OGGETTI E SOGGETTI Direttore Bartolo A Università degli Studi di Bari Comitato scientifico Ferdinando P Università degli Studi di Bari Mario S Università degli Studi di Bari Bruno B Università degli Studi di Bari Maddalena Alessandra S Università degli Studi di Bari Ida P Università degli Studi di Bari Rudolf B Ruhr Universität–Bochum Stefania B University of Wisconsin–Madison OGGETTI E SOGGETTI L’oggetto e il soggetto sono i due poli che strutturano la relazione critica secondo Starobinski. Il critico individua l’oggetto da interpretare e in qualche modo lo costruisce, ma lo rispetta nella sua storicità e non può farne un pretesto per creare un altro discorso in cui la voce dell’interprete copre la voce dell’opera. Ma d’altro canto egli non si limita a parafrasare l’opera né ad identificarsi con essa, ma tiene l’oggetto alla distanza giusta perché la lettura critica produca una conoscenza nuova. In questa collana si pubblicheranno contributi articolati sulla distinzione e sulla relazione tra gli « oggetti » e i « soggetti », ossia fra il testo dell’opera o delle opere e la soggettività degli studiosi. Volume pubblicato in collaborazione con Associazione Astigiani Inner Wheel – Club di Asti C.A.R.F. Lions Club Asti Host Lions Club Villanova d’Asti L’editore e l’autore restano a disposizione di quanti vantassero diritti nei confronti del materiale qui riprodotto. Carla Forno Le amate stanze Viaggio nelle case d’autore Copyright © MMXV Aracne editrice int.le S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Quarto Negroni, Ariccia (RM) () ---- I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: novembre A Emilia, mia madre Ringraziamenti L’autrice ringrazia per la fiducia accordata, la casa editrice Aracne di Roma, in particolare nelle persone del direttore editoriale dott. Claudio Gotti e del direttore della collana “Oggetti e soggetti”, prof. Bartolo Anglani. Per il sostegno alla pubblicazione: l’Associazione “Astigiani”, nelle persone dei due presidenti succedutisi, Giorgio Conte e Luciano Nattino, e dei due vicepresidenti, Mimma Bogetti e Renzo Caracciolo, con i relativi Consigli Direttivi, oltre al direttore responsabile dell’omonima rivista, Sergio Miravalle; il Lions Club Asti Host, in particolare nelle persone dei due presidenti succedutisi, Massimo Massobrio e Claudio Lucia, con i relativi Consigli; il Lions Club di Villanova d’Asti, in particolare nelle persone dei due presidenti succedutisi, Isabella Ferraro e Giuseppe Bottino; l’Inner Wheel International di Asti, in particolare nella persona della presidente, Patrizia Gentile. Per la concessione delle immagini a illustrazione del volume, i prestatori pubblici e privati: la Famiglia San Martino di San Germano, San Martino Alfieri (Asti); la Ditta Santori s.a.s di Lucca; Casa Manzoni a Milano, in particolare nella persona del presidente prof. Angelo Stella e della dott.ssa Jone Riva; il Musée de Beaux–Arts d’Angers; Wannenes, nella persona del dott. Luca Violo (Media & Comunicazione); la Famiglia Boscu Bianchi Bandinelli, Castelnuovo Berardenga (Siena); il Comune di Wettolsheim, nella persona del sindaco Lucien Muller; i fotografi astigiani Antonello Catalano e Giulio Morra. Per la concessione di immagini e testi che, pur non inclusi fra le illustrazioni del volume, vi sono ampiamente citati ed entreranno a far parte dell’allestimento didattico del Museo Alfieriano: la Fondazione Blu di Pisa per la riproduzione del ritratto del Desmarais La famiglia Roncioni, con i relativi disegni preparatori; il conte Agostino Agostini di Pisa, per il ms. del copione del Saul di Alfieri, recitato nel teatrino privato di Casa Roncioni dallo stesso Poeta, e per i Capitoli dell’Accademia Roncioni, custoditi dall’Archivio privato della Sua Famiglia. Per la loro disponibilità, per suggerimenti e utili indicazioni: il prof. Roberto Dapavo, per la competenza da francesista; il dott. Franco Gervasio, per le indicazioni relative alla casa di Goldoni a Parigi; il prof. Alessandro Panajia, per la riproduzione delle carte dell’Archivio Agostini di Pisa e il fotografo Carlo Baldacci; il dott. Roberto Ubbidiente della Humboldt Universität di Berlino, per le indicazioni nell’ambito del collezionismo. Per le consultazioni d’archivio: presso l’Archivio di Stato di Asti, il direttore dott. Renzo Remotti e la dott.ssa Anna Maria Sgambato; presso l’Archivio Storico del Comune di Asti, la dott. Barbara Molina. Per le ricerche relative alla storia più recente della Palazzina Gianfigliazzi a Firenze, la Direzione Patrimonio del Comune di Firenze; il dott. Bernardo Gondi, presidente della sezione Toscana dell’Associazione Dimore Storiche Italiane; il dott. Claudio Paolini, responsabile del Progetto “Repertorio delle Architetture Civili di Firenze”, promosso dall’Associazione Palazzo Spinelli; la prof. ssa Brenda Preyer. Per l’ospitalità: il Polo Universitario di Asti — Asti Studi Superiori — in particolare nelle persone del presidente dott. Michele Maggiora e del direttore dott. Francesco Scalfari. Qui ha avuto temporaneamente sede dal , in attesa del rientro a Palazzo Alfieri, la Fondazione Centro di Studi Alfieriani. Qui, oltre che nei locali della Casa di Alfieri e presso la Pinacoteca di Palazzo Mazzetti, sono ambientati i dialoghi del libro. Per la costante disponibilità in ogni evenienza, Roberto Bona, Tiziana e Antonello della Tipografia Astese, ad Asti. E inoltre i docenti e i colleghi, per lo più citati nelle pagine del libro, e gli amici più cari presenti nella quotidianità della mia vita. I giovani — laureati, dottorandi o dottori di ricerca — che si sono succeduti nei primi nove anni della Scuola di Alta Formazione “Cattedra Vittorio Alfieri” (–). Anche a loro, che rappresentano il futuro, questo lavoro è dedicato. Un ringraziamento particolare va a Tomomi Onishi, già allieva del prof. Yasuhiro Saito all’Università di Kyoto, per avermi concesso di ispirare liberamente a lei il personaggio letterario di Tomomi, la studentessa giapponese del libro. Ho voluto che, in un punto del testo, comparisse mia madre, che ha condiviso tante delle esperienze ripercorse in queste pagine, come se questo potesse trattenerla, in un momento di profondità e leggerezza, nell’acutezza del suo pensiero e nella sua simpatia, anche nella memoria di chi leggerà. Carla Forno Novembre Indice Introduzione La «casa paterna» e il paradigma della malinconia. Palazzo Alfieri ad Asti Il Poeta “allo specchio”. Alfieri e la «magnifica casa» di piazza San Carlo a Torino Il mistero di una foglia e la sintesi enciclopedica del sapere. Le case di Goethe da Francoforte a Weimar Schiller, dalla casa di Marbach al «giardino dei lillà» Richard Wagner a Villa Wahnfried Fra virtuosismo e visionarietà. Le case del mito di Franz Liszt Dal cespuglio di uva spina alla finestra sul porto. Le case di Hans Christian Andersen Attraverso la «foresta delle ombre». Dalla casetta di Hänsel e Grethel allo studio berlinese dei fratelli Grimm Intorno al kimono di Cio–cio–san, fra Van Gogh e Puccini. Case per dipingere, case per comporre «Stanco tornavo, come da un viaggio». Le case di Giovanni Pascoli da San Mauro a Castelvecchio, nodo indissolubile di affetti Una casa lontano dai clamori. Giuseppe Verdi dalle anse dell’Ongina all’“Albergo di Milano” Indice Facciam conto d’essere sul mio canapè dinanzi al fuoco. . . ». Alessandro Manzoni fra via Morone e Brusuglio Vittorio Alfieri a Roma, fra piazza di Spagna e Palazzo Strozzi. Il conte Rifiela per le «amene spiagge di Posillipo e Baja» Io «ho casa capacissima e senza complimenti le offro di venir da me». Alfieri e Palazzo Prini a Pisa «Siena mi è vita». I soggiorni senesi di Alfieri Il “White Lion Hotel” di Upton e altre locande per Alfieri. La villa di Wettolscheim per Richard Smith «Vittorio prendeva al camino della contessa il suo cioccolatte, e Ippolito un’omelette soufflée». Alfieri a Parigi Una «casa graziosissima benché piccola» per il «balocco» del recitare. Alfieri e la Palazzina sul Lungarno a Firenze Una casa «poetica», in cui morire «da vero letterato» Conclusione Bibliografia Indice dei nomi Introduzione Il «viaggio», che il libro propone, si svolge nell’arco di circa tre settimane, durante le quali la protagonista — che rispecchia l’autrice — incontra quotidianamente una studentessa di Kyoto, laureata su un classico della nostra letteratura, Vittorio Alfieri. Durante il suo soggiorno di studio ad Asti, attraverso i successivi incontri, dal primo a Palazzo Alfieri, cantiere di un museo in attesa di riapertura, a quelli in altri luoghi di cultura della città, dal Polo Universitario alla Pinacoteca, si delinea un itinerario di ricerca, attraverso il quale si evocano le Case di autori diversi, luoghi reali, che assumono tuttavia il valore di luoghi interiori, testimoni delle vite di poeti e musicisti: da Alfieri a Goethe e Schiller, da Wagner a Liszt, da Andersen ai fratelli Grimm, da Puccini a Pascoli, da Verdi a Manzoni, ma anche Goldoni, Mozart, Beethoven e altri, per approdare nuovamente ad Alfieri, con la sua vicenda esistenziale paradigmatica. L’ultimo incontro, prima della partenza della giovane giapponese, riporta, infatti, a Casa Alfieri e alla sua promessa riapertura. Ciò che questi dialoghi suggeriscono, la vertigine del tempo perduto, trova una ragione in più di essere nello “sguardo da lontano”, in prospettiva, con il quale la giovane osserva e interpreta la cultura europea, in un continuo confronto con la propria esperienza e un intenso piacere della scoperta e della divagazione. Le «amate stanze» sono pertanto quelle varcate durante i colloqui immaginari che si snodano nel libro: luoghi di spazio e di tempo; rappresentazioni di infanzia e vecchiaia, di vita e di morte; testimoni di solitudine o mondanità. Interni da contrapporre a esterni di città o campagna. Interni protettivi, nei quali difendersi dalla Storia, o affollati di incubi e ossessioni. Di volta in volta, la casa si identifica con la biblioteca, il salotto, il giardino, il teatro, la tomba. Con il raccoglimento della scrittura o con il rito della «civil conversazione»; luogo privato, votato all’intimità, o meta sfuggente dell’inesausta ricerca di sé da parte di autori diversi. È proprio attraverso lo “sguardo da lontano” della giovane che si delinea un orizzonte più ampio, un’idea diversa di Europa della Introduzione cultura. I “ponti” lanciati per cogliere la profondità del tempo, conducono infatti, attraverso il passato, al presente e al futuro, nel tentativo di cancellare i confini, proprio perché la letteratura, l’arte, la musica non hanno confini. La «casa paterna» e il paradigma della malinconia Palazzo Alfieri ad Asti Palazzo Alfieri ad Asti, cantiere notturno (foto Carla Forno). Le amate stanze Abbiamo accostato il cancello alle nostre spalle, inoltrandoci nello spazio deserto: non potevo non accompagnarvi la mia ospite, che viene da lontano. Una tesi e un dottorato su Alfieri, all’Università di Kyoto, non sono scontati. Mi ha affascinato la sua ricerca di intermittenze fra sensibilità diverse, sul crinale fra vita e morte, amore e solitudine: «Temi eterni», mi dice con sorprendente padronanza della lingua, «La letteratura, l’arte annullano i confini del tempo e dello spazio». Alla luce morbida di questo pomeriggio d’autunno, il cortile si apre con sobria eleganza, uno spazio scenografico che richiama alla memoria altre epoche, spettacoli all’aperto, grandi interpreti del teatro italiano del Novecento. La città, a un passo da noi, tace, e sappiamo di non avere fretta. Con Tomomi abbiamo già parlato a lungo di letteratura e di teatro, ma so che potremo compiere insieme, oggi e nei giorni che verranno, un viaggio insolito e appassionante, attraverso Case che raccontano universi privati, ci restituiscono, a saperli attraversare con capacità di ascolto, l’emozione di gesti e passi di una quotidianità perduta. «Il primo riferimento di Alfieri ad Asti compare in apertura della prima epoca della Vita, là dove si legge: “Nella città d’Asti in Piemonte, il dì di gennaio dell’anno , io nacqui di nobili, agiati ed onesti parenti”». C’è un certo orgoglio nella voce di Tomomi, mentre si impegna a ricordare a perfezione il testo, letto con passione per la preparazione della sua tesi. Ricordo il primo incontro, anni fa, con questa studentessa poco più che ventenne, con il volto da bambina: mi salutò con un lieve inchino, al quale io risposi con un sorriso, un cenno del capo, tendendole la mano: «Benvenuta». Anche allora era autunno. Mi colpirono la sua timida emozione, la sua controllata garbatezza, la sua attenzione. Imparai a conoscere, in seguito, la sua determinazione e forza di volontà, la sua visione matura della vita, nonostante la giovane età. Sono passati quasi dieci anni da quei primi pomeriggi insieme in biblioteca e Tomomi è rimasta fedele al suo progetto di studio. Ritrovarla è stata una gioia. «Alfieri indica il , con evidente errore nella data, essendo egli nato, in realtà, il gennaio», puntualizzo. «Visse in questo Palazzo fino all’età di cinque anni e mezzo, perché nel seguì la madre — Monica Maillard di Tournon, di origini savoiarde, risposatasi in terze nozze con il cavaliere Giacinto Alfieri di Magliano, cadetto di un altro ramo della casata, uomo “di bellissimo aspetto, di signorili ed illibati La «casa paterna» e il paradigma della malinconia costumi”, secondo il ritratto della Vita, — nella nuova dimora, “la casa del patrigno”, non lontano da qui, all’estremità ovest di quella che oggi è piazza Cagni». Spiego a Tomomi che il Gabiani, il primo studioso ad attribuire gli interventi settecenteschi sull’edificio a Benedetto Alfieri, come rifacimenti su antiche strutture in parte medioevali, nel documentava la proprietà del Palazzo agli Alfieri dalla metà del Seicento. In effetti, era possibile individuare, nelle fondazioni e nello spessore delle mura, la struttura della torre, a destra dell’ingresso principale, incorporata nel successivo intervento. «A conclusione dei lavori, la torre tornerà ad essere percepita nella sua profondità, a richiamare le fughe verticali delle architetture medioevali della città. Carte conservate presso il nostro Archivio collocano la data dell’ammodernamento, realizzato dal cugino Benedetto, al . Le opere fatte eseguire dal padre del Poeta, il conte Antonio Amedeo Bianco di Cortemilia, morto quando il piccolo Vittorio aveva circa un anno, riguardavano la scuderia e “qualche stanza per la cucina e altro”». I cinquantun locali del Palazzo costituivano due appartamenti al piano nobile e due al piano terreno. Nei sotterranei vi erano la cucina più quattro cantine, la più grande delle quali era quella «riguardante verso la contrada maestra detta del vino bianco». Spiego a Tomomi come l’Archivio del Centro Alfieriano possieda una pianta di fine Settecento dell’appartamento principale al piano nobile, datata luglio . La mia minuta ospite, che ha coltivato con meticolosa cura, sui libri, lo studio della nostra storia e della nostra letteratura, ascolta in silenzio, poi mi chiede se possiamo salire e accedere ai locali del piano superiore. In realtà, i lavori non sono terminati e dovremo attendere la chiusura del cantiere per riallestire il museo, con le stanze dell’appartamento e la sezione sul Poeta, la biblioteca e l’archivio. Tuttavia, acconsento. Prima, però, ci dirigiamo verso il giardino. «Dopo la schedatura, condotta in accordo con la Soprintendenza, tutti gli arredi furono messi in sicurezza nei laboratori di restauro. In alcuni casi, il tempo aveva tradito il loro aspetto originario, con scelte a dir poco discutibili, e si è trattato di rifarsi con rigore a criteri filologici, recuperando ogni pezzo, quanto più possibile, alla sua origine: così, per i ricami bandera del divano del salotto, risalente a modelli francesi di fine Settecento e lombardi di inizio Ottocento; così, per il letto, in stile Luigi , con il baldacchino in seta avorio o Le amate stanze cremisi, sostituito, in un momento successivo, con uno azzurro, per decenni nella memoria dei visitatori». «Immagino l’emozione, quando verrà riaperta la Casa: Alfieri vi trascorse pochi anni, alternando dimore diverse per periodi più o meno lunghi, trasferendosi da un luogo all’altro, non solo in Italia, eppure solo questo Palazzo gli appartenne. Solo questa è Casa Alfieri». Tomomi ha ragione. Mentre troviamo, nelle diverse epoche dell’autobiografia, riferimenti alle città in cui Alfieri soggiornò o visse, gli accenni alla città in cui nacque rimandano unicamente ai ricordi dell’infanzia, a sottolineare il significato profondo di una dimensione, quella dell’infanzia appunto, così importante, per la scoperta, in sé, dei «primi sintomi di un carattere appassionato». «Sulla stessa lunghezza d’onda, anche Leopardi, in una lettera al Giordani del dicembre , affermava che “non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli per tutta la vita”, ma fu in una pagina dello Zibaldone del gennaio , che Leopardi, in consonanza con Alfieri, riprese il nesso memoria–infanzia, cogliendo nella “massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita” una “rimembranza della fanciullezza” stessa». Alcuni ricordi vividi sono ambientati in questa dimora, la «casa paterna», secondo la definizione del Poeta, implicitamente contrapposta alla «casa del patrigno». Tomomi si ferma, estrae la sua edizione della Vita con annotazioni e sottolineature, sfoglia e legge: «essendo io ancora in Asti nella casa paterna, prima che mia madre passasse alle terze nozze, passò di quella città la duchessa di Parma, francese di nascita, la quale o andava o veniva di Parigi». Questa è la «casa paterna». C’è una radice profonda, nel legame con quel padre non conosciuto, che venne a significare una remota perdita. . . «Non si può trascurare il precedente di Rousseau», mi viene istintivo aggiungere. «Per primo, nelle Confessions, aveva riservato all’infanzia un ampio spazio di attenzione, ma è Alfieri bambino, come compare in un dipinto attribuito al Duprà di collezione privata, con un abitino rosso, accanto alla madre vestita di chiaro, con un abito dalla profonda scollatura bordato di pelliccia, il braccio destro a cingere il fianco del figlio e la mano sinistra a reggere un mazzetto di fiori di campo, un ampio manto azzurro su una poltrona dallo schienale intagliato, quello che andava sperimentando i primi sintomi del La «casa paterna» e il paradigma della malinconia proprio carattere appassionato e malinconico, anzi, melanconico. . . ». È la malinconia, infatti, ad aver suscitato vivo interesse nella critica, in anticipo sul saggio di Freud del , base delle teorie psicanalitiche novecentesche, che la interpretarono come reazione alla perdita di un oggetto amato. «Sarà la malinconia l’indivisibile compagna», proseguo, «dalla Vita alle lettere, a quell’autobiografia in versi delle rime: “la pigrizia, e malinconia mi consuman l’ore” avrebbe scritto alla sorella Giulia, nell’agosto del , nello stesso arco di tempo in cui avrebbe composto il sonetto Mesto son sempre, ed il pianto, e la noja, del agosto dello stesso anno. Fu tuttavia un sonetto tardo, datato “Dì Maggio . Sotto Fiesole, vagando”, a darci la misura di questa proiezione interiore, che la lirica personifica in una presenza continua e quasi amata, alla quale il Poeta si rivolge: “Malinconia dolcissima, che ognora / Fida vieni e invisibile al mio fianco, / Tu sei pur quella che viepiù ristora / (Benchè il sembri offuscar) l’ingegno stanco”. Senza paradosso, al traguardo della vita, lontane ormai le accensioni passionali della giovinezza, la malinconia sarà definita “dolcissima”, “fida”, “invisibile”, “ristoratrice”». Ho con me il volume delle Rime. «La descrizione che Alfieri offre di sé bambino», proseguo, «“taciturno e placido per lo più; ma alle volte loquacissimo e vivacissimo”, è molto simile a quella di René, autoritratto dell’autore bambino in René di Chateaubriand, un autore presente al giovane Alfieri. Tuttavia, è la consapevolezza del proprio “umor malinconico”, a fronte di ogni provocazione affettiva — il primo innamoramento, l’ascolto della musica, il primo viaggio — ad aver indotto i critici a cogliere, nelle sensazioni del bambino, le avvisaglie della malinconia dell’uomo di genio, estensione del concetto aristotelico della natura saturnina del poeta. Forse è davvero in un irrisolto trauma narcisistico infantile la ragione di quell’istinto di morte, che, nelle prime pagine della Vita, sfocerà nel tentativo di suicidio con l’ingestione della presunta cicuta, in un episodio letterariamente riscattato da Alfieri con il precedente classico di Socrate, tacendo di un’altra credibile fonte, identificata dalla Terzoli nella novella della salvia avvelenata, la settima della quarta giornata del Decameron, nella quale la protagonista manifestava un’improvvisa volontà di morire e coglieva direttamente il veleno dalla pianta». Tomomi sta studiando questo tema e si appassiona: «La critica si è soffermata sulla malinconia di Molière, ipocondriaco e malato imma- Le amate stanze ginario, in grado di influenzare Goldoni. E Leopardi, nello Zibaldone, considerò Parini e Alfieri portatori di una concezione moderna della malinconia, nella vostra tradizione poetica. Ci sono appunti risalenti al , ’, ’, in cui Leopardi lodava Alfieri proprio per la malinconia, intesa come dolore permanente dell’animo. Anche la nostalgia era stata codificata come varietà patologica della malinconia». «Senza risalire alla teoria della bile nera di Galeno, che, nella medicina antica, concepiva la malinconia come effetto degli umori, o alla opposta concezione platonica del genio e del furore poetico, fuse in modo apparentemente paradossale da Aristotele, come non pensare ai prestiti letterari colti da Alfieri da una tradizione che annoverava illustri malinconici, da Petrarca, poeta di una solitudine contemplativa, a Tasso, afflitto da una sorta di malinconia patologica; da Machiavelli a Leon Battista Alberti; da Ariosto a Erasmo da Rotterdam, sempre sul filo di una rivalutazione degli aspetti creativi della malinconia, sconfinante nella follia. . . ». «Senza considerare Montaigne», interviene Tomomi, «uno degli autori più amati dal giovane Alfieri, per la sua lotta contro la malinconia, in nome della saggezza. Ma c’è in Alfieri questa lotta?». «Un’autentica moda era esplosa nelle corti europee durante il secolo precedente, basti pensare alla Praga di Rodolfo , alle rappresentazioni allegoriche di cupa malinconia della sensibilità barocca, fra estasi e macabre contemplazioni della morte. Già a fine Cinquecento, Stefano Guazzo, nella Civil conversazione, affidava ai personaggi del suo dialogo la ricerca di rimedi efficaci per guarire le corti da quella che si stava affermando come un’autentica malattia. E come non pensare alla serpeggiante malinconia dei sonetti di Shakespeare?». «Forse non è un caso che Diderot», mi dice Tomomi, che ben conosce la letteratura francese, «autore della voce Mélancholie nell’Encyclopédie, per spiegare il malessere complesso e “generale” del soggetto malinconico, ricorresse, in una lettera a Sophie Rolland, all’espediente della testimonianza di un amico scozzese, certo Hoop, convinto che si trattasse di una “malattia inglese”. Si può mettere in relazione con l’anglofilia dominante e l’anglomania di Alfieri?». «Certo, c’è un nesso: erano malinconici molti personaggi che il Gulliver di Jonathan Swift incontrava nei suoi viaggi e la malinconia è sottesa a tutte le vicende nel Tristam Shandy di Sterne. Rimanda alla nuova moda della sensibilità sepolcrale l’Elegia in un cimitero di campagna di Gray ed è presente in Pope, autore ben noto ad Alfieri, che si cimentò nella sua traduzione. Ma come non ricordare l’intensi-