero
dell'ambiente, Togni - presenteremo un piano straordinario di interventi per l'anno 2005.
Quello che devo dire, in scienza e coscienza, è che, concluso quest'ultimo sforzo - si
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tratta di grandi opere che coinvolgeranno anche l'annata 2006 - l'Agenzia interregionale
per il Po, a partire dal 2007, si troverà ad avere soltanto qualche finanziamento previsto
dal decreto legislativo n. 112 del 1998 per la manutenzione ordinaria, ma non disporrà
più di alcun fondo per opere strutturali, al fine di intervenire su quei nodi critici mesi in
rilievo dall'Autorità nazionale di bacino del Po.
Quest'ultima, come riportato nelle relazioni che abbiamo fornito alla Commissione, ha
individuato tutte le esigenze strutturali di base dell'intero bacino del Po, compresi
affluenti e subaffluenti, indicando inoltre alcuni punti critici, ovvero quelli più
vulnerabili dell'intero sistema, nei quali, di fronte ad un evento meteo-climatico di un
certo livello, vi sarebbero effetti devastanti. Per ottemperare a quanto indicato
dall'Autorità di bacino, il cui presidente è il ministro dell'ambiente, non abbiamo un
euro a partire dal 2006! Infatti, non vi sono, allo stato attuale, canali di finanziamento
specifici per la questione del bacino del Po.
Le rivolgo, presidente, un appello accorato da parte delle quattro regioni (parlo quindi a
nome anche dei colleghi Ferrero, Moneta e Giorgetti) dal momento che quanto le dico è
stato concordato con esse: ebbene, ad avviso di queste regioni la questione del Po
riveste carattere nazionale. La «messa progressiva», con una costanza di finanziamenti
per un certo numero di anni, del bacino del Po, è condicio sine qua non per fare in modo
che questo segmento socio-economico, che in così grande parte contribuisce alla
ricchezza complessiva del paese, possa essere mantenuto. È una questione nazionale:
come regioni, se pure siamo in grado da sole di mantenere in funzione la macchina del
Po, non siamo in grado di farlo in mancanza di uno sforzo programmatorio e
pianificatorio dello Stato, proprio per garantire l'intervento su quei punti critici che
l'Autorità nazionale di bacino del Po indica, come si può evincere dalla documentazione
che abbiamo prodotto.
Questo è il punto fondamentale: ad esempio, siamo di fronte all'esigenza di mettere in
sicurezza idraulica una città importante come Parma, sede dell' Authority alimentare in
campo europeo; stiamo tentando faticosamente di realizzare le casse di espansione a
monte della città, in corrispondenza del torrente Parma. Questo è un esempio di uno di
quei nodi critici che nei prossimi anni richiederanno un intervento programmatorio.
Essenzialmente, il problema politico fondamentale che le quattro regioni dell'AIPO si
trovano di fronte è quello che vi ho appena testimoniato. Per quanto riguarda i canali di
finanziamento, si sta ormai estinguendo il famoso piano stralcio 45, in passato «motore»
del vecchio Magistrato per il Po. Ormai l'ordinanza di protezione civile n. 3090, riferita
agli eventi alluvionali dell'ottobre 2000, è stata privata di effetti dal capo Dipartimento
della protezione civile Bertolaso a partire dal 31 dicembre 2004. Pertanto, tutti i
finanziamenti dei quali potevamo disporre per eventi eccezionali, attraverso canali di
protezione civile, si stanno ormai estinguendo. Con i lavori che andremo ad effettuare
nei prossimi anni, i fondi saranno esauriti.
Si pone quindi drammaticamente il problema di come questa Agenzia interregionale per
il Po potrà fare fronte alle pesantissime responsabilità che ha ereditato dal vecchio
Magistrato per il Po.
In linea generale, avrei concluso la relazione «politica» a nome delle quattro regioni:
all'ingegner Telesca, direttore dell'AIPO, lascerei una serie di considerazioni sui nodi
critici.
PRESIDENTE. Prescindendo dal problema dei fondi, sicuramente il bacino del Po
rappresenta una grande infrastruttura nazionale, se non altro perché abbraccia quattro
regioni. Lei ha accennato ad interventi di carattere strutturale: vorrei chiarimenti al
riguardo, perché ci interessa in particolare il bacino del Po, compresi gli affluenti, il
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problema dei dragaggi. Mi si dice che vi sono iniziative di carattere «non
regolamentato»: le imprese che raccolgono questo materiale, anche per esigenze di
costruzione, lo fanno talvolta avendo chiesto un'autorizzazione, ma utilizzando poi
questa autorizzazione...
MARIOLUIGI BRUSCHINI, Presidente dell'AIPO. Triplicando o quadruplicando
rispetto all'autorizzazione di base.
PRESIDENTE. D'altra parte, il dragaggio è un fatto importante perché se ogni
anno dalle Alpi e dall'Appennino si scaricano continuamente inerti, attraverso il
dragaggio si può evitare che gli argini diventino sempre più alti alla stregua di vere
e proprie dighe. Questo è un primo problema e bisognerebbe cercare di capire come
intervenire secondo le competenze. In secondo luogo, c'è il problema del ritorno alla
navigabilità del Po. Quando c'è stato un abbassamento, due estati fa, sono state aperte
delle dighe in montagna per ridare tale possibilità.
Vorrei che lei ci illustrasse il suo pensiero su questi due aspetti, anche alla luce degli
interventi di carattere strutturale che avete programmato, per i quali - giustamente chiedete un intervento a livello nazionale, posto che siamo di fronte ad una vera e
propria infrastruttura, al pari di tante altre: come esiste il corridoio n. 5, qui c'è un
grande corridoio est-ovest che all'epoca di Leonardo da Vinci era navigabile. Non si
capisce per quale ragione, sia pure con i limiti dovuti al tipo di natanti che potranno
essere utilizzati, non si possa tornare, almeno in parte, a navigare su questo fiume.
MARIOLUIGI BRUSCHINI, Presidente dell'AIPO. Per quanto riguarda il problema
dell'escavazione in porte e reni golenali in alveo, ci troviamo di fronte ad una
situazione idraulica particolare perché il canale di magra del Po, cioè il settore
dell'alveo centrale, si sta incidendo ed approfondendo sempre di più. Questo fatto
porta ad alcuni problemi.
Il canale di magra ha una larghezza varia, nell'ordine di decine di metri: 30-40-50
metri. Tale canale centrale si chiama, in gergo tecnico, di magra e si sta incidendo ed
erodendo sempre di più. Da ciò deriva che i terreni golenali molto spesso aumentano il
differenziale rispetto al canale di magra. A questo proposito c'è il grande problema delle
escavazioni sul terreno golenale; ne ho parlato anche in sede di comitato istituzionale
del bacino del Po, sottoponendolo all'attenzione del ministro competente in materia e
dando alcune indicazioni.
PRESIDENTE. Quando lei afferma che il canale di magra si approfondisce sempre di
più mentre le escavazioni avvengono sulle aree golenali, cioè ai lati del canale di magra,
intende dire che queste escavazioni sulle aree golenali determinano poi
l'approfondimento del canale di magra?
MARIOLUIGI BRUSCHINI, Presidente dell'AIPO. Non mi permetto assolutamente di
dare delle interpretazioni.
PRESIDENTE. Esiste un rapporto di causa-effetto?
MARIOLUIGI BRUSCHINI, Presidente dell'AIPO. In idraulica è un po' complicato
il rapporto di causa ed effetto, perché ci troviamo di fronte a sistemi che possiamo
comprendere meglio con una epistemologia non tanto lineare, di causa ed effetto,
bensì di circolarità. È difficile affermare che A sia la causa di B e B quella di C: è
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molto azzardato. Su questo punto potrà comunque illuminarci meglio l'ingegner
Telesca. Più semplicemente, intendevo darle un quadro oggettivo per avere degli
elementi in più di valutazione.
Inoltre, abbiamo una situazione di illegalità diffusa rispetto alle norme esistenti e ciò è
testimoniato anche dalle iniziative delle varie procure della Repubblica, come quella di
Reggio Emilia. Ultimamente è arrivata anche una denuncia da parte del presidente della
provincia di Mantova che ha innescato un'altra procedura, sempre da parte della procura
della Repubblica di Reggio Emilia. Noi, come regione Emilia-Romagna, ci affidiamo
all'ARNI, l'Agenzia regionale per la navigazione interna (un'agenzia che, pur essendo
della regione Emilia-Romagna, ha convenzioni e protocolli di intesa anche con tutte le
altre regioni). La navigabilità del Po costituisce una questione di fondamentale
importanza (io sono di Piacenza e, personalmente, mi sono sempre battuto in favore
della navigabilità del fiume). Il Po, sia la riva destra, sia la riva sinistra, costituisce un
unico sistema e le varie problematiche vanno affrontate con una visione sistemica,
integrata: non si può intervenire in maniera difforme sulla sponda destra rispetto alla
sinistra o viceversa.
Noi abbiamo messo in essere una metodologia, attraverso un controllo satellitare GPS,
per impedire i prelievi illegali, che sono abbastanza diffusi, al di fuori di ogni
programmazione ed iniziative stabilite. Molto spesso vi è uno spirito imprenditoriale un
po' eccessivo. Tuttavia effettivamente, a seguito di studi idraulici che garantiscono la
sicurezza dal punto di vista idraulico, c'è la possibilità che una determinata escavazione
non comporti danni. Se prima ho affermato che si incide e si approfondisce l'alveo
centrale mentre si innalzano i terreni golenali, vi è la possibilità di estrarre del materiale,
in certi punti delle golene, senza sconvolgere l'idraulica e la sicurezza. Si tratterebbe,
però, di individuare una cornice nell'ambito della quale effettuare tali prelievi.
Il PAI - piano stralcio per l'assetto idrogeologico attuale - fatto dall'autorità di bacino
(peraltro, ricordo che siamo stati la prima autorità di bacino ad approvarlo nei tempi
debiti, canonici, nel 2000) è ora molto rigoroso e rigido. Anche per interventi di
recupero naturalistico occorre rispettare le dimensioni di metri cubi del materiale che si
può prelevare. Vi sono quindi, per il momento, molti vincoli imposti dal piano stralcio
per l'assetto idrogeologico.
PRESIDENTE. Se c'è un piano, questo va rispettato.
MARIOLUIGI BRUSCHINI, Presidente dell'AIPO. Per quanto riguarda la navigazione
- altro aspetto da lei posto in rilievo - c'è un punto che deve essere superato; si tratta del
famoso sbarramento dell'ENEL di Isola Serafini, in provincia di Piacenza, che
impedisce la navigazione da Pavia, Piacenza, Cremona, Mantova per il tratto di Mincio,
fino a Ferrara. È nei programmi e esistono già i fondi.
PRESIDENTE. C'è anche il problema del porto di Cremona?
MARIOLUIGI BRUSCHINI, Presidente dell'AIPO. Esistono anche altri, svariati
problemi, però la navigabilità del Po, di qui a pochi anni, sarà un tema pronto a rivestire
carattere nazionale. Per questo motivo, quando le nostre quattro regioni affermano che
la questione del Po ha carattere nazionale, ciò vale non solo dal punto di vista della
sicurezza idraulica, ma anche da quello della navigabilità del fiume, cioè della gestione,
della governance - per usare un termine anglofono oggi di moda - dell'intero fiume e di
tutte le attività antropiche che su di esso si possono sviluppare: turistiche, di nicchia,
naturalistiche e via dicendo.
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Peccato che un solo grande scrittore abbia scritto un romanzo sul Po (penso a Bacchelli
con il suo Mulino del Po). Se fossimo in un altro paese, decine di romanzieri avrebbero
scritto su questo fiume. Purtroppo, in Italia non abbiamo mai dato al nostro grande
fiume l'attenzione che meritava.
PRESIDENTE. La ringrazio per il suo intervento. Do ora la parola all'ingegner Piero
Vincenzo Telesca, direttore generale dell'AIPO.
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Sulla questione delle
cosiddette ruspe, delle quali si parla in alcuni consessi, occorre dire che l'argomento ci
crea qualche difficoltà, volendo dare una risposta tecnica. Vivo in Piemonte da
trent'anni e mi sono sempre occupato di difesa del suolo, prima in qualità di funzionario
della regione ed ora presso questa Agenzia.
Devo dire che a partire dagli anni '70, e in particolare dal 1978, vi è stata una forte
avversione rispetto all'estrazione di materiali lapidei nei corsi d'acqua; mi riferisco al
demanio. Questa era più che giustificata perché negli anni successivi al dopoguerra vi è
stato il vandalismo sui corsi d'acqua. Le piene che si sono succedute in quel periodo
hanno mostrato che gli abbassamenti degli argini erano notevoli e che molte strutture,
compresi i ponti, sono crollate per tali motivi.
PRESIDENTE. Forse perché i prelievi erano effettuati addirittura sugli argini.
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. No, non siamo a questi
livelli. Tuttavia i prelievi erano effettuati senza controlli e - pur non avendo elementi
tecnici a supporto - probabilmente l'abitudine era quella di autorizzarne uno per
effettuarne una pluralità.
Nel ventennio successivo, e quindi sino ai giorni nostri, si registra un'inversione di
tendenza: vi sono dati relativi al passato che riguardano l'asta principale del Po, con
riferimento alla parte del ferrarese e del mantovano, nella quale ancora vi sono danni
provocati nel primo ventennio dopo la guerra. Vi sono invece situazioni, sulle
cosiddette terze categorie o sui corsi d'acqua di competenza regionale, rispetto alle quali
i sopralluvionamenti sono notevoli.
Esiste quindi un «gioco morfologico» che va riequilibrato attraverso una serie di piani.
In tal senso, l'Autorità di bacino ha redatto il piano per l'assetto idrogeologico ed
attualmente è all'attenzione di questa una direttiva tecnica per specificare le modalità di
azione e garantire l'ufficiosità dei corsi d'acqua. Parlo del demanio e non dei piani
golenali, perché rispetto a questi ultimi vi sono proprietà private, ad esempio cave,
legate alle concessioni per l'estrazione di materiali lapidei.
PRESIDENTE. Nei terreni golenali vi sono proprietà private?
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Certamente: la maggior
parte dei terreni golenali sono rappresentati da terreni privati. L'attività principale è
quella di estrazione (cave) o agricola (la pioppicoltura).
PRESIDENTE. Vi possono essere anche attività di natura agricola...
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Del resto, come lei sa, il
piano per l'assetto idrogeologico è redatto a sens i della legge n. 183 del 1989, normativa
tesa allo sviluppo economico e sociale; essa tiene conto dunque di tutte le componenti
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dal punto di vista tecnico. A mio avviso, l'autorità di idraulica e quella di bacino si
dovrebbero muovere in modo concorde per individuare una direttiva sulle modalità di
gestione dell'estrazione di materiali in alveo.
Credo che questo rappresenti l'obiettivo principale; sicuramente non possiamo escludere
che vi siano estrazioni abusive. Le inchieste in corso lo dimostrano, nonostante il nostro
impegno come struttura di controllo che dispone di una moltitudine di cosiddetti
sorveglianti idraulici, i quali monitorano il territorio, compresi tutti gli affluenti (l'Adda,
il Sesia, il Tanaro e gli altri fiumi). Vi è un coacervo strutturale di una serie di affluenti
di un certo rango che deve essere considerato nel suo complesso.
Per quanto concerne le situazioni riscontrabili nell'alveo del Po, nella parte navigabile, o
che comunque potrebbe essere potenzialmente navigabile, occorre tenere in
considerazione cosa succede a monte; il piano, in questa direzione, indicherà una serie
di soluzioni.
Su uno dei profili che ha interessato questa Commissione, relativo al grado di attuazione
dell'articolo 10-bis della legge n. 677, devo dire che tale disposto, in passato parte di
una ordinanza, terminerà la sua efficacia alla fine di quest'anno. Varrebbe la pena non
privare di effetti tale articolo di legge, cercando di predisporre un piano, da porre
all'attenzione dell'Autorità di bacino, per comprendere quali debbano essere le valenze
tecniche per sanare questa situazione che è difforme, nel senso che se a valle è grave per
motivi di abbassamento, lo è altrettanto a monte, dove si verificano i
sovralluvionamenti.
Occorre individuare soluzioni tecniche che consentano un bilancio di trasporto solido
fra situazione a monte e situazione a valle, per trovare una condizione di equilibrio che,
riferita ai corsi d'acqua, può essere un'espressione «forte».
Per quanto riguarda le parti strutturali, se pensiamo al Po come potenziale via fluviale di
trasporto, io la vedrei alla stregua di una infrastruttura.
PRESIDENTE. Bisognerebbe applicare dunque la legge obiettivo.
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Tant'è che lo stesso
comitato di indirizzo, lo scorso anno, deliberò nel senso di applicare la legge obiettivo,
considerando il Po come un'infrastruttura. Sicuramente adesso le sue infrastrutture sono
poste a difesa di grandi infrastrutture - l'Alta velocità e le autostrade - e i due aspetti non
possono essere disgiunti.
Abbiamo detto quindi che se il Po deve essere considerato alla stregua di
un'infrastruttura, è necessario che i nodi critici siano risolti, dal momento che le
conseguenze da essi derivanti rappresentano grandi problemi. Se il Po deve essere
navigabile, le confluenze rappresentate dagli affluenti Adda, Tanaro, vanno trattate in
un certo modo, perché possa essere controllato il trasporto solido.
Vanno poi controllate anche le città - ed in tal senso stiamo lavorando con grandi
sacrifici - per realizzare, ad esempio, a Parma una cassa di espansione, un sito molto
ampio dove si raccoglie l'acqua durante la piena (una sorta di vasca da bagno), che
consente di eliminare i picchi di piena. In tal modo, si difende la città.
PRESIDENTE. Mi sembra di ricordare che anche il Ticino, presso Pavia, presenti
qualche problema.
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Infatti, il Ticino
presenta un problema di regolazione perché presso il lago Maggiore questa non può
essere superiore a quella che riusciamo a garantire in questo momento. Vi sono quindi
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problemi legati ai livelli idrici piuttosto grandi, soprattutto nella zona di Pavia, dove si
risente del fatto che il Po sia alto.
PRESIDENTE. In effetti a volte, presso il ponte della Becca, il livello del fiume è molto
alto.
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Noi abbiamo
commissionato uno studio per individuare le migliori possibilità di regolazione per
gestire il fenomeno della piena, perché anche quello è un nodo critico: tutto questo
ammonta ad un miliardo e 107 mila euro, per gli interventi più immediati. Il piano per
l'assetto idrogeologico prevede nel ventennio di gestione circa 7 mila miliardi di euro,
14 milioni di vecchie lire! Questo solo sulle aste di competenza AIPO; se infatti
pensiamo alle aste regionali, superiamo i 20 mila miliardi di vecchie lire.
PRESIDENTE. Per questa ragione occorre fare uscire tali spese dal Patto di stabilità e
crescita, altrimenti non c'è soluzione.
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Mi sono occupato della
legge n. 183 del 1989, presso la regione Piemonte, come coordinatore interregionale.
Devo dire che dopo l'approvazione di questa legge, dopo il 1989, eravamo tutti contenti
di avere finalmente una legge destinata alla difesa del suolo, se pure a fronte di risorse
non enormi ma sicure. Oggi questo non avviene più.
Non solo, nei primi anni la gestione era finalizzata soltanto sulla fase transitoria di
applicazione della norma che prevedeva i cosiddetti schemi previsionali e
programmatici. Adesso c'è il piano. La stessa legge, all'articolo 24, prevede che il
Governo, di anno in anno, in finanziaria stanzi risorse per l'attuazione dei piani. Il Po è
l'unico bacino idrografico che è riuscito a dotarsi di un piano che è vigente, approvato
con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri nel 2001. Quindi, se abbiamo tutte
le caratteristiche formali e sostanziali, perché abbiamo i programmi, tuttavia manca la
continuità della risorsa. Questo è un aspetto molto importante che, ovviamente, non può
che essere risolto a livello centrale.
PRESIDENTE. A questo proposito, c'è stato, purtroppo, un elemento che ha ritardato - e
ritarda - la presa di coscienza di questi problemi. Mi riferisco al conflitto fra le
competenze del Ministero dell'ambiente e quelle del Ministero delle infrastrutture nel
campo idrico ed idrogeologico. Per questo motivo, ritengo che uno dei punti su cui
l'indagine dovrà dare delle indicazioni precise sia proprio questo, così come
sull'applicazione della legge obiettivo al Po in quanto infrastruttura al pari delle altre.
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Vi è poi l'aspetto della
manutenzione, un problema molto sentito. Su questo punto stiamo compiendo enormi
sforzi per impegnare risorse finanziarie al fine di portare avanti vari programmi
manutentivi, però un pari sforzo andrebbe compiuto con la modificazione del decreto
legislativo n. 112 del 1998. Se infatti si pone attenzione all'articolo 7, comma 2, lettera
c) di tale decreto, le risorse che sono destinate alla gestione del demanio idrico - ora
competenza regionale - ogni anno, invece di essere restituite alle regioni, vanno
sottoposte a compensazione, quest'ultima stimata, al tavolo del federalismo
amministrativo, intorno ai 300 miliardi di vecchie lire.
Si tratta di 300 miliardi di vecchie lire che, distribuite sul territorio nazionale,
potrebbero servire a qualcosa, mentre invece 300 miliardi di vecchie lire per il bilancio
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dello Stato non sono una cifra troppo rilevante (insomma, meno trasferimenti in cambio
di 300 miliardi di vecchie lire). Questo è un argomento su cui, a mio parere, andrebbe
fatta una riflessione perché recuperare 300 miliardi all'anno con cadenza fissa
significherebbe per le regioni - è scritto anche nella norma - potere accendere dei mutui.
Quindi, si attiverebbe un processo sicuro, tranquillo, metodico, anno per anno, non
irrilevante. Questo è un tema che ho descritto con molta precisione nella mia relazione.
Infine, vorrei porre una questione che riguarda l'AIPO, un ente nato da poco tempo ma
che ha ereditato una situazione disastrosa dal punto di vista finanziario. Siamo riusciti a
recuperare tutti i residui di stanziamento dal 1996 al 2002: per dirla in euro, sono 290
milioni di euro. Era una situazione veramente spaventosa. Siamo riusciti a spendere, in
18 mesi, 156 milioni di euro, quindi abbiamo prodotto ricchezza per 156 milioni di euro
per obbligazioni scadute: contratti firmati.
La situazione è disastrosa sia per il sistema imprenditoriale, che noi riteniamo come il
nostro braccio destro per realizzare i programmi, sia per il sistema dei privati, che mette
a disposizione i terreni per consentire la costruzione delle opere pubbliche. Su questo
punto siamo stati molto apprezzati, però restano le questioni sui fondi perenti, su cui
chiedo un forte aiuto da parte della Commissione.
PRESIDENTE. Qual è l'ammontare?
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Si tratta di 37 milioni di
euro: non è una grande cifra, però è una questione di interpretazione della norma. Mi
riferisco all'articolo 4 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 27
dicembre 2002. Quella norma prevedeva, al di fuori della contabilità generale dello
Stato, quindi una decisione politica della Presidenza del Consiglio dei ministri, di
trasferire all'AIPO tutte le risorse in capo al magistrato. Noi riteniamo che anche i fondi
perenti rientrino in quella fattispecie.
Pertanto, domando alla presidenza di intercedere presso la dottoressa Cappugi, ancora
commissario straordinario per l'attuazione del federalismo amministrativo, affinché si
dia una lettura autentica di quella norma, perché anche i fondi perenti, in quanto somme
destinate all'ex Magistrato per il Po, vengano trasferiti alla nostra Agenzia al fine di
poter soddisfare debiti verso cittadini che da anni aspettano di essere pagati. Questo mi
pare non irrilevante, posto che vi sono soggetti che avanzano residui in ordine ad
espropri e vi sono attività imprenditoriali che aspettano da anni. Questo crea un grande
problema.
PRESIDENTE. Poiché abbiamo da poco approvato la delega ambientale cui ora
dovranno seguire nove o dieci decreti attuativi, vi si potrebbe inserire anche
un'interpretazione autentica del provvedimento sulla difesa del suolo.
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Lei mi ha letto nel
pensiero; nella mia relazione dico proprio questo: l'occasione è propizia, perché con i
provvedimenti del Governo attuativi della legge delega sulla difesa del suolo si ha
l'occasione per puntualizzare una serie di fatti.
Un'altra questione importante riguarda la mancata attuazione dell'articolo 2 del decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri sul federalismo, in ordine al trasferimento dei
beni mobili e immobili. Anche in questo caso, le chiedo di intercedere presso il
Ministero delle finanze, perché esiste una situazione aperta che ci paralizza.
Tra l'altro, abbiamo scoperto che con la legge sulla cartolarizzazione è stato anche
venduto un nostro ufficio, il che mi pare veramente fuori dal mondo perché tale ufficio
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era tra i beni immobili trasferiti all'AIPO: può pure andarci bene, purché lo Stato ci
paghi l'affitto.
PRESIDENTE. Non è detto che gli immobili strumentali debbano poi essere di
proprietà!
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Occorre però un
chiarimento, perché il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri afferma che i
beni immobili sono trasferiti a...: se ce li vendono ci va anche bene, l'importante è che ci
paghino l'affitto.
Questi sono i due punti che, al termine della mia relazione, sono indicati come di
particolare interesse, anche al fine di un decollo definitivo di questa struttura che sta
garantendo risposte significative ai problemi ereditati.
PRESIDENTE. Nella sua relazione c'è l'elenco degli interventi strutturali?
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Certamente.
PRESIDENTE. Per il porto di Cremona, chi deve intervenire? C'è il problema della
vasca che è stata abbandonata da anni e dovrebbe essere rifatta.
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Noi siamo una struttura
interregionale, anche operativa se le regioni ci chiedono di fare interventi lungo i corsi
d'acqua. La competenza sul corso d'acqua per realizzare le opere può essere delegata
all'AIPO, tuttavia la sorgente finanziaria rimane lo Stato. La regione può essere l'ente
proponente, noi gli attuatori. Questa è la catena.
PRESIDENTE. Uno dei problemi da risolvere per rendere competitiva la viabilità del
Po è quello, per esempio, di mettere in collegamento il porto di Cremona con un
interporto che possa fungere da sito di smistamento. Ad esempio, se trasportando con le
chiatte sul Po materiali inerti, materie prime o rottami di ferro si arriva al porto di
Cremona, qui vi può essere anche un interporto che smista questo materiale attraverso
camion o treni. È un fatto importante, da un lato per rilanciare la via d'acqua, dall'altro
anche dal punto di vista ambientale, perché il trasporto sul fiume comporta una
riduzione degli autoveicoli presenti sulle autostrade.
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Anche il canal Bianco
andrebbe ad integrare questo sistema di trasporto.
PRESIDENTE. A mio avviso, nel documento conclusivo che predisporremo, oltre che
segnalare i problemi della difesa idrogeologica e della sicurezza, dovremmo dedicare
uno specifico capitolo al Po come infrastruttura strategica, nel quadro del sistema del
rilancio infrastrutturale del paese. È un modo anche per garantire la sicurezza.
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Non vi è ombra di
dubbio. Le due cose sono intimamente connesse, perché mantenere i fondali significa
garantire il trasporto solido. D'altra parte, oggi l'Agenzia è una struttura interregionale e
questo rappresenta di per sé una garanzia.
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PRESIDENTE. Mi sembra di capire che con il passaggio delle competenze dall'autorità
nazionale del Magistrato per il Po a quella regionale, attraverso l'Agenzia di
coordinamento interregionale, vi sia stata una sorta di «abbandono» non soltanto in
termini finanziari...
MARIOLUIGI BRUSCHINI, Presidente dell'AIPO. È come se lo Stato dicesse che ora
questa «patata bollente» passa alle quattro regioni.
PRESIDENTE. Vi è quindi un problema anche in termini di attenzione politica sulla
questione.
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. D'altronde, le regioni si
sono mosse perché erano obbligate a farlo ai sensi della legge n. 59 del 1997. In quella
sede è detto chiaramente che la difesa del suolo è a carico dello Stato.
PRESIDENTE. Inoltre, anche alla luce del nuovo testo dell'articolo 117 della
Costituzione, che ha avuto due letture da parte del Parlamento, la competenza in materia
di ambiente è fuori discussione, tanto è vero che l'Autorità di bacino è presieduta
addirittura dal ministro dell'ambiente.
PIERO VINCENZO TELESCA, Direttore generale dell'AIPO. Purtroppo non si
attuano compiutamente gli articoli 24 e 25 della legge in questione, laddove si stabilisce
che ogni anno, nella legge finanziaria, siano previsti stanziamenti di risorse per
l'attuazione dei piani. Nella mia relazione si evidenzia come, in conseguenza di
alluvioni, siamo riusciti a seguire la linea cumulata delle risorse previste dal piano;
terminate le alluvioni, la linea si è arrestata!
PRESIDENTE. Risolti questi problemi interpretativi, e lavorando sempre di fantasia,
dovremmo forse pensare a qualcosa di analogo a quanto accade per i maxilotti della
Salerno-Reggio Calabria: si potrebbe infatti ipotizzare l'applicazione di tali istituti anche
al fiume Po, magari affidandoli a general contractor i quali abbiano, tra l'altro, la
possibilità di ricevere garanzie finanziarie dal sistema bancario, dalla Cassa depositi e
prestiti e dalle assicurazioni. Questo per sganciare tali spese dallo stretto vincolo del
bilancio dello Stato e per reperire forme di finanziamento, anche al di fuori dello stesso
bilancio dello Stato.
Vi ringrazio per il vostro contributo chiarificatore ed efficace. Esamineremo
attentamente le vostre relazioni e, se vi saranno esigenze ulteriori di approfondimento,
vi convocheremo nuovamente in questa sede.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 14,30.
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Seduta del 16 febbraio 2005
Presidenza del Presidente Pietro ARMANI
La seduta comincia alle 15,10.
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Audizione di rappresentanti del Magistrato alle acque di Venezia.
Durata 25 minuti
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, l'audizione di rappresentanti del Magistrato alle acque di Venezia.
Do la parola all'ingegner Maria Giovanna Piva, presidente del Magistrato alle acque di
Venezia, ringraziandola per la sua presenza.
MARIA GIOVANNA PIVA, Presidente del Magistrato alle acque di Venezia. Il
Magistrato alle acque è un'istituzione che, costituita nella sua forma moderna nel 1907,
ha competenze in materia idraulica nell'ambito della laguna di Venezia, nonché alcune
residue competenze in materia di idraulica fluviale. Parlo di residue competenze in
quanto l'attuazione dei «decreti Bassanini» ha trasferito alle regioni la quasi totalità
delle competenze in materia idraulica.
Ciò che è rimasto allo Stato è rappresentato da alcuni corsi d'acqua che fanno parte del
fiume Tagliamento: l'argine sinistro di questo fiume in Friuli- Venezia Giulia; l'argine
del Meduna, sempre in quella regione (entrambi i tratti fungono da confine regionale tra
il Friuli-Venezia Giulia e il Veneto); il fiume Iudrio, che è un fiume di prima categoria
perché stabilisce il confine tra l'Italia e la Slovenia. Oltre a queste competenze fluviali
noi esercitiamo competenze residue, nel senso che completiamo degli interventi che
sono attualmente in atto, come la diga di Ravedis sul torrente Cellina e la sistemazione
dei corsi d'acqua Versa e Iudrio in provincia di Gorizia, proprio perché incaricati dalla
regione di portare a compimento queste attività. Effettuiamo poi, come soggetti
attuatori, per conto della regione Friuli- Venezia Giulia, una serie di altri interventi
sempre in materia di idraulica fluviale.
Il nostro compito precipuo è comunque la salvaguardia fisica della laguna di Venezia,
sancita dalle leggi speciali promulgate dopo l'evento eccezionale del 1966, che hanno
individuato proprio la salvaguardia di Venezia come un preminente interesse nazionale.
Noi ci occupiamo della salvaguardia fisica della laguna di Venezia secondo alcuni filoni
ben precisi: protezione dal rischio di allagamenti; recupero morfologico; arresto e
inversione del degrado.
PRESIDENTE. Avete competenza anche sull'area di Chioggia?
MARIA GIOVANNA PIVA, Presidente del Magistrato alle acque di Venezia.
Certamente, sull'intera laguna di Venezia.
PRESIDENTE. Quindi fino a Grado.
MARIA GIOVANNA PIVA, Presidente del Magistrato alle acque di Venezia. No,
quella è una laguna diversa, separata fisicamente da quella di Venezia: è la laguna di
Marano e Grado, sulla quale noi non siamo più direttamente competenti pur
mantenendo una competenza amministrativa di controllo. Proprio recentemente, infatti,
abbiamo sottoscritto con il presidente della regione, Illy, un atto di intesa perché
svolgiamo, comunque, un controllo amministrativo sugli atti che vengono compiuti
all'interno della laguna di Marano e Grado; quindi non agiamo in prima persona, però
ciò che viene fatto all'interno della laguna è soggetto al nostro controllo.
Per quanto riguarda la laguna di Venezia, intendendo l'intero ambito lagunare che
comprende anche il comune di Cavallino Tre Porti e quello di Chioggia, noi esercitiamo
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un intervento di salvaguardia fisica che consiste nella protezione del territorio dal
rischio di allagamenti attraverso il rialzo delle rive e dei margini; nella realizzazione
delle opere mobili alle tre bocche di porto per l'intercitazione fisica della laguna dal
mare; nella ricostruzione morfologica, evitando che il tessuto proprio e naturale della
laguna, cioè le velme e le barene che sono terre emerse non abitate, venga ulteriormente
ridotto; nell'arresto e inversione del degrado nell'ambito della zona industriale di
Marghera per proteggere la laguna dall'inquinamento.
Queste, per grandi linee, sono le nostre sfere di attività; però, se la Commissione lo
ritiene opportuno, possiamo entrare nel merito di ognuno di questi filoni, individuando
le cause e gli effetti dei fenomeni e illustrando i nostri interventi diretti a contrastarli.
PRESIDENTE. Credo che vi sia stato inviato un documento nel quale sono stati
evidenziati i temi oggetto dell'indagine conoscitiva in corso; quindi saremmo lieti di
ascoltare le vostre argomentazioni in proposito.
MARIA GIOVANNA PIVA, Presidente del Magistrato alle acque di Venezia. Nel
documento che noi abbiamo ricevuto si parla principalmente di opere idrauliche relative
ai corsi d'acqua.
PRESIDENTE. La nostra preoccupazione riguarda soprattutto la tutela dei corsi d'acqua
in riferimento all'arginatura e ai dragaggi. A tale proposito potremmo prendere come
esempio il Po, che nei periodi di magra generalmente non è navigabile. Per questo
motivo ci siamo domandati se si possa operare soltanto sugli argini, oppure, in alcuni
casi, si debba dragare il fiume per ricostituire la navigabilità e, in questo caso,
vorremmo capire quali sono i limiti, i vincoli e se si verifichino sovrapposizioni di
competenze. Ci siamo posti tali problemi perché riteniamo che, dato che non si dragano
più fiumi e torrenti, questo potrebbe essere un aspetto da trattare.
Contemporaneamente, però, esiste il problema dell'arginatura, che deve essere eseguita
man mano che le Alpi e gli Appennini scaricano nei corsi d'acqua molto materiale che
rende necessario alzare gli argini; quindi, ci siamo domandati se il problema del
dragaggio potesse essere non tanto ripristinato, quanto regolamentato alla luce delle
diverse competenze che, in alcuni casi, sono sovrapposte, per cui di fatto, pur non
mancando normative sia legislative sia regolamentari ad hoc, ne paralizzano
l'attuazione.
È questo il quadro che abbiamo cercato di delineare, anche nell'ambito del riassetto di
tipo federalistico che sta avvenendo nel nostro paese con l'eventuale modifica del titolo
V della Costituzione.
MARIA GIOVANNA PIVA, Presidente del Magistrato alle acque di Venezia. Il Po
rientrava nell'ambito delle competenze territoriali del Magistrato alle acque; dopo
l'alluvione del Polesine, nel 1951, venne creato un Magistrato per il Po, quale
emanazione del Magistrato alle acque di Venezia. È vero che la problematica cui lei ha
accennato la riscontriamo anche nei nostri fiumi (si pensi, per esempio, al Tagliamento
o ad altri corsi d'acqua, sia in Friuli, sia in Trentino-Alto Adige, che coinvolgono i
nostri territori).
Premettiamo, comunque, che il trasporto solido a cui lei ha fatto riferimento non è più
così accentuato come nel passato, in quanto la creazione di serbatoi idroelettrici ha fatto
sì che tale trasporto si sia effettivamente ridotto. Esistono, comunque, un trasporto
solido residuo che deriva dai bacini montani ed uno orizzontale, derivante da erosioni e
successivi depositi. Non è possibile pensare di contrastare quest'ultimo con un rialzo
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degli argini, perché si creerebbero ad un certo punto delle strutture che andrebbero man
mano indebolendosi con il progressivo innalzamento degli argini medesimi. Quindi,
effettivamente, in qualche caso bisogna prendere la coraggiosa decisione di creare una
savanella di magra, cioè un filone principale centrale in cui si possa garantire il deflusso
delle acque di magra, contribuendo ad ampliare, nello stesso tempo, la sezione di
deflusso durante gli eventi di piena.
È innegabile che tutto questo si scontra con una serie di fattori. Innanzitutto c'è la
questione della competenza, con le autorità di bacino che sviluppano i piani stralcio (in
quanto un vero e proprio piano di bacino non è ancora stato presentato) dei vari corsi
d'acqua; tali autorità di bacino, se da un lato contemplano questi piani, dall'altro, tutto
sommato, li congelano.
Esistono inoltre aspetti urbanistici e paesaggistici. L'aspetto paesaggistico non è
assolutamente trascurabile in quanto l'autorizzazione secondo i vincoli, generalmente,
sotto l'aspetto paesaggistico, di competenza generale, funge da limitazione rilevante, se
non addirittura da vero e proprio blocco per l'attività estrattiva. Per esempio, per quanto
riguarda il fiume Tagliamento, non siamo riusciti - non solo adesso, ma anche quando la
nostra competenza era globale - a rimuovere addirittura degli ostacoli al deflusso
dell'acqua. Nel caso particolare, si era formata un'isola a causa del deposito di materiale,
proprio in corrispondenza di ponti sul Tagliamento, ma numerosi contrasti di carattere
paesaggistico con la regione Friuli-Venezia Giulia nell'esercizio della sua direzione di
tutela del paesaggio ci hanno impedito di agire.
Si registrano, quindi, sovrapposizioni di competenze in materia idraulica e conflitti di
competenza dal punto di vista urbanistico e paesaggistico.
PRESIDENTE. Su questo tema, un eventuale contributo scritto da parte vostra sarebbe
utile al fine di acquisire ulteriori elementi conoscitivi.
LUANA ZANELLA. Pur non facendo parte di que sta Commissione, per quanto
riguarda il complessivo progetto per la salvaguardia della laguna, vorrei sapere qualcosa
di più sugli interventi alle bocche di porto - senza entrare nel merito della questione,
perché conosciamo le reciproche posizioni - così come desidero conoscere tutte quelle
iniziative previste dalle leggi speciali da cui, effettivamente, non si può prescindere (lei
ne ha fatto menzione nella relazione accennando alle competenze del magistrato) perché
riguardano il recupero morfologico, l'arresto del degrado, i rialzi e via dicendo.
Mi chiedo quanti anni si prevedono per il completamento di tutte queste opere che
avrebbero dovuto già essere ad uno stato completo di effettuazione, prima di operare,
così come dice la legge, un intervento irreversibile alle bocche di porto. Purtroppo,
infatti, uno dei problemi del MOSE (a detta non solo degli ambientalisti e dei Verdi, ma
anche di coloro che hanno collaborato alla progettazione dell'opera all'interno del
consorzio Venezia Nuova), consisterebbe nel procedere ad un'opera di chiusura
irreversibile, quindi priva delle caratteristiche della sperimentabilità e della reversibilità.
A fronte di tale rigidità, quali sono le scadenze e che temporalizzazione esiste rispetto a
tutti quegli interventi che dovevano essere effettuati prima di questo? In poche parole,
vorrei sapere a che punto siamo, quanti anni e quante risorse servono per il recupero
morfologico della laguna, per il suo disinquinamento e per tutto ciò che è necessario alla
sua salvaguardia, per quanto di vostra competenza.
MARIA GIOVANNA PIVA, Presidente del Magistrato alle acque di Venezia. La
domanda dell'onorevole Zanella presupporrebbe una risposta con tanto di data certa. In
realtà, ciò non è possibile perché ci sono interventi che, a mio avviso, non saranno mai
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completati: il recupero morfologico è proprio uno di questi. Sarà difficile riuscire a
rialzare rive e margini secondo la quota dei 110 centimetri, tendenti a 120, stabilita nella
delibera della Presidenza del Consiglio dei ministri. Ciò si deve anche al fatto che
esistono delle zone nevralgiche che difficilmente si potranno mettere in sicurezza.
Già questo progetto richiederà tempi lunghi, anche perché lavorare a Venezia è un po'
come lavorare a Roma: qualunque cosa si vada a toccare, qualunque scavo si
intraprenda, si creano mille ed una complicazione e Piazza San Marco ce lo sta
insegnando!
PRESIDENTE. Cosa sta emergendo dagli scavi a Piazza San Marco?
MARIA GIOVANNA PIVA, Presidente del Magistrato alle acque di Venezia. Sta
emergendo una serie di vecchie pavimentazioni, l'una sovrastante l'altra, che suscitano,
ovviamente, il grande interesse delle sovrintendenze e degli storici. Quindi, tutto è stato
bloccato e si stanno svolgendo grandi discussioni riguardo a che cosa fare, agli studi cui
dare attuazione e così via.
Un altro intervento nevralgico riguarda Rialto. Anche in questo caso, non sarà facile
realizzare il rialzo previsto dalla delibera, proprio per una serie di aspetti relativi al
substrato sociale, per così dire, cioè la presenza del mercato e molte altre problematiche.
PRESIDENTE. È possibile il dragaggio dei canali?
MARIA GIOVANNA PIVA, Presidente del Magistrato alle acque di Venezia. Mentre
il rialzo avrà tempi lunghissimi - come abbiamo osservato - e non siamo in grado di
affermare se per quella data sarà completato, il dragaggio dei canali presenta altri aspetti
non trascurabili. Infatti, i canali sono soggetti a interrimento e anche se, per una
determinata data, riuscissimo ad effettuare tutti i dragaggi - cosa che, per il momento,
non è possibile - è evidente che torneranno a interrirsi, sia per l'alterazione dovuta al
moto ondoso generato dai natanti e dal vento, sia per la trasformazione subita dalla
laguna di Venezia. Quindi, sarà necessario un intervento ciclico.
LUANA ZANELLA. Come è sempre stato, a Venezia.
MARIA GIOVANNA PIVA, Presidente del Magistrato alle acque di Venezia.
Certamente, a Venezia è sempre stato così.
PRESIDENTE. All'epoca della Repubblica, infatti, c'era un apposito magistrato.
MARIA GIOVANNA PIVA, Presidente del Magistrato alle acque di Venezia. Si
trattava dello stesso organo che presiedo, con un'altra denominazione. Infatti,
recentemente abbiamo festeggiato, con un convegno di tre giorni, i 500 anni dalla nostra
fondazione.
Il problema del dragaggio dei canali si correla al cosiddetto protocollo di intesa che, nel
1993, è stato sottoscritto tra il Ministero dell'ambiente, il Magistrato alle acque, la
regione Veneto e il comune di Venezia. Con questo protocollo sono stati classificati i
fanghi, definendo tali i materiali depositati sul fondo della laguna, secondo determinate
categorie. I fanghi di categoria «a» sono assolutamente innocui; quelli di categoria «b»
sono costituiti da materiale parzialmente inquinato; quelli di categoria «c» da materiale
inquinato; infine, i fanghi di una categoria ulteriore, cioè oltre la «c», sono quelli
effettivamente dannosi e devono essere trasportati fuori dalla laguna. Mentre nel 2000
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sono state assunte alcune decisioni e sono state realizzate alcune strutture morfologiche,
cioè nuove barene, anche utilizzando i fanghi di tipo «b», che interessano il 70 per cento
della laguna, a causa di una serie di problemi non si riesce più a ricreare una struttura
morfologica del genere, possiamo dire per l'opposizione del Ministero dell'ambiente.
Tanto che è stata emanata una ordinanza della protezione civile, con la quale è stato
nominato un commissario competente in materia di fanghi, che deve individuare il
modo di superare questa impasse legislativa. In tal modo, sarà possibile per il
Magistrato alle acque individuare i siti di conferimento dei fanghi; questo, infatti,
rientra nelle nostre competenze.
PRESIDENTE. Ringrazio il presidente Piva, invitandolo, se possibile, ad inviare a
questa Commissione la documentazione relativa ai problemi che sono stati trattati.
MARIA GIOVANNA PIVA, Presidente del Magistrato alle acque di Venezia.
Possiamo inviarvi il documento che già avevamo predisposto, integrato con un
riferimento alla idraulica fluviale.
PRESIDENTE. Ringrazio gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 15,35.
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Seduta del 17 febbraio 2005
Presidenza del Presidente Pietro ARMANI
La seduta comincia alle 14,10.
Audizione di rappresentanti della Conferenza dei presidenti
delle regioni e delle province autonome.
Durata 65 minuti
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, l'audizione di rappresentanti della Conferenza dei presidenti delle regioni e
delle province autonome.
Ringrazio per la loro partecipazione l'assessore ai lavori pubblici, difesa del suolo e
protezione civile della regione Piemonte, dottoressa Caterina Ferrero, il direttore della
direzione difesa del suolo della regione Piemonte, architetto Nella Bianco, il funzionario
della regione Toscana, dottor Stefano Squaglia, il rappresentante della regione
Basilicata, Domenico Ragone, ed il rappresentante della segreteria della Conferenza dei
presidenti delle regioni e delle province autonome.
Conoscete già le finalità della nostra indagine conoscitiva perché avete avuto il nostro
documento. Noi ci poniamo soprattutto un problema, che è anche una mia
personale curiosità: per quale motivo non si dragano più i torrenti e i fiumi? Mi
dicono che ci sono degli incroci di competenze e che le leggi esistono ma non vengono
applicate; inoltre, sussiste il problema degli scavi abusivi e, quindi, l'utilizzo del
materiale che viene scavato nei fiumi e nei torrenti. Per 17 anni sono stato professore
all'università di Pisa e ricordo che il granduca di Toscana - in particolare gli Asburgo-
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Lorena e non i Medici, soprattutto Pietro Leopoldo - aveva rilanciato l' ufficio dei fiumi
e dei fossi, che periodicamente, imponendo agli agricoltori di dragare i fiumi, i torrenti,
i fossi e i canali, aveva creato un meccanismo graduale e sistematico di loro pulizia.
Quindi, di fronte a fenomeni di alluvione che si determinano periodicamente - ahimé,
anche in Piemonte - la manutenzione degli argini è fondamentale perché rappresenta un
aspetto importante per la difesa del suolo in quelle zone. Tuttavia, se tuteliamo gli
argini, e magari nei grandi fiumi tendiamo ad alzarli in continuazione, mano a mano che
il letto si riempie di materiale inerte, ma non scaviamo e non lo portiamo via, si crea il
rischio degli argini pensili. Con la tracimazione del Crostolo del 1966 la casa della mia
famiglia - che veniva da Santa Vittoria di Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia - è
stata completamente spazzata via. Quindi, per quali motivi - probabilmente tali
interventi ci sono ma non li ho presenti - non si puliscono i torrenti e non si regolamenta
l'escavazione, visto che, fra l'altro, il materiale ricavato dalle sabbie può servire anche
per l'attività edilizia?
Ci siamo posti tale problema da non esperti della materia e, quindi, ci rivolgiamo alle
persone competenti per avere dei lumi.
FRANCESCO STRADELLA. Volevo aggiungere che, con tutto il rispetto per il
granduca di Toscana, anche Cavour ha fatto qualcosa in materia.
PRESIDENTE. Volendo anche Leonardo da Vinci ha fatto i Navigli di Milano.
Do ora la parola ai nostri ospiti, iniziando dalla dottoressa Caterina Ferrero, assessore ai
lavori pubblici, difesa del suolo e protezione civile della regione Piemonte.
CATERINA FERRERO, Assessore ai lavori pubblici, difesa del suolo e protezione
civile della regione Piemonte. Ringrazio il presidente per aver voluto introdurre un
argomento che anche le regioni ritengono molto importante. Premetto che sono meno
tecnico di lei, ma oggi insieme a me ci sono anche dei supporti tecnici con i quali si può
sicuramente approfondire questa materia. Sono assessore della regione Piemonte e,
quindi, come i miei predecessori, dopo l'alluvione del 1994 e del 2000, ho vissuto la
situazione del settore delle manutenzioni idrauliche in modo molto pesante. Infatti,
dopo l'alluvione del 1994 in quel contesto è emerso che una delle cause
dell'alluvione erano state le eccessive asportazioni di materiale dai corsi d'acqua. Il
problema è che, successivamente a questo momento storico particolarmente difficile per
il Piemonte e per le altre regioni che sono state coinvolte da queste alluvioni, la reazione
non è stata quella di determinare un comportamento più razionale sull'utilizzo del
materiale nei corsi d'acqua, ma un ragionamento per cui era successo e, quindi, non si
poteva fare più nulla.
Tutto ciò non necessariamente per scelte del Piemonte, perché nel frattempo hanno
cominciato a profilarsi le attività all'interno delle autorità di bacino e si è determinato il
piano per l'assetto idrogeologico; quindi, si sono avviate tutta una serie di norme e di
attività che hanno coinvolto le regioni nella pianificazione del territorio e nella
conoscenza del rischio sicuramente più impegnative rispetto agli anni precedenti.
PRESIDENTE. Ma si è trattato di una produzione esclusivamente cartacea?
CATERINA FERRERO, Assessore ai lavori pubblici, difesa del suolo e protezione
civile della regione Piemonte. No, le attività delle autorità di bacino, con tempi molto
diversi, hanno ovviamente avuto un seguito rispetto agli atti in nostro possesso: se non
ricordo male, su trenta piani, circa una ventina sono..
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NELLA BIANCO, Direttore della direzione difesa del suolo della regione Piemonte. Se
permettete, vorrei dire che su trenta piani di bacino di rilievo nazionale ed
interregionale, ventiquattro sono in uno stato nel quale non è possibile tornare indietro.
Sono cioè adottati o in consultazione; a volte sono in dirittura d'arrivo. Sei sono stati
approvati e tra questi sei - è da notare - uno è il piano del bacino del Po. Sono otto
regioni ( una parte cospicua di territorio), per un 40 per cento del prodotto interno lordo
italiano. Questa è la situazione: dalla pianificazione di bacino si è sviluppato ormai un
sistema sufficientemente maturo.
CATERINA FERRERO, Assessore ai lavori pubblici, difesa del suolo e protezione
civile della regione Piemonte. Questo per riportare un dato relativo alla pianificazione
del territorio e sulla base della conoscenza del rischio. La materia delle manutenzioni
idrauliche è stata una materia che, con difficoltà, ha ripreso a muoversi negli ultimi
anni, nel senso che, come è ovvio, attività legate a delibere, che sono state adottate
all'interno delle varie regioni e attraverso piani di manutenzione idraulica, si sono
rimesse in moto nell'ambito di una competenza che è ripartita a diversi livelli.
In buona sostanza, io individuo due profili: l'autorità di bacino e le regioni per quanto
riguarda il reticolo idrografico di competenza regionale; oppure gli organismi
interregionali, nel nostro caso rappresentati dall'AIPO, l'ex magistrato del Po, che, come
autorità idraulica, interviene nell'esprimere un parere «idraulico» sulla concessione.
Riteniamo che l'attività di manutenzione dei corsi d'acqua debba assolutamente essere
uno degli elementi sui quali si articola la pianificazione. Attraverso il cosiddetto PAI,
si sono individuate le modalità con le quali identificare i siti per le casse di
laminazione.
PRESIDENTE. Cosa si intende per casse di laminazione?
CATERINA FERRERO, Assessore ai lavori pubblici, difesa del suolo e protezione
civile della regione Piemonte. Si tratta di aree di espansione dei corsi d'acqua per
consentire loro di superare il momento della piena. Sono stati individuati vincoli e
modalità attraverso i quali devono essere create opere di difesa arginali.
Il terzo tassello importante, che riteniamo debba riprendere la propria attività, è quello
della manutenzione idraulica, non rappresentato esclusivamente dall'asportazione di
materiale (può infatti trattarsi di movimentazione o di semplice «pulitura» degli argini).
Questo non soltanto e necessariamente attraverso le risorse previste dalla legge n. 183
del 1989, che sono sempre in diminuzione - lo dico quindi in una sede che può essere
«sensibile» al riguardo - rispetto a quelle alle quali si era abituati. Purtroppo, devo dire
che, grazie alle conseguenze in termini di flussi finanziari che le alluvioni hanno portato
sul territorio, si è cominciato ad agire. Se si tiene conto dei flussi finanziari che la legge
n. 183 ha garantito in questi anni, si potrebbe tranquillamente dire «meno male che sono
arrivate le alluvioni», che hanno permesso un flusso di risorse finanziarie assai intenso
per poter definire meglio le cose. Con queste risorse, in questi anni, non si è soltanto
ricostruito, ma si è anche messo in sicurezza il territorio alla luce delle prescrizioni
normative. Pertanto, le risorse sono in qualche modo arrivate e, come regione, questo
viene valutato positivamente.
Inoltre, occorre tenere conto che, per predisporre un'utile pianificazione, occorre anche
interrogarsi, nel dialogo con il livello nazionale, sul flusso di risorse che la legge n. 183
riesce a garantire. Infatti, se la scelta è stata quella di considerare, a mio avviso
giustamente, che la difesa del territorio e del suolo sia materia di interesse nazionale, sia
pure a legislazione concorrente, è necessario porre tutti nelle cond izioni di agevolare le
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scelte che «a monte» sono state fatte. Per quanto riguarda la manutenzione dei corsi
d'acqua, un'esperienza nata in regione Piemonte è stata quella di predisporre una
delibera che individua due tipologie d'asportazione di materiali. La prima è costituita
dalla classica concessione idraulica, immaginando quindi un limite massimo di
circa diecimila metri cubi, attraverso il semplice rilascio della concessione, su
presentazione del progetto. Con le regioni si è anche valutata l'opportunità di
incrementare leggermente tale limite, arrivando a prevedere la quota di circa trentamila
metri cubi, valore rispetto al quale tranquillamente può essere rilasciata una
concessione.
Per le altre attività, si è scelto di predisporre annualmente veri e propri piani di
manutenzione. L'AIPO, che è la nostra agenzia interregionale, ha adottato questo
strumento; anche in altre regioni, connesse al bacino del Po, queste attività si stanno
mano a mano riprendendo. Vi sono difficoltà, perché è ovvio che di fronte ad una
ripresa così evidente di queste attività, esistono una serie di dubbi, che anche la stessa
autorità di bacino si pone, cercando giustamente di individuare i criteri di massima
attraverso i quali consentire alle regioni di adottare questi piani.
In attesa di questo, noi stiamo andando avanti, tenendo presente che un altro dei
problemi che la pubblica amministrazione deve valutare ed affrontare è rappresentato
dalla differenza esistente tra l'esigenza di materiale per fare costruzioni, strade e
quant'altro e la difesa del suolo. La manutenzione idraulica non può essere la risposta
alla richiesta di materiale da parte di una certa categoria di imprenditori, che
giustamente devono fare il proprio mestiere.
PRESIDENTE. Deve essere una ricaduta!
CATERINA FERRERO, Assessore ai lavori pubblici, difesa del suolo e protezione
civile della regione Piemonte. Deve trattarsi di un'opportunità che questa categoria
coglie, nel momento in cui esistano esigenze di manutenzione. Vi sono infatti stati
momenti nei quali la regione ha avuto una qualche difficoltà, nel senso che la richiesta
di materiale voleva essere assicurata. L'interlocutore non è la «difesa del suolo»; lo può
essere nel momento in cui si attuino sul territorio politiche di piano, che sicuramente
soddisfano una parte di queste esigenze.
PRESIDENTE. Perché il piano si realizza nel tempo, e, nel tempo, vi possono anche
essere questi prelievi che servono all'attività di costruzione.
CATERINA FERRERO, Assessore ai lavori pubblici, difesa del suolo e protezione
civile della regione Piemonte. Un ulteriore elemento che tengo a sottolineare è
rappresentato dal principio di compensazione. Vi è una legge nazionale, i cui effetti, se
non erro, sono stati prorogati ancora di un anno, che rappresenta, a mio avviso, una
delle opportunità sulle quali impostare un piano di manutenzione.
Il principio di compensazione prevede che, a fronte di opere idrauliche che devono
essere effettuate lungo i corsi d'acqua, si possa sostanzialmente pagare il lavoro
dell'impresa che opera attraverso parte o tutto di questo materiale. Non necessariamente
questa deve essere l'unica modalità, ma potrebbe essere utile considerarla come una
delle modalità.
L'ultimo aspetto sul quale si sta lavorando è quello delle tariffe, cioè quanto vale il
materiale, che blocca ed ingessa l'attività di manutenzione perché in alcune aree il
materiale vale di più ed in altre non vuole prenderlo nessuno. Attualmente esistono delle
tariffe, che penso facciano riferimento al Ministero delle finanze, che non sono
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appetibili per i livelli territoriali. Quindi, si sta cercando di far sì che le regioni - il
Piemonte ha avviato questo processo - rivedano il discorso delle tariffe, in modo da
rendere più appetibile quel materiale che in alcune zone montane nessuno vuole
prendere per via dei costi.
Di conseguenza, non ci sono difficoltà a muoversi in questa direzione, ma occorrerebbe,
ognuno con le proprie competenze, inserire qualche procedura o aspetto che permetta di
semplificare attività che sono assolutamente importanti, ma parallele a tanti altri
interventi, per prevenire gli eventi.
Non costituiscono sicuramente l'unica modalità per evitare le alluvioni, anche perché i
tecnici spesso ci dicono - ad esempio, nelle autorità di bacino - che, dalle valutazioni
delle conseguenze positive o negative rispetto ad una manutenzione idraulica fatta a
larga scala, in alcune aree dove sembrerebbe doversi portare via una grande quantità di
materiale, in realtà il beneficio idraulico complessivo che si avrebbe non è così
significativo. Quindi, noi che facciamo questi piani dobbiamo confrontarci anche con
questa affermazione, non confutarla ma, comunque, dimostrare che non è proprio
sempre così.
Infine, esistono delle esperienze che stanno maturando come proposta di project
financing su queste attività. Il Piemonte non le ha mai sperimentate e mi pare che stia
nascendo una disponibilità a valutarle.
PRESIDENTE. Quindi, si tratta di coinvolgere dei privati nella realizzazione e nel
finanziamento di alcuni interventi, in cambio di una redditività a fini privati
dell'intervento stesso: questo è il concetto del project financing, almeno applicato ai
lavori pubblici.
CATERINA FERRERO, Assessore ai lavori pubblici, difesa del suolo e protezione
civile della regione Piemonte. Tenendo presente che è uno degli escamotage che si
stanno valutando, ancora non applicati, qualora la tendenza dei trasferimenti fosse
quella che abbiamo notato fino adesso.
PRESIDENTE. Ho un'altra curiosità. Noi abbiamo posto proprio all'AIPO un ulteriore
elemento che interessa la Commissione in quanto competente per i lavori pubblici, cioè
il problema del ritorno alla navigabilità del Po, che, secondo me, è un'infrastruttura
importante (tra l'altro, quasi parallela al corridoio ferroviario 5 Torino-Trieste). Quindi,
reintroducendo la navigabilità del Po si allevierebbe il trasporto di alcuni materiali,
soprattutto quelli di maggior ingombro. Una volta il Po era navigabile e non si vede per
quale ragione non debba tornare ad esserlo, come sono navigabili molti fiumi del nord
Europa.
NELLA BIANCO, Direttore della direzione difesa del suolo della regione Piemonte.
Vorrei partire da questa ultima curiosità con una data. Nel 1933 abbiamo avuto il primo
progetto di porto fluviale nella città di Torino e da allora l'argomento trasporto fluviale è
stato valutato ed analizzato. Per la regione Piemonte il trasporto fluviale, in termini di
trasporto paragonabile alle vie d'acqua dell'Europa, non è praticabile perché, proprio a
partire dal 1933 in poi, si è studiato un porto fluviale a Torino, a Casale e poi ci si è
allontanati, ma Isola Sant'Antonio è la prima zona in cui il regime idraulico del fiume è
stabile, cioè esattamente all'uscita della regione Piemonte.
PRESIDENTE. Infatti, il porto sarebbe a Cremona.
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NELLA BIANCO, Direttore della direzione difesa del suolo della regione Piemonte.
Invece, la regione Piemonte fatica a tenere una navigazione turistica modestissima di 6
chilometri sul tratto urbano del fiume a Torino, perché si tratta di mantenere praticabile
e libere delle vie di accesso ai sei o sette attracchi da parte di battelli turistici di portata
modesta, attorno alle 50 persone ciascuno.
Quindi, in Piemonte la navigabilità, intesa come sfruttamento serio e costante della via
d'acqua, richiederebbe ogni anno una tale attenzione a mantenere libere e praticabili le
vie di accesso che, francamente, il gioco non varrebbe la candela. In Piemonte, forse,
attorno alla via d'acqua potrebbe svilupparsi una forma di fruizione ludico-sportiva, che,
da una parte, per il capoluogo di Torino è un parco urbano e, dall'altra, è stata
contornata da piani di parchi, in quanto non ha le caratteristiche di stabilità di un corso
d'acqua utilizzabile in via permanente per la navigazione. Il trasporto fluviale ha indubbi
vantaggi ma riguarderebbe la parte a valle del Piemonte, dove le sezioni sono stabili.
Giustamente l'assessore diceva che il problema delle manutenzioni, cioè l'estrazione di
inerti dai corsi d'acqua, sconfina con la risorsa economica utilizzata a vari fini. Sui corsi
d'acqua della regione Piemonte sia l'autorità di bacino sia l'AIPO vi avranno già
evidenziato che, mediamente, gli alvei si sono abbassati. Quindi, quando parliamo di
manutenzione in alveo parliamo di ripristino delle sezioni di deflusso, cioè un lavoro
piuttosto delicato, fino a riportare le sezioni all'officiosità e non di più. Il problema
collaterale di disporre di inerti in regione Piemonte è scaturito improvvisamente con
l'approvvigionamento per l'alta velocità e per le opere olimpiche. Non era pensabile di
estrarre il materiale o di prefigurare in futuro un piano di estrazioni esclusivamente in
alveo. Quindi, la contingenza di dover procurare quantità di inerti incompatibile con il
ripristino dell'officiosità dei fiumi ha fatto sviluppare sia in regione sia in autorità di
bacino l'altro concetto della rinaturazione dei corsi d'acqua.
Chiaramente la regione Piemonte sta a monte di tutto il corso fluviale e da sempre
le regioni a valle ci chiedono di trattenere il più possibile l'acqua sul territorio
regionale piemontese. Ieri erano casse di laminazione e in futuro saranno o
potranno essere anche opere di rinaturazione, cioè di prelievo degli inerti per
consentire la divagazione o il ripristino di divagazioni del fiume. Prima ho detto che in
Piemonte il fiume si configura prevalentemente come fruizione ludico-sportiva perché
queste modalità - attraverso le quali si riesce ad invasare l'acqua, a trattenerla e a
continuare a fruire delle risorse fluviali - alla fine si configurano all'interno di parchi
fluviali. Quindi, con l'autorità di bacino si sta valutando una direttiva sulle rinaturazioni,
cioè sulle possibilità di escavazione anche di materiale pregiato laddove queste
pseudocasse di laminazione, cioè queste capacità di invaso, hanno senso dal punto di
vista della regimazione idraulica del fiume. Quindi, si avrebbe il vantaggio di
trattenere l'acqua a monte del corso del Po, accontentando, di fatto, le regioni a
valle, che vedono malissimo le opere di arginatura in Piemonte perché, ovviamente, è
un canale di scorrimento veloce e di maggior conferimento d'acqua a valle.
Si stanno valutando queste possibilità di ripristinare le golene o le lanche in grado di
trattenere la piena. Qui interviene il discorso che a mio avviso impropriamente viene
detto project financing, ma che in realtà è piuttosto una compensazione pubblicoprivato, dal momento che non c'è una «resa» al termine dell'intervento. Il vantaggio del
privato è rappresentato dal fatto che lo si compensa in corso d'opera. Siamo più
nell'ambito della categoria del proponente di opera pubblica, ai sensi della legge
Merloni.
Questo è quanto sta maturando sul piano dei convincimenti, pensando più che alla
tradizionale escavazione in alveo per il ripristino della ufficiosità dei fiumi,
all'estrazione di materiali inerti, a fini di rinaturazione e allo scopo di trattenere e
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laminare l'acqua, là dove questo ha un senso a fini idraulici. Questo a grandi linee è il
quadro, ed in queste modalità può esservi spazio per un'analisi del concorso pubblicoprivato.
Come regione Piemonte, l'attività di manutenzione, attraverso lavoro compenso, grosso
modo rappresenta la metà delle opere di manutenzione idraulica negli ultimi anni. Nei
documenti che abbiamo consegnato vi sono tutti i dati relativi a questi profili (cubatura,
costi e quant'altro). La documentazione è costituita da una prima parte, quella del
Cinsedo, con la sintesi delle osservazioni interregionali; in allegato vi è poi il dettaglio
della regione Piemonte e quelli di altre otto regioni.
DOMENICO RAGONE, Rappresentante della regione Basilicata. L'Autorità della
quale faccio parte investe per competenza due regioni, Puglia e Basilicata, ed una
piccola parte della Calabria.
Premetto che la regione Basilicata attribuisce grande importanza alla risorsa idrica in
generale, perché, come si sa, noi abbiamo stipulato, tra le prime regioni in Italia, un
accordo con la Puglia. Si immagini che la Basilicata conta appena 600 mila abitanti e la
Puglia quasi 4 milioni e che la gran parte dell'acqua che viene erogata dal territorio della
Basilicata termina in Puglia. Gran parte dell'approvvigionamento idrico della Puglia
avviene attraverso le risorse raccolte in Basilicata.
A questo si aggiunga anche che la gran parte delle risorse idriche distribuite per il
potabile sono di superficie. Ciò comporta un'attenzione enorme nei riguardi delle
vicende geomorfologiche del territorio. Più della metà del territorio della Basilicata, là
dove si producono queste risorse idriche...
PRESIDENTE. Nella zone del Parco del Pollino!
DOMENICO RAGONE, Rappresentante della regione Basilicata. Anche e non solo: i
fiumi principali che «sversano» nello Jonio sono infatti il Basento, il Bradano ed il
Sinni. A quasi metà del percorso di questi fiumi, esistono opere di trattenimento
impone nti. Si tratta di grossi invasi: ad esempio, ricordo quello relativo al Sinni, vicino
a Nova Siri, nelle prossimità del Pollino, dove esiste una delle più grandi dighe in terra
battuta d'Europa. Può raccogliere circa 500 milioni di metri cubi. Complessivamente, la
Basilicata con i propri invasi raccoglie circa un miliardo di metri cubi di acqua.
Gran parte di queste risorse termina in Puglia e, per una parte, in Basilicata, destinata ad
usi plurimi: potabile, ma soprattutto irriguo ed industriale. Per esempio, l'Ilva di
Taranto, l'ex Italsider, si approvvigiona di acqua della Basilicata (le forniamo
costantemente circa 400 litri d'acqua al secondo). Peraltro, i due acquedotti sono adesso
separati; Puglia e Basilicata hanno infatti rispettivamente un acquedotto pugliese ed uno
lucano.
PRESIDENTE. Sono stato per 11 anni vicepresidente dell'IRI ed ho inaugurato l'ultimo
altoforno di Taranto, ahimè in piena crisi siderurgica. Allora, vi era una vertenza
sull'approvvigionamento idrico.
DOMENICO RAGONE, Rappresentante della regione Basilicata. Le dirò di più: lo
stabilimento Ilva ci richiede acqua pura; nemmeno riciclata, attraverso i suoi processi
industriali, né acqua mista o quasi salina!
PRESIDENTE. Perché i costi di dissalazione sono maggiori, evidentemente! Il
proprietario dell'Ilva è uno che i conti li sa fare bene!
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DOMENICO RAGONE, Rappresentante della regione Basilicata. Credo che l'Ilva si
stia riprendendo, attraverso un piano di rilancio. Tra l'altro, nonostante le ultime
vicissitudini della stabilimento Fiat di Melfi, tutta la parte relativa alle carrozzerie (gli
stampaggi), è presa dall'Ilva di Taranto. Vi è quindi una sinergia industriale tra le due
regioni e tra i due comparti industriali.
Tornando all'aspetto della manutenzione dell'assetto idrogeologico della regione in
rapporto a queste risorse, proprio attraverso l'accordo fra Puglia e Basilicata, l'acqua è
infatti un bene in qualche modo indisponibile, per cui la Puglia non paga l'acqua in sé
come fosse petrolio. Noi forniamo loro un bene indispensabile e ne ricaviamo un
riscontro finanziario per mantenere il territorio, sia i bacini idrogeografici sia la
forestazione.
Questo ci aiuta a mantenere una condizione «passabile» del territorio: stiamo
cominciando da pochi anni. Tuttavia, i problemi del territorio lucano sono enormi. A
partire da Giustino Fortunato, vi era il problema delle terre di Basilicata assai franose!
Attualmente, il problema si è aggravato, soprattutto nella piana del Metapontino. Lei sa
che questa piana è stata bonificata e che rappresenta una grande risorsa territoriale. I
maggiori danni derivanti dalle alluvioni sono presenti proprio nel Metapontino, dove
sono localizzati un'agricoltura da avanguardia, nonché insediamenti turistici di
prim'ordine. Ciò comporta un'attenzione particolare: con l'Autorità di bacino stiamo da
due anni completando lo studio delle fasce di esondazione, avendo dato in appalto uno
studio che consente e consentirà di monitorare in tempo reale le fasce di fondazione a
50 e a 200 anni. Attraverso il piano che ne deriva, noi potremmo autorizzare o meno gli
insediamenti e autorizzare o meno la sdemanializzazione di queste fasce. Sicuramente il
problema esiste. Per esempio, nel 1958 - all'epoca non c'erano tutte le riserve
ambientalistiche sull'estrazione da fiume, come poi è accaduto dagli anni '80 in poi - c'è
stata la più grande alluvione del Metapontino, fenomeno provocato, soprattutto in
autunno, da due circostanze: lo scirocco e le piene dei fiumi. Infatti, lo scirocco trattiene
verso l'interno tutto il deflusso e, quindi, fa sollevare il livello interno. Tra l'altro, una
parte del Metapontino è anche ad una quota inferiore al livello del mare e, quindi, una
serie di idrovore devono pompare l'acqua verso lo Jonio: tutto questo significa spese ed
un dispendio enorme di energie. Gli agronomi mi spiegavano che, comunque, le
alluvioni potevano sopraffare le opere che vennero realizzate con la bonifica. Inoltre,
esiste il problema dello sversamento perché, ormai, le dighe sono piene. Di
conseguenza, lo scioglimento delle nevi, l'associazione della pioggia e lo sversamento,
che nell'arco di poche ore è di diversi milioni di metri cubi, comportano un'attenzione
particolare - che cerchiamo di porre in atto anche attraverso le nostre risorse, derivate
dai fondi comunitari, dalla regione Puglia e dallo Stato -, ma sussiste la necessità di
interventi più strutturali. Ho lavorato 15 anni alla programmazione regionale - quindi,
conosco bene tali questioni - e mi ricordo che negli anni '80 la regione Basilicata investì
molto sulle arginature, chiaramente con il dovuto rispetto ambientale, attingendo
proprio dai fondi FIO. Sul territorio non ci sono più stati degli interventi di quelle
dimensioni, per cui la pianificazione è necessaria e noi la stiamo perseguendo, anche se
negli ultimi anni non c'è stato il relativo riscontro di risorse.
PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi che intendano formulare delle domande o
richieste di chiarimenti.
FRANCESCO STRADELLA. Non vorrei entrare nella polemica tra cavatori e non
cavatori, portando acqua al mulino di un ambientalismo che spesse volte è strumentale e
non ha fondamenti nella tecnica e nella scienza idraulica. Nel nostro paese l'80 per cento
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delle spese per interventi idraulici riguarda l'emergenza e il 20 per cento l'ordinaria
manutenzione.
PRESIDENTE. Infatti, è stato detto che per fortuna sono arrivate le alluvioni.
FRANCESCO STRADELLA. Per fortuna è arrivata l'alluvione e in una regione che ha
utilizzato i fondi per l'alluvione in lavori di difesa spondale e di regimentazione delle
acque, oltre che per il risarcimento dei danni, che non è una cosa da poco. Credo che
bisogna invertire questa tendenza, partendo però da considerazioni che possono apparire
banali. Ricordo che nelle campagne giravano degli uomini in bicicletta con un badile,
normalmente quadrato, legato alla canna della bicicletta e con questo strumento
facevano le manutenzioni e le piccole riparazioni ai corsi d'acqua minori, segnalando le
situazioni. L'assessore Ferrero sta facendo uno spot nelle radio locali, sul quale ho detto
che la voce era un po' troppo intrigrante e, quindi, metteva in difficoltà gli automobilisti;
comunque, è molto opportuno perché sollecita i cittadini a segnalare situazioni di
pericolo e di necessità di intervento anche per questioni minori.
Infatti, per la grande rete fluviale sussiste un monitoraggio continuo, l'attenzione di tutti
e lo stimolo delle popolazioni rivierasche. Lunedì sono stato ad un convegno dell'AIPO
e, tra le tante persone intervenute, c'erano due rappresentanti di due comitati di
alluvionati - uno di Lodi e l'altro di Casale -, che ormai hanno acquisito anche
personalità giuridica e tecnica perché sono titolati a dare giudizi sui progetti, sulle
sezioni fluviali, parlando di tutto quasi fossero dei politici eletti come noi.
PRESIDENTE. È la cosiddetta società civile.
FRANCESCO STRADELLA. Sono organismi di partecipazione democratica. Vivo in
un'area che ha subito le due alluvioni del 1994 e del 2000 e gli interventi della regione e
degli uffici regionali, sia in termini di pronto intervento sia di consulenze successive, di
lavori di riparazione e di regimentazione, per ora sono stati ritenuti efficaci (speriamo di
non dover mai verificare se lo sono al cento per cento o meno).
All'assessore volevo chiedere se nella sua esperienza - che, per quello che mi risulta, ha
dato risultati positivi - la collaborazione con le autonomie locali, con i comuni, con le
comunità montane e con coloro che hanno il monitoraggio del territorio più immediato e
periferico rispetto ai grandi corsi d'acqua abbia generato una qualche progettualità o,
comunque, un interesse per la manutenzione dei corsi d'acqua periodici a livello
torrentizio o di scarico dell'acqua piovana delle campagne. Infatti, se non sono
mantenuti, diventano dei veri e propri bacini di invaso che, poi, sforano la diga che si è
creata a valle in modo artificiale, portando nel fiume principale quantità d'acqua che
spesso determinano situazioni di grande pericolo. Tutto ciò sarebbe sopportabile se
avvenisse per pochi corsi d'acqua - tra l'altro, vivo in campagna e tali questioni possono
riscontrarle - e, quindi, occorre partire dalla manutenzione e poi discutere sulla necessità
e sulle tariffe dei cavatori.
Sono contento che la regione Piemonte abbia sperimentato il regime di concessione, ma
credo che parlare di concessione con una quantità ed una volumetria predefinita sia un
limite perché bisognerebbe definirla in relazione alle esigenze esistenti. Alcuni corsi
d'acqua, come lo Scrivia a monte, il Sesia ed altri, non sono nelle condizioni di avere
l'alveo più basso rispetto alla portata storica (in alcuni casi il Sesia ha l'alveo più alto
delle strade e, quindi, basta una precipitazione).
Questo però riguarda, a mio avviso, una sensibilità che non sempre le amministrazioni
locali hanno nei confronti di questo tipo di problema, anche in considerazione del fatto
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che la necessità di risorse e di interventi finanziari non è certo irrilevante. Infatti, il
monitoraggio e l'intervento sul territorio, in situazioni così «diffuse», certamente
necessitano di uno studio approfondito.
Ricordo quella proposta del cosiddetto «guardiano ambientale»: vorrei chiedere se con i
comuni vi è una collaborazione sul punto ed, infine, vorrei sapere se c'è una sensibilità
da parte della popolazio ne rispetto alla segnalazione di situazioni. Infatti, in questo
genere di situazioni, di solito il riscontro è rappresentato dal vicino che si lamenta del
fatto che l'altro vicino scarica i rifiuti.
CATERINA FERRERO, Assessore ai lavori pubblici, difesa del suolo e protezione
civile della regione Piemonte. Riprendo, attraverso questa domanda, un aspetto che non
ho approfondito in precedenza: l'attuazione del PAI infatti prevede per le diverse
regioni, che hanno competenza idraulica di programmazione, proge ttazione e
quant'altro, la cosiddetta razionalizzazione del reticolo idrografico. Attualmente,
quest'ultimo a livello regionale è «diviso» su due competenze: la regione Piemonte, ed è
il reticolo del quale prima parlava l'onorevole Stradella, e l'AIPO, che ha invece
competenza sui grandi corsi d'acqua (Po ed affluenti).
La norma prevede che le regioni debbano, compiuto questo primo passaggio, svolgere
una ulteriore attività finalizzata alla scelta degli ambiti trasferibili, in termini di
competenza, agli enti locali. È un percorso che perlomeno la regione Piemonte, come
credo anche le altre regioni, deve cominciare. Il passaggio successivo, per quanto
riguarda le regioni interessate dal Po, sarà rappresentato dallo specificare quale di
queste due competenze sia trasferibile agli enti locali.
Nel frattempo, ci rendiamo conto, come regione, che la parte di regimazione idraulica
sui corsi d'acqua di fatto è stata fatta «pesantemente» in questi anni, non soltanto in
Emilia-Romagna, ma anche in Piemonte: avevamo dati che, se non erro, rispetto alla
situazione ante 1994, parlavano di pochi chilometri di arginatura sul Piemonte ed adesso
siamo ad oltre 70 chilometri! Questo ci dà l'idea di come si sia intervenuti!
Ora accade che sul reticolo minore vi siano effettivamente maggiori esigenze di
manutenzione e non soltanto a causa nostra, ovvero del livello istituzionale, ma anche in
virtù del fatto che le maggiori difficoltà sono presenti nelle aree montane, che in questi
anni si sono progressivamente spopolate. Infatti, gli stessi proprietari terrieri di quei
luoghi vivono poi nelle città ed hanno minore interesse a mantenere tali proprietà.
Questo per dire che i piani di manutenzione dei quali parlavo prima riguardano l'intero
reticolo idrografico, sia quello regionale sia quello che insiste sulla AIPO. Queste
attività di manutenzione vengono compiute quindi a «trecentosessanta gradi».
Inoltre, l'AIPO e le regioni, ora che le opere idrauliche sono state realizzate, hanno la
possibilità di creare convenzioni con gli enti locali perché siano questi, previo
trasferimento di nostre risorse, a fare da «sentinella» del territorio per il governo di
queste opere, che, per diversi motivi, non è semplice controllare da Torino o da Parma.
Si stanno quindi attivando in alcuni luoghi significativi - ad esempio il nodo idraulico di
Torino (a San Mauro vi furono grandi disastri) o il nodo idraulico di Casale
nell'alessandrino - queste convenzioni che prevedono che la regione trasferisca le risorse
sulla base di protocolli definiti, e quindi l'ente locale, generalmente il comune e non la
provincia, si impegna a mantenere le opere idrauliche e non il corso d'acqua.
Vi sono poi tante altre iniziative che stanno sorgendo e che si atteggiano maggiormente
in termini di attività come protezione civile, coinvolgendo quindi oltre all'ente locale
anche il sistema del volontariato ed il mondo degli agricoltori piuttosto che mirare a
creare in questo caso convenzioni pubblico-privato o pubblico-volontariato che
consentono in alcune realtà di dare vita ad un'attività di manutenzione «spicciola», non
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rappresentata dall'asportazione di materiale, sul territorio. È ovvio che si tratta anche di
una questione di risorse, considerando l'estensione del territorio; pertanto, per quanto si
possa apprezza re, non è semplice rendere visibile questa serie di interventi.
FRANCESCO STRADELLA. Per quanto riguarda le cosiddette casse di laminazione, a
mio avviso queste sono in grado di far fronte ad una piena ordinaria così da evitare
inondazioni di aree urbane; se invece queste ultime avvengono nelle zone rurali, con i
terreni limitrofi che sono i più fertili, vi sono ingenti danni. Le casse di laminazione
rappresentano quindi un progetto da verificare con le organizzazioni agricole e con i
proprietari. I beneficiari di questa opera di prevenzione sono normalmente i residenti
nelle aree urbane. Per ragionare di una zona che conosco, in riferimento all'affluente
Tanaro, so che si vuole costruire una cassa di laminazione tra le città di Asti ed
Alessandria, in modo da penalizzare le aree agricole tra le due città e preservando la
città di Alessandria in caso di alluvioni.
Credo che la comunità metropolitana debba farsi carico anche in termini economici di
questo aspetto. Non so come possa essere strutturata tale questione, dal momento che il
ragionamento con le organizzazioni agricole regge soltanto se c'è una compensazione di
tipo economico per aree pregiate dal punto di vista agricolo, di tipo arboreo, e per i
pioppeti.
Vorrei sapere se in relazione a questo progetto di fattibilità e sulla necessità, sulla quale
concordo, delle casse di laminazione, vi sia stato un ragionamento che ha coinvolto,
oltre che dal punto di vista passivo le aree agricole e rurali, in maniera attiva le aree
metropolitane, che sono le maggiori beneficiarie, senza ovviamente creare un «conflitto
di interessi» tra gli abitanti della stessa regione, a seconda che siano di residenza rurale
o cittadina.
NELLA BIANCO, Direttore della direzione difesa del suolo della regione Piemonte.
Ringrazio l'onorevole Stradella della domanda, perché su questo tema in regione
Piemonte abbiamo fatto un lavoro cospicuo ed approfondito. In Piemonte abbiamo
sposato la tesi che le casse di laminazione siano uno dei fattori di riduzione del rischio,
però ci siamo trovati di fronte alla necessità di farle sul serio. Il caso di None/Volvera che è più studiato ed avanzato rispetto a quello del Tanaro - ci ha messi di fronte alla
sollevazione generale degli agricoltori, in una zona nella quale, ad esempio, c'è un
allevamento intensivo che fornisce a Parma i maiali per i prosciutti.
Noi ci siamo trovati di fronte a questa situazione, cioè penalizzare un'agricoltura ad
altissima resa, per la quale perdere le possibilità, ad esempio, di espandere i liquami
sulle aree perifluviali vuol dire essere penalizzati in termini di qualità del prodotto che si
conferisce a Parma, con la possibilità di uscire dalla catena dei fornitori.
Quindi, con l'associazione degli agricoltori abbiamo studiato il problema dei cosiddetti
indennizzi per le servitù di allagamento ed abbiamo fatto l'analisi del caso di
None/Volvera come prototipo per tutto il resto.
PRESIDENTE. Si toglie un terreno, si allaga ma in cambio si dà un indennizzo.
NELLA BIANCO, Direttore della direzione difesa del suolo della regione Piemonte.
L'indennizzo può essere monetario o assicurativo perché, inizialmente, si era fatta
l'ipotesi di un indennizzo assicurativo. Abbiamo scomodato la Marsh di Londra quindi, un broker assicurativo, una società di riassicurazione - e ci hanno detto,
dimostrandoci i loro criteri, che il regime assicurativo non è sicuramente praticabile
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perché nessuna società è minimamente interessata a coprirlo. Quindi, andiamo
sull'indennizzo monetario, che deve essere una quota delle indennità di esproprio. In
sostanza, siamo arrivati alla conclusione che l'unica possibilità di indennizzo permessa
dalle leggi vigenti, in particolare dal testo unico sugli espropri, che contempererebbe le
esigenze degli agricoltori e le possibilità applicative, è una quota delle indennità di
esproprio.
Lei diceva di trarre tale quota dai centri urbani ma, attenzione, secondo noi questo non è
proponibile perché la materia della difesa del suolo attiene al governo del territorio
nazionale; tra questi l'obiettivo della difesa idraulica è il presupposto per i
finanziamenti, ad esempio relativi alle leggi n. 183 del 1989 e n. 267 del 1998. In
conclusione, l'unica via di mitigazione delle cosiddette servitù di allagamento sarebbe la
riserva di una quota del fondo statale per indennizzare una tantum le ipotesi future di
allagamento, che, peraltro, possono anche non verificarsi. Forse, questa sarebbe una, se
non l'unica, strada perseguibile, soprattutto per regioni come il Piemonte, in cui questa
modalità di allagamento programmato viene caldeggiata dalle regioni a valle. Allora,
occorre supportare tutto ciò con una quota di fondo statale dedicato agli indennizzi.
PRESIDENTE. Questo è un aspetto interessante, cioè voi vi ponete il problema delle
aree di allagamento per aiutare que lli che stanno a valle e, quindi, esiste una solidarietà
che nasce lungo tutto l'arco del bacino del Po. Di conseguenza, il bacino del Po come
tale è un interesse nazionale, voi vi assumete una parte degli oneri per tutelarlo e,
quindi, sarebbe giusto avere qualcosa in cambio, anche perché, tutto sommato, bisogna
mantenere il flusso dei maiali dal Piemonte verso Parma, visto che il prosciutto di
Parma - adesso, fra l'altro, dobbiamo difendere il made in Italy - deve essere
assolutamente tutelato.
NELLA BIANCO, Direttore della direzione difesa del suolo della regione Piemonte.
Un'altra modalità di mantenimento della libertà del corso d'acqua di divagare è anche
quella della rilocalizzazione. Ricordiamoci che i fondi che lo Stato destinava alle
regioni per rilocalizzazioni sono praticamente zero. Quindi, soprattutto in regioni con
una forte deindustrializzazione come la nostra esistono dei fabbricati, civili ed
industriali, di prima industrializzazione ormai abbandonati ma non rilocalizzabili. Di
conseguenza, ci troviamo in una situazione di estrema difficoltà perché potremmo
lasciare divagare maggiormente il corso fluviale - o, comunque, dargli «respiro» -,
ma mancano le possibilità economiche per rilocalizzare, dato che sono sempre
edifici con un valore.
Paradossalmente, lo dico amaramente, bisognerebbe approfittare del ciclo
economico negativo, per cui molte di queste strutture sono facilmente
rilocalizzabili.
PRESIDENTE. Lei dice che quando c'è la crisi economica è più facile smantellare le
aree industriali abbandonate.
NELLA BIANCO, Direttore della direzione difesa del suolo della regione Piemonte. Io
dico che l'economia produttiva della regione Piemonte è in un momento di tale
trasformazione che le piccole e piccolissime imprese nonché le miriadi di fabbricati
produttivi collocati attiguamente ai corsi d'acqua ormai non hanno più mercato.
Tuttavia, noi non abbiamo le risorse per spostare il «contenitore», che in quelle aree
permetterebbe di lasciar maggiormente spazio al corso d'acqua.
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FRANCESCO STRADELLA. L'architetto ha colto pienamente la mia opinione, anche
se è difficilmente realizzabile, perché sono per un'imposizione delle popolazioni urbane
per consentire la loro sicurezza. Capisco che tutto ciò non sia praticabile - per evitare di
trovare tutte le risorse esclusivamente sul finanziamento della legge sugli espropri, che
poi deve essere utilizzato anche per infrastrutture e per tutta una serie di altre necessità
del paese -, ma si potrebbero utilizzare una parte dei trasferimenti e una parte di fiscalità
locale, anche minima tanto per dare un segnale, in modo che al conduttore agricolo
scatti il meccanismo della solidarietà ma che, comunque, sia compreso da chi la riceve.
Infatti, spesso non capiscono perché devono sacrificare la loro proprietà o limitare la
loro libertà di impresa, quando non hanno un grave danno dalle esondazioni, visto che
successivamente il terreno si asciuga, si riesce a coltivare e, a volte, quando non ci sono
elementi inquinanti, si verifica anche una bonifica.
Tutto ciò servirebbe a facilitare il rapporto e la trattativa, altrimenti diventa un'impresa
quasi irrealizzabile.
CATERINA FERRERO, Assessore ai lavori pubblici, difesa del suolo e protezione
civile della regione Piemonte. Occorre tener presente che le regioni non dicono «pagate
tutto voi». Infatti, a fronte di un impegno della regione e dello Stato - ad esempio,
attraverso l'autorità di bacino - ad affrontare il problema, è ovvio che anche le regioni,
sicuramente il Piemonte, siano interessate a fare la loro parte, però il problema è
cominciare ad avere dei segnali. Infatti, sull'argomento delle rilocalizzazioni e del
ristoro di eventuali danni subiti nel caso di una piena le regioni stanno facendo ancora
delle cose e, allo stato attuale, il livello nazionale ha dato una disponibilità. Quindi, se in
prospettiva vi fosse un impegno reciproco, noi non chiederemo allo Stato di pagare
tutto. Infatti, anche se in sede di Protezione civile vi è un fondo regionale, si tratta pur
sempre di un fondo nazionale che prevede una compartecipazione. Tuttavia, sarebbe
opportuno cominciare.
PRESIDENTE. Ringrazio i rappresentanti della Conferenza dei presidenti delle regioni
e delle province autonome intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 15,15.
--------------------- o --------------------
Seduta del 22 febbraio 2005
Presidenza del Presidente Pietro ARMANI
La seduta comincia alle 10,35.
Audizione di rappresentanti del Comitato nazionale per la lotta
alla siccità e alla desertificazione.
Durata 40 minuti
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, l'audizione di rappresentanti del Comitato nazionale per la lotta alla siccità e
alla desertificazione.
Do il benvenuto al professor Piero Gagliardo, presidente, al vicepresidente, dottor
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Lopez, e al dottor Sciortino, componente del gruppo dei 25 esperti europei.
Avverto che i rappresentanti del Comitato hanno consegnato una documentazione, di
cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna
(vedi allegato 1).
Credo che il presidente Gagliardo conosca lo scopo della nostra indagine conoscitiva,
indirizzata prevalentemente al governo dei fiumi e dei corsi d'acqua. Do quindi la parola
al dottor Gagliardo.
PIERO GAGLIARDO, Presidente del Comitato nazionale per la lotta alla siccità e alla
desertificazione. Signor presidente, siamo a conoscenza del tema della vostra indagine,
rispetto al quale noi svolgiamo un'attività, per così dire, marginale, ma tuttavia
pertinente.
Il nostro Comitato nasce da una Convenzione internazionale, la Convenzione per la lotta
alla siccità e alla desertificazione, la cui origine risale alla conferenza di Nairobi del
1977; a tutt'oggi, i paesi che hanno aderito alla Convenzione risultano essere 191. Il
Comitato nazionale è stato istituito presso il Ministero dell'ambiente, con il decreto 26
settembre 1997. Si tratta quindi di una struttura estremamente recente. Il primo
presidente è stato l'onorevole Calzolaio; è seguito poi un periodo di silenzio, mentre
adesso il Comitato sta riprendendo la sua attività.
Il compito fondamentale del Comitato è quello di seguire la strutturazione e la
predisposizione del piano di azione nazionale, sia per quanto riguarda il paese, sia per
quanto riguarda le relazioni nel bacino del Mediterraneo.
L'obiettivo fondamentale della Convenzione ONU è di combattere la siccità e la
desertificazione, ovviamente in modo diverso a seconda delle differenti situazioni.
L'origine di questa Convenzione è stata dettata dalla famosa tragedia del Sahel in
Africa. Esistono quindi accordi di cooperazione e tutto il discorso si muove all'interno
della prospettiva di contribuire allo sviluppo sostenibile. «Desertificazione» rappresenta
un termine diverso da «desertizzazione»: indica il processo di insterilimento dei terreni,
nelle zone aride, semiaride e subumide secche. Questa è la definizione data dall'ONU a
questo tipo di processo. La desertizzazione, invece, è l'ampliamento delle zone già
desertiche. La siccità, come si può intendere facilmente, è il fenomeno che si manifesta
quando le precipitazioni sono al di sotto delle medie normali, provocando squilibri
profondi nel mondo rurale.
Dal punto di vista legislativo, gli strumenti per l'applicazione della Convenzione sono i
programmi di azione nazionale, i programmi di azione subregionale (dove le subregioni
sono dei sottoinsiemi di paesi), e i programmi di azione regionale. La Convenzione
prevede di raggruppare i paesi per annessi. Ad esempio, l'Africa rappresenta l'annesso 1,
l'America latina e i Caraibi sono l'annesso 3, tutti paesi orientali l'annesso 2, il nostro
paese e quelli della riva nord del Mediterraneo afferiscono all'annesso 4.
Gli organi di governo sono la Conferenza delle parti, il Comitato tecnico-scientifico e il
Comitato per la revisione della Convenzione. Sono tre meccanismi di governo
all'interno dei quali i 191 paesi che hanno aderito alla Convenzione lavorano e adottano
decisioni.
Passiamo all'esposizione delle azioni fondamentali cui il Comitato è chiamato all'interno
della Convenzione ONU. Segnalo in particolare l'articolo 10 della Convenzione, quello
che più interessa il nostro paese, nel quale vengono indicati i fattori che contribuiscono
alla desertificazione e le azioni che i vari paesi devono realizzare all'interno dei propri
programmi nazionali. Secondo questo articolo, le operazioni che dovrebbero intervenire
sono le seguenti: strategie a lungo termine per lottare contro la desertificazione (quindi
la capacità di analizzare e osservare il territorio in modo estremamente approfondito) e
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mitigare poi gli effetti della siccità; capacità di modifica e di flessibilità dei programmi a
livello locale; applicazione di misure preventive per le terre non degradate, in modo tale
da conservare un patrimonio rurale in perfetto stato di efficienza; accrescimento delle
capacità nazionali di previsione meteorologica e di mezzi per lanciare allarmi precoci di
siccità (alcune regioni italiane lo stanno facendo, con grande beneficio per la realtà
rurale); sviluppare la cooperazione e il coordinamento nello spirito di collaborazione;
partecipazione reale ai livelli locale, nazionale e regionale delle organizzazioni non
governative (che svolgono un ruolo davvero molto significativo, perché tali
organizzazioni sono quelle meno politicizzate, nel senso deteriore del termine, e più
operative dal punto di vista della realizzazione degli interventi); relazioni continue sullo
stato di avanzamento dei lavori (il che vuol dire la progressione delle attività, come
vengono svolte, come vengono realizzate, quali difficoltà si incontrano); attenuare gli
effetti della siccità, attraverso una serie di meccanismi predisposti; creazione di sistemi
efficienti di allarme precoce; rafforzamento di dispositivi preventivi e di gestione delle
situazioni di siccità (in modo da capire come intervenire laddove si verifichino periodi
di crisi idrica); sviluppo di sistemi di sicurezza alimentare (su questo la FAO ha molto
da insegnare); progetti che possano assicurare redditi nelle zone soggette alla siccità
(cioè la possibilità di trovare forme di lavoro alternative, o forme di lavoro che non
dipendano totalmente dalla realtà rurale); elaborazione di programmi di irrigazione
durevoli per le colture e l'allevamento; adozione di provvedimenti in alcuni o in tutti gli
ambiti prioritari.
Ora vediamo che cosa l'Italia ha realizzato finora dal punto di vista legislativo. Esiste in
primo luogo la delibera CIPE del 21 dicembre 1999, che costituisce per noi una sorta di
riferimento fondamentale, una linea guida per l'attuazione del piano di azione nazionale.
Tale deliberazione contiene quindi le indicazioni per redigere il piano di azione
nazionale, i programmi regionali e delle autorità di bacino (in questo caso «regionali» è
riferito alle regioni amministrative), il programma di azione regionale dei paesi europei
del Mediterraneo (ovvero l'annesso IV, cioè i paesi della riva nord del Mediterraneo) e
le attività nazionali nel loro complesso.
Gli aspetti fondamentali del piano di azione nazionale sono l'adozione del PAN e la
collaborazione dei rappresentanti del Comitato nazionale con la Commissione sviluppo
sostenibile. A tutt'oggi questo non avviene, perché sembra che la Commissione sviluppo
sostenibile non si ritrovi....
PRESIDENTE. In che senso?
PIERO GAGLIARDO, Presidente del Comitato nazionale per la lotta alla siccità e alla
desertificazione. La Commissione esiste ma non si riunisce; questo è un problema che
abbiamo sollevato più volte, parlando con il suo presidente, ma sembra che non
sussistano le condizioni perché l'attività possa riprendere.
Sempre nell'ambito del piano di azione nazionale, i ministeri dovrebbero comunicare al
Comitato il quadro delle risorse allocate su tematiche ambientali, ma non lo fanno;
all'interno del Comitato ci sono, come si vedrà, componenti dei vari ministeri interessati
a queste problematiche, e i ministeri non comunicano. Inoltre, il Comitato nazionale
supporta le regioni e le autorità di bacino per individuare le aree vulnerabili alla
desertificazione.
PRESIDENTE. I ministeri non comunicano tra di loro?
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PIERO GAGLIARDO, Presidente del Comitato nazionale per la lotta alla siccità e alla
desertificazione. Non comunicano al Comitato, soprattutto. Questo è il problema:
comunicare quali risorse siano allocate per combattere siccità e desertificazione. Questa
notizia non siamo riusciti ad averla. È importante questo quadro, perché i programmi
regionali e delle autorità di bacino dovrebbero avere quattro settori prioritari: la
protezione del suolo; la gestione sostenibile delle risorse idriche; la riduzione
dell'impatto delle attività produttive; e il riequilibrio del territorio. Questi quattro
capisaldi costituiscono le linee guida fondamentali perché il Comitato possa procedere
attraverso una serie di strumenti operativi alla realizzazione del piano d'azione
nazionale.
Vorrei ora fornirvi un quadro sintetico delle attività svolte dal Comitato. Il presidente è
stato nominato nell'agosto 2002 e tale nomina è stata decisa dal Consiglio dei ministri,
mentre gli altri componenti sono stati nominati l'anno successivo: si tratta dei
rappresentanti dei vari ministeri (esteri, ambiente e tutela del territorio, economia e
finanze, beni e attività culturali, infrastrutture e trasporti, istruzione, università e ricerca,
politiche agricole e forestali, attività produttive), nonché della Conferenza Stato-regioni
e delle organizzazioni non governative. Bisogna osservare che alcune di queste realtà
non sono assolutamente presenti nel Comitato, perché non hanno il minimo interesse a
parteciparvi.
Il Comitato è affiancato da una commissione tecnico-scientifica, nella quale gli enti più
rilevanti sono l'APAT, l'ENEA e il CNR.
Negli ultimi due anni il Comitato ha svolto diverse attività partecipando ad una serie di
convegni, seminari e workshop, a livello nazionale ed internazionale, dove ha presentato
i risultati di una serie di elaborazioni di carattere tecnico-scientifico, che sono state
sviluppate soprattutto negli anni precedenti. Innanzitutto, si è svolto un incontro a Roma
per la revisione e l'implementazione della Convenzione, seguito da un incontro a
Montpellier, una clearing house, che pubblica i dati fondamentali di ciò che accade a
livello di ricerca. A Bruxelles si sono svolte riunioni di natura scientifica; ci sono stati
inoltre degli interventi a livello locale, a Palermo e ad Ispra, dove un centro di ricerca
europeo si occupa anche di siccità e desertificazione.
PRESIDENTE. Si occupava anche di energia nucleare.
PIERO GAGLIARDO, Presidente del Comitato nazionale per la lotta alla siccità e alla
desertificazione. Sì, ma non si sa mai, il nucleare potrebbe tornare di moda. Abbiamo
condotto una settimana di studi e ricerche sulla questione della desertificazione. Si è
tenuto poi un incontro a Tunisi, mentre all'Avana si è svolta la Conferenza delle parti,
importante nell'ambito della Convenzione ONU, cui hanno partecipato tutti i paesi
aderenti alla Convenzione stessa e nel corso della quale sono state prese delle decisioni
molto importanti. A Roma abbiamo tenuto un grosso convegno internazionale, del quale
stanno per uscire gli atti; in quell'occasione abbiamo raccolto duecentocinquanta
persone qualificate, interessate a questo tema. Un altro incontro sulla siccità si è svolto a
Palermo. A Milano hanno avuto luogo diversi incontri, alcuni dei quali si sono svolti
nell'ambito della COP9, relativa al Protocollo di Kyoto. C'è stato poi un incontro a
Brazzaville, cui ha partecipato il dottor Lopez, sul trasferimento di tecnologie
ragionevoli dal punto di vista ecologico. Un'altra conferenza internazionale è stata
organizzata dall'onorevole Nucara a Milano, mentre a Viterbo c'è stato un incontro sulla
forestazione e i problemi ecologici. A Bonn si è svolto un momento particolarmente
significativo: ricordo che Bonn è la sede della Convenzione ONU. L'anno scorso a
Roma abbiamo celebrato nella sede della FAO la decima giornata mondiale dedicata
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alla lotta alla siccità. Stiamo seguendo i processi di desertificazione in Basilicata, una
regione molto attiva e attenta a questo tipo di problematica. Ricordo inoltre un incontro
a Rimini, cui ha preso parte anche il ministro Matteoli, svoltosi lo scorso agosto, ed una
tavola rotonda con la partecipazione dei rappresentanti della Cina.
Fino ad ora abbiamo lavorato a costo zero per lo Stato, perché il Comitato non ha mai
ricevuto alcun tipo di finanziamento. Le iniziative venivano organizzate da altri enti, cui
noi davamo il nostro contributo tecnico-scientifico. Potrei parlare di finanziamento
simulato, nel senso che pur non avendo finanziamenti, eravamo una realtà in grado di
esprimersi. Quest'anno abbiamo ottenuto un contributo del Ministero dell'ambiente.
Tra le attività previste nel 2005, vorrei citare la diffusione delle informazioni in tema di
siccità e desertificazione nel mondo della scuola primaria e secondaria: la
preoccupazione è quella di immaginare un sistema, costituito dalla scienza, dalla
politica e dall'economia. Nella scuola questo discorso non è assolutamente presente,
soprattutto a livello politico.
Un altro tipo di attività riguarda lo studio sull'evoluzione dell'indice di aridità in Italia:
se si osserva, per esempio, l'evoluzione in Sardegna dal 1951 al 2000, si capisce come il
discorso dei cambiamenti climatici acquisti un significato concreto. Anche l'APAT,
l'Agenzia per la protezione dell'ambiente, sta sviluppando delle tecniche per lo studio
dell'evolversi degli indici di siccità.
Nella documentazione che abbiamo prodotto è contenuta una vecchia cartografia
sviluppata dall'APAT, che risale alla fine degli anni '90, riguardante le aree sensibili alla
desertificazione. Oggi esiste una nuova cartografia rappresentata dall'Atlante nazionale
delle aree a rischio di desertificazione, realizzata soprattutto dall'Istituto sperimentale
per lo studio e la difesa del suolo di Firenze, insieme al CNR, all'ENEA, al Ministero
delle politiche agricole ed altri organismi. Questo atlante è piuttosto interessante perché
esamina per ciascuna regione una serie di indici e di parametri particolarmente
significativi: il numero di giorni in cui il suolo è secco, l'indicatore di stato del terreno,
l'indice di impatto, acquiferi potenzialmente salini e quant'altro. Dalla lettura dell'atlante
emergono alcuni dati particolarmente preoccupanti: le superfici regionali con potenziale
rischio di siccità al 100 per cento sono in Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e
Sicilia. Quello che sta accadendo nel nostro paese è un fatto decisamente poco
conosciuto e non ipotizzabile; infatti, la desertificazione è una sorta di tumore e quando
ci si accorge di ciò che è avvenuto non è più possibile intervenire perché la perdita di
fertilità dei terreni è, in linea di massima, irreversibile, se non a costi spaventosi. Il
nostro paese deve quindi prestare particolare attenzione al territorio rurale. Il nostro
documento riproduce un'immagine, tratta dall'atlante, in cui è evidenziata una parte del
territorio italiano con la suddivisione nelle tre tipologie di area: sterile, sensibile e
vulnerabile.
Un altro aspetto che si sta curando attraverso la cartografia è la vulnerabilità ambientale,
in cui intervengono vari fattori: il suolo, il clima, la vegetazione e l'organizzazione del
territorio. Inoltre, sempre a livello cartografico vengono fornite una serie di
informazioni che serviranno a costruire poi l'indice ESA relativo alla vulnerabilità del
terreno. Naturalmente esistono anche problematiche legate a questioni di carattere
economico e nel documento troverete la cartografia che si sta progressivamente
costrue ndo su tutto il territorio nazionale in relazione alla valutazione dell'indice di
vulnerabilità.
Un altro lavoro interessante viene dal Dipartimento della protezione civile e riguarda il
problema del rischio incendi; come è noto, gli incendi sono uno dei fattori più
significativi di trasformazione del terreno in un processo di sterilizzazione.
67
PRESIDENTE. Gli incendi li produce l'uomo, non la natura.
PIERO GAGLIARDO, Presidente del Comitato nazionale per la lotta alla siccità e alla
desertificazione. Sono al 99 per cento dolosi. Nel corso di un seminario a Reggio
Calabria su questa problematica, ho suggerito di affiancare ai ricercatori uno psichiatra
per capire cosa succede nella mente di un essere umano quando decide di appiccare il
fuoco.
PRESIDENTE. La forestale potrebbe avere qualche impulso.
PIERO GAGLIARDO, Presidente del Comitato nazionale per la lotta alla siccità e alla
desertificazione. Naturalmente il Dipartimento della protezione civile è molto ben
organizzato e interviene continuamente.
PRESIDENTE. L'unico modo per superare il problema è ridurre il numero dei forestali,
non licenziandoli, ma utilizzandoli per altre attività.
PIERO GAGLIARDO, Presidente del Comitato nazionale per la lotta alla siccità e alla
desertificazione. Gli interventi aerei, che risultano molto costosi, sono condizionati da
tutta una serie di problemi; infatti, chi vola sa che se lo fa per cinque minuti, guadagna
una certa somma, se vola dieci minuti percepisce il doppio e così via, per cui anche
l'andamento dello spegnimento degli incendi è in funzione della redditività. Anche in
Sicilia vengono svolte delle attività e si sta creando un sistema informativo orografico
regionale molto avanzato, utilizzando i programmi europei Interreg II C e Sedemed,
sistemi per sovvenzionare attività che altrimenti non avrebbero nessuna possibilità di
essere finanziate.
Vorrei affrontare ora l'ultimo argomento, riguardante le proposte e le richieste che il
nostro Comitato ritiene opportuno avanzare in una realtà nazionale in cui i fenomeni di
dissesto territoriale sono in continua evoluzione. Il problema che abbiamo sollevato e
che sembra essere particolarmente rilevante nel nostro paese è rappresentato dal fatto
che le criticità ambientali sono suddivise tra diversi enti e in differenti realtà operative
che, nonostante svolgano in modo ottimale il proprio lavoro, non comunicano fra di
loro. Conseguentemente, non solo esiste sovrapposizione di informazioni, per cui
diversi enti svolgono lo stesso lavoro e, non comunicando fra di loro, producono sprechi
di denaro pubblico, ma c'è soprattutto il problema di informare la popolazione rurale sui
rischi derivanti dall'interazione con i fenomeni citati in precedenza. La popolazione
rurale, che è quella più direttamente interessate ai processi di siccità e di
desertificazione, è la meno informata su ciò che sta accadendo.
Il problema di fondo che solleviamo è di carattere metodologico, perché tutte le
questioni che intervengono sul territorio sono collegate fra di loro; infatti, nessun
fenomeno specifico, compresa la siccità e la desertificazione, può essere preso in esame
indipendentemente dalla complessità dei fattori che lo determinano. Quello che è
espresso nelle linee guida della delibera CIPE del 21 dicembre 1999 consiste
esattamente nella possibilità di mettere in correlazione quattro elementi fondamentali: la
difesa del suolo, le risorse idriche, le attività produttive e il riassetto e riequilibrio del
territorio.
Questo è un problema di carattere metodologico e, nonostante esso sia in un certo senso
noto, esiste una moltiplicazione o, addirittura, una sovrapposizione di organi di
controllo del territorio, che di fatto operano una separazione delle conoscenze con la
conseguente mancata conoscenza delle fenomenologie in atto. I suggerimenti - che sono
68
maturati parlando ed ascoltando le varie posizioni - riguardano, per esempio, la
creazione di centri regionali virtuali, in questo caso di carattere amministrativo, per il
monitoraggio e la valutazione delle criticità ambientali.
In altri termini, si potrebbero convogliare nei centri di eccellenza, che oramai sono
fiorenti sul nostro territorio, le informazioni che vengono raccolte da enti diversi e che
non vengono mai correlate tra di loro.
PRESIDENTE. Quando parla di centri di eccellenza si riferisce ai centri universitari?
PIERO GAGLIARDO, Presidente del Comitato nazionale per la lotta alla siccità e alla
desertificazione. Sì, ai centri universitari, dove dovremmo avere correttezza di metodo e
scientificità delle informazioni che vengono trattate. Inoltre, occorre fornire al cittadino
un'informazione dettagliata circa le dinamiche in atto dei fenomeni critici presenti sul
territorio. Non a caso abbiamo deciso di cominciare a diffondere nel mondo della scuola
l'informazione con il piccolo investimento erogato dal ministero. Occorre promuovere
un'azione programmatica da parte di tutti gli enti che lavorano sul territorio in modo
autonomo (le università, gli istituti del CNR, gli istituti di ricerca regionali, le ARPA).
Sappiamo che, purtroppo, la difficoltà del mondo scientifico è quella di produrre per
avere i titoli e, quindi, fare carriera: questa è la cosa più errata.
Un altro dato che sembra interessante al Comitato è la partecipazione delle imprese
certificate, perché la tecnologia ha bisogno di essere conosciuta dal mondo scientifico
ed essere utilizzata per proporre soluzioni negli interventi sul territorio (ad esempio,
quando si parla di allarmi precoci, è importante sapere quali sistemi esistano sul
territorio nazionale).
Ripeto, il problema è di carattere metodologico e, laddove esistano gli oneri finanziari,
che sicuramente sono piuttosto modesti, dovrebbero essere affrontati dalle realtà
regionali con queste motivazioni: un uso attento ed accurato del territorio, inteso nella
totalità dei suoi fattori, un uso sostenibile delle risorse ed una razionale protezione e
difesa del suolo. Di fatto, la legislazione attribuisce alle regioni delle responsabilità, che,
ovviamente, comprendono anche la cura e l'attenzione ai problemi legati alla siccità e
alla desertificazione. Quindi, le regioni dovrebbero predisporre delle mappe molto
dettagliate sulle aree vulnerabili alla desertificazione, ma alcune lo fanno, altre no: non
esiste un problema di interconnessione e di correlazione.
Ci sembrava giusto sottolineare che i governi centrali non possono e non debbono
assumersi oneri derivanti dall'incuria, dall'ignoranza o, ancor peggio, dall'inosservanza
delle leggi esistenti da parte degli amministratori locali.
PRESIDENTE. Occorre stimolare gli amministratori locali.
PIERO GAGLIARDO, Presidente del Comitato nazionale per la lotta alla siccità e alla
desertificazione. Il problema è che gli amministratori locali hanno come interesse
prevalente quello della rielezione.
Il nostro Comitato esiste dal punto vista formale come risposta alla Convenzione
internazionale sulla lotta alla siccità e alla desertificazione, la quale chiede la
partecipazione dei paesi: l'Italia ha aderito, ma questo tipo di adesione è praticamente di
tipo formale. Infatti, se il nostro compito è quello di realizzare il piano di azione
nazionale - e, quindi, di aiutare le regioni e le autorità di bacino a svolgere i loro compiti
e a sviluppare un'attività in difesa del suolo -, a noi manca totalmente un'autorevolezza
dal punto di vista finanziario e formale.
Si propone pertanto che il Comitato diventi un soggetto promotore di iniziative
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pubbliche nella lotta alla siccità e alla desertificazione (questo lo facciamo in parte, ma
è più un'azione di buona volontà che riconosciuta dal punto di vista politico); possa
valorizzare e diffondere, sia all'interno sia verso i paesi del Mediterraneo, i risultati della
ricerca in Italia (esiste molta ricerca in questo senso ma ognuno si muove dentro il
proprio canale istituzionale); assuma il ruolo di valorizzare e diffondere le tecnologie e
le iniziative imprenditoriali nazionali (tra l'altro, questo aspetto è stato sollevato dal
ministro Matteoli nell'incontro di Rimini); diventi un riferimento tecnico e scientifico
per la valutazione e il supporto delle iniziative delle regioni e delle autorità di bacino.
Questo rapporto deve essere istituzionalizzato e non scritto solo sulla carta in modo
generico; quindi abbiamo bisogno che il mondo politico si interessi del Comitato,
altrimenti saremmo una realtà senza significato.
Occorre che il paese a livello centrale, a fronte dei cambiamenti climatici in atto, possa
garantire la funzionalità e la unitarietà del sistema di lotta contro la siccità e la
desertificazione, che naturalmente coinvolge altre problematiche ambientali,
coordinandosi con i paesi che si affacciano sul Mediterraneo ed armonizzando le
specifiche forme di intervento nel rispetto totale delle autonomie locali. Sussiste il
problema di rispettare le autonomie locali ma anche quello di coordinare questi sforzi,
che sono estremamente diversificati sul territorio nazionale.
PRESIDENTE. Visto che avete identificato dei gradi di sensibilità alla desertificazione
di diverse regioni, in particolare di alcune (Sicilia, Sardegna, Puglia, Basilicata,
Calabria), occorrerebbe creare un collegamento con la Conferenza dei presidenti delle
regioni.
PIERO GAGLIARDO, Presidente del Comitato nazionale per la lotta alla siccità e alla
desertificazione. Una delle foto riprodotte nel nostro documento mostra una zona a sud
di Crotone, un'area che si sta progressivamente degradando in modo impressionante.
PRESIDENTE. Purtroppo, nelle regioni meridionali questo fenomeno esiste da molto
tempo e si aggrava sempre di più; è significativo il fatto di aver misurato tale fenomeno
dal 1951 in poi. Peraltro, i calanchi risalgono anche al medioevo e, quindi, non
possiamo sapere in quale misura si siano determinati. A Volterra le frane che hanno
travolto intere necropoli etrusche, addirittura intere aree dell'antica città, risalgono a
secoli fa. Quindi, anche se il fenomeno continua, potrebbe determinarsi non solo in
funzione della desertificazione ma anche per la natura del terreno.
Mi sembra che il collegamento con le regioni più esposte, compreso il Lazio, sia
importante. Quindi, al di sotto della valle Padana sussiste una serie di sensibilità e,
tramite il Ministero dell'ambiente, si potrebbe creare un collegamento fra il vostro
Comitato e i presidenti di tali regioni. Tra l'altro, sono loro che devono intervenire
materialmente sul territorio, anche per evitare l'abbandono dell'agricoltura, uno degli
elementi che poi determinano il degrado del territorio. Addirittura in Svizzera si pagano
i malgari per andare negli alti pascoli e, siccome nessuno taglia più l'erba dei prati, a
Cortina si pagano i pastori per fare tutto ciò.
Ringrazio i nostri ospiti per la loro partecipazione e dichiaro conclusa l'audizione.
Audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale dei
costruttori edili (ANCE).
Durata 30 minuti
70
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, l'audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale dei costruttori edili
(ANCE).
Avverto che i rappresentanti dell'ANCE hanno consegnato una documentazione, di cui
autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna
(vedi allegato 2).
Ricordo che l'indagine riguarda il problema della regimazione delle opere idrauliche,
della programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul
territorio nazionale, con particolare riferimento ai dragaggi dei fiumi, al mantenimento
degli argini, alla regimentazione delle golene, e così via; tutto questo in funzione anche
del riutilizzo del materiale inerte risultante, che viene impiegato fra l'altro dalle imprese
edilizie.
Do la parola al dottor Marcello Cruciani.
MARCELLO CRUCIANI, Dirigente della direzione legislazione mercato privato
dell'ANCE. La ringrazio, presidente, per questa occasione di intervento dell'ANCE sui
temi della manutenzione idraulica, della manutenzione fluviale e, come lei giustamente
evidenziava, del riutilizzo dei materiali che derivano da questa tipologia di attività.
Oggi troppo spesso si parla di manutenzione idraulica solo quando si verificano
precipitazioni atmosferiche abnormi, solo quando ci troviamo di fronte ad eventi
calamitosi. Ciò succede peraltro anche in tanti altri settori, in cui manca la cultura della
manutenzione ordinaria. A volte si è parlato, ad esempio, anche in questa sede, del
fascicolo del fabbricato, proprio come frutto della cultura della manutenzione di un
edificio; invece poi di fatto si aspettano gli eventi calamitosi.
Come imprese edili, siamo ovviamente interessati alla questione, e non perché
interveniamo dopo le calamità (siamo i primi a intervenire, insieme con la Protezione
civile, in pratica, per rimettere in sesto le cose), ma proprio per affermare una cultura
della manutenzione programmata ed evitare che la collettività si trovi poi a dover
affrontare costi non solo economici, ma anche in termini di perdita di risorse umane.
Per ciò che riguarda la manutenzione idraulica, è vero che se ne è parlato sin dal tempo
della approvazione della legge n. 183 del 1989 e successivamente con l'atto di indirizzo
e coordinamento del 1993, rivolto alle regioni per individuare criteri e modalità per la
redazione dei programmi di manutenzione idraulica. Siamo poi arrivati al 1996, con la
tragica serie di alluvioni in Toscana e in Piemonte che hanno dato luogo alla
emanazione del decreto- legge n. 576 con il quale, all'articolo 4, comma 10-bis (che è
stato più volte citato nelle precedenti audizioni) viene introdotto il concetto del
recupero, della manutenzione: recuperare i materiali litoidi trascinati dalle piene dei
fiumi e torrenti. Il comma 10-bis nasce sostanzialmente come norma straordinaria, e
quindi con una durata temporale limitata, mentre invece manca assolutamente nella
programmazione ordinaria il concetto di riutilizzo e soprattutto di dragaggio (come lei,
signor presidente, giustamente sottolineava) dei corsi d'acqua, relativamente a quei tratti
nei quali vi è accumulo di materiali, che possono consistere in ghiaia, sabbie e così via.
Proprio esaminando i dati conseguenti alla emanazione del decreto-legge n. 576,
considerando l'operato dell'Agenzia interregionale per il Po, insieme con la regione
Piemonte, si nota che in pratica è stato avviato un piano di bonifica degli alvei che
sostanzialmente si è autofinanziato, perché con due delibere noi abbiamo ricavato 3
milioni e 550 mila metri cubi di materiali...
71
PRESIDENTE. Se non erro, parte di questi materiali sono stati utilizzati anche per i
cantieri dell'alta velocità ferroviaria.
MARCELLO CRUCIANI, Dirigente della direzione legislazione mercato privato
dell'ANCE. Esatto. Sono materiali che sono stati recuperati sia per la messa in sicurezza
degli argini, degli alvei, di corsi d'acqua in genere, sia per essere in parte riutilizzati in
altri settori.
Nelle audizioni che ci hanno preceduto, per esempio quella dei rappresentanti
dell'APAT, veniva sottolineata l'esigenza di questi dragaggi, però se ne evidenziavano
anche i pericoli, perché in certi casi essi possono essere realizzati in modo no n corretto,
o comunque portare a prelievi non confacenti. In alcuni casi, nell'estate scorsa, alcuni
articoli di stampa hanno evidenziato, nella zona del Po, fenomeni di questo genere. Il
problema però che fondamentalmente emerge è il seguente: questi materiali derivanti
dal dragaggio, per poter essere recuperati, devono innanzi tutto avere e conservare un
valore economico. Il loro recupero comporta un minore impatto ambientale dovuto
all'apertura di nuove cave, o comunque allo sfruttamento meno intensivo delle cave
esistenti.
Esiste un problema di gestione di questi materiali perché, proprio per citare il caso più
importante, mentre la regione Piemonte li considera come materiali di tipo estrattivo
(per cui in pratica le opere di dragaggio sostanzialmente si autofinanziano, in quanto il
valore dei materiali recuperati consente all'imprenditore di abbattere i costi della
lavorazione), vi sono altre regioni, come ad esempio il Veneto, in cui, non più tardi del
21 gennaio scorso, è stata emanata una delibera in materia di rocce e terre da scavo, che
considera il materiale di dragaggio sostanzialmente assoggettato alla normativa per i
rifiuti, quindi al decreto legislativo n. 22 del 1997, il cosiddetto decreto Ronchi.
Questo è un problema che va indubbiamente chiarito, perché se il materiale che deriva
dai lavori di dragaggio e di messa in sicurezza degli alvei deve essere considerato come
rientrante, salvo caso contrario, nella disciplina legislativa prevista dal «decreto
Ronchi», automaticamente il valore economico di questi materiali decade, perché il
trattamento come rifiuto fa salire i costi, e soprattutto sussiste l'incertezza se i materiali
ottenuti possano essere considerati a priori come privi di inquinamento o meno, per cui
bisogna sottoporli al test di cessione, come previsto dal decreto ministeriale n. 471.
È evidente quindi che le attività di questo genere (nell'audizione dell'APAT questo fatto
in parte è emerso), dovrebbero essere considerate non solo come lavori di manutenzione
idraulica, ma anche come lavori che rientrano nel piano delle attività estrattive.
Laddove, infatti, esse fossero considerate attività estrattive, non avremmo nessun
problema a ritenere questi materiali come esonerati dalla disciplina dei rifiuti, in quanto
materiali derivant i da attività mineraria.
PRESIDENTE. Capisco però la preoccupazione della regione Veneto, che ha il
problema della laguna. La definizione come rifiuto disincentiva escavazioni che
potrebbero, diciamo così, modificare l'equilibrio fragile della laguna vene ta. Comprendo
i due aspetti della questione. Il Piemonte non ha di questi problemi, forse il Veneto ha
qualche problema in più. Si tratta di un aspetto da approfondire.
MARCELLO CRUCIANI, Dirigente della direzione legislazione mercato privato
dell'ANCE. Diciamo che il Veneto (con una delibera dell'ARPA) tratta l'aspetto del
dragaggio nell'ambito della normativa che afferisce alla più ampia problematica della
attuazione della esenzione rispetto all'articolo 8, lettera f-bis, del «decreto Ronchi»,
riguardante la disciplina delle terre e rocce da scavo, per le quali, con la legge
72
comunitaria del 2003 (quindi con la legge n. 306 del 2003), è stato previsto che non
siano più considerate rifiuti, laddove sussista il preventivo parere dell'ARPA. Quindi,
nel contesto della regolamentazione di tutta la disciplina delle rocce e terre da scavo
derivanti da attività edili, l'ARPA Veneto fa discendere un ultimo capitolo, relativo al
dragaggio dei fiumi. Essa non fa tanto un discorso di laguna, quanto proprio un discorso
di canali, prevedendo addirittura che in certi casi i prelievi per il campionamento
vengano operati ogni 100 metri di cantiere, il che, in termini economici, comporta un
costo onerosissimo.
Indubbiamente, per quanto riguarda i fiumi ci possono essere dei problemi di
inquinamento, però è anche vero che, proprio per citare il fiume nazionale per
eccellenza, cioè il Po, abbiamo nel suo alveo delle cave di sabbia regolarmente
autorizzate (che quindi servono per alimentare fabbriche di materiali da costruzione,
impianti per la produzione del calcestruzzo, o direttamente le attività delle imprese); la
stessa sabbia, se viene estratta a seguito di rimozione di materiali e depositi fluviali
alluvionali (e se non viene considerata alla stessa stregua della attività estrattiva), deve
essere considerata rifiuto!
PRESIDENTE. Mi consenta una battuta: quando entreranno in attività i cantieri del
passante di Mestre il problema sarà superato, così come con la realizzazione del tratto
dell'alta velocità tra Milano e Trieste. Forse il Veneto capirà come risolvere i propri
problemi. Occorre distinguere la laguna rispetto ad altre zone. In alcuni casi l'intervento
può determinare una alterazione degli equilibri esistenti: lei sa che esiste un modello
dell'andamento della laguna veneta rispetto ad altre zone, come le valli di Chioggia.
MARCELLO CRUCIANI, Dirigente della direzione legislazione mercato privato
dell'ANCE. Se pensiamo ai canali di bonifica che abbiamo avuto fino alla metà degli
anni '50 in Italia, essi non hanno pendenze, per cui se non vengono periodicamente
mantenuti e dragati si rischia di ricreare la palude.
PRESIDENTE. All'epoca del Papa nella pianura pontina passavano i bufali per dragare i
canali.
MARCELLO CRUCIANI, Dirigente della direzione legislazione mercato privato
dell'ANCE. Abbiamo la possibilità di utilizzare il materiale estratto e quindi di avviare
un discorso di finanziamento in proprio per l'avvio di opere che altrimenti non sarebbero
mai effettuate, vista la scarsità delle risorse di regioni e province.
PRESIDENTE. La ringraziamo per la sua relazione molto dettagliata. È molto
interessante l'esperienza del Piemonte, come lei ha ricordato, che è riuscito a conciliare
queste problematiche con la difesa dell'ambiente, attraverso le casse di laminazione, che
venivano utilizzate per difendersi dalle alluvioni e contemporaneamente per provvedere
alle esigenze delle grandi opere che dovevano essere effettuate in quell'area.
Credo che il Veneto potrà seguire la stessa strada. Il problema della tracimazione dei
fiumi è un problema tipico di sviluppo sostenibile, di correlazione tra l'esigenza dello
sviluppo industriale e la difesa dell'ambiente. Dobbiamo lavorare di più in questo senso.
MARCELLO CRUCIANI, Dirigente della direzione legislazione mercato privato
dell'ANCE. Ricordo che le piccole e medie imprese che sono presenti sul territorio
capillarmente possono svolgere un ruolo importante anche per controllare queste
situazioni.
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PRESIDENTE. Lei sa che esiste un precedente: nel XIX secolo, l'industria del cemento
in Italia si è sviluppata da un lato in conseguenza della crisi dell'industria del baco da
seta, dall'altro perché l'Austria cominciò a costruire la ferrovia Milano-Venezia
nell'ultimo periodo della dominazione asburgica.
MARCELLO CRUCIANI, Dirigente della direzione legislazione mercato privato
dell'ANCE. Il problema generale dei rifiuti è serio e mi auguro che il Ministero
dell'ambiente ne tenga conto. Con le grandi opere pubbliche, si può recuperare del
materiale che è molto simile a quello che si trae dalle cave.
PRESIDENTE. La ringrazio nuovamente e dichiaro conclusa l'audizione.
Audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale bonifiche, irrigazioni e
miglioramenti fondiari (ANBI).
Durata 45 minuti
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, l'audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale bonifiche,
irrigazioni e miglioramenti fondiari (ANBI).
Avverto che i rappresentanti dell'ANBI hanno consegnato una documentazione, di cui
autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna
(vedi allegato 3).
Do la parola al presidente dell'ANBI.
ARCANGELO LOBIANCO, Presidente dell'ANBI. La ringrazio per questo invito,
anche a nome dell'associazione che rappresento. L'Associazione nazionale bonifiche,
irrigazioni e miglioramenti fondiari, che rappresenta sul piano nazionale tutti i consorzi
di bonifica che operano sul territorio del nostro paese, fin dagli anni '60 ha dedicato
un'attenzione particolare al problema della difesa del suolo, dovuto anche alla diffusa e
convulsa urbanizzazione, alla conseguente impermeabilizzazione dei suoli,
all'impetuoso sviluppo della crescita, molto spesso realizzata senza tener conto
dell'impatto sul regime idraulico, cui si sono aggiunti l'abusivismo nelle estrazioni del
suolo e del sottosuolo, il prelievo dei materiali inerti, nonché l'esodo dalle campagne e
l'abbandono delle montagne. Sono tutti fenomeni che hanno fortemente inciso sul
sistema di difesa idraulica. Sappiamo che la difesa del territorio è condizione essenziale
per lo sviluppo economico; infatti, se non ci fossero state le idrovore ferraresi non si
sarebbe verificato lo sviluppo né industriale né agricolo. Questa politica del territorio va
quindi affrontata.
L'ANBI ha dedicato a tali temi numerosi studi, convegni e congressi (si ricordano, tra
gli altri, i seguenti congressi nazionali: «La protezione del suolo e la regolazione delle
acque», tenuto a Firenze il 20 maggio 1967, dopo l'alluvione; « Per una politica del
territorio» sempre a Firenze nell'ottobre 1970; «La bonifica idraulica in Italia» svolto a
Rovigo nel 1980; «Sistemare la collina per difendere il suolo e tutelare l'ambiente»
tenuto a Firenze nel maggio 1988).
L'ANBI nelle diverse sedi ha costantemente sottolineato l'esigenza di una forte azione di
prevenzione e di manutenzione straordinaria finalizzata a ridurre il rischio idraulico,
anche tenuto conto che l'Italia è un paese con un territorio prevalentemente collinare e
montano, con una particolare orografia caratterizzata da una fittissima rete di corsi
d'acqua naturali e di canali artificiali, nonché con un regime delle piogge estremamente
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variabile nel tempo e nello spazio.
Sono degni di attenzione i dati risultanti dai piani straordinari per le aree a rischio
idrogeologico approvati dalle Autorità di bacino in conformità a quanto previsto dal
decreto- legge n. 180 del 1998. Le aree a rischio idrogeologico molto elevato sono
11.468, interessanti 2.875 comuni, cioè il 35 per cento del totale. Se si aggiungono i
comuni a rischio elevato, la percentuale si eleva al 43 per cento del totale. La
percentuale sale ancora fino 65 per cento se si comprendono anche le aree a rischio
medio.
Si pone, quindi, un duplice problema: evitare che la grave situazione di degrado
territoriale peggiori ulteriormente e ridurre comunque il grado di rischio idrogeologico
esistente. Per questo motivo sosteniamo che occorrono un idoneo governo degli usi del
suolo ed una saggia politica di gestione del territorio fondata sulla prevenzione e sulla
manutenzione.
I consorzi affrontano con i contributi dei propri associati la manutenzione ordinaria, ma
quella necessaria è la manutenzione straordinaria, che non può essere a carico dei
consorziati perché richiederebbe enormi risorse ed investimenti; però, senza questo tipo
di manutenzione ci sono grossi rischi. In tale settore possono svolgere un ruolo
fondamentale ed offrire un valido ed efficace contributo i consorzi di bonifica a
condizione che non vengano poste in discussione le relative competenze (come è
avvenuto recentemente in Toscana e nelle Marche), che le proposte di intervento da essi
formulate siano accolte dalle istituzioni preposte al governo del territorio e soprattutto
che ci siano le necessarie risorse finanziarie.
Per una corretta ed organica impostazione dei problemi relativi alle opere idrauliche si
ritiene che l'esame debba iniziare dalle disposizioni a carattere generale, che
disciplinano il settore della difesa del suolo. Oggi abbiamo un quadro legislativo
abbastanza interessante, che è costituito dalla legge n. 183 del 1989 sulla difesa del
suolo, dalla legge n. 36 del 1994 riguardante le acque e dal decreto legislativo n. 152 del
1999 sull'ambiente; quindi, l'intelaiatura legislativa è abbastanza forte, ma il problema è
che funzioni.
Il provvedimento organico di riferimento per un'idonea impostazione dei problemi è
costituito dalla legge n. 183 del 1989, che ha introdotto nel nostro ordinamento
un'epocale riforma del settore caratterizzata dal riconoscimento del bacino idrografico
quale ambito territoriale di riferimento, ma soprattutto dall'introduzione di una nuova
nozione di difesa del suolo che ha portato ad un'attività intersettoriale che si realizza
attraverso una serie di azioni ed interventi mirati verso quattro obiettivi: sistemazione,
regolazione idraulica e prevenzione; razionale utilizzazione delle risorse idriche;
risanamento delle acque superficiali e sotterranee; manutenzione ordinaria e
straordinaria delle opere.
Tali principi assumono particolare rilievo anche per i problemi dei territori collinari del
nostro paese e realizzano uno degli obiettivi unanimemente auspicati nei nostri
congressi, cioè che l'azione a tutela della collina italiana curi la sistemazione e la
manutenzione del territorio nel rispetto della sostanziale unità idrografica dello stesso,
attraverso la considerazione unitaria del bacino idrografico.
Noi siamo abituati a pensare il territorio come schematicamente articolato in montagna,
collina e pianura, suddivisione giustificata da considerazioni di ordine geografico,
geologico, socio-economico ed amministrativo, ma che, come i più attenti studiosi
precisano, non può considerarsi in modo rigido con riferimento al ciclo idrologico. Va
sottolineata la stretta interconnessione fra le varie fasi di tale ciclo; infatti, qualunque
modificazione che interessa un punto o un tronco di un complesso circuito idrico
produce effetti sia diretti sia indiretti anche su altre parti del ciclo. Questa realtà induce
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a riflettere sulla sostanziale unità idrogeologica del territorio e, quindi, sulla forte
interconnessione tra montagna, collina e pianura.
Il problema si inquadra nell'ambito della politica per il territorio, che deve assumere
come valore di principio fondamentale il riferimento al bacino idrografico.
Quest'ultimo, quale ambito territoriale di riferimento, costituisce un principio
fortemente innovatore, auspicato dai più qualificati studiosi, che ha determinante
rilevanza ai fini della pianificazione.
Non vi è stato né un convegno né un dibattito che non abbia messo in evidenza la
necessità di un superamento dei confini amministrativi, su cui era basata la passata
legislazione, perché i fiumi e i torrenti non possono avere confini amministrativi; infatti,
i corsi d'acqua, per loro natura, non conoscono confini amministrativi, ma solo
idrografici. Nel contempo, la valutazione del rischio idraulico presuppone un ambito
territoriale delimitato idrograficamente; quindi, il bacino idrografico costituisce un
ambito territoriale altamente significativo, non sostituibile.
Il riparto di competenze, vigente nel nostro ordinamento, tra Stato e regioni ha indotto a
trovare soluzioni non sempre soddisfacenti, giacché la classificazione dei bacini in
nazionali, interregionali e regionali, operata nella legge n. 183 del 1989, ha determinato
una situazione denunciata più volte.
L'Associazione nazionale delle bonifiche ritiene che occorra affrontare e risolvere il
problema dei bacini interregionali per i quali le intese sono difficili da raggiungere, ma
ancora più difficili da mantenere e gestire. Si potrebbe esaminare anzitutto un percorso
per un raggruppamento di alcuni bacini interregionali con l'istituzione di un'unica
Autorità di bacino, così come previsto ...
PRESIDENTE. Come il bacino del Po.
ARCANGELO LOBIANCO, Presidente dell'ANBI. Quello è un bacino nazionale che,
come tutti i bacini di quel tipo, funziona bene perché c'è un certo indirizzo, mentre il
problema riguarda quelli interregionali che sono difficili da gestire a causa delle intese
che devono essere siglate dalle regioni.....
PRESIDENTE. Tanto per fare un esempio, il Tevere nasce in Toscana e, poi, arriva nel
Lazio.
ARCANGELO LOBIANCO, Presidente dell'ANBI. Anche il Tevere dipende da una
autorità nazionale.
Per i bacini interregionali non sempre si raggiungono le intese; quindi, riteniamo che
sarebbe necessario creare anche per questi un'unica autorità, come si è fatto per quelli
nazionali.
PRESIDENTE. Quale potrebbe essere un esempio di bacino interregionale?
ANNA MARIA MARTUCCELLI, Direttore generale dell'ANBI. Puglia e Basilicata.
ARCANGELO LOBIANCO, Presidente dell'ANBI. Per il Mezzogiorno è ancor più
auspicabile creare un'unica autorità, perché esistono vari bacini interregionali e già sono
sorti contenziosi tra la Puglia e la Campania.
PRESIDENTE. Certamente nella piana di Sibari, che è irrigata da fiumi o torrenti che
nascono in Puglia o che vanno verso la Puglia....
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ARCANGELO LOBIANCO, Presidente dell'ANBI. Il processo di riforma introdotto
dalla legge n. 183 del 1989 è stato avviato, sia pure con ritardo, per i bacini nazionali e,
quindi, ha già trovato alcuni momenti di attuazione a livello di acquisizione di dati
conoscitivi. Oggi i bacini nazionali sono in grado di fornire dati e di formulare
programmi; per questo dicevo che, mentre a livello nazionale esiste questa possibilità, i
bacini interregionali non danno lo stesso risultato.
A questo riguardo, vorrei ricordare quello che è avvenuto lo scorso anno sulla questione
del Po. In quel caso è stata istituita dalla Presidenza del Consiglio dei ministri una
cabina di regia presso l'Autorità di bacino del Po ed abbiamo tutti collaborato con ottimi
risultati, anche per quelli che gestivano alcuni bacini privati come l'ENEL: quindi, si è
potuto risparmiare l'acqua e fornirla per i vari usi. Questa importante intesa ha costituito
un precedente al quale ci riferiamo.
PRESIDENTE. Quando c'è stata la secca del Po sono state aperte le dighe.
ARCANGELO LOBIANCO, Presidente dell'ANBI. La cabina di regia è stata gestita
ottimamente ed ha dato eccellenti risultati. Riteniamo che i principi fondamentali della
legge n. 183 del 1989 vadano salvaguardati e che occorra operare sul piano
amministrativo ed organizzativo per creare i presupposti di un valido funzionamento
degli organi previsti. Quindi, la legge è valida ma si tratta di dettare regole per la
concertazione, che l'anno scorso per il bacino del Po è stata positiva.
PRESIDENTE. Però la concertazione deve essere un fatto ordinario e non attuarsi in
occasioni straordinarie ed urgenti come nel caso del Po.
ARCANGELO LOBIANCO, Presidente dell'ANBI. In Italia siamo abituati a vivere di
emergenza, mentre questa non dovrebbe essere la norma. Per tali motivi, noi siamo per
la prevenzione e, soprattutto, per la manutenzione, perché i soldi spesi per l'emergenza
influiscono sui finanziamenti previsti per la manutenzione ordinaria.
Andrebbero riviste anche le procedure perché, come hanno detto i diversi segretari delle
autorità di bacino nazionali, alcune relative all'approvazione dei piani e dei programmi
sono molto farraginose. Inoltre, il riparto delle risorse fra i diversi bacini,
l'individuazione degli interventi e l'assegnazione delle risorse ai diversi soggetti sono
regolati da norme che contemplano procedimenti molto lunghi e procedure complesse:
di conseguenza, la legge esiste ma vanno riviste e semplificate le procedure di
attuazione.
Infine, occorrerebbero norme che diventino regole fondate sul principio della
cooperazione tra i soggetti istituzionalmente preposti a tutto ciò. La stessa Corte
costituzionale, riferendosi alla legge n. 183 del 1989, ha sottolineato che il governo del
territorio può essere perseguito soltanto attraverso la via della cooperazione fra i
soggetti istituzionalmente competenti. Infatti, nel nuovo ambito territoriale del bacino
sono chiamati a collaborare lo Stato, le regioni, gli enti locali e i consorzi di bonifica,
ma non ci sono ancora delle norme di comportamento per questa cooperazione. Occorre
superare questa difficoltà, rivedere - come abbiamo visto anche leggendo gli atti relativi
ad altri enti intervenuti - la composizione dei comitati tecnici delle autorità di bacino e
prevedere la partecipazione di soggetti che sono richiamati dalla legge n. 183 del 1989
all'attuazione delle azioni di difesa del suolo. Ad esempio, in alcune realtà regionali è
stata garantita la partecipazione dei consorzi di bonifica nei comitati tecnici ed in altre
no: questa dovrebbe diventare una regola.
Parlando sempre della cabina di regia del Po, lo scorso anno sono stati i consorzi di
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bonifica a fornire i dati sulla situazione delle acque e dei laghi che hanno permesso di
predisporre una pianificazione del prelievo e dell'erogazione delle acque.
La stessa Corte costituzionale, nel definire i principi vigenti nell'ordinamento del nostro
paese sulla bonifica, ha evidenziato tali questioni. D'altra parte, anche le leggi regionali
finora emanate in materia indicano la difesa del suolo fra le finalità della bonifica,
procedendo in alcuni casi all'individuazione delle specifiche opere destinate a tale
scopo. A questo punto pregherei la dottoressa Martuccelli di esporre alcune riflessioni
sui consorzi di bonifica.
PRESIDENTE. Credo che i consorzi operino su circa la metà del territorio nazionale,
cioè su 15 milioni di ettari rispetto a 30 milioni 900 mila ettari.
ARCANGELO LOBIANCO, Presidente dell'ANBI. Sono 187 in tutto.
ANNA MARIA MARTUCCELLI, Direttore generale dell'ANBI. I consorzi operano su
15 milioni di ettari, ma su tutta la pianura (6 milioni di ettari) e su gran parte della
collina, che corrisponde a 13 milioni di ettari del nostro paese. La presenza diffusa sul
territorio dei consorzi di bonifica, unitamente alle funzioni che svolgono, fanno
considerare queste istituzioni come dei veri presidi territoriali. In primo luogo, ciascun
consorzio di bonifica opera su ambiti territoriali definiti idraulicamente, cioè non ha
confini amministrativi ma, secondo le leggi, il suo ambito territoriale di operatività è
definito sulla base di unità idrografiche omogenee. Chiaramente, su un bacino grande
come il Po non c'è solo un consorzio ma vengono individuati i sottobacini, che
costituiscono gli ambiti territoriali dei consorzi, definiti dalla legge «comprensori»:
questo è un dato molto importante agli effetti della difesa idraulica.
Una seconda caratteristica molto importante a livello istituzionale è che le leggi - sia
quella nazionale, il regio decreto n. 215 del 1933, sia il codice civile, ma anche tutte le
leggi regionali sino ad oggi emanate -, attribuiscono e riconoscono ai consorzi di
bonifica la natura di enti pubblici a struttura associativa e di autogoverno, cioè enti
pubblici amministrati dagli stessi interessati. Quindi, tali soggetti sono espressione di
una forte connessione tra il momento pubblico e quello privato, che la Corte
costituzionale ha posto in particolare rilievo. Questa connotazione di enti di
autogoverno presenti sul territorio in ambiti territoriali definiti idraulicamente ha fatto sì
che in una recente considerazione della loro natura giuridica alla luce delle modifiche
intervenute nella costituzione e nell'ordinamento, la dottrina costituzionalista più
recente che si è occupata del tema abbia espressamente sottolineato come i consorzi di
bonifica siano soggetti istituzionali forte espressione di sussidiarietà.
Di conseguenza, i consorzi di bonifica operano sul territorio del nostro paese in regime
di sussidiarietà, in quanto sono molto vicini agli utenti, rappresentano direttamente gli
interessi dei soggetti per i quali si svolge la loro attività sul territorio e, quindi, adattano
le loro azioni ai diversi contesti territoriali.
PRESIDENTE. Esiste una sussidiarietà sia verticale sia orizzontale perché, di fatto, c'è
una delega degli enti territoriali ai consorzi di bonifica e, siccome questi ultimi sono
costituiti dai consorziati - cioè gli agricoltori e tutti quelli che sono sul territorio -, esiste
anche una sussidiarietà orizzontale pubblico/privato, cioè una funzione privata di un
interesse pubblico.
ANNA MARIA MARTUCCELLI, Direttore generale dell'ANBI. Direi che le leggi
nazionali e regionali, non gli enti territoriali, attribuiscono direttamente ai consorzi
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specifiche funzioni pubbliche. Poi, la circostanza che sono amministrati dai soggetti
interessati, cioè i proprietari di immobili agricoli ed extra agricoli che traggono
beneficio dalla loro attività, conferisce loro proprio la sussidiarietà orizzontale, la
vicinanza e la rappresentanza del territorio.
PRESIDENTE. Quindi, per fare una ipotesi specifica, se occorre dragare un canale la
competenza è del consorzio di bonifica, ma devono essere poi i diretti interessati, cioè i
privati, possessori delle terre lungo quel canale, a preoccuparsi di dragarlo?
ANNA MARIA MARTUCCELLI, Direttore generale dell'ANBI. No, provvede il
consorzio con proprie strutture; però i proprietari pagano, perché ovviamente, quando
c'è una manutenzione ordinaria...
PRESIDENTE. Capisco. Sono comunque i proprietari che si devono preoccupare di
sostenere, diciamo, l'azione del consorzio.
ANNA MARIA MARTUCCELLI, Direttore generale dell'ANBI. La pulizia dei canali,
certo. L'attribuzione di funzioni pubbliche ai consorzi in regime di autogoverno ha fatto
sì che, proprio alla luce della recente riforma della Carta costituzionale, e soprattutto
della cosiddetta legge La Loggia (applicativa della riforma), i consorzi siano stati
considerati e qualificati quali soggetti di autonomia funzionale, enti ad autonomia
funzionale che oggi hanno nell'ordinamento una particolare considerazione.
PRESIDENTE. Mi pare che la legge La Loggia non sia molto applicata. Io non sono un
giurista, ma ritengo che l'applicazione con legge ordinaria del nuovo titolo V della
Costituzione, approvato nella precedente legislatura, abbia sollevato diversi problemi.
Noi, dal punto di vista delle opere e dei lavori pubblici, abbiamo incontrato qualche
problema. Come lei sa, ci sono state diverse sentenze della Corte costituzionale; ne
voglio citare una fra le più importanti: la n. 303 del 2003. La legge La Loggia quindi,
avrebbe dovuto placare certe tensioni che si erano determinate fra i diversi livelli di
governo in conseguenza dell'introduzione del nuovo titolo V.
Tuttavia, una legge ordinaria che cerca di «assestare» una riforma costituzionale, può
creare a sua volta dei problemi, tanto è vero che attualmente, come lei sa, è all'esame del
Parlamento una ulteriore modifica del titolo V della Costituzione, nell'ambito di una più
vasta riforma di tutta la parte seconda della Costituzione medesima. Le modifiche in
essa previste all'articolo 117 della Costituzione dovrebbero superare la legge La Loggia,
nel senso che finalmente si configurerebbe una riforma costituzionale molto più
completa, comprendente tra l'altro, come lei sa, l'abolizione del bicameralismo perfetto,
l'attribuzione di poteri diversi al primo ministro, la ridefinizione dei poteri del
Presidente della Repubblica. Nel quadro dell'articolo 117, è previsto il ritorno allo Stato
di alcune funzioni importanti su cui si erano registrati problemi, per quanto riguarda le
opere strategiche della «legge obiettivo», in quanto alcune regioni si erano opposte,
avevano contestato la legge.
La sentenza della Corte costituzionale che ho poc'anzi citato cercava di mettere ordine
nella materia. La legge La Loggia dal vostro punto di vista è stata forse utile, ma adesso
è in un certo senso «dormiente», in attesa di una riforma costituzionale più completa che
riordini alcune funzioni.
ARCANGELO LOBIANCO, Presidente dell'ANBI. Il problema, signor presidente, era
che esistevano alcune interpretazioni sulla natura dei consorzi. Con l'attuale riforma
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costituzionale e la legge La Loggia, è stato confermato che essi sono enti in autonomia
funzionale, quindi non sono enti strumentali, ma hanno una loro connotazione. Inoltre,
vi è tutta una giurisprudenza su questo punto.
PRESIDENTE. Fra l'altro, nel progetto di riforma che stiamo discutendo, e che dovrà
tornare all'esame della Camera in seconda lettura, il principio di sussidiarietà
orizzontale è stato ulteriormente confermato e rafforzato. Quindi, dal vostro punto di
vista, in un certo senso l'approvazione di questa riforma dovrebbe rappresentare una
ulteriore conferma delle funzioni dei consorzi di bonifica.
ANNA MARIA MARTUCCELLI, Direttore generale dell'ANBI. Per quanto riguarda la
legge La Loggia, signor presidente, intendevo riferirmi soltanto a quella parte di essa da
cui la dottrina ha tratto alcune indicazioni classificatorie. In modo particolare per quanto
riguarda i consorzi, penso che dalla lettura del testo di riforma attualmente in
discussione al Senato la caratteristica di autonomia funzionale venga riconfermata come
principio di carattere generale. Ciò ai fini della realizzazione delle azioni sul territorio,
perché questo è l'elemento importante, con riferimento alla politica territoriale: potersi
avvalere di istituzioni che sono sul territorio, che conoscono il territorio e che quindi
sanno individuare le azioni necessarie.
Ritornando quindi ai consorzi di bonifica, dicevo che essi svolgono funzioni pubbliche
attribuite dalle leggi statali e regionali, in regime di autogoverno privatistico. Questi
soggetti, presenti su tutto il territorio, gestiscono (noi abbiamo portato un prospetto)
centinaia di migliaia di canali di scolo, nonché 628 impianti idrovori. Questo significa
che, agli effetti della difesa idraulica del territorio, le azioni e le opere che i consorzi
gestiscono sono fondamentali.
Qual è il problema? Le trasformazioni profonde del territorio, cui ha fatto cenno prima
il presidente Lobianco, richiedono oggi che questo importante patrimonio di opere
venga ammodernato, perché quando i tempi di corrivazione aumentano così tanto, e
l'acqua arriva con una velocità enorme, quando si procede ad impermeabilizzare il
terreno, succede che le portate di canali, realizzati anche da cento anni, molte volte non
sono più efficienti, non sono più idonee allo scopo. Da qui l'esigenza
dell'ammodernamento e dell'adeguamento dei canali e degli impianti.
PRESIDENTE. Quindi le bonifiche realizzate una volta devono essere rifatte
periodicamente?
ANNA MARIA MARTUCCELLI, Direttore generale dell'ANBI. Diciamo aggiornate.
PRESIDENTE. Di conseguenza, le stesse paludi pontine, se non interverrà questo
aggiornamento, ad un certo punto avranno problemi.
ARCANGELO LOBIANCO, Presidente dell'ANBI. Se non ci fossero le idrovore,
Fiumicino andrebbe sott'acqua.
PRESIDENTE. Certo, lo sappiamo. Ricordo i dibattiti e le discussioni quando venne
inaugurato il famoso aeroporto.
ANNA MARIA MARTUCCELLI, Direttore generale dell'ANBI. Possiamo anche fare
l'esempio dell'aeroporto di Lamezia, oppure del Veneto, dove succede la stessa cosa. Le
fornisco poi, presidente, una ulteriore indicazione che ritengo molto significativa: il
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Polesine. Abbiamo in tutta Italia oltre un milione di ettari situati sotto il livello del
mare; se non funzionassero gli impianti idrovori dei consorzi, questi terreni verrebbero
allagati. Non ci sarebbero più non solo le coltivazioni, ma neanche alcune città.
PRESIDENTE. Un poco come i polder in Olanda, con la differenza che naturalmente in
Olanda il Mare del Nord è un po' più pericoloso dell'Adriatico.
ANNA MARIA MARTUCCELLI, Direttore generale dell'ANBI. La situazione di
questi territori situati al di sotto del livello del mare forse non è ben conosciuta in Italia.
Non è altrettanto ben conosciuta l'azione dei consorzi e delle opere di bonifica che essi
gestiscono. Molte volte sono realtà poco conosciute, ma molto rilevanti.
Cosa sarebbe necessario per la programmazione di opere idrauliche, cui appunto è
dedicata questa indagine? A nostro giudizio, un programma di manutenzione
straordinaria idraulica.
PRESIDENTE. Di tutte queste reti, di queste bonifiche?
ANNA MARIA MARTUCCELLI, Direttore generale dell'ANBI. Di tutte queste reti
diffuse su tutto il territorio nazionale. Poiché ritengo che ancora oggi, sulla base del
decreto legislativo n. 112 del 1998, la programmazione, quanto meno, sia di
competenza dello Stato (così come è rimasta di competenza statale la difesa del suolo e
il relativo finanziamento), si può ipotizzare un'iniziativa assunta a livello nazionale, in
cui le proposte dei singoli progetti, per le singole opere, devono arrivare dal territorio
(quindi, attraverso le regioni, dai consorzi di bonifica e di irrigazione). Occorre però, a
mio giudizio, una iniziativa importante a carattere nazionale, la quale preveda un
programma straordinario di manutenzione idraulica, da realizzarsi poi secondo le regole
previste dal decentramento, e quindi attraverso le proposte fatte dai consorzi.
Esistono tuttavia anche altri problemi. Le opere idrauliche erano distinte in cinque
categorie, con competenze diverse. Nel momento in cui nel nostro paese furono abolite
le cinque categorie delle opere idrauliche, in una prima fase si procedette ad un riparto
di competenze fra Stato e regioni attraverso il decreto legislativo n. 616 del 1977,
mentre in una seconda fase, con il decreto legislativo n. 112 del 1998 già citato, le
competenze relative alle opere idrauliche di qualunque grandezza (quindi, qualunque
categoria) furono trasferite alle regioni. È intervenuto successivamente il decentramento
dalle regioni agli enti locali.
Con riferimento specifico alle opere idrauliche di terza categoria, che erano già di
competenza dello Stato, è intervenuta nel 1993 una legge statale che ha soppresso i
consorzi di terza categoria ed ha ripartito le competenze tra Stato e regioni, affidando a
queste ultime la decisione sui soggetti a cui affidare le relative competenze. Molte
regioni le hanno attribuite ai consorzi di bonifica, altre agli enti locali.
Questo è un problema, a cui se ne aggiunge un altro, che riguarda tutta l'Italia, relativo
al reticolo idrografico minore. Nel nostro paese, il reticolo idrografico minore è
diffusissimo, perché i cosiddetti corsi d'acqua naturali, che spesso sono anche
abbandonati, sono numerosissimi. Il senatore Medici, con il quale ho lavorato per
moltissimi anni, diceva sempre che i corsi d'acqua naturali hanno un'importanza
fondamentale per l'equilibrio idraulico del territorio. Il reticolo idrografico minore dà
spesso origine alle frane, dovute a piogge non abbondanti, ed è costituito dai corsi
d'acqua fortemente interconnessi con i canali di cui i consorzi si occupano.
Abbiamo quindi proposto che questo reticolo venga affidato ai consorzi, in maniera tale
che possano gestire unitariamente il sistema. Alcune regioni hanno già provveduto in tal
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senso: il Veneto l'anno scorso decise di affidare questa competenza ai consorzi e anche
altre regioni, tra cui la Lombardia, stanno seguendo questa strada.
Ci auguriamo che questo processo di unitarietà di gestione, nell'ambito delle unità
idrografiche omogenee, che costituiscono i comprensori di bonifica, possa essere
realizzato ovunque, perché soltanto attraverso la gestione unitaria del reticolo
idrografico minore, unito ai corsi d'acqua e ai canali, si può garantire un maggiore
equilibrio idraulico.
L'orografia del nostro paese e il clima non ci permettono di eliminare il rischio
idraulico, ma dobbiamo far di tutto per ridurlo e ciò è possibile attraverso una corretta
gestione in questo settore, che forse è rimasto l'unico in cui esiste una partecipazione
finanziaria da parte dei privati, attraverso i contributi di bonifica che i consorzi ricevono
dai consorziati agricoli ed extragricoli per la gestione ordinaria, di cui i privati spesso si
lamentano. La contribuzione imposta ai consorziati è proporzionata al beneficio del
singolo immobile e in alcune realtà il beneficio degli immobili urbani è superiore
rispetto ai terreni agricoli, che assorbono l'acqua in eccesso senza riportare rilevanti
danni, a differenza di ciò che accade per gli edifici nel caso di allagamento di cantine o
locali.
PRESIDENTE. Io sono eletto a Milano, dove fino a poco tempo fa la falda acquifera era
abbassata, mentre ora si sta alzando, con gravi danni per alcune zone, nelle quali sono
stati costruiti dei box.
ARCANGELO LOBIANCO, Presidente dell'ANBI. Molto spesso gli stessi comuni non
tengono conto nei piani regolatori della situazione idraulica del territorio.
ANNA MARIA MARTUCCELLI, Direttore generale dell'ANBI. Abbiamo allegato alla
relazione alcuni dati specifici che riguardano in modo particolare l'Emilia-Romagna, la
Lombardia e il Veneto. Negli allegati si nota ancora meglio l'incidenza dell'azione dello
scolo realizzata attraverso gli impianti dei consorzi. L'opera dei consorzi è rilevante per
la riduzione di questo rischio sul nostro territorio. Occorre altresì aggiungere che
certamente, sulla base della legge n. 186 del 1989, relativa alla difesa del suolo, i
consorzi sono chiamati anche in quell'ambito alla realizzazione e alla gestione di azioni
per la difesa del suolo, ma dobbiamo sottolineare che le risorse finanziarie destinate alle
azioni ordinarie purtroppo sono state molto carenti.
PRESIDENTE. Qua li sono le regioni che hanno trasferito queste competenze agli enti
locali ?
ANNA MARIA MARTUCCELLI, Direttore generale dell'ANBI. Sicuramente le
Marche.
PRESIDENTE. Sarebbe per noi utile avere una mappa di questi trasferimenti, alla luce
anche dell'attuazione del titolo V della Costituzione. Vorrei inoltre avere una seconda
copia delle mappe allegate alla vostra relazione.
ANNA MARIA MARTUCCELLI, Direttore generale dell'ANBI. Intanto le consegno la
mia copia, poi provvederemo ad inviarne altre alla Commissione.
PRESIDENTE. La ringrazio, direttore, perché potranno essere utili per gli altri colleghi.
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ARCANGELO LOBIANCO, Presidente dell'ANBI. Nelle pagine 28 e 29 del nostro
documento abbiamo cercato di formulare delle proposte concrete che riassumono que llo
che già abbiamo detto nella nostra esposizione.
PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti per il loro contributo significativo.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 12,30.
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Seduta del 24 febbraio 2005
Presidenza del Presidente Pietro ARMANI
La seduta comincia alle 14,35.
Audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale
dei comuni italiani (ANCI).
Durata 15 minuti
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, l'audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale dei comuni italiani
(ANCI).
Con l'attuale indagine, la Commissione si propone di individuare modalità di intervento
e possibili soluzioni rispetto ai problemi derivanti da fenomeni quali le alluvioni, in
seguito ai quali si assiste alla tracimazione di fiumi e torrenti.
Una volta, prima ancora dell'unità d'Italia, i fiumi venivano dragati e, in alcuni casi,
erano addirittura navigabili. Ci siamo allora domandati perché oggi ciò non accade più e
quali limiti o controindicazioni esistano al dragaggio. Perché alcuni grandi fiumi (anche
se non sono molti in Italia) non sono più navigabili? Quali sono i riflessi che una tale
ipotesi comporterebbe rispetto alla difesa idrogeologica del suolo nella lotta alle
alluvioni? Quali sono gli interventi possibili, non solo di carattere straordinario (che in
genere vengono monitorati e realizzati in conseguenza al verificarsi di eventi
calamitosi) ma, soprattutto, di carattere ordinario al fine di effettuare una manutenzione
dei corsi d'acqua a e delle bonifiche?
A questo proposito, abbiamo recentemente ascoltato in audizione i rappresentanti
dell'Associazione dei consorzi di bonifica. Abbiamo scoperto che anche per tali opere di
bonifica (che, in molti casi, risalgono addirittura all'epoca dei monaci benedettini), ogni
tanto, è necessaria una manutenzione. Insomma, è sbagliato pensare che, una volta
realizzate, queste opere restino in quelle condizioni in perpetuo.
Attraverso l'attuale indagine stiamo acquisendo informazioni utili ed elementi da tutti
gli eventuali interessati a questi problemi, comprese le autorità che sul territorio hanno
competenze in questo campo. Se quindi avete a disposizione del materiale informativo o
eventuali altri documenti che affrontano queste problematiche, saremo lieti di poterli
acquisire ai fini di una più completa valutazione prima della redazione del documento
conclusivo dell'indagine.
Do ora la parola all'assessore ai lavori pubblici del comune di Roma.
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GIANCARLO D'ALESSANDRO, Assessore ai lavori pubblici del comune di Roma.
L'indagine conoscitiva in corso è molto utile perché ci consente di sottolineare alcune
carenze nel quadro legislativo, pur molto ricco, che affida al Ministero dei lavori
pubblici ma, sostanzialmente, a regioni e province, l'intervento sui corsi d'acqua (in
conseguenza di questo, alcune competenze sono affidate anche ai consorzi di bonifica).
Normalmente (non conosco a tal punto il quadro legislativo di tutte le regioni italiane),
non vi sono competenze da parte dei comuni in merito ai corsi d'acqua. Questo è un
aspetto che vi prego di considerare con grande attenzione perché, in genere, quando si fa
riferimento ai corsi d'acqua si pensa ai fiumi mentre, nel sistema idrico, hanno una
grandissima rilevanza i fossi perché i fiumi sono generalmente alimentati dai fossi, i
quali raccolgono l'acqua piovana.
Se i fossi non ricevono un'adeguata manutenzione si dà origine a fatti alluvionali anche
rilevanti oltre a problemi seri per la raccolta delle acque da parte del sistema fognario
delle città. La prima osservazione che, come rappresentante dell'ANCI, mi sento di fare
è che appare davvero contraddittorio che i comuni non abbiano alcuna competenza sui
fossi e debbano ricorrere alle province e alle regioni per essere messi in grado di
intervenire. Questo non è soltanto un problema di carattere idrico ma anche urbanistico,
perché nei piani di sviluppo dei comuni si incontrano i fossi, che costituiscono un
vincolo. Questi ultimi, censiti regionalmente, molto spesso costituiscono un vincolo ai
fini edificatori (ciò è giusto per la salvaguardia del fosso medesimo e per la funzione
che esso esercita), però, in altre occasioni, meno importanti e rilevanti, tali fossi
costituiscono un inevitabile ostacolo (magari si tratta di un fosso in disuso che però, in
quanto registrato, costituisce un ostacolo di tipo urbanistico). Più spesso, per qualunque
intervento, anche urge nte, il comune è costretto a ricorrere alla provincia (laddove il
fosso è affidato ad essa) o, per le aste più grandi, alle regioni.
Se nei comuni piccoli questa situazione può anche essere d'aiuto per gli stessi, perché
l'ente provincia presiede, in quelli di più grande dimensione questo problema non si
risolve, specialmente nei comuni metropolitani.
Roma è peraltro un caso unico in termini di dimensioni perché ci sono 129 mila ettari.
Roma contiene al suo interno i più grandi nove comuni italiani ma, al di là dell'unicità
della capitale d'Italia, anche comuni come Milano, Napoli o Palermo hanno problemi
analoghi se non identici.
Il problema della competenza sui fossi da attribuire ai comuni è una questione che il
Parlamento potrebbe considerare, specialmente dove c'è un agglomerato urbano, con
case costruite, quartieri realizzati o da edificare: insomma, dove c'è un'urbanizzazione
adeguata.
PRESIDENTE. Proprio sentendo i consorzi di bonifica abbiamo verificato che essi
lamentano - credo che il riferimento sia per i terreni agricoli più che per le grandi città che, in alcuni casi, le regioni hanno mantenuto ai consorzi la competenza sui fossi e sul
reticolo e, in altri, l'hanno trasferita ai comuni. Tuttavia, credo che in quel caso si tratti
di comuni agricoli.
GIANCARLO D'ALESSANDRO, Assessore ai lavori pubblici del comune di Roma.
Purtroppo no, presidente. Per esempio, nel Lazio esiste la contraddizione del consorzio
di bonifica che, nato per le aree agricole di Maccarese, tutt'oggi vive ed ha le
competenze che aveva 50 anni fa.
PRESIDENTE. Nel senso che a Maccarese si è esteso il centro urbano e, quindi, tutto
ciò non ha più senso.
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GIANCARLO D'ALESSANDRO, Assessore ai lavori pubblici del comune di Roma.
Non ha più senso che sia un consorzio di bonifica al fine agricolo a gestire il sistema
idrico o una sua parte. Recentemente si è aperta una polemica dopo che a Roma si sono
verificati dei fatti alluvionali specialmente nei quartieri verso Ostia, i cui nomi
richiamano le esondazioni e sono sinonimi descrittivi di una realtà (Stagni di Ostia,
Bagnolo e Bagnoletto) ed in altre realtà sulla Cassia che sono gestite dai consorzi di
bonifica. Ovviamente, il consorzio di bonifica si lamenta, come qualunque altro ente
che riceve o deve gestire una competenza senza gli adeguati finanziamenti. Allora, è
chiaro che quel consorzio non solo non ha i finanziamenti ma neanche la struttura per
gestire un intervento importante.
Appare veramente strano che in una realtà dove è stata già attuata la legge Galli quindi, esiste il servizio idrico integrato gestito da un unico gestore, cioè l'ACEA
ATO2, che riguarda 114 comuni -, in alcune parti del comune di Roma ci sia un
consorzio di bonifica che debba occuparsi di tale gestione, della raccolta delle acque e
di tante altre attività che, comprensibili per un'area agricola, diventano incomprensibili e
non funzionali per una zona ampiamente urbanizzata. Quindi, occorre definire la
competenza dei comuni sui fossi.
PRESIDENTE. Perlomeno di alcuni.
GIANCARLO D'ALESSANDRO, Assessore ai lavori pubblici del comune di Roma.
Siccome le aree metropolitane sono definite dalla legge n. 142 del 1990, perlomeno
come elenco, almeno in quelle si potrebbe dire che i comuni intervengono, altrimenti
potrebbe iniziare una problematica discussione sul concetto di area metropolitana.
Quindi, i due elementi che i comuni evidenziano sono che i consorzi di bonifica nelle
zone urbanizzate non hanno più ragion d'essere e che le competenze sui fossi, ai fini
delle urbanizzazioni e nelle aree metropolitane, possono essere affidate direttamente ai
comuni.
PRESIDENTE. Penso che se tale questione fosse messa per iscritto analiticamente,
potrebbe costituire un contributo significativo. Chiaramente, anche nell'ambito delle
aree metropolitane un conto è il comune di Roma, che è molto ampio, un altro sono le
altre aree (conosco il comune di Milano che, viceversa, è molto piccolo, ma non la
situazione, per esempio, di Napoli o di Palermo). Tuttavia, è probabile che i consorzi di
bonifica, nati in passato prevalentemente con finalità di regimazione ai fini agricoli, con
l'avanzare dell'urbanizzazione che si è verificata negli ultimi 100 anni, abbiano
cambiato la loro funzione o abbiano avuto di fronte dei problemi diversi rispetto a quelli
per i quali erano stati costituiti a suo tempo.
GIANCARLO D'ALESSANDRO, Assessore ai lavori pubblici del comune di Roma.
Presidente, le segnalo una curiosità, ma che è anche un problema ed una contraddizione.
Il consorzio di bonifica ha un regime tariffario che nasce dalla funzione di erogare
acqua ai fini agricoli e, quindi, con altre finalità. Recentemente a Roma il consorzio di
bonifica ha detto che, siccome adesso il territorio era diventato una città, doveva
chiedere una tariffa come altri, mentre i cittadini romani potrebbero avvalersi del
servizio idrico integrato in cui la tariffa dell'acqua è definita dalla legge Galli e dai
relativi meccanismi. In questo caso si aprirebbe anche una contraddizione tariffaria.
PRESIDENTE. Tale aspetto è giusto, anzi è bene sottolinearlo.
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GIANCARLO D'ALESSANDRO, Assessore ai lavori pubblici del comune di Roma.
Nel nostro documento tutto ciò sarà evidenziato in modo più esplicito perché si
aprirebbe una contraddizione sul regime tariffario.
PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti per la loro partecipazione e dichiaro conclusa
l'audizione.
La seduta termina alle 14.50.
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Seduta dell’8 marzo 2005
Presidenza del Presidente Pietro ARMANI
La seduta comincia alle 11,25.
Audizione di rappresentanti delle Autorità di bacino dei fiumi Po, Arno e Tevere.
Durata 45 minuti.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, l'audizione di rappresentanti delle Autorità di bacino dei fiumi Po, Arno e
Tevere.
Avverto che i rappresentanti delle Autorità di bacino hanno consegnato una
documentazione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico
della seduta odierna.
Do la parola al segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po.
MICHELE PRESBITERO, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po.
Signor presidente, le ricordo che l'estensione del bacino del fiume Po corrisponde ad un
quarto della superficie nazionale, ovvero circa 74 mila chilometri quadrati. La gestione
di questo territorio ricade su ben otto regioni, tre delle quali hanno competenza assoluta:
mi riferisco al Piemonte, alla Lombardia e alla Valle d'Aosta. L'area in esame
comprende 32 province, 3.210 comuni, 16 milioni di abitanti e in essa viene prodotto
circa il 40 per cento del PIL nazionale. Si tratta, quindi, di un'area molto vasta che,
naturalmente, dà origine a problemi complessi, proprio perché racchiude in sé il bacino
del Po, il più lungo fiume d'Italia. Tra l'altro, le popolazioni direttamente toccate da
questi problemi - che andrebbero considerati proprio in una caratteristica di piano, come
la legge n. 183 del 1989 aveva indicato - vivono nelle immediate vicinanze dei suoi più
importanti affluenti (Ticino, Mincio, Adda, Oglio, Dora Baltea e Dora Riparia).
In particolare, le programmazioni territoriali effettuate hanno visto la completa
partecipazione degli enti regionali; quindi, la mutua condivisione di programmi attraverso i quali si sono portati a compimento interventi di difesa del suolo dalle
pericolose e drammatiche alluvioni che tanto hanno colpito quest'area negli ultimi
quindici anni - ha facilitato la messa in opera di studi, di approfondimenti e di
aggiornamenti. Mi riferisco alla gestione di quei dati in grado di dare risposte
immediate al fine di attivare interventi tempestivi sulla carta.
Per trent'anni ho operato in regione Lombardia come direttore generale dell'ufficio o
divisione territorio e urbanistica; attualmente sono ancora membro della Commissione
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nazionale grandi rischi per le catastrofi idrogeologiche. Ho cominciato questa attività
collaborando con l'onorevole Zamberletti e l'ho proseguita con Gaspari e con Lattanzio.
Quindi, posso affermare con certezza che la difesa del suolo, purtroppo, è stata alquanto
dimenticata: non si registrano cioè quelle azioni preventive e tempestive che potrebbero
far risparmiare non solo vite umane - il primo obiettivo a cui dobbiamo pensare -, ma
anche enormi risorse. Recentemente, anche grazie alle cosiddette leggi Bassanini, i
canoni demaniali - una volta attribuiti allo Stato - sono stati trasferiti alle regioni; di
conseguenza vi è stata una riduzione di stanziamenti per la difesa del suolo da parte
dello Stato nei confronti delle regioni stesse. La mancata indicazione dell'obbligo di
reinvestire nell'ambito della difesa del suolo ciò che viene incamerato grazie a questi
canoni ha generato, secondo me, un grave scompenso. Si è realizzata, infatti, una
cronica diminuzione delle risorse per tutti gli interventi in genere; di conseguenza non si
può pensare di sfruttare il territorio in modo non mirato, pensando che non vi possano
essere dei ritorni negativi per le popolazioni. Le risorse naturali vi sono: occorre tuttavia
sfruttarle in modo adeguato, impedendo che esse possano pregiudicare il naturale
assetto ed equilibrio che la natura cerca sempre di trovare nelle sue manifestazioni.
Ci tengo inoltre a dire che il corso del Po è stato sottoposto a sorveglianza e che la
Commissione interministeriale De Marchi è stata una delle prime a dare indicazioni in
tale senso, dopo le alluvioni del 1951 e del 1966. Sono stati approvati una serie di
provvedimenti che avrebbero dovuto fissare precise indicazioni per ciò che concerne gli
interventi idraulici. Per quanto ci riguarda, abbiamo accluso agli atti una memoria
concernente un programma triennale di interventi già operativo, poiché approvato dal
comitato istituzionale; inoltre, abbiamo presentato un piano decennale di previsione
degli interventi. Abbiamo indicato anche i costi relativi al perfezionamento delle opere
effettuate in condizioni di emergenza, nell'ambito della protezione civile; soltanto questi
interventi di manutenzione e di ripristino di tali opere, eseguiti in momenti eccezionali,
richiedono un finanziamento pari a 965 milioni di euro.
Sappiamo dove agire: abbiamo individuato, insieme alle regioni, le aree dove è
prioritario intervenire, ma non possiamo continuare ad indicare le priorità delle priorità
delle priorità, perché alla fine si rischierebbe di effettuare pochi interventi rispetto alle
decine che sono considerati necessari ed impellenti. Dico ciò per indicare le cause di
possibili mancati interventi; quando non si riesce ad intervenire, si può parlare anche
frettolosamente di possibili inefficienze, ma le cause vanno ricercate solamente
nell'impossibilità di avviare certe operazioni per mancanza di risorse o perché gli eventi
meteorologici, climatici e naturali alterano in breve tempo determinate situazioni, che,
con fatica, si era cercato di portare ad opportuno livello di conoscenza.
Le indagini devono quindi essere tempestive e devono garantire la possibilità di
intervento in un tempo medio-breve; inoltre, a volte occorre velocizzare gli aspetti
burocratici, nel rispetto delle leggi, cercando di trovare le modalità applicative
attraverso le quali gli enti attuatori possano intervenire nei tempi previsti, altrimenti
qualsiasi programma è destinato ad essere continuamente aggiornato, con una perdita di
tempo che determina effetti negativi.
Le risorse per le manutenzioni delle opere possono sicuramente essere individuate, oltre
che nei canoni demaniali, anche e soprattutto in una disponibilità...
PRESIDENTE. Si parla di 13 miliardi...
MICHELE PRESBITERO, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po.
Questo è il programma ventennale. Io mi sono limitato a quello più urgente ed
immediato.
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PRESIDENTE. Quindi 900 milioni...
MICHELE PRESBITERO, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po. Si
tratta di 965 milioni.
PRESIDENTE. Che sono inclusi in questi 13 miliardi?
MICHELE PRESBITERO, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po. Sì,
certamente; li abbiamo diversificati anche per ambiti e per applicazioni.
Infatti, nelle ultime pagine dell'allegato al nostro documento si parla di progetto d'area;
vengono indicati gli interventi che dovrebbero essere considerati a completamento delle
risorse che sono state già spese in momenti di necessità e di urgenza, nell'ambito della
protezione civile (solo queste risorse ammontano a 965 milioni di euro). I programmi di
intervento si trovano negli allegati, alle ultime pagine.
Alcune risorse sono quelle relative alla disponibilità di materiali inerti, che vi sono
lungo questa asta...
PRESIDENTE. Tra l'altro, con l'alta velocità ferroviaria, come per il Piemonte, il
problema di attraversamento si porrà anche per le altre regioni.
MICHELE PRESBITERO, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po. Il
Piemonte, la Lombardia, l'Emilia-Romagna sono regioni attraversate da queste grandi
opere...
PRESIDENTE. Il famoso corridoio n. 5.
MICHELE PRESBITERO, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po.
Dopo tanto tempo passato nella pubblica amministrazione, io continuo a credere
fermamente nelle istituzioni; però, a volte...
PRESIDENTE. Questo le fa onore, visto che talvolta la pubblica amministrazione ...
MICHELE PRESBITERO, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po.
Chi mi conosce sa che ho sempre pensato questo (come credo lo pensino molti altri e,
sicuramente, tutti quelli che sono presenti in quest'aula).
Per quanto riguarda le condizioni di offerta del materiale inerte, destinato a queste
grandi opere, occorre dire che esso viene a volte considerato come materiale «povero»,
quando invece di materiale povero non si tratta; anzi, viene dato per scontato che questi
materiali siano reperiti senza alcuna difficoltà. Ciò non è vero; ve lo dice chi ha visto
nascere i programmi di piani cave nella regione Lombardia fin dal 1975, quando si
diceva che era inutile aprire cave di prestito, che coinvolgevano grandi aree, portando
via il materiale e lasciando «buchi» che non venivano recuperati. Si affermava così che
occorresse rivolgersi alle potenzialità delle cave esistenti e valutare quanto materiale di
queste cave esistenti potesse essere impiegato nelle opere pubbliche. È chiaro che si
andavano a toccare determinati interessi; così un operatore o un imprenditore del settore
sosteneva che, una volta predisposto un programma decennale o ventennale, di fronte
alla richiesta di un'ingente quantità di materiale, sarebbe stato costretto a dimezzare le
sue potenzialità (perché si trattava di un materiale per opere pubbliche, che doveva
essere pagato meno). Il desiderio degli operatori era quello di andare a prendere il
materiale praticamente già lavato, già classato, per quanto riguarda la granolumetria,
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presente nei torrenti e nei fiumi (anche se nei torrenti non va nessuno a prendere il
materiale, perché è troppo grosso).
PRESIDENTE. Mentre invece dovrebbero andarci.
MICHELE PRESBITERO, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po. Si
potrebbe; noi abbiamo cercato di incentivare frantoi, zone nelle quali il materiale
grossolano non è appetibile. È proprio questo che dà luogo a quei sovra-alluvionamenti
che poi determinano i maggiori disastri (che partono proprio a monte). Invece tutti
vogliono prendere i materiali più preziosi, in senso granolumetrico, che il fiume classa,
perché, trasportando l'acqua, esso lascia andare prima il materiale più pesante e via via
quello più fine; alla fine rimane un materiale lavato, un materiale naturale a
disposizione, che non c'è bisogno di pulire. Da qui è nato il desiderio di andare a
prendere quel materiale. Tuttavia, in un momento in cui non c'era sorveglianza o
disponibilità o attenzione su questi fatti, si è generato un grave depauperamento di
questo sedimento, causando degli approfondimenti nel corso dei fiumi (quando parlo di
approfondimenti mi riferisco al fatto che il fiume scava e va sempre più in profondità,
generando un aumento delle pendenze dei versanti ed andando a scoprire addirittura
fondazioni di ponti, facendo persino crollare delle opere pubbliche).
PRESIDENTE. Mi scusi se la interrompo, però in Piemonte - noi abbiamo sentito le
autorità della regione - questo problema delle opere dell'alta velocità è stato risolto con
un piano che ha creato delle aree di invasamento (non so come vengono definite
tecnicamente), che sono state pianificate con l'intesa sia dei proprietari dei terreni sia di
tutti coloro che dovevano poi utilizzare il materiale.
MICHELE PRESBITERO, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po.
Ma questo va benissimo; infatti, dobbiamo distinguere tra aree private e aree pubbliche.
Le aree demaniali sono quelle pubbliche, di proprietà dello Stato o delle regioni; le aree
private fanno riferimento ai piani provinciali cave o ai piani regionali delle cave. In
questi casi si può operare con autorizzazione, in seguito alla va lutazione di impatto
ambientale e nel rispetto di tutto quello che le leggi regionali prevedono. Noi non
abbiamo niente da dire al riguardo, a meno che non siano molto vicini all'alveo.
Rammento che, prima dell'entrata in vigore di alcune leggi del passato quali, ad
esempio, la cosiddetta legge Cutrera, quando il fiume abbandonava un'area o ne
conquistava un'altra subito si richiedevano le mappalizzazioni, ovvero il passaggio alla
proprietà privata. In questo modo, si è ristretta di molto la disponibilità del demanio
pubblico nel quale, in modo autonomo, lo Stato o le regioni avrebbero potuto
intervenire con lungimiranza. Le mappalizzazioni e le privatizzazioni di aree già
demaniali hanno ristretto sempre più la competenza dello Stato quanto alle aree sulle
quali intervenire. Infatti, se un'area diventa privata, è necessario espropriarla, oppure
verificare che gli interventi su di essa effettuati non provochino conseguenze negative
sul resto del sistema fluviale. Non è con i confini di proprietà o con quelli
amministrativi, infatti, che riusciamo a stabilire se una certa opera sia pericolosa o
meno. Sappiamo quante conseguenze ci possono essere da una parte per interventi
effettuati in un'altra parte.
Ho detto questo per ricordare come sia nato il problema. L'interesse per questi materiali,
per così dire, di proprietà pubblica ha occasionato alcune leggi come, ad esempio, la
legge n. 677 del 1996, approvata a seguito della condizione di necessità verificatasi in
Versilia, dove il valore del materiale era non molto alto (il segretario generale
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dell'Autorità di bacino del fiume Arno, Giovanni Menduni, potrà essere più preciso in
merito). Il legislatore faceva riferimento a veri e propri piani che non contrastassero con
quelli di bacino. Invece, la medesima legge n. 677 - i cui termini, recentemente, sono
stati prorogati in un modo che, a mio parere, non ha apportato benefici - ha determinato
come conseguenza che in alcuni comuni si localizzassero, con il sistema del compenso,
opere la cui realizzazione, magari, era inutile. Vi è una difficoltà nella sorveglianza:
sul Trebbia, in un solo giorno, ho personalmente contato 400 camion che
portavano via il materiale rimosso dagli alvei; tale lavoro è proseguito per mesi.
Un rapido calcolo evidenzia come, purtroppo, il controllo sia molto difficile.
Inoltre, signor presidente, la compensazione non tiene conto né dell'IVA né dei costi di
scavo. Illustro un esempio molto semplice: se noi effettuiamo uno scavo in un'area
demaniale a compenso, l'operatore non soltanto si appropria del materiale
gratuitamente, ma fa pagare anche un prezzo per lo scavo che, per metro cubo, a volte è
quasi pari a quello che sarebbe richiesto dall'ente pubblico, vale a dire tra i 2 euro e 50
centesimi e i 3 euro, oltre all'IVA, nella misura del 20 per cento. Per il Trebbia è
avvenuto qualcosa di simile. Invece, lo Stato e le regioni non pagano l'IVA e non hanno
bisogno di pagare gli scavi perché effettuano opere a compenso, bilanciando i costi. Si
può realizzare un piano ma non un intervento localizzato in base a ciò che un comune
può considerare utile.
Attualmente, sappiamo dove sia ubicato il materiale a disposizione. Le cosiddette
vasche di laminazione e di espansione possono essere realizzate perché si trovano su
aree private. Noi non siamo assolutamente contrari sul punto. Tuttavia, dal momento
che devono recepire le acque e restituirle, esse devono essere tecnicamente adatte a
questa funzione. Perciò, non c'è nessun problema; anzi, le proposte dei privati fanno
risparmiare denaro allo Stato. La finanza di progetto è utilissima perché lo Stato non
spende denaro, l'opera è realizzata e tutti sono contenti; questo è un percorso virtuoso. Il
problema è che si rende necessaria almeno una verifica volta ad accertare se queste
opere sono realizzate in aree demaniali che non siano state individuate nell'ambito di
una programmazione di interventi. Infatti, se impieghiamo risorse per individuare le
aree pubbliche funzionali ad un intervento di questo tipo, non possiamo studiare, poi,
tutte le proposte che pervengono da parte dei privati. Il tramite deve essere comunque il
comune, oppure la regione.
PRESIDENTE. Dal momento che dobbiamo ascoltare anche i rappresentanti delle
Autorità di bacino del fiume Arno e del fiume Tevere, oltre che, nella successiva
audizione, i rappresentanti delle province italiane, sono costretto ad interromperla,
considerata la limitatezza del tempo a disposizione. In ogni caso, ci avvarremo della
memoria che l'Autorità ha consegnato a questa Commissione.
Invito i componenti della Commissione a formulare le loro domande.
ERMETE REALACCI. Qualche tempo fa, l'Autorità di bacino del fiume Po svolse un
interessantissimo lavoro per verificare quali fossero le cause delle esondazioni e dei più
gravi danni alluvionali lungo il bacino del fiume. Si verificò che, in molti casi, queste
cause corrispondevano ad opere non pianificate o non programmate oppure ad
escavazioni effettuate al di fuori della gestione pubblica. Sappiamo che si è verificato un
ritardo e che i Savoia e la Repubblica veneta furono molto più lungimiranti dello Stato
italiano perché non permisero...
PRESIDENTE. Torniamo agli Stati preunitari!
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ERMETE REALACCI... di privatizzare le aree golenali. Questo è uno dei problemi che
si sono verificati lungo il corso del Po. Sappiamo anche - lo dico a futura memoria - che
quando si attribuisce la causa di una alluvione al fatto che il fiume non era stato
abbastanza «approfondito» si afferma cosa non esatta, che appartiene all'immaginario
popolare. In realtà, come ricordava il dottor Presbitero, i tratti dai quali sarebbe
necessario togliere materiali inerti sono spesso tratti nei quali non c'è competitività
economica, per cui nessuno va a rimuoverli; in genere, sono gli affluenti a carattere
torrentizio. Invece, si rimuovono gli inerti in altri tratti e queste escavazioni, spesso
effettuate senza regole, producono danni.
MICHELE PRESBITERO, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po.
Posso affermare che la tempestività deve essere un requisito assolutamente da
osservarsi. Attualmente, noi conosciamo i punti, lungo il bacino del Po o nelle zone di
affluenza, da cui possono essere asportati quantitativi di materiali. Dunque, c'è una
potenzialità ma nell'ambito di un piano e di un programma ben precisi, che tengano
conto dell'equilibrio di tutto il fiume. Non si può intervenire in modo localizzato.
Il 2 marzo scorso la provincia di Mantova ha inviato a tutti questi enti, compreso il
nostro, un documento nel quale si afferma che nel corso di un dibattito svoltosi in
relazione a questi aspetti tecnici è emerso che nell'ultimo mezzo secolo si sono
registrati abbassamenti del fondo dell'alveo di magra del fiume Po dell'ordine di 4
metri. Ciò sta causando problemi alla stabilità delle opere di attraversamento, ovvero i
ponti, e alle opere di presa a fini irrigui, potabili e industriali posti lungo il suo corso,
sempre più in difficoltà nei periodi di magra del fiume. Dunque, si rileva l'esigenza di
individuare ed attuare interventi necessari a bloccare l'abbassamento dell'alveo di
magra. Insomma, sono problemi reali e noi dobbiamo considerare sempre che il fiume
nasce in montagna, quindi riceve i suoi affluenti e infine arriva al mare.
PRESIDENTE. Mi pare di capire che occorre scavare nei torrenti, perché sono stati
abbandonati.
Un altro tema per il quale ho una specifica e personale propensione è quello del
ripristino della navigabilità in una parte del Po. Essendo stato candidato nel collegio
della bassa Lombardia, nella precedente legislatura, ho constatato lo stato cui è ridotto il
porto di Cremona, il cui bacino dovrebbe essere migliorato e reso operativo.
MICHELE PRESBITERO, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po.
Infatti, il posto in questione si è trovato ad avere una profondità tale per cui non era
neppure accessibile alla navigazione. Tuttavia, il presidente della regione Lombardia,
Formigoni, in base al programma che sta presentando, è intenzionato ad agire in modo
molto tempestivo proprio con riferimento al problema della navigazione.
PRESIDENTE. Certamente, con la crisi delle autostrade il Po potrà tornare ad essere
navigabile.
MICHELE PRESBITERO, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po.
Ho partecipato ad una riunione, alla quale hanno preso parte anche il ministro Lunardi e
l'allora ministro Bossi, riguardante la necessità di completare la via navigabile da
Cremona a Milano. Questo solo per mancanza di risorse.
PRESIDENTE. Poi ci sono gli interporti collegati.
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MICHELE PRESBITERO, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po.
Infatti, quello di Pizzighettone è collegato all'area bergamasca e quello vicino Milano
potrebbe interessare tutta l'area milanese. L'area navigabile di Fissero-Canalbianco è
molto importante e si sta cercando di renderla sempre navigabile, così come l'alveo del
Po.
PRESIDENTE. A completamento della nostra indagine, potrebbe essere utile una visita
della Commissione sul bacino del Po, perché analizzare concretamente le questioni sul
territorio è tutta un'altra cosa!
MICHELE PRESBITERO, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Po. Se
volete, posso organizzarla.
PRESIDENTE. Do ora la parola al segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume
Arno.
GIOVANNI MENDUNI, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Arno.
Condivido pienamente l'intervento del collega Presbitero e vorrei solo aggiungere un
aspetto alle sue argomentazioni. Ho diretto per quasi 15 anni la ricerca nel campo del
trasporto solido al Politecnico di Milano e vorrei dire che quando si operano escavazioni
in alveo, si determinano effetti di difficile valutazione, nel senso che la propagazione di
un'azione locale può collocarsi anche molto lontano rispetto al punto della sua causa.
Quindi, tali azioni, in ogni caso, vanno valutate con grande cautela perché si possono
determinare criticità relative ad opere - di sponda, di ponti e di attività in alveo - in
maniera del tutto inaspettata. Per quanto riguarda la programmazione, il bacino
dell'Arno ha una dimensione più ridotta rispetto a quello del Po.
PRESIDENTE. Alcune volte è però altrettanto «cattivo».
GIOVANNI MENDUNI, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Arno. Si
tratta di quasi 10 mila chilometri quadrati coinvolgendo 2 regioni, 9 province e 200
comuni. Tuttavia, l'Arno presenta delle caratteristiche idrologiche estremamente
particolari, nella sostanza quelle di un torrente, sicché la sua portata può aumentare
anche di 300 volte nel giro di poche ore in condizioni del tutto ordinarie. L'evento
drammatico del 1966 fu una catastrofe di proporzioni enormi ed anche un evento
mediatico ante litteram, che interessò praticamente tutto il pianeta. Quell'evento
determinò una filiera - pensiamo alla Commissione De Marchi citata da Presbitero e a
tanti altri interventi - che sfociò nella approvazione della legge n. 183 del 1989, che ha
dato al nostro paese risposte estremamente concrete in quel campo.
Già nel 1999 l'Autorità di bacino dell'Arno affrontò con un piano, definitivamente
approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, il problema del rischio
idraulico: da allora iniziò la propria programmazione ordinaria. Pochi mesi prima che
venisse approvato in sede di comitato istituzionale il piano di rischio idraulico, avvenne
il disastro di Sarno. Il decreto- legge n. 180 del 1998 «perturbò» l'assetto della legge n.
183 del 1989, che almeno per quel che riguarda le Autorità di bacino di rilievo
nazionale ha comunque fornito un impulso ed uno stimolo che sarebbe fuori luogo
negare. Se rapportassimo il flusso di risorse giunte in 15 anni all'Autorità di bacino del
fiume Arno per la difesa del suolo - sia attraverso la programmazione ordinaria della
legge n. 183 del 1989 sia attraverso altri interventi straordinari (i mutui previsti dalla
legge n. 388 del 2000, le misure della legge finanziaria del 2001, quelle del decreto-
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legge n. 180 del 1998 nonché le ordinanze di protezione civile del 2000) - con la
programmazione prevista dal piano di bacino e con il PIL, constateremmo che alcuni
governi sono stati forse più «generosi» ed altri meno, magari per impulsi momentanei
dettati dalle catastrofi che si verificavano, e che «lira più lira meno» tale flusso è stato
costante (salvo oscillazioni del 20-30 per cento) ma comunque inferiore alle necessità
previste dalla programmazione dei piani di bacino.
Tenendo presente che nel frattempo si sono succeduti circa quindici governi, tale
aspetto dimostra che, probabilmente, esiste un problema nel meccanismo che sta alla
base di tutto questo. La nostra Autorità di bacino ha un assetto straordinariamente
peculiare, perché ha un rilievo nazionale ma al contempo un contesto territoriale
straordinariamente omogeneo (per molti punti di vista operare nel nostro ambito è più
semplice rispetto ad altri). Attraverso lo sviluppo del nostro piano di assetto
idrogeologico (PAI) - che, peraltro, è stato approvato definitivamente lo scorso 18
novembre - abbiamo svolto un'analisi molto dettagliata delle criticità, estendendola sino
alla scala dei singoli edifici. Di conseguenza, abbiamo svolto un'analisi costi-benefici
degli interventi, dalla quale è emerso un aspetto: rispetto al flusso di risorse, gli effetti
degli interventi non sono proporzionati, nel senso che con un'erogazione modesta di
risorse si ottengono inizialmente risultati molto eclatanti ma, per rafforzare tale
situazione, si impiegano risorse via via crescenti.
PRESIDENTE. Quindi, visto che per questi primi interventi vengono destinate risorse
scarse e si ottengono immediatamente effetti molto consistenti che, però, imporranno
nel tempo interventi sempre più onerosi, converrebbe, come primo impatto, destinare
maggiori risorse.
GIOVANNI MENDUNI, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Arno.
No. All'indomani dell'approvazione di ogni legge finanziaria ho assistito ritualmente
alle proteste, anche motivate, per le scarse risorse assegnate. Attraverso la nostra
pianificazione di assetto idrogeologico, abbiamo «attaccato» il problema dell'asta
principale dell'Arno. Negli ultimi mille anni Firenze ha avuto 56 alluvioni, 8 delle quali
con caratteristiche catastrofiche, come quella del 1966. Attraverso un'analisi costibenefici abbiamo individuato degli obiettivi condivisi sul territorio ed abbiamo stilato
un programma di interventi basato sul riconoscimento di una serie di criticità
inderogabili, che, rispetto agli eventi eccezionali con frequenza duecentennale, in
sostanza sono rappresentati dalla messa in sicurezza di tutta l'area del Valdarno
superiore e di quella della città di Firenze.
PRESIDENTE. La famosa diga del Bilancino...
GIOVANNI MENDUNI, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Arno.
La diga del Bilancino è uno dei tasselli di questo mosaico; come, del resto, la messa in
sicurezza della città metropolitana Firenze - Prato - Pistoia, e dell'area del Valdarno
inferiore fino a Pisa (che è un distretto produttivo di grande importanza) rappresentano
altrettanti punti cruciali.
Attraverso la genesi del piano di assetto idrogeologico, abbiamo condiviso le criticità ed
il modo per superarle; abbiamo instaurato un processo di programmazione negoziata,
attraverso il quale lo stesso sistema delle regioni e degli enti locali si è reso disponibile
a cooperare in maniera sinergica con l'amministrazione centrale per il perseguimento di
questi obiettivi.
Abbiamo realizzato alcuni esempi pilota, come la creazione della cassa di espansione di
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Signa, che in una città metropolitana copre oltre 200 ettari di parco, mettendo in
sicurezza ampie aree della pianura fiorentina, alla quale hanno partecipato in maniera
sussidiaria lo Stato (attraverso la programmazione prevista dalla legge n. 183), la
regione Toscana, la provincia di Firenze e tutti i comuni che traggono beneficio
dall'opera.
Abbiamo cercato tutte le sinergie possibili tra queste opere e le altre infrastrutture
presenti sul territorio: mi riferisco a tutte le varianti delle ex strade statali, agli impianti
sportivi, ricreativi e quant'altro. Abbiamo quindi determinato questo programma di
interventi prioritari, deliberato sia dal comitato istituzionale dell'Autorità di bacino, sia
dalla giunta della regione Toscana, la quale si è fatta anche garante della partecipazione
del sistema degli enti locali a questa programmazione.
Il 18 febbraio scorso il ministro Matteoli e il presidente della regione Toscana, Claudio
Martini, hanno siglato presso l'Autorità di bacino dell'Arno questo accordo di
programma-quadro che prevede il finanziamento sussidiario del programma di
interventi (che, ripeto, ha per obiettivo la messa in sicurezza di tutta l'area del Valdarno,
in particolare delle città di Firenze e di Pisa, rispetto ad eventi eccezionali) per cui entro
due anni Stato e regione Toscana si impegnano, pro quota, a rendere disponibili (50 per
cento lo Stato, 50 per cento tra la regione e il sistema degli enti locali) le risorse
necessarie.
Si tratta di una novità; vorrei altresì sottolineare che per la prima volta si agisce in
maniera simultanea su 200 chilometri di asta fluviale, compiendo quindi un'azione di
carattere ambientale straordinariamente importante ed avviando anche un'azione di
interventi non strutturali (parlo di sistemi di monitoraggio, previsione e preannuncio,
nonché di sistemi di sicurezza alla scala locale), che garantiranno una copertura del
rischio residuo durante la realizzazione di questo piano.
PRESIDENTE. Potremmo eventualmente organizzare un sopralluogo della
Commissione per visionare queste opere.
GIOVANNI MENDUNI, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Arno.
La cosa mi farebbe molto piacere. Alcune delle opere strategiche eseguite sull'asta
dell'Arno sono tra l'altro concluse, quindi anche da un punto di vista tecnico potrebbe
essere una visita «produttiva».
PRESIDENTE. Come lei saprà, ho insegnato molti anni a Pisa, per cui ho potuto
personalmente assistere alla esecuzione di alcune opere sull'Arno.
Do la parola al rappresentante dell'Autorità di bacino del fiume Tevere.
ROBERTO GRAPPELLI, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Tevere.
Svolgerò un'esposizione alquanto rapida, perché molti argomenti sono già stati trattati.
Inoltre, molti aspetti di dettaglio della mia esposizione sono riportati nella
documentazione che ho presentato alla Commissione.
Vorrei solo sottolineare alcuni aspetti peculiari relativi all'Autorità di bacino del Tevere.
Il bacino del Tevere è costituito da sei regioni gravitanti sul Tevere stesso, con
un'estensione di poco inferiore ai 18 mila chilometri quadrati, e comprende circa 350
comuni e 14 province. Tale estensione lo porta ad essere il secondo bacino di rilievo
nazionale. Esso presenta quindi problematiche alquanto più articolate, assimilabili a
quelle del Po (anche se ovviamente su scala minore), perché nella pianificazione devono
convivere gli interessi di sei regioni.
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PRESIDENTE. Mi pare tuttavia che il Tevere sia un corso d'acqua dal regime
torrentizio.
ROBERTO GRAPPELLI, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Tevere.
Se mi consente la battuta, signor presidente, diciamo che il Tevere è un torrente; io lo
considero un torrente, solo se però effettuiamo questo paragone con tutti gli altri fiumi
mondiali.
PRESIDENTE. Certo, se lo si paragona al Mississippi...
ROBERTO GRAPPELLI, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Tevere.
Se però lo consideriamo sotto l'aspetto della storia idraulica e della storia del connubio
Roma-Tevere e Tevere-Roma, è da ritenersi importante in senso assoluto. Lo dico non
solo perché sono romano, ma come fatto storico.
Nell'ambito del bacino idrografico del Tevere, gli aspetti relativi agli escavi degli alvei
non hanno grossa rilevanza. Abbiamo qualche piccolo problema a seguito di richieste di
escavi sul torrente Chiascio, dove tuttavia, in pieno accordo con l'amministrazione
provinciale, dovrà studiarsi nel suo complesso tale tronco al fine di procedere o meno a
questi escavi, sempre solo ai fini del ripristino della idraulica del corso d'acqua.
Per quello che riguarda il piano di assetto idrogeologico (PAI), il quale rappresenta
anche uno degli argomenti chiave della presente audizione, possiamo dire che il nostro è
stato adottato dal Comitato istituziona le. Dobbiamo però attendere che le varie regioni
presentino le loro osservazioni. Siamo perciò lievemente in ritardo. Stiamo ad oggi
ricevendo le varie osservazioni: sono in procinto di giungere le osservazioni dell'Umbria
e delle Marche, mentre quelle formulate dalla Toscana sono già arrivate. Dovrebbero
pervenire quelle del Lazio, ma dubito che esse possano essere fornite prima delle
elezioni.
PRESIDENTE. Bisognerebbe sollecitare queste regioni.
ROBERTO GRAPPELLI, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Tevere.
Nel caso specifico del PAI sarebbe opportuno, come forse anche in altre pianificazioni.
Come Autorità di bacino, abbiamo affrontato ad esempio la pianificazione sia del lago
di Piediluco (si tratta di un piano stralcio di tipo ambientale), sia quella attualmente in
fase di realizzazione riguardante la risorsa idrica (quindi: bilancio idrico, minimo
deflusso vitale e tutto l'aspetto dell'approvvigionamento idrico, sia delle acque
superficiali sia di quelle sotterranee).
Occorre a questo proposito riconoscere lo stato particolarmente «fortunato» del bacino
idrografico del Tevere per il quale, in generale, non vi sono grossi problemi di carenza
idrica. Ci sono stati solo casi episodici in alcuni punti. È chiaro comunque che si dovrà
arrivare ad una razionalizzazione della risorsa idrica, al fine di non trovarsi poi, tra
qualche anno, in condizioni critiche.
Abbiamo in essere con l'Università di Roma «La Sapienza» un'attività congiunta per
quanto riguarda lo studio relativo agli aspetti economici, che sono molto importanti per
la pianificazione. Ricordo, ad esempio, il piano stralcio dell'area romana, che è stato
considerato nello spirito della legge n. 183 del 1989, non solo per quanto riguarda gli
aspetti del rischio idraulico, ma anche per quanto concerne gli altri aspetti della
pianificazione: rischio idraulico, risorsa idrica, utilizzo del corso d'acqua.
Quindi, nel caso del Tevere parlavo di navigabilità o di altri eventuali usi. Per quanto
riguarda gli aspetti ambientali intesi dai punti di vista paesaggistico e archeologico,
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dobbiamo anche tenere conto delle richieste del Ministero per i beni e le attività
culturali, anche questo componente del Comitato istituzionale, nello spirito di realizzare
una pianificazione integrata e complessiva (vista ovviamente in una scala non di
dettaglio) dal momento che lo sviluppo di questa spetta alle regioni e agli enti locali.
L'altra questione che credo sia importante rilevare è quella delle vasche di laminazione:
nel caso del Tevere, ne abbiamo una di tipo artificiale ma non di grande rilievo sul
Chiani, che è già stata inaugurata ed è operativa. Ciò che è forse più importante è il
«polmone idrico» che dobbiamo lasciare disponibile a nord di Roma per la salvaguardia
della città. Quando furono realizzati i famosi muraglioni all'inizio del Novecento, si
previde che nelle condizioni critiche della portata, con tempo di ritorno bicentenario, vi
fosse la possibilità di far espandere il Tevere in tutta la zona di Castelnuovo di Porto,
Monterotondo e così via. Quindi, attualmente in questi comuni vi sono zone considerate
inedificabili, al fine di consentire al Tevere di espandere, in modo tale che nella città di
Roma transiti la portata che può essere contenuta nei muraglioni.
Dato che riteniamo che l'Autorità di bacino debba portare avanti un discorso di
pianificazione partecipata, quindi in pieno accordo con le regioni e gli enti locali
interessati, abbiamo studiato nel dettaglio una serie di possibilità per poter meglio
razionalizzare l'onere che hanno i comuni a nord di Roma. Ad esempio, il 70 per cento
del territorio del comune di Castelnuovo di Porto è penalizzato ai fini della salvaguardia
della città di Roma; sarebbe quindi bene cercare di ripartire più equamente questi oneri.
La regione Lazio, in accordo con la regione Umbria, anch'essa interessata, dovrà
prendere le decisioni politiche che riguardano aspetti sociali ed economici, perché,
come Autorità, noi possiamo stabilire quale può essere la soluzione più interessante dal
punto di vista dei costi e dei benefici, ma essa potrebbe anche cozzare contro le future
strategie delle regioni e dei comuni.
L'ultimo aspetto che vorrei evidenziare, poiché lo considero rilevante, è che noi siamo
stati scelti, su segnalazione del Ministero dell'ambiente, come bacino sperimentale
europeo per l'attuazione della direttiva 2060 del 2000. I risultati sono stati abbastanza
interessanti, tanto che saremo coinvolti per ciò che riguarda non solo la parte
dell'approvvigionamento idrico e della qualità delle acque, ma anche la nuova esigenza
a livello europeo rappresentata dalle esondazioni. In questo campo i vari paesi europei
partono da zero, mentre l'esperienza dell'Italia in merito alla pianificazione dei bacini
regionali e nazionali è notevole; speriamo quindi di poter fornire un utile contributo. Un
altro profilo interessante è l'interesse da parte dei bacini del Mediterraneo ad avere come
riferimento il bacino idrografico del Tevere.
PRESIDENTE. Prima di concludere l'audizione do la parola all'onorevole Stradella, che
invito ad essere breve, poiché la concomitanza con i lavori dell'Assemblea mi
costringerà a sospendere la seduta.
FRANCESCO STRADELLA. Prima della domanda, devo svolgere però una premessa.
Fortunatamente l'indagine che sta svolgendo la nostra Commissione stimola molti
interessi all'interno dell'opinione pubblica. Il professor Presbitero conosce molto bene la
situazione del bacino del Po e di tutti i suoi affluenti. Molte delle associazioni
spontanee, nate a seguito dei drammatici eventi alluvionali degli anni scorsi, leggono i
verbali delle audizioni e formulano considerazioni a volte «viziate» dal fatto che il
resoconto integrale non riporta la documentazione che viene consegnata alla
Commissione.
In base a quanto ascoltato in questa sede possono essere esplicitati alcuni concetti. Ci si
deve rendere conto che ogni audito porta un contributo basato sulle proprie conoscenze
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e sulle proprie responsabilità e che poi il tutto verrà «assemblato». Le conclusioni a cui
giungerà la Commissione a seguito del lavoro svolto saranno corpose e conterranno
tutte le indicazioni fornite dagli auditi.
Purtroppo si è generata la convinzione, difficile da rimuovere, che la politica di prelievo
dall'alveo dei fiumi sia fallita o, comunque, non sia adeguata alle necessità di sicurezza
e di tutela del territorio. Il professor Presbitero ha fornito alcune indicazioni che io
condivido. In una parte della mia vita ho fatto anche il costruttore edile e quindi so cosa
vuole dire comprare inerti; tuttavia, ritengo che non ci si possa fermare soltanto ad una
valutazione totalmente economica del rapporto costi-benefici, perché tra i benefici
dobbiamo inserire anche la sicurezza, che magari non è quantificabile in termini
economici, ma lo è sicuramente dal punto di vista psicologico.
Il professor Menduni ha detto una cosa perfettamente condivisibile dal punto di vista
tecnico: la propagazione degli effetti degli interventi non è del tutto verificabile.
Attenzione, però, a non tenere conto della propagazione degli effetti dei mancati
interventi, che, purtroppo, a volte non sono individuabili, ma spesso contribuiscono a
determinare una condizione psicologica di paura tra le popolazioni, cosa che noi
dobbiamo cercare di evitare. So perfettamente che gli inerti più sono raffinati dal corso
del fiume e meno costano; credo tuttavia che occorra tenere nel debito conto l'esistenza
di un piano complessivo di disalveo, nel quale si considera il fatto che la triturazione di
grosse pezzature può essere compensata dalla funzione di messa in sicurezza dei
territori.
Le alluvioni del Piemonte del 1994 e del 2000 sono costate alle casse dello Stato e ai
contribuenti quasi 5 mila miliardi di vecchie lire. Probabilmente con queste risorse si
sarebbe riusciti ad evitare qualcuna delle conseguenze derivanti dalle alluvioni. È
evidente che, in questo caso, la responsabilità non è delle Autorità di bacino, posto che
queste ultime fanno quello che possono con le risorse a disposizione. Se, tutti insieme,
riuscissimo a creare una cultura che consideri gli aspetti or ora descritti, per cui i
benefici non sono solo quelli derivanti dalla vendita del materiale inerte e la valutazione
della propagazione degli effetti deve essere estesa anche alla mancanza degli interventi,
ritengo che renderemmo un servizio al paese, determinando una situazione di maggiore
credibilità.
Il professor Presbitero - la cui serietà è nota - potrà confermare di essersi spesso
trovato in grande difficoltà in occasione degli incontri con i rappresentanti delle
associazioni locali, i quali insistono su argomenti che, travalicando il dato
scientifico, sono il più delle volte determinati solo dalla paura. A queste istanze,
spesso, non si riesce a dare una risposta adeguata.
PRESIDENTE. L'intervento del collega Stradella mi suggerisce - da buon professore di
finanza pubblica - un'osservazione: se infatti potessimo ridurre le imposte dirette ed
introdurre una qualche forma di tassazione finalizzata alla difesa idrogeologica del
suolo, al miglioramento del clima nelle città, attraverso lo sviluppo di mezzi di trasporto
non inquinanti e via dicendo, potremmo forse avere un risultato positivo a fronte delle
risorse destinate.
Ringrazio i nostri ospiti per la loro presenza, rinnovando loro le nostre scuse per
l'impossibilità di dedicare ulteriore tempo al dibattito, a causa dell'andamento dei lavori
parlamentari. Comunque, terremo conto del vostro contributo, anche scritto, che sarà
parte degli atti dell'indagine conoscitiva. Se nella fase di redazione del documento
conclusivo avremo bisogno di ulteriori consultazioni ve lo comunicheremo, fermo
restando il nostro impegno a far visita ai bacini più importanti, in particolare quello del
Po, che, senza offesa per gli altri, è il più grande di tutti.
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Dichiaro conclusa l'audizione.
A causa dell'andamento dei lavori parlamentari, sospendo la seduta, che riprenderà al
termine dei lavori antimeridiani dell'Assemblea.
La seduta, sospesa alle 12,10, è ripresa alle 13,05.
Audizione di rappresentanti dell'Unione province d'Italia (UPI).
Durata 20 minuti
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, l'audizione di rappresentanti dell'Unione province d'Italia (UPI).
Do la parola a Massimo Rossi, presidente della provincia di Ascoli Piceno e
componente dell'Ufficio di presidenza dell'UPI.
MASSIMO ROSSI, Presidente della provincia di Ascoli Piceno e componente
dell'Ufficio di presidenza dell'UPI. Signor presidente, innanzitutto ringrazio lei e la
Commissione per l'invito ricevuto. Indubbiamente, il tema oggetto dell'indagine
conoscitiva sta molto cuore alle province, tanto è vero che - sebbene io sia stato eletto
da appena otto mesi - una delle prime iniziative che ho intrapreso (alla luce di
sollecitazioni provenienti dalle varie realtà territoriali) è stata quella di cercare di
comprendere i criteri di distribuzione delle funzioni e delle competenze in materia di
interventi idraulici sui corsi d'acqua. Avendo approfondito lo studio di dette
problematiche, anche grazie alle vostre sollecitazioni, ritengo di poter affermare, a nome
dell'UPI, che il quadro normativo in materia, sebbene caratterizzato da qualche
elemento di criticità, non risulta essere così carente e farraginoso. La legge n. 183 del
1989, pietra miliare dell'intera disciplina, non è stata sostanzialmente intaccata dal
decreto legislativo n. 112 del 1998 e prevede un quadro di competenze e di funzioni
che, in qualche modo, appare efficace.
In primo luogo, il termine «competenza» va distinto dal termine «funzione». La
competenza in materia rimane sostanzialmente dello Stato, in quanto quest'ultimo secondo il dettato dell'articolo 25 della legge n. 183 del 1989 - eroga risorse a suo totale
carico per intervenire attraverso programmi triennali. Viceversa le funzioni, per quanto
riguarda la pianificazione degli interventi, sono attribuite alle regioni e agli enti locali
sulla base dei principi di coordinamento che debbono determinarsi in materia.
Secondo noi il quadro normativo attraverso cui, sostanzialmente, si istituiscono le
Autorità di bacino risulta essere funzionale perché prevede il coinvolgimento degli enti
locali. Tra l'altro, riteniamo che, anche avendo a che fare con un quadro non uniforme, il
relativo meccanismo, una volta avviato, sia funzionale. In effetti, i piani per l'assetto
idrogeologico sono stati in larga parte approvati, anche se risulta piuttosto difficile dare
un giudizio sulla loro coerenza e sull'omogeneità dei criteri utilizzati. In ogni caso
questi piani ci sono: l'unico problema è rappresentato dalla organicità e dalla gestione
del quadro normativo.
In questi anni, infatti, stiamo assistendo ad un graduale disimpegno da parte dello Stato
per quanto concerne la gestione di questa materia. Tale disimpegno si esprime
attraverso una riduzione delle risorse - mi riferisco a quelle descritte dall'articolo 25
della legge n. 183 del 1989 e finalizzate a sostenere gli interventi previsti e programmati
- e l'utilizzo di canali di finanziamento diversi ed estemporanei per l'intervento sui corsi
d'acqua per le opere idrauliche. Tanto per fare un esempio, stiamo assistendo
all'attribuzione di finanziamenti ai più disparati enti attraverso l'utilizzo dell'otto per
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mille! Di contro, noi riteniamo opportuno un ma ggiore impegno per finanziare gli
interventi nel quadro di quanto previsto dalla legge n. 183 del 1989 e chiediamo di
evitare interventi attraverso altri strumenti e canali. La scarsa chiarezza da parte dello
Stato, che giustifica e valorizza l'iniziativa intrapresa da questa Commissione, risulta
evidente anche dalla riforma della legge n. 267 del 2000 - in fase di predisposizione da
parte dei vari ministeri - per quanto attiene alle funzioni fondamentali delle province.
Infatti, nel testo prodotto dal Ministero dell'interno (che noi abbiamo acquisito), di
concerto con il Ministero per le riforme istituzionali, in relazione alle funzioni
fondamentali in materia di territorio, ambiente e infrastrutture delle province, al punto 3
si parla di programmazione, pianificazione e gestione integrata degli interventi in difesa
del suolo, delle coste, delle opere idrauliche e del demanio idrico. In effetti, la
definizione di queste funzioni sembra incoerente con il quadro normativo, perché la
programmazione si attua attraverso la definizione delle risorse (si potrebbe parlare di
pianificazione, ma non di programmazione). Quindi, considerato il quadro normativo e
visto che la competenza è dello Stato, non comprendiamo come le province possano
esercitare questa programmazione. La stessa pianificazione, in realtà, è attribuita alle
Autorità di bacino, all'interno delle quali le province sono giustamente rappresentate.
Non a caso l'UPI, proprio in questi giorni, sta discutendo, dopo averlo approvato
nell'Ufficio di presidenza, un testo che mira ad articolare una proposta nei confronti
degli organismi dei ministeri preposti, che definisca in maniera più coerente - proprio
per evitare ulteriori confusioni - le funzioni e le competenze delle province in materia;
tant'è vero che - lo constatavo con soddisfazione questa mattina (sono arrivato a queste
deduzioni da solo), ragionando in vista di questa audizione, dopo aver acquisito il testo
prodotto dall'Ufficio di presidenza dell'UPI - si parla di progettazione, realizzazione,
gestione delle opere idrauliche e del demanio idrico, compresi gli atti di concessione e
le funzioni di pulizia idraulica delle acque. Questo ci sembra coerente con il quadro
normativo esistente; infatti, questa definizione delle funzioni e delle competenze
fondamentali delle province ci sembra tale da non ingenerare ulteriore confusione.
In sostanza, noi dell'UPI auspichiamo - in questa sede non possiamo fare altro, perché
sappiamo che, con il decreto legislativo n. 112 del 1998, le funzioni sono state trasferite
alle regioni e agli enti locali (quindi saranno le regioni poi a disciplinare, nella propria
autonomia, il quadro di coordinamento di queste funzioni in ambito regionale) - una
omogeneità nella definizione di questo quadro di funzioni a livello regio nale, che veda
coinvolti gli enti locali nella pianificazione (come è già avvenuto per molte altre realtà).
Auspichiamo un adeguato coinvolgimento degli enti locali nella fase di pianificazione e
di programmazione, al fine di realizzare un altrettanto adeguato coordinamento, con una
attribuzione piena delle funzioni di progettazione, realizzazione e gestione delle opere
idrauliche.
Riteniamo che l'ambito di governo provinciale, coinvolgendo un'area vasta, sia quello
ottimale per la gestione degli interventi sui corsi d'acqua. Infatti, occorre evitare che
questi ultimi siano gestiti da soggetti diversi senza un coordinamento nella fase di
gestione delle province, perché altrimenti si rischierebbero interventi contrastanti ed
interferenti. Quindi, laddove le province riterranno di avvalersi, come sta accadendo in
molte regioni, dei consorzi di bonifica piuttosto che dei comuni, potranno e dovranno
farlo (perché questo è compatibile); tuttavia, occorre che il quadro delle competenze in
materia di progettazione, realizzazione e gestione di queste opere idrauliche sia
attribuito in maniera chiara alle province stesse.
Ovviamente, l'ultimo aspetto che mi sento di dover sottolineare ulteriormente - l'ho già
detto - è quello della programmazione delle risorse. Ripeto e sottolineo che esiste
veramente la difficoltà nel governare queste dinamiche fluviali attraverso gli interventi,
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perché il quadro delle risorse è scarso. Mi risulta che l'ultimo «taglio» abbia interessato
gli oltre 200 milioni di euro programmati per l'ultimo anno del triennio 2001-2003;
questo determinerà un mancato finanziamento della legge n. 183 del 1989 per l'anno in
corso. Si tratta di una scarsità di risorse che poi rinveniamo anche per quanto riguarda
gli aspetti della manutenzione e sappiamo come la manutenzione delle opere sia
fondamentale per evitare quei fenomeni che si verificano in occasione di avversità
meteorologiche. Ci sentiamo, quindi, in dovere di sottolineare questa difficoltà, alla
quale si sopperisce molto spesso - posso testimoniarlo perché la mia provincia
recentemente ha approvato il bilancio - con fondi propri; ciò non è coerente con il
quadro normativo esistente, ma è necessario proprio per far fronte alle effettive
necessità.
Occorrono dunque maggiori risorse e una maggiore coerenza nella loro erogazione, in
linea con quanto definito dalla legge n. 183 del 1989. Le risorse devono passare per una
programmazione da effettuarsi, come la stessa legge prevede, tenendo conto dei
programmi di intervento prodotti dalle Autorità di bacino, di cui lo Stato tiene conto per
realizzare la programmazione finanziaria.
Sento il dovere di esprimere il nostro punto di vista in ordine ad uno degli aspetti
contenuti nel documento di apertura di questo lavoro d'indagine, che riguarda
l'attuazione del comma 10-bis dell'articolo 4 del decreto- legge n. 576 del 1996. Non so
se esso sia ancora vigente (perché questo provvedimento era a termine) o se sia stato
prorogato; ritengo comunque che la problematica debba essere affrontata senza tabù. Il
prelievo di materiali dagli alvei per prevenire situazioni di pericolo e per la rimessa in
pristino di situazioni preesistenti deve avvenire. Non possiamo però ignorare le
difficoltà legate alla rilevanza che assume la presenza di questi materiali nei corsi
d'acqua in relazione ai problemi della costa (il minor trasporto o il prelievo di questi
materiali fa venir meno un apporto necessario per la salvaguardia delle linee di costa,
così come per la stessa struttura delle foci e dei corsi d'acqua). Questo non significa che
tali interventi non debbano essere realizzati, ma, visti gli interessi in gioco e considerate
le difficoltà di un controllo effettivo nelle fasi del prelievo di questi materiali importanti
per le dinamiche fluviali (e per altre dinamiche legate alle linee di costa),
probabilmente, come avviene nella mia regione (le Marche), il prelievo di questi
materiali deve essere vincolato a piani d'uso legati ad interventi di interesse pubblico sul
territorio, quali il ripascimento della costa, o a sistemazioni idrogeologiche, in modo
tale da non sovrapporre queste attività di manutenzione con quelle di escavazione
finalizzate a risultati di carattere economico.
PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi che intendano porre questioni o chiedere
chiarimenti.
FRANCESCO STRADELLA. Signor presidente, tralascio le considerazioni che
venivano svolte con riferimento alla rappresentanza «sindacale» di un organismo della
pubblica amministrazione. Comprendo l'ansia, da parte delle province, di svolgere un
ruolo effettivo ne lla gestione del territorio. Tuttavia, mi pare che già l'attribuzione ad
esse del patrimonio stradale, ad esempio, dimostri come sia la realizzazione di alcune
opere pubbliche sia la gestione del territorio in taluni settori non possano essere
effettuate «a macchia di leopardo». A mio avviso, costituisce un pericolo l'assegnazione
alle province della progettazione e della realizzazione. Infatti, se è vera la
considerazione svolta dal rappresentante dell'Autorità di bacino dell'Arno, secondo la
quale occorre valutare la propagazione degli effetti degli interventi, nel caso in cui una
provincia effettuasse un intervento e un'altra, il cui territorio fosse localizzato più a
100
valle, non intervenisse affatto, tutto si tradurrebbe in un disastro.
È sufficiente gua rdare a quanto avviene riguardo alla rete stradale. La provincia di
Alessandria, ad esempio, nella quale risiedo, deve mantenere un patrimonio stradale
molto esteso e si distingue, in questo, dalle province limitrofe, quelle di Asti e di
Vercelli, che hanno minori impegni ed effettuano una migliore gestione; è sufficiente
valutare quindi lo stato delle strade, senza leggere le segnalazioni stradali, per capire di
essere passati da una provincia ad un'altra.
La provincia ha una funzione importantissima di monitoraggio, di consultazione e di
indicazione delle situazioni. Del resto, la stessa constatazione che lei ha svolto in
conclusione, quando ha affermato che il prelievo di prodotti lapidei deve essere
effettuato anche in considerazione dell'effetto che si crea sulla parte in cui si effettua il
prelievo, sta a dimostrare che questo non può essere effettuato da una provincia che non
abbia l'affaccio sul mare, perché lo farebbe prescindendo dalle conseguenze che si
possono determinare sulla costa (e l'interve nto non sarebbe quindi organico).
Credo che tutti debbano svolgere un ruolo ma trattandosi, tra l'altro, della sicurezza di
persone e cose che si trovano sul territorio, l'intervento può essere effettuato soltanto da
un organismo che tenga conto di tutto il corso del fiume, ed in relazione a tutto il bacino
imbrifero, non invece «a macchia di leopardo». Quest'ultimo, infatti, sarebbe il modo
peggiore di intervenire, con le conseguenze più nefaste per il territorio.
PRESIDENTE. Invito il presidente della provincia di Ascoli Piceno, Massimo Rossi, ad
una replica.
MASSIMO ROSSI, Presidente della provincia di Ascoli Piceno e componente
dell'Ufficio di presidenza dell'UPI. In realtà, nel testo elaborato dal Ministero
dell'interno sono attribuite alle province non soltanto le funzioni di gestione integrata
degli interventi di difesa del suolo e delle opere idrauliche ma, addirittura, la
programmazione e la pianificazione. Il fatto che io affermi, in questa sede, che a noi
dovrebbero competere, per coerenza, la progettazione e la gestione di queste opere ridimensionando, per certi versi, il nostro ruolo - dimostra come io non chieda in
maniera «sindacale» il massimo delle funzioni possibili. In realtà, ho già chiarito, anche
se forse non efficacemente, quali interventi noi dovremmo realizzare e quali stiamo
effettuando. Sto parlando, infatti, di un quadro di funzioni che in molte regioni già sono
svolte. Si tratta di interventi che devono essere contenuti nei piani di bacino e nei PAI.
Questi ultimi, come sapete, sono stati già approvati in larga misura e prevedono la
definizione dell'area di rischio, i vincoli e il programma degli interventi. Allora, quando
procedono alla programmazione triennale, prevista dall'articolo 21 della legge n. 183 del
1989, per dare scansione temporale e programmazione a questi interventi, sulla base di
quelle priorità, le province non fanno altro che incaricarsi dell'attuazione, in termini di
gestione di quelle risorse, degli interventi realizzati con criteri omogenei lungo i tratti di
loro competenza. Non vedo chi possa farsi carico materialmente degli interventi se non
le province che, in questo senso, sono sollecitate dai comuni che riconoscono loro
questo ruolo.
Tra l'altro, ho ricoperto, per nove anni, la carica di sindaco di un comune il cui territorio
è attraversato da un fiume. Le assicuro che questo è il ruolo delle province nella
gestione. Inoltre, nella regione Marche, come in altre regioni, le stesse province hanno
ereditato gli uffici del Genio civile, che sono stati ad esse trasferiti materialmente, con
tanto di risorse umane e finanziarie. Questi uffici possiedono il know-how, le
competenze per effettuare gli interventi di manutenzione e di disciplina idraulica sui
corsi d'acqua. In questa ottica, siamo a disposizione e riteniamo di poter svolgere questo
101
ruolo.
Come ripeto - e in questo sono perfettamente d'accordo con lei - questa gestione
dev'essere effettuata nel quadro di una pianificazione e di una programmazione
realizzata nell'ambito di bacini. Infatti, come lei ha ricordato, deve essere preso in
considerazione il bacino nella sua integrità, perché occorre tenere conto della
propagazione degli effetti degli interventi. Siamo perfettamente d'accordo su questo
punto e per tale ragione ho ribadito che la citata legge n. 183, quanto al quadro delle
competenze, opera correttamente. Si tratta di definire meglio il ruolo delle province alla
luce, tra l'altro, dei piani di coordinamento territoriale. Il testo unico vigente afferma,
infatti, che nell'ambito dei piani di coordinamento territoriale, le province indicano le
linee di intervento per la sistemazione idraulica. Proprio in coerenza con questa e con
altre competenze già riconosciute alle province, al fine di evitare situazioni di scarsa
democraticità delle determinazioni in materia, e non solo, noi dobbiamo riuscire a
definire, senza foga di carattere «sindacale», quanto è più coerente riguardo ai cicli
naturali delle acque.
PRESIDENTE. Ringrazio gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 13,25.
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Seduta del 15 marzo 2005
Presidenza del Presidente Pietro ARMANI
La seduta comincia alle 10,05.
Audizione di rappresentanti delle Autorità di bacino dei fiumi Adige e Liri Garigliano e Volturno.
Durata 30 minuti
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, l'audizione di rappresentanti delle Autorità di bacino dei fiumi Adige e LiriGarigliano e Volturno.
Avverto che i rappresentanti delle Autorità di bacino hanno consegnato una
documentazione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto integrale
della seduta odierna.
Ricordo che nell'ambito della presente indagine conoscitiva sono stati già ascoltati da
questa Commissione i rappresentanti delle Autorità di bacino dei fiumi Po, Arno e
Tevere. Sono emerse considerazioni molto interessanti riguardo a questi corsi d'acqua,
che presentano caratteristiche molto differenti; in particolare, è stato affermato - come
battuta - che mentre l'Arno non è un fiume, ma un torrente, il Po è un fiume a tutti gli
effetti, come del resto lo sono l'Adige e il Volturno.
Do la parola ai rappresentanti delle Autorità di bacino dei fiumi Adige e Liri-Garigliano
e Volturno.
GIUSEPPE D'OCCHIO, Segretario generale dell'Autorità di bacino dei fiumi LiriGarigliano e Volturno. Non potrebbe esserci momento più felice, per questa
102
Commissione, per rivolgere la sua attenzione a quanto sta avvenendo in Italia in merito
alla difesa del suolo. Infatti, è evidente che, al pari di tutte le altre discontinuità, la legge
n. 112 del 1998 e gli atti conseguenti hanno rappresentato un cambiamento significativo
e importante nelle competenze in materia idraulica del nostro paese quali erano state
ordinate ormai da molti decenni. Questo vale anche per l'Italia meridionale che, in
qualche misura, rappresento, in qualità di responsabile dell'unica Autorità di bacino
nazionale del Mezzogiorno, la cui estensione è di circa 12 mila chilometri quadrati, cioè
quasi pari a quella di altre Autorità nazionali e appena superiore a quella dell'Arno che,
come giustamente è stato ricordato, presenta caratteristiche molto particolari. Anche
riguardo al Volturno e al Liri-Garigliano, infatti, si applicava la suddivisione
tradizionale delle competenze in materia idraulica. Il testo unico delle acque, degli inizi
del '900, classificava non i corsi d'acqua ma le opere; perciò, i tratti comprendenti argini
realizzati dallo Stato rientravano nella competenza statale e le attività di manutenzione e
di presidio erano effettuate...
PRESIDENTE. A macchia di leopardo.
GIUSEPPE D'OCCHIO, Segretario generale dell'Autorità di bacino dei fiumi LiriGarigliano e Volturno... a macchia di leopardo, esattamente!
PRESIDENTE. In altri termini, la manutenzione era effettuata dallo Stato soltanto in
alcune zone laddove c'erano argini di proprietà statale.
GIUSEPPE D'OCCHIO, Segretario generale dell'Autorità di bacino dei fiumi LiriGarigliano e Volturno. Le altre opere idrauliche erano classificate secondo una
numerazione. Più esattamente, le opere idrauliche di prima categoria, presenti soltanto
nel nord Italia, riguardavano soltanto i corsi d'acqua internazionali; le opere idrauliche
di seconda categoria erano quelle di importanza statale, cioè quelle per le quali era
intervenuto direttamente lo Stato, in momenti successivi, per lavori di arginatura e
sistemazione idraulica; le opere idrauliche di terza categoria erano quelle interregiona li,
cioè riguardanti corsi d'acqua lungo i quali non erano state realizzate opere statali ma vi
erano interessi interregionali. Nel tempo, anche quest'ultima categoria era diventata di
competenza statale. I provveditorati alle opere pubbliche avevano la competenza per le
opere statali. Nei bacini del Volturno e del Liri-Garigliano c'era una sistematica
presenza di ufficiali idraulici e presidi territoriali che effettuavano attività di
manutenzione, di verifica e, ancor più importante, di polizia idraulica e di servizio di
piena che garantivano un controllo sul territorio.
Questo sistema, tuttavia, presentava alcune lacune poiché, come giustamente il
presidente Armani faceva osservare, era a macchia di leopardo. Lungo il corso del
Volturno, ad esempio, le arginature di competenza statale terminavano a Capua e, per il
resto, si verificava una ambiguità di competenze e non era chiaro chi dovesse
intervenire.
Proprio riguardo a questa confusione di competenze, riferisco un aneddoto simpatico.
Nel mese di agosto di alcuni anni fa si creò una barra lungo il Garigliano, l'unico corso
d'acqua del meridione classificato come navigabile nel suo ultimo tratto. Mi trovavo in
vacanza da due giorni e fui chiamato perché, a causa di quella barra, 300 barche non
riuscivano ad uscire dal fiume. Si era creata, infatti, una duna che impediva il passaggio.
Non si capiva chi dovesse intervenire: le Opere marittime negavano la loro competenza,
dal momento che il problema si era verificato all'interno del corso d'acqua e il
Provveditorato alle opere pubbliche del Lazio attribuiva la competenza al
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Provveditorato alle opere pubbliche della Campania, perché la barra si era creata a
partire dalla sponda sinistra del fiume, cioè dal lato campano. L'episodio risale ad un
periodo compreso tra il 1997 e il 1998, quando ero segretario generale dell'Autorità di
bacino già da alcuni anni, ed è la rappresentazione dei pregi e dei difetti di questo
sistema di rigida suddivisione delle competenze. Alla fine, dal momento che qualcuno,
come sempre accade, doveva assumersi la responsabilità di una decisione, convocai una
riunione, nel corso della quale dichiarai che, ad avviso dell'Autorità di bacino, l'autorità
competente, l'intervento rientrava nella competenza del Provveditorato alle opere
pubbliche della Campania, che doveva intervenire con urgenza per eliminare la barra.
Per concludere con l'aspetto aneddotico, ricordo che l'episodio si concluse con l'ira di
mia moglie, che io abbandonai, anche in quella estate, per tornare al lavoro; questo è un
problema che riguarda tutti coloro che sono piuttosto impegnati. Il risultato finale fu che
il problema, di fatto, fu risolto ma noi assumemmo una decisione senza che vi fosse, a
monte, una norma che stabilisse di chi fosse realmente la competenza.
Per tornare al tema della indagine conoscitiva, la mia opinione è che, ancora oggi, ci
troviamo in una fase transitoria e non abbiamo raggiunto un obiettivo significativo. In
altri termini, siamo passati da un sistema rigido a un sistema quasi inesistente; non
utilizzo espressioni più forti per richiamare l'interesse di questa Commissione. Il dato di
fatto, per quanto riguarda il Volturno, è che il decreto legislativo n. 112 del 1998 ha
trasferito alle regioni le competenze in materia idraulica e la regione Campania ha
stabilito, peraltro in assenza di una legislazione ma soltanto con un atto amministrativo,
di delegare alle province le competenze, senza assegnare a queste ultime il necessario
personale e senza trasferire alcuna risorsa. Nella sostanza, in questo momento le attività
di polizia idraulica e di servizio di piena sono svolte in misura minima o non lo sono
affatto. Solo le Autorità di bacino che, per fortuna, sono state istituite dalla legge n. 183
del 1989, hanno alcune competenze dal punto di vista tecnico riguardo alle funzioni di
polizia idraulica, pur non avendo compiti di amministrazione attiva e, quindi, di
presidio.
Riferisco un dato obiettivo: in occasione dell'ultima piena, di pochi giorni fa, che ha
riguardato il Volturno siamo arrivati a 30 centimetri di franco tra Grazianise e Cancello
Arnone, con gravissimo pericolo. A Caserta si è recato il responsabile della Protezione
civile, Bertolaso, e gli unici presenti per supportare le azioni di protezione civile erano i
miei ingegneri idraulici ed io stesso. Abbiamo aiutato i responsabili della Protezione
civile ad individuare quali potessero essere le zone a maggiore rischio di esondazione.
Quindi, abbiamo monitorato e presidiato l'area in presenza di ingegneri, non
formalmente preposti a questa funzione. D'altra parte, non credo esista un manuale che
rigidamente stabilisca a chi competano le diverse funzioni nella pubblica
amministrazione; così stando le cose, l'Autorità di bacino ha fatto ciò che era giusto
fare, essendo l'unica struttura competente in materia idraulica, non già per assegnazione
formale ma per ragioni sostanziali, per conoscenza del territorio e delle sue fragilità.
Signor presidente, non posso non rappresentarle l'opportunità straordinaria che ci viene
data in questo momento. Per maggior chiarezza, la pregherei, in particolare, di leggere
la riflessione che nella nostra veste, sia pur sinteticamente, le abbiamo trasmesso,
unitamente al materiale consegnato ai vostri uffici, in ordine all'attuazione della
direttiva comunitaria n. 2060. Ci troviamo, attualmente, nella fase di recepimento di
questa disciplina (tra l'altro con qualche ritardo rispetto alle date fissate dalla Comunità
europea) che rappresenta un ulteriore passo in avanti nella concezione unitaria del
sistema di difesa del suolo. Infatti, nonostante i pregi riconosciuti alla legge n. 183 del
1989 dalla cosiddetta «commissione Veltri», il difetto forse maggiore di tale impianto
normativo e del sistema di regolazione a cui ha dato vita è che - classificando, in termini
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quasi calcistici, le Autorità di bacino in strutture di serie A, B e C - ha diviso il paese tra
zone in cui, di fatto, si è garantito un maggiore impegno dello Stato e delle regioni sul
territorio, in virtù di una specifica articolazione delle competenze in materia, ed altre in
cui l'attuazione del modello, di fatto, è stata rinviata a successive scelte future e
decisioni dei singoli enti regionali, a scala minore. Ne è conseguito un ritardo attuativo
decennale della legge stessa in tutto il Mezzogiorno, a partire dal Volturno.
Quell'impianto è stato recepito soltanto alla fine degli anni novanta e solo parzialmente
nel territorio, ove difettano organismi adeguati di riferimento. Ne è dimostrazione il
fatto che gli eventi alluvionali, le maggiori tragedie che hanno interessato il nostro paese
si sono verificati in realtà non coperte dalle Autorità di bacino nazionali. È dove
sussistono piccole condizioni marginali che poi si verificano grandi tragedie. È il caso
di Sarno, Noverato, Cervinara: l'unica realtà in cui è presente l'Autorità di bacino
nazionale è la nostra. Potrei citare episodi anche precedenti, come il caso di Salerno e
della costiera amalfitana negli anni cinquanta. Colate rapide di fango interessarono
l'area vesuviana con effetti drammatici su zone fortemente antropizzate e con gravissimi
rischi per la popolazione.
PRESIDENTE. È famosa anche l'alluvione avvenuta in costiera amalfitana...
GIUSEPPE D'OCCHIO, Segretario generale dell'Autorità di bacino dei fiumi LiriGarigliano e Volturno. Avvenne esattamente nel 1956.
Signor presidente, alla luce di quanto appena ricordato, riteniamo necessario cogliere
l'opportunità fornita dalla direttiva n. 2060: a nostro avviso, il distretto idrografico
concepito e disegnato dalla normativa comunitaria è in grado di uniformare il paese,
conducendoci ad un'unica cabina di regia, soluzione che reputiamo fondamentale anche
per la gestione delle risorse economiche. Sul punto, vorrei peraltro osservare che
stanziamento e impiego di risorse economiche, anche notevoli, per la difesa del suolo e
la mitigazione degli effetti, sono sempre intervenuti ex post : spendiamo ex post dieci
volte più di quanto facciamo ex ante. È un cane che si morde la coda.
Alla luce di ciò, cambiare registro significa anche disporre di un'unica cabina di regia
sulla spesa. Nella regione Campania, come in altre del Mezzogiorno, gli accordi APQ
(Azioni di programma quadro) sono stati conclusi tra regioni e Stato in alcuni casi senza
che le Autorità di bacino fossero in alcun modo informate. Le risorse - dieci volte
superiori a quelle che il legislatore, in finanziaria, assegna ogni anno per il
rifinanziamento della legge n. 183 - sono state impegnate nel campo della difesa del
suolo scavalcando completamente - in qualche caso in maniera molto inopportuna - la
programmazione dell'Autorità di bacino. È stata una logica concettualmente errata,
signor presidente. La legge n. 183 - nata per programmare in maniera ordinata risorse e
priorità di intervento - è stata così disattesa e colate di denaro sono state destinate ad
interventi che di quelle priorità erano privi.
Da ultimo, vorrei svolgere una breve considerazione, riferita ad un fatto particolarmente
tipico della nostra zona (sebbene abbia sede in Campania, l'Autorità di bacino
comprende quattro regioni ed un piccolo tratto di Puglia): in alcune regioni, in
particolare in Campania, il sistema delle emergenze e dei commissariati straordinari ha,
di fatto, degenerato la condizione ordinata di programmazione e pianificazione, spesso
contraddicendo la stessa logica che giustificava la nascita dei primi. Ricordo, infatti, che
tutti i commissariati nascono in seguito ad accadimenti particolarmente drammatici che
hanno toccato il nostro paese, proprio per risolvere più velocemente ed adeguatamente i
proble mi indotti da quegli eventi. Di fatto, il risultato è stato esattamente opposto a
quello atteso. L'unica rapidità - mi consenta la battuta, signor presidente - è stata quella
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riscontrata in alcuni casi nell'affidamento degli incarichi professionali, sovente assegnati
- in ragione del commissariamento - in deroga alle procedure esistenti. Da quel punto in
poi, non vi è stata più traccia di velocità. Basti pensare che ancora oggi, a distanza di
oltre cinque anni da quanto accadde nel dicembre del 1999 a Cervinara, evento che
causò la morte di alcune persone, l'unico atto di pianificazione per i territori interessati
(Cervinara e San Martino) resta quello effettuato dall'Autorità di bacino in via ordinaria.
Non ve ne sono stati altri, malgrado Governo e Parlamento abbiano assegnato, all'epoca,
attraverso il meccanismo della protezione civile, 100 miliardi di vecchie lire per
interventi di mitigazione del rischio nei territori colpiti da quelle colate di fango.
PRESIDENTE. Praticamente, si è verificata un'assenza della regione in quel caso...
GIUSEPPE D'OCCHIO, Segretario generale dell'Autorità di bacino dei fiumi LiriGarigliano e Volturno. Di commissariati straordinari, per l'esattezza, sebbene a rivestire
le funzioni commissariali siano i presidenti delle giunte regionali nominati dal Governo,
i quali a loro volta designano un sub commissario. Gli eventi che ho descritto si sono
verificati tra il 1998 (Sarno) e il 1999 (Cervinara). Credo che la più grande
concentrazione di risorse e di impegno per la depurazione idrica nella storia dell'Italia
centromeridionale sia stata proprio quella per finanziare gli interventi nel litorale
domizio e più in generale campano: ben 3 mila miliardi sono stati spesi con l'intervento
straordinario. Ebbene, i tratti di litorale oggi meno fruibili e balneabili d'Italia sono
proprio quelli in cui si è intervenuto così. Era questa la logica dei commissariati
straordinari, signor presidente, con un effetto sempre contrario all'impegno profuso.
PRESIDENTE. La ringrazio per il suo utilissimo contributo e per le considerazioni
contenute nel testo consegnato ai nostri uffici. La resocontazione stenografica
dell'odierna audizione completerà la documentazione che ci ha fornito. Scripta manent.
NICOLA DELL'ACQUA, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Adige.
Signor presidente, sebbene sia divenuto segretario generale dell'Autorità di bacino del
fiume Adige da appena quattro mesi, mi sono già fatto una certa idea sulle finalità
dell'indagine conoscitiva in corso. La parte dello storico è stata già svolta dal mio
collega di Napoli; da parte mia, ritengo di condividere molte delle sue osservazioni,
poiché il problema denunciato è generale. Ciò che però contraddistingue peculiarmente
il nostro territorio è la presenza di due province autonome. Questo, in parte, è stato di
aiuto alla salvaguardia dell'aspetto idrogeologico dell'Adige, perché le competenze
erano e sono chiarissime.
Con il decreto legislativo del 1999, di fatto, la pianificazione è demandata all'autonomia
provinciale. Pertanto, anche in ragione di quanto ribadito con sentenza dalla Corte
costituzionale, all'Autorità di bacino compete semplicemente coordinare le province,
pianificare - al contrario - la parte dell'ente di bacino compresa nella regione Veneto, e
unire i tre strumenti.
Mi trovo di fronte il Piano generale di utilizzazione delle acque pubbliche (PGUAP) già
adottato dalla provincia di Trento, mentre quello della provincia di Bolzano è in via di
conclusione. Questi strumenti, che sono nati coordinati, debbono essere riuniti
dall'Autorità di bacino.
PRESIDENTE. La parte più delicata riguarda proprio le province autonome.
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NICOLA DELL'ACQUA, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Adige.
Sì, ma mi pare di cogliere un cambiamento da parte delle due province autonome,
perché mi è stato chiesto esplicitamente una maggiore presenza dell'Autorità di bacino e
un maggior coordinamento, forse per evitare i numerosi contenziosi esistenti. C'è una
grande derivazione, presa a due chilometri all'interno del confine di Trento, e questo
canale passa per 15 chilometri all'interno del territorio veneto; si verifica quindi un
contrasto tra la regione e la provincia relativamente ai canoni demaniali. Mi pare però di
capire che l'Autorità di bacino è vista come attività di coordinamento.
Un altro aspetto riguarda le linee guida. Anche le due province autonome chiedono linee
guida comuni, per attuare poi la pianificazione. Dopo la prima impasse, si riconosce
all'Autorità di bacino una attività di coordinamento.
PRESIDENTE. Per quel che riguarda il materiale inerte?
NICOLA DELL'ACQUA, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Adige.
Le prime analisi che abbiamo svolto non hanno evidenziato conflitti di competenza. La
regione Veneto, dopo l'entrata in vigore della legge n. 112 del 1998, citata prima dal
collega, ha mantenuto questa competenza. È chiaro che la gestione di tutto il settore
spetta alla stessa regione, perché essa ha deciso di non trasferire alle province le
competenze in materia. L'Autorità di bacino deve procedere alla pianificazione, che poi
va gestita dalla regione Veneto, che ha suoi rappresentanti all'interno del comitato
tecnico, organo interno all'Autorità di bacino, per cui la regione Veneto è coinvolta
all'interno della nostra struttura.
Laddove manca la pianificazione dell'Autorità di bacino, nascono conflitti di interesse.
Occorre allora intervenire urgentemente, per indicare la strada da seguire. Le azioni
poste in essere dalla regione Veneto potrebbero essere in contrasto con la pianificazione
generale, ma secondo me l'Autorità di bacino deve intervenire urgentemente a livello di
comitato tecnico.
PRESIDENTE. In questo modo, la presenza di regioni e province all'interno del
comitato tecnico, nella fase della pianificazione e nella fase della gestione, con il
coinvolgimento di tutti i soggetti interessati, dovrebbe impedire la nascita di contrasti
successivi all'applicazione del piano stesso.
GIUSEPPE D'OCCHIO, Segretario generale dell'Autorità di bacino dei fiumi LiriGarigliano e Volturno. Questa è la forza del modello dell'Autorità di bacino, ossia la
pianificazione attraverso il consenso. Nell'attuale sistema delle autonomie è impossibile
pensare alla pianificazione senza il consenso preventivo degli enti locali.
NICOLA DELL'ACQUA, Segretario generale dell'Autorità di bacino del fiume Adige.
Ricordo, per concludere, che anche la direttiva n. 60 del 2000 va in direzione di un
approccio partecipativo degli enti locali all'interno del processo di pianificazione.
PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti per la loro gentile collaborazione.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 10,30.
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Seduta del 27 aprile 2005
Presidenza del Presidente Pietro ARMANI
La seduta comincia alle 14.10.
Indagine conoscitiva sulla programmazione delle opere idrauliche
relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio nazionale.
Deliberazione di una proroga del termine .
Pietro ARMANI, presidente, avverte che è stata acquisita l'intesa con il Presidente della
Camera, ai sensi dell'articolo 144 del Regolamento, ai fini di una proroga, fino al 15
luglio 2005, del termine per la conclusione dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, secondo quanto concordato nella riunione dell'Ufficio di presidenza,
integrato dai rappresentanti dei gruppi, del 13 aprile 2005.
Propone quindi di approvare la proroga del termine dell'indagine conoscitiva testè
richiamata. La Commissione approva.
La seduta termina alle 14.15.
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Seduta di martedì 10 maggio 2005
Presidenza del Presidente Pietro ARMANI
La seduta comincia alle 11,05.
Audizione di rappresentanti di associazioni ambientaliste.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla
programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua presenti sul territorio
nazionale, l'audizione di rappresentanti di associazioni ambientaliste.
Do subito la parola ai nostri ospiti, che ringrazio per la loro disponibilità.
ANDREA AGAPITO LUDOVICI, Responsabile programma acque del WWF.
Ringrazio questa Commissione per l'opportunità offertaci. Mi accompagna la dottoressa
Lucia Ambrogi, dell'ufficio legale del WWF. Abbiamo predisposto una nota sintetica,
che cercherò comunque di seguire nel corso della mia relazione. Il problema oggetto
dell'indagine è molto complesso, per cui cercherò di riassumere le questioni che per noi
sono fondamentali. Avevamo richiesto questa audizione perché, leggendo il resoconto
dei primi incontri relativi all'indagine conoscitiva in corso, hanno attirato la nostra
attenzione, alcuni problemi, tra cui le opere idrauliche sul territorio, in particolare
il dragaggio e la possibilità di utilizzare materiali inerti, la navigabilità del Po, e su
tali temi vorremmo esprimere le nostre considerazioni.
Innanzitutto, per qualsiasi intervento da realizzare sui corsi fluviali a nostro avviso è
fondamentale richiamare il concetto di bacino idrografico. Qualsiasi intervento, come
previsto dalla legge n. 183 del 1989 e come richiamato in maniera molto forte dalla
direttiva quadro per il governo complessivo delle acque, deve partire dal bacino
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idrografico, che deve essere la base di qualunque pianificazione o programmazione di
interventi.
Mi consta purtroppo ricordare che la direttiva suddetta non è ancora stata recepita
dall'Italia, che è in grave ritardo, e che per questo motivo si è aperta una procedura di
infrazione da parte della Corte di giustizia delle Comunità Europea. Ho quindi l'obbligo
di richiedere un maggiore impegno affinché il nostro Governo si adoperi per recepire
questa direttiva, la quale offre una serie di opportunità per favorire il governo integrato
delle acque. Tale direttiva peraltro riprende concetti già contenuti all'interno della nostra
legislazione in materia di difesa del suolo, per cui è fondamentale il suo recepimento da
parte del nostro paese.
Vorrei fare un piccolo inciso sulla mala gestione dei nostri corsi d'acqua, che alcuni
piani di assetto idrogeologico del terreno stanno già cercando di risolvere. Abbiamo
considerato e gestito i fiumi e i corsi d'acqua come fossero dei canali, attraverso
interventi che favoriscono il semplice deflusso veloce delle acque a valle, legando
questi interventi soprattutto ad una logica di emergenza. Solo per fare un esempio di ciò
che è accaduto negli ultimi anni, dopo l'alluvione del Po del 1994 lo Stato stanziò 4
miliardi 300 milioni di lire per gli interventi di difesa del suolo, ma dopo solo sei anni
una seconda grossa alluvione peggiorò la situazione e le somme che erano state
stanziate non sono state impiegate per risolvere il problema in maniera strutturale.
A fronte di questi grossi investimenti che avvengono una tantum, manca una continuità
di interventi. L'Autorità di bacino del Po, come già detto dal dottor Presbitero,
segretario generale dell'autorità stessa, non adotta schemi programmatici per mancanza
di finanziamenti. È una situazione che si ripercuote su tutto il territorio. Riteniamo
fondamentale ribadire l'importanza della legge sulla difesa del suolo, un'ottima legge
grazie alla quale è stato possibile realizzare dei piani sull'assetto idrogeologico a livello
territoriale; al tempo stesso, reputiamo necessario recepire in tempi brevi la direttiva
comunitaria già citata, come hanno fatto gli altri paesi europei.
Per quanto riguarda alcuni degli aspetti specificamente affrontati da questa
Commissione, come la questione dei dragaggi e la manutenzione sui corsi d'acqua, ci
preme in primo luogo osservare come, spesso, il ricorso al dragaggio o all'escavazione
in alveo sia stato fortemente strumentale: se è vero che in numerosi casi è necessario
intervenire per asportare del materiale sovralluvionato in situazioni pericolose (sotto un
ponte, all'interno di centri abitati, o comunque nei pressi di manufatti, dove
effettivamente una riduzione della sezione dell'alveo di «morbida» metterebbe a rischio
la struttura), in molti altri, azioni del genere sono assolutamente sconsigliabili, o
comunque, se effettuate, dovrebbero essere regolate da piani capaci di tener
complessivamente conto dell'ecologia, dell'idrologia e della geomorfologia fluviale.
Ogni escavazione, ovunque effettuata, provoca, infatti, conseguenze non facilmente
valutabili (al riguardo, rileggevo anche questa mattina quanto dichiarato dallo stesso
professor Menduni, segretario generale dell'Autorità di bacino dell'Arno): alla luce di
ciò, qualsiasi intervento di asportazione di materiale sugli alvei deve essere
assolutamente po nderato, anche in relazione ad opportuni studi sul trasporto
solido del fiume. Se il fiume deposita in punto, significa che in altro ha eroso: esiste
pertanto un equilibrio che siamo chiamati a tutelare, per garantire, a nostra volta,
la sicurezza dei cittadini. Soprattutto una gestione unitaria - dunque non localizzata,
non puntiforme - garantisce la sicurezza idraulica della popolazione.
Il dragaggio o qualsiasi intervento sui corsi d'acqua dovrà essere pianificato a livello di
corso idrico e bacino idrografico, in ragione dell'interazione costante di una serie di
fattori, come si evince dagli studi sui fiumi che abbiamo richiamato nel materiale
distribuito alla Commissione: nel caso del Po, almeno nel suo tratto centrale, il fiume si
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è abbassato in alcuni punti di quattro, cinque metri, tanto da mettere fuori uso o non in
sicurezza una serie di ponti rimasti quasi sollevati. Un altro esempio è quello del porto
di Cremona, più volte citato in questa Commissione. In molti casi, del resto,
l'interpretazione dell'approfondimento è stata erronea, come è avvenuto per la magra del
2003, famosa per aver coinvolto mezza Italia, ampiamente commentata dalla stampa e
divenuta oggetto di dibattito parlamentare. Si disse, allora, che non si era mai vista così
poca acqua sul Po: in, realtà, se è vero che il livello idrometrico del Po era molto basso,
e quindi riferibile ad un tempo di ritorno di circa cento anni, la quantità d'acqua presente
sul canale rimasto approfondito era tale da far presumere un tempo di ritorno di circa
cinque anni. Dunque il fatto non costituiva in sé evento così eccezionale; si trattava
piuttosto di un abbassamento drastico del fiume.
Alla luce di ciò, appare fondamentale ripensare al bacino fluviale come stanno facendo
molti paesi europei (si pensi al Reno in Germania, alla Drava in Austria, o alla Loira in
Francia), dove, anche a fronte di studi condotti sul trasporto solido, per cercare di
ripascere i fiumi a fondo valle - è il caso della Drava in Austria, fiume molto simile a
molti dei nostri corsi -, addirittura si è gradualmente provveduto alla rimozione degli
sbarramenti in alta montagna.
Sicuramente è importante effettuare interventi di asportazione di materiale
sovralluvionato, ma occorre farlo in situazioni in cui il rischio sia effettivamente
comprovato, atteso che iniziative simili, unitamente a tutta una serie di interventi, tesi a
favorire la canalizzazione dei nostri fiumi, si ripercuotono sulla sicurezza dei cittadini.
Al riguardo, vorrei ricordare soltanto un fatto, quello che forse ha colpito maggiormente
la collettività, anche dal punto di vista mediatico, ovvero l'alluvione del 2000, quando
nel mantovano stavano transitando circa 13 mila metri cubi d'acqua al secondo, una
quantità immane: poiché la mole idrica sarebbe dovuta comunque passare attraverso
certe strettoie - soprattutto tra Ostiglia e Revere, dove il fiume si restringe in modo
molto preoccupante -, per cercare di ridurre il colmo di piene, e quindi far defluire in
sicurezza il fiume stesso, furono evacuate 250 persone dalle proprie abitazioni per
ampliare lo spazio a disposizione del flusso d'acqua. Ho richiamato questo esempio solo
per evidenziare la necessità di recuperare - ove questa soluzione sia praticabile - spazio
per i fiumi, per il Po nel caso di specie, e rinaturalizzare il più possibile, proprio al fine
della sicurezza collettiva. Vengo ora alla questione della navigabilità del Po, intesa sotto
il profilo del trasporto di merci. Il WWF - ma non solo la nostra organizzazione - ha già
espresso la propria contrarietà sul punto, con particolare riguardo ad alcuni progetti
consegnati all'Autorità di bacino del Po. Le ragioni di questa posizione vanno rinvenute
primariamente nel fatto che lo sviluppo dei trasporti sul Po non gioverebbe in misura
rilevante ai trasporti complessivi in Italia (basti pensare che l'idrovia incide del solo 0,
06 per cento sul totale del settore dei trasporti: stravolgere, distruggere, o canalizzare in
gran parte il Po, solo per arrivare allo 0,1 per cento, nell'ipotesi più ottimistica, ci
sembra assolutamente impensabile).
Il secondo aspetto è legato alla compatibilità con gli obiettivi di piano: per garantire una
viabilità funzionale al trasporto di merci (per cui si richiede un livello minimo di due
metri e mezzo per 300 giorni annui) è necessario ridurre fortemente l'alveo di magra.
Questo significa aumentare ancora di più la velocità di deflusso in caso di piena, ovvero
aumentare - in modo a nostro avviso impensabile - il rischio idraulico per le popolazioni
di valle. Inoltre, ciò vuol dire anche incidere ulteriormente sulla funzionalità ecologica
del fiume, ovvero la capacità del fiume di rispondere il più possibile alle crisi idriche,
dovute sia alla mancanza d'acqua, sia agli eccessi di questa, come è accaduto nel 1994 o
nel 2000.
Spesso si fa richiamo all'esempio tedesco e al caso del Reno, un grande fiume reso
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navigabile: al riguardo, vorrei però ricordare che, al di là delle dimensioni molto
maggiori di quel fiume, su 470 chilometri di Reno tedesco, ne sono stati «tagliati» circa
70 per consentire la navigabilità. Proprio a motivo di ciò, i tedeschi, con la stessa
sistematicità con cui hanno canalizzato e reso navigabile il fiume, stanno cercando
disperatamente aree laterali per consentirne l'esondazione, in caso di piena, permettendo
il deflusso dell'acqua originariamente contenuta in quel tratto tagliato. Occorre,
pertanto, considerare con maggiore attenzione questi profili.
Vorrei, inoltre, soffermarmi su un altro aspetto. A fronte di ciò che riteniamo uno
sviluppo inopportuno, cioè una navigabilità del trasporto delle merci, si pone una
grande attenzione verso quanto potrebbe risultare compatibile con gli obiettivi del piano
di assetto idrogeologico: mi riferisco al trasporto e alla navigazione turistica fluviale.
Non a caso, non più di due settimane fa, abbiamo firmato un accordo con alcune
associazioni, come Assonautica, con alcuni parchi, come il parco del delta del Po, e
alcune associazioni di comuni affacciati sul fiume, per arrivare alla definizione di linee
guida della navigazione turistica fluviale, come fonte di potenziale sviluppo economico
per molte aree del territorio (considerato che alla riduzione del turismo sulla costa
adriatica ha corrisposto una vasta richiesta di turismo verso l'interno). Questo è un
aspetto che va valutato, in quanto la tutela del patrimonio naturale ha come effetto
positivo lo sviluppo del turismo. In questo modo si tende a considerare in maniera
integrata e interdisciplinare il territorio facente parte del bacino idrografico. È
fondamentale che il Po venga considerato non soltanto da un punto di vista idraulico,
ma anche morfologico, geologico ed ecologico, in maniera che la sua complessità possa
essere gestita in funzione di una riduzione del rischio idraulico e del miglioramento
dell'ambiente.
Mi sono soffermato in maniera particolare sul Po, poiché esso pone maggiori
problematiche rispetto ad altri fiumi ed è sicuramente uno dei pochi fiumi che tocca
diverse regioni d'Italia.
Il piano di assetto idrogeologico del Po, che secondo noi è un ottimo piano, ha come
obiettivo principale quello di garantire al territorio del bacino del fiume un livello di
sicurezza adeguato rispetto ai fenomeni di dissesto idraulico ed idrogeologico,
attraverso il ripristino degli equilibri idrogeologici e ambientali, e il recupero degli
ambiti fluviali del sistema delle acque. Secondo noi questo inciso, che è contenuto
nell'articolo 1 delle norme di attuazione del piano, è fondamentale per capire come
dobbiamo rilanciare una gestione del territorio fondata in gran parte su interventi di
ripristino e riqualificazione ambientale, non soltanto per problemi di natura estetica, ma
anche perché ciò ci permette di recuperare una capacità di autodepurazione del fiume
stesso, abbattendo gli inquinanti.
Da un studio condotto sul fiume Tirino in Abruzzo è emerso che circa 700 metri di
fiume hanno una capacità depurativa pari ad un depuratore di 1.500 abitanti. Per
quale motivo allora bisogna costruire un depuratore, che costa, che richiede una
manutenzione e che ha un grosso impatto ambientale, quando in maniera naturale
è possibile ottenere lo stesso risultato gestendo decentemente alcuni corsi d'acqua?
L'ultimo profilo che mi piace qui ricordare è l'accordo che abbiamo portato a termine
con Confindustria e Coldiretti, per giungere ad una direttiva tecnica sulla denaturazione,
prevista dal piano di assetto idrogeologico, direttiva che dopo quattro anni finalmente è
arrivata al traguardo. Esiste la possibilità di ripristinare una serie di grosse lanche sul
tratto centrale del Po, asportando materiale inerte, recuperando la sicurezza e l'ambiente
a costo zero. Ciò è possibile anche attraverso la definizione di regole di concerto con le
province, che hanno competenza in materia. In questo modo gli imprenditori e gli
agricoltori sono stati coinvolti nell'intervento, al fine di raggiungere obiettivi che per lo
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Stato hanno un costo irrisorio. La ricerca di soluzioni nuove deve anche seguire l'ottica
della direttiva comunitaria citata, che all'articolo 14 promuove per i piani di gestione
idrografica la partecipazione pubblica, ossia il coinvolgimento diretto dei soggetti
interessati e dei cittadini nella scelta di pianificazione, scelta fondamentale, perché nel
momento in cui si gestisce un territorio è fondamentale che le popolazioni locali siano
coinvolte in quel processo e che siano concordi.
Ringrazio di nuovo la Commissione per questa opportunità e rinnovo il mio richiamo
per il recepimento in tempi brevi della direttiva quadro comunitaria in materia di acque.
MAURIZIO PICCA, Responsabile relazioni istituzionali di Legambiente. Ringrazio
anch'io il presidente per l'opportunità che ci viene offerta. Non voglio ripetere le
considerazioni già svolte dal mio collega. Siamo d'accordo sul fatto che la materia in
questo momento è molto farraginosa e scomposta su vari livelli. Condividiamo altresì
l'esigenza di semplificare il dato normativo, ma ciò non deve comunque aprire strade
diverse: non capiamo la ratio del sesto comma dell'articolo 11-sexies del decreto sulla
competitività, laddove si prevedono dei bandi privati per la difesa del suolo: non
vorremmo che la difesa del suolo diventasse competenza dei privati.
Credo che possa essere utile per questa discussione richiamare l'operazione «fiume»,
che risale al 2004: essa prevedeva un monitoraggio, da parte dei comuni italiani, dei
fiumi per la mitigazione del rischio idrogeologico. Abbiamo preso in considerazione
1.100 comuni ad alto rischio idrogeologico, mentre il programma previsto per
quest'anno prevede il coinvolgimento di 5.500 comuni. Nel corso di quell'operazione
840 comuni hanno risposto al nostro questionario, sotto il profilo della prevenzione e
dell'informazione. Il dato che emerge, assolutamente drammatico, è che soltanto 1
comune su 3 ha un piano di prevenzione e il 76 cento di questi piani non è
assolutamente sufficiente. Questi dati sono suddivisi per regione, con relativo punteggio
circa il valore dell'intervento di emergenza e di prevenzione.
Ciò che ci interessa però evidenziare è che non si può seriamente parlare di prevenzione
se si continuano ad emanare condoni edilizi. Negli alvei dei fiumi insistono spesso e
volentieri case, palazzine, centri industriali e ciò rende impossibile qualunque opera di
prevenzione o di contenimento del rischio. Occorre quindi adottare politiche edilizie
diverse. Siamo convinti di ciò e dell'esigenza di una semplificazione, che però deve
partire da una repressione forte dell'abusivismo edilizio nelle zone in cui scorrono corsi
d'acqua.
Concludo ringraziando nuovamente la Commissione per averci ascoltati.
PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti per il loro utile contributo.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 11,30.
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VIII Commissione Parlamentare - Camera dei