Lo straniero nel Primo Testamento
I processi migratori in atto sono uno, forse il più rilevante, tra gli elementi che pongono oggi in
modo nuovo la questione dell‟incontro con lo straniero. Dopo aver cercato di compiere una lettura
di questo fenomeno e sulle provocazioni che esso comporta vorrei proporre il tentativo di una
lettura credente a partire da alcuni passaggi delle Scritture. Compito del cristiano è cercare di
leggere questo segno dei tempi nella luce che proviene dalla Bibbia. Il fenomeno delle migrazioni è
oggi un segno dei tempi, una chiamata di Dio proveniente dai movimenti della storia che invita a
riflettere e a comprendere in modo nuovo aspetti centrali della fede e della testimonianza. E‟ un
evento che spinge nella ricerca di una spiritualità che ponga l‟accoglienza e l‟ospitalità come
esperienze chiave per aprirsi all‟incontro con Dio oggi.
Certamente la Bibbia non offre soluzioni concrete ai problemi che le nostre società si trovano ad
affrontare e che esigono una capacità politica di gestire e orientare movimenti epocali. Tuttavia
offre orizzonti di fondo nei quali ritrovare il senso di una testimonianza umana e credente. La
Bibbia è Parola di Dio e i credenti ritrovano in essa, in rapporto alla vita, il messaggio di Dio come
luce per la loro esistenza, ma la Bibbia è anche il grande codice in cui poter ritrovare un messaggio
che legge e interpreta la vicenda dell‟umanità e si apre ad un ascolto anche da parte di chi vive una
ricerca sui diversi orizzonti della vita umana.
Nelle pagine bibliche la figura dello straniero compare con una importanza che può apparire sempre
più rilevante se si considera nei suoi diversi aspetti e nella complessità di sfaccettature e
problematiche con cui è presentata.
Israele in quanto popolo credente in JHWH sorge da una esperienza di stranierità: i racconti
fondatori d‟Israele, la vicenda di Abramo, chiamato a lasciare la sua terra e ad andare verso una
terra non sua e il percorso dell‟esodo come cammino di un popolo oppresso e straniero, sono i
momenti fondanti della storia di un popolo che si scopre straniero nelle sue origini e che vive da
straniero, nel cammino della migrazione, la sua esperienza di fede. Il rapporto con gli stranieri
rimarrà poi sempre presente anche nell‟esperienza dell‟Israele stabilito e costituirà un aspetto
importante nella legislazione proprio perché lo straniero costituisce un elemento che rinvia ad una
esperienza umana fondamentale, e all‟esperienza stessa di Dio nell‟incontro della fede.
Gesù stesso vive nella condizione di straniero e con il suo messaggio ed il suo agire porta ad una
novità e allarga gli orizzonti della comprensione del prossimo e dell‟altro. Gesù poi delinea la
verifica della vita cristiana proprio sui temi dell‟incontro con l‟altro e con il povero (Mt 25). Così le
1
prime comunità cristiane manifestano una consapevolezza di essere comunità straniere e pellegrine,
proprio in quanto testimoni della fede nel Dio che è sempre altro e oltre e ci rinvia ad un cammino
mai conchiuso nell‟incontro.
“Si vede come già nell‟Antico Testamento emergano posizioni e concezioni della realtà dello
straniero, quale „luogo teologico‟ dove Dio irrompe nella storia. Ciò si radicalizza ancora di più nel
Nuovo Testamento, dove lo straniero diventa categoria per indicare un aspetto del mistero di
Cristo”.1
La figura dello straniero inserita nelle Scritture diviene quasi una fessura che apre ad uno sguardo
su dimensioni nuove dell‟incontro con l‟altro e che conduce a ripensare le modalità dell‟incontro
con l‟altro.
I passaggi di questo intervento saranno quindi due:
- una lettura della figura della stranierità nel Primo Testamento come elemento fondamentale per la
comprensione della fede di Israele,
- i modi di indicare lo straniero e la legislazione.
Le principali tappe
La storia della fede di Israele sorge in un contesto di estraneità: l'essere straniero si connette alla
promessa di Dio, sta al cuore della vicenda della fede di Israele sia nella storia di Abramo sia nel
percorso del popolo al momento dell'esodo. Fondamentale nella memoria di Israele rimane
l'esperienza di essere stato straniero in Egitto e di aver scoperto lì, nella condizione di estraneità, la
presenza liberante di Dio che lo ha fatto uscire dal paese d'Egitto.
Questa esperienza fondante non è senza significato nel modo stesso di intendere la relazione con
Dio innanzitutto, e la relazione tra le persone e i popoli nella sensibilità propria di Israele. La
condizione di estraneità è la condizione in cui nasce e si sviluppa il cammino della fede.
Abramo e i patriarchi: un’esperienza di stranierità
Abramo è invitato a lasciare qualcosa dietro di sé: per incontrare Dio è chiamato a vivere la
condizione dell‟andare, di chi non possiede terra ma di chi la percorre. E‟ spinto ad andare verso
una terra abitata da stranieri, i cananei, e a ritrovarsi come straniero in mezzo a popoli diversi.
Proprio in quanto straniero Abramo può essere l'amico del Dio inafferrabile che sta sempre oltre.
Abramo rappresenta l‟esempio di colui che vive pienamente il suo cammino umano non
1
P. Rota Scalabrini, Il Signore protegge lo straniero. linee del discorso biblico sul tema dello straniero, in Aa.Vv., Lo
straniero, (Invito alla teologia 5) Bergamo Litostampa Istituto Grafico 2003, 39-67, qui 41.
2
dimenticando di esser straniero (come Lot a Sodomia) ma continuando a vivere come forestiero,
anche alla fine del suo viaggio, quando acquista il campo di Macpela: “Io sono forestiero e di
passaggio in mezzo a voi” (Gen 23,4).
Abramo è chiamato a partire come migrante e a lasciare la sua terra: “Mio padre era un Arameo
errante; scese in Egitto e vi stette come un forestiero” (Dt 26,5); “Tu sei per origine e per nascita del
paese dei Cananei, tuo padre era Amorreo e tua madre Hittita” (Ez 16,3). Il salmo 39 legge in
questa luce la condizione umana nella sua fragilità e la indica come paragonabile alla condizione
del migrante: “Come ombra è l‟uomo che passa… Io sono un forestiero (gher) davanti a te, uno
straniero (toshav) come tutti i miei padri” (Sal 39,7.13). “Erano in piccolo numero, pochi e stranieri,
e passavano di paese in paese” (Sal 105, 12-13) “Noi siamo stranieri davanti a te, pellegrini come
tutti i nostri padri” (1Cr 29,15).
La terra su cui il popolo troverà dimora si delinea come terra donata, sulla quale Israele vive da
ospite, e non come dominatore o possessore: “la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri
ed inquilini” (Lv 25, 23).
In Gen 17,7-9 la promessa di Dio riguarda due principali orizzonti, quello della terra e quello della
discendenza. La discendenza è promessa ad un uomo che non ha figli; la terra è promessa mentre il
luogo in cui Abramo vive da straniero è una terra non sua. E‟ il paradosso della promessa di Dio
che chiama Abramo ad uscire, a lasciare per andare verso un altrove segnato dall‟affidamento a Lui
solo.
„Straniero‟ è una categoria utilizzata per indicare il rapporto con la terra, e fa riferimento alla
promessa: tocca quindi dimensioni centrali della fede e della vita d‟Israele. La „terra‟ e la
„discendenza‟, oggetto della promessa ad Abramo, sono da considerare come le due fondamentali
direzioni dell'alleanza. Lo straniero viene da un‟altra terra, in una terra che non gli è propria e si
colloca fuori da un tessuto di relazioni che dicono la familiarità e l'appartenenza ad una medesima
discendenza.2
Estraneità tuttavia è anche la condizione presentata dall'inizio anche per la discendenza di Abramo
(Gen 15,13). Abramo inizia da subito a sperimentare la sua condizione di straniero: a Sodoma è
rigettato dagli abitanti della città in cui il grande peccato è quello di non dare ospitalità nei confronti
dello straniero. A lui sono rivolte le parole: “questo individuo è venuto qui come straniero e vuol
fare il giudice? (Gen 19,8-10). E così successivamente Abramo “levò le tende e soggiornò come
2
Cfr. Aa.Vv., L‟altro, il diverso, lo straniero, “Parola Spirito e Vita” 27,1993,1-301.
3
straniero a Gerar” (Gen 20,1). Il suo peregrinare lo conduce a fare esperienza di straniero: fu
forestiero nel paese dei filistei per molto tempo (Gen 21,34; cfr Gen 23,4; 35,27; 37,1).
Nella sua vicenda Abramo è descritto come „straniero‟ nel momento stesso in cui accetta di
rispondere alla chiamata di JHWH. La benedizione stessa di Dio si allarga a comprendere anche
tutte le nazioni, e le famiglie della terra ossia tutto un ambito di estraneità rispetto alla discendenza
e alla nazione propria di Abramo stesso.
La situazione delle nazioni è così connessa con l'elezione di Abramo: l'elezione di Israele da un lato
reca in sé le valenze di una differenziazione radicale e di una unicità di Israele stesso in mezzo ai
popoli, d‟altra parte è il luogo stesso in cui la benedizione donata può essere trasmessa a tutti i
popoli.
Proprio in ciò che costituisce la separazione di Israele da tutti gli altri popoli sta un movimento che
unisce Israele a tutti gli altri popoli e lo collega a tutta l‟umanità. La sua vocazione è quella di
essere ponte di trasmissione della benedizione di Dio destinata non ad essere privilegio proprio di
una etnia o di una terra, ma ad aprirsi ad orizzonti di universalità, per tutte le famiglie della terra.
Questa condizione di estraneità è la condizione che connota così molti personaggi della vicenda
biblica: come Abramo, anche Giacobbe è forestiero (cfr. Gen 32,5), ma si allarga a divenire la
condizione del popolo: Israele nella sua dimensione collettiva vive la condizione di estraneità in
Egitto (Gen 47,4).
Quando Sippora partorisce un figlio a Mosè si dice “ella partorì un figlio ed egli lo chiamò Gherson
(da gher = straniero) perché diceva sono un emigrato in terra straniera” (Es 2,22; cfr. Es 18,3).
Così il ricordo del percorso del popolo d'Israele a partire dallo spostamento in Egitto è un ricordo di
chi vive da straniero: “poi scesero in Egitto poiché la fame aveva invaso tutto il paese di Canaan, e
vi soggiornarono finché trovarono da vivere. Là divennero anche una grande moltitudine, tanto che
non si poteva contare la loro discendenza” (Gdt 5,9-11; cfr. Gdt 5,17-19: “furono condotti
prigionieri in paese straniero, il tempio del loro Dio fu raso al suolo”); 1Cron 16,18-20: “Eppure
costituivano un piccolo numero; erano pochi e per di più stranieri nel paese”. In un contesto di lode
al Signore nel trasporto dell'arca che ripercorre le tappe dell'alleanza c'è questo riferimento
all'essere in piccolo numero e all'essere stati stranieri quale ricordo profondamente presente nella
coscienza di Israele: “Siamo stranieri e pellegrini come tutti i nostri padri” (1Cron 29,14-16).
La condizione di pellegrino è quella di chi vive nella condizione di precarietà, di chi è come ombra
e sa che la speranza viene non da una stabilità o da una certezza posseduta o accumulata attraverso
una ricchezza da conservare ma è condizione in cui si percepisce profondamente la dipendenza da
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qualcuno da cui non si può esigere ma da cui solamente si può attendere di accogliere un dono
frutto di benevolenza.
L’Esodo
Anche Mosè vive la condizione di straniero per il suo popolo e nel cammino dell‟esodo Israele
scoprirà la sua condizione esistenziale di Israele come estraneità: nell‟esodo Israele incontra il Dio
che ascolta il grido delle vittime e protegge lo straniero e lo conduce nel cammino di liberazione
dall‟oppressore. Israele maturerà così una duplice visione della condizione di straniero. Da un lato
un aspetto positivo perché in quanto straniero si è lasciato condurre da Dio in un cammino di
libertà. Però c‟è anche un elemento negativo: essere straniero comporta una perdita, uno
spaesamento ed anche paura.3
L'Esodo si connota come il momento dell'esperienza più forte e dolorosa dell'estraneità, ma anche
per contro come il momento più alto dell'elezione di Israele (Dt 4,7). Si può cogliere allora come
nell'esperienza stessa in cui si accentua la singolarità di Israele in mezzo a tutti i popoli questa non
si connota come privilegio, ma significa per Israele essere un segno in mezzo a tutti i popoli e per
tutti.
L‟esperienza dell‟Esodo rispetto al migrare di Abramo si connota come un percorso di uscita verso
la libertà da una condizione di schiavitù. E‟ così una migrazione in cui sono compresenti gli aspetti
della sofferenza per l‟oppressione e per la discriminazione che deriva dall‟essere considerati popolo
da sottomettere da mantenere nella condizione di schiavo. In questo contesto di oppressione subita
sta anche l‟esperienza di un cammino guidato e sorretto dalla mano potente di Dio che ha ascoltato
il grido del popolo oppresso ed è sceso a liberarlo. La fede nel Dio dell‟Esodo è intrisa
dell‟esperienza del cammino di spostamento da una terra di schiavitù verso una condizione di
libertà.
In questo percorso Israele diviene un segno ed il rapporto con il Dio liberatore genera libertà.
Israele è stato scelto non per una singolarità che deriva da suoi meriti, ma l'elezione stessa rinvia
alla gratuità dell'amore di Dio che sceglie il popolo più debole e indifeso per manifestare la sua
potenza e la sua misericordia (Dt 7,7-8).
L'elezione si connota quindi come dono che si fa appello di libertà e di fedeltà del popolo. Essa può
essere ritirata di fronte all'infedeltà o può essere donata a chi - straniero - si rende disponibile ad
essere coinvolto in questa storia. Vi sono molteplici presenze di stranieri che fanno progredire la
storia della salvezza. Il re Ciro, un pagano, diventerà uno dei protagonisti responsabili di questa
3
P.Bovati, Lo straniero nella Bibbia. I. La diversità d‟Israele, “La Rivista del clero italiano” 83,2002, 405-418.
5
vicenda di alleanza: "Per amore di Giacobbe mio servo e di Israele mio eletto io ti ho chiamato per
nome e ti ho dato un titolo sebbene tu non mi conosca (Is 45,4 a cui è dato il titolo di messia e che è
visto come nuovo Mosè: cfr Is 41,1-5.21-29; 44,24-28; 45,1-7.9-13; 46,9-11; 48,12-15). Così tante
figure di stranieri intervengono a condurre avanti la storia della salvezza: Rahab e Tamar erano
straniere cananee, Rut era Moabita, Uria è moglie di Uria l'Ittita.4
L'elezione non è un riconoscimento particolare in vista di un privilegio da trattenere ma vive in una
dinamica di apertura nell'orizzonte dell'inclusione e del coinvolgimento di tutti i popoli. L'elezione
colloca Israele come segno che possa contagiare e invitare e suscitare nei popoli un cammino verso
la scoperta dell'amore di Dio che si è manifestato proprio nell'elezione di Israele in quanto popolo
oppresso e vittima, nella condizione dello straniero. Poiché Israele è proprietà tra tutti i popoli che
pure sono proprietà di Dio, la sua caratteristica è quella di essere un regno di sacerdoti (Es 19,5-6),
con un compito di mediazione e di missione, analogo alla funzione descritta per il servo di JHWH,
inviato ad essere luce per tutti i popoli (Is 49,6).
Nella fase dell'insediamento al tempo di Giosuè e dei Giudici Israele vive straniero nella terra che
non è sua proprietà ma che rimane di Dio (elemento che verrà ripreso come fondamentale nella
memoria in Deuteronomio: „ricorda Israele‟).
La riflessione sulla creazione e sugli inizi della vicenda umana
La riflessione sulla creazione e sulla vicenda umana a partire da Adamo pone la prospettiva di una
estraneità originaria dovuta ad un'uscita dal giardino delle origini. La riflessione jahwista conduce a
cogliere come non solo Israele nella sua vicenda di popolo dell‟alleanza ma l'umanità stessa sia in
una condizione di estraneità e di alleanza. C'è un‟estraneità originaria tra Dio e la creazione e tra
Dio e l‟umanità. La creazione è altro da Dio e nei testi jahwisti di Genesi è sottolineata fortemente
in senso demitologizzante la differenza della creazione rispetto a Dio. La vita umana e non solo la
vicenda di Israele si pone radicalmente in una dimensione di estraneità rispetto ad una terra dove
l‟uomo incontra Dio come altro dalle creature, ma in cui c‟è trasparenza di relazione e di
comunicazione. Il mito del giardino in cui Adamo conversa con Dio, canta l'inno di lode di fronte
ad Eva unico aiuto che è simile, dà il nome alle creature è espressione di tale estraneità positiva
luogo di incontro e custodia. Si tratta quindi di una alterità dialogica, letta nei suoi aspetti positivi
dello „stare di fronte‟ nell‟incontro. La situazione dopo il peccato invece si presenta come una
rottura in cui l‟estraneità si connota come non sincerità, lontananza, conflitto tra l'uomo e la donna,
oppressione dell'uno sull'altro, violenza e odio tra fratelli: si tratta di una estraneità sperimentata
4
cfr Mt 1,1-17 genealogia di Gesù e su questo cfr. R.E.Brown, La nascita del Messia, tr.it. Assisi Cittadella 1981, 7884.
6
come inimicizia, fino all'estraneità tra gli uomini generata dopo il fallimento del progetto di Babele.
E vi sarà anche una alterità ritrovata con l'alleanza in Noè che investe tutta l‟umanità oltre ad ogni
appartenenza al popolo d‟Israele e che si estende a comprendere le dimensioni del cosmo.
In Gen 1-3 ci sono quindi le tracce di una estraneità che deriva da una vocazione smarrita: Adamo
si nasconde di fronte a Dio. Caino fugge e non vuole sapere nulla del fratello; e la costruzione della
prima città, la città di Caino, è vista da Gen 4 come l'agglomerarsi di uomini per lasciar fuori, per
escludere il fratello: potremmo vedere in questo racconto la costruzione di città nel senso di una
prima struttura dell'esclusione.
Ancora in Gen 11 l'estraneità diviene la condizione di chi non è più capace di comunicare: la
dispersione degli uomini e la confusione delle lingue è segno di una estraneità tra popoli e culture
non più capaci di intendersi perché hanno ricercato un'unità come uniformità (la grande torre) in un
progetto che aveva al cuore la pretesa di porsi al posto di Dio stesso. La torre rappresenta ogni
disegno egemonico dell'umanità di arrivare al cielo, di ergersi al posto di Dio, un progetto destinato
a cadere nella confusione. E' il disegno di ridurre ogni varietà a soggiacere ad un grande dominio
frutto dell'operare dell'uomo. E in Gen 11 l'intervento di Dio è indicato come ciò che preserva una
differenza che però non trova modo di comunicare. Nel racconto di At 2, la Pentecoste, si troverà la
situazione dell'anti Babele – o, secondo altre interpretazioni, il compimento proprio del disegno di
Dio a Babele - ossia la possibilità che stranieri si comprendano e comunichino, non nel soggiacere
ad un'unità imposta dal progettare umano, ma nell'intendere ciascuno nella propria lingua la parola
dell'altro: la differenza non è annullata ma diviene luogo di una relazionalità nuova nella forza dello
Spirito come dono di comunicazione.
In questa riflessione sui primi capitoli della Genesi si può riscontrare come vi sia una presentazione
di quel tipo particolare di alleanza con Noè, che ha una struttura simile a quella che sarà l'alleanza
con Israele: c'è un impegno di Dio con tutti gli uomini, un patto in cui l‟alterità non annulla le
differenze e si pone come luogo di apertura e di incontro. Dio si fa soggetto e garante di questo
patto: nell'alleanza con Noè tutte le diverse nazioni sono coinvolte (Gen 10). Ma anche la vocazione
di Abramo, posta immediatamente dopo il racconto di Babele inaugura il cammino di una fede
chiamata ad uscire, da vivere con spirito di pellegrino e straniero, per sperimentare una relazione
nuova con Dio, che si fa incontro come ospite e chiede accoglienza (cfr. Gen 18).
L'orizzonte della predicazione profetica
I profeti iniziano un genere letterario particolare che prima in Israele non era mai esistito,
consistente nella presentazione di oracoli rivolti alle nazioni. In questi testi si può osservare come
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anche i popoli stranieri siano considerati con un ruolo ed una presenza attiva che è chiamata ad una
responsabilità particolare, all'interno della storia della salvezza, del dialogo di Dio con il suo
popolo. Anch‟essi vivono in rapporto a questa storia e si trovano di fronte ad una verifica e ad un
giudizio.
Il libro di Amos è una delle prime testimonianze di questi oracoli alle nazioni da leggersi nella
prospettiva presentata da Is 53,6-7: tutti gli stranieri non saranno esclusi, il tempio di Dio è casa di
preghiera per tutti i popoli. In questo senso è proprio della predicazione dei profeti la linea di
annuncio secondo la quale le nazioni possono essere inserite nella storia della elezione di Israele:
“Alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti… ad esso
affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: venite saliamo al monte del Signore…”
(Is 2,2-4; Mi 4,1-3 riprende questo testo di Isaia). Il terzo Isaia riprende la visione di Isaia del fluire
dei popoli in pellegrinaggio verso Gerusalemme (Is 60): questo convergere delle nazioni e dei
popoli aprirà un tempo futuro di giustizia, di pace, di eliminazione della violenza e delle armi.
Tali prospettive sono riprese soprattutto nel periodo del postesilio (Ag 2,6-9; Zac 8,20-23; 2Is
45,22; 3Is 66,18-21). C'è una possibilità aperta alla conversione dei popoli: casi emblematici sono
la vicenda di Naaman, siro che pur profetizza (2Re 5,15) e di Achior l'ammonita (Gdt 5,1-6,21).
Sempre maggiore sarà la presenza di 'coloro che si uniscono a JHWH e a Israele' (Is 56,3-6; Zac
2,15), fino a giungere alle posizioni di Geremia, che riconosce anche in chi ha oppresso Israele la
possibilità di integrarsi e di stabilirsi all'interno del popolo: “Così dice il Signore: 'Ecco io sradico
dalla loro terra tutti i miei vicini malvagi, che hanno messo le mani sull'eredità che ho dato al mio
popolo Israele, e così anche sradicherò la casa di Giuda di mezzo a loro. E, dopo averli sradicati,
riprenderò ad avere compassione di loro e farò tornare ognuno al suo possesso e alla propria terra.
Se impareranno con cura le usanze del mio popolo fino a giurare nel mio nome dicendo: „Per la vita
del Signore‟, come hanno insegnato al mio popolo a giurare per Baal, allora potranno stabilirsi in
mezzo al mio popolo" (Ger 12,14-16).
Alcuni profeti del tempo dell'esilio, quali il Terzo Isaia e Geremia sviluppano in modo particolare le
prospettive universalistiche della fede di Israele: “Non dica lo straniero che ha aderito al Signore:
certo mi escluderà il Signore dal suo popolo. Non dica l'eunuco io sono un albero secco” (Is 56,24). “Gli stranieri che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore...” (Is
56,6-7) è l'annunzio che saranno ammessi proseliti stranieri a condizione di un legame con
l'alleanza, inclusa anche la circoncisione. Il tempio di Gerusalemme si apre a divenire luogo di un
incontro oltre i confini di appartenenza al popolo d‟Israele: “il mio tempio si chiamerà casa di
preghiera per tutti i popoli” (Is 56,7).
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Una prospettiva più marcata in orizzonte universalistico è riscontrabile in Is 60,10-12: “stranieri
ricostruiranno le tue mura... le tue porte saranno sempre aperte.. per lasciar introdurre da te le
ricchezze dei popoli”. “Ricostruiranno... ci saranno stranieri a pascere i vostri greggi e figli di
stranieri saranno vostri contadini e vignaioli” (Is 61,5; cfr. Is 14,1-2).
L'esilio stesso diviene esperienza teologica di estraneità: nella condizione di estraneità Israele
scopre più profondamente le dimensioni della fede: incontra JHWH come signore della storia e
riscopre la sua Parola come riferimento fondamentale.
In Ezechiele la dispersione diviene il „luogo teologico‟ di un incontro nuovo con Dio: “Allora
sapranno che io sono il Signore, quando li avrò dispersi fra le genti e li avrò disseminati in paesi
stranieri” (Ez 12,14-16).
Il profeta stesso deve diventare un segno ed è spinto a prepararsi come un deportato, un emigrante
di fronte al popolo, per annunciare l‟imminente deportazione del popolo di Gerusalemme.
“... Allora sapranno che io sono il Signore”. La conoscenza, ossia l'esperienza della signoria di
JHWH, si risveglia quando Israele vive la condizione della deportazione e dell'estraneità. La
dispersione tra le nazioni è occasione di purificazione e ciò è espresso nei termini della
purificazione della fede stessa di Israele: "Ti disseminerò in paesi stranieri; ti purificherò della tua
immondezza" (Ez 22,14-16).
Una tensione irrisolta: tra elezione e apertura universale
Possiamo rintracciare nel Primo Testamento una tensione irrisolta tra due elementi fra di loro
contrastanti. Da un lato Israele scopre di essere stato scelto da Dio e in virtù di questa scelta sorge
l‟esigenza di custodire la preziosità di una relazione che è dono di alleanza ma nel contempo è
anche richiesta di fedeltà.
L‟elezione quindi fa riferimento al senso di rapporto esclusivo da custodire in un contesto di
continui possibili sviamenti, di commistioni con i popoli pagani, con le varie forme dell‟idolatria
che comportano il venir meno alla fedeltà all‟alleanza.
In questo senso „elezione‟ dice riferimento ad una unicità, è una scelta che comporta una
separazione ed una salvaguardia della differenza rispetto a tutti gli altri popoli.
Israele è la „segullah‟, ossia la proprietà esclusiva e personale di Dio in mezzo ai popoli: "Voi sarete
per me la proprietà fra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di
sacerdoti e una nazione santa" (Es 19,5-6, redazione P probabilmente).
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Un testo paradigmatico di questa preoccupazione per custodire il rapporto con JHWH è in Dt 7,12.6: "Quando JHWH tuo Dio ti avrà introdotto nella terra che stai per occupare e ne avrà scacciate
davanti a te molte nazioni... tu le voterai allo sterminio, non farai con esse alleanza né farai loro
grazia... Tu infatti sei un popolo consacrato a JHWH tuo Dio che ti ha scelto per essere il suo
popolo privilegiato tra tutti i popoli che sono sulla terra".5
Qui il privilegio dell'alleanza è percepito nel senso dell‟esclusività – e quindi della separazione
dall‟altro -: si tratta di una delle pagine più scandalose per noi, ma che ha alla sua radice una
preoccupazione di affermare la preziosità del rapporto con JHWH. JHWH è Dio geloso. 6 L'idea di
privilegio e di elezione trova un suo modo di espressione secondo una prospettiva escludente altre
partecipazioni possibili, altri popoli: la preservazione dell'identità, che è identità di relazione con
5
Una linea di etnocentrismo è presente sin da epoche anteriori ma esso diviene più marcato nel post-esilio con la
preoccupazione di ricostituire un'identità del popolo rientrato dall'esilio nella terra di Canaan, con l'esperienza della
riforma al tempo di Esdra, e con l'opposizione radicale all'ellenismo avvertito come cultura che svuotava le dimensioni
più profonde della fede e dell'identità stessa del popolo d'Israele in epoca maccabeica. Nei libri dei Maccabei infatti si
riscontra la reazione alle usanze straniere introdotte in Israele al tempo di Antioco, percepite come idolatria; e si
condanna in modo esplicito il processo di ellenizzazione promosso in quel tempo (1Mac 1,43-45: il re spedì decreti...
ordinando di seguire usanze straniere; 1Mac 3,57-59: siate forti per dar battaglia a questi stranieri che si sono alleati per
distruggere noi e il nostro santuario; 2Mac 4,12-14: Così era raggiunto il colmo della ellenizzazione e la diserzione
verso i costumi stranieri per l'eccessiva corruzione dell'empio e falso sommo sacerdote Giasone)
La sensibilità di tipo esclusivista e la preoccupazione per la purezza del popolo, per un ritorno ad una separazione di
tipo etnico si evidenzia nella questione della separazione dalle donne straniere all'epoca di Esdra e Neemia nel
postesilio. Sotto Esdra e Neemia si attuano, forme di isolamento e di recupero di una purezza di tipo etnico, secondo
linee integralistiche che si attuano soprattutto nel rigetto di rapporti con donne straniere (Esd 10,1-45; Neem. 13,25-28;
cfr. Tb 4,11-13; cfr. 1 Re 11,1-5: Salomone è presentato come il re che amò donne straniere; queste lo attirarono verso
il culto di divinità estranee al Dio d'Israele e 'il suo cuore non restò più tutto per il Signore').
La contrapposizione tra il culto agli dèi stranieri e il servizio al Signore è un elemento ricorrente sia nella fase dei
giudici sia nel periodo della monarchia: "eliminarono gli dèi stranieri ...servirono il Signore" (Gdc 10,15-17). Servire gli
dèi stranieri costituisce un allontanamento da JHWH e dalla via che Dio indica, atteggiamento paragonato alla idolatria
ed alla prostituzione (Dt 7,4; 11,16: servire gli dèi stranieri è una seduzione e porta all'allontanamento del cuore; 11,28;
13,3; 28,36; 31,16). C'è una incompatibilità tra il riferimento agli dèi stranieri e il servizio del Signore: l'amore di Dio
per Israele è amore che dice esclusività ed è espresso nei moduli antropomorfici della gelosia di Dio stesso (Dt 32,2: Il
Signore lo guidò da solo, non c'era con lui alcun dio straniero; Dt 32,16) l'orientamento al Signore è globale ed implica
un rivolgere a lui il cuore (cfr. 1Sam 7,2-4). C'è una esigenza di eliminare gli dèi stranieri (Gen 35,2.4) la lode dei re
giusti in Israele è spesso collegata al loro atteggiamento di allontanamento delle divinità straniere (2Cron 14,1-3; 30,2426; 33,14-16) in contrapposizione alla venerazione delle divinità straniere che fa dimenticare l'alleanza ed è infedeltà a
colui che ha liberato Israele dall'Egitto (1Re 9,8-10; 2Re 17,36-39; 2Cron 7,18-23). Eliminare gli dèi stranieri
corrisponde a volgere il cuore al Signore (Dt 34,19-21.23). Per la separazione dallo straniero cfr. Neem 10,28-30; 13,24: 'quando ebbero udito la legge, separarono da Israele tutto l'elemento straniero che vi si trovava mescolato'. Cfr. anche
Malachia 2,10-12 'Giuda è stato sleale e l'abominio è stato commesso in Israele e in Gerusalemme. Giuda infatti ha
osato profanare il santuario caro al Signore e ha sposato le figlie d'un dio straniero!'; Ne 13,25-27: 'Dissi: Salomone, re
d'Israele, non ha forse peccato appunto in questo? Certo fra le molte nazioni non ci fu un re simile a lui; era amato dal
suo Dio e Dio l'aveva fatto re di tutto Israele; eppure le donne straniere fecero peccare anche lui'. Neemia 13,26-28: „Si
dovrà dunque dire di voi che commettete questo grande male, che siete infedeli al nostro Dio, prendendo mogli
straniere?‟.
L'atteggiamento di sospetto nei confronti delle donne straniere è un luogo comune sviluppato nell'ambito della
letteratura sapienziale in particolare in Proverbi (2,15-17; 5,2-4.19-21; 6,23-25; 7,4-6.7-9; 22,13-15; 23,26-28; 27,1214).
6
Ci sono studi che hanno raccolto i testi che attestano l'atteggiamento di separazione e che si spinge sino addirittura
all'odio di Israele contro lo straniero e l'avversario (P.E. Dion, Dieu universel et peuple élu, Cerf Paris 1975; cfr.
G.Ravasi, Missione e universalismo nell'Antico Testamento, in Israele e le genti, AVE Roma 1991, 89-128; cfr. Anche
M.Cimosa, Popolo/popoli, in “Nuovo Dizionario di Teologia Biblica” Cinisello B. Paoline, 1988, 1189-1202; G.Ravasi,
Universalismo e particolarismo nell'Antico testamento, "Parola Spirito e Vita 27, 1993, 11-24.
10
Dio, in questi testi appare la principale preoccupazione perché l'alleanza sia riconosciuta come la
dimensione costitutiva del popolo d'Israele.
Emerge a tal riguardo il problema teologico della custodia della diversità, dell'orientamento radicale
e unificante della fede in JHWH: il dono dell'alleanza è dono di relazione, è dono prezioso che
Israele è chiamato a custodire al di sopra di qualsiasi altra ricchezza o guadagno umano.7
Dall'altro lato l'elezione ha un dinamismo di comunicazione è alleanza per tutti i popoli; è una
benedizione che in Abramo è orientata a raggiungere tutte le famiglie della terra; c'è un
universalismo implicito nella logica della elezione e dell'alleanza.
Insieme alla linea dell'esclusivismo è presente una linea di universalismo che percorre il Primo
Testamento: basti pensare alle pagine in cui si considera l'alleanza come evento con una portata
cosmica e offerta a tutti i popoli, rappresentati da Noè, oppure al libro di Giobbe, originario di Uz,
estraneo alla terra e alla tradizione ebraica, o ancora al romanzo didattico di Giona. Tutto il secondo
Isaia è attraversato da una apertura universalistica; l'egiziano addirittura è chiamato 'mio popolo' in
Is 19,25.
In particolare nel terzo Isaia assistiamo ad una particolare apertura universalistica. Is 19,16-25 è una
pagina probabilmente del Secondo Isaia (da confrontare con Ez 29,13-16).8 In essa si ritrova una
serie di sei oracoli rivolti a tutte le nazioni, in cui si annuncia che la conversione è possibile per tutti
i popoli: la Parola di Dio viene letta in Egitto, il culto si compie anche là, addirittura la via del Mare
che era percorso di eserciti diviene via di relazioni di pace; l'Egitto è nominato con il termine
dell'alleanza „popolo mio‟ e l'Assiria „mia creatura‟ e Israele figura come mediatore di questa
alleanza che comprende le nazioni (Is 19,23-24: “In quel giorno ci sarà una strada dall'Egitto verso
l'Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo
con l'Egitto e l'Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti:
'benedetto sia l'Egiziano mio popolo, l'Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità'”.
Isaia 56,5-7 “Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del
Signore, e per essere suoi servi, quanti si guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia
alleanza...”
cfr. Sal 137,7-9: “beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra…” Sal 145,9 Buono è Iahwè verso
tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature: due salmi che attestano due prospettive opposte, la violenza e
l'opposizione radicale alla prospettiva universalistica; e d'altro lato la fiducia in un Dio che guarda ogni creatura con
bontà e misericordia.
8
P.E.Dion, L'universalisme religieux dans les différentes couches rédactionnelles d'Isaie 40-55, "Biblica"
51(1970)161-182; D.E.Hollenberg, Nationalism and 'the nations' in Is 40-55, Vetus Testamentum 19(1969)23-36.
7
11
Ml 1,11: "Dall'oriente all'occidente grande è il mio nome tra le genti e in ogni luogo è offerto
incenso al mio nome e un'oblazione pura, perché grande è il mio nome fra le genti, dice il Signore".
In questo testo di Malachia si riscontra una delle più alte aperture universalistiche dell'Antico
Testamento, che può essere interpretato anche nel senso di cogliere un valore ai sacrifici offerti in
ogni parte della terra come glorificazione rivolta a Dio senza che vi sia una adesione esplicita al Dio
d'Israele.
C'è uno sguardo che si apre ai popoli perché il disegno di alleanza di JHWH è esteso a comprendere
tutti i popoli in un movimento che è di comunione con Israele stesso (cfr. il pellegrinaggio dei
popoli a Gerusalemme nel terzo Isaia: Is 60. Il testo decisamente più universale è il libro di Giona,
romanzo sapienziale e didattico che si pone in forte polemica con la chiusura di stampo integralista
del giudaismo del postesilio. Giona nella sua vicenda raffigura il percorso della conversione
possibile al di là di confini etnici e territoriali, e addirittura la necessità di una conversione a Dio da
parte dell'eletto Giona che passi attraverso l'accoglienza dell'altro, e si apra così allo sguardo sulla
misericordia del Dio che ha cura per tutte le sue creature: "Tu ti dai pena per quella pianta di ricino
per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in
una notte è perita. E io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città nella quale sono più di
centoventimila persone che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra e una gran quantità
di animali" (Gn 4,10).
Nei libri sapienziali la filosofia greca entra ad essere utilizzata come ambito in cui è riconosciuta la
parola di Dio: esempio può essere l'utilizzo diretto della Sapienza di Amen-em-ope in Prov. 22,1723,14 e il libro della Sapienza (I sec a.C.) scritto in ambito alessandrino in cui la terminologia greca
è abbondantemente utilizzata come anche termini propri della filosofia platonica e stoica.9
Come risolvere questa contraddizione? A tal riguardo è da tener presente che la rivelazione ha una
essenziale dimensione storica, con aspetti di relatività e di approfondimento che nel corso della
vicenda del popolo d'Israele trova espressione.
La dimensione della elezione e della specificità di Israele può comporsi con una apertura di tipo
universalistico considerando come questa apertura è giunta all‟interno di un faticoso cammino.
Israele scopre la presenza del Dio dell‟alleanza che suscita una risposta di amore totale e di fedeltà a
Lui e al suo disegno, e solo progressivamente e poco alla volta si attua una comprensione ed una
accoglienza di tale disegno di salvezza.
Un quadro sintetico
9
P.Altmann, Erwählungstheorie und Universalismus im Alten Testament, Berlin 1964.
12
Israele vive la condizione teologica di estraneità: estranei al 'Dio altro' eppure appartenenti a Lui
nell'alleanza con Lui. Inoltre proprio nell'appartenenza a JHWH si genera anche un'estraneità/
diversità rispetto agli altri. Ma in radice Israele scopre la sua estraneità rispetto a Dio che non può
essere posseduto e non può essere trattenuto: rimane sempre straniero, altro. Dio si rivela come
straniero e talvolta proprio nella presenza dello straniero. La pagina della visita dei tre ospiti ad
Abramo alle querce di Mamre (Gen 18) è significativa di tale esperienza di rivelazione.
“La figura dello straniero chiede dunque una ridefinizione dell‟umano, come colui che è ospitale ed
insieme sempre ospitato, e non più identificato a partire dalla „patria‟, ma dall‟altrove verso cui è
diretto. Parabola della condizione dell‟uomo come forestiero che proviene da lontano e va verso un
mondo sconosciuto, è la vicenda di Agar, e in particolare la domanda che la voce divina le rivolge:
„Agar, schiava di Sarai, da dove vieni e dove vai?‟ (Gen 16,8)”.10
Alcune figure come Rut, la straniera, nella loro vicenda fanno intravedere come l‟incontro tra le
promesse di Dio e la storia umana passi attraverso storia di estraneità, attraverso l‟incontro tra
stranieri: Rut sarà al centro della promessa e dell‟attesa messianica. Ma anche lo straniero assumerà
il profilo di strumento del piano di salvezza di Dio, come la figura di Ciro, sovrano straniero
indicato con il termine „messia‟ per la sua opera di liberazione dall‟esilio.
Si potrebbero individuare due direzioni in cui il Primo Testamento pone l‟esperienza della
stranierità. La figura dello straniero è da un lato cifra dell‟esperienza umana, della condizione
dell‟umanità di cui Israele è testimone e rappresentante, e d‟altro lato è cifra del mistero di Dio che
si fa vicino, ma sempre come „altro‟, come presenza che provoca ad uscire, ad andare oltre e come
colui che richiede di essere accolto e portatore di un dono nella vita umana.
Il vocabolario dello straniero nel Primo Testamento
Varie sono le tipologie utilizzate nel primo Testamento per indicare la figura dello straniero, per lo
più catalogabili entro due grandi categorie, la prima segnata dalla negatività, per cui lo straniero è
visto come oppressore, corruttore e portatore di peccato, la seconda in cui lo straniero è visto come
prossimo, ospite e esempio positivo.11 Vari sono anche i termini con cui nel Primo testamento si
parla dello straniero.12
P.Rota Scalabrini, cit., 53. Cfr. M.Bettini, Lo Straniero ovvero l‟identità culturale a confronto, Bari Laterza 1992.
Cfr. A. Bonora, Temi biblici per il nostro tempo, Assisi Cittadella 1993, 10-12; R.Fabris, Lo straniero nell‟Antico
Testamento, “Servitium” 77,1991, 29-39;.
12
Cfr. E.Bianchi, C. Di Sante, P. Ricca, E. Salmann, R. Virgili, Lo straniero: nemico, ospite, profeta?, Milano, Paoline,
2006.
10
11
13
zar: “l’estraneo”, indica lo straniero che abita fuori dei confini di Israele, con la valenza di
estraneità rispetto al popolo ebraico; è espressione che ricorre nel Pentateuco ed indica ciò che è
profano, ciò che si pone come al di fuori del vero culto, ma viene utilizzato ad indicare anche gli
stranieri in senso etnico e politico (Ger 30,8; 51,51; Ez 7,21; 11,9) con una accezione negativa. E‟
usato anche per indicare le popolazioni nemiche, con una sfumatura di significato per cui la
diversità comporta anche ostilità. Un testo significativo a tal riguardo è una pagina di Isaia che
esprime il senso di paura da parte di Israele come popolo piccolo e debole che si trova di fronte a
popoli aggressivi e violenti: "Il vostro paese è devastato, le vostre città arse dal fuoco. La vostra
campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri" (1,7). Compare quindi il tema della paura di
fronte all‟estraneo e la identificazione – attraverso un sottile gioco di parole - dello straniero (zar)
con il nemico (sar).
Questa percezione negativa dei popoli stranieri trova una evoluzione con l‟esperienza dell‟esilio
quando Israele scopre che l‟altro non è un nemico ma un popolo da illuminare. E‟ quanto viene
espresso nel secondo Isaia: "Io ti ho formato e stabilito come luce delle nazioni, perché tu apra gli
occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri" (42,6) "Io ti renderò luce delle nazioni
perché porti la salvezza fino all'estremità della terra" (49,6).
Se da un lato emerge il senso della paura questi testi fanno cogliere una evoluzione verso il senso di
una relazione positiva per cui Israele nell‟esperienza della sconfitta e dell‟esilio scopre la sua
missione proprio in rapporto agli altri, rimanendo fedele a Dio che non è stato sconfitto ma invia in
modi nuovi.
nekar: “il forestiero”, è termine che indica “lo straniero di passaggio”, colui che vive non in modo
stabile, ma risiede per un certo periodo nel popolo d‟Israele per ragioni di viaggio o per altri motivi.
Questo termine ha un‟accezione più neutra, perché si riferisce a chi vive la sua diversità senza
necessariamente entrare in un rapporto di ostilità. Il termine è originariamente utilizzato per
indicare le divinità straniere (Dt 31,16, 32,12) e per lo più in senso etnico.
Dalla radice nkr deriva la parola nokrî, che significa forestiero in un senso etnico e religioso: non
condivide la medesima fede in JHWH e non fa parte della comunità dell'alleanza e, in quanto
residente o di passaggio vive una estraneità rispetto alla legge: non gli è però richiesta l'osservanza
della legge perché il puro e l'impuro non sono nelle cose stesse. Purità e impurità risiedono nella
percezione della fede, per questo ciò che è impuro per gli israeliti, per il nokrî può non essere
impuro (cfr. Dt 14,7.10.19).
14
Da qui alcune indicazioni che esprimono la lontananza come in Dt 14,21: "Non mangerete alcuna
bestia che sia morta di morte naturale; la darete al forestiero che risiede nelle tue città perché la
mangi, o la venderai a qualche straniero, perché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio".
Al nokrî inoltre si può prestare ad interesse, cosa vietata peraltro nei rapporti con il fratello (Dt
23,21), si può esigere una prestazione per un prestito (Dt 15,3; cfr Dt 23,21). Un nokrî non può
essere re d'Israele (Dt 17,15), tuttavia è da notare che Davide discende da persone che appartengono
alla categoria dei forestieri in Israele.
Il nokrî è quindi uno straniero che non è integrato nel mondo religioso e nel riferimento alla legge,
tuttavia verso di lui c'è un rispetto per il suo modo di vivere. Verso di lui si possono rintracciare
atteggiamenti di lontananza ma non c‟è atteggiamento di paura, piuttosto di vicinanza e ospitalità.
Emerge rispetto e attenzione nei confronti di una estraneità che non è separazione ma può aprire ad
una convivenza di rispetto senza pretese di omologazione. La legge in questo senso ha una funzione
di differenziazione, ma non isola.
Tuttavia c'è anche un atteggiamento di separazione e di rottura da parte di Israele nei confronti per
es. dei popoli di Canaan (come attesta la determinazione dello herem in Dt 20,10-18).
In Deuteronomio possiamo così riscontrare una peculiare attenzione all'identità di Israele che si
concretizza nella caratterizzazione spirituale che si esprime anche nelle dimensioni sociali e nella
concretezza dei comportamenti quotidiani. D'altra parte c'è una apertura al di là dei confini del
popolo: l'apertura allo straniero non è presentata come esigenza di assimilazione, ma nella logica
del rispetto senza che lo straniero venga trasformato in nemico e in particolare nell'attenzione allo
straniero senza garanzie.
L‟episodio della accoglienza di Abramo ai tre ospiti alle querce di Mamre (Gen 18,1-4), la
preparazione di focacce e un vitello tenero e buono è esempio dello stile di accoglienza quale
attitudine nei confronti degli stranieri di passaggio, visti in primo luogo come ospiti.
gher e toshav: “lo straniero ospite o residente”. Gher è lo straniero residente che non ha proprietà
fondiaria. A differenza del nokrî, il gher ha residenza stabile, ma il fatto di non essere proprietario
di terra lo pone insieme ad altre categorie in una situazione di precarietà e di debolezza. Anche i
leviti per esempio in Israele non possiedono terre ma essi non sono stranieri (Dt 14,29;16,11.14;
26,11.12).13
I. CARDELLINI, Stranieri ed “emigrati-residenti” in una sintesi di teologia storico-biblica, in “Rivista Biblica”, 40,
1992, 129-181.
13
15
Abramo è indicato come gher, e come lui anche Mosè a Madian. Tutti gli Israeliti sono stati gherim
in Egitto. La storia successiva porta ad un capovolgimento e Israele si trova a doversi relazionare
con lo straniero ospite nella “sua” terra.
Il gher è una delle tre figure che in Israele non hanno proprietà: lo straniero, l'orfano e la vedova
(cfr. Dt 27,19; Es 22,20 24,17: “non lederai il diritto dello straniero, dell'orfano e non prenderai in
pegno la veste della vedova”). L'assenza di proprietà sulla terra è causa della mancanza di garanzie
di possibilità di difendersi: da qui la particolare vulnerabilità di queste categorie. In particolare la
categoria dei gherim era composta di migranti, fuggitivi, esuli, profughi non di Israele. I gherim si
muovono dalla loro patria alla ricerca di cibo, di giustizia e di salvezza. La condizione è quella di
chi sta ai margini della società, senza radicamento, senza proprietà e senza difesa oltre che fuori
dalla patria di origine.
In relazione al gher compare un aspetto interessante della legislazione deuteronomica:
nell'occasione delle principali feste lo straniero, che era colui che viveva senza relazioni di tipo
familiare in quanto sradicato dal tessuto del suo gruppo sociale, viene integrato nella famiglia che
vive la gioia della festa insieme con il popolo d'Israele senza peraltro che a lui sia richiesta la
medesima fede. Dt 16,11-12: “gioisci davanti al Signore Dio tuo, tu, tuo figlio, tua figlia, il tuo
schiavo e la tua schiava... lo straniero, l'orfano e la vedova”. E' una accoglienza ed un invito a
partecipare alla gioia ed alla festa senza che per questo sia richiesta una adesione spirituale. Questa
comunanza nella festa ha come finalità quella di ricordare ad Israele che egli stesso è stato schiavo
in Egitto e straniero (Dt 16,14). Nel momento della festa viene vissuto un tempo in cui le divisioni
in un certo qual modo sono superate; ed il motivo di questa possibilità di un comune gioire e di una
familiarità nuova sta nella lode dei doni del Signore (Dt 16,10-15) che ha come conseguenza la
condivisione.
La celebrazione dei doni della natura è apertura a JHWH che dona per tutti i suoi doni (il
riferimento immediato potrebbe essere all'espressione del vangelo di Matteo di riconoscere Dio che
fa sorgere il sole per tutti, sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli
ingiusti: Mt 5,43-48).
Un altro interessante segno in rapporto al gher è quello dell'offerta della decima: al gher/straniero
residente va infatti offerta la decima che doveva essere versata al tempio di Gerusalemme (Am 4,4;
Dt 14,22-27), Dt 14,28-29: “il levita, il gher, l'orfano e la vedova... verranno, mangeranno e si
sazieranno”.
C'è anche tutta una serie di precetti che prevedono una particolare attenzione per favorire la
possibilità di sopravvivenza dello straniero non in modo di elemosina paternalistica (la possibilità di
16
rifugiarsi nelle città-rifugio anche per lo straniero Num 35,15; Dt 34,8-10). Altri precetti riguardano
la mietitura (Dt 24,19), la bacchiatura (Dt 24,20) e la vendemmia (Lev 19,10; Lev 23,22; Dt 24,21)
per poter lasciare allo straniero quello che avanzava sia dei mannelli di grano, sia delle olive, sia dei
grappoli d'uva. Questa attenzione si fonda sull‟esigenza di particolare solidarietà per chi vive nella
condizione di straniero: “quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese non gli farete
torto, lo amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d'Egitto” (Lev 19,3334).
In Dt 24,14 si ribadisce un'esigenza di giustizia : “non defrauderai il salariato povero... sia uno dei
tuoi forestieri”. Ed emerge in tale contesto questo riferimento allo straniero chiamandolo il 'tuo
straniero'. Il fatto di aver vissuto l'esperienza dell'essere forestiero è motivo per stabilire rapporti di
giustizia, e per offrire accoglienza e particolare attenzione a chi vive ora in Israele la condizione
dell'estraneità, addirittura a coloro che appartengono ai discendenti di quel popolo che ha mantenuto
Israele in schiavitù (Dt 23,8-9): “non avrai in abominio l'idumeo perché è tuo fratello; non avrai in
abominio l'egiziano perché sei stato forestiero nel suo paese”.
Gli 'stranieri' a cui si fa riferimento in questo passo non sono i fratelli del Nord, ossia gli Ebrei che
si spostarono nel regno di Giuda dopo la caduta di Samaria nel 722 a.C., bensì questi stranieri sono
persone non appartenenti al popolo d'Israele (cfr. Dt 1,16; 24,14): è verso questi non appartenenti al
popolo che deve rivolgersi.
L'atteggiamento da tenere verso lo straniero non solo è quello di rispetto e di solidarietà, ma si apre
ad un rapporto che deve imitare quello di Dio con il suo popolo: "amate dunque lo straniero perché
anche voi foste forestieri nel paese d'Egitto" (Dt 10,19; cfr. Lev 19,34): il verbo 'amare' riferito
all'atteggiamento da tenere nei confronti del forestiero è verbo utilizzato per indicare il rapporto tra
Dio e il suo popolo. In questo testo il medesimo verbo è usato per un rapporto orizzontale, proprio
nella linea del ricordo che la presenza del forestiero attua in quanto riferimento a Dio e in quanto
riferimento alla condizione di estraneità che Israele vive come condizione profonda della propria
fede.
La legislazione14
Si può ritrovare la presenza della figura dello straniero nei vari livelli della legislazione di Israele.
In diverse epoche e situazioni l‟attenzione è portata agli stranieri. Questo elemento mostra come
l‟attenzione allo straniero è elemento importante nella vita di Israele e conduce ad elaborare uno
stile di rapporti che pur nella sua complessità pone l‟accoglienza allo straniero come fondamentale.
14
C.Van Houten, The alien in israelite Law, Sheffield, Sheffield Academic Press 1991; P.Bovati, Lo straniero nella
Bibbia. II. La legislazione, “La Rivista del clero italiano 83,2002,484,503.
17
Il Codice dell’alleanza
Il Codice dell‟Alleanza si trova nel libro dell‟Esodo (Es 20,22-23,33) ed è la più antica raccolta
normativa della Bibbia sorta prima dell‟esilio. Una preoccupazione che emerge è quella della
separazione rispetto alle popolazioni cananee secondo una linea di mantenimento della fedeltà a
JHWH e di distanza dall‟idolatria: “Stabilirò il tuo confine dal Mare Rosso fino al mare dei Filistei
e dal deserto fino al fiume, perché ti consegnerò in mano gli abitanti del paese e li scaccerò dalla tua
presenza. Ma tu non farai alleanza con loro e con i loro dei; essi non abiteranno più nel tuo paese,
altrimenti ti farebbero peccare contro di me, perché tu serviresti i loro dei e ciò diventerebbe una
trappola per te” (Es 23,31-33). “Non ti prostrerai davanti ai loro dei e non li servirai; tu non ti
comporterai secondo le loro opere, ma dovrai demolire e dovrai frantumare le loro stele. Voi
servirete il Signore, vostro Dio” (Es 23, 24-25a).
La preoccupazione principale presente in queste norme sta quindi nell‟ostacolare la deviazione
nell‟idolatria: “Non ti prostrerai davanti ai loro dèi e non li servirai” (Es 23,24a) ed orientare al
servizio al Signore in modo esclusivo: “Voi servirete al Signore vostro Dio” (Es 23,25a).
Si avverte quindi una tensione che rimarrà presente e tocca i rapporti con gli stranieri. Da un lato
Israele è richiamato ad una fedeltà esclusiva, che mette in guardia dalla commistione e dal venir
meno alla fedeltà a JHWH. D‟altro lato, pur nell‟orizzonte di mantenere la specificità che proviene
dall‟elezione da parte di JHWH e le esigenze dell‟alleanza in quanto rapporto esigente ed esclusivo,
vi sono indicazioni positive nei confronti dello straniero. Nel codice dell‟alleanza è infatti presente
l‟invito all‟accoglienza e, diversamente da legislazioni di popolazioni vicine, Israele è tenuto ad
offrire protezione allo straniero. “Non molesterai lo straniero né lo opprimerai perché voi siete stati
stranieri nel paese d‟Egitto” (Es 22,20) e “ non opprimerai lo straniero: anche voi conoscete il
respiro/la vita (nefesh) dello straniero, perché siete stati stranieri nel paese d‟Egitto (Es 23,9). “Il
settimo giorno è sabato/riposo (shabat) in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro […]
né il forestiero che dimora presso di te” (Es 20,10).
Come il Signore è compassionevole, così Israele dovrà porsi a difesa dello straniero che non ha altre
difese da parte di qualcuno. C‟è ad esempio l‟indicazione a non prendere in pegno il mantello del
prossimo ma deve essere restituito prima del tramonto del sole perché è la sua sola coperta:
“Altrimenti quando griderà a me, io l‟ascolterò, perché io sono pietoso” (Es 22,26).
Inoltre Israele non dovrà opprimere gruppi di stranieri presenti perché Israele conosce il respiro
dello straniero: “Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita (il respiro) del forestiero,
perché siete stati forestieri in Egitto” (Es 23,9).
18
E‟ qui importante cogliere che proteggere il forestiero diviene per Israele un segno del modo in cui
agisce il Dio pietoso. La questione del rapporto con lo straniero si collega al rapporto della fede in
JHWH che è liberatore degli oppressi. Nel Codice dell‟alleanza c‟è così attenzione alle dimensioni
di vita concreta, il lavoro, il riposo, ciò che investe la corporeità.
Tutto si fonda sul ricordo di aver vissuto la situazione di straniero, di emigrante e di oppresso in
Egitto. Nello straniero Israele è chiamato a vedere la propria storia, a fare memoria della sua
vicenda, e quindi a ricordarsi dell‟alleanza.
La legislazione sullo straniero nel Deuteronomio
Nei capitoli 12 e 26 del libro del Deuteronomio è raccolta la seconda legge, il codice legislativo che
si fa risalire al tempo del re Giosia alla fine del VII secolo, un tempo di rinnovamento e di ritorno
all‟alleanza dei padri. Si ritrova in questo testo una grande attenzione alla figura dello straniero, che
era dovuta ad un‟esigenza di ripensare ai rapporti sociali in seguito a fenomeni di spostamento in
quel periodo soprattutto degli abitanti del regno del Nord verso il regno di Giuda.15
In questo codice sono affermate una serie di indicazioni che richiamano alla giustizia e all‟equità
nei giudizi perché il diritto appartiene a Dio: “Giudicate con giustizia le questioni che uno può
avere con il fratello o con lo straniero che sta presso di lui […] poiché il giudizio appartiene a Dio”
Dt 1,16.17). E‟ affermata quindi l‟indicazione di un “diritto” dello straniero e l‟obbligo
d‟imparzialità di giudizio verso di lui (Dt 27,19); e si ribadisce la protezione dello straniero
nell‟ambito lavorativo (Dt 24,14-15). A lui deve essere riconosciuto il salario senza dilazionarlo
perché è povero e di quello vive. “Non farai violenza al diritto […] la giustizia e solo la giustizia
seguirai, per poter vivere e possedere il paese che il Signore, tuo Dio, sta per darti” (Dt 16,19-20).
La pratica della decima e della redistribuzione dei frutti della terra, “prima imposta sociale della
storia”, è introdotta come strumento di protezione per gli stranieri (Dt 14,28-29; 26,12-13): i gruppi
più deboli, che non possedevano la terra, e tra di essi gli stranieri, dovevano ricevere la decima ogni
tre anni, ricevendo così una parte di quella imposta che era destinata al tempio ed al re.
Lo straniero viene anche ammesso nelle celebrazioni cultuali: “Celebrerai la festa delle capanne
[…] gioirai questa festa tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava e il levita, il
forestiero, l‟orfano e la vedova che saranno entro le tue città” (Dt 16,13-14).
Israele deve riprodurre nel suo agire l‟amore di Dio che è amore aperto anche verso lo straniero (Dt
5,14; 14,21; 16,11.14; 31,12).
15
A.Bonora, Lo „straniero‟ in Deuteronomio, “Parola Spirito e Vita” 27,1993,25-36.
19
Tutte queste norme sono nell‟orizzonte di una condivisione da attuare anche e soprattutto con i più
deboli e si basano sul ricordo che „tu sei stato schiavo in Egitto‟: “Non lederai il diritto dello
straniero o dell‟orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova, ma ti ricorderai che sei stato
schiavo in Egitto e che da là ti ha liberato il Signore, tuo Dio; perciò ti comando di fare queste cose”
(Dt 24,17). Il rapporto con lo straniero, l‟orfano e la vedova ha a che fare con il rapporto stesso con
Dio, implica seguire la via della vita, della benedizione o della morte, della maledizione:
“Maledetto chi lede il diritto dello straniero, dell‟orfano e della vedova!” (Dt 27,19).
La condivisione implica il riconoscimento del dono che proviene da Dio solo. Israele in tal modo è
riportato al centro della sua fede, la dipendenza nel ricevere tutto da Dio riconoscendo la sua
povertà ma con essa anche la responsabilità ad imitare e rendere visibile nelle sue scelte l‟agire di
Dio che ama lo straniero: “Gioirai [..] con il forestiero che starà in mezzo a te, di tutto il bene che il
Signore tuo Dio avrà dato” (Dt 26,11); “Il Signore, vostro Dio […] ama lo straniero e gli dà pane e
vestito. Amate dunque lo straniero, perché anche voi foste stranieri nel paese d‟Egitto” (Dt
10,17.19).
Per tali ragioni la condivisione delle primizie dei frutti della terra in Dt 26,5-9 è accostata ad una
professione di fede in cui si rivive il percorso dei padri di Israele e si ricorda come Israele stesso
nasce come forestiero liberato dal Signore come go‟el. Il rapporto con lo straniero diviene via per
custodire questa memoria. “Quando, facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato
qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per lo straniero, per l‟orfano e per la
vedova […] Quando bacchierai i tuoi olivi, non tornerai indietro a ripassare i rami: saranno per lo
straniero, per l‟orfano e per la vedova […] Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro
a racimolare: sarà per lo straniero, per l‟orfano e per la vedova. Ti ricorderai che sei stato schiavo
nel paese d‟Egitto; perciò ti comando di fare questa cosa.” (Dt 24, 19-22).
“Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri
che stanno nel tuo paese, nelle tue città” (Dt 24, 14); “Quando avrai finito di prelevare tutte le
decime delle tue entrate […] e le avrai date al levita, allo straniero, all‟orfano e alla vedova perché
ne mangino e ne siano sazi, dirai […]: non ho trasgredito né dimenticato alcuno dei tuoi comandi”
(Dt 26, 12.14).
Il Codice di santità
Il terzo corpo legislativo, il Codice di Santità presentato nella lunga sezione del libro del Levitico
(capp. 17-26), è una raccolta normativa più recente. Qui si trova l‟istituzione dell‟anno sabbatico,
del giubileo, del riscatto della terra e delle persone. Lo straniero residente viene associato agli
20
Israeliti per ciò che riguarda moltissime esortazioni e divieti. Si afferma, infatti, “un solo diritto”
per l‟israelita e per lo straniero residente, che viene considerato parte della comunità ebraica.
Dio comunica la sua legge di santità, infatti, ad “ogni uomo, Israelita o straniero dimorante in
mezzo a loro” (Lv 17,8). Inoltre, all‟interno del Codice di Santità si passa, in modo ancora più
esplicito, dal divieto dell‟oppressione dello straniero alla “pratica dell‟amore” verso di lui. L‟amore
per lo straniero diviene il segno stesso della “santità” e della peculiarità di Israele. Israele non si
distingue dagli altri popoli per motivi di tipo razziale, ma solamente sulla base dell‟alleanza (Ez
16,8-14: la scelta di Dio che prende Israele nella condizione dell‟abbandono e lo conduce ad una
condizione di bellezza e di regalità). La santità non si connette ad una appartenenza di etnia ma fa
riferimento al modo di agire. La santità, che è ripresentazione del modo di agire di Dio si rende
visibile nell‟amore dimostrato nei confronti dei più deboli, tra i quali lo straniero residente assume
una particolare rilevanza.
Tale chiamata: “Siate santi, perché io il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2), è esigenza che
si rinnova costantemente e richiede una risposta sempre nuova.
“Quando uno straniero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Lo straniero
dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l‟amerai come te stesso, perché
anche voi siete stati stranieri in terra d‟Egitto” (Lv 19, 33-34). Si attua a tal riguardo un passaggio
importante: non è solamente un agire di rispetto, ma nei confronti dello straniero si tratta di vivere
una attitudine di amore quale movimento che non si limita ai propri fratelli ma si allarga a
comprendere lo straniero (cfr. Lev 19,17-18). La ragione di amare lo straniero „come te stesso‟, sta
nel ricordo dell‟agire di Dio e nel ricordo della propria esperienza di essere stati amati da Dio nella
condizione della stranierità, quando il popolo era schiavo in Egitto.
La legislazione sacerdotale del Levitico anche ricorda che la condizione stessa di Israele è quella di
chi è ospite sulla terra: “Mia è la terra, voi siete stranieri e ospiti (toshavim)” (Lev 25,23). Israele
quindi non può pensarsi come padrone e questa sua condizione di ospite nella terra orienta lo
sguardo agli altri come ospiti con cui condividere la propria situazione.
Essa viene inoltre progressivamente estesa da Israele a tutti i popoli della terra, perché Dio è il Dio
di tutti i popoli, per cui si può attendere con fiduciosa speranza il giorno in cui tutti i popoli
andranno a Dio e in cui la santità di Dio rivestirà tutte le nazioni della terra.16
I. CARDELLINI (a cura di), Lo “straniero” nella Bibbia. Aspetti storici, istituzionali e teologici, XXXIII Settimana
biblica nazionale (Roma 12-16 Settembre 1994), Dehoniane/RBS, 8, 1-2, 1996. C. M. Martini nel suo intervento al
convegno Integrazione e integralismi. La via del dialogo è possibile? tenutosi a Cesano Maderno, 19 gennaio 2001,
16
21
A fronte di queste espressioni della legge in Israele si assiste peraltro anche a movimenti
contrastanti nella vicenda storica di Israele. Ad esempio nell‟epoca del dopo esilio si attua una
politica di distanziamento e di opposizione verso gli stranieri proprio al tempo di Esdra e Neemia in
cui si rende presente la polemica contro i matrimoni misti e sono allontanate le donne straniere
prese in moglie dagli ebrei (Esd 9-10; Ne 13,23-30).
Si attua una interpretazione restrittiva così della legislazione nei confronti dello straniero. Lo
straniero viene percepito come diverso e nekar assume connotazioni negative. Si applica la legge
verso quelli stranieri che si sono convertiti e sono disponibili all‟osservanza della Torah d‟Israele.
Ma a questo movimento si contrappone la predicazione profetica e alcune letture come quella del
libro di Rut. Ezechiele ad esempio richiama l‟esigenza della condivisione della terra che non è
proprietà di Israele ma è di Dio: “Vi dividerete questo territorio secondo le tribù d‟Israele. Lo
distribuirete in eredità fra voi e i forestieri che abitano con voi, i quali hanno generato figli in mezzo
a voi; questi saranno per voi come indigeni tra i figli d‟Israele e riceveranno in sorte con voi la loro
parte di eredità in mezzo alle tribù d‟Israele. Nella tribù in cui lo straniero è stabilito, gli darete la
sua parte di eredità” (Ez 47,21-23). Tale prospettiva rimane però un orizzonte da realizzare, la voce
profetica è ancora stimolo a camminare verso questa Parola di Dio.
La profezia è aperta ad un futuro di benedizione per tutti i popoli della terra, il sogno della
benedizione di Abramo a tutte le genti, ripreso da Isaia: “In quel giorno ci sarà una strada
dall‟Egitto verso l‟Assiria, l‟Assiro andrà in Egitto e l‟Egiziano in Assiria, e gli Egiziani renderanno
culto insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l‟Egitto e l‟Assiria, una
benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il signore degli eserciti dicendo: Benedetto sia
l‟egiziano mio popolo, l‟assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità” (Is 19,24-25).
La via del passaggio e del migrare dei popoli può diventare strada di benedizione e di vita piena.
Sono proprio alcuni profeti del tempo dell'esilio, quali il Terzo Isaia e Geremia che sviluppano le
prospettive universalistiche della fede di Israele: Is 56,2-4: “Non dica lo straniero che ha aderito al
Signore: Certo, mi escluderà il Signore dal suo popolo. Non dica l'eunuco io sono un albero secco”.
Is 56,6-7: “gli stranieri che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore...”
è l'annunzio che saranno ammessi proseliti stranieri a condizione di un legame con l'alleanza,
inclusa anche la circoncisione. Is 56,7: “il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i
popoli”.
(cfr. www.we-are-church.org/it/attual/Straniero-CMMartini.html), segnaliamo anche quella di BIANCHI, op. cit., 111112.
22
Una prospettiva più marcata in orizzonte universalistico è riscontrabile in Is 60,10-12: “stranieri
ricostruiranno le tue mura... le tue porte saranno sempre aperte.. per lasciar introdurre da te le
ricchezze dei popoli”.
Alcune osservazioni sulla rilevanza dello straniero
Israele si è compreso come straniero. L'esperienza nomadica dei patriarchi sta alla radice di una
esperienza che è quella dell'essere a casa senza mai essere a casa. L‟esperienza del migrante povero
sta al cuore della spiritualità che si richiama ad Abramo. 17 L'essere straniero di Israele è una
costante del suo itinerario: “Mio padre era un arameo errante” (Dt 26,5) come condizione
originaria, ma vi è l'esperienza dell'essere straniero in Egitto e poi a Babilonia. D'altra parte anche
nel proprio paese Israele mantiene la consapevolezza di essere straniero.
Il figlio di Mosé si chiama Gherson, da 'gher' e porta il sigillo di questa condizione di essere ospiti e
forestieri. Es 23,9: “Anche voi conoscete la vita del forestiero perché siete stati forestieri nel paese
d'Egitto”. “Noi siamo stranieri e ospiti di fronte a te come tutti i nostri padri” (Sal 39,13; cf. 1Cron
29,15).
Israele matura la consapevolezza nel rapporto con la terra - che è una delle dimensioni fondamentali
della promessa e dell'alleanza - che è Dio l'unico e vero proprietario della terra in cui il popolo
risiede, e la situazione di Israele è quella dell'amministratore a cui è affidato qualcosa da
conservare, da custodire e da coltivare (Lv 25,23); Sal 119,19 esprime questo nell'espressione “io
sono straniero sulla terra”.
"Essere straniero come condizione esistenziale significa nell'antico Israele affidarsi a Dio come
garante della vita e contare su di lui come protettore, ma significa anche avere una speciale
relazione con lo straniero nella propria comunità...".18
Lo straniero in Israele come memoria
Lo straniero all'interno del popolo d'Israele è colui che ricorda la presenza stessa di Dio; si potrebbe
dire che la sua è una funzione di memoria e di rinvio alla condizione costitutiva del popolo
d'Israele. Questa non è solamente una fase conclusa e triste della sua storia ma si connota per essere
una dimensione che dovrebbe rimanere sempre presente.
Lo straniero ricorda all'israelita che 'anche noi siamo stati stranieri in terra di Egitto' ed è invito a
vivere il presente in una logica di 'attraversamento' e non di possesso. Sulla base di questa memoria
J. O. BEOZZO, Les immigrants pauvres. Un pèlerinage vers une vie plus humaine, in “Concilium” 266, 1996, 91-101
T.Sundermeier, Comprendere lo straniero. Una ermeneutica interculturale, (GdT 263), tr. it. Brescia Queriniana
1999, 229.
17
18
23
lo sguardo al presente muta: non può più essere vissuto con la sicurezza di chi possiede una terra
propria, di chi risiede nella sua patria e di chi sta in una posizione sicura o di potere. Dovrà invece
essere uno sguardo di chi è chiamato a rimanere nella condizione di pellegrino. Questi vive nella
tensione e nell'attesa verso ciò che la terra e la patria indicano; esse sono riferimento fondante la
vita stessa del popolo, indicano cioè la presenza stessa di Dio, il suo amore e il suo volto che
sempre si nasconde e non può essere visto (cfr. Es 33), egli è colui che va cercato sempre oltre, il
non afferrabile.
Dt 26,1-15 attesta come ciò che è consacrato al Signore va dato al forestiero all'orfano e alla vedova
perché possano gioire. Il momento della festa è aperto alla partecipazione di tutti, cioè anche alle
categorie dei più deboli o a chi, come lo straniero, non appartiene al popolo. La festa è il momento
in cui il forestiero costituisce il ricordo vivente della presenza di Dio: a chi è forestiero infatti vanno
date le primizie che sono consacrate a Dio. Si attua in questo modo un‟identificazione del
forestiero, figura accostabile nella quotidianità della vita di Israele, con la presenza stessa di Dio
che si fa incontrare proprio in chi paradossalmente non è in una situazione di appartenenza
riconosciuta e non ha garanzie né possessi.
“Il Signore protegge lo straniero, egli sostiene l'orfano e la vedova, ma sconvolge le vie degli
empi” (cfr. Sal 146,8-10). Il primo difensore delle categorie deboli è Dio stesso; imitare la sua
azione e essere coerenti con il suo modo di agire implica farsi difensore della vedova, dell'orfano e
dello straniero. E' Dio stesso garante nei confronti dello straniero dell'orfano e della vedova: "il
Signore vostro Dio è il Dio degli dèi, il Signore dei signori, il Dio grande forte e terribile, che non
usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà
pane e vestito" (Dt 10,18). Il ricordo di Dio è provocato dalla presenza di chi potrebbe essere
considerato estraneo alla vicenda dell‟alleanza. In tale orizzonte lo straniero con la sua presenza
provoca a ripensare continuamente il medesimo volto di Dio come di colui che ci raggiunge come
altro, come straniero, come povero.19
Dio si rivela attraverso la presenza dello straniero
“Il dato peculiare della Bibbia non è che bisogna amare lo straniero, ma che Dio si rivela attraverso
lo straniero”.20 Tutto questo è inciso profondamente nella coscienza di Israele. La professione di
fede di Israele è un racconto della vicenda del popolo nel suo essere stato liberato ed accompagnato
da JHWH vicino e donatore dell'alleanza e ricorda l'origine stessa del popolo d'Israele: “Mio padre
19
C. DI SANTE, Lo straniero ospitato e lo straniero ospitante, in E. RONCHI, Lo straniero: nemico, ospite, profeta?,
Milano Paoline 2006, 55-78.
20
C. DI SANTE, Lo straniero nella Bibbia. Saggio sull‟ospitalità, Città Aperta, Troina 2006,24
24
era un arameo errante... stette in Egitto come un forestiero”. (Cfr. Sal 105,22-24): il soggiorno in
Egitto è paradigmatico di una condizione propria di Israele del suo essere straniero che segna la sua
storia in particolar modo in certi momenti quali l'esodo e l'esilio, momenti di sofferenza e di prova
ma anche momenti di scoperta dell'essenziale della fede e di ritorno a Dio.
La vicenda stessa del popolo è inscindibile dall'esperienza dell'estraneità ed è questa l'esperienza
che permette di incontrare il Dio-altro che si identifica proprio con il forestiero. Lo spirito più
profondo della preghiera di Israele è in questo senso: “Ascolta la mia preghiera, Signore, porgi
l'orecchio al mio grido, non essere sordo alle mie lacrime, poiché io sono un forestiero, uno
straniero come tutti i miei padri, presso di te sono un migrante, un ospite di passaggio come tutti i
miei antenati " (Sal 39,13): questa condizione non è solo la condizione del ricordo della vita di
Israele nelle sue origini, nel cammino dell‟esodo, ma diviene presa di consapevolezza che la
situazione di estraneità è la condizione stessa della fede di Israele nel rapporto con JHWH. In
questo senso l'attesa si apre non a qualcosa, che può essere la terra o la patria, ma a qualcuno: “Ora
che attendo, Signore? In te la mia speranza” (Sal 39,8).
La radice stessa dell'esperienza di fede di Israele vede la situazione di estraneità come il luogo in
cui Dio si comunica. Non solo Israele è straniero ma è chiamato ad incontrare un Dio che si fa
incontrare fuori via, come altro, come 'non residente' straniero: il Dio straniero si rende presente in
mezzo alla vita quotidiana di Israele come colui che si fa incontrare attraverso la presenza degli
stranieri stessi.
Alessandro Cortesi op
25
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quello che dice la Bibbia riguardo alla figura dello straniero