Il mare di Goffredo Goffredo l’aveva visto il mare… in televisione. Da piccolo, l’immensa distesa d’acqua era stata il suo incubo nelle buie notti di tempesta, quando la pioggia batteva a martello sul tetto di lamiera della stalla e le bestie spaventate lanciavano terrificanti muggiti. Si rannicchiava nel suo giaciglio di foglie e tremava fino a battere i denti. Più volte aveva orecchiato il pastore-padrone raccontare, quando era certo che il bimbo non sentisse, che il mare era un inferno. E questo luogo orrendo, almeno questo, Goffredo lo conosceva bene. Il Don glielo descriveva con particolari sempre più agghiaccianti durante il catechismo per la Prima Comunione. Ci aveva anche provato a “non toccarsi”, ma come fosse possibile far pipì senza allungare le mani su quel coso più delicato ancora delle tettarelle delle mucche, beh, proprio non gli era chiaro. Forse le mamme lo insegnavano, ma la sua non c’era più, da tanto. Non osava chiedere al garzone di quindici anni, temendo che, come il solito, il Toni ridesse di lui…e neppure al pastore, omone di poche parole, asciutto e introverso, anche se buono d’animo e bravo cristiano. Quando ul Pedar si allontanava per due o tre giorni e Goffredo restava col Toni, il vecchio tornava sempre con una tavoletta di cioccolato da dividere in tre. Poi, di nascosto e con occhi umidi, il pastore dava ancora un quadretto dei suoi a quel vispo mucchietto d’ossa dai riccioli biondi e orecchie a sventola. In quegli attimi, Goffredo aveva imparato a sfoderare incredulo i suoi denti appena rispuntati e a fare una capriola senza battere la testa sulle pietre della povera stanza che fungeva da cucina e casera. Una notte di bufera, mentre la baiorda sferzava gli antoni e faceva cigolare il catenaccio della stalla, il pastore era rientrato bagnato fradicio, barba lunga, respiro corto, zaino lacerato. Si era accasciato quasi senza vita accanto agli ultimi tizzoni accesi. Il Toni era corso a prendergli un bicchierino di grappa e, per l’agitazione, era inciampato nelle molle del camino che erano andate a sbattere contro la grossa caudera di rame, pronta per il formaggio del giorno seguente. Goffredo si era svegliato di soprassalto, ma era rimasto immobile per paura di muoversi al buio, teso a captare le voci che dalla cucina salivano fino al binchal. Il suo pastore non faceva altro che ripetere le stesse parole, quasi una tiritera da ora pro nobis di giaculatoria: “Un inferno… un inferno!”. Il piccino aveva capito tutto: il suo pastore era stato al mare… Quando, il mattino dopo, il Pedar gli aveva dato una mezza carezza sulla testa senza estrarre dalla tasca la solita tavoletta della Lindt, Goffredo si era reso conto che in quel postaccio tremendo gli avevano pure rubato il cioccolato! Da giovanotto si era fatto un’idea diversa del mare: sempre un inferno di caldo, ma con tante donne dai vestiti a righe così striminziti da lasciar scoperte braccia e gambe. Goffredo di gambe ne aveva viste solo due… fino alle ginocchia, durante l’Autani. Lui era in testa alla processione con lo stendardo di San Giorgio, ma a un tratto, accidenti a lui, aveva dovuto defilarsi nel bosco a… farla. Nel correre ansioso per riacciuffare il drappello degli uomini –rigorosamente in marcia davanti alle donne per non aver occasione di sbirciare caviglie e polpacci sui punti ripidi del sentiero- si era avvicinato all’esile fanciulla che chiudeva la cantilenante processione. La Teresina stava sollevando la lunga gonna nera per non inciampare sugli alti e irregolari scalini di pietra. Accortasi del bel ragazzone dal sorriso smagliante, aveva ripetuto il gesto con fare civettuolo, aggraziato, lento quanto basta per fargli sognare un mondo di voluttà proibite. Si erano sposati in un bel giorno di primavera, come nella migliore delle favole. Goffredo, oltre al suo solito volto di luce, sfoggiava un abito di velluto scuro e un orologio d’oro da taschino, dono del Pedar, ormai troppo vecchio per le briccollate da contrabbandiere in quell’arcigno inferno del Gridone, così vicino alla Svizzera delle sigarette e cioccolato, ma ben lontano dal mare! Il Toni, da anni sposato, gli aveva spiegato qualcosa, serio come mai, ma gli aveva poi preparato una gran sciupa, ridendo di nuovo come un matto. Lui si era sfilato la giacca, il gilet e pure la camicia di batista per segare in fretta il grosso tronco e non arrivare sudato all’altare. Gli anni passano svelti e tre maschi, oltre ai primi due morti durante il parto, non sono uno scherzo. Meno che meno trovare anche il tempo per parlare di tante cose… I suoi bambini non erano quindi cresciuti come lui nel terrore religioso, anche perché i tempi stavano cambiando. Non li aveva, però, mai lasciati andare al mare in colonia, per prudenza. Un giorno Goffredo, di ritorno dagli alti pascoli, si era fermato all’unica osteria del paese dove, da una settimana, era arrivata la televisione: un mobiletto di legno bombato ai lati con un vetro frontale a riverberi strani. In mezzo all’anta luminosa capeggiava la scritta “intervallo”, letta a fatica, e tante pecore si ammassavano lungo un sentiero pianeggiante. Poi, di colpo, una distesa d’acqua leggermente increspata con un bastimento all’orizzonte…il mare! Aveva sorriso indulgente ripensando ai suoi timori di bambino e aveva proseguito verso un campo da una vita coltivato a cipolle, tra le proteste della Teresina, che ben conosceva l’arte di far rendere al meglio la povera terra delle sostini, variando le semine. Ma l’unico ricordo che Goffredo aveva della madre era lì, tra gli steli verdeggianti: lei singhiozzava e stringeva tra le mani uno strano biglietto… Goffredo aveva fatto in tempo a vedere la barchetta disegnata sopra al pezzetto di carta che lei, rapida, aveva nascosto nel seno prima di abbracciarlo forte, avvolgendolo nella sua ondeggiante massa di capelli neri, con una scarica di baci dalla fronte al collo. La mamma non era mai arrivata in Merica… Il Don glielo aveva rivelato il giorno lontano di quella processione di montagna, quando lui si era sentito male ed era corso tra i cespugli, vergognandosi fino alle orecchie, ormai regolari. Ora, mentre i fiori di cipolla secchi dondolavano nel vento, due lacrimoni salati gli scivolavano sulle mani callose. Anche il mare, dicevano, era salato, ma chissà qual era il profumo del mare e chissà se a sua madre era piaciuto quando a Genova, il 2 agosto del 1906, era salita su quel Sirio che mai sarebbe arrivato in Argentina. Non c’era più tempo per scoprirlo: era arrivato “il” biglietto anche per lui… La Teresina, sconvolta, l’aveva trovato così, ancora col bel sorriso di perle, gli occhi azzurro cielo spalancati e una mano che stringeva - che strano- un mazzetto di fiori di cipolla strappati lì accanto. Forse Goffredo si era sentito scivolare e si era aggrappato, forse aveva iniziato a pulire il campo… forse aveva solo cercato aiuto in quei capelli neri che lo coccolavano, sotto la coperta del giaciglio di foglie, nelle buie notti di tempesta… Racconto inedito, dedicato agli emigranti italiani morti nel naufragio del piroscafo Sirio, il miglior bastimento della NGI (Navigazione Generale Italiana), utilizzato per le rotte verso il Sud America, partito da Genova il 2 agosto 1906 e affondato a meno di tre chilometri dalla costa spagnola di Capo Palos. La nave aveva effettuato degli scali non autorizzati per imbarcare quasi cento clandestini. Per recuperare il tempo perduto e rispettare la tabella di marcia ufficiale, il tristemente noto capitano Piccone aveva ordinato di accorciare la rotta, che la prudenza avrebbe suggerito di tenere lontana dagli infidi fondali delle isole Hormigas. Mentre il glorioso Sirio rasentava la costa a folle velocità, uno scoglio ne segnava la fine. Nulla è rimasto nella memoria delle nuove generazioni perché i poveracci di terza classe non fanno notizia, a differenza dei ricchi e famosi viaggiatori del Titanic, cui sarebbe toccata la stessa cattiva sorte sei anni dopo. Sul Sirio ben pochi erano i passeggeri facoltosi diretti in Sud America in compagnia del vescovo di San Paolo del Brasile. Il capitano aveva quindi pensato di arricchirsi trasferendo i più decorosi tra gli emigranti italiani in prima classe, così da stipare poi la nave di clandestini spagnoli, il cui numero non è mai stato definito. Secondo la testimonianza di molti superstiti, riportata dai giornali di tutto il mondo, Piccone fu tra i primi a mettersi in salvo. Secondo le dichiarazioni del capitano di un altro piroscafo giunto in soccorso dei naufraghi, l’ultimo… Maria Pia Pallotta Parlanti Via Rivola,3 28865 Preglia di Crevoladossola (VB) Tel: 0324-33622 Cell. 00393338617484 E-mail: [email protected]