Il Giardino dei Pensieri
Dizionario della
Filosofia greca
Il Giardino dei Pensieri
A cura dell’Archivio “Il Giardino dei Pensieri”
www.ilgiardinodeipensieri.eu
© Associazione Pi-Greco, 2012
“Dizionari dìi Filosofia”
Editio minor, gennaio 2012, in versione di lavoro
Dizionario di filosofia greca
Termini e nozioni, figure storiche e mitologiche, eventi
Accademia / Platonismo
È la scuola filosofica (in greco Akademeia) fondata da Platone all’inizio del IV secolo a.C. presso un
ginnasio fuori città, ad Atene, vicino a giardini dedicati all’eroe Academo (un mitico eroe attico
legato alle vicende di Castore e Polluce che in questo giardino, forse una località boscosa, aveva un
culto tombale).
Quali fossero i caratteri della scuola è in discussione tra gli studiosi. Tre le ipotesi più importanti:
che fosse una istituzione consacrata alle Muse, dal carattere quindi religioso; che fosse una vera e
propria scuola di formazione politica, rivolta ai giovani migliori delle diverse parti della Grecia; che
fosse una istituzione volta all'insegnamento e alla ricerca, simile ad una moderna università.
In ogni caso è nell'ambiente dell'Accademia che Platone compose i suoi dialoghi ed è lì che si formò
il giovane Aristotele, rimanendovi fino ai 37 anni. Nel contesto dell’Accademia platonica operarono
anche personalità indipendenti, come il matematico Eudosso di Cnido (→). Al tempo di Platone,
dovette esserci una diretta rivalità con un’altra scuola che mirava alla formazione politica dei giovani,
quella di Isocrate, basata sullo studio della retorica piuttosto che della filosofia. Quanto ai rapporti
con le altre scuole socratiche (→), sembra che l’Accademia abbia mantenuto rapporti soltanto con i
Megarici (→).
Dopo la morte di Platone, l'Accademia come istituzione filosofica visse per molti secoli. Si è soliti
distinguere (me sono in uso anche distinzioni più analitiche):
- l'Accademia antica (il IV secolo a.C.) caratterizzata dallo sviluppo degli ultimi interessi di Platone,
in senso matematico-pitagorico, soprattutto con i primi scolarchi Speusippo e Senocrate: →);
- l'Accademia di mezzo (dalla fine del IV al III secolo a.C.), con carattere prevalentemente scettico (le
figure di maggio rilievo sono Arcesialo di Pitane e Carneade di Cirene:→);
- l'Accademia nuova (dalla fine del III sec. a. C. in poi) caratterizzata dalla ripresa di motivi platonici,
in un quadro vicino all'eclettismo.
Nell’86 a.C. i locali dell’Accademia furono seriamente danneggiati nel contesto delle devastazioni
che l’intera Atene e i suoi sobborghi subirono da parte di Silla. Da questo momento in poi il
platonismo non ebbe più una propria istituzione stabile, per divenire una corrente di pensiero
diffusa un po’ in tutta l’area ellenistica (ma il centro era Alessandria più che Atene). Per il periodo
tra il II secolo a.C. e la fine dell’età antica gli storici della filosofia distinguono
- il medioplatonismo (→), dizione entrata nell’uso all’inizio del Novecento per indicare un gruppo
composito di commentatori dei dialoghi platonici attivi a partire dal II secolo a.C.;
- il neoplatonismo (→), dizione storica con cui si indica la tradizione di pensiero che ha inizio (per
noi, che conosciamo male le teorie dei suoi predecessori) con Plotino.
In epoca ormai cristiana l’Accademia venne (idealmente) rifondata dai neoplatonici non cristiani (è
la cosiddetta Scuola di Atene: →). Nel 529 d.C., quando ormai la nuova religione cristiana si era
affermata del tutto, l'imperatore Giustiniano la chiuse definitivamente.
Accadere
Vedi Evento
Accidente
Il termine accidente (in greco symbebekos) ha acquisito un significato tecnico con Aristotele, che lo
definisce così: “Non è né la definizione, né il carattere proprio né il genere, ma tuttavia appartiene
all’oggetto, o anche, è ciò che può appartenere o non appartenere ad un solo e medesimo oggetto, qualunque
esso sia” (Topici, I, 5).
Il contesto in cui si colloca questa nozione è lo studio degli enti (→): Aristotele sta lavorando
all’identificazione di quel che caratterizza la sostanza di un ente al fine di poterne dare una
definizione reale, e trova che alcuni caratteri dell’ente studiato si trovano in una di queste posizioni:
- gli appartengono per caso, non necessariamente, e quindi né sempre né per lo più, ma solo
talvolta;
- gli appartengono necessariamente, ma non fanno parte della sua essenza (questo significa che
l’ente non cambia al variare di questi suoi caratteri).
Achille
Eroe omerico, è figlio di un uomo (Peleo, da cui l’aggettivo Pelide) e di una divinità marina (Teti,
una delle Nereidi: →). Come altre figure del mito nate dagli amori tra mortali e immortali, Achille
è mortale e in effetti muore giovane nell’ultimo anno della guerra di Troia. Omero racconta che la
madre era riuscita a conferirgli l’invulnerabilità e a dotarlo di una forza che sovrastava quella di
qualsiasi altro eroe, ma una parte del suo corpo (il tallone) era rimasta vulnerabile.
Molti miti, accanto all’Iliade e all’Odissea (che descrive i suoi funerali e il pianto di Teti e delle altre
divinità del mare), raccontano episodi della sua vita. Ed è da una lite tra lui e Agamennone, il capo
della spedizione degli Achei contro Troia, che si dipana la trama dell’Iliade.
Uno dei racconti del mito lo associa alla morte da giovane: potendo scegliere tra una vita lunga e
priva dell’onore proprio dell’eroe e un vita breve ed eroica, sceglie senza esitare la seconda.
Figura notissima nel panorama mitologico greco, è ripresa più volte dai filosofi greci nel contesto
delle loro ricerche per qualche tratto utile alle loro argomentazioni. Così Zenone di Elea lo utilizza
per la sua proverbiale velocità nella corsa (Omero lo chiama piè veloce) per illustrare uno dei suoi
argomenti contro il movimento: vedi → Achille e la tartaruga.
Achille e la tartaruga
È uno dei celebri argomenti di Zenone di Elea, di cui ci parlano Aristotele e altri autori antichi, a
favore delle tesi di Parmenide sull’impossibilità logica di ammettere la realtà fisica del movimento.
L’ipotesi di partenza è la seguente: Achille e una tartaruga si sfidano ad una gara di velocità; ma
Achille è celebre per essere piè veloce, scrive Omero, e la tartaruga è molto lenta; quindi la tartaruga
parte da un punto più avanzato e Achille deve inseguirla e superarla se vuole arrivare primo al
traguardo.
Non riuscirà mai a superarla. Infatti, si osservi Achille fare un passo in una unità di tempo: ebbene,
anche la tartaruga avrà fatto un passo. Si immagini Achille fare un secondo passo; anche la tartaruga
lo avrà fatto. E così all’infinito: tutte le volte che Achille sarà nel punto in cui un istante prima c’era
la tartaruga, la tartaruga già non è più lì, ma un po’ avanti. Quindi non ci sarà mai un istante in cui
la raggiungerà.
Dall’assurdità di questa conclusione – in aperta contraddizione con l’esperienza, ma rigorosa dal
punto di vista logico – Zenone ne conclude che non è vero che Achille e la tartaruga si muovono.
Il movimento non è reale.
Acqua
I dati d’esperienza
Per intendere il punto di vista greco su un “elemento” naturale come l’acqua occorre ricordare che
cos’era nell’esperienza comune: era mare e pioggia, era fiume e rugiada, era neve e grandine; ma era
anche il sangue di un animale, la linfa di una pianta, il succo di un frutto.
Alla base di tutte queste forme diverse, i Greci riconoscevano qualcosa di comune, che si manteneva
stabile in tutte le trasformazioni. La neve e la grandine che cadono sui campi e sui monti d’inverno
infatti sciogliendosi alimentano i fiumi, che sfociano nel mare o sono la fonte dell’irrigazione dei
campi coltivati. La stessa acqua caduta dal cielo diventa fiume, mare, ma anche linfa delle piante,
sangue degli animali che si cibano dei frutti della terra e bevono le acque delle fonti.
L’acqua in sé non cambia: è quindi intesa come una componente della natura e variamente spiegata
dai vari filosofi a seconda delle diverse teorie sull’origine della natura e sulla realtà effettiva del
movimento.
I problemi filosofici
I problemi filosofici che vengono affrontati nell’elaborazione di teorie sulla natura dell’acqua sono
essenzialmente due: quello dell’arche (→) e quello della struttura della materia (→).
Le teorie
Le teorie elaborate dai filosofi greci per risolvere i due problemi sono riassumibili nel seguente
schema:
- L’acqua assume un’importanza particolare per quei filosofi che considerano l’intera natura formata
da pochi elementi: ad esempio Talete ne fa l’arche, cioè l’origine e il principio di spiegazione di tutti
gli esseri naturali, e Empedocle ne fa una delle quattro radici di cui sono composte tutte le cose. Un
caso particolare è Anassagora per cui le particelle-base della natura sono moltissime (omeomerie), e
quindi nessun posto particolare spetta all’acqua pur essendo un elemento originario e non formato.
- Per altri filosofi è un corpo liquido non originario, formatosi cioè a partire da altri elementi-base,
come l’aria di Anassimene o gli atomi di Democrito ed Epicuro.
- Per Platone e Aristotele è uno stato della materia soggetta a perenne trasformazione sulla base
delle forze universali che governano la natura; questo processo è descritto da Platone, nel mito del
Timeo, come prodotto dell’ordine imposto da un Demiurgo che ha utilizzato particolari ideemodelli di tipo matematico; è invece descritto da Aristotele come il risultato del passaggio continuo
dalla potenza all’atto.
- Per Eraclito e per la tradizione stoica che lo segue su questo punto l’acqua è un momento della
perenne trasformazione di parti della natura sulla base di una ragione interna, il Logos.
Acroamatico
Termine greco (acroamaticos: la parola acroama significa lezione orale) che indica gli scritti aristotelici
riservati alla circolazione interna alla scuola (il Liceo: →), per gli uditori delle lezioni (il termine
acroamaticos si riferisce appunto gli ascoltatori). Le opere di Aristotele che ci sono pervenute fanno
parte di questo gruppo (chiamati anche scritti esoterici, cioè rivolti all’interno della scuola, dal greco
eso, che significa dentro), mentre quelle destinate alla pubblicazione (i cosiddetti scritti essoterici, dal
greco exo, che significa fuori) si sono quasi totalmente perdute, con l’eccezione di qualche citazione
frammentaria.
Acropoli
È la cittadella fortificata che abitualmente si trovava nelle poleis greche (il termine deriva da akros,
che designa la parte alta, e da polis, città). Di derivazione micenea, perse col tempo la sua funzione
difensiva e nobiliare (nel mondo miceneo vi sorgevano i palazzi dei signori territoriali) per
acquistarne una tipicamente religiosa.
Sia in Grecia che in Magna Grecia e in Sicilia divenne l’area sacra dove sorgevano i templi e si
svolgeva la vita religiosa.
Acusilao
Come di altri scrittori greci del periodo arcaico, anche di Acusilao sappiamo molto poco. Attivo nel VI
secolo a.C., dovette essere in rapporto al gruppo dei cosiddetti logografi, cioè scrittori il cui lavoro
mirava a ricostruire per iscritto le antiche tradizioni sulle fondazioni delle città, o sulle vicende degli
eroi o su altri temi di interesse storico. Di lui ci rimangono alcuni frammenti di un’opera di questo tipo,
intitolata Genealogie.
Ade
Il termine greco è Aides, la cui radice rimanda all’invisibilità (se l’etimologia è corretta, Ade sarebbe
dunque l’invisibile per eccellenza). È il dio dell’oltretomba, fratello di Zeus, e presiede ad ogni
evento che abbia sede nelle “case di Ade”, cioè nel regno sotterraneo dei morti. La sua sposa è
Persefone (→), che un giorno rapì egli stesso nelle pianure della Sicilia mentre raccoglieva fiori con
le sue compagne.
Il nome di Ade in Grecia non si pronunciava, per paura di evocarne la potenza, sicché era chiamato
con molti appellativi, tra cui Plutone (Plouton), che significa “ricco”, perché dalle profondità della
terra si generano grandi ricchezze (il termine è connesso con i miti sulla nascita del grano una volta
seminato sottoterra).
Ade regna sugli inferi in pieno accordo con l’ordine di Zeus (→), perché nella generale sistemazione
dei poteri di tutte le divinità le parti del cosmo sono state distribuite ordinatamente fra tre fratelli,
che dominano in pace tra loro rispettando le rispettive prerogative: Zeus è il signore del Cielo,
Poseidone del mare, Ade del mondo ctonio (cioè sotterraneo: chthon è la terra e quel che vi sta
sotto).
Aedi
In età arcaica (e probabilmente anche molto prima) gli aedi erano i cantori di professione che
intonavano canti di loro composizione, ma legati a forme compositive tradizionali tramandatesi
oralmente, presso le corti dei signori o negli ambienti nobiliari (aoidos significa colui che intona il
canto, quindi cantore), o nelle occasioni rituali collettive. Il canto era accompagnato dal suono della
lyra o della kithara (vedi la voce Lira: →).
Gli aedi in quanto autori dei canti vanno distinti dai rapsodi (da raptein, cucire, e oide, canto: il
rapsodo è quindi colui che cuce i canti), che si diffusero tra il V e il IV secolo a.C.: i rapsodi erano
anch’essi cantori, ma intonavano canti di cui non erano autori, recuperandoli dal repertorio
tradizionale e organizzandoli poi in modo personale.
Nella vita culturale greca gli aedi hanno avuto un ruolo fondamentale, perché attraverso
l’elaborazione dei canti hanno plasmato i miti dando loro forme e significati diversi. In questo modo
hanno indirizzato la cultura greca in una direzione o in un’altra (lo si vede molto bene nell’opera di
Omero, il più celebre degli aedi, e di Esiodo, in cui le componenti magiche del mito cedono spesso
il posto a interpretazioni più elaborate e colte, vicine a posizioni caratterizzate da riflessione
razionale).
Il campo professionale degli aedi era la poesia epica (vedi la voce Epos: →), che entrava a far parte
anche della formazione di qualsiasi persona colta, sicché Platone chiama i poeti “maestri della
Grecia”.
I primi filosofi si contrappongono spesso agli aedi, perché si muovono in una direzione che
abbandona le vie del mito e Platone condanna nettamente la loro arte. In realtà anche i filosofi
hanno imparato dagli aedi, e a volte li hanno anche imitati esponendo contenuti filosofici nella
forma del mito (così Platone, ma prima di lui altri, ad esempio chiamando i concetti filosofici con
nomi di dèi, come fanno Eraclito, Empedocle e altri, oppure scrivendo poemi filosofici: →). Poiché
già negli aedi, come poi nei poeti tragici, la riflessione razionale sul mito è attivamente in opera, il
rapporto tra filosofia e poesia (e quindi tra le figure professionali degli aedi e dei filosofi) in Grecia
in età arcaica e classica è stato molto complesso.
Aezio
Vissuto nel I o forse II secolo d.C., Aezio è uno dei dossografi greci (→) a cui dobbiamo la
trasmissione di notizie sui filosofi antichi di cui si sono perdute le opere. L’opera dossografica
pervenutaci si intitola Raccolta di opinioni. Il Diels (→) ha dimostrato con considerazioni di tipo
filologico che l’opera di Aezio dipende da un anonimo trattato del I secolo a.C. e, attraverso questo,
dalle Dottrine dei fisici di Teofrasto (→), matrice e modello della posteriore dossografia.
Affermazione linguistica
Il linguaggio (→) esprime su un piano parallelo a quello della realtà nozioni che possono riguardare
o meno la realtà. Una affermazione linguistica è quindi una proposizione (→) che esprime una
nozione dotata di senso. Che sia vera o falsa, o che sia applicabile o meno alla realtà, l’affermazione
linguistica in quanto tale ha comunque regole proprie di coerenza logica e di senso.
Il termine greco è kataphasis, e Aristotele la definisce in questo modo: “Dichiarazione che una cosa si
rapporta a un’altra” (Dell’interpretazione, VI). Il suo contrario è la negazione.
Affinità
Il termine greco syngheneia è utilizzato da Platone e dai suoi successori per indicare l’affinità tra
l’anima dell’uomo e le idee. Lo stesso termine è utilizzato da Aristotele per indicare l’affinità della
parte razionale dell’anima con il Dio concepito come pensiero di pensiero.
La base teorica di questa affinità riposa sulla capacità della mente umana di pensare in termini
puramente contemplativi (vedi la voce Theoria: →), cioè di vedere in sé contenuti mentali veri del
tutto indipendenti dalla realtà sensibile (ad esempio le entità matematiche). Se la mente può fare
questo, deve esserci un’affinità tra la sua natura e l’oggetto teorico pensato. Poiché Dio è concepito
da Aristotele come un ente la cui natura implica la più perfetta affinità tra la propria realtà di essere
pensante e l’oggetto pensato (in formula: Dio è pensiero di pensiero compiutamente in atto), potendo
la mente umana fare qualcosa di simile è affine, ma non identica, alla natura di Dio.
La nozione ritorna soprattutto nel neoplatonismo di Plotino: è la base della possibilità stessa per
l’anima umana di ritornare nel grembo dell’Uno con l’estasi.
Aforisma
È uno dei generi letterari usati dai filosofi per i loro scritti e per una parte della tradizione orale
(detti, massime, e così via). L'aforisma è in prosa ma conserva alcun elementi formali della poesia.
Ha qualcosa del verso e della sua sonorità, conserva un elemento legato all'oralità, come i proverbi
che hanno però tutt'altra origine. Ha anche in comune con la poesia anche qualcosa di più
profondo. Come la poesia, l'aforisma è ricco di figure retoriche, di similitudini, di metafore, fa largo
uso del pensiero per immagini (→) e quindi, come la poesia, è legato a forme intuitive del pensiero.
Eppure è prosa. E già questo permette al primo filosofo che ha proposto la sua filosofia utilizzando
questo genere letterario, Eraclito, di allontanare la propria figura da quella del poeta della tradizione
omerica ed esiodea e di presentarsi in termini nuovi, come prima di lui avevano fatto i milesi.
L'aforisma di Eraclito – che ha orientato fortemente i filosofi successivi, per cui qui lo prendiamo in
considerazione come modello del genere letterario dell’aforisma nella filosofia greca – si caratterizza
per una estrema concisione, e più esattamente per una particolare forma di concisione, in cui nella
stessa parola, o breve espressione, si uniscono senza sovrapporsi del tutto due linee di pensiero. I
giochi di parole, il ricorso al pensiero per immagini, hanno però una funzione diversa rispetto alla
poesia epica: non hanno un funzione narrativa, non servono al "racconto". Servono ad esprimere il
pensiero intuitivo rispettandone la complessità: un pensiero che non si serve più del racconto, ma
della contrapposizione tra intuizioni per farne scaturire una tesi.
Quando con Eraclito questa forma di espressione del pensiero compare in filosofia non serve tanto
ad esprimere un pensiero concluso, il risultato di una ricerca, un dato o un fatto, una verità. Serve
piuttosto ad esprimere un movimento del pensiero, anzi ad esprimere più movimenti contemporanei,
più linee di pensiero. Questo carattere differenzia molto l'aforisma di Eraclito dalla successiva
tradizione delle scuole ellenistiche, basata non su aforismi, ma su massime e sentenze (→), che
hanno in comune con l'aforisma eracliteo di fatto soltanto l'essere in prosa, con elementi poetici, e la
brevità.
In Eraclito l'aforisma è dunque un mezzo adeguato per esprimere una filosofia del movimento, ed in
particolare una filosofia in cui il Logos garantisce l'ordine del pensiero e delle cose agendo non come
un ordinatore esterno, ma - come fuoco - dall'interno attraverso lo scontro fecondo degli opposti.
Scontro che l'aforisma, nella parola singola o nella brevità della frase, rende bene: non in quanto
mero espediente letterario, ma in quanto diretta espressione della realtà del pensiero che tenta di
comprendere in sé la parallela realtà delle cose.
L'aforisma eracliteo, a ben vedere, tenta di rendere lo stesso carattere di movimento del Logos, e
questo carattere fa sì che il lettore non "dormiente" sia sorpreso, che il suo pensiero sia scosso,
mediante lo scontro armonico delle parole e dei pensieri, sicché questa armonia dei contrari sia
feconda anche per lui.
Per un quadro generale dei generi letterari dell’antichità si veda la voce Generi letterari della filosofia
antica (→).
Afrodite
Dea associata alla bellezza, alla fertilità e al dio Eros (→) – e dunque ad ogni tipo di generazione che si
fondi sulla differenza sessuale (nel mondo vegetale come in quello animale e nell’uomo) –, nella
mitologia greca Afrodite è una divinità primordiale che nacque dalla spuma del mare quando le gocce
dello sperma di Urano, evirato dal figlio Crono, caddero sulle acque nei pressi dell’isola di Cipro (→
Teogonia). “Si raccontava che Afrodite fosse emersa nuda dalle onde e subito fosse stata accudita dalle
divinità che sarebbero poi entrate nel suo corteggio: le Ore inghirlandate d’oro, che rappresentano la
fioritura feconda delle stagioni e la forza possente del desiderio e della sessualità. Furono loro ad
adornarla e ad accompagnarla sull’Olimpo, dove tutti gli dèi rimasero colpiti dalla sua bellezza, e
ognuno desiderava farla sua sposa” (Guidorizzi 2009, p. 199).
Il culto di Afrodite in Grecia si diffuse probabilmente a partire dall’Oriente, perché alcuni suoi tratti
richiamano quelli di antiche divinità orientali come Ishtar e Astarte. Forse fu Cipro, dove esistevano
importanti santuari a lei dedicati, il tramite con cui il suo culto penetrò nell’area mediterranea fino a
diffondersi ampiamente (il suo culto era diffusissimo, e sorsero santuari un po’ ovunque, come quello
molto celebre di Erice in Sicilia).
Altre tradizioni la dicono figlia di Zeus, inserendola così in modo più diretto nel contesto dell’ordine di
Zeus (→). In effetti Afrodite è figura divina un po’ ambigua, associata com’è alle forme istintive
primigenie della sessualità, ma anche alle raffinatezze della seduzione. Dea molto potente, il culto tende
a sciogliere questa ambiguità distinguendo una Afrodite Urania e una Afrodite Pandemia: la prima è
associata da Erodoto a culti orientali, la seconda è, come dice il nome, comune a tutti. Ma la
distinzione è poco chiara e Platone nel Simposio ne dà una interpretazione filosofica originale e quindi
indipendente dai racconti del mito, nel contesto di un gioco letterario peraltro molto efficace condotto
da Pausania (→) e ripreso in parte da Erissimaco (→).
È una divinità che ritorna a volte negli scritti dei filosofi incarnando specifiche forze naturali: in
Empedocle Afrodite è uno dei nomi con cui il poeta-filosofo chiama la forza che aggrega (cioè la
philia).
Afrodite ed Eros
L’associazione tra Afrodite ed Eros è diversa a seconda del racconto della nascita della dea:
- nel racconto di Esiodo Eros nasce prima di Afrodite, e agisce quindi indipendentemente da lei come
forza cosmica della generazione; solo dopo la nascita della dea è associato a lei e acquisisce i caratteri
“romantici” (pur restando una forza dominante) di un sentimento d’amore;
- nelle altre tradizioni, che fanno di Afrodite una delle figlie di Zeus, e quindi ne inseriscono il ruolo e
la potenza nel contesto dell’ordine di Zeus (→), Eros nasce dopo di lei o è suo figlio, e la sua potenza è
quindi subordinata alla seduzione e alla bellezza di Afrodite.
Secondo alcuni studiosi (la tesi è esposta con ampiezza di analisi e di riferimenti in Rudhart 1986) la
differenza tra le due prospettive dipende dal fatto che, una volta conclusa la fase della nascita del mondo
e degli dèi, il ruolo di Afrodite e soprattutto di Eros cambia, perché l’amore e la seduzione non sono
solo finalizzati alla riproduzione, ma ad un vasto complesso di rapporti sociali ed affettivi. La ciclicità
del mondo implica la nascita di nuovi esseri, ma questi non portano un nuovo ordine: generazione dopo
generazione, l’ordine di Zeus si perpetua, e Afrodite e Eros hanno un posto importante in questo ciclo.
Ma non più nella generazione di un nuovo ordine, perché quello attuale è definitivo.
Agatone
Non conosciamo la data di nascita di questo poeta tragico ateniese (forse il 447 a.C.), contemporaneo
di Euripide e fortemente influenzato dalla sofistica. Sappiamo però che Agatone morì intorno al 401
a.C. e che lasciò Atene, sua città natale, per la corte di Macedonia.
Non possediamo le sue opere. Sappiamo però che propose alcune innovazioni piuttosto importanti.
Nella tragedia Anteo, ad esempio, i fatti e i personaggi non appartengono al mito, e quindi l’intera
trama è di sua invenzione. Inoltre i cori sono del tutto sganciati dall’azione tragica, con la funzione di
intermezzi lirico-musicali. Su Agatone abbiamo qualche informazione anche da Aristotele, che lo cita
nella sua Poetica (9 e 18). Lo cita anche il suo contemporaneo Aristofane nelle sue Tesmoforiazuse.
È uno dei protagonisti del Simposio platonico che – nella finzione letteraria – rimanda ad un fatto
realmente accaduto che lo riguarda: nel 416 a.C. infatti conseguì la vittoria alle Dionisie con la sua
prima tragedia, e il simposio descritto da Platone si tiene per festeggiare l’evento. Doveva essere un
poeta celebre ai suoi tempi.
Il discorso di Agatone nel Simposio di Platone
Agatone pronuncia uno degli elogi del dio Eros. Inizia il suo discorso dicendo che Fedro (→) ha
ragione nel dire che Eros è un dio bello e felice, anzi il più bello, ma sbaglia nel dire che è antico: al
contrario Eros è giovanissimo, è legato alla bellezza dei giovani e rifugge da ogni forma di bruttezza.
Leggero e potente come Ate (→) [notiamo a margine che l’accostamento è vagamente inquietante],
nessuno gli resiste, ad anzi tutti, uomini e dèi, volentieri si sottomettono ai suoi voleri per il piacere che
ne traggono. Non fa né subisce violenza, proprio perché potente e gradito a tutti, e quindi ottiene
facilmente ciò che vuole. Al suo apparire ogni bene è apparso tra gli uomini e gli dèi, e tra essi la poesia,
in cui è maestro.
Quel che colpisce nel discorso di Agatone è la sua bellezza – lo sottolineano subito tutti i presenti al
simposio e Socrate stesso, e lo confermano gli studiosi. Tuttavia ha ben poco a che vedere con la
tragedia se non nella forma poetica spesso richiamata. Agatone stesso, poeta tragico, dichiara alla fine
di aver parlato unendo lieve fantasia e grave serietà. Poiché il discorso che poco prima ha tenuto
Aristofane, poeta comico, nella sua comicità ha aspetti tragici, tutto appare come se tragedia e
commedia fossero presentti nel Simposio come due volti della stessa Musa.
Gli studiosi ne discutono ancora oggi.
Agnosticismo
Il termine è moderno, e indica qualsiasi posizione filosofica che sospenda il giudizio sulla possibilità
umana di sapere qualcosa sul divino. Venne coniato (su base greca: agnosia è la mancanza di
conoscenza) dal naturalista inglese Huxley nel 1868 per indicare le posizioni della scienza su
questioni indecidibili. Ha poi assunto un significato più specifico, legato al problema filosofico su
Dio (e, nel linguaggio comune, sulla fede in generale).
L’agnosticismo va nettamente distinto dall’ateismo (→) con cui non ha molto in comune: l’ateo
ritiene di sapere che Dio (o una sfera dell’essere che afferisca a una realtà superiore e divina) non
esiste; l’agnostico sospende il giudizio, ritenendo di non poter sapere.
Questa posizione filosofica è presente in alcuni autori greci, o almeno è una cosa di cui i filosofi
discutono. Tesi vicine all’agnosticismo sono presenti in Senofane, in Socrate, e in altri, tutti filosofi
però in cui la ricerca del divino va oltre l’agnosticismo. In età classica posizioni coerentemente e
rigorosamente agnostiche sono solo in Protagora (e più in generale nei sofisti), sulla base di
argomentazioni legate ad un razionalismo moderato e cauto.
Per le età successive sono agnostici anche gli scettici dell’età ellenistica e romana.
Agone
In greco agon significa gara, o lotta. Agone è ciascuna delle gare e dei giochi organizzati in occasione
di celebrazioni religiose presso un santuario. Si tenevano agoni a livello locale o regionale, e agoni
panellenici: questi ultimi erano i giochi Olimpici, Pitici, Istmici, Nemei, che si svolgevano con
cadenza regolare e comprendevano prove atletiche e sportive di vario tipo, e a volte anche concorsi
musicali.
Analogamente, ad Atene si tenevano gli agoni drammatici, in occasione delle festività di Dioniso:
vedi la voce Dionisie (→).
L’importanza di questi agoni in Grecia era altissima, e l’eco degli eventi che vi si svolgevano ricorre
spesso nelle opere dei filosofi. Si trattava infatti di momenti particolarmente importanti della vita
collettiva greca. Aspetti politici e aspetti religiosi si univano, e la partecipazione popolare faceva sì
che questi agoni fossero occasioni di formazione dell’uomo greco e di riflessione collettiva. Da qui
l’interesse dei filosofi.
Agora
Originariamente questo termine indicava il raduno dell’assemblea (→) popolare, poi passò ad
indicarne il luogo. Benché la parola agora possa riferirsi anche ad altri luoghi di riunione, nelle poleis
greche si intendeva con questo termine la piazza centrale, sede della vita pubblica. In età classica era
per lo più una piazza con portici, circondata dagli edifici pubblici.
Vi si svolgevano anche periodicamente attività commerciali come i mercati e comunque, essendo il
cuore della città, era il luogo pubblico per eccellenza, anche da un punto di vista simbolico.
Agrigento
Città greca sulla costa meridionale della Sicilia, venne fondata col nome di Akragas da coloni che
provenivano da Gela, che sorge poco più a est lungo la stessa costa, nel 580 circa a.C. Forse con loro
c’erano anche gruppi provenienti da Rodi, che era stata la città-madre della stessa Gela, fondata un
secolo prima.
Agrigento ebbe presto una notevole espansione, dotata com’era di un entroterra fertile e di buoni
porti che le consentivano proficui commerci mediterranei.
La vita politica interna dovette essere però molto agitata per tutto il periodo della sua massima
fioritura (il VI e il V secolo a.C.) e i conflitti tra i cittadini furono per lo più risolti con l’imposizione
del potere di un tiranno. I più importanti furono Falaride (570-554 a.C.) che divenne presto un
simbolo di crudeltà (celebre il cosiddetto toro di Falaride (→), una macchina da tortura di cui si dice
sia stato alla fine vittima lo stesso tiranno), e Terone (488-472 a.C.) sotto il cui potere la città
raggiunse forse il massimo della sua potenza.
Anche la politica estera fu piuttosto complessa: Agrigento sorgeva ai limiti della sfera d’influenza
greca in Sicilia, a contatto con l’area controllata dai Cartaginesi (la punta occidentale dell’isola). Lo
scontro fu inevitabile quando, sotto Terone, gli agrigentini riuscirono a controllare anche Imera,
città greca sulla costa nord della Sicilia, sicché anche a nord si trovarono a stretto contatto con i
Cartaginesi, che controllavano Panormus (Palermo) e altre città. Nel tentativo si assestare un colpo
definitivo alla potenza cartaginese nell’isola, Terone nel 480 a.C. si alleò con il tiranno Gelone di
Siracusa e insieme sconfissero i Cartaginesi nella battaglia di Imera (→), che la tradizione vuole sia
stata combattuta lo stesso giorno della battaglia di Salamina (→).
In realtà i rapporti con Siracusa, l’altra grande potente polis greca dell’isola, non erano idilliaci. Le
due città tra il 480 e la fine del V secolo a.C. rivaleggiarono sia economicamente che dal punto di
vista culturale. Fu in quest’epoca che nacquero i grandi templi della Via Sacra dell’Acropoli di
Agrigento. Furono anche gli anni della scuola filosofica e medica di Empedocle, il cui rapporto con
la città fu molto stretto.
Tutto ebbe termine nel 406 a.C., quando un esercito cartaginese guidato da Annibale – un nipote
del generale sconfitto quasi ottant’anni prima a Imera – attaccò la città e la distrusse.
Gli abitanti superstiti lasciarono Agrigento e si rifugiarono in altre colonie greche, tra cui Leontini.
Qualche decennio dopo ritornarono, ma la Agrigento del periodo aureo non rifiorì più.
Nel corso delle guerre puniche (III secolo a.C.) Agrigento si alleò con i Cartaginesi perché la sua
rivale Siracusa era alleata dei Romani, da cui fu quindi attaccata e saccheggiata. Ma l’Agrigento di
quest’epoca non aveva più le dimensioni e la ricchezza di quella del V secolo a.C. o della
contemporanea Siracusa, che era allora una delle maggiori città del Mediterraneo. Tuttavia per tutta
l’antichità Agrigento, piccola o grande che fosse, mantenne un certo grado di prosperità come
dimostra l’attività edilizia che si sviluppò per secoli – sotto tutti i regimi politici – le cui
testimonianze per una serie di circostanze (alcune fortuite) sono giunte sino a noi.
Aiace
Aiace Telamonio, così chiamato perché figlio di Telamone, è uno dei più forti eroi greci del mito. Re di
Salamina, nell’Iliade ha il ruolo di valoroso combattente, e si distingue per la sua statura e il suo valore,
secondo solo ad Achille, in diretta competizione con Ettore. Aiace possedeva uno scudo che lo
proteggeva al punto da renderlo quasi invincibile in battaglia.
Alla morte di Achille, le armi di quest’ultimo dovevano andare al più valoroso dei Greci, e quando
Ulisse riuscì con uno stratagemma a impadronirsene, Aiace impazzì. Molte versioni del mito collegano
a questo episodio la sua morte. Una di esse narra che le armi di Achille, strappate da una tempesta alla
nave di Ulisse, furono portate dai flutti sulla tomba di Aiace, sul promontorio Reteo.
Ad Aiace erano collegati vari culti a Salamina, in Attica e nella Troade.
Alcesti
Figura femminile del mito, la cui vicenda matrimoniale è narrata da Euripide nella omonima tragedia,
l’Alcesti, rappresentata nel 438 a.C. Eccone la trama: “Ad Admeto, re di Fere in Tessaglia, le Moire
hanno concesso di vivere oltre l’ora stabilita per la sua morte, a patto però che qualcuno accetti di
scendere agli Inferi al suo posto. I genitori non si sono prestati allo scambio, mentre la moglie del re,
Alcesti, ha accettato già prima delle nozze di sostituire il marito. La tragedia si apre nel momento in
cui, passati alcuni anni di felice vita coniugale, allietata dalla nascita dei figli, l’ora è venuta: Alcesti
piange l’imminente dipartita, lamenta di dover abbandonare il cielo, il sole, i figli e il marito; i vecchi
del coro esprimono la loro straziata commozione. Infine, la giovane moglie rende l’anima a Tanatos (il
dio della morte). Si prepara il funerale; Admeto accusa il padre Ferete di durezza di cuore, questi
risponde di non avere debiti nei suoi confronti, avendogli già una volta dato la vita. Contro le
consuetudini, nella casa immersa nel lutto viene ospitato Eracle, al quale si tace la morte di Alcesti;
mentre sta banchettando in casa, l’eroe viene a sapere da un servo la verità. Si lancia quindi
all’inseguimento di Tanatos, per strappargli Alcesti. Al ritorno dal rito funebre, Admeto trova davanti al
palazzo Eracle e Alcesti, velata, che gli viene presentata come una straniera; messa così alla prova la sua
fedeltà, i due sposi possono riabbracciarsi” (Antichità classica 2000, p. 1529).
Esistono altre versioni del mito, che collegano il ritorno in vita di Alcesti all’intervento della dea
Persefone. Per il carattere di questo personaggio va ricordato che era figlia del re di Iolco, di nome
Pelia, legato alle narrazioni mitiche su Medea (→) che, con le sue arti magiche e i suoi inganni, ne
provocò la morte facendolo uccidere dalle figlie. Alcesti è l’unica figlia che non partecipa all’uccisione.
Quanto al marito Admeto, per poterla sposare dovette affrontare dure condizioni impostegli dal padre
Pelia, e riuscì a farlo con l’aiuto di Apollo.
Alcibiade
Uomo politico ateniese di primo piano negli anni della Guerra del Peloponneso. Era nato intorno al
450 a.C. ad Atene da nobile famiglia imparentata con Pericle. Quando morì suo padre – Alcibiade era
ancora un bambino – fu proprio a casa di Pericle che venne accolto e allevato.
Crebbe quindi al centro del mondo politico ateniese, negli ambienti vicini a Pericle profondamente
segnati dalla cultura sofista, di cui assorbì le tendenze più spregiudicate e radicali. Appena trentenne,
era già stratega e politico di primo piano, vicino ai democratici. La svolta nella sua vita avvenne nel 415
a.C. quando, nel contesto della Guera del Peloponneso che Atene combatteva contro Sparta, divenne
ispiratore del progetto di portare la guerra in Sicilia contro Siracusa, alleata degli Spartani. Di questa
spedizione ottenne, con altri uomini politici, il comando.
Tuttavia poco prima della partenza della flotta quasi tutte le erme (→) ateniesi vennero deturpate (le
erme erano pilastrini di sezione quadrangolare sormontati da una testa scolpita a tutto tondo
raffigurante il dio Ermes, da cui il nome erme, poste ai crocicchi delle strade, ai confini delle proprietà o
di fronte alle porte, come segno di protezione: Ermes era il dio dei viandanti). L’episodio rientrava nel
duro conflitto che opponeva ad Atene i democratici e gli aristocratici, e fu probabilmente in ambienti
aristocratici che l’episodio della mutilazione delle erme venne deciso e messo in atto per opporsi alla
spedizione in Sicilia. Alcibiade fu tra i sospettati, ma non gli fu consentito di discolparsi prima di
partire, contro la sua volontà.
Venne però subito richiamato in patria dopo la partenza, e così decise di tradire Atene: rifugiatosi
presso Sparta, ne divenne consigliere, per poi passare nuovamente – con più di un improvviso
voltafaccia – dalla parte di Atene. Dopo avere mantenuto un rapporto ambiguo con la sua città, morì
nel 404 a.C., ucciso da un alleato di Sparta, il satrapo Sarnabazo in Frigia, presso cui si era rifugiato.
La figura di Alcibiade è tra le più discusse della vita politica ateniese degli anni della Guerra del
Peloponneso, per l’instabilità del suo carattere, le scelte radicali che compì, la sua abilità politica e
militare, ma anche per la mancanza di equilibrio. Personaggio presente in alcuni dialoghi di Platone
(dal Protagora, ai due dialoghi che portano il suo nome, al Simposio), la figura di Alcibiade si colloca su
“uno sfondo di rottura, di disprezzo delle forme, delle tradizioni, delle leggi e, senza dubbio, della
religione stessa” (Lacan 1960).
Allievo di Socrate, era tra i giovani che con lui si erano formati. La condanna a morte di Socrate
avvenuta nel 399 a.C. a seguito del celebre processo potrebbe essere legata al ruolo che Socrate aveva
avuto nella formazione non solo di Alcibiade, ma di altri esponenti politici negli anni cruciali della
guerra.
Il discorso di Alcibiade nel Simposio di Platone
Alcibiade è uno dei personaggi principali del Simposio di Platone. Giunge tardi e pronuncia un discorso
di elogio in onore di Socrate, non di Eros come avevano fatto tutti gli altri (ma in controluce emergono
alcuni tratti del dio) paragonandolo alle statuette dei Sileni che dentro contengono immagini preziose
degli dèi. Così è Socrate, non bello dal punto di vista fisico, ma dall’anima ricca di doni preziosi che
Alcibiade dichiara di avere visto. Così è anche per i suoi discorsi, che hanno lo stesso carattere: Socrate
conquista tutti con le sue parole, apparentemente semplici e piane, in realtà profonde e tali da ferire
l’anima e da scuoterla, come non accade neppure ascoltando i grandi oratori. Alcibiade dichiara di
sentirsi sempre messo in questione di fronte a lui.
Socrate fa innamorare, ma non cede mai alle lusinghe d’amore. Alcibiade racconta come a lungo abbia
tentato di sedurlo, ma senza successo. Persino nello stesso letto per tutta la notte Socrate è rimasto
impassibile di fronte alla sua bellezza. E questa impassibilità è dimostrata anche da vari episodi avvenuti
in guerra, in cui Alcibiade ravvisa i tratti di una superiore capacità di resistenza e di coraggio di Socrate.
Questo discorso di Alcibiade è importante nell’economia non solo del Simposio, ma della stessa
concezione della filosofia per Platone, perché Socrate (maschera di Eros e della filosofia) è
presentato con tratti ambivalenti: da un lato è oggetto di contemplazione, dall’altro è capace di
provocare le più profonde inquietudini. Così, sembra dire Platone, è la filosofia (→).
Alessandria (Biblioteca di)
Era la più celebre e la più grande delle biblioteche antiche (vedi Biblioteca: →). Non sappiamo
quanti libri contenesse (le fonti danno cifre che vanno dai 100.000 ai 700.000), ma si trattava
comunque certamente di una struttura imponente, che serviva intellettuali e studiosi di tutto il
mondo ellenistico e romano. Venne fondata dai Tolomei nel 290 a C. che presero a modello la
biblioteca del Liceo di Atene, la scuola fondata da Aristotele. Era collegata al Museo (→), una delle
strutture di ricerca più importanti del mondo antico.
La Biblioteca di Alessandria non si limitava ad una funzione di conservazione dei libri, ma ne
curava anche la diffusione attraverso il lavoro dei copisti. Alla direzione della Biblioteca si
succedettero intellettuali di altissimo livello e la catalogazione dei libri divenne un’attività di
fondamentale importanza anche per la storia della cultura successiva perché fu ad Alessandria che le
tipologie dei generi letterari e l’ordinamento delle successioni dei filosofi, e molti altri tipi di
classificazione del sapere, vennero fissati per passare poi nella cultura successiva e in molti casi
giungere sino a noi. Fu qui, tra l’altro, che operarono i grammatici che fissarono per primi le regole
della grammatica e della sintassi, gli storici che stabilirono le successioni degli autori e dei generi,
oltre ad un considerevole numero di filologi che sistemarono ordinatamente i documenti scritti del
sapere antico.
La Biblioteca di Alessandria andò parzialmente in fumo a causa di un incendio appiccato dai soldati
di Cesare che attaccarono il porto della città nel 47 a.C. nel corso delle guerre delle ultime fasi della
Repubblica. Riprese però ad operare e solo in età tardo antica subì altre rovine, per andare poi
definitivamente distrutta nel 391 d.C., nel contesto delle vicende legate alle invasioni barbariche.
Alessandria d’Egitto
Fondata da Alessandro Magno nel 332-331 a.C., al momento della sua conquista dell’Egitto, la
città ebbe uno sviluppo notevole sotto i suoi successori. Fu la capitale di uno dei più fiorenti tra i
regni ellenistici, sotto la dinastia dei Tolomei (→), che all’inizio del III secolo a.C. vi fondarono le
celebri istituzioni culturali del Museo (→) e della Biblioteca (vedi Biblioteca di Alessandria: →). Per
tutta l’età ellenistica fu uno dei maggiori centri politici e culturali del mondo antico, e le scienze vi
ebbero uno sviluppo notevole. Qui operò ad esempio il matematico Euclide (→) e qui nacque la
filologia (→) come scienza rigorosa.
Quando l’Egitto nell’età di Cesare passò ai Romani, la Biblioteca venne parzialmente distrutta nel
corso degli eventi bellici, ma riprese la sua funzione dopo essere stata ricostruita. Alessandria
mantenne quindi ancora per i primi tre secoli dopo Cristo il suo ruolo di grande centro di ricerca.
Ospitò una numerosa comunità ebraica, intorno alla quale scoppiarono seri episodi di violenza di
massa con massacri indiscriminati; ma allo stesso tempo fu nel contesto di questa comunità che si
ebbero alcune delle acquisizioni culturali più rilevanti in ambito ebraico e poi cristiano:
- fu ad Alessandria che, negli ultimi decenni del II secolo a.C., venne realizzata la prima traduzione
della Bibbia in greco (è la cosiddetta Bibbia dei Settanta: →), opera possibile perché gli intellettuali
ebrei di Alessandria erano ormai ellenizzati e si rivolgevano ad altri Ebrei che parlavano
correntemente il greco;
- fu qui che nel primi decenni del I secolo d.C. nacque la scuola filosofica ebraica di Filone di
Alessandria, anch’essa di matrice tanto ebraica quanto ellenistica, che proponeva una originale
interpretazione filosofica e filologica della Bibbia.
In epoche successive Alessandria rimase uno dei centri più attivi di elaborazione culturale, sia
scientifica che filosofica. Fu qui che il matematico e astronomo alessandrino Claudio Tolomeo (→)
nel II secolo d.C. propose la sua celebre sintesi astronomica nell’opera nota come Almagesto.
Dal punto di vista filosofico, le scuole fiorite ad Alessandria dopo quella di Filone furono due:
- tra il III al VI secolo d.C. fu attiva la scuola neoplatonica pagana di Plotino e dei suoi successori,
sulla scia di una lunga tradizione che dal cosiddetto medioplatonismo porta alla scuola di Ammonio
Sacca, in cui si formò Plotino;
- tra II e il IV secolo d. C. fu attiva anche la cosiddetta Scuola teologica di Alessandria (→), che
proseguì da una prospettiva cristiana e non più ebraica il lavoro filosofico e filologico di
interpretazione della Bibbia avviato nel I secolo d.C. da Filone.
Oltre a queste, va ricordato che ad Alessandria nacquero anche altri movimenti filosofici, non
strutturati in scuole vere e proprie, come il neo-pitagorismo (→).
Città cosmopolita, in età imperiale romana fu però al centro di seri scontri tra cristiani e pagani fino
al IV secolo d.C., ed anche al centro di numerose (e spesso sanguinose) dispute teologiche nei primi
secoli del Cristianesimo (le prime eresie trovarono terreno fertile nel contesto aperto e
intellettualmente vivo della città).
Nella storia del Cristianesimo Alessandria ha quindi un ruolo molto importante, e fu sede di uno
dei principali patriarcati dell’antichità.
Subì danni gravissimi all’epoca delle invasioni barbariche, con la distruzione di gran parte della
stessa Biblioteca (391 a.C.), e venne poi conquistata dagli Arabi nel 642, entrando così a far parte da
questo momento in poi dell’universo culturale islamico, pur mantenendo vive le tradizioni del
Cristianesimo e, soprattutto, dell’Ebraismo.
Se si riflette sul complesso di incroci culturali che per secoli fecero di Alessandria una delle capitali
della cultura dell’epoca, si può legittimamente sostenere che fu Alessandria ad ereditare nell’età
ellenistico-romana il ruolo che era stato di Atene tra l’età classica e il III secolo a.C.
Alessandria [Scuola filologica di]
Il contesto in cui operò la Scuola Filologica di Alessandria è quello della celebre Biblioteca. La
figura più importante di questa scuola fu quella del quinto bibliotecario, Aristarco di Samotracia
(→), che fissò i principi filologici elaborati dai predecessori.
La ragion d’essere delle ricerche filologiche alessandrine, e quindi dell’esistenza di una scuola di
questo tipo, era la Biblioteca stessa, che offriva un numero elevatissimo di antichi testi, in varie
lezioni, con scarsa organizzazione dei materiali e ancor più scarsa precisione nella cura dei testi.
Occorreva dunque
- ordinare l’antico materiale in modo coerente e organico, ponendosi spesso anche il problema
dell’autenticità delle attribuzioni a questo o a quell’autore; a volte occorreva organizzare il materiale
antico in modo coerente, dandogli una forma ordinata in una regolare sequenza di libri;
- stabilire la corretta versione di ciascun testo (oggi diremmo: preparare un’edizione critica dei
classici), eliminando interpolazioni e corruzioni.
Queste esigenze di tipo storico-filologico richiedevano scelte precise e un metodo di lavoro ordinato
e coerente. Fu Aristarco a farsi promotore di uno dei due metodi che divennero poi canonici
nell’antichità, il metodo dell’analogia (vedi → Analogisti); l’altro era il metodo dell’anomalia,
propugnato dalla rivale Scuola filologica di Pergamo e dagli Anomalisti: →).
Una parte notevole della tradizione libraria dei secoli precedenti alla fondazione della Biblioteca di
Alessandria venne così sottoposta al vaglio storico-filologico dei filologi della scuola di Alessandria,
e furono le loro edizioni a divenire poi canoniche e ad essere tramandate ai posteri fino a giungere
(per la verità in una parte piuttosto piccola rispetto all’enorme lavoro svolto) fino a noi.
Alessandria [Scuola teologica di]
È una delle prime scuole teologico-filosofiche della Cristianità. Sorse ad Alessandria d’Egitto (→)
nel II secolo d.C., in un contesto fortemente influenzato dalle ricerche filologiche e storiche che si
svolgevano presso il Museo e la Biblioteca. Allo stesso tempo i primi studiosi della scuola trassero
ispirazione dal metodo di interpretazione allegorica della Bibbia (vedi Allegoria: →) proposto un
secolo prima da Filone d’Alessandria (→). La scuola ebbe a lungo un orientamento platonico, e le
teorie del maestro pagano del IV secolo a.C. furono in effetti utilizzate per intendere,
interpretandoli, i concetti biblici (ad esempio la nozione greca di Logos venne applicata alla figura
storica e teologica, quindi umana e divina, di Cristo).
Tra i rappresentanti della scuola vanno soprattutto ricordati Clemente (→) e Origene (→).
Alessandrini
Questa dizione si riferisce ai ricercatori, agli studiosi e agli scienziati del Museo (→) e della
Biblioteca di Alessandria (→), in Egitto. In questo stesso senso si parla anche di età alessandrina, o
di arte e letteratura alessandrina, e così via.
La città di Alessandria fu infatti al centro delle più importanti ricerche scientifiche dell’ellenismo.
Qui vennero portati avanti anche vari filoni di ricerca in campo filologico, filosofico e teologico.
Alessandro di Afrodisia
Filosofo greco, nato ad Afrodisia sulla costa dell’Asia Minore alla metà del II secolo d.C., tenne la
cattedra imperiale di filosofia aristotelica ad Atene tra il 198 e il 211.
Ha lasciato commenti sistematici a un numero molto alto di opere di Aristotele, condotti sulla base
di un metodo rigoroso: interpreta infatti i singoli passi oscuri (moltissimi in Aristotele, dato lo stato
e la storia delle sue opere di scuola) attraverso passi paralleli o su temi analoghi, cercando all’interno
del corpus aristotelico la coerenza interna.
Il suo metodo e le soluzioni da lui proposte ai problemi di interpretazione dei testi hanno
fortemente influenzato la filosofia medioevale. In particolare Alessandro ha interpretato i testi
aristotelici in modo da portare alla negazione dell’immortalità dell’anima individuale e ad una
complessa teoria dell’intelletto, concepito come attivo (universale e immortale) e passivo (personale e
materiale): vedi su questo punto la voce Intelletto attivo / Intelletto passivo (→).
Oltre ai commenti alle opere di Aristotele, Alessandro di Afrodisia è anche autore di trattati su temi
specifici, alcuni giunti sino a noi in traduzione araba, altri in originale greco. Tra i più importanti
quelli Sulla mescolanza, Sul fato (in cui prende posizione contro la concezione stoica del fato) e
Sull’anima, oltre a quattro libri di Questioni.
Alessandro Magno
Figura politica di primaria importanza nella storia antica, come segnala l’aggettivo Magno con cui ci
si riferiva a lui già nell’antichità, Alessandro divenne re di Macedonia in circostanze drammatiche
nel 336 a.C., quando il padre Filippo II venne ucciso nel corso di un attentato.
Nato nel 356 a.C., aveva solo vent’anni quando salì al trono, ma riuscì immediatamente a
controllare la situazione e ad assumere il potere reale, che esercitò con estrema determinazione sia
all’interno che all’esterno. Aveva avuto una preparazione politico-militare di prim’ordine, curata dal
padre stesso, e per circa tre anni suo precettore era stato Aristotele, che era in rapporti con la corte
di Pella, la capitale macedone, perché il padre era stato medico presso quella corte. Quando negli
anni successivi Aristotele tenne scuola ad Atene presso il Liceo, la città come tutta la Grecia era
ormai sotto il controllo politico macedone; e quando Alessandro morì, e in Grecia si ebbero
consistenti movimenti antimacedoni, poi rientrati, Aristotele dovette lasciare Atene essendo legato
al partito macedone.
La figura di Alessandro Magno, oltre che centrale dal punto di vista politico-militare, è importante
anche per la storia della filosofia, per varie ragioni, a parte il suo rapporto con Aristotele:
- fra il 334 e il 324 Alessandro guidò la celebre spedizione in Oriente che gli consentì di controllare
politicamente la vastissima area tra il Vicino, il Medio Oriente e l’Asia centrale; al suo seguito
c’erano molte personalità della cultura del tempo, che poterono così entrare in contatto diretto con
la cultura dell’Oriente; tra questi vari filosofi, ad esempio Pirrone;
- la scelta di Alessandro di compiere una spedizione in Asia aprì la strada a quell’epoca della storia
antica che oggi chiamiamo ellenismo (→), caratterizzata da una profonda ellenizzazione di vaste aree
dell’Oriente, ma anche dalla penetrazione in Occidente di modelli di vita, di religioni, di forme del
pensiero e della cultura tipicamente orientali; la filosofia dell’epoca ellenistica ha risentito di questa
apertura dell’Ellade alle culture orientali;
- quando Alessandro nel 323 a.C. morì, senza avere avuto il tempo, completata la conquista dello
spazio politico tra l’Egitto e l’Indo, di dare una stabile struttura al suo impero, a seguito di varie
lotte tra i suoi generali si formarono alcuni regni ellenistici, e si spezzò definitivamente in tutto lo
spazio ellenico quel legame tra il cittadino e la polis che aveva caratterizzato l’età arcaica e classica
della storia greca; la filosofia politica e l’etica delle scuole ellenistiche ne risentirono in profondità.
Aletheia
Traduciamo questo termine greco con verità (il vero è alethes). È composto dalla particella privativa
a, cioè non, e dal verbo lantano, che significa rimango nascosto. La verità è quindi, etimologicamente,
ciò che non è nascosto, ciò che si rivela. Ora, nascondersi o rivelarsi è possibile soltanto rispetto ad
un osservatore, e quindi nel termine aletheia è implicito uno dei tratti più importanti del problema
filosofico della verità (→): il fatto che la verità riguarda un oggetto del discorso (o del pensiero), ma è
tale solo agli occhi di un soggetto pensante.
Perché ci sia aletheia, è indispensabile un soggetto consapevole di sé, oltre che della verità del
proprio oggetto.
La prima posizione del problema della verità è in Parmenide, che identificando l’essere e il pensare,
identifica per ciò stesso il pensiero con la aletheia, dichiarando impensabili altre vie di ricerca
(impensabili va inteso letteralmente: non pensabili, nel senso che le parole che si usano – ad esempio
la parola nulla – non corrispondono in realtà ad alcun pensiero autenticamente tale).
Alfabeto
È l’insieme dei segni di cui già nell’antichità si sono servite alcune forme di scrittura (→). La
caratteristica delle scritture di tipo alfabetico è che ciascun segno fissa mediante un segno un
determinato suono, ed è quindi sganciato da un proprio significato. Ad averne uno non è il singolo
segno, ma la parola composta da una serie di segni. Il sistema è quindi molto diverso da altri tipi di
scrittura utilizzate nell’antichità, come quella geroglifica o ideografica.
L’alfabeto adottato dai Greci quando compaiono, dopo il periodo del cosiddetto Medioevo ellenico,
i primi documenti scritti è una variante dell’alfabeto fenicio, molto più antico e a sua volta
variamente imparentato con altri alfabeti, come quelli minoici e il miceneo.
Caratteristica dell’alfabeto greco è la presenza di segni che rimandano sia a suoni di consonanti, sia
alle vocali (assenti in quello fenicio); la scrittura va da sinistra a destra. L’enorme complessità della
lingua parlata poté quindi essere resa per iscritto solo mediante l’uso di una ventina di segni. La
flessibilità e praticità del sistema fece sì che esso si diffondesse presto. In Italia venne adottato con
varianti da molte popolazioni, fino ai Romani, il cui alfabeto deriva in effetti da quello greco
(insieme all’etrusco).
Allegoria
L’allegoria è una figura retorica che consiste in una sorta di metafora distesa in forma di racconto:
una narrazione è allegorica quando, al di sotto del suo significato letterale, nasconde significati che
possono essere compresi soltanto attraverso un processo di interpretazione, cioè passando dal piano
superficiale e letterale al piano profondo e nascosto. Il modo in cui debba avvenire questo passaggio
è oggetto di diverse teorie sul cosiddetto metodo allegorico, che nella filosofia greca è stato proposto
per la prima volta in forma compiuta ed esplicita da Filone di Alessandria (→), che lo applica alla
lettura della Bibbia: l’interpretazione del testo letterale e superficiale delle Scritture che consente il
passaggio al livello del significato profondo avviene attraverso l’uso degli strumenti filosofici messi a
punto dalla tradizione greca. Con Filone ha quindi inizio quel percorso che ha consentito il legame
tra filosofia e teologia ebraica, poi cristiana quando il metodo allegorico venne applicato dalla Scuola
teologica di Alessandria (→), di matrice cristiana.
È stato osservato che il metodo allegorico ha dei precedenti nei Sofisti, che interpretano antichi miti
attribuendo loro significati filosofici, ad esempio Prodico (→) con il racconto di Eracle al bivio, o
Protagora col mito di Epimeteo e Prometeo (→) del Protagora platonico. E l’uso stesso dei miti in
Platone rimanda ad un loro significato nascosto. Ma l’accostamento tra queste procedure antiche e
l’allegoria nel senso in cui essa viene utilizzata da Filone è controverso, ed è oggetto di dibattito tra
gli studiosi.
Almagesto
Vedi Tolomeo
Alto / Basso
Questi termini, o altri che indicano egualmente gerarchie spaziali intese in senso proprio o
metaforico (come nelle dizioni superiore / inferiore, lassù / quaggiù, e così via) sono frequentemente
impiegati in filosofia in tre ambiti, che sono distinti anche se hanno connessioni tra loro:
- l’ambito dello spazio fisico, per indicare posizioni nello spazio; qui il problema è determinare se si
tratta di posizioni relative (così, ad esempio nell’atomismo) o assolute (così in Aristotele): vedi su
questo punto la voce Spazio (→);
- l’ambito etico ed estetico, in quelle filosofie che istituiscono gerarchie, e intendono
gerarchicamente i rapporti tra un comportamento e l’altro e, a monte, tra un valore e l’altro
(l’estetica è coinvolta in quelle filosofie che considerano la bellezza un valore); nel contesto di queste
filosofie (ad esempio il platonismo e l’aristotelismo), come in ogni gerarchia, va distinta la posizione
superiore dall’inferiore, e dunque l’alto e il basso sono termini spaziali che, secondo un processo
variamente articolato di metaforizzazione, indicano un certo grado gerarchico; ad esempio in
Aristotele la vita teoretica è più elevata della vita pratica, e in Platone l’anima cerca di elevarsi verso
valori etici superiori;
- un simile linguaggio spaziale è utilizzato anche sulle questioni ontologiche in quelle filosofie (sono
sempre Platone e Aristotele a farlo, e sulla loro scorta Plotino) che gerarchizzano gli enti stabilendo
livelli di realtà o di valore tra essi (spesso in parallelo alle gerarchie di valore definite in ambito
etico); così in Platone le idee sono in alto, i corpi in basso.
In Plotino, su base platonica, ricorre molto spesso l’opposizione tra i termini metaforici quaggiù (la
vita dell’anima nel corpo soggetta al tempo) e lassù (la vita eterna dell’Uno e delle sue ipostasi
eterne).
Per indicare le realtà di lassù una delle parole utilizzate è apekeina, termine che indica una realtà vera
posta al di là, in una trascendenza (→) molto radicale, anche se non assoluta (perché l’anima ha in sé
la via che vi conduce).
Altro
In greco due termini diversi sono tradotti con la parola italiana altro: allos, che indica un altro fra
molti, e heteros, che indica l’altro fra due. Nel Sofista (256d-258c) Platone parla positivamente
dell’esistenza di un non-essere considerato come l’altro dello stesso (autos), ossia dell’Essere: non è
quindi affatto il nulla o una negazione dell’essere. Aristotele insiste sull’alterità delle specie, in
espressioni come «l’altro secondo la specie»: si dice che due cose che hanno questo carattere
appartengono a due specie all’interno dello stesso genere (Metafisica, I, 8)
Il tema dell’alterità assume poi un’importanza centrale nel neoplatonismo, perché l’anima che aspira
a rientrare in sé stessa e ritrovare la via per l’unione con Uno originario deve superare l’alterità tra sé
e le proprie origini.
Amato / Amante
È una distinzione precisa e di grande rilievo per la cultura greca. L’amante (erastes) è l’adulto che ha una
funzione attiva sia dal punto di vista dell’educazione e della guida dell’amato (eromenos), che è ancora un
ragazzo, sia dal punto di vista sessuale. Questa relazione non è quindi tra pari e i ruoli non sono
interscambiabili. In molti passi sia di Platone che di altri si sottolinea che l’amato deve essere un
ragazzo a cui non è ancora spuntata la barba, cioè che non è ancora da considerare una persona adulta.
Su queste nozioni di veda la voce Omosessualità in Grecia (→).
Nell’economia del Simposio platonico – il testo filosofico greco più importante su questo tema - la
distinzione tra amato e amante ricorre continuamente, con la curiosa inversione finale tra Alcibiade
(che in quanto giovane avrebbe dovuto essere l’amato) e Socrate (che è amato da Alcibiade e, secondo
Alcibiade, anche da altri giovani che fa innamorare per poi negarsi).
Anche su Eros le posizioni sono contrastanti: si discute nel Simposio se sia amante (così Diotima) o
amato (così in vari altri discorsi), o presieda alle relazioni d’amore infiammando i cuori sia degli amati
che degli amati.
Amicizia
In greco philia (deriva dal verbo philo, che significa io amo). Oltre al significato proprio c’è un uso
mitico del termine ed uno metaforico in ambiti legati alla fisica e alla metafisica: ad esempio
Empedocle chiama Philia una delle due forze che generano il movimento dei quattro elementi di cui
è composta la realtà, e Platone dà un significato forte all’uso metaforico del termine come
componente della parola philo-sofia (→). In ambiente pitagorico la philia è uno dei tratti che legano
tra loro le parti dell’universo, nel quadro dell’armonia (→) cosmica.
Se il termine è usato in senso proprio, la disciplina filosofica specifica che studia l’amicizia è l’etica.
Presso i Greci è intesa come legame privilegiato tra due o più persone di uguali condizioni: alla base
c’è il comune sentire, positivo gli uni nei confronti degli altri, che nasce tra pari.
Dopo Platone, che ne tratta nel Liside, Aristotele dedica alla virtù dell’amicizia (o meglio,
all’amicizia intesa come virtù: →) una trattazione molto ampia nell’VIII libro dell’Etica Nicomachea
considerandola di notevole importanza ai fini etici, cioè per una concreta vita felice. E lo stesso
interesse è rivolto al tema dell’amicizia dalle scuole ellenistiche, che ne fanno una delle condizioni
della vita felice: così soprattutto in Epicuro, la cui dottrina utilitaristica non ha un carattere
individualistico ma comunitario, perché l’utile dell’uomo passa per quello dei suoi simili, e vivere in
una comunità di amici è l’utile più grande.
Anche se gli Stoici hanno teorizzato il distacco dalle passioni da parte del saggio, hanno tuttavia
dato anch’essi grande valore al rapporto di amicizia tra le persone, non per i suoi aspetti passionali
ed emotivi (da tenere per loro strettamente sotto controllo), ma perché implica la capacità di
superare la propria individualità e godere con l’amico dei comuni beni della mente (così, ad esempio,
in Epitteto, Dissertazioni, II-22).
Philia ed Eros
Tra le nozioni filosofiche greche di philia e di eros (→), termini che rendiamo in italiano con
amicizia e amore, ci sono sia somiglianze che differenze:
- entrambi i termini fanno riferimento sia ad una dimensione cosmica che ad una privata e
personale: nella cultura greca ad essere amici (o in conflitto) sono sia le radici di Empedocle che i
cittadini uguali tra loro nella polis; ad essere legati da rapporti esprimibili in termini di eros sono sia
gli dèi cosmogonici del mito sia due persone innamorate;
- l’amicizia però, sentimento forte e non certo da intendere come un amore depotenziato, è intesa
dai Greci come un legame tra pari, mentre l’Eros è di per sé un rapporto sbilanciato (differenza dei
sessi o differenza tra amante e amato (→), due nozioni greche decisive per intendere la nozione di
amore);
- quanto alla loro radice, quella dell’amicizia è la somiglianza che dà piacere, l’armonia che equilibra
e bilancia; mentre la radice dell’Eros è percepita nella cultura greca come un problema aperto, di
difficile soluzione.
La conseguenza è che l’amicizia per i Greci è sempre desiderabile (concordano, per ragioni diverse,
Platone, Aristotele, Epicuro e altri); l’amore è inquietante e può non essere affatto sempre
desiderabile (si veda su tutti questi temi la voce Eros: →).
Amicus Plato, sed magis amica veritas
Nel Libro I dell’Etica Nicomachea Aristotele, discutendo delle idee platoniche contro cui sta per
enunciare una serie di argomentazioni, scrive che la ricerca è sgradevole perché “sono amici nostri gli
uomini che hanno introdotto la dottrina delle idee. Ma si può certamente ritenere più opportuno, anzi
doveroso, almeno per la salvaguardia della verità, lasciar perdere i sentimenti personali, soprattutto quando
si è filosofi: infatti, pur essendoci cari entrambi, è sacro dovere onorare di più la verità” (Etica Nicomachea,
I, 6).
Questo passaggio aristotelica ha dato luogo ad un motto latino – Amicus Plato, sed magis amica
veritas, cioè Platone è amico, ma è più amica la verità – che sottolinea come per il filosofo la verità
debba venire prima di ogni altra considerazione in ordine ai rapporti personali fra i ricercatori.
Un concetto simile è espresso anche da Platone (Fedone, 91).
Amore
Vedi Eros
Amore e Psiche
Favola ellenistica, che trae i suoi elementi dal materiale etnografico proprio di diversi popoli. Ce ne è
stata tramandata una versione letteraria nelle Metamorfosi di Apuleio, scrittore latino del II secolo d.C.
Amore è il dio greco Eros, innamorato di (e ricambiato da) Psiche, una ragazza che il dio visita ogni
notte. Nei loro amori c’è però un patto: che lei non cerchi mai di vedere il suo volto. Una notte lei non
resiste e accende una candela per vederlo; una goccia di cera cade sul dio addormentato, che si sveglia e
deve fuggir via.
La disperazione di Psiche per la perdita di Amore la porta a superare ogni difficoltà per ritrovarlo, e
dopo molte peripezie riesce nell’intento. Perdonata, Psiche è accolta dagli dèi come sposa di Amore, e
riceve in dono da Zeus l’immortalità.
Come si vede anche da questa favola, in età ellenistica rispetto alla nozione dell’Eros tipica della
tradizione greca dei periodi arcaico e classico si è verificata una netta inversione di tendenza: da forza
cosmica e temibile, l’Eros è divenuto più tenero e tranquillo. In età alessandrina è ancora raffigurato con
l’arco e le frecce, ma è anche visto come un bambino paffuto con le ali, che gioca, e nella favola di
Amore e Psiche è un ragazzo molto bello e delicato.
Amore platonico
In filosofia la dizione amore platonico si riferisce alla teoria platonica dell’amore esposta soprattutto
nel Simposio (→) e nel Fedro (→). Ma nel linguaggio corrente la dizione ha un significato diverso:
indica quelle relazioni d’amore in cui è molto forte il coinvolgimento personale dei due innamorati,
ma senza che a questo corrisponda alcuna relazione di tipo sessuale o più in generale tale da
coinvolgere il corpo (fatta eccezione per lo sguardo).
In realtà in Platone non c’è alcuna teorizzazione di questo tipo di amore, anche se nei gradi
dell’Eros descritti nel Simposio la fisicità e la sfera del sesso viene superata da gradi più alti della
spiritualità. Ma si tratta di stati descritti come successivi, e non indipendenti, rispetto al piano della
fisicità.
Analitica
Aristotele chiama scienza dell’analitica (analytike episteme) quella parte della sua logica che studia
come si giunga ad una data conclusione: analizzandola, si perviene alle condizioni da cui scaturisce,
e quindi alle premesse del ragionamento che con esse si conclude.
In questo senso i trattati in cui studia i processi logici con cui la mente può passare dalle premesse
alle conclusioni e viceversa, cioè in cui sono studiati i sillogismi (→), sono chiamati Analitici Primi e
Analitici secondi.
Analogia
In senso tecnico, il termine analogia (in greco analoghia) in Aristotele indica il fatto che nozioni
diverse vengono utilizzate con una funzione simile, oppure che una stessa parola (ad esempio essere
(→), termine analizzato nel celebre passo del Libro IV della sua Metafisica) è utilizzata in sensi
diversi, collegati peraltro tra loro.
Negli Stoici, in sede logica, lo stesso termine analoghia è utilizzato per indicare uno dei possibili
modi del ragionamento, appunto quello analogico, che passa da una nozione ad un’altra come in
una proporzione matematica (a sta a b come c sta a d).
Analogisti
Col termine analogisti si indicano i filologi e i grammatici alessandrini, e i loro seguaci a Roma
(dagli Scipioni a Cesare, autore di un De analogia), che definirono il principio filologico e
grammaticale dell’analogia come criterio per l’interpretazione dei testi e quindi per il loro studio
filologico.
L’idea di fondo è ispirata ad una filosofia del linguaggio di tipo convenzionalistico. Il linguaggio
umano è interpretato come una convenzione, e quindi come una libera creazione degli uomini, in
contesti storici determinati, che generazione dopo generazione hanno dato ad esso un ordine
riconoscibile attraverso il principio di analogia (→): le parole hanno tra loro precise somiglianze
(analogie di forma), per cui sono riconoscibili i nomi e i verbi; fra i nomi le somiglianze consentono
di definire le declinazioni, fra i verbi le coniugazioni, e così via. È quindi possibile interpretare il
linguaggio sulla base di poche e rigorose regole logiche, costruendo una grammatica che risponda a
criteri scientifici, al pari delle altre scienze che si studiavano ad Alessandria (come la matematica e la
fisica).
Il principio dell’analogia fu alla base del lavoro grammaticale e filologico della Scuola filologica di
Alessandria (→) in contrapposizione al principio di anomalia (vedi Anomalisti: →) propugnato dalla
Scuola filologica di Pergamo.
Anamnesi
Vedi Memoria
Ananke
Vedi Necessità
Anapodittico / Apodittico
Anapodittico (in greco anapodeiktikos) è “termine proprio della filosofia greca, il contrario di
apodittico. Indica quelle tesi e quei principi che non possono essere dimostrati e neppure hanno
bisogno di esserlo, perché immediatamente evidenti. Ad esempio in Aristotele è anapodittico il
principio di non contraddizione, che è un principio primo, non basato su altri e quindi non
dimostrabile, ma allo stesso tempo è di per sé evidente. Dunque i principi anapodittici sono quelli
dalla cui base possono partire le dimostrazioni rigorose” [Pancaldi 2006].
Apodittico (in greco apodeiktikos) significa dimostrativo, e si riferisce a quelle forme di ragionamento
(cioè di sillogismo, per Aristotele, che usa questo termine) che sono dimostrative perché partono da
premesse di accertata verità.
Anax
Il termine anax (o vanax, wanax) in età micenea indicava il sovrano dei Palazzi fortificati. La civiltà
micenea ha dominato il Mediterraneo, tra la Sicilia e le coste dell’Asia, nei due secoli che
intercorrono tra il 1.400 e il 1200 a.C.. Ciascuna città – cioè ciascuno dei Palazzi fortificati dalle
mura ciclopiche – aveva un proprio sovrano: l’anax era a capo di una società aristocratica di uomini
d’arme che lo riconosceva come capo. Sotto di lui c’erano quelli che oggi chiameremmo i suoi
ufficiali, i capi militari che formavano il ceto dirigente, e guidavano gruppi di soldati, a difesa sulle
coste e sul territorio, o in spedizioni lontane, oltremare. Il termine per indicare il loro ruolo è lawos.
A capo di questi ufficiali era il lawagetas, figura intermedia tra il wanax e i lawos. Nel mondo
miceneo compare anche il termine basileus per indicare i compagni d’arme del re (per la storia di
questo termine rimandiamo alla relartiva voce: →).
La figura regale tipica del mondo miceneo scompare nelle epoche successive, mentre l’aristocrazia
finisce per prendere il sopravvento, con il costituirsi quindi di sistemi politici a guida collettiva e non
individuale.
Andronico di Rodi
Di Andronico di Rodi, filosofo greco che fu scolarca del Liceo tra il 78 e il 47 a.C., non conosciamo
né le date di nascita e di morte né le vicende essenziali della vita. La sua figura è importante nel
panorama della filosofia greca soprattutto perché sotto la sua responsabilità venne realizzata
l’edizione degli scritti essoterici di Aristotele, cioè degli scritti destinati alla scuola e non pubblicati
dal loro autore. L’edizione che circolò nei secoli successivi, sia in Occidente che in Oriente – quindi
tanto in ambiente greco e latino, quanto arabo – è quella di Andronico. Il suo lavoro editoriale fu
realizzato anche grazie al lavoro del grammatico greco Tirannione il Vecchio, il cui contributo alla
edizione del corpus aristotelico fu forse però solo indiretto.
Aneddoto
Vedi Racconti filosofici e aneddoti
Anima
Il termine è latino (il corrispettivo greco, il cui campo semantico non è però sovrapponibile, è phyche:
→). I Greci hanno elaborato teorie filosofiche sulla natura dell’anima molto diverse – e spesso
incompatibili tra loro –, ma si basano tutte sulla costatazione che il corpo di qualsiasi vivente è fatto
della stessa materia di cui è fatto qualsiasi corpo inanimato; la vita va quindi spiegata sì in relazione al
corpo, ma come carattere che si aggiunge ad esso. C’è un corpo, e non è vivente; c’è un altro corpo, ed è
vivente. Chiamiamo anima (qualunque sia la teoria che costruiamo per descriverne la natura) la forza
che rende vivente un corpo.
In questo senso qualsiasi vivente ha un’anima, perché è vivo: potremo ad esempio usare l’espressione
anima vegetativa per indicare la forza che rende viva una pianta e le consente di nascere da un seme e di
crescere traendo energia e nutrimento dalla luce solare e dal terreno; o anima sensitiva per indicare la
forza che consente a qualsiasi animale (in modi peraltro notevolmente diversi) di conoscere
sensibilmente il mondo esterno e orientarsi in esso; o di anima razionale per indicare l’energia psichica
che consente all’uomo di pensare in termini astratti e persino indipendenti dalla realtà esterna.
I problemi filosofici sull’anima
Un primo problema filosofico generale sull’anima (di qualsiasi vivente) riguarda la sua natura, cioè la
risposta alla domanda: che cos’è un’anima? o, il che è in fondo lo stesso, che cos’è la vita rispetto alla
materia inorganica? Infatti, abbiamo molta esperienza della vita, ma non abbiamo alcuna esperienza
della nascita (in senso assoluto) della vita: qualsiasi vivente nasce infatti da un altro vivente. Dunque, che
cosa rende animato un corpo? e da dove ha origine questa forza? Su questo punto si veda la voce Vita (→).
Poiché la vita individuale ha termine, l’anima appare mortale, e anzi la morte potrebbe essere definita
proprio come cessazione della vita dell’anima più che del corpo, perché gli elementi che compongono il
corpo continuano nel loro ciclo di trasformazioni naturali. E tuttavia il corpo di un vivente è diverso dal
corpo di un non vivente, perché possiede una sua specifica e autonoma organizzazione interna che un
corpo non vivente non possiede più (o, se è un corpo inorganico, non ha mai posseduto). Ora, l’anima
possiede una sua identità indipendentemente dal corpo, o è solo un carattere di quella sua particolare
forma organizzativa che chiamiamo vita?
Quest’ultima domanda acquista un particolare significato per l’uomo, che possiede una capacità di
pensiero che lo porta a poter vivere anche in una sfera del reale che è indipendente a quella del mondo
esterno (ad esempio l’uomo può pensare realtà astratte come gli enti matematici – astratte nel senso che
non esistono come tali nel mondo materiale –, può pensare il passato che non ha vissuto e il futuro che
non si sa se vivrà mai). Se l’anima dell’uomo, o una sua parte, avesse una sua identità indipendente dal
corpo e non fosse solo una sua forma organizzativa, allora potrebbe in linea di principio sopravvivere al
corpo. È il problema dell’immortalità dell’anima.
Collegati a questi, ci sono anche i problemi studiati dalle teorie della conoscenza (→) perché è l’anima
dell’uomo (e di altri viventi in altre forme) la sede della conoscenza (in quest’uso il termine psyche
corrisponde all’italiano mente).
Le teorie filosofiche sull’anima
Le teorie filosofiche che sono state elaborate sulla natura dell’anima, da cui dipende la soluzione di tutti
i problemi che abbiamo sommariamente posto, sono relativamente poche per la filosofia antica. In
estrema sintesi:
- una antichissima teoria sostiene che tutta la natura è vivente (per i primi filosofi naturalisti greci si
parla di ilozoismo: →), e quindi la vita individuale è un frammento della vita universale; la distinzione
tra materia non vivente e materia vivente è fittizia, perché in realtà tutta la materia è vivente e la vita è
una forza naturale, in sé indistruttibile ed eterna, che permea tutto; oltre ai primi filosofi naturalisti
questa teoria è sostenuta soprattutto dagli Stoici e – con una diversissima concezione della materia – da
Plotino, che ammette quindi l’esistenza non solo delle anime individuali ma anche di un’Anima del
Mondo;
- una altrettanto antica teoria (forse più antica, ma su questo punto le ipotesi divergono) è di matrice
religiosa e non filosofica, e propone l’idea che l’anima sia un’entità individuale di per sé del tutto
separata dal corpo (l’Orfismo ad esempio parla dell’anima come di un demone: →); questa teoria è stata
ripresa da diverse filosofie tra il VI e il V secolo a.C. (i Pitagorici, Empedocle) e poi da Platone, e su
questa base sono stati cercati argomenti a favore dell’immortalità dell’anima, nel contesto della teoria
della trasmigrazione delle anime (metempsicosi: →) o in contesti diversi;
- una terza teoria, sviluppatasi nell’età che intercorre tra Democrito, Aristotele ed Epicuro, concepisce
l’anima dell’uomo come un carattere stesso del corpo (la sua forma, secondo Aristotele) o come un
corpo più sottile connesso al corpo umano; dà quindi dell’anima una descrizione e una spiegazione in
termini rigorosamente biologici;
- una quarta teoria, diffusa in ogni epoca tra i sofisti e l’età degli scettici, è in realtà una non-teoria
perché sostiene l’impossibilità di sapere che cos’è l’anima, e quindi se è mortale o immortale, traendo da
questo importanti conseguenze di tipo morale.
Anima del Mondo
Che il mondo abbia un’anima (la dizione greca è megale psyche) è tesi che va ricondotta alla
definizione di anima come principio di vita: dire che il mondo ha un’anima – non quindi
individuale, ma cosmica – significa dire che il mondo è vivente.
La concezione dell’universo fisico come di un “grande animale” (cioè un essere vivente) risale
all’ilozoismo (→) tipico dei primi filosofi naturalisti. poi la nozione di Anima del Mondo si precisa a
partire da Platone, che nel Timeo la concepisce con carattere geometrico nel contesto però di un
racconto mitico.
A dare una interpretazione scientifica della nozione di Anima del Mondo sono soprattutto gli Stoici,
che concepiscono l’universo fisico come un tutto vivente governato dal Logos che opera dall’interno
attraverso il pneuma (→). L’obiettivo degli Stoici è di dare una lettura scientifica della struttura della
materia e dei processi naturali mostrando che il modello meccanico e materialista degli atomisti (e
quindi della scuola rivale, quella epicurea) è incapace di spiegare la vita che permea la materia
dall’interno.
Una lettura platonica, ma non mitica, è offerta da Plotino, che concepisce l’Anima del Mondo come
la terza ipostasi, dopo l’Uno e l’Intelletto. La sua teoria applica i principi stoici (a proposito della
caratteristica essenzialmente vivente della realtà) alla visione platonica.
L’ipotesi greca dell’esistenza di un’Anima del Mondo venne esaminata, e scartata, dagli scienziati
europei del Seicento al tempo della rivoluzione scientifica moderna (ad esempio Newton).
Animale politico, animale razionale
Con queste dizioni (politikon zoon, loghikon zoon) Aristotele si riferisce all’uomo. Le utilizza
abitualmente (si veda, ad esempio, Politica I-2; III-6; Topici 5-2) come nozioni ovvie, che
appartengono ad una tradizione non contestata: e in effetti che l’uomo sia un animale razionale è
definizione che si trova in Platone, nei Sofisti, negli Stoici, e così via; che sia politico per natura, non
è contrario alla maniera di sentire greca, ma è concezione specifica di Aristotele.
Vanno sottolineate due cose:
- il fatto che l’uomo sia un animale, cioè sia un essere vivente dotato di vita cosciente (in questo
senso si parla di anima: →), assimilabile in quanto tale al mondo complessivo degli esseri viventi,
con un radicamento in natura molto forte nel pensiero greco, è concezione indebolita nella filosofia
tardo-antica;
- il fatto che la razionalità, che non appartiene a nessun altro essere vivente di cui si possa fare
esperienza, caratterizza l’uomo nella sua specifica natura, e così l’essere politico, cioè il fatto di essere
un ente portato alla vita in una società con i suoi simili: il mondo degli dèi e del divino è quindi, in
linea di principio, escluso, ma il problema è posto perché anche gli dèi sono concepiti come esseri
razionali anche se non sempre “politici”.
Anomalisti
Col termine anomalisti si indicano i filosofi del linguaggio (soprattutto stoici, come Crisippo (→) e i
filologi (soprattutto quelli della Scuola filologica di Pergamo (→) come Cratete di Mallo) che a
partire dal III secolo a.C. si contrapposero alle teorie linguistiche e filologiche della Scuola di
Alessandria (vedi Analogisti: →).
Gli anomalisti devono questo nome al fatto di avere sottolineato la grande quantità di anomalie
nella lingua, che rendono impossibile definire regole prive di eccezioni o spiegare come mai si usino
parole diverse per indicare uno stesso oggetto o la stessa parola per indicare oggetti diversi. La loro
tesi è questa, che le anomalie dipendono dal fatto che il linguaggio non è una convenzione (così la
consideravano gli analogisti), ma un prodotto della natura. Soltanto la consuetudine spiega quindi le
caratteristiche di ciascuna lingua, e non una qualche regola logica definibile in termini astratti.
Antenore
In Omero, Antenore è un uomo anziano e molto saggio, consigliere di Priamo a Troia. Prima della
guerra era stato in rapporti amichevoli con alcuni capi greci, e aveva accolto nella sua casa Menelao e
Ulisse, giunti a trattare le controversie poi sfociate nell’assedio. Dà spesso consigli di moderazione ai
Troiani, e viene risparmiato dai Greci al momento del sacco della città (sulla sua casa viene appesa una
pelle di leopardo come segnale).
Antenore è legato all’Italia, perché insieme con i figli si sarebbe stabilito nella valle del Po dopo la
distruzione di Troia, dando origine alla popolazione dei Veneti.
Antioco di Ascalona
Filosofo greco vissuto tra il II e il I secolo a.C. (conosciamo con certezza solo la data della morte, il
68-67 a.C.), è espressione della cosiddetta Accademia (→) nuova.
Allievo di Filone di Larissa (→), Antioco ebbe una propria scuola platonica ad Atene, dove nel 7978 a.C. ebbe tra i suoi uditori Cicerone, con cui entrò in rapporti d’amicizia. Da Cicerone
(Academica, II; Brutus, 315, De finibus, 5) e da altre testimonianze sappiamo che si discostò dalle
tendenze scettiche dell’Accademia di mezzo ed anche dalle dottrine di Filone, per propugnare un
ritorno al platonismo dell’antica Accademia, interpretato in modo da risultare coerente con elementi
qualificanti dell’Aristotelismo e dello Stoicismo.
Le sue opere sono perdute. Gli storici della filosofia, sottolineando la sua vicinanza allo Stoicismo,
tendono a considerare il suo pensiero un esempio delle tendenze della sua epoca verso l’eclettismo
(→).
Anticipazione
Vedi Prolessi
Antifonte il Sofista
Ci sono rimasti scarsi frammenti di questo filosofo, attivo nella seconda metà del V secolo a.C. ad
Atene, che non va confuso con l’Antifonte logografo che negli stessi anni, sempre ad Atene, fu il
retore che per primo fissò nella prosa attica il carattere dell’oratoria giudiziaria.
Di Antifonte il Sofista non conosciamo le date di nascita e di morte, ma sappiamo che appartenne
alla generazione successiva al maestri della prima sofistica, in particolare Protagora e Gorgia, la cui
visione filosofica radicalizzò. Antifonte infatti, insieme con Crizia (→) ed altri, appartiene alla
cosiddetta Sofistica radicale (→), che pose a tema la questione del rapporto nomos/physis (→).
Antifonte considera i dettami della natura umana in generale, e gli impulsi che l’individuo sente in
sé per la sua specifica natura, come più importanti della legge della polis. Le leggi che regolano la
comunità sono quindi presentate negativamente, se si oppongono alla vitalità della natura dei
cittadini.
Aristotele attribuisce ad Antifonte anche ricerche di tipo matematico: fu il primo a tentare di
risolvere il problema della quadratura del cerchio.
I titoli che ci sono stati tramandati delle sue opere sono i seguenti: Sulla verità, Sulla concordia, Sullo
statista, Sull’interpretazione dei sogni.
Antigone
È una delle più celebri figure femminili del mito greco. Protagonista dell’omonima tragedia di
Sofocle (vedi Antigone: →), Antigone è figlia di Edipo (→) e sorella di Ismene, Polinice ed Eteocle.
Sulla madre le tradizioni divergono: le tradizioni più antiche la dicono figlia di una principessa del
popolo dei Flegei, in Beozia; le tradizioni più recenti la dicono figlia di Giocasta, sposa di Edipo a
Tebe e, senza che i due coniugi lo sappiano, sua madre oltre che sua sposa.
Quando Edipo scopre la verità, e lascia Tebe dopo essersi accecato, Antigone lo accompagna nel suo
peregrinare e lo assiste nel momento della morte, avvenuta a Colono in Attica. Tornata a Tebe,
fidanzata di Emone, il figlio del re Creonte, si suicida in seguito a eventi drammatici narrati da
Sofocle nella tragedia Antigone (→), alla cui trama rimandiamo.
Antigone
Titolo di una tragedia di Sofocle (→). L’Antigone costituisce una delle tragedie più discusse,
interpretate, rilette, riadattate degli ultimi secoli. Grande interprete della tragedia fu Hegel, che
all’inizio dell’Ottocento vide nell’opposizione tra i due personaggi lo scontro tra l’imperativo morale
interno e la famiglia (Antigone) e la legge esterna della polis (Creonte). L’opera fu rappresentata per
la prima volta ad Atene nel 442 a.C.; appartiene al ciclo dei drammi tebani che, insieme all’Edipo re
e all’Edipo a Colono, mette in scena la drammatica sorte di Edipo, re di Tebe, e dei suoi discendenti.
La protagonista è Antigone, figlia del re Edipo, e sorella di Eteocle e Polinice. I due fratelli si sono
uccisi, il primo mentre tentava di assaltare Tebe, il secondo – che vi regnava – mentre la difendeva.
Nuovo re è divenuto Creonte, fratello della madre di Antigone, Giocasta, il quale ha vietato di dare
sepoltura al corpo di Polinice, in quanto questi ha combattuto contro la patria ed è quindi un
traditore. Il corpo rimarrebbe quindi alla mercé delle fiere, un abominio per le convinzioni dei
Greci. Antigone però non accetta il divieto: se Creonte agisce così in difesa della legge e contro il
rischio del disordine nella città, Antigone ritiene che vadano salvaguardate e rispettate le leggi non
scritte, ma più alte, degli dèi e dei vincoli di sangue.
Antigone espone la propria decisione alla sorella Ismene che tenta invano di dissuaderla. Arriva
quindi una guardia che riferisce che il corpo di Polinice è stato simbolicamente sepolto con un velo
di polvere. Creonte, furioso, ordina di cancellare l’oltraggio che ha violato la sua legge e di trovare il
colpevole di tale atto. Il coro riflette sull’azione di un uomo che vuole subordinare l’intero universo
al suo dominio, ma Creonte impone il silenzio. La guardia conduce Antigone al cospetto del re; i
due sono ora l’uno di fronte all’altra, incapaci di comprendersi, rappresentando due opposte ragioni:
Antigone quelle dell’amore per il fratello e del rispetto delle leggi divine, Creonte quelle dell’ordine
della città. La punizione per la donna è terribile: essere sepolta viva in una caverna, allontanata dalla
città. Neppure il fidanzato Emone, figlio di Creonte, riuscirà a convincere il padre a cambiare la
decisione presa. Antigone è così condotta al tremendo sepolcro mentre il coro canta la forza
dell’amore. Nonostante la terribile sofferenza a cui va incontro, Antigone rimane fedele al suo
proposito: “Potevo io, per paura di un uomo, dell’arroganza di un uomo, venir meno a queste leggi
davanti agli dei? Ben sapevo di essere mortale, e come no?, anche se tu non l’hai decretato, sancito! Morire
adesso, prima del tempo, è un guadagno per me. Chiunque vive fra tante sciagure, queste in cui vivo io,
continue, come potrà non ritenersi fortunato, contento, se muore? Subire la morte quasi non è un dolore, per
me. Sofferto avrei invece, e senza misura, se avessi lasciato insepolto il corpo morto di un figlio di mia
madre. Il resto non conta nulla”. Antigone si dirige così verso la caverna.
A questo punto inizia la tragedia di Creonte su cui si scaglierà la punizione divina. Tiresia
l’indovino consiglia a Creonte di permettere la sepoltura di Polinice per evitare l’ira degli dèi. Il re,
anche se con difficoltà, accetta ma quando decide di liberare Antigone, scopre che questa si è uccisa;
alla vista del padre anche Emone si dà la morte. Appresa tale notizia, si uccide anche Euridice,
moglie del re. A Creonte, che prende il cadavere del figlio tra le braccia, non rimane che la
disperazione.
Antistene
Filosofo greco nato e vissuto ad Atene circa tra il 436 e il 366 a.C., Antistene dovette formarsi negli
ambienti della sofistica attivi in città e fu forse in contatto diretto con Gorgia. Era comunque uno
dei giovani che seguivano Socrate nella sua attività filosofica, e dopo la morte del maestro fu lui a
fondare quella Scuola cinica (vedi la voce Cinici: →) la cui vita, tra alterne vicende, si sarebbe
protratta fino al II secolo d.C.
Antistene sviluppò l’insegnamento socratico in una direzione opposta a quella di Platone: sua è la
celebre frase, in polemica con Platone, “Vedo il cavallo, non la cavallinità”, per indicare il fatto che i
concetti non hanno alcuna validità reale: l’intera sfera dell’esperienza e della conoscenza non esce
dalla sfera della soggettività, e non accede ad alcuna superiore verità oggettiva.
In sede etica fu Antistene ad avviare quella riflessione sulla semplicità dei bisogni naturali dell’uomo
che portò i successori della scuola (in particolare Diogene di Sinope: →) ad atteggiamenti di aperta
contestazione delle convenzioni sociali, in nome delle esigenza di piena e individuale autosufficienza
che ci rende liberi.
Quale fosse però il contesto unitario della sua filosofia, al di là di questi temi che gli vengono
attribuiti, è difficile dire perché delle sue opere non è rimasto quasi nulla, se non scarsi frammenti.
Ci viene tramandato che abbia anche composto dialoghi.
Antilogia
Dal greco anti (contro) e logos (qui nel senso di discorso), una antilogia nasce dall’accostamento di
due termini, o due frasi, o due discorsi contrapposti, tra cui una mente razionale non ha possibilità
di decidere a quale dare il proprio assenso.
Erano di questo tipo i discorsi contrapposti della tradizione retorica: la tecnica consisteva nel
produrre, con metodo, su qualsiasi tema argomenti a favore e argomenti contro, con l’obiettivo di
acquisire la capacità di rendere più forte il discorso più debole.
Nelle filosofie ellenistiche le antilogie sono uno dei tropi (→) dei filosofi scettici: tra due
proposizione contrarie e di egual valore che è sempre possibile enunciare su qualsiasi argomento gli
scettici dicevano che era necessario non affermare la verità né dell’una né dell’altra.
Antropomorfismo
Il termine è composto dalle parole greche anthropos (uomo) e morphe (forma): è la tendenza,
denunciata per la prima volta con forza da Senofane, che porta l’uomo a concepire gli dèi a propria
immagine e somiglianza.
Più in generale, la visione antropomorfa della natura porta a considerare i fenomeni naturali come
espressione di una volontà personale, o come manifestazioni di una intelligenza simile a quella
umana.
Apatia
In greco pathos (→) è la passione, l’apatia (apathia) è la vita condotta senza subire il dominio delle
passioni (letteralmente apathia significa senza passione).
Il significato di apathia, termine usato in senso tecnico dalle scuole ellenistiche, è molto lontano dal
significato corrente del termine italiano apatia, che indica una tendenza all’inazione e una incapacità
di reagire agli eventi. Nella filosofia greca l’apathia è invece il carattere dell’uomo saggio che sa
governare con razionalità la propria vita senza lasciarsi condizionare dalle proprie passioni, e ne è
quindi libero. In questo senso tecnico l’apatia non implica mancanza di azione; anzi, può essere una
delle condizioni per un’azione efficace, razionale e libera.
Questa nozione, particolarmente importante per lo Stoicismo, non è esclusiva di questa scuola, ma
trova concordi varie tendenze dell’etica dell’epoca ellenistica. Anche la scuola cinica, ad esempio,
aderì all’ideale dell’apatia.
Apeiron
Vedi Infinito / Indeterminato
Apollo
Divinità tra le più importanti del pantheon greco, figlio di Zeus, Apollo è il dio associato alla luce,
alla musica (la lira è il suo strumento, in opposizione al flauto dionisiaco), all’ispirazione poetica, e
quindi alla sapienza. Per questa ragione è il dio a cui più spesso i filosofi si sono richiamati, insieme
con Atena. Nonostante queste associazioni, è un dio capace di dare la morte con il suo arco e la sua
freccia, nonché un dio capace di crudeli vendette. La sua sapienza, la sua bellezza – è rappresentato
come un giovane dalle forme abbaglianti, tipiche della statuaria classica – e il suo amore per le arti
non ne fanno per nulla un dio pacifico e poco vendicativo.
Identificato con il Sole, e quindi con la luce reale ma anche con quella metaforica dell’intelligenza,
in quanto dio della sapienza è a lui che le comunità greche si rivolgono per averne responsi: il suo
santuario a Delfi (→) è una delle istituzioni panelleniche più importanti. È da lui che provengono
alcuni degli impulsi più importanti nel processo di civilizzazione dell’uomo: è Apollo ad ispirare e
poi ad approvare i codici legislativi delle città (attraverso i responsi del suo oracolo), e a lui che ci si
rivolge per averne alti principi morali e civili, e quindi filosofici.
Apollodoro
Apollodoro è un allievo di Socrate, e lo troviamo in tre dialoghi di Platone: nel Simposio è il narratore,
nell’Apologia di Socrate è citato da Socrate stesso come uno di coloro che sono disposti a farsi per lui
garanti del pagamento di una multa; nel Fedone è il discepolo che scoppia in lacrime nel momento in
cui Socrate beve la cicuta e si avvia quindi alla morte. L’immagine è quella di un amico e seguace molto
vicino ed affezionato, il che corrisponde alla presentazione che il personaggio Apollodoro fa di se stesso
all’inizio del Simposio.
Apologia
Vedi Encomi e apologie
Aponia
È termine epicureo. L’aponia (così in greco) è lo stato di perfetta quiete del corpo e della mente,
quando non mancano di nulla e quindi godono di un piacere pieno che rende la vita felice. Il
termine, pur negando qualcosa – significa letteralmente non soffrire -, indica una realtà positiva (cioè
il puro piacere di vivere) perché per l’epicureismo il piacere è connesso alla vita stessa, a condizione
che non manchi di nulla.
Aporetici [Dialoghi]
Sono così chiamati i primi dialoghi di Platone, il cui personaggio principale è Socrate. La loro
specifica caratteristica è che si concludono, dopo complesse indagini dialettiche, senza mettere capo
ad una specifica teoria sulle questioni trattate.
In questi dialoghi aporetici (così chiamati con riferimento alla nozione di aporia: →) Socrate con i
suoi interlocutori va alla ricerca della definizione di un concetto (mediante la risposta alla domanda
"Che cos'è…?") senza che sia possibile giungere a una conclusione univoca. Si tratta dunque di
dialoghi, e quindi di ricerche filosofiche, la cui conclusione è aperta. Sono stati interpretati sia come
dialoghi giovanili, in qualche modo preparatori alle ricerche della maturità di Platone, sia come
esercizi di tipo dialettico utili alla formazione del filosofo.
Aporia
In riferimento a determinati e complessi ragionamenti, in greco si usa la parola aporia (il verbo
aporein significa essere incerto) per indicare la difficoltà razionale a pervenire a una soluzione dei
problemi studiati (la nozione è affine a quella di paradosso: →).
Il carattere proprio dell’aporia è quindi il dubbio che la conclusione a cui porta un determinato
ragionamento non sia corretta e nasconda un errore che tuttavia, ripercorrendo il ragionamento, non
si trova.
In questo senso gli argomenti di Zenone di Elea contro il movimento sono abitualmente indicati nel
loro complesso come Aporie di Zenone (vedi ad esempio la voce Achille e la tartaruga: →)
Poiché l'aporia sviluppa una chiara coscienza dei problemi, è uno strumento contro il dogmatismo
ma anche, allo stesso tempo, espressione della difficoltà della ragione di interpretare ogni aspetto
della realtà.
Apparenza
Utilizziamo il termine italiano apparenza per tradurre più di un termine greco, da dokein a
phainesthai, a phainomenon (che rendiamo anche con fenomeno). Il contesto è quello del “problema
della conoscenza e delle riflessioni sulla natura della cose che ne conseguono. All'interno della
relazione tra il soggetto che conosce e l'oggetto sensibile conosciuto, il termine apparenza (dal latino
tardo apparentia, legato al verbo apparere, apparire) designa l'oggetto nella sua semplice
presentazione al soggetto, prima di ogni indagine filosofica. Il concetto rimanda all'idea che
l'apparenza - e quindi ciò che il soggetto percepisce dell'oggetto - non sia affatto la vera realtà della
cosa, e che l'indagine debba continuare per passare dal piano superficiale del conoscere senza
adeguata riflessione alla problematizzazione sul sapere e sulle condizioni che ne consentono la
validità. Il concetto di apparenza è quindi studiato da tutte le teorie della conoscenza. È legato ad
altri concetti, con cui può sovrapporsi, come quello di fenomeno (→).
È importante osservare che il termine apparenza rimanda, da un lato, ad un soggetto (il fatto che
qualcosa appare implica che vi sia qualcuno a cui appare), dall’altro ad un oggetto (qualcosa che
appare).
Il problema decisivo è quello del rapporto tra l’apparenza e la verità. Infatti
- l’apparenza può nascondere la verità, ed anzi sostituirsi ad essa, apparire essa stessa come vera (e in
questo modo si apparenta all’inganno);
- l’apparenza può al contrario rivelare la verità, come un sintomo rivela la malattia (e in questo
modo piuttosto che apparentarsi all’inganno è una via per ricercare la verità).
Andare al di là dell’apparenza significa quindi utilizzare ciò che essa rivela per ottenere, mediante
diverse vie di indagine (nei limiti delle possibilità dell’uomo), la conoscenza della vera realtà di ciò
che appare. Questo implica necessariamente non solo un lavoro di indagine sull’oggetto che appare,
ma anche sul soggetto per cui appare. I limiti dell’apparenza (ciò che essa nasconde) potrebbero
infatti dipendere dai limiti della capacità di conoscenza del soggetto” [Pancaldi 2006].
Nella filosofia greca il problema dell’apparenza è stato posto per la prima volta, e in modo radicale,
da Parmenide, che nel suo poema riceve dalla dea l’invito a non prestar credito alle cose apparenti e a
seguire piuttosto la via della verità. Il tema è stato poi trattato in tutto lo sviluppo della filosofia
greca.
Arcesilao di Pitane
Filosofo greco, Arcesilao di Pitane (315-241 a.C. circa) intorno al 265 a.C. divenne scolarca
dell'Accademia, alla quale impresse una direzione scettica. Affidò le sue dottrine esclusivamente
alla tradizione orale e il suo pensiero ci è quindi noto attraverso le testimonianze di Cicerone e di
Sesto Empirico.
Il suo scetticismo non derivava da quello di Pirrone, con cui pure aveva diversi punti di contatto,
ma da una ripresa delle tematiche scettiche presenti dapprima in Socrate, poi in Platone. Deriva
quindi dallo stesso metodo dialettico di ricerca della verità proprio della sua scuola: non è forse vero
che Socrate non ha voluto insegnare nulla perché riteneva di non sapere nulla, se non l'aver
coscienza di non sapere? E il metodo di ricerca socratico applicato nei dialoghi platonici non porta
forse a progressive scoperte che non giungono tuttavia mai ad un sapere davvero definitivo? Non è
Platone a parlare del filosofo come amico della sapienza piuttosto che come sapiente e a sottolineare
l'incertezza di ogni forma di conoscenza della realtà fisica, perché fondata sulla sensibilità?
Quella di Arcesilao era quindi un’interpretazione radicale della dottrina di Platone che riprende la
visione socratica della filosofia come ricerca della saggezza, ammettendo con franchezza i limiti
della conoscenza umana.
Per Arcesilao, quindi, la saggezza non consiste - come per le scuole ellenistiche - nel possedere la
verità e nell'adeguamento della condotta di vita ad essa, quanto nella libertà dall'errore.
Il filosofo è quindi innanzitutto un dialettico, un uomo, cioè, che sviluppa il metodo socratico per
mostrare attraverso la contrapposizione delle opinioni il limite della conoscenza. L'Accademia si
muove così sulla via indicata da Socrate con la sua interpretazione dell'invito del dio Apollo
all'uomo: "Conosci te stesso!"; impara, cioè, a conoscere i tuoi limiti attraverso un rigoroso esame
della tua coscienza.
Arche
Benché il termine sia in genere riferito solo ai primi filosofi naturalisti, il problema definito dal
termine arche (origine, principio) è proprio di tutta la storia della filosofia, fino alle ricerche del XXI
secolo. Si tratta infatti di capire, se l’universo ha una origine, qual è questa origine; se non ce l’ha,
come possa spiegarsi la estremamente complessa configurazione della realtà.
Riferito ai primi filosofi, il termine arche indica la particolare curvatura che loro hanno dato al
problema, ed è per questa specificità che la parola si utilizza in filosofia in riferimento a loro (sembra
sia stato Anassimandro il primo ad usarla, ed è Aristotele che nel Primo Libro della Metafisica
ricostruisce la storia del problema e delle teorie proposte come soluzione, prima della sua).
I naturalisti, infatti, non hanno inteso l’origine soltanto come il momento d’inizio da cui lo sviluppo
dell’universo avrebbe preso le mosse, ma anche come il principio attivo che è ancora adesso (molto
dopo l’inizio) alla base della trasformazione incessante della natura.
Per risolvere il problema dell’arche i filosofi naturalisti hanno quindi dovuto non solo identificare
uno o più elementi da cui ha preso le mosse la storia dell’universo (cioè di quella che i Greci
chiamano physis), ma anche spiegare come questa origine si è poi prolungata nelle attuali leggi che
lo reggono.
L’arche è stato quindi concepito:
- come un elemento originario che ha in sé il principio che spiega perché l’universo è ordinato:
l’acqua di Talete, l’Apeiron di Anassimandro, l’aria di Anassimene, il fuoco-Logos di Eraclito, il
numero di Pitagora;
- come un insieme di elementi originari che non hanno in sé il principio che spiega l’ordine
dell’universo, e sono quindi associati a forze che pongono ordine (o disordine): le quattro radici di
Empedocle connesse con Amicizia e Contesa, o le omeomerie di Anassagora connesse con la Mente,
Nous.
Nelle filosofie successive (l’età di Platone e di Democrito, poi di Aristotele e delle scuole
ellenistiche) il problema è reimpostato in modo diverso: non si cerca più un elemento originario, ma
una spiegazione complessiva dell’universo attuale, spesso concepito privo di origine ed esso stesso
eterno (Aristotele, Democrito, Epicuro) o rinascente ciclicamente dalle proprie ceneri (Stoicismo), o
legato a un diverso ordine di realtà (Platone, Plotino).
Archetipo
Vedi Modello
Archita di Taranto
Vissuto circa tra il 430 e il 360 a.C., Archita di Taranto fu un filosofo pitagorico di cui non ci
rimangono le opere, se non per frammenti brevi in numero esiguo. Sappiamo però che fu in
contatto con Platone, che fu a Taranto presso di lui nel suo primo viaggio in Magna Grecia, e con
lui ebbe relazioni di amicizia e di ricerca anche nel periodo dell’Accademia.
Benché si sia occupato di molte questioni filosofiche e tecniche (di tipo matematico, musicale, e di
altro ancora nel contesto del pitagorismo), Archita non fu solo un filosofo, ma anche un uomo
politico al vertice del potere nella polis di Taranto.
Areopago
È il tribunale ateniese che si occupa dei delitti di sangue e di empietà. Aveva la sua sede in una
collinetta nei pressi dell’Acropoli, da cui prendeva il nome, che letteralmente significa Colle di Ares.
L’istituzione del Tribunale era infatti legata a un episodio che aveva come protagonista questo dio,
che un giorno ai piedi di questa collina uccise Alirrozio, figlio di Poseidone e della ninfa Eurite,
colpevole di un atto di violenza nei confronti di Alcippe, figlia di Ares. Il mito racconta che
Poseidone portò Ares a giudizio davanti agli dèi olimpi, che si riunirono per giudicare nella stessa
collina in cui erano avvenuti i fatti, assolvendo Ares.
Altre tradizioni collegano l’origine di questo tribunale ad Atena (si veda, ad esempio, la trama delle
Eumenidi di Eschilo: →)
Nella storia, si tratta della prima e antichissima istituzione pubblica ateniese, con un carattere
fortemente aristocratico: originatosi dal consiglio degli anziani dei primi secoli dopo il Mille a.C.,
era composto da membri della nobiltà eletti a vita ed esercitava sulla città un potere notevole, di
fatto controllando la vita pubblica fino alle riforme del VI secolo a.C., da Solone all’istituzione della
democrazia.
Nell’Atene democratica del V secolo il suo ruolo era molto ridotto, limitandosi a giudicare
particolari delitti, e tale rimase per tutta l’età classica. Ma ancora in età ellenistica e romana
l’Areopago era in grado di esercitare i suoi poteri, mantenendo il prestigio di una antica e venerabile
istituzione.
Ares
Figlio di Zeus e di Era, è il dio della guerra (i Romani lo identificheranno con Marte). Nel mito è
accompagnato da due figure divine, Deimos e Phobos (letteralmente, Paura e Terrore): sono suoi figli
e suoi scudieri (la loro madre è Afrodite, di cui Ares è amante).
In quanto dio della guerra, dovrebbe essere invincibile, ma nella mitologia greca altri dèi oltre ad
Ares hanno capacità militari, dallo stesso Zeus ad Athena, che incarna sia la saggezza che la forza.
Così in molti racconti mitologici è Ares ad avere la peggio quando si scontra contro questi dèi.
Arete
Traduciamo questo termine con virtù, ma la resa italiana è in parte fuorviante perché non esiste
nella nostra lingua un preciso corrispettivo. In italiano virtù è un concetto morale, mentre nella
tradizione greca questa connotazione morale per il termine arete giunge tardi (non prima dell’età di
Socrate e di Platone) senza però soppiantare del tutto il significato originario.
Il significato del termine
Nella concezione tradizionale greca infatti l’arete è la capacità di un uomo (ma anche, per
estensione, di un animale) di svolgere al meglio il ruolo che la natura, la tradizione o la società gli
assegnano: ad esempio per un artigiano o per un mercante è la capacità di svolgere al meglio il
proprio lavoro; per l’educatore, o la madre, o la moglie, o per qualsiasi figura privata, è la capacità di
comportarsi in modo che i compiti che la società assegna a ciascuno siano svolti nel migliore dei
modi. Si parla quindi, al limite, dell’arete di un ladro, se è bravo a rubare.
Quando si fece strada nella cultura greca l’idea che il bene sia un valore superiore, indipendente
dall’uomo e oggettivamente fondato su uno strato profondo dell’Essere, la nozione di arete acquisì
una connotazione etica e passò ad indicare la capacità dell’uomo di seguire il bene e fuggire il male.
Ma su cosa fossero in concreto il bene e il male, e quindi sulla definizione concreta di virtù, le scuole
filosofiche si diversificarono notevolmente (vedi la nozione di Bene: →).
I problemi filosofici
Tra l’età di Socrate e quella di Platone il problema centrale relativo alla nozione di arete è proprio la
sua definizione:
- che cosa si debba intendere per virtù sia in generale, sia negli specifici casi in cui la virtù gioca un
ruolo nei rapporti umani (il tema è connesso alla definizione del bene: →);
- se la virtù sia una sola, o se ciascuna virtù sia qualcosa di separato dalle altre;
- se la virtù sia insegnabile, e quindi quali debbano essere le forme organizzative della paideia greca.
Su quest’ultimo punto, come del resto sugli altri, Platone (e il personaggio-Socrate nei suoi
dialoghi) conduce un serrato confronto con i Sofisti (ad esempio nel Protagora è esaminata la
questione se una specifica virtù, quella politica, sia insegnabile come sostiene Protagora).
Tra l’età di Aristotele e quella delle scuole ellenistiche il problema della identità della virtù è posto
in termini etici in stretto rapporto con la visione dell’uomo: l’arete è da tutti intesa come la capacità
dell’uomo di essere pienamente se stesso, e quindi che cosa sia la virtù dipende dal modo in cui la
vera è realtà dell’uomo è concepita. Così l’analisi aristotelica delle virtù si lega alla sua visione
dell’uomo come animale sociale e razionale, l’analisi stoica si concentra sul legame tra il logos umano
e il Logos universale, e così via.
Aretusa
Nell’isola di Ortigia a Siracusa c’è ancora oggi una fonte che in età greca era il simbolo stesso della
città, da cui sgorgava acqua purissima che si diceva provenisse sotterraneamente dalla Grecia. Qui
infatti, tra l’Elide e l’Argolide nel Peloponneso, scorreva il fiume Alfeo, il cui dio (dallo stesso
nome) si innamorò di una delle Naiadi, che si chiamava Aretusa. Per sfuggire al dio-fiume, la ninfa
si trasformò in fonte, sprofondò sotto terra e percorrendo sotterraneamente tutto lo spazio tra il
Peloponneso e la Sicilia riemerse come fonte ad Ortigia.
Esistono molte versioni di questo mito, che è tra i più celebri dell’antichità tra quelli che hanno per
protagonista una ninfa.
Argomentazione per assurdo
Nella sua forma originaria, risale a Zenone di Elea che la usa nel proporre le sue celebri aporie. La
struttura dell’argomentazione prevede un elemento di dialogo tra due persone ed è quindi legata alle
origini della dialettica (→)antica:
- chi propone l’argomentazione accetta come base del discorso la tesi del suo interlocutore; è una
mossa tattica, perché l’obiettivo è fornire, alla fine del ragionamento, un argomento contro la tesi
che (provvisoriamente e in ipotesi) si accetta;
- data la tesi, accettata come premessa non dimostrata e neppure discussa, si analizza attraverso un
esempio o una deduzione a quali conseguenze porta la sua accettazione;
- la conclusione del ragionamento mostra che queste conseguenze sono assurde, cioè logicamente
contraddittorie;
- se ne conclude che la tesi originariamente accolta è assurda.
Argomento logico
Si deve nettamente distinguere un argomento da una dimostrazione (→) (argomentare e dimostrare
sono quindi pratiche razionali discorsive diverse):
- data una tesi, un argomento è un percorso logico che parte da una riflessione teorica o da un
esempio d’esperienza (reale o possibile) che rafforza la tesi o la pone in crisi, mai in modo definitivo
e inappellabile: l’argomento logico è quindi un passaggio interno ad un processo di riflessione, di
dialogo o di ricerca;
- data una tesi, una dimostrazione è, nella sua forma classica tipica della geometria euclidea, il
percorso che, da premesse, porta necessariamente attraverso passaggi logici privi di salti alla certezza
razionale della correttezza della tesi.
Mentre dunque nella dimostrazione la ragione discorsiva dell’uomo trova fondamenti di certezza
(almeno sul piano logico), in linea di principio è sempre possibile contrapporre ad un argomento a
favore un argomento contro, e viceversa.
Aria
La base d’esperienza della riflessione filosofica greca sull’aria è simile alla nostra ma non identica,
perché la società industriale e l’urbanizzazione hanno profondamente modificato la qualità dell’aria,
modificandone quindi le percezioni sensoriali primarie (ad esempio gli odori, che oggi differiscono
meno che in passato nelle diverse stagioni, o i colori).
Quanto alle dimensioni della sfera dell’aria che circonda la Terra, i Greci non avevano modo di
determinarne l’ampiezza.
I filosofi naturalisti l’hanno studiata come uno degli elementi che costituiscono la natura, nel
contesto delle ricerche connesse al problema dell’arche (→), della struttura della materia (→), ed
anche del rapporto tra l’uomo, la natura e gli dèi, perché il tempo atmosferico era legato, nella
tradizione mitologica, alla sfera di Zeus.
Forse la più celebre delle teorie greche sull’aria è quella di Anassimene che la identifica come l’arche
stesso della natura. In Empedocle è uno dei quattro elementi (o radici, rizomata) da cui sono
formate tutte le cose, ed è quindi eterna come eterna è la natura.
Sul rapporto tra l’aria e la struttura della materia valgono le stesse considerazioni che abbiamo
proposto per l’acqua (→).
Quanto al tempo atmosferico, diversi filosofi hanno svolto accurate indagini e proposto teorie. In
senso radicalmente contrario all’intervento divino nel mondo sono le teorie che Epicuro propone
nella Lettera a Pitocle e Lucrezio riprende nel De rerum natura: tutti i fenomeni naturali, compresi i
fulmini, sono da ricondurre alle leggi generali che governano la natura, e in essi non si manifesta
mai alcuna volontà superiore.
Aristarco di Samo
Filosofo e scienziato greco formatosi negli ambienti del Liceo (fu allievo di Stratone di Lampsaco:
→), visse nel III secolo a.C. in un momento di particolare fervore degli studi scientifici. Di lui ci
resta un’opera dal titolo Sulle grandezze e distanze del Sole e della Luna.
Al suo nome è legata l’ipotesi cosmologica che vede il Sole al centro di un universo finito, ipotesi
tuttavia che non ebbe seguito nell’antichità. Prevalse la tesi geocentrica, poi fatta propria da
Tolomeo (→), la cui opera influenzò il Medioevo e l’età moderna, quando la tesi di Aristarco venne
ripresa da Copernico.
Aristarco di Samotracia
Vissuto circa tra il 217 e il 145 a.C., fu uno dei più importanti filologi della Scuola filologica di
Alessandria (→). Allievo di Aristofane di Bisanzio (→), di cui proseguì l’opera come editore dei
poemi omerici, fu il quinto bibliotecario della Biblioteca di Alessandria, e in questa veste diede un
notevole impulso alla Scuola filologica, definendone i principi guida e il metodo di lavoro.
Studioso di questioni grammaticali, curò personalmente anche un notevole numero di edizioni
filologicamente accurate di opere classiche, in qualche caso accompagnate da commenti: opere della
tradizione epica (oltre a Omero anche Esiodo), lirica (Archilogo, Alceo, Pindaro, Anacreonte),
tragica (Eschilo, Sofocle, Euripide).
Aristippo di Cirene
È il nome di due dei filosofi della Scuola cirenaica (→). Il primo è l’Aristippo di Cirene fondatore
della scuola, che nacque a Cirene nel 435 e si trasferì ad Atene dove entrò in contatto con il circolo
di Socrate e dei suoi allievi. Dopo la morte del maestro, fu in diverse città della Grecia e del
Mediterraneo, tra cui Siracusa, dove sembra abbia conosciuto Platone, nel corso del suo primo
soggiorno in Sicilia. Morì nel 366 a.C.
Non abbiamo le sue opere e ci resta soltanto qualcosa dei suoi detti. Non sappiamo bene quindi in
che senso la fondazione della scuola di Cirene sia riferibile direttamente al suo pensiero. Sappiamo
che ebbe una figlia, Arete, e un nipote, anch’egli Aristippo detto il Giovane, e la tradizione
dossografica assegna a loro la codificazione del principio chiave della scuola, l’enunciazione di un
ideale di vita basato sul principio del piacere.
Aristofane
Commediografo greco, è una delle figure più importanti della cultura ateniese della seconda metà del V
secolo a.C. Nato ad Atene intorno al 445, vi morì poco dopo il 388 a.C. dopo una vita spesa in una
intensa attività teatrale. Non conosciamo quasi nulla della sua vita, se si esclude quello che si ricava dalle
sue stesse commedie.
Della sua vasta attività di autore di teatro (conosciamo una trentina di suoi titoli, ma la sua produzione
dovette essere più ampia) avviata in giovanissima età (le prime commedie furono rappresentate nel 427
a.C., quando Aristofane non era ancora ventenne) restano 11 commedie intere e un migliaio di
frammenti.
Con lui giunge a maturazione la commedia attica, caratterizzata da un forte impegno civile e politico,
non dissimile da quello – su tutt’altro registro – della tragedia.
Una sua commedia ha un rilievo particolare nella storia della filosofia perché mette in scena Socrate,
ironizzando pesantemente su di lui e sulla sua cerchia: è Le Nuvole, alla cui voce (Nuvole →)
rimandiamo per il riassunto.
Aristofane compare come personaggio-chiave del Simposio platonico, e questo ha sempre destato
interrogativi tra gli interpreti: come mai Platone ha rappresentato in questo contesto amichevole
Socrate e Aristofane insieme, quando nella realtà storica Aristofane dovette essere un nemico di
Socrate, e nell’Apologia di Socrate Platone fa dire a Socrate che proprio con Le Nuvole sono nate le prime
voci in città contro di lui?
Il discorso di Aristofane nel Simposio di Platone
Aristofane propone, come gli altri, un suo elogio di Eros. Racconta che alle origini gli uomini non
erano come noi, ma erano di tre sessi (maschi, femmine ed ermafroditi) e doppi rispetto a noi, a forma
di palla con quattro gambe e quattro braccia, e due teste contrapposte. Forti e agili abbastanza da
sfidare gli dèi, vennero per questo puniti da Zeus che li divise in due esseri separati, con l’aiuto di
Apollo che sanava le ferite prodotte. È questa la ragione per cui ancora oggi ci si innamora: l’obiettivo è
ricostruire l’unità originaria. Chi originariamente era un maschio cerca un maschio per completare se
stesso, chi femmina cerca una femmina; chi era ermafrodito cerca una persona del sesso opposto.
Il discorso di Aristofane, poeta comico, nella sua comicità ha aspetti tragici. Come nel caso del discorso
di Agatone (→), tutto appare come se tragedia e commedia fossero presenti nel Simposio come due volti
della stessa Musa. Commenta Lacan: “Senza dubbio è significativo per noi, ricco di insegnamenti, di
suggestioni, di interrogativi, che sia Agatone, il tragico, ad aver fatto, per così dire, il romancero comico
dell’amore, e che sia invece Aristofane, il comico, ad averne parlato nel suo senso di passione, con un
accento quasi moderno” (Lacan 1960, p. 126).
Aristofane di Bisanzio
Vissuto circa tra il 257 e il 180 a.C., fu uno dei massimi filologi dell’antichità, non solo per il suo
lavoro di curatore ed editore di antichi testi presso la Biblioteca di Alessandria, di cui fu il quarto
bibliotecario, ma anche perché tenne una scuola di grammatica nella quale si formarono i
grammatici e i filologi del periodo aureo della Scuola filologica di Alessandria (→).
In gioventù era stato allievo di Callimaco (→), ma poi aveva elaborato un proprio metodo filologico,
utilizzato soprattutto per l’edizione critica dei poemi omerici, ottenuta attraverso un lavoro di analisi
delle molte e discordanti redazioni manoscritte che allora circolavano. Fu anche editore delle opere
complete di Pindaro e di Euripide, che raccolse per la prima volta in una edizione basata su principi
filologici ispirati a rigore scientifico.
Aristoi / Aristocrazia
Aristoi in greco sono i migliori, aggettivo che indica di per sé i più forti; kratos è il potere, e dunque
l’aristocrazia (in greco aristokratia) è quella forma di gestione della vita politica che concede il potere
ai migliori, cioè ai più forti. In età arcaica, e soprattutto in età classica, all’aristocrazia si contrappose
il potere del demos, del popolo, che sul finire del VI secolo a.C. diede vita ad Atene a forme
istituzionali di democrazia (→). Da questo punto di vista l’aristocrazia e la democrazia sono visti
come sistemi politici contraposti e spesso in lotta tra loro. Questo non significa che i nobili in
Grecia fossero tutti aristocratici: erano aristoi, sì, ma in molti casi divennero capi di parte
democratica (come Pericle, ad esempio) o accettarono lealmente la democrazia come sistema
“costituzionale” della polis.
Nel mondo omerico (che riflette probabilmente pratiche politiche affermatesi lungo il corso di molti
secoli, tra il periodo miceneo e l’VIII secolo a.C.) gli aristoi sono i capi delle famiglie più importanti,
per ricchezza e potenza (anche fisica: gli eroi sono forti, belli, coraggiosi), accettati dagli altri come
pari grado nel contesto dei consigli che affiancano il basileus (→), egli stesso un aristos acclamato
dagli altri ad un incarico politico superiore. È da osservare che questi consigli, che danno
concretezza pubblica al potere di per sé privato dei capifamiglia, sono spesso indicati, già in Omero,
come consigli degli anziani (→), anche se spesso i suoi membri sono eroi nel pieno vigore degli anni.
In Grecia l’aristocrazia si affermò, come forma diffusa di governo delle città, nel corso del Medioevo
ellenico, dopo il crollo del mondo miceneo, e quindi non conosciamo con esattezza le tappe del
processo che portò i nobili ad assumere direttamente su di sé la responsabilità politica, una volta
caduta la funzione regale dell’anax miceneo. Quando nella Grecia continentale e nelle colonie
dell’Egeo e della Magna Grecia ricompare la documentazione scritta, tra l’VIII e il VII secolo, la
maggior parte delle poleis sono rette dai nobili, con istituzioni stabili, in regime quindi di
aristocrazia, ma con tensioni sociali molto forti dovute alla pressione politica del demos, escluso dalla
cerchia dirigente della città.
Nella celebre tripartizione dei regimi politici proposta da Aristotele, sulla base peraltro di un lunga
tradizione precedente, l’aristocrazia è il governo dei migliori, ed è distinta non solo dalla democrazia
(il governo di tutti i cittadini), ma anche dalla monarchia (→) (il governo di uno solo). La sua
specifica degenerazione è l’oligarchia (→), cioè il governo di pochi e non necessariamente i migliori,
che si impongono sugli altri con la forza contro la legge.
Aritmetica
Vedi Geometria
Armodio e Aristogitone
Sono figure storiche. L’episodio per il quale divennero famosi ad Atene e in Grecia riguarda gli ultimi
anni della tirannide ad Atene, subito prima dell’instaurazione della democrazia alla fine del VI secolo
a.C.. Dopo Pisistrato, erano divenuti tiranni della città Ippia e Ipparco (quest’ultimo in posizione
subordinata) e i due nobili ateniesi Armodio e Aristogitone nel 514 a.C. ordirono una congiura che, per
ragioni private più che politiche, mirava all’uccisione dei due tiranni.
Ippia si salvò, mentre Ipparco rimase ucciso, insieme ad Armodio. Aristogitone venne condannato e poi
giustiziato.
I due tirannicidi vennero celebrati in età democratica come eroi, e nello stesso tempo i tiranni vennero
dipinti negativamente. Sia sull’eroismo dei due tirannicidi, viste le ragioni per cui agirono, che sul
carattere negativo della tirannide ad Atene gli storici sollevano dubbi.
Nel Museo Archeologico di Napoli si conservano loro celebri statue antiche.
Armonia
È una delle nozioni fondamentali della concezione estetica e filosofica dei Pitagorici e, attraverso di
loro, di una delle concezioni classiche della bellezza.
Il termine greco harmonia deriva da harmozo, che significa accordo, e in filosofia cominciò ad
acquisire un significato tecnico quando i Pitagorici lo utilizzarono per indicare il perfetto equilibrio
tra le parti che conferisce bellezza a un oggetto naturale (ad esempio il corpo umano) o ad un
prodotto dell’arte (ad esempio una statua o un tempio: si veda la voce Canone: →).
La nozione ha due aspetti: uno matematico e una metafisico, e il suo legame con la bellezza dipende
da entrambi.
Da un punto di vista matematico l’armonia è un rapporto numerico tra due grandezze, ad esempio
la celebre sezione aurea (→). La prima elaborazione di questa teoria, per cui la bellezza di un corpo o
di un suono dipende dal rapporto quantitativo tra le sue parti, nacque in ambiente pitagorico in
ricerche di tipo musicale, ma corrispondeva ad un modo di sentire comune, non ascrivibile di per sé
ad una specifica scuola.
Da un punto di vista metafisico l’armonia è la perfezione stessa dell’Essere, comunque esso sia
inteso dalle varie scuole filosofiche greche. Questa perfezione si esprime nel fatto che nella sfera
della realtà fisica e mentale non c’è posto per contraddizioni insolubili, per conflitti non superabili,
per la realtà effettiva del male: tutto è bene, se visto da una prospettiva corretta, e l’armonia è la
nozione che spiega come ciò sia possibile avendo l’uomo esperienza concreta dell’errore, della
contradizione e del male. Ciò che appare tale non lo è in realtà, perché nell’economia generale della
realtà è bilanciato da altre realtà che compongono il Tutto, che è quindi armonico (si pensi alle tesi
di Eraclito sulla armonia dei contrari). La bellezza è dunque un carattere primario dell’Essere, perché
ne esprime l’armonia interna.
Non tutte le scuole filosofiche greche hanno accettato questa nozione metafisica di armonia: ad
esempio Platone la accetta solo per la realtà delle idee, non per quella dell’universo fisico. Ed anche
chi la accetta, come Plotino, ad esempio, non sempre associa l’armonia alla bellezza (nell’esempio di
Plotino la bellezza ha una identità ed una origine diversa). Altre scuole, come la Sofistica, la
Megarica, la Scettica, insistono su aspetti non armonici della realtà (ad esempio sulle aporie).
Tuttavia la nozione di armonia, esprimendo bene l’ottimismo metafisico tipico di gran parte del
pensiero greco (con importanti eccezioni, soprattutto nel mito più che nella filosofia), ha
caratterizzato in modo profondo la visione greca dell’uomo e del mondo.
Tutti i teorici dell’estetica (→) nel mondo antico la riprendono, in vario modo, sia pur discutendola,
come fa Plotino. E i teorici medioevali li seguono su questo terreno, perché interpretano (da
Agostino in poi) la bellezza della natura come un riflesso della bellezza di Dio. Di questa bellezza
l’armonia è una componente.
Arte
Vedi Estetica
Asclepio
È il dio greco della medicina. Nel mito era figlio di Apollo e venne allevato dal centauro Chirone
che gli insegnò l’arte medica.
Intorno a questo dio fiorirono nell’antichità molti racconti e leggende, sicché le tradizioni non sono
univoche. Ma sappiamo che, storicamente, il suo culto era praticato originariamente in Tessaglia.
Poi tra il VI e il V secolo a.C. compaiono gli asclepiadi, cioè gli aderenti ad una scuola medica che
aveva il suo centro nell’isola di Cos e il suo più importante rappresentante in Ippocrate, che diede
alla medicina antica una svolta decisiva in senso razionalista. I medici di Cos si dicevano asclepiadi
perché rivendicavano una discendenza dal dio Asclepio.
Questa direzione razionalista della medicina antica (→) non fu però l’unica legata alla figura di
Asclepio. Nel V secolo a.C. il culto del dio venne introdotto in altre aree con curvature culturali
diverse; e presso il tempio di Ascelpio ad Epidauro si fece strada la pratica dell’incubazione (→), che
implicava un rapporto personale tra l’ammalato (che dormiva nel recinto sacro del tempio) e il dio
guaritore.
Asia
Oggi distinguiamo in maniera netta l’Asia dall’Europa e dall’Africa, ma per i Greci queste
distinzioni dovettero formarsi lentamente (e la nozione di Europa che per noi è abituale è di epoca
molto successiva).
Quando compaiono le prime fonti scritte, tra l’VIII e il VII secolo a.C., l’Asia è per i Greci ancora
soltanto la costa ionica e il suo entroterra. In Erodoto, che si interessò da storico al rapporto tra la
civiltà greca e quella asiatica, e quindi propose una netta distinzione anche geografica, l’Asia è
distinta con chiarezza dall’Africa (il punto di separazione è l’Istmo di Suez) e dall’area culturale
greca (il confine geografico è meno chiaramente identificabile, perché città greche importanti e di
antica tradizione sorgevano nell’area orientale dell’Egeo, in quella che sempre più si indicava come
Asia Minore, almeno a partire dall’età di Alessandro Magno, vissuto un secolo dopo Erodoto).
Benché la geografia sia importante, per i Greci l’identità dell’Asia era soprattutto culturale, ed era
questo carattere più che una identità geografica a differenziarli dai molti popoli che abitavano le
terre a est dell’Egeo.
Il rapporto con queste terre era ambivalente, perché da lì provenivano molte tendenze della cultura e
della religione ellenica (debito non sempre riconosciuto dai Greci, ma a volte sì), e soprattutto
pericoli reali e concreti (si pensi alle Guerre Persiane: →). E comunque i Greci, attratti dall’Oriente,
al tempo di Alessandro Magno tentarono con successo la conquista di queste terre, riuscendo a
realizzare una sorta di ellenizzazione della loro cultura, a prezzo però di una fusione della stessa
cultura ellenica con elementi orientali (nacque così il cosiddetto ellenismo (→).
Assemblea
In età classica è l’organo costituzionale fondamentale della democrazia: è la riunione di tutti i
cittadini aventi diritti politici che, insieme e a maggioranza, prendono le decisioni politiche (vedi la
voce Ecclesia: →). Ma di per sé la riunione dei cittadini con fini di decisione politica è molto
precedente alla nascita della democrazia. Assemblee dei cittadini sono presenti, e con un ruolo non
marginale, sin dai poemi omerici, cioè in un’età in cui il potere reale era nelle mani di una élite
militare e politica. Infatti anche in questo mondo di basileus (→) e di consigli degli anziani (→), il
momento in cui il popolo si riuniva era importante per due ragioni:
- perché in una civiltà orale l’Assemblea era il luogo in cui i capi politici e militari manifestavano il
loro potere e chiedevano testimonianza, perché tutti potessero sapere e soprattutto ricordare;
- perché nell’antica società greca (sia in quella omerica che in quelle storiche dell’età arcaica e
classica) il potere dei signori era comunque regolato e limitato dalle tradizioni, e l’Assemblea aveva i
suoi diritti tradizionali; se non altro, il diritto di essere informata e di concedere o meno il consenso,
senza il quale nessun potere era in realtà stabile, neppure quello del più potente degli eroi omerici o
dei tiranni della storia successiva.
Non va dimenticato poi che i Greci si sono sentiti sempre, in tutti i momenti della loro storia, un
popolo libero, cioè un popolo di cittadini e non di sudditi. L’Assemblea, in qualsiasi regime politico,
esprimeva questo status che era sì politico, ma riposava su un fondamento culturale fortemente
consolidato sul piano della tradizione.
Assenso
Gli Stoici parlano di assenso (in greco synkatathesis) per indicare l'atto con cui la mente accetta o
respinge come valide o come non valide le proprie rappresentazioni (→) e le proprie idee. Il termine
ha quindi un particolare interesse nello studio del rapporto tra la volontà e l'intelletto (qual è il ruolo
della volontà nell'assenso?) e nei tentativi di comprendere la natura dell'errore (perché la mente
concede il proprio assenso a idee errate?).
Si vedano dunque le voci Volontà (→) ed Errore (→).
Va sottolineato il fatto che nel problema dell’assenso è in gioco la libertà (→) intesa come libero
arbitrio: ad esempio, la mente può negare l’assenso alle rappresentazioni del tutto evidenti?
Assimilazione
Il termine greco homoiosis, che traduciamo con assimilazione, è il processo con cui ci si rende simili a
qualcosa o a qualcuno. Platone lo usa a proposito dell’anima che si rende simile alle realtà ideali a
cui per natura è affine (Fedone 80a), sicché questo processo è in realtà per l’anima un rientrare nella
propria più profonda natura. Plotino lo utilizza a proposito del processo ascendente che l’anima
compie, per gradi, per rassomigliare all’Uno, cioè per vivere in lui la propria vita.
Assioma / Postulato
È termine tecnico della logica aristotelica. L’axioma è “ciò che in virtù di se stesso è necessario che sia, e
dobbiamo quindi crederlo” (Analitici secondi, I-10) ed è quindi un principio vero e allo stesso tempo
indimostrabile perché non rinvia ad altri principi che lo precedono e da cui deriva. In Aristotele il
classico esempio è quello del principio di non-contraddizione.
La nozione di assioma in Aristotele va distinta da quella di postulato (in greco aitema) che è una
proposizione che viene accolta senza dimostrazione, non perché sia auto-evidente come è il caso di
un assioma (→), ma come momento di un ragionamento complessivo in cui ciò che viene dato per
accolto adesso verrà in un secondo momento discusso. Aristotele precisa che si tratta di una
presupposizione al momento indimostrata, ma dimostrabile, di tipo particolare: chiama postulato
quella proposizione che viene accolta da chi conduce la dimostrazione quando l’interlocutore non è
affatto convinto che sia la verità o non si è formato un’idea precisa (così in Analitici secondi, I-10).
Anche in matematica (il riferimento è in particolare ad Euclide, ma sulla base di una lunga
tradizione precedente) la nozione di assioma indica una nozione generale evidente di per sé, non
dimostrabile, che sta a fondamento di una sequenza di dimostrazioni. Anche Euclide distingue
assiomi (verità evidenti) e postulati (enunciati che esprimono ciò che si chiede di ammettere).
La differenza tra assiomi e postulati è venuta meno nel corso del XIX secolo. Oggi per assioma o
postulato si intende un enunciato primitivo di una teoria.
Assoluto
Il termine è di derivazione latina (ab-solutus, staccato da, indipendente, e, in altra accezione,
compiuto): è il participio passato del verbo absolvere, che significa tanto staccare quanto assolvere,
compiere. I due significati rimangono nell’uso filosofico del termine:
- assoluto è detto ciò che è ed esiste in completa assenza di condizioni, in modo del tutto
indipendente;
- assoluto è detto ciò che è perfetto e compiuto nella sua perfezione.
In una terza accezione, oggi utilizziamo questo termine in contrapposizione a relativo, in dizioni
come “in assoluto...”.
La concezione greca più vicina alla nozione moderna di assoluto è forse l’Uno di Plotino e dei
neoplatonici; ma in assenza di una diretta elaborazione del concetto e del termine nella filosofia
antica, il latino absolutus e l’italiano assoluto traducono in realtà varie espressioni greche: da kath’auto
(che vuol dire in sé) a anupothetos (cioè incondizionato).
In un senso tecnico non direttamente filosofico, il termine absolutus è stato utilizzato per la prima
volta dai grammatici e dagli studiosi di retorica latini, per indicare un elemento della frase o del
discorso che ha un senso in sé compiuto e non rimanda ad altro, oppure per indicare un’azione
giunta a compimento.
Nela filosofia moderna il termine ha acquisito significati tecnici specifici, assenti nella filosofia
antica.
Concreto / Astratto
“Termini opposti, che definiscono determinate modalità del reale:
- concreto è detto di ciò che appartiene alla sfera di ciò che esiste come realtà effettuale, sia come
oggetto materiale che come evento; i termini greci che traduciamo con concreto sono le espressioni
aristoteliche ta ek protheseos e kath’ekaston, cioè individuale;
- astratto è detto di ciò che appartiene alla sfera del pensiero e della mente con un certo grado di
indipendenza dalla realtà delle cose e degli eventi, anche ripetendone alcuni caratteri (astraendoli,
appunto, dalle cose e dagli eventi); il termine aristotelico per astratto è l’espressione ta ex aphaireseos.
Aristotele tratta di questi temi soprattutto in due luoghi: in Dell’anima, III-7 e negli Analitici secondi
I-18, in relazione alla nozione di induzione (→)alla quale rimandiamo.
Tuttavia queste definizioni sono problematiche, perché partono dall’assunto che la materia e la sfera
ad essa connessa degli eventi nel tempo siano reali, o comunque abbiano un grado di realtà
maggiore della sfera del pensiero per immagini o concettuale (che chiamiamo appunto “astratto”).
Vi sono però indizi che portano a ritenere che le cose non stiano così: ciò che è sottoposto al fluire
del tempo ha una natura instabile, è destinato a trasformarsi, mentre i concetti (o alcuni tipi di
concetti, come quelli matematici) non dipendono per la loro verità dal fluire del tempo e quindi
sono “stabili” (la domanda verte su quale sia la natura di un’idea al di fuori del tempo, se davvero è
possibile questo). È dunque possibile che si debba operare una inversione, e considerare concreta la
sfera del pensiero più della sfera della materia e degli eventi” [Pancaldi 2006].
È soprattutto Platone nella filosofia greca a insistere su questa tesi, seguito poi da Plotino.
Si tenga poi presente che tutte le teorie, anche se riguardano enti concreti (ad esempio gli atomi
degli atomisti) sono, in quanto teorie, del tutto astratte benché abbiano come oggetto un ente
concreto descritto nella sua concretezza, perché sono frutto di catene complesse di ragionamento e
non della conoscenza diretta (cioè sensibile) dell’ente in questione (gli atomi sono inconoscibili
attraverso i sensi).
Inoltre i fatti della vita interiore sono concreti, anche se si riferiscono a enti non reali (la paura di un
evento che poi non accadrà è concreta, anche se non lo è l’evento a cui si riferisce). Concretezza non
può quindi essere sinonimo di legame con la realtà materiale o con eventi esteriori reali: concreta è
anche la vita della mente, che costruisce teorie astratte su fatti concreti, pensa concretamente enti ed
eventi inesistenti, e così via.
È quindi problematico il rapporto sia di ciò che è concreto sia di ciò che è astratto con la nozione
filosofica di realtà. Si può dubitare della effettiva concretezza di quel che inesorabilmente passa,
come della effettiva astrattezza di una possibilità reale che poi non si realizza. Ma sono solo esempi:
i casi possibili sono moltissimi.
Astrologia, Astronomia
Il termine greco astronomia significa studio degli astri, esattamente come astrologhia. Ma studiare le
leggi degli astri (nomos significa legge) è cosa ben diversa dallo studiare l’influsso che gli astri hanno
sulla vita umana. I due termini indicano quindi discipline distinte, benché per lo più – almeno
dall’ellenismo in poi – studiate entrambe dagli stessi scienziati:
- l’astronomia è lo studio filosofico e scientifico degli astri, a partire dalla loro composizione fisica e
dalle leggi del loro movimento (per questi aspetti si vedano le voci Terra e Cieli: →); Aristotele la
considera la scienza più affine alla filosofia perché studia oggetti sì sensibili, come i Cieli, ma eterni
ed incorruttibili;
- l’astrologia è lo studio delle influenze che antiche tradizioni rilevano tra gli astri e la vita umana
sulla Terra.
Mentre quindi l’astronomia nel mondo greco si è sempre mantenuta nel contesto scientifico e
filosofico, l’astrologia ha sconfinato sul terreno della ricerca religiosa, a questo spinta in parte anche
da almeno due tradizioni filosofiche: la cosiddetta teologia astrale platonica (→) e la concezione
stoica del Cosmo, che teorizzava in alcuni autori l’esistenza di correnti di “simpatia” (la base fisica è
il pneuma: →) tra il microcosmo umano e il macrocosmo, cioè l’universo nella sua totalità.
La distinzione tra i due ambiti, astronomico e astrologico, nell’antichità venne posta con forza da
tutte quelle scuole filosofiche (ad esempio quella epicurea) che negavano ogni influenza dei cieli
sull’uomo, mentre i due ambiti tendevano a sovrapporsi presso gli studiosi che li ammettevano.
Di fatto però gli studiosi che hanno scritto sia opere astronomiche che astrologiche hanno separato i
due ambiti, pur essendosi occupati di entrambi i tipi di ricerche: ad esempio Tolomeo (→), che con
l’Almagesto ci ha lasciato la più compiuta sintesi dell’astronomia scientifica antica, ha scritto anche
un’opera astrologica, dal titolo Influssi astrologici (risale al 140 d.C. circa), nota anche come
Tetrabiblos. Ma sono appunto due opere, e due teorie, diverse.
In effetti, qualunque cosa si pensi del supposto influsso degli astri sulla vita umana, è un problema
diverso quello dell’astronomia (che studia gli astri nella loro natura e nei loro movimenti) e quello
dell’astrologia (che, a partire da questa natura e da questi movimenti, studia l’influsso che gli astri
hanno sulla vita umana).
La sintesi tra le due discipline venne negata da quegli studiosi che negavano l’influsso degli astri
sull’uomo, ma venne cercata da quanti, come gli Stoici, ritenevano non fosse possibile fornire
un’immagine organica e coerente dell’universo fisico senza studiarne i rapporti tra le parti, e quindi
anche i rapporti tra la vita sulla Terra e la realtà dei Cieli.
L’astrologia di cui parliamo intendeva avere gli stessi caratteri scientifici dell’astronomia. A fianco di
questa linea di ricerca si sono sviluppate nell’antichità (soprattutto negli ultimi secoli dell’ellenismo e
nell’età tardo-antica) anche tendenze magico-religiose, spesso a sfondo mistico, di tipo astrologico,
che tuttavia non possono essere collegate (almeno non in modo diretto) alle ricerche filosofiche e
scientifiche, attenendo alla sfera della religione.
Le due sfere – religiosa e scientifiche – appartenevano però alle origini alla stessa tradizione: in
Persia, in Mesopotamia, in Egitto, sin dal III millennio a.C. si osservavano i Cieli sia per
comprendere le leggi che li governano, sia per comprenderne l’influsso sulle vicende numane. Varie
religioni astrali erano ancora vive in Oriente nel momento in cui il mondo greco entrò in contatto
con le culture dell’Asia al tempo della spedizione di conquista di Alessandro Magno, sicché alcune
di esse penetrarono in Occidente.
Già nell’antichità però si discuteva polemicamente sulla pratica dell’astrologia: ad esempio
nell’ambito della Stoia Panezio non la ammise, e filosofi scettici come Carneade e soprattutto Sesto
Empirico la avversarono, perché “innalza a nostro danno un gran numero di superstizioni e spinge a
non far nulla secondo la retta ragione” (così Sesto in Contro i matematici, V-2)
Atarassia
Il termine italiano riprende il greco ataraxia, che indica la tranquillità dell’animo, la calma interiore
per una lunga schiera di pensatori tra Democrito e gli Stoici. Sono però questi ultimi che hanno
posto l’atarassia al centro della loro etica: il saggio è, innanzitutto, sereno, perché sa controllare le
passioni e perché sa che la realtà è buona ed è governata con razionalità perfetta dalla forza
immanente del Logos.
Analoga nozione, anche se su tutt’altro quadro teorico, è comunque presente nelle altre scuole
ellenistiche, dagli epicurei agli scettici.
Ate
Associata all’accecamento della mente, e quindi alla colpa che l’uomo fatalmente commette quando
la sua mente è accecata, nella mitologia greca Ate è descritta come una dea leggerissima che si posa
sulla testa degli uomini senza che questi se ne accorgano.
Esiodo la dice figlia della Discordia e sorella dell’Illegalità, entrambe personificazioni, come spesso
accade in Esiodo. Nel mito venne cacciata dall’Olimpo da Zeus nel momento in cui questi impose il
suo ordine sul mondo: la fece precipitare sulla Terra e le impose di non ritornare mai più
sull’Olimpo, liberando così il mondo divino da un serio pericolo. Non così per gli uomini, che al
pericolo di Ate sono sempre esposti.
Questa divinità è tra quelle che i Greci indicavano come responsabili dei comportamenti irrazionali
e colpevoli dell’uomo, incomprensibili ai loro occhi senza un intervento esterno, divino. Il contesto è
quella della riflessione sulla colpa – sulla oggettività e soggettività della colpa (→) –, un tema che fu a
lungo dibattuto dai poeti, fino ai grandi tragici del V secolo a.C., e dai filosofi.
Ateismo
In greco a è una particella che indica negazione e theos significa dio (→). L’ateismo è quindi una
teoria che nega l’esistenza di dei o di un Dio unico, o della sfera del divino in quanto tale. La nega,
si badi, non la considera inconoscibile, e non considera irrisolvibile il problema dell’esistenza degli
dèi o di Dio. L’ateismo è una teoria che afferma qualcosa di preciso: esclude che nella realtà ci sia
posto per il divino.
Nessuna teoria filosofica greca ha proposto l’ateismo nelle forme in cui lo ha fatto la filosofia
moderna, e solo singoli pensatori hanno esposto tesi che possono essere realmente definite atee. Del
resto non è mai stato posto in termini espliciti dai Greci il problema dell’esistenza di esseri divini: o
questa esistenza è considerata ovvia, oppure è considerata indecidibile, dando luogo a posizioni
agnostiche (→), senza di fatto porre il problema (l’indecidibilità dipende dal modo in cui si
concepiscono le capacità della mente umana: non c’è una vera e propria indagine sul tema).
Atena
È una dea tra le maggiori del pantheon greco, e con Apollo è anche la dea per eccellenza della
filosofia. Figlia di Zeus, nacque però in un modo che mette conto raccontare, per la sua importanza
per la filosofia.
Quando ancora non aveva il pieno controllo delle forze dell’universo e il suo ordine non dominava
ancora il mondo, Zeus era sposato con Metis, la dea dell’intelligenza astuta. Quando Metis rimase
incinta, Gea e Urano rivelarono a Zeus che la figlia che stava per nascere avrebbe a sua volta avuto
un figlio che lo avrebbe spodestato, come Zeus stesso aveva fatto con suo padre. Per impedire
questo, e allo stesso tempo per tenere sempre dentro di sé Metis, da cui avere consigli, Zeus
inghiottì la sua sposa.
Quando giunse il tempo della nascita, fu Efesto ad incaricarsi di colpire con un’ascia la testa di
Zeus, facendo così uscire Atena, già grande e armata di elmo, lancia e scudo.
Dea bella, forte e guerriera, ma anche molto saggia e vergine (i nomi Parthenos e Pallas, Pallade, che
le sono spesso associati hanno questo significato), ha una vasta gamma di attributi e di caratteri. È
Polias, cioè protettrice delle città, e innanzitutto di Atene, la “sua” città per eccellenza; è Ergane,
cioè protettrice delle arti e dei mestieri, in specifico dei lavori femminili, che si svolgono nel chiuso
della casa; è Promachos, cioè legata alle attività guerriere; e così via.
Atena è spesso rappresentata con la civetta, animale a lei sacro.
Atene
Benché la filosofia sia stata coltivata in molte poleis sia della Grecia continentale che delle colonie
d’Oriente e d’Occidente, e benché Atene abbia assunto un ruolo in questo campo di studi piuttosto
tardi, solo a partire dalla metà del V secolo a.C., di fatto l’immagine della filosofia greca è
fortemente connessa con questa città, perché nell’età classica e poi in quella ellenistica qui si
concentrarono la maggior parte delle scuole filosofiche. Non che i filosofi fossero per lo più ateniesi:
provenivano da tutta l’Ellade, infatti, e in età ellenistica anche da zone al di fuori dell’area culturale
greca propriamente detta; ma Atene era il luogo in cui uomini e idee si incontravano. Qui sorsero
poi le grandi istituzioni scolastiche che si mantennero in vita per tutta l’età ellenistica (l’Accademia,
il Liceo, il Giardino, la Stoa) nonché i movimenti filosofici nemici delle istituzioni (la scuola cinica
e la scettica). Senza che, peraltro, Atene avesse mai il monopolio della ricerca (la filosofia, del resto,
non era nata qui).
Le origini della città si riflettono nei racconti della mitologia e solo tardi e non in modo chiaro nelle
descrizioni dell’archeologia. Nel sito della città dovette sorgere un centro miceneo, che non venne
distrutto quando alla fine del XII secolo a.C. le rocche micenee crollarono, né fu mai interessato
dalle invasioni dei Dori. Il sito ebbe quindi una completa continuità di sviluppo e di insediamento,
anche se durante il Medioevo ellenico subì lo stesso declino degli altri centri.
La nascita dell’Atene che conosciamo dalla prima documentazione scritta è legata al mito di Teseo
(→), l’eroe che avrebbe unificato l’Attica e creato quindi le basi della struttura politica della città e
del suo stabile rapporto col territorio su cui sorgeva. Già allora doveva avere una forte vocazione
mercantile, come altre città della Grecia, potendo anche contare sul porto del Falero e, più tardi, su
quello del Pireo.
Legata alla produzione agricola e alla coltivazione dell’olivo (il dono che la tradizione vuole sia stato
offerto alla città da Atena, la “sua” dea protettrice), era però anche un luogo di notevole produzione
artigianale, se la ceramica attica è stata trovata in tutto il Mediterraneo, dove era giunta
evidentemente attraverso commerci. La città aveva quindi sia una forte componente aristocratica,
legata al possesso della terra, sia una altrettanto forte componente popolare. Così i conflitti tra gli
aristoi e il demos segnarono per secoli il suo sviluppo politico: all’inizio del VI secolo fu Solone (→) a
riformare le sue istituzioni e a trovare un punto di conciliazione tra gli opposti interessi del popolo e
dei nobili; poi, dopo una più che decennale parentesi di tirannia, fu qui che si svilupparono in forma
compiuta e stabile le istituzioni della democrazia, che ressero anche le prove militari del V secolo
a.C. (dalle vittoriose Guerre Persiane alla perduta Guerra del Peloponneso). E, in certo modo, con
le pratiche della democrazia si identifica la storia della città anche nelle epoche successive, quando in
realtà l’autonomia era ormai perduta, a favore prima dei Macedoni, poi dei Regni ellenistici, poi di
Roma.
Rimase sede di scuole filosofiche importanti per tutta l’antichità Dopo l’epoca ellenistica, ne
nacquero di nuove, e venne rifondata una sorta di nuova Accademia da parte dei neoplatonici (è la
cosiddetta Scuola di Atene: →). La sua chiusura nella prima metà del VI secolo d.C. per volere di
Giustiniano (in epoca cristiana non era più tollerabile una istituzione filosofica indipendente e
pagana) segnò in qualche modo simbolicamente la fine della filosofia greca e l’inizio di altre forme
della cultura, legate alla civiltà che si chiamerà Bizantina. Ma l’importanza sia economica che
culturale di Atene era ormai un ricordo del passato, ed era Costantinopoli (Bisanzio, da cui civiltà
bizantina) la città-guida dell’identità greca.
Atomo / Atomismo
Fondata sulla concezione greca dell’atomos, termine che significa non diviso, indivisibile – l’italiano
atomo rimanda invece ad una realtà che la fisica insegna essere composta di parti ben distinte l’atomismo è una delle teorie sulla struttura della materia (→) che vennero elaborate tra il IV e il II
secolo a.C. dapprima da Leucippo e Democrito, poi da Epicuro. La più completa esposizione
teorica dell’atomismo che ci sia rimasta non è però greca, ma latina: è infatti contenuta nel De rerum
natura di Lucrezio, essendo perduti i testi fondamentali delle scuole atomiste greche.
I problemi a cui l’atomismo risponde sono in realtà due, uno relativo al rapporto tra l’essere e il
nulla, l’altro relativo al problema della struttura della materia:
- quello relativo all’essere è quello posto da Parmenide: come è possibile che l’essere (→) divenga? se
nasce o si trasforma o muore, allora nasce dal non-essere, si trasforma in qualcosa di diverso
dall’essere e muore divenendo non-essere; e questo è logicamente impossibile perché concepirlo
significherebbe ammettere l’essere e l’esistenza del non essere;
- il problema relativo alla struttura della materia riguarda i processi di generazione e di corruzione
dei corpi e le leggi che li governano.
La soluzione atomista al problema riguardante l’essere consiste nel negare che l’essere nasca, si
trasformi o muoia: ad esistere da sempre e per sempre non sono infatti i corpi, che mutano
continuamente, ma le particelle che li compongono, che non mutano mai, esistono da sempre, sono
immodificabili, esisteranno sempre, sono in numero infinito e si muovono in uno spazio vuoto che
ha le stesse caratteristiche di eternità e immutabilità.
Il problema della struttura della materia è risolto con una complessa teoria del movimento degli
atomi. I corpi che continuamente si formano e muoiono non alterano in alcun modo l’immutabilità
dell’essere, perché morire significa soltanto che l’aggregazione atomica cessa e gli atomi si
riaggregano in un altro modo.
L’atomismo antico ha messo quindi capo ad una teoria della materia come essere individuale e reale,
esistente, pieno, immutabile. La realtà della materia non è oggetto d’esperienza perché gli atomi
sono tutti, senza eccezioni, più piccoli della capacità dei sensi dell’uomo di distinguere le singole
particelle, per cui tutti gli enti che conosciamo sono corpi, cioè aggregati di atomi. La nozione di
atomo nasce quindi da una deduzione teorica a partire da presupposti teorici (l’eleatismo) ed
empirici (l’esperienza della divisione di qualsiasi corpo, che gli atomisti dimostrano - con
ragionamento teorico, non sperimentalmente - non possa essere condotta all’infinito).
Nell’atomismo non vi sono eccezioni in questa visione della realtà. Tutto ciò che non è atomo pieno
o spazio vuoto, è un aggregato di atomi nello spazio, oppure non esiste.
In Epicuro, di cui abbiamo più informazioni, l’atomismo è materialista ma non è una teoria atea,
perché è affermata l’esistenza degli dèi, anch’essi composti di atomi. Né è una teoria che dia poco
rilievo all’anima umana e alla sfera pura del pensiero, realtà che sono invece oggetto (questo già in
Democrito) della massima attenzione: sono anch’esse ricondotte ad aggregazioni di atomi (anche la
conoscenza, sia sensibile che razionale, è spiegata su base materialista).
Attica
È la regione su cui sorge Atene, delimitata a nord dalla Beozia. Ha quasi interamente la struttura
geografica di una penisola che si incunea nell’Egeo, tra l’Eubea e il Golfo di Egina. Abitata da
popolazioni greche di stirpe ionica, era piuttosto nettamente divisa in tre zone, una montuosa,
un’altra pianeggiante e fertile, una terza costiera, ciascuna delle quali aveva proprie esigenze, sicché
fino alle riforme di Solone (inizio VI secolo a.C.) e di Clistene (fine dello stesso secolo) c’erano state
tensioni prolungatesi per secoli.
Dopo la riforma di Clistene - che introdusse la democrazia ad Atene, ma ridefinì anche i rapporti
tra le tre aree dell’Attica - la storia dell’Attica si identifica con la storia stessa di Atene, perché la
città e la regione formarono un insieme politico unitario e (relativamente) armonico.
Atto / Potenza
Sono nozioni tipicamente aristoteliche in riferimento all’essere proprio di ciascun ente.
I termini greci che traduciamo con la parola italiana atto sono due:
- energeia (da energo, agisco, lavoro) che è composto da ergon (il lavoro) e en (in); l’energeia è
innanzitutto la forza, l’energia che serve per operare; quindi è l’azione che operando sull’essere in
potenza realizza ciò che prima era solo possibile; infine è l’essere reale, passato dalla potenza
appunto all’atto;
- entelecheia, che rimanda a telos, fine, cioè alla compiutezza che è appunto una caratteristica
dell’atto.
L’essere in atto è dunque, semplicemente, l’essere reale di un ente, la modalità effettiva e presente
che lo caratterizza nella sua sostanza attuale.
La dunamis, termine che traduciamo con potenza, in Platone e in altri autori è la capacità di agire, la
facoltà di fare qualcosa. È Aristotele ad assegnare alla dunamis un significato tecnico in rapporto
all’atto, per indicare l’essere in potenza di un ente, cioè le modalità non attualmente reali di
quell’ente, che tuttavia sono possibili.
Va osservato che l’essere in potenza riferito a un ente è concepibile solo se l’ente esiste ed è qualcosa
in atto. Quindi l’essere in atto in un certo modo precede la potenza, e ne è la condizione.
Atto puro
È una delle varie espressioni che Aristotele utilizza per indicare la vera natura di Dio: è atto puro
perché privo di ogni potenzialità non realizzata. Non gli manca quindi nessuna compiutezza né
alcuna perfezione. Non c’è quindi in Dio passaggio dalla potenza all’atto, e quindi nessun
cambiamento.
Autonomia / Autosufficienza
Il termine greco autarkeia significa letteralmente potere su se stesso, e lo traduciamo quindi sia con
autonomia sia con autosufficienza, in contesti che rimandano al carattere etico della nozione greca.
L’autarkeia è infatti il tratto specifico del saggio che ha raggiunto l’autosufficienza e per la sua
libertà (→), e quindi per la sua eudaimonia (felicità: →) dipende sempre meno dagli altri e sempre
più solo da se stesso.
Benché sia utilizzato con particolare enfasi dai Cinici, la nozione è comune, anche se con diverse
sottolineature, un po’ a tutte le filosofie elleniste, per le quali, più o meno concordemente, non si
può far dipendere la propria vita dagli altri, o dal caso o da cose come la fortuna o la sfortuna. Le
ragioni per cui non è eticamente corretto farlo sono però diverse da una scuola all’altra, e possono
dipendere sia dalle concezioni specifiche sulla natura e sull’uomo, sia dalla considerazione scettica
sull’ignoranza umana. L’obiettivo dell’autarkeia, sia pure variamente intesa, mette quindi d’accordo
sia i “dogmatici” che gli “scettici”.
Azione / Agire
La lingua greca distingue l’azione in quanto compiuta da un soggetto (è la praxis) dall’azione che
trasforma un oggetto (poiesis, da cui poesia (→), che è il prodotto di un fare).
L’agire e l’azione sono quindi concepiti come caratterizzanti l’uomo sul piano della realtà empirica e
operativa: per conseguenza hanno a che fare essenzialmente con l’etica, con la politica e con le
attività produttive ed economiche.
L’agire e l’azione sono contrapposte
- al subire (vedi pathos: →), in generale e soprattutto riguardo alle passioni;
- al solo pensare, sicché la vita pratica è contrapposta alla vita teoretica (ad esempio in Aristotele
Etica Nicomachea VI, 4);
- alla sola parola (come nell’italiano “fra il dire e il fare…”: ad esempio in Platone, Gorgia 450d).
Un uso specifico di questo termine nel senso dell’agire contrapposto al patire è in Aristotele che
parla di nous prakticos, dizione che siamo soliti tradurre con intelletto attivo (→).
Aulos
Traduciano con flauto il termine greco aulos, anche se i due termini non si corrispondono del tutto
perché le varietà dei flauti in uso in Grecia erano molte e diverse dalle varie forme del flauto dei
nostri giorni.
L’aulos era presente nella musica e nella poesia greca (la poesia era stabilmente associata alla
esecuzione musicale e, spesso, alla danza) in molti tipi di composizioni. Associato ai tamburelli,
formava un insieme tipico delle musiche e delle danze di tipo dionisiaco, e di quelle affini, come le
esecuzioni dei Coribanti (→) o dei seguaci di Cibele.
Autosufficienza
Il termine greco che traduciamo con autosufficienza è autarkeia, e indica quel carattere tipico della
vita che consiste nel ridurre le nostre esigenze al minimo richiesto dalla natura umana, in modo che
sia facile soddisfarle e sia quindi possibile essere interiormente liberi, senza subire il ricatto sociale
delle convenzioni e la pressione di falsi obiettivi, come la ricchezza, il potere, e così via, tutte cose
non richieste dalla nostra natura.
Il tema è stato ampiamente sviluppato dalle scuole ellenistiche, in particolare dai Cinici (→) con
una curvatura di dura critica sociale, e dagli Stoici (→) nel contesto di una complessa teoria
sull’uomo e sull’universo.
Baccanti
Vedi Menadi
Baccanti
Titolo di una tragedia di Euripide (per la figura delle Baccanti come seguaci di Dioniso vedi la voce
Menadi: →).
La tragedia è stata scritta intorno al 406 a.C., quando il poeta si trovava ospite alla corte del re di
Macedonia, Archelao. Fu rappresentata ad Atene qualche anno dopo, quando Euripide era già
morto.
Il protagonista dell’opera è il dio Dioniso, nato da Zeus e Semele, una delle figlie del vecchio
Cadmo, re di Tebe, che ha però lasciato il potere a suo nipote, Penteo, figlio di sua figlia Agave.
Dioniso nel prologo spiega di essersi recato a Tebe, città della madre, per vendicarsi delle sorelle di
questa che negano che egli sia figlio di Zeus e quindi che abbia origine divina. Dionisio vuole
introdurre il suo culto anche a Tebe, e soprattutto colpire della sua mania le donne tebane che a
seguito di ciò salgono sul monte Citerone, guidate da Agave, per celebrare i riti in onore del dio,
diventando così Baccanti. Penteo, emblema della razionalità, vede nei riti celebrati solo la follia
degli istinti sessuali e del disordine e vuole proteggere la città: contro il parere del vecchio Cadmo e
dell’indovino Tiresia, Penteo ordina di catturare Dioniso e di imprigionarlo. Il dio si lascia
catturare, ma non rivela la sua identità facendo finta di essere uno straniero fedele al dio, mentre
Penteo lo irride per il suo aspetto effemminato e lo conduce nei sotterranei della reggia; Dioniso ha
però ingannato Penteo, facendogli credere di averlo legato mentre il re ha legato al suo posto un
toro, e fa scatenare un terremoto riuscendo così a liberarsi. Intanto un pastore racconta al re quello
che sta avvenendo sul monte Citerone: le Baccanti non stanno compiendo atti scostumati, ma
prodigi: le donne porgono il seno a piccoli lupi per allattarli, percuotono la terra facendone sgorgare
acqua o aprono con le dita, nel terreno, fonti di vino o di latte. Accortesi di essere spiate da uomini,
esse si sono poi precipitate sulle bestie della mandria; animate da forza prodigiosa le hanno dilaniate
e si sono lanciate sulle campagne sottostanti, senza che nessuno potesse resistere al loro furore. Ora
è Penteo che, dissuaso dal prendere le armi contro le donne, vuole spiarne i segreti, non presentendo
l’orrenda fine a cui va incontro. Travestito da donna per non essere riconosciuto, egli è ormai preda
del dio: la misera creatura mortale è vittima della divinità crudele, che gioca con lei e la illude,
promettendole, con sinistra ironia, vittoria e gioia. Un messaggero racconta la fine di Penteo:
scambiatolo per una belva, le Baccanti si sono gettate sull’uomo, prima tra tutte la madre Agave a
cui Penteo rivolgeva inutili suppliche, facendolo a brandelli. Agave, credendo di aver ucciso una
belva, porta in alto sulla punta del tirso il capo mozzato del figlio, come un trionfo; Cadmo riesce a
richiamarla alla ragione, ed ella comprende ora la vendetta del dio. Entra quindi Dioniso che spiega
il motivo della sua azione: egli ha voluto punire Penteo e tutti coloro che non hanno voluto
riconoscerlo. Tutti dovranno pagare, con il dolore e l’esilio.
Barbari
In Omero barbaro è colui che parla una lingua incomprensibile ai Greci, e la cosa ovviamente non
ha di per sé alcuna connotazione negativa. C’erano barbari civilizzati ed altri che non lo erano. Al
tempo delle Guerre Persiane e del contemporaneo scontro in Sicilia con i Cartaginesi (è l’inizio del
V secolo a.C.) i Greci, che da secoli erano in contatto con antichissime civiltà dell’area mediterranea
(ad esempio gli Egiziani) e mediorientale (ad esempio le popolazioni della Mesopotamia), furono
spinti a elaborare meglio il loro rapporto con la cultura e la civiltà di chi non apparteneva al mondo
ellenico.
Così, forti di quella che sentivano una precisa superiorità delle tradizioni panelleniche rispetto a
quelle non elleniche, nel corso del V secolo a.C. il termine barbari, che continuava a indicare quanti
non parlavano greco, assunse una connotazione negativa. Tuttavia i Greci non ebbero mai
atteggiamenti pregiudizialmente ostili verso i popoli vicini.
La nozione nel suo significato negativo passò poi ai Romani, che la applicarono alle civiltà che via
via dominarono in Occidente (ma non la applicarono certo al colto e civilizzato Oriente).
Basileus
Il termine basileus ha una lunga storia nel mondo greco, dai Micenei ai sovrani ellenisti e fino agli
imperatori dell’Impero Romano d’Oriente. Presso i Micenei indica i funzionari di corte, e più in
generale il ceto dei signori compagni dell’anax, il re. Per mancanza di documentazione storica, non
possiamo seguire con esattezza le trasformazioni politiche che si verificarono tra il crollo della civiltà
micenea e l’età di Omero (l’VIII-VII secolo a.C.); sappiamo però che in Omero i termini basileus e
anax sono usati ormai in modo indifferente: indicano i vari sovrani del mondo dell’epoca.
Nella civiltà greca del periodo arcaico e classico, quando l’istituto della monarchia decadde e venne
sostituito da vari regimi, quello di basileus è appellativo per lo più religioso, ad indicare la funzione
sacrale di determinati funzionari (ad Atene di uno degli arconti). Solo a Sparta continuava ad
indicare i due magistrati al vertice della piramide del potere.
Il termine basileus venne poi ripreso dai sovrani dell’epoca ellenistica, per indicare la figura politica
del re, ed anche quella religiosa, essendo i sovrani ellenisti figure di tipo sia greco che orientale, e
quindi legati a una concezione di tipo assoluto e teocratico della sovranità. In questo senso politica e
religione tendevano a sovrapporsi nell’uso del termine basileus, che divenne poi il titolo
dell’imperatore quando l’Impero Romano venne diviso nelle due parti, di lingua greca e romana,
d’Oriente e d’Occidente.
Beatitudine
Vedi Felicità
Bellezza / Bello
Bellezza in greco è kalon, neutro sostantivato di kalos, bello. È uno dei concetti filosofici centrali per
tutta la tradizione di ricerca dei Greci.
La bellezza come problema filosofico
Il problema filosofico della bellezza è innanzitutto volto a comprendere
- che cosa sia in sé la bellezza e quali siano i suoi caratteri; qualsiasi definizione di bellezza rischia
infatti di essere contraddetta dall’esperienza, perché realtà materiali o mentali, o situazioni della vita,
che percepiamo belle possono non corrispondere alla definizione teorica che viene proposta;
- perché la bellezza abbia tanta forza sulla vita interiore dell’uomo, cioè che cosa le conferisca il
potere che essa esercita (in relazione o meno alla sfera dell’eros: →).
Va poi sottolineato che i Greci hanno visto nella bellezza il segno di una realtà più profonda della
superficie delle cose o dei pensieri o delle situazioni. La bellezza di queste superfici è percepita come
se ci parlasse d’altro, cioè di uno strato più profondo dell’essere. È forse la bellezza una via per una
possibile ricerca filosofica sulle profondità dell’essere?
Da questo scenario di problemi emerge con chiarezza una distinzione fondamentale: quella tra la
superficie dell’esperienza del bello (il piano dell’emozione e della percezione della bellezza) e le
profondità dell’eco che la bellezza suscita in noi. Il sospetto di molti filosofi è stato questo, che la
bellezza manifesti qualcosa non di superficiale, ma di profondo, e che quindi nella superficiale
esperienza del bello che tutti ben consociamo si nasconda in realtà la rivelazione di una verità più
profonda.
Le teorie sulla bellezza
Le teorie greche in risposta alla domanda “che cos’è la bellezza?” sono essenzialmente due, anche se
declinate nei modi più diversi a seconda delle varie scuole:
- la bellezza come armonia (→), derivante quindi dall’equilibrio tra le parti e dalla percezione che i
nostri sensi ne hanno (con le distorsioni proprie dell’occhio e dell’orecchio) anche di tipo cromatico
(arti visive, immagini della natura) o acustico (poesia, musica, suoni in natura);
- la bellezza come pura semplicità non composta di parti, forma pura che comunica una emozione
senza mediazioni, capace di parlare direttamente al cuore e alla mente insieme.
La prima nozione è di derivazione pitagorica e la si ritrova nei contesti più diversi, filosofici e
artistici per tutta la grecità (e poi, senza soluzione di continuità, nel Medioevo).
La seconda è implicita nel platonismo ed è fatta propria soprattutto dal neoplatonismo (Plotino ha
elaborato una complessa teoria in merito).
La bellezza e il bene
Quanto al suo significato in relazione allo studio della realtà profonda dell’essere, va ricordato che la
cultura greca aveva un’espressione, kalos kai agathos, che legava in modo strettissimo il bello (kalos) e
il buono (agathos). L’espressione deriva dalla morale eroica, essendo caratteri dell’eroe il coraggio e
la virtù, di per sé interiori che si esprimono però nella bellezza esteriore. Il modello ideale dell’eroe
omerico è il giovane bello o bellissimo, la cui bellezza è legata all’energia interiore, oltre che alle
forme esteriori.
Quando l’etica eroica venne abbandonata a favore di altre concezioni della vita sociale e individuale,
l’espressione kalos kai agathos passò a indicare – come se si trattasse di una sola parola – il tratto
dell’uomo che possiede le virtù apprezzate dai Greci. Ancora una volta il bello e il buono erano
accostati, al punto da divenire indistinguibili: “essere belli” era un altro modo per dire “essere
buoni”.
Se si applica alla filosofia questa nozione, ne nasce l’idea (che sarà fortemente sviluppata da varie
scuole, tra cui la prima Accademia e il neo-platonismo) che il bello e il buono siano due volti della
stessa medaglia, o addirittura due termini per dire la stessa cosa. Il riferimento è alla perfezione
dell’essere che sta sotto la superficie delle cose e delle emozioni del cuore.
Bene
Il termine greco è agathon, neutro sostantivato dell’aggettivo agathos, che significa buono. È uno dei
concetti fondamentali della filosofia, in due settori diversi che tuttavia in parte si sovrappongono:
- l’etica, che va alla ricerca della risposta alla domanda “che cos’è il bene?” per proporre un modello
per il comportamento dell’uomo;
- lo studio dell’essere, che va alla ricerca delle sue radici e si chiede che rapporto ci sia tra il bene e il
livello profondo dell’essere delle cose e dell’uomo.
Storia della parola
Nella tradizione greca dell’età degli eroi, il bene non ha una connotazione etica precisa: non è un
valore morale che si imponga per la sua superiorità. È il carattere delle cose eccellenti e dei
comportamenti legati alla virtù dell’eroe (vedi arete →).
In Omero tutto è bello e tutto è buono (Omero loda tutto, dicono gli studiosi), e i mali sono
l’effetto di un imperscrutabile destino superiore a uomini e dèi, o del capriccio degli dèi, o della
incapacità degli uomini di restare entro i limiti della propria natura (si veda per questo la nozione di
hybris: →).
La morale eroica non è una morale del bene: è una morale della virtù e dell’onore, codificata dalle
tradizioni che definiscono con precisione che cosa ci si aspetta dall’eroe e che cosa dall’uomo
comune (si parla in questo senso di civiltà dell’onore: →).
Dapprima nella tragedia attica, poi nella filosofia socratica e post-socratica, la nozione di bene
cominciò ad assumere una connotazione etica, e divenne quindi di primaria importanza la risposta
alla domanda “che cos’è il bene?” (o, se si preferisce una migliore esplicitazione: come riconosciamo
il bene rispetto al male? perché ciò che riconosciamo come bene è bene e non qualcos’altro?). È il
tema centrale della ricerca di Socrate e di Platone; in quest’ultimo filosofo il concetto di bene
assume una rilevanza primaria, ma non si giunge mai ad una chiara definizione teoretica di cosa sia
il bene e delle ragioni per cui il bene è bene.
Il problema filosofico del bene
Il problema ha un duplice aspetto:
- da un lato l’esperienza insegna che ciò che è bene per qualcuno (nei filosofi greci gli esempi
proposti riguardano anche gli animali, non solo l’uomo) può essere un danno per un altro; ed è su
questa base che i Sofisti proposero la loro dottrina del relativismo (→); una nozione filosofica nonrelativista del bene dovrebbe chiarire come sia possibile questa contraddizione (cioè che ciò che
chiamiamo bene possa essere male per qualcuno);
- d’altro lato la coscienza individuale così come le leggi della città hanno bisogno di un chiaro
sistema di riferimento per compiere le scelte, e il bene sembra essere la nozione corretta per fornire
questo metro; ma quando si prova a identificare in concreto di che si tratta, non se ne viene a capo
facilmente perché sarebbe necessario trovare dei fondamenti etici oggettivi, e nulla in natura ha
questo carattere.
Così i filosofi che ammettono una realtà più profonda della natura (come Platone o Plotino) cercano
il bene al di fuori della natura; mentre i filosofi che ritengono che la struttura profonda dell’essere sia
interna alla natura identificano il bene con elementi naturali (ad esempio il piacere (→) per gli
epicurei, o il dovere (→)per gli Stoici, che è naturale perché naturale è la ragione dell’uomo come
frammento del Logos universale).
Per tutti, in definitiva, il bene si identifica con la natura stessa (la natura, beninteso, che sta sotto la
superficie delle cose e degli eventi, concepita dai platonici come diversa dalla realtà materiale e dagli
altri come la struttura profonda dell’universo fisico).
Beozia
La regione storica greca della Beozia è delimitata a est dal Golfo di Corinto e dalla Focide, a nord
dalla Locride, a ovest dallo stretto di Eubea e a sud dall’Attica. La più celebre, e a lungo la più
potente, delle sue numerose città è Tebe (→), una delle capitali della cultura ellenica soprattutto in
età pre-filosofica.
La Beozia nel II Millennio a.C. era controllata dai Micenei con le loro rocche, poi subì alla metà del
millennio l’invasione degli Eoli, per passare poi gradualmente sotto il controllo dei Beoti, che erano
Greci del nord-ovest.
Dopo la prima metà del IV secolo a.C., quando Tebe era ancora in grado di lanciare la sua sfida
politico-militare alle altre poleis greche, finì tuttavia per entrare nell’orbita macedone, per poi
progressivamente decadere rispetto all’antica grandezza, non solo politica ma anche culturale. Una
parte non piccola dei più importanti miti greci ha avuto origine o sviluppo in questa regione, ad
esempio le complesse narrazioni su Edipo (→) e la sua famiglia.
Bibbia dei Settanta
Nell’ambiente degli Ebrei ellenizzati di Alessandria d’Egitto (→) intorno alla fine del II secolo a.C.
venne completato il lavoro di traduzione della Bibbia in greco. Questa versione fu detta Bibbia dei
Settanta perché secondo la tradizione furono settantadue gli intellettuali che vi lavorarono (una
leggenda dice che 72 dotti ebrei lavorarono indipendentemente al Pentateuco traducendolo in 72
giorni nello stesso identico modo).
L’opera ebbe diffusione amplissima nell’antichità (e non solo), e fu la versione utilizzata anche dai
primi cristiani, compresi gli Evangelisti e i primi Padri della Chiesa.
Biblion
Vedi Libro
Biblioteca
Da biblion (libro) e theke (deposito), il termine biblioteca indicava già nell’antichità i luoghi in cui si
raccoglievano i libri (→), nelle case private o in luoghi pubblici.
Come è ovvio, la circolazione libraria nel mondo antico era molto ridotta; le biblioteche pubbliche
erano quindi luoghi di fondamentale importanza non solo per il conservazione dei libri, e quindi per
consentire agli studiosi di consultarli e studiarli, ma anche per la ricerca. Per questa ragione erano in
più di un caso associate a strutture finalizzate alla ricerca. Le più celebri biblioteche dell’antichità
erano quelle di Alessandria (vedi Biblioteca di Alessandria: →) e di Pergamo (→), entrambe d’età
ellenistica.
Nel mondo romano esistevano poi biblioteche private di cui abbiamo varie notizie attraverso le fonti
letterarie. Di una in particolare possiamo farci un’idea piuttosto precisa perché è giunta fino a noi: è
a Ercolano, e consiste in una stanza quadrata di 4 metri circa di lato, con un tavolo al centro e gli
scaffali tutt’intorno. Lì sono stati recuperati, e in parte si è riusciti a leggerli, molti libri (cioè rotoli
di papiro). A partire dall’età di Augusto nel mondo romano vennero fondate varie biblioteche
pubbliche nelle maggiori città dell’Impero.
Ci sono state anche conservate resti di biblioteche molto più antiche in cui per lo più erano
archiviate tavolette d’argilla incise. A parte ritrovamenti in Egitto di papiri (materiale facilmente
deperibile, quindi i ritrovamenti sono stati occasionali e limitati), ci sono pervenute le biblioteche di
antichi palazzi del III millennio a.C. a Ebla, in Siria, e del II in Mesopotamia (migliaia di tavolette
d’argilla impresse in caratteri cuneiformi), nella Creta minoica, nella Grecia micenea, e così via.
Boule
Alle origini la boule in Grecia era il consiglio degli anziani che assisteva i sovrani. Passò a funzioni del
tutto diverse nei secoli successivi al crollo delle monarchie micenee, con uno sviluppo che non ci è
possibile seguire nei dettagli perché la documentazione storica per il periodo del cosiddetto
Medioevo ellenico è molto scarsa.
In età classica la Boule era un organismo pubblico tra i più importanti. Nell’Atene democratica
svolgeva una grande molteplicità di funzioni: strutturata nella forma di un consiglio molto
numeroso (cinquecento persone), ma con articolazioni interne complesse che consentivano piena
operatività, era al centro della vita politica quotidiana della polis; preparava i lavori dell’ecclesia, aveva
poteri esecutivi e di controllo, e aveva anche funzioni di polizia e giudiziarie.
Benché sia sempre difficile fare paragoni diretti tra le istituzioni politiche antiche e le moderne dei
regimi democratici, è possibile dire che insieme con altre funzioni, la Boule aveva le funzioni che
oggi sono esercitate dai Governi.
Brasida
Brasida è uno degli strateghi spartani più importanti nella prima fase della Guerra del Peloponneso.
Fu suo il progetto di colpire gli interessi ateniesi anche in aree molto lontane dall’Attica, strategia
che si dimostrò vincente, perché capace di infliggere ingenti danni ad Atene, sia pure a costo di seri
rischi per Sparta.
Morì nella battaglia di Anfipoli del 422 a.C., insieme con il generale ateniese che lo aveva attaccato,
Cleone. La prima fase della Guerra del Peloponneso si concluse, con la pace di Nicia del 421 a.C.,
proprio in conseguenza di questi eventi.
Calcolo degli utili
Nel contesto della dottrina etica dell’utilitarismo (→), il calcolo degli utili è la valutazione delle
conseguenze di una scelta in relazione a precisi parametri: il piacere e il dolore che ne conseguono.
Poiché nella vita dell’uomo il piacere e il dolore sono associati, nel senso che nessuna scelta porta
solo piaceri o solo dolori, ma un misto di entrambi, il calcolo degli utili serve a determinare se è
eticamente saggio compiere la scelta di cui si discute. In questo calcolo ha un peso determinante la
nozione di prudenza (→).
Il contesto in cui venne elaborata questa dottrina, che non ci è tuttavia nota nei dettagli per la
perdita dei testi originali in cui erano stati analizzati, è quello dell’Epicureismo.
Caldo / Freddo
Presso i primi filosofi naturalisti le nozioni di caldo (thermon) e di freddo (psycron), spesso associate a
quelle di umido e di secco (→), indicano forze primarie della natura che bilanciandosi in vario modo
danno luogo al ciclo delle stagioni e più in generale della nascita e della dissoluzione di tutti gli enti.
Non sono quindi intesi come caratteri di un corpo (che è innanzitutto tale, poi è caldo o freddo), ma
come forze che generano, in vario modo, i corpi.
Nelle filosofie successive venne introdotta l’idea che si trattasse di caratteri specifici connessi a
determinati corpi per natura (ad esempio il fuoco è caldo per natura).
La spiegazione della natura del calore rimase uno dei problemi determinanti per la fisica antica, così
come lo è stata per quella moderna. Ha assunto un’importanza centrale nello Stoicismo, in
connessione con la nozione di pneuma (→)
Calipso
Nella mitologia greca Calipso è una ninfa che viveva nell’isola di Ogigia agli estremi confini del
Mediterraneo occidentale (le descrizioni mitologiche hanno portato alcuni studiosi a proporre
l’identificazione di Ogigia non con un’isola, ma con la penisola di Ceuta, di fronte a Gibilterra).
Il nome Calipso significa colei che nasconde. Nelle sue peregrinazioni dopo la fine della guerra di
Troia, persa la rotta per Itaca, persi tutti i compagni e le navi, giunse da lei Ulisse, naufrago.
L’Odissea racconta che l’eroe visse presso di lei dieci anni, trattenuto dalla ninfa che si era
innamorata di lui. Le descrizioni dei luoghi che il racconto mitologico propone sono incantevoli: in
una natura incontaminata, presso boschi, sorgenti e giardini naturali, la dimora di Calipso si apriva
dentro una grande grotta con molte e confortevoli sale.
Nonostante l’amore di Calipso e la bellezza dei luoghi, Ulisse sognava il ritorno, e giunse a rifiutare
l’offerta di Calipso, che gli propose di restare presso di lei per sempre, ottenendo così l’immortalità.
Quando Ermes giunse da Calipso per portarle l’ordine di Zeus di lasciar partire Ulisse, Calipso
protestò con grande dignità; tuttavia non solo lasciò partire l’eroe, ma gli diede il legname per
costruire la zattera e gli indicò la rotta da seguire.
Altre tradizioni vogliono che Calipso e Ulisse abbiano avuto dei figli.
Callimaco
Nato a Cirene intorno al 305 a.C., il poeta greco Callimaco si trasferì presto ad Alessandria, dove
insegnò per alcuni anni finché non riuscì ad affermarsi presso gli ambienti di corte. Da quel
momento in poi la sua figura è legata alla nascita della Biblioteca di Alessandria (→), presso cui
lavorò a lungo impostandone anche i caratteri: risale al suo lavoro presso questa istituzione un
catalogo ragionato in 120 libri, di fondamentale importanza per lo sviluppo successivo
dell’organizzazione degli studi alessandrini, in cui era classificata tutta la produzione culturale greca
precedente al III secolo a.C.
L’organizzazione che Callimaco diede ai materiali della Biblioteca orientò le successive
classificazioni delle opere e delle produzioni antiche per generi letterari e per sequenze storiche,
sicché il suo lavoro è alle origini di quella risistemazione del patrimonio antico che gli alessandrini
portarono a compimento e che costituisce il filtro attraverso cui gran parte del patrimonio culturale
precedente è giunto fino a noi.
Callimaco fu anche uno dei più celebri poeti e scrittori dell’antichità, al punto da essere l’autore più
citato dalle fonti antiche dopo Omero. Delle sue numerosissime opere (ci viene tramandato che
abbia pubblicato qualcosa come 800 opere) rimane però ben poco: l’opera più importante erano gli
Aitia, una raccolta di elegie in cui “narrava” in versi molto raffinati, tipici del suo stile, antiche
vicende legate alla fondazione di città, o alla nascita di tradizioni, di toponimi, di cerimonie, e così
via.
Quest’opera, come altre di Callimaco (che peraltro è stato anche un poeta attento alla dimensione
privata dei sentimenti e delle emozioni), è espressione di quell’interesse tipico dell’età ellenistica
verso la tradizione antica della Grecia, in un’epoca in cui i caratteri specifici della tradizione stavano
cedendo il posto a quell’incontro tra Oriente e Occidente che ha caratterizzato l’Ellenismo.
Cambiamento
Vedi le voci Divenire e Movimento
Campi Elisi
Sono un luogo di cui si parla sia in alcuni miti, a partire da Omero, sia in alcune visioni poetiche,
per lo più legate alle religioni dei misteri (Pindaro ne offre una descrizione molto celebre) sia in
alcune visioni filosofiche di Platone in passi in cui sceglie di esprimersi, attraverso i personaggi dei
suoi dialoghi, in forma mitica.
Comunque se ne parli e ovunque li si collochi (i luoghi e le descrizioni divergono), i Campi Elisi
sono sede di vita felice dopo la morte. Anzi, oltre la morte, perché i beati che li abitano conservano
il corpo.
In Pindaro, e in altre descrizioni poetiche, se ne parla come delle Isole dei Beati.
Canone
Il termine greco è kanon. Venne utilizzato probabilmente per la prima volta in un uso specifico dallo
scultore Policleto che fu anche un teorico dell’arte: in uno scritto dal titolo appunto Canone
proponeva alcune regole geometriche per la resa armonica (vedi lavoce Armonia: →) del corpo
umano nella statuaria. Così la metà del corpo va posta nel punto di attacco delle gambe, la testa
deve essere la decima parte, o l’ottava, dell’intero corpo, e così via.
In Epicuro il canone è il criterio per identificare il vero e il falso (vedi Canonica: →)
Canonica
È la scienza del canone (→), cioè del criterio per la definizione della verità. È il termine usato da
Epicuro e dagli epicurei per indicare la logica e la teoria della conoscenza, cioè quella parte della
filosofia (accanto all’etica e alla fisica) che si occupa della definizione dei criteri di verità e delle
forme del pensiero dell’uomo e più in generale della conoscenza. Ad esempio è nella canonica che si
va alla ricerca delle ragioni per cui i sensi inducono facilmente in errore e del modo per correggere
questi errori. È in questo contesto di ricerche che prende forma lo studio epicureo, su base
materialista, della coscienza umana.
Caos
In greco chaos significa letteralmente apertura, voragine, o abisso. Nei racconti cosmogonici (vedi
Teogonia →) dei poeti, ad esempio in Esiodo, il Caos è l’entità primordiale, informe e originaria,
che esiste alle origini e da cui prendono forma tutti gli esseri.
In età classica Platone riprese questo concetto nei suoi miti (ad esempio nel Timeo) facendo del caos
originario il ricettacolo della materia informe. Lo concepisce quindi come una sorta di stato
originario della materia, privo di qualsiasi forma e dunque suscettibile di assumerle tutte, cosa che
avviene per opera del Demiurgo che plasma questa materia secondo il modello delle forme ideali
(cioè le idee platoniche).
In entrambi questi modelli mitologici dal caos originario attraverso un processo divino l’universo è
divenuto un cosmo (→), cioè ha assunto la sua forma ordinata (o semi-ordinata, non essendo per
Platone il mondo pienamente ordinato).
Nella nozione greca di Caos quindi, oltre al senso che è rimasto in italiano di disordine, o
confusione, c’è anche il senso dell’immenso spalancarsi dello spazio vuoto, e i sue concetti non sono
di per sé assimilabili.
Carmide
Al giovane Carmide è intitolato uno dei dialoghi aporetici di Platone, il Carmide, appunto, in cui si
esamina che cos’è la saggezza. È un ragazzo molto bello e brillante, che accetta di essere esaminato
da Socrate e avvia con lui e Crizia un percorso dialettico. Carmide è il tipico giovane dalle buone
capacità che segue Socrate nelle sue indagini filosofiche.
Carneade
Carneade (219-129 a.C.), vissuto circa un secolo dopo Arcesilao, è il secondo filosofo scettico
dell'Accademia di mezzo. La sua figura è presentata dai contemporanei come straordinaria.
Sembra che avesse una sorprendente capacità dialettica, che colpì moltissimo i Romani.
Infatti nel 155 a.C. Carneade, insieme con altri filosofi greci, andò a Roma per una ambasceria. In
quella occasione tenne un giorno un discorso a difesa della giustizia e, in un giorno successivo, un
altro contro la giustizia. In Grecia la retorica era coltivata da secoli e sin dai tempi dei sofisti erano
nell'uso questo genere di discorsi contrapposti, particolarmente curati dagli scettici perché
mettevano bene in luce la relatività della conoscenza umana e soprattutto la sua incertezza. Per i
Romani si trattò invece di una esperienza straordinaria, che contribuì ad accrescere il fascino che su
di essi esercitava la cultura greca.
Rispetto ad Arcesilao e alla precedente tradizione scettica, Carneade ha sviluppato una sorta di
teoria della probabilità. Perché un giudizio possa essere vero, esso deve soddisfare certe condizioni,
che Carneade esamina nei particolari, per mostrare, tuttavia, come esse non possano mai essere
pienamente soddisfatte. Vi sono però diversi gradi di certezza di un giudizio, e il filosofo può
costruire una teoria per definire il maggiore o minore grado di probabilità che una sua idea sia vera.
Il termine greco pithanon, che traduciamo con probabilità, significa alla lettera attendibilità,
persuasività.
La contrapposizione delle opinioni, i discorsi contrapposti, la ricerca ed il confronto dialettico sono
dunque strumenti di progressivo controllo dell'errore. A questo fine, ad esempio, nel dibattito tra le
scuole filosofiche ad Atene Carneade non esitava a porsi in maniera antitetica rispetto a un
avversario, e ciò allo scopo di porre in evidenza criticamente l'errore. Si tratta quindi di una
interpretazione estremizzata del metodo socratico-platonico.
Queste dottrine influenzarono molto la cultura romana del I secolo a.C.; così Cicerone, riprese e
discusse nelle sue opere filosofiche le tesi dello scetticismo dell'Accademia. Le argomentazioni di
Carneade sulla giustizia, a favore e contro, vennero da lui poi riprese nel De republica.
Capriccio degli dèi
Nella mitologia greca gli dèi non sono modelli di rigore morale. Personificano forze della natura o
aspetti della vita psichica dell’uomo e degli animali, o consentono con i racconti delle loro gesta (i
miti: →) di spiegare questo o quel comportamento della natura, o gli eventi che determinano la vita
dell’uomo. Sono imprevedibili e quindi in qualche modo capricciosi, ed è quindi ovvio che i Greci
temano quello che chiamano il capriccio degli dèi.
Cartagine / Cartaginesi
La Carthago dei Romani – Karkedon per i Greci, Qart Chadashat nella lingua dei Fenici – venne
fondata probabilmente da coloni provenienti da Tiro, in Fenicia, intorno all’814 a.C., nel contesto
di un processo di colonizzazione del Mediterraneo occidentale, ed in particolare delle coste africane.
Rispetto alle altre città fenicie dell’Occidente, Cartagine riuscì nel corso dei due secoli successivi alla
sua fondazione ad assumere il ruolo di città capofila di un vero e proprio impero marittimo, con la
fondazione di numerosi centri collegati alla madrepatria da precisi rapporti di dipendenza
economica e politica (in Africa stessa, in Spagna e nelle isole maggiori del Mediterraneo, la
Sardegna, la Corsica e la Sicilia).
Dal punto di vista militare Cartagine si serviva per lo più di mercenari, perché i suoi cittadini erano
prevalentemente mercanti. La costruzione del suo impero marittimo e commerciale richiese
comunque un impegno militare, che non fu fortunato fino alla fine del V secolo a.C. Quando infatti
in occasioni precedenti – come la Battaglia di Imera (→), combattuta in Sicilia nel 480 a.C. –
Cartagine si era scontrata con i Greci, era stata sconfitta, anche se in generale era riuscita a tenere
fuori i Greci dalle proprie aree di influenza e aveva stretto accordi che evitavano la guerra con le
potenze del nord, prima gli Etruschi, poi i Romani. Invece sul finire del V secolo i Cartaginesi
ripresero le armi contro i Greci di Sicilia infliggendo loro serie sconfitte (Imera, Selinunte, la stessa
Agrigento vennero distrutte), senza risultati però decisivi per il rafforzarsi della potenza di Siracusa.
Lo scontro divenne inevitabile coi Romani nel III secolo a.C., per il controllo della Sicilia, quando i
Romani nella loro espansione decisero di non fermarsi di fronte al mare e divennero una potenza
marinara. Quelle che ne seguirono sono, per la storiografia romana, le cosiddette Guerre Puniche
(→), al termine delle quali Cartagine venne completamente distrutta.
Cartografia
È l’insieme delle pratiche e delle tecniche con cui si realizzano mappe bidimensionali della
superficie terrestre (vedi anche Geografia: →).
Benché apparentemente lontana dalla filosofia e dai suoi problemi, la cartografia antica è invece
strettamente collegata con le ricerche dei filosofi per una ragione precisa: il disegno delle terre
emerse e delle coste implica una visione globale della Terra e un’idea della sua posizione rispetto agli
astri, rispetto ai quali ci si orienta. La cartografia mantiene quindi lo stesso tipo di legame con la
ricerca filosofica di altre pratiche che trovarono applicazione negli stessi secoli, come la scrittura
alfabetica, legata allo sviluppo di determinate forme di pensiero (vedi Alfabeto: →) o la medicina o
l’urbanistica: in tutte queste pratiche, e in altre assimilabili, è in opera una certa concezione dello
spazio in cui viviamo, dell’uomo come ente naturale legato alle forze universali in opera in natura,
della sua posizione nel cosmo. In estrema sintesi, è in opera una concezione razionale della realtà.
La tradizione vuole che il primo cartografo sia stato Anassimandro, nel VI secolo a.C., nel contesto
di una precisa visione della Terra come corpo posto al centro dell’universo e avente forma cilindrica.
Il piano delle terre emerse sarebbe quindi la superficie superiore del cilindro, racchiusa dalle acque
dell’oceano, concezione che corrisponde anche alle più antiche visioni mitiche (vedi Oceano: →).
La carta di Anassimandro, come le successive, aveva funzioni pratiche, in un mondo come quello
ionico fortemente esposto ai pericoli della navigazione e alle incertezze sulle distanze tra i porti. Ma
rispondeva anche ad un interesse teorico, nel senso che mostrava visivamente una certa concezione
della Terra.
Le prime rappresentazioni fedeli della superficie terrestre, o meglio delle terre del Mediterraneo,
dell’Europa e del Medio Oriente, furono ottenute molto più tardi. Fu infatti l’astronomo Tolomeo
(→) che, conoscendo la dimensione della Terra (definita con buona approssimazione da Eratostene
nel III secolo a.C.), e quindi il grado della sua sfericità, applicò per la prima volta lo studio
matematico delle proiezioni. Uno dei problemi della cartografia era (ed è) quello di disegnare sulla
superficie bidimensionale piana le terre emerse e i mari che sono collocati su una superficie
tridimensionale e curva.
All’epoca di Tolomeo, comunque, la cartografia aveva già fatto molti passi: al tempo di Cesare si
fecero molti sforzi per raccogliere dati per la rappresentazione cartografica delle terre dell’Impero.
Varrone nel 40 a.C. riferisce che in un luogo pubblico a Roma era esposta una carta murale
dell’Italia. E sappiamo che Cesare si era servito di tecnici al seguito delle sue legioni per la
rappresentazione delle terre su cui operava.
Caso
Nel linguaggio corrente oggi il termine caso indica il fortuito accadere degli eventi, che non è però
considerato tale in assoluto, ma solo in relazione al fatto che, non avendo tutte le informazioni
necessarie per sapere che cosa accadrà, per noi gli eventi sono casuali: accadono, e se ne prende atto
senza riuscire a prevederli.
Il problema filosofico connesso al termine caso è riassumibile nella seguente domanda: se avessimo
tutte le informazioni che sono necessarie per prevedere un determinato evento, saremmo certi che
l’evento si produrrà per una interna necessità (→) delle leggi di natura?
Se manca la certezza di questa necessità, va allora esaminata la nozione di caso, termine che indica
un fatto preciso: un certo evento che si è realizzato non dipende da eventi precedenti. È avvenuto,
ma non c’era motivo perché avvenisse né forza che lo abbia determinato secondo necessità.
Esiste in natura il caso o è solo una possibilità teorica concepita dalla mente? Le posizioni
filosofiche greche sul tema sono tre:
- le scuole scettiche (e tutte quelle che assumono posizioni scettiche su questo punto, senza essere
scettiche su altre questioni) sospendono il giudizio, ritenendo indecidibile la questione;
- l’epicureismo ammette il caso in natura, in quanto uno dei movimenti degli atomi è del tutto
casuale e non dipende da movimenti precedenti né da forze necessarie (è il clinamen: →);
- la maggior parte delle scuole filosofiche (dai naturalisti agli Stoici al neoplatonismo) nega
l’esistenza reale del caso in natura, assumendo il principio che la necessità (→) delle leggi di natura
non ammette eccezioni.
Catarsi
La parola italiana deriva dal greco katharsis, che significa purificazione (da kataros, puro). L’origine
del termine e del concetto appartiene alla sfera delle credenze religiose e magiche: la katharsis è,
nella tradizione, la purificazione rituale da una contaminazione (miasma) (rimandiamo su queste
pratiche alla voce Contaminazione / Purificazione: →).
Nel V secolo a.C. il termine katharsis cominciò ad essere usato nel linguaggio dei medici razionalisti
(lo si ritrova negli scritti dei medici ippocratici della Scuola di Cos: →) per indicare l’evacuazione di
umori patogeni, sia naturale che indotta per ragioni di cure mediche.
Contemporaneamente, i Sofisti associavano la catarsi alla sfera del discorso umano, nel contesto di
quegli effetti di incantesimo che Gorgia riserva alla parola.
Senza che il significato magico e quello medico venissero mai meno (sono anche richiamati in vari
testi filosofici, soprattutto in Platone), Aristotele nella Poetica e nella Retorica associa la catarsi alla
tragedia e alla musica, per i suoi effetti che queste arti hanno sui suoi fruitori.
I piani a cui questo termine viene associato (magico, medico, estetico) non sono del tutto separati e
non è un caso se la parola è la stessa. Non che Aristotele intenda richiamare effetti magici o medici
nel dire che la tragedia determina la catarsi delle passioni: ma nei suoi scritti la forza della
dimensione estetica è sottolineata dall’uso di questo termine che evocava nei suoi lettori e ascoltatori
(ed evoca in noi) un che di magico e un sapore di guarigione.
Categoria
La nozione di categoria (in greco kategoria) è introdotta nel linguaggio della filosofia da Aristotele,
che ne tratta in due luoghi; nella Metafisica e nelle Categorie, un’opera parte dell’Organon. In effetti
questa nozione aristotelica ha due volti, uno legato alla sostanza, e quindi al problema dell’essere e
della identità degli enti, un altro agli strumenti del pensiero:
- quanto al primo volto, le categorie sono tutti i modi a cui si può rispondere alla domanda “che
cos’è?” riferita a un ente, quindi (in Aristotele) a una sostanza: sono quindi i diversi modi di essere
delle sostanze;
- quanto al secondo volto, le categorie sono tutti i possibili predicati di un soggetto, cioè tutto
quanto è possibile dire di qualcosa.
Perché il dire qualcosa di un soggetto risponda a verità, quanto diciamo (i predicati) deve
corrispondere ai modi di essere reali della cosa di cui si parla. In questo senso le categorie come modi
di essere delle cose devono corrispondere alle categorie come modi di pensare le cose.
La lista delle categorie che compare negli scritti aristotelici, in numero di dieci, è stata poi fissata e
codificata dalla tradizione, ma dal contesto non è chiaro se Aristotele considerava esaustivo questo
elenco. Si tratta in ogni caso della lista dei generi (→) più generali dell’essere, cioè di nozioni
irriducibili tra loro e caratterizzanti ciò che è.
Le categorie aristoteliche sono dunque:
- la sostanza (→) (ousia: in realtà riassume in sé le altre, perché costituisce nella sua pienezza la
risposta alla domanda “che cos’è?”);
- la quantità (poson);
- la qualità (poion);
- la relazione (pros ti);
- il dove (pou);
- il quando (pote);
- la posizione (cheisthai);
- l’avere (echein);
- il fare (poiein);
- il subire (paschein).
Nel loro complesso, le categorie rispondono alla necessità della mente umana di comprendere il
mondo reale, esterno al pensiero, attraverso il pensiero. Per far questo è necessario ridurne al
minimo la complessità, raggruppando le caratteristiche delle cose in generi talmente generali, che
non sia più possibile per il pensiero giungere ad un grado più alto di generalità.
Va precisato che il verbo greco kategoreo alle origini aveva una significato giuridico e significava
accusare, denunciare; nel IV secolo a.C. aveva assunto il significato di affermare ed è Aristotele a
dargli un significato specificamente filosofico: le categorie sono ciò che viene affermato del mondo,
e la loro lista costituisce una griglia al cui interno qualsiasi cosa è definibile.
Causa
Nella filosofia antica la nozione di causa è stata elaborata con rigore a partire da Aristotele, anche se
molti dei concetti aristotelici sono già presenti nelle teorie dei naturalisti, in Platone e in Democrito.
Va precisato che il termine causa nella filosofia moderna, e più in generale nella cultura a noi
contemporanea, ha assunto un significato più ristretto e dato vita a problematiche diverse. Va quindi
messa tra parentesi la nozione moderna per affrontare lo studio di quella antica.
Il termine greco è aitia, sostantivo femminile derivato dal qualificativo aitios, che significa “artefice
di...” (da questo termine è composto il termine medico italiano “eziologia”, che indica la ricerca
delle cause dell’insorgere di una malattia). In Aristotele l’indagine sulle cause è di importanza
centrale per comprendere il perché di un ente, e la filosofia stessa è scienza delle cause, cioè dei
perché la realtà è così.
Le cause su cui fare ricerca sono per Aristotele di quattro tipi diversi:
- la causa materiale: in questa ricerca si indaga sulla materia (→) di cui è fatto ciascun ente (ad
esempio una statua di bronzo non può esistere senza il bronzo di cui è fatta);
- la causa formale: qui l’indagine si rivolge alla forma (→) specifica dell’ente, che lo fa essere ciò che
è (ad esempio nell’uomo l’essere razionale);
- la causa efficiente: per intendere un ente, è necessario comprendere da dove deriva, qual è stato cioè
il movimento che ne ha determinato il suo specifico modo d’essere (così, ad esempio, non si
comprende il figlio senza il padre);
- la causa finale: qui l’indagine ha di mira uno degli aspetti tipici della ricerca filosofica aristotelica,
che è convinto che ogni ente in natura abbia uno scopo e che la natura nel suo complesso vada
intesa finalisticamente; così è necessario sapere qual è lo scopo di un ente per comprenderne la
natura (in risposta a domande del tipo: perché è fatto così? a che serve che sia fatto così?).
L’insieme delle cause ha di mira la comprensione profonda della sostanza delle cose, e in generale la
teoria delle cause va quindi connessa in Aristotele alla teoria della sostanza (→).
Dopo Aristotele una egualmente articolata teorie della causalità è stata elaborata dagli Stoici, che
distinguono anch’essi vari tipi di cause, tutte ricondotte però a quella che essi chiamano causa
sinettica, che è causa in senso produttivo. Lo scettico Sesto Empirico riferendo delle teorie degli
Stoici la definisce in questo modo: sono sinettiche le cause “presenti le quali, è presente l’effetto, tolte o
diminuite le quali, è tolto o diminuito l’effetto” (Ipotesi Pirroniane, III-14)
Causa prima
Dizione aristotelica per indicare l’oggetto della filosofia prima (→): la causa prima è Dio, in quanto
atto puro che, come motore immobile (→), spiega la realtà del movimento dell’intero universo e dà un
senso finalistico al Tutto.
Vedi anche la voce Causa (→). L’aggettivo prima indica il fatto che non ha cause a monte di essa
che la determinino, mentre è al principio della catena di cause (efficienti e finali) che spiegano per
Aristotele la struttura della realtà.
Va infine osservato che la stessa nozione può essere espressa dalla dizione causa ultima, se il punto di
vista dal quale ci si colloca non è quello della causa stessa, ma quello del ricercatore-filosofo che
inizia la ricerca sulle cause e per conseguenza parte dall’analisi della realtà sensibile, rispetto alla
quale si tratta di risalire alla causa originaria, che verrà trovata, appunto, per ultima.
Il problema a cui risponde la teoria aristotelica della causa prima è la conoscenza dell’origine delle
cause che osserviamo in natura: conoscere scientificamente infatti per Aristotele significa
innanzitutto comprendere le cause, e dietro una causa se ne scopre sempre un’altra, in un processo
che non può però essere portato all’infinito. La catena deve avere un’origine in una causa che non
rimanda ad altre cause, cioè ad una causa prima.
Centro
La nozione è geometrica (dal greco kentron, che è l’aculeo, la punta del compasso e, quindi, il
centro), ma, a partire da questa dimensione è utilizzata anche in senso figurato.
Come nozione geometrica, presuppone una figura finita, rispetto alla quale sia possibile calcolare le
distanze di ciascuno dei punti: così il centro di una circonferenza è, per definizione, l’unico punto
equidistante da ogni punto della circonferenza.
Questa nozione ha un particolare significato nella cosmologia antica, in quegli autori che
concepiscono l’universo finito: ad esempio in Aristotele, come nei primi filosofi naturalisti, la Terra
è posta al centro dell’universo, ma non mancano le teorie astronomiche che pongono invece al
centro il Sole (in particolare la teoria di Aristarco di Samo (→). La nozione di centro dell’universo è
invece esplicitamente negata da quei filosofi che concepiscono l’universo infinito, come Epicuro,
perché uno spazio infinito non forma alcuna figura geometrica e non può avere un centro.
Poiché il centro presuppone una eguale distanza da una moltitudine di elementi, la nozione è
utilizzata in senso figurato laddove si debba esprimere una forma di eguaglianza, ad esempio
politica: nella concezione greca della isonomia (→), cioè dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla
legge nei sistemi democratici, si trova riflessa l’idea che i membri della comunità politica (i polites,
cioè i membri della polis, i cittadini) siano come i punti di una circonferenza rispetto al centro: a
uguale distanza, e quindi in condizione di uguaglianza fra loro.
Certezza
Il campo di problemi a cui fa riferimento questo termine è quello della conoscenza (vedi quindi
Conoscenza, Problema della: →). La certezza non è né solo sapere qualcosa, né solo la coscienza di
sapere qualcosa; è anche la coscienza che quello che si sa è vero al di là di ogni possibile dubbio.
La certezza implica quindi l’assenso (→) verso una verità nota. Questa certezza può avere anche un
carattere negativo: può riguardare quindi la coscienza di non sapere qualcosa, e in questo senso
anche uno scettico, che dubita di tutto, può dichiararsi certo di qualcosa (di qualcosa di negativo,
che non sa nulla di certo). Il tema del rapporto tra certezza e scetticismo è stato oggetto di analisi
approfondita soprattutto in età medioevale e nelle filosofie a noi più vicine, ma è posto già nel
contesto della filosofia greca.
Certezza e verità (→) sono quindi due nozioni da tenere ben distante, anche se c’è un evidente
nesso tra loro: la certezza è di un soggetto del pensiero, la verità si riferisce ad un oggetto del
pensiero.
Chora
Vedi Materia
Ciclo
La filosofia greca è particolarmente attenta a molti fenomeni che si ripetono ciclicamente, cioè con
una piena uniformità nel tempo: ad esempio i fenomeni stagionali, o l’alternarsi del giorno e della
notte, tutti fenomeni che entrano a comporre quel quadro della natura come realtà ordinata e
regolata da leggi costanti che i Greci ci hanno tramandato. La regolarità dei fenomeni naturali
trova il suo modello perfetto nel movimento ciclico dei cieli (→).
Alla nozione di ciclo come ripetizione nel tempo fa riscontro la nozione stoica di Grande Anno (→),
che presuppone che a ripetersi ciclicamente non siano determinati fenomeni nel tempo, ma il tempo
(→) stesso, la cui struttura sarebbe ciclica e non lineare.
Cielo
A parte l’uso generico e non tecnico del termine, la nozione greca di cielo (ouranos) può essere
declinata al plurale e indica realtà fisiche ben determinate (della stessa materia di cui sono fatti i
corpi terrestri, come pensano Epicurei e Stoici, o di una materia diversa, come pensa Aristotele).
Mentre il termine italiano cielo fa riferimento ad un insieme ottico (quel che si vede alzando gli
occhi da Terra di giorno e di notte) a cui corrispondono moltissime entità fisiche del tutto diverse e
lontanissime tra loro (cielo è otticamente tanto il luogo delle nuvole, a centinaia di metri sopra di
noi, quanto delle stelle, distanti anni luce dalla Terra), il cielo per una parte delle scuole filosofiche
greche è la parola che descrive ciascuna delle sfere cristalline che ruotano ciclicamente intorno alla
Terra (vedi la voce Sistema tolemaico: →). Ciascun cielo è quindi una entità fisica a se stante.
Non per tutte le scuole, però: ovviamente non c’è alcun cielo (nel senso di realtà fisica a se stante
diversa dalla Terra) per quelle teorie, come quella epicurea, che concepiscono infinito l’universo e
reale il vuoto. L’idea dell’esistenza di cieli come realtà fisiche trasparenti alla luce, ma solide,
dipende anche dal rifiuto dell’idea che esista uno spazio vuoto (→), cioè privo di materia. Così in
Aristotele, ad esempio.
Nel mito, e in particolare in Esiodo, il Cielo è invece una divinità – Urano (→) – in netta
contrapposizione a Gea – la Terra.
I problemi filosofici e scientifici sul cielo, e più in generale sui fenomeni celesti, sono di diverso tipo.
- Innanzitutto la natura dei cieli e dei corpi celesti: di che materia sono fatti, se uguale alla materia
terrestre o diversa; quale forza li muove; come si sono generati; e così via.
- Poi il rapporto tra la realtà fisica e la realtà divina: diverse filosofie vedono nei cieli la sede della (o
delle divinità), o il luogo al di là del quale hanno vita esseri divini: si pensi alla teologia astrale di
Platone, ripresa su vari punti dagli Stoici; al Dio aristotelico, che intrattiene con i cieli un preciso
rapporto di amore (dei cieli verso Dio, non viceversa); e alla stessa concezione epicurea degli dèi, che
vivono negli intermundia (→).
- In ultimo, il rapporto tra i cieli e il destino dell’uomo: nell’antichità erano diffuse le ricerche
astrologiche (vedi la voce Astrologia / Astronomia: →), compiute dagli stessi astronomi, alla ricerca di
corrispondenze tra i movimenti dei cieli, e le posizioni dei corpi celesti, e il destino individuale di
ciascuno, secondo la teoria che vede una diretta influenza degli astri sull’uomo (e più in generale su
tutte forme di vita sulla Terra).
Cinici / Scuola Cinica
Quella dei Cinici è una delle Scuole socratiche (→) formatesi ad Atene e altrove dopo la morte del
maestro. Il nome deriva da un ginnasio fuori Atene che si chiamava Cinosarge, cioè “cane agile”.
Il primo rappresentante della scuola, e allievo diretto di Socrate è Antistene (→), ma la figura più
nota è quella di Diogene di Sinope (→). La scuola fu a lungo attiva, non come organizzazione
strutturata come l’Accademia, il Liceo e poi le scuole ellenistiche, ma come corrente di pensiero e
soprattutto come espressione di un modello di vita.
L’interesse fondamentale dei Cinici fu infatti di carattere etico. La loro filosofia proponeva uno stile
di vita del tutto libero e indipendente, fondato sulla pratica costante degli esercizi filosofici (askesis:
vedi la voce Esercizi spirituali: →) propri della scuola e sul più rigoroso rispetto della natura umana,
considerata nei suoi aspetti più concreti, sia fisici che spirituali. L’ideale di vita proposto aveva come
fine l’autosufficienza (autarkeia), che può essere ottenuta solo esercitandosi a mantenere al livello
minimo (quello richiesto dalla natura fisica e spirituale dell’uomo) le proprie necessità. Il richiamo
simbolico al “cane” nel nome stesso della scuola indica questa riduzione agli aspetti essenziali della
vita, che in sé è libera. I Cinici poi proponevano come simbolo per le proprie scelte la figura mitica
di Eracle (→), per la sua capacità di affrontare fatiche immani attraverso un duro esercizio e la piena
padronanza di sé.
L’insieme dei comportamenti socialmente accettati, o addirittura codificati nella legge (nomos), nella
misura in cui sono contrari alla semplicità della natura sono da respingere, e vengono fatti oggetto
dai Cinici di palese e ostentato disprezzo. Il Cinismo, come proposta di uno stile di vita mirante
all’autosufficienza nel pieno disprezzo delle convenzioni sociali, si mantenne in vita tra alti e bassi
per tutti i secoli dell’ellenismo, ed era ancora attiva nel II secolo d.C.
Circe
Associata a miti molto noti come quello degli Argonauti e di Ulisse, la maga Circe (figlia del Sole e
dotata di poteri magici) abitava nelle narrazioni mitologiche l’isola di Eea, che gli antichi
identificavano con il promontorio Circeo, sulla costa dell’Italia centrale.
Personaggio inquietante per l’uso che fa dei suoi magici poteri, nell’Odissea è protagonista di uno
degli incontri di Ulisse nel corso delle sue peregrinazioni. Trasforma i compagni dell’eroe in maiali,
e prova a farlo anche con Ulisse che, avvertito da Ermes che gli aveva dato un’erba che vanificava la
magia di Circe, resiste all’incantesimo.
Costretta a trasformare nuovamente in uomini i suoi compagni, Circe accoglie Ulisse che rimane
presso di lei un mese (o, secondo varie tradizioni, un anno dandogli anche un figlio). Quando l’eroe
e i suoi compagni partono, Circe li avverte dei pericoli a cui vanno incontro.
Ha anche un ruolo nel ciclo legato agli Argonauti, perché purifica Giasone e Medea che giungono
sulla sua isola nel loro viaggio.
Circolo degli Scipioni
Intorno alla nobile e potente famiglia degli Scipioni appartenente alla gens Cornelia, tra le più attive
al vertice dell’oligarchia senatoria romana tra il III e il II secolo, si formò all’inizio del II secolo a.C.
un circolo culturale dai contorni indefiniti, ma influente sia sul piano politico che culturale,
orientato in senso filo-ellenico. Il circolo si scontrò con gli ambienti tradizionalisti dell’epoca
(Catone il censore attaccò in vario modo gli Scipioni, anche sul piano giudiziario), e rappresentò
una delle forme di apertura del mondo romano verso la cultura greca.
Fu nell’ambito di questo circolo che operarono storici greci come Polibio (→) e filosofi come lo
stoico Panezio (vedi Stoicismo: →). Gli ideali politici degli Scipioni vennero poi ripresi da Cicerone
nel I secolo a.C.
Cirenaici
Sono così chiamati i filosofi della Scuola di Cirene, così chiamata perché fiorita in questa città della
Libia (Cirene era una colonia greca fondata nel VII sulla costa africana del Mediterraneo), ma
fondata da Aristippo di Cirene (→) che ad Atene era stato uno degli allievi di Socrate. Quella
Cirenaica è quindi una delle Scuole socratiche (→) del IV secolo a.C., che fu attiva anche in età
ellenistica, ma non oltre il III secolo a.C.
Il tratto tipico dei Cirenaici era l’insistenza sulla sensazione come base della conoscenza umana, e la
limitazione della nostra capacità di giudizio al mondo interiore di ciascuno: l’uomo è un individuo
chiuso nella propria interiorità, sicché ciascuno solo per sé può giudicare del piacere e del dolore,
così come delle sensazioni, il cui carattere soggettivo è giudicato ineliminabile e insuperabile.
Su queste premesse i Cirenaici hanno sostenuto un’etica del piacere immediato diversa da quella di
tutte le altre scuole dell’epoca (la loro concezione del piacere ha caratteri specifici, che la
differenziano da quella di Aristotele, di Epicuro, e di altri filosofi che hanno dedicato attenzione
etica al piacere): unici nel panorama greco, i cirenaici hanno proposto il piacere fisico nella sua
immediatezza ed essenzialità come l’obiettivo della vita etica.
Fu Aristippo il giovane, un nipote del fondatore della scuola, a codificare i principi della scuola, nel
cui contesto nacquero nel III secolo a.C. teorie che erano radicali per la tradizione culturale greca,
come quelle di Teodoro, detto l’ateo per avere sostenuto (un caso quasi unico in Grecia) il più
completo ateismo.
Un tratto invece che accomunava i Cirenaici ad altre scuole, come lo Stoicismo, era la
considerazione dell’uomo come cittadino del mondo, secondo la visione del cosmopolitismo (→)
ellenista.
Cirene
La città di Cirene sorgeva sulla costa della attuale Libia su un’altura non lontana dal mare. Venne
fondata da coloni dori nei primi decenni del VI secolo a.C., e dovette combattere a fondo sin
dall’inizio della sua esistenza per affermarsi nell’area, stretta tra i Cartaginesi a occidente e gli
Egiziani a oriente.
Dopo un periodo di lotte, anche interne, riuscì ad affermarsi come ricca e splendida città greca tra il
V e il IV secolo (i resti archeologici sono ancora oggi imponenti), prima di essere conquistata da
Alessandro Magno ed entrare a far parte poi del regno dei Tolomei. Fu forse questo il periodo di
maggiore splendore artistico e culturale, prima dell’inserimento nel mondo romano, a seguito della
conquista romana dell’Egitto del I secolo a.C..
A Cirene sono legati alcuni momenti specifici della vita filosofica dell’antichità, in particolare con la
cosiddetta Scuola Cirenaica (→), che qui ebbe sede nel IV secolo a.C.
Città
Vedi Polis
Cittadino / Cittadinanza
Vedi Polites / Politeia
Cittadino del mondo
Vedi Cosmopolitismo
Civiltà della scrittura
Si parla di civiltà della scrittura (→) per indicare le trasformazioni che derivarono a partire dal VII
secolo a.C. dal progressivo estendersi dell’uso della scrittura alfabetica greca agli usi più diversi.
Benché non sia affatto scomparsa l’oralità – e quindi la civiltà greca della scrittura sia stata
comunque ancora in parte anche una civiltà dell’oralità – l’introduzione della scrittura ha avuto
un’influenza
- sul diritto, consentendo il passaggio da leggi tradizionali, in genere connesse al potere giudiziario
delle classi nobiliari, a leggi scritte, connesse con l’istituzione di Tribunali di tipo diverso;
- sulle forme della comunicazione, che passano da strutture orali come la poesia ai molti generi
letterari della prosa, che non può esistere di fatto senza la scrittura;
- sulle forme della ricerca scientifica, a partire dalla matematica fino ai più vari campi delle scienze,
perché solo la scrittura consente la raccolta sistematica dei dati e il loro ordinamento (la sintesi della
geometria greca negli Elementi di Euclide non è solo una raccolta del sapere matematico greco, ma
anche una sistemazione razionale e deduttiva che presuppone la pratica della scrittura).
Sono anche state elaborate teorie che ritengono che le forme del pensiero nella civiltà della scrittura
siano parzialmente diverse da quelle della civiltà dell’oralità (e, sulla base di questa ipotesi, è quindi
stata elaborata la tesi che nella nostra civiltà multimediale si stiano trasformando le forme del
pensiero delle nuove generazioni).
Classificazione delle scienze filosofiche
Il termine classificazione è moderno, mentre il termine scienza applicato alla filosofia è greco
(episteme: vedi Scienza: →).
Sia Aristotele (e prima di lui in forma diversa Platone) che le scuole ellenistiche pongono il
problema di un ordinamento delle scienze filosofiche perché ritengono che la filosofia non sia una
scienza tra le altre, ma si identifichi con il complesso delle possibili conoscenze umane, nessuna
esclusa. Il filosofo è lo scienziato che raccoglie in una prospettiva unitaria tutto il sapere.
Quei ricercatori che, come Platone, parlano del filosofo solo come di un amico del sapere, non
hanno ovviamente dato luogo a classificazioni di questo tipo, che mal si adattano ai processi sempre
aperti e mai classificabili della libera ricerca dialettica; tuttavia Platone ha posto questo problema,
soprattutto quando ha studiato, nell’ultima parte dei dialoghi, l’ordinamento delle idee e le gerarchie
tra loro (la dialettica come forma di riunificazione del sapere e, allo stesso tempo, come conoscenza
dell’articolazione del pensiero e della realtà).
Altri filosofi, come Plotino, hanno rivolto tutto il loro interesse alla vita dello spirito e, pur
interessati in linea di principio almeno alla bellezza del mondo sensibile, di fatto non hanno svolto
indagini sulla natura, e quindi anch’essi non hanno proposto un ordinamento delle scienze
filosofiche che comprendesse anche le scienze della natura.
Quanto agli scettici, a loro avviso non si può parlare di scienza né per la filosofia né per alcun’altra
disciplina.
Va poi osservato che per tutti, nessuno escluso, la filosofia mantiene un aspetto unitario, e ogni
classificazione risponde ad esigenze pratiche (ad esempio di scuola) o teoretiche (ad esempio
Aristotele propone distinzioni sui principi), ma mai punta a frazionare l’unità del sapere in
compartimenti tra loro non comunicanti.
Avremmo forse una visione un po’ diversa della filosofia greca su questo punto se ci fossero rimaste
le opere di Democrito, che ha costruito una filosofia che tratta di vari argomenti, senza che ci sia
possibile ricollegarli unitariamente: le massime etiche attribuitegli non possono infatti con chiarezza
essere dedotte dalla sua visione atomistica della natura e dell’uomo, per cui non è chiaro quale
articolazione sistematica del sapere egli avesse, né se abbia posto e risolto il problema.
In estrema sintesi, il problema della classificazione delle scienze è relativo all’incrocio di due diverse
questioni:
- una riguarda la struttura della realtà: è indispensabile capire qual è l’albero delle dipendenze degli
enti e degli eventi gli uni dagli altri; ad esempio: è necessario capire in che cosa la felicità dipende
dalla natura umana e dalla natura universale (e quindi l’etica dalla fisica e dalla soluzione del
problema dell’essere);
- una riguarda la struttura del pensiero e del linguaggio: è indispensabile capire come connettere
logicamente le nostre conoscenze e le forme libere del pensiero e del linguaggio per capire se
pensiero e linguaggio nella loro organizzazione restituiscono la corretta struttura della realtà o
necessariamente la deformano.
Cleante
Vedi Stoicismo
Clemente Alessandrino
Vissuto orientativamente tra il 150 e il 215 d.C., Tito Flavio Clemente Alessandrino è uno dei
massimi esponenti di quella Scuola teologica di Alessandria (→), cristiana, che era caratterizzata dallo
studio teologico dei testi biblici sulla base però non tanto della tradizione culturale ebraica, quanto
di quella greca. Clemente era personalmente un insegnante della tradizione greca, più attento alle
pratiche dell’oralità e della scuola che alla produzione scritta, che conosceva a fondo la filosofia
greca.
Scrisse varie opere: il cosiddetto Protreptico ai Greci, un’esortazione al mondo culturale pagano greco
perché abbracciasse il Cristianesimo; il Pedagogo, in tre libri, che conteneva una sorta di sintesi di
tipo trattatistico sulla morale cristiana; e gli Stromata, una sorta di antologia su vari temi per lo più
di carattere teologico, incompiuta.
Nella sua opera prosegue, su base cristiana e non più ebraica, l’applicazione del metodo allegorico di
interpretazione della Bibbia proposto nella prima metà del I secolo d.C. dal filosofo ebraico Filone
di Alessandria (→).
Cleruchia
La cleruchia – da kleros, che significa lotto di terreno – è una delle forme specifiche che
caratterizzarono il colonialismo e l’imperialismo ateniese. Atene infatti non aveva partecipato al
vasto processo di colonizzazione delle coste tra il Mar Nero, l’Egeo e il Mediterraneo, e solo tra la
fine del VI e il V secolo a.C. inviò propri uomini a colonizzare varie aree intorno all’Attica. I cleruchi
erano sì coloni, ma rimanevano cittadini ateniesi, avevano una funzione per lo più militare e si
mantenevano vivendo sulle terre loro assegnate da Atene a spese delle popolazioni locali. Erano
quindi simili a truppe di occupazione. Così a Salamina, in Eubea, nel Chersoneso, oltre che in varie
isole dell’Egeo.
Clinamen
È il termine latino – significa deviazione – con cui Lucrezio nel De Rerum Natura rese in latino la
nozione di parenklisis, con cui Epicuro (in testi per noi perduti) aveva descritto il movimento casuale
degli atomi che deviano dal proprio moto rettilineo (vedi la voce Caso: →).
L’esistenza di un movimento casuale delle particelle elementari che formano i corpi consente ad
Epicuro di elaborare una teoria generale sulla struttura dei corpi e dei mondi libera dalla necessità e
frutto di un misto di regolarità delle leggi naturali e di caso. Questa teoria consente a sua volta di
- escludere che l’universo sia determinato secondo necessità e quindi esista un destino segnato;
questo significa che non c’è neppure una finalità in natura, né un dovere per i viventi che dia un
senso al loro esistere e sia legge al loro agire; in polemica con gli Stoici la nozione di destino è
respinta; alla propria vita il senso lo dà ciascuno di noi con le sue libere scelte;
- affermare la libertà umana (→) come libero arbitrio, che trova la sua base fisica nella non
determinazione assoluta degli atomi che compongono l’anima.
Clistene
È l’uomo politico che con le sue riforme consentì la nascita della democrazia (→) ateniese sul finire
del VI secolo. Non abbiamo notizie certe della sua nascita e della sua morte, ma sappiamo che
apparteneva alla nobile famiglia degli Alcmeonidi (alla quale appartennero nel V secolo a.C., per
parte di madre, anche Pericle e Alcibiade), che aveva avuto una parte importante nelle vicende
politiche ateniesi nei due secoli precedenti.
Clistene con la famiglia poté rientrare ad Atene solo nel 510 a.C., quando il tiranno Ippia venne
cacciato, e si impegnò subito nella lotta politica per la riorganizzazione della polis. Prevalse sugli
avversari politici e nel 508-507 a.C. fece approvare una riforma che stentò sul momento a
consolidarsi, ma a partire dal 500 si stabilizzò. Su questa base nel 462 Pericle poté poi introdurre
nuove riforme che diedero il volto definitivo e stabile all’ordinamento democratico di Atene e
dell’Attica; uno degli obiettivi della riforma di Clistene era quello, come scrive Aristotele, di
“mischiare la popolazione” dando cittadinanza a tutti gli abitanti dell’Attica e unificando sotto Atene
l’intero territorio in condizioni di isonomia (→), cioè di eguaglianza.
Codro
Nel mito greco Codro è il leggendario ultimo re di Atene, discendente dal dio Poseidone. Di lui si
mostrava ad Atene la tomba nel punto in cui era caduto in combattimento, sulle rive dell’Ilisso,
davanti ad una delle porte della città.
Le circostanze della sua morte erano oggetto di narrazioni leggendarie: durante una guerra con i
Peloponnesiaci, questi ultimi prima di attaccare Atene avevano cercato il responso del dio di Delfi,
che aveva promesso loro la vittoria solo a patto che non avessero ucciso il re di Atene. Ma Codro
seppe dell’oracolo, e decise di sacrificarsi per salvare la sua città. Non si fece riconoscere dai nemici e
li combatté vestito da mendicante. In uno scontro con due nemici rimase ucciso.
Atene fu salva.
Colonia
Il termine ha due significati diversi se utilizzato nel contesto della storia greca o di quella romana.
Le colonie per i Greci erano poleis indipendenti che nascevano quando in un città greca (che poteva
a sua volta essere una colonia) le condizioni economiche e produttive rendevano necessario che una
parte della popolazione si trasferisse altrove. Allora gruppi di cittadini maschi sotto la guida di un
“ecista” si trasferivano altrove (le aree di colonizzazione greca furono l’Egeo, la Magna Grecia e la
Sicilia) e fondavano una città che manteneva sì rapporti culturali ed economici con la madrepatria,
ma ne era completamente indipendente dal punto di vista politico. Un ruolo importante nel
processo di colonizzazione lo ebbe l’oracolo di Delfi (→) a cui le città si rivolgevano per averne un
responso sulla loro iniziativa coloniale prima di intraprenderla.
Per i Romani, invece, le colonie erano fondazioni di nuove città in genere in territori da poco
pacificati o ancora in via di conquista in cui si trasferivano cittadini romani che rimanevano tali: le
colonie nascevano quindi come presidi militari, economici, culturali per la romanizzazione del
territorio, nel contesto di una Res Publica unitaria.
Colpa
È uno dei temi centrali della riflessione etica sia nel mondo della poesia (dall’epica alla lirica alla
tragedia, che su questo tema ha posto questioni di fondamentale importanza) sia in quello della
filosofia.
Oggettività e soggettività della colpa
Il termine colpa può far riferimento ad una azione (un comportamento colpevole) o ad un
sentimento (senso di colpa). Nel primo caso implica l’esistenza di una norma che viene trasgredita
(consapevolmente o meno, come vedremo); nel secondo caso implica solo un riflesso soggettivo
rispetto ad un evento (e dunque può essere percepito come colpa un evento che non ne avrebbe le
caratteristiche, e può non essere percepito come tale un altro evento che le avrebbe).
È opportuno ricordare che la nozione di colpa nella cultura greca arcaica può non assumere un
carattere personale, ma collettivo, e può non essere legata a un valore morale ma alla
contaminazione:
- un uomo o una comunità può pagare per colpe non sue, ma dei propri genitori o avi, o dei propri
concittadini; si è spesso detto che questo tratto della cultura antica (molto diffuso in epoca arcaica)
aiutava a comprendere come mai dei giusti siano colpiti dal destino come se fossero colpevoli di
qualcosa (pagano loro le colpe dei padri o dei consanguinei, o dei concittadini, cioè colpe commesse
da persone a cui sono in qualche modo strettamente collegati); riflessioni di questo tipo riguardano
anche le teorie della metempsicosi (→), per cui una persona paga colpe commesse in vite precedenti
anche se non ne conserva alcuna memoria.
- una colpa può non essere affatto una trasgressione a un norma, ma nascere solo dall’essere venuti
in contatto con elementi contaminati (vedi Contaminazione: →); ci si libera dalla colpa quindi con
pratiche di tipo rituale e magico, cioè con pratiche di purificazione (→).
Occorre dunque distinguere
- l’oggettività della colpa, cioè quel complesso di scelte, di atti e di eventi che rendono un uomo
colpevole anche indipendentemente dalla propria volontà;
- la soggettività della colpa, cioè quel complesso di atti che rendono un uomo colpevole in
conseguenza di scelte che egli ha compiuto deliberatamente, sapendo a cosa andava incontro; un
esempio di soggettività della colpa su cui nel mondo greco c’è larghissimo accordo è dato dalla hybris
(→), cioè da quei comportamenti con cui un uomo va oltre i limiti imposti (dal destino, dagli dèi,
dalla natura).
È chiaro che solo la soggettività della colpa consente di parlare di responsabilità (→) (individuale o
collettiva), ma l’oggettività della colpa espone alla pena tanto quanto la soggettività, con un
meccanismo che i poeti da Esiodo a Solone vedono addirittura automatico (la pena segue, sempre,
ma non necessariamente sul colpevole: può seguire sui figli o sulla città, o su altri: così in Opere e
Giorni (→) di Esiodo, così nella Elegie (→) di Solone).
La colpa come problema etico
Il tema della colpa si connette con due problemi, uno posto soprattutto dal mito e dalla riflessione
dei poeti, l’altro dai filosofi:
- i poeti, e in modo diretto e molto problematico i tragici, sollevano il problema del destino (→)
dell’uomo in rapporto ai suoi comportamenti: perché il giusto soffre e l’ingiusto non subisce alcun
danno, come è comunemente sotto gli occhi di tutti? e cosa pensarne di tutte quelle situazioni
(emblematico il caso di Egisto che vendica la morte del padre nella trilogia dell’Orestea (→) di
Eschilo) in cui l’uomo si trova ad essere colpevole qualsiasi cosa faccia perché le possibilità reali tra
le quali può scegliere (e non può non scegliere) implicano tutte la trasgressione a una norma?
- i filosofi si sono chiesti perché un uomo che conosce il bene segue di fatto il male esponendosi così
alle conseguenze della colpa; Socrate ne conclude (in accordo con una radicata corrente della cultura
greca) che questo accade perché l’uomo crede di conoscere il bene, ma non lo conosce di fatto,
sicché segue il male perché lo scambia per il bene (questa teoria è nota come intellettualismo etico:
→); Platone elabora il mito della biga alata, imputando al cavallo nero la tendenza alla colpa, unita
alla debolezza dell’auriga (quindi, fuori metafora, alla natura reale dell’anima); e così via.
Questi temi sono centrali in tutta la filosofia greca, fino agli ultimi esiti in Plotino, che vede nella
colpa un errore di prospettiva della coscienza).
Ovviamente si può parlare di colpa solo se si sono definite le norme o se si è in presenza di qualcosa
che contamina. Dunque dal punto di vista dell’etica antica il tema della colpa si connette col tema
della ricerca del buono (vedi Bene →) e del puro (→).
Ma non si può parlare in nessun caso di colpa quando esplicitamente si escludono norme o presenze
contaminanti:
- così la nozione di colpa non gioca alcun ruolo presso i sofisti, né presso quelli della prima
generazione (non in Protagora a causa del suo relativismo, né in Gorgia, che “giustifica” Elena,
anche se “per gioco”), né presso quelli della seconda e radicale sofistica (per i quali il nomos non ha
alcun diritto di aver la meglio sulla physis: vedi nomos / physis: →);
- non gioca alcun ruolo neppure presso i filosofi materialisti, ed esplicitamente in Epicuro, in cui a
far da metro dell’azione sono il piacere e il dolore e quindi l’utile, ad esclusione di ogni valore
oggettivo e valido indipendente dall’uomo (che, in un universo composto solo da atomi pieni e
spazio vuoto non può esistere).
Commedia
Vedi Teatro Greco
Commento
Nella storia della filosofia antica il genere letterario del commento compare nell’età tardo-antica,
quando i testi del periodo classico e anche quelli del periodo ellenistico (per la maggior parte
precedenti di cinque o sei secoli) erano ormai dei “classici”. Il modello di questo genere letterario in
filosofia è fissato per le epoche succesive da Plotino, ed esamineremo quindi le sue Eneadi per
definire i caratteri del genere.
Va però precisato che all’epoca di Plotino (il III secolo d.C.) il commento aveva già una storia non
breve, ma non in ambito filosofico: si era infatti diffuso su temi teologici nella forma di testi a
commento delle Scritture, sia in ambienti ebraici che cristiani. Tuttavia i caratteri del commento
come genere letterario della filosofia sono almeno in parte diversi e originali.
Il genere letterario del commento in Plotino
Plotino orienta i suoi percorsi di ricerca alla luce del metodo, di derivazione socratico-platonica, che
punta a penetrare nell'interiorità per portare la verità alla luce della coscienza. Questo metodo si
giustifica nella cornice di filosofie che pensano che l'anima dell'uomo sia tutt'altro che chiusa in se
stessa, ma piuttosto sia aperta verso le superiori realtà non sensibili: la vera casa dell'anima è altrove.
Il metodo di Plotino perviene, è vero, a forme di visione intellettuali che hanno tratti mistici
(l'estasi ha questo tratto, benché rimanga legata a pratiche razionali, non irrazionali), ma si fonda su
un lavoro filosofico strettamente legato al dialogo con gli altri. Plotino non è un professore che fa
lezione ai suoi allievi, ma un filosofo che fa ricerca e si esercita con i suoi allievi. Nel gioco dialettico (di
cui rimangono tracce nelle Enneadi) l'anima penetra in se stessa utilizzando tutte le risorse a sua
disposizione, compresa l'immaginazione, il gioco retorico, il richiamo delle emozioni. A compiere
questo lavoro è infatti la persona integrale, non la sola mente (Plotino direbbe: l’anima nella sua
pienezza)
Tutto questo non avviene però come nell'età classica, completamente priva di "classici" che non
fossero poetici e quindi utilizzabili solo in parte per una filosofia che si proponeva di sostituirsi alla
poesia come ruolo guida per la Grecia. L'oralità socratica e platonica è veramente tale, non
potendosi considerare i dialoghi platonici, che pure sono connessi con le pratiche di ricerca
dell'Accademia, come "classici" già al tempo in cui furono scritti, ma come materiali di lavoro
attuale. L'oralità di Plotino è invece in dialogo con gli altri filosofi attraverso la mediazione del testo
di Platone (e di altri). Le lezioni di Plotino infatti sono essenzialmente commenti ai testi platonici
condotti con lo stesso metodo di ricerca dialettica che in essi è descritto. Ma è cambiato qualcosa di
essenziale rispetto al tempo di Platone: Plotino è convinto che in essi vi siano elementi di verità, e
che si tratti di ordinare, sistemare, far ricerca completando. Plotino ha davanti a sé un testo classico.
Il suo obiettivo non è la libera ricerca, come in Platone, ma la ricerca orientata dai testi verso un
preciso traguardo: passare dai tanti filoni di ricerca platonici alla costruzione di un sistema filosofico
(Plotino ha appreso la lezione unitaria delle grandi filosofie sistematiche dell'ellenismo) che ponga
ordine sulle vie di ricerca platoniche e permetta la definizione di un modello vincente di vita
filosofica (non si dimentichi che è ancora questo l'obiettivo di Plotino: la vita filosofica, come per
gran parte della filosofia greca). Quello di Plotino è quindi uno dei primi commenti sistematici a
testi classici.
Plotino utilizza a questo fine tutta la tradizione greca. Nei suoi scritti si vede bene quanta riflessione
egli abbia dedicato ad Aristotele e agli Stoici, per esempio a proposito della natura, della cui
conoscenza in Platone trova meno di quanto gli interessi (benché torni all'idea che la natura non sia
l'unica realtà, Plotino è pur sempre legato alle tradizioni filosofiche ellenistiche: non elabora nozioni
quale quella successiva, in ambito cristiano, di creazione, ma spiega in termini unitari la natura e le
sue leggi, mediante l'impianto metafisico "continuo" garantito dalla nozione di emanazione: →).
Così commenta il testo di Platone soprattutto con altri testi platonici, per ricostruire una teoria
unitaria, e a questo fine, quando occorre, utilizza anche altri testi, soprattutto di Aristotele e degli
Stoici.
Per un quadro generale dei generi letterari nell’antichità si veda la voce Generi letterari della filosofia
antica (→).
Composto
Vedi Semplice / Composto
Comunismo
Nella Repubblica, descrivendo le condizioni sociali del suo Stato ideale, Platone prospetta un vero e
proprio comunismo dei beni e persino delle donne e dei figli per le classi dirigenti.
Il termine ha anche una valenza più ampia: con l’italiano comunismo rendiamo infatti il greco
koinonia, che è in realtà riferito a qualsiasi tipo di comunanza e di parentela tra gli uomini –
qualsiasi rapporto che superi l’individualismo e leghi in una qualche forma di società gli uomini.
Descrive insomma il mettere in comune qualcosa. Ad esempio gli Stoici usano il termine koinonia per
indicare le ragioni di fondo che portano al loro cosmopolitismo (→): koinonia indica la reale
comunanza del fondamento della vita per qualsiasi uomo in qualsiasi cultura.
Concetto
È un pensato, l’oggetto dell’attività del pensare, che non si riferisce ad un evento specifico o ad un
ente individuale ed esistente nella realtà esterna, ma ad enti mentali di natura universale (si veda su
questo la voce Universale / Individuale: →). I termini greci che traduciamo con concetto sono vari, in
particolare logos (→) e noema (vedi Pensiero e Nous: →).
Nella filosofia greca il concetto è stato inteso in due modi diversi:
- come pensiero che esprime l’essenza delle cose (vedi la voce Sostanza: →); così in Platone e in
Aristotele, con due valenze diverse perché nel primo ha anche una realtà indipendente dalle cose e
dalla stessa mente (le idee platoniche), che il secondo rifiuta;
- come segno mentale e unico (quindi universale) espresso attraverso il linguaggio per indicare enti
ed eventi individuali; lo studio dei concetti è quindi studio dei segni e in ultima analisi del
linguaggio (→).
Su questi temi si vedano anche le voci Nous (→) e Pensiero (→).
“I problemi filosofici relativi alla nozione di concetto sono molti e riguardano non soltanto l’area del
problema della conoscenza, ma anche lo studio dell’essere. Infatti:
- è problematico comprendere come la mente formi i concetti, e se tutti i concetti sono formati dalla
mente o ve ne siano di innati: su questo punto il problema del concetto è parte del più generale
problema dell’origine delle idee (→);
- la distinzione tra concetti e immagini (→) può non essere sempre agevole, perché i concetti astratti
si appoggiano spesso su immagini e intrattengono con esse complessi rapporti: il problema è quindi
quello di comprendere nella loro complessità e realtà i rapporti tra le immagini (individuali e
concrete) e i concetti (universali e astratti);
- un terzo problema riguarda la natura dei concetti: che cos’è un pensiero caratterizzato da
universalità e astrazione? è solo un “fatto della mente” o possiede una realtà indipendente? possono
esistere concetti senza una mente che li pensi? Queste domande legano le questioni relative alla
conoscenza umana alle questioni relative all’essere di quella particolare realtà che chiamiamo
pensiero (in risposta a domande del tipo: che cos’è il pensiero?);
- in ultimo, quali sono i caratteri che permettono di definire la verità o la falsità di un concetto?
questo problema riguarda la nozione di verità (→), cui rimandiamo” [Pancaldi 2006].
Concupiscibile
Nella concezione platonica dell’anima, un ruolo importante riveste la sua dottrina delle facoltà.
L’anima ne possiede tre, e si distingue quindi in anima irascibile (→), anima concupiscibile (in greco
epithymeticon) e anima razionale. La parte concupiscibile è caratterizzata dall’essere per natura
insaziabile di possedere: nel mito della biga alata (→) questa facoltà dell’anima è raffigurata dal
cavallo nero. Le passioni umane dipendono in gran parte da questo tratto dell’anima, e ad esso si
devono sia la loro forza e sia la difficoltà con cui riusciamo a gestirle.
Dal punto di vista dell’organizzazione sociale, nella Repubblica Platone fa corrispondere a questa
parte dell’anima le classi lavoratrici.
Confilosofare
Il termine greco è sumphilosophein, e lo ha usato per la prima volta Aristotele in un contesto come il
seguente: “Ciascun tipo di uomini, qualunque sia per loro il senso dell’esistenza, ovvero ciò per cui per loro
la vita è desiderabile, vogliono in vario modo trascorrere il tempo in compagnia degli amici. È per questo
che alcuni bevono insieme, altro giocano insieme ai dadi, altri fanno ginnastica e cacciano insieme o fanno
filosofia insieme (sumphilosophusin), e che trascorrono insieme le giornate, ciascuno dedito a ciò che ama
più di tutto nella vita: volendo, infatti, vivere insieme con gli amici, fanno e mettono in comune le cose in
cui, secondo loro, consiste la vita” (Etica Nicomachea, IX, 1172). Parlando del fare filosofia insieme,
cioè del confilosofare, Aristotele usa un termine prima non attestato, ma si riferisce ad una nozione
ormai tradizionale per la pratica filosofica del IV secolo a.C.: almeno dall’età dei Sofisti e di Socrate
la filosofia era praticata insieme, nella città e nei ginnasi nel V secolo, sempre di più nel chiuso di
istituzioni come l’Accademia e il Liceo nel IV secolo, con eccezioni importanti come quelle dei
cinici, che rimangono “filosofi da strada”. Si veda sui modi di questo confilosofare la voce Dialettica
(→).
Conflagrazione cosmica
Vedi Ekpirosis
Confutazione
Il termine italiano traduce il greco elenkos, che indica procedure retoriche o dialettiche, consistenti
nel proporre un argomento che dimostra falsa la tesi proposta da un avversario. La dialettica che si
sviluppa nella linea che unisce le aporie di Zenone alle pratiche sofistiche e a Socrate privilegia un
tipo di confutazione che si basa su argomenti che si ricavano dalla stessa tesi dell’avversario: la
confutazione consiste nel metterne in luce l’intima contraddittorietà.
A sua volta la retorica ha messo in campo proprie procedure. Infatti le tecniche della confutazione
sono studiate in genere dai filosofi greci nel contesto della retorica antica, ma Aristotele dedica alla
confutazione anche uno dei suoi libri di logica, dal titolo Confutazioni sofistiche, in cui la
confutazione è definita come quel tipo di sillogismo, cioè di ragionamento, che ha come conclusione
una proposizione che nega un’altra conclusione, che risulta così confutata (la definizione è in
Confutazioni sofistiche, I-165)
Conoscenza [Problema della]
Il termine greco per conoscenza è gnosis, contrapposta a ignoranza (agnosia) e a opinione (doxa).
Quello della conoscenza “è uno dei problemi centrali della filosofia, perché dal modo in cui lo si
imposta, dal metodo utilizzato per affrontarlo, dalla teoria della conoscenza che viene elaborata
dipendono:
- la risposta a domande relative alla nostra capacità effettiva di conoscenza: che cosa possiamo
conoscere? entro quali limiti? su quale fondamento di certezza? e persino: che cosa significa
conoscere? oppure: che cos’è il pensiero?
- la risposta a domande relative alla natura e al senso della realtà: che rapporto c’è tra il pensiero e le
cose, tra il pensiero e l’essere? come è possibile che la realtà (e in particolare la realtà della materia,
dei corpi) sia pensata, pur appartenendo ad una sfera diversa dalla mente e dal suo mondo interiore?
Il problema della conoscenza incrocia, di fatto, tutti i problemi della filosofia (ed è pertanto
impossibile proporre in breve un elenco dei temi affrontati) perché qualsiasi sia il problema studiato
esso è, appunto, studiato, rientra cioè in un universo al cui centro è la mente, la soggettività di un
uomo che pensa. Da questa soggettività, dalla sfera del pensiero, non possiamo mai uscire, ed è
quindi impossibile una assoluta “oggettività”: se c’è conoscenza, c’è qualcuno che conosce e qualcosa
che è conosciuto (possono esistere, anche se non ne abbiamo esperienza, pensieri senza un soggetto
che li pensi? possono esistere idee assolute, la cui esistenza non dipende da un soggetto che le
pensa?).
Il problema della conoscenza è quindi a monte di ogni altro. In estrema sintesi, e a titolo di
esemplificazione, la dizione “problema della conoscenza”, al singolare, rimanda ad una costellazione
di problemi che vanno visti come sue articolazioni, tra cui:
- il problema dell’origine delle idee (→) (da dove derivano le nostre idee?)
- il problema della natura del pensiero (→) come dimensione della realtà diversa dalla materia (di che
cosa è fatto il pensiero? ha una natura indipendente dall’universo materiale?)
- il problema delle forme del pensiero (che rapporto c’è tra la sfera della conoscenza sensibile, la sfera
dell’immaginazione, la sfera del pensiero astratto, concettuale? Che valore hanno altre forme di
pensiero, come l’intuizione intellettuale? e in generale: come si passa da una percezione sensibile a
un concetto astratto?)
- quale rapporto c’è tra la sfera delle emozioni e delle passioni e quella della conoscenza? quale ruolo
gioca il pensiero per simboli, per immagini, in questo rapporto?
- è possibile pensare senza parole? e in che misura, in che forma? e più in generale: che rapporto c’è
tra la sfera del pensiero e quella del linguaggio (→) (o dei linguaggi) in cui si esprime? i linguaggi
condizionano il pensiero?” [Pancaldi 2006].
Conoscenza intellettiva
Vedi le voci Intelletto, Logos e Nous
Conoscenza sensibile
Vedi le voci Sensi, Sensibilità ed Esperienza
Conosci te stesso!
Motto delfico (Gnothi sauton: era scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi), indica una delle
norme più importanti dell’etica tradizionale greca: la necessità per l’uomo di conoscere i propri
limiti e di non superarli per non incorrere nella hybris e nella collera degli dèi.
Il motto con Socrate assume un significato nuovo: l’invito etico all’analisi della propria coscienza,
alla ricerca in sé dei principi verso cui orientare la propria esistenza. Il motto quindi invita alla
assunzione della responsabilità delle scelte sulla base della centralità e indipendenza della propria
coscienza.
Consiglio degli anziani
Nella società omerica il potere del basileus (→) non è mai assoluto né isolato, ma è sempre
accompagnato dalla necessità di rispettare le tradizioni, le themistes (→) (cioè le norme del diritto di
antichissima origine) e anche il potere dei capi di ciascun oikos (→), cioè delle famiglie di cui si
compone il popolo. Compare quindi spesso un consiglio che affianca il basileus, ed è composto dagli
“anziani”, cioè i capi delle più importanti famiglie.
Questa struttura di tipo aristocratico si ritrova poi nelle costituzioni delle poleis in età storica, come
una delle articolazioni in cui si struttura il potere reale, spesso con funzioni giudiziarie. Persino nelle
democrazie, dove il potere è per principio nelle mani dei cittadini riuniti in assemblea, sussistono
istituzioni che ereditano alcuni dei poteri degli antichi consigli degli anziani: ad esempio ad Atene
una istituzione di questo tipo è l’Areopago (→).
Va poi chiarito che per anziani non si intende necessariamente persone molto avanti negli anni,
quanto piuttosto persone sulla cui saggezza si può contare, e che quindi godono della stima dei loro
pari.
Contaminazione / Purificazione
In greco la contaminazione è il miasma, la purificazione è la kathasis (da cui catarsi: →). Non si
tratta di nozioni dal significato prevalentemente etico ma, benché connesse spesso con atti che
hanno in sé un significato etico, sono piuttosto nozioni legate alla sfera del sacro.
Credenze di questo tipo dovevano essere molto radicate nella cultura – non solo popolare, ma anche
delle classi elevate – di epoche molto antiche: le troviamo fortemente presenti in Omero. Si
mantennero poi anche nei secoli successivi, e ancora in epoca classica hanno un significato per gli
scrittori dell’epoca, e giocano un ruolo non del tutto marginale persino nelle riflessioni di tipo
religioso di Platone.
Ci si può contaminare compiendo atti come seppellire i morti, o violando un giuramento, o
entrando nello spazio sacro a una divinità senza rispettarne le regole, o infrangendo vari divieti di
tipo rituale e magico, o anche soltanto entrando in contatto con persone a loro volta contaminate.
Può accadere non solo ad una persona singola, ma anche ad una città di essere contaminata e di
avere quindi bisogno di una purificazione. Un caso importante è quello dell’uccisione di un
congiunto, anche involontaria.
In tutte queste situazioni si parla di oggettività della colpa (→), perché la contaminazione è del tutto
indipendente dall’effettiva colpa individuale, dalle intenzioni di chi ha agito. Se contaminazione c’è
stata, anche per ragioni eticamente o politicamente valide, è indispensabile la purificazione, che non
è un atto di natura interiore e non implica partecipazione personale, ma è un rito: in questo senso si
parla di riti di purificazione per indicare quel complesso di pratiche, a metà tra la magia e il rito
religioso, che consentono di eliminare la contaminazione.
Possono essere impure (cioè contaminate) persone, cose, luoghi; la katharsis consente di farle tornare
pure, cioè non contaminate.
Contemplazione
Il termine greco theoria, da cui theoretikos bios, cioè vita contemplativa o vita teoretica (contrapposta
a vita pratica) è stato tradotto dai romani con contemplatio, termine che in origine a Roma indicava
l’osservazione degli uccelli in determinati settori del cielo per trarne gli auspici da parte dell’augure,
per poi indicare l’atto della mente che “vede” con chiarezza un’idea vera nella pura sfera del pensiero.
Anche il greco theoria, che da Aristotele in poi indica i contenuti della pura sfera del pensiero, aveva
alle origini un significato legato al sacro (indicava l’ambasceria che le poleis inviavano ai giochi
panellenici in onore di un dio).
Vedere oltre il visibile
La nozione filosofica di theoria, cioè di contemplazione, implica il riconoscimento di un fatto, che la
realtà dell’esperienza ci restituisce soltanto la superficie del mondo, mentre se vogliamo accedere alla
verità dobbiamo penetrare questa apparenza (→), per così dire attraversandola, e muoverci col
pensiero verso le strutture reali del mondo, che rimangono nascoste ai nostri sensi.
Non necessariamente queste strutture devono essere concepite come appartenenti al mondo del
puro pensiero secondo il modello platonico e, in parte aristotelico. Infatti la struttura fisica della
realtà secondo le scuole epicurea e stoica è materiale: lo sono gli atomi dell’epicureismo, lo è il
pneuma stoico, ma la mente non può conoscere né gli uni né gli altri se non passando attraverso la
pura sfera del pensiero, perché solo attraverso questa è possibile interpretare la realtà sensibile come
prodotto di quella struttura.
Che si tratti quindi di una verità appartenente alla pura sfera del pensiero (come in Platone e, entro
certi limiti, anche in Aristotele), o che il pensiero sia solo lo strumento per pensarla (come in
Epicuro), o il piano della mente e quello della materia siano all’origine la stessa realtà e quindi siano
il prodotto della stessa energia (come negli Stoici), la theoria (contemplazione) è comunque l’atto di
una mente pensante che “vede” in sé, e non nel mondo esterno, la verità (su di sé e sul mondo
esterno).
In Plotino e nella successiva tradizione neoplatonica la contemplazione implica un ribaltamento
della direzione dello sguardo della mente che, rientrando in se stessa e ripercorrendo a ritroso il
cammino dell’emanazione, ritrova in sé la radice dell’Uno.
Theoria ed eudaimonia
Un tratto caratteristico della contemplazione – la visione intellettuale di una verità – così come è
stata concepita dalle filosofie antiche è poi il legame tra il puro pensiero e un particolare vissuto
emotivo: in genere le scuole filosofiche antiche associano alla contemplazione la felicità, intesa come
eudaimonia (→), cioè il piacere che la mente ricava da se stessa e dalla propria attività pensante, e
non dal mondo esterno.
La contemplazione non è quindi solo un conoscere, ma anche un fare esperienza della pienezza della
mente. Il saggio, in qualsiasi situazione della vita, sa elevarsi (raccogliendosi nel suo mondo
interiore) alla sfera del pensiero e vivere felice in essa.
Continuo
Il termine greco che traduciamo con continuo è synekes, utilizzato in matematica ma anche in senso
fisico da Aristotele, che nella Fisica ne dà la seguente definizione: continuo è “ciò che è divisibile in
parti sempre divisibili” (Fisica, VI, 2). Il contesto è quello della infinita divisibilità (→) dei corpi
negata dagli atomisti e ammessa da Aristotele che rifiuta la nozione di atomo (che non ha una
grandezza continua nel senso aristotelico perché non è divisibile) come particella elementare. Su
questo punto forse Aristotele riprendeva nozioni già presenti in Anassagora, come mostrerebbe il
suo fr. 3 Diels.
Abbiamo richiamato la nozione di continuo in Aristotele perché questo filosofo ne dà una
definizione puntuale. Ma di continuo parla anche Parmenide (fr. 8 Diels), e quindi la nozione e il
problema rimandano alle origini della filosofia.
Va inoltre segnalato che il termine è usato in un senso meno tecnico, per indicare realtà contigue,
cioè cose i cui limiti si toccano, formando così una certa unità (così ad esempio Aristotele in
Metafisica XI-12)
Contraddizione
Letteralmente “dire contro” (antiphasis): due discorsi sullo stesso oggetto che dicono qualcosa di
opposto. Uno dei due non può essere vero (e non in tutti i casi è detto che sia vero l’altro). Per
esempio una persona si contraddice quando esprime opinioni diverse sullo stesso argomento.
L’opinione
A ben guardare, questa forma di contraddizione è comunissima ed è tipica dell’opinione che,
semplicemente, cambia non essendo di per sé stabile come la verità. Questo tema nella filosofia
greca è sviluppato a partire da Parmenide, che fa della opinione (doxa: →) una via di ricerca
contrapposta alla via della verità. Su questa base il tema si sviluppa a lungo, assumendo
un’importanza centrale nei sofisti che se ne servono per mostrare l’inconsistenza della pretesa di
verità oggettiva della filosofia, essendo le opinioni tutte vere nel momento in cui sono espresse (se
realmente corrispondono a una convinzione o a un vissuto interiore), ma non necessariamente dopo
o prima, o per altri uomini, secondo il celebre principio di Protagora espresso dalla formula “L’uomo
è la misura di tute le cose” (→).
La contraddizione apparente: le possibilità del linguaggio e i caratteri della realtà
Eraclito aveva però dato una diversa versione della contraddizione del discorso, facendone una sfida
per l’intelletto, come se volesse svegliare le menti altrimenti “dormienti”, come quelle dei suoi
concittadini. Nei suoi brevi aforismi contrappone discorsi (ad esempio, l’acqua del mare è vitale per i
pesci e mortale per gli uomini) che sono solo apparentemente in contraddizione, perché i discorsi
contrapposti non si riferiscono allo stesso oggetto. Nell’esempio del mare lo schema è: una stessa
realtà (l’acqua del mare) è detta in due modi opposti (vitale e mortale) in riferimento a esseri viventi
diversi (i pesci e l’uomo).
Questo tipo di contraddizione propria del discorso è perfettamente compatibile con la verità, ed
esprime non soltanto una delle possibilità del linguaggio, ma anche un carattere della realtà, che è
fatta di enti, ma anche di eventi il cui “segno” dipende dai caratteri degli enti che vi sono implicati.
Così per la lira, per cui Eraclito parla di armonia discordante: il linguaggio sottolinea una
contraddizione apparente, cioè una opposizione di discorsi che appaiono inconciliabili, ma che sono
in realtà perfettamente conciliabili ed anzi capaci di descrivere nella sua pienezza la realtà perché in
effetti le corde della lira devono essere poste in tensione perché ne derivi l’armonia musicale.
Questa intrinseca capacità della contraddizione linguistica di esprimere un tratto conflittuale della
realtà è sfruttato a fondo da quei filosofi che hanno utilizzato l’aforisma per l’esposizione di temi
filosofici (ad esempio, oltre ad Eraclito, anche Epicuro con le sue sentenze, Marco Aurelio, e altri).
Il principio di non contraddizione
Se invece la contraddizione linguistica si riferisce ad uno stesso oggetto, e due caratteri contrapposti
e inconciliabili tra loro vengono predicati nello stesso senso e nello stesso momento, allora almeno
uno dei due caratteri non può essere vero. L’uno infatti esclude l’altro.
La prima formulazione di questo principio, senza che come tale venga però espressamente definito,
è in Parmenide, che fa notare che ogni affermazione che implica l’esistenza del nulla è in sé
contraddittoria perché il nulla non può esistere restando nulla (o, se si preferisce, la dizione “il nonessere è...” è logicamente contraddittoria). È poi stato Aristotele a formulare in modo esplicito questo
principio in un celebre passo del IV libro della Metafisica: “È impossibile che uno stesso attributo
appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, nello stesso tempo e secondo lo stesso senso”.
Contrari
Nei primi filosofi naturalisti i contrari (in greco enantios) sono le forze della natura che,
contrapponendosi e bilanciandosi, danno vita a tutti gli enti naturali. Il contesto è quello della
concezione della natura come un insieme di forze in continua trasformazione, in cui la stabilità è
solo un momento di un processo, a volte considerato ciclico, come in Anassimandro (almeno
secondo alcuni interpreti) e in Empedocle. Poiché tra i contrari i filosofi naturalisti vedono
equilibrio dinamico, questa nozione è connessa a quella di Dike (→), cioè di giustizia come
equilibrio delle forze.
Da un punto di vista logico le nozioni di contrario (enantios) e di opposto (antikeimenos, da anti, di
fronte, e keimai, io sono posto) sono esaminate da Aristotele in Categorie, 10.
Convenzione / Convenzionalista
Benché i termini siano di origine latina (conventio è la riunione, ma anche l’accordo), i concetti di
convenzione e di concezione convenzionalista sono comunemente presente nelle discussioni tra i
filosofi greci, per affermarle o negarle, in relazione soprattutto
- al linguaggio, nel contesto del problema dell’origine e della natura del linguaggio (la concezione
convenzionalista sostiene che la base del linguaggio umano è l’accordo tra gli uomini storicamente
affermatosi, generazione dopo generazione, sul significato delle parole e sulla loro organizzazione
nella frase);
- alla legge, nel contesto del problema del fondamento e dell’origine delle norme di tipo etico,
economico, politico, e così via (la concezione convenzionalista della legge propone di considerarla
frutto di accordo tra i cittadini, anch’esso storicamente determinatosi: quest’ultima nozione divenne
importante nel contesto del rapporto Nomos/ Physis sollevato dai Sofisti).
Oggi si parla in generale di convenzione tutte le volte che l’oggetto del discorso (il linguaggio, la
legge o altro) è considerato non avere valore in sé né fondamento oggettivo nella realtà, ma solo
nell’accordo, esplicito o tacito, tra gli uomini. Se la convenzione nasce in tempi lunghi e si prolunga
generazione dopo generazione, è facile perdere coscienza del carattere convenzionalista dell’oggetto
studiato e attribuirgli un valore o una realtà oggettiva che in sé non ha. Così scuole filosofiche come
quelle materialiste, nonché la Sofistica e lo Scetticismo, hanno condotto un’opera di disvelamento
della natura convenzionalista di molti dei tratti importanti delle regole che presiedono alla
comunicazione e alla convivenza umana.
Convincere / Convinzione
È una delle finalità del discorso umano, studiata in termini diversi in tutta l’antichità. Il potere di
convinzione del discorso sembra sia stato studiato con particolare attenzione in Sicilia alla metà del
V secolo a.C. da Corace e Tisia, giuristi attivi in un periodo in cui, in conseguenza di cambi di
regime politico nell’epoca della tirannia, si ebbero in Sicilia numerosi processi per ottenere la
restituzione di beni confiscati. Probabilmente fu in questo contesto che Gorgia da Lentini si formò.
Furono poi i sofisti dell’età di Gorgia e di Protagora i primi a porre le basi delle discipline della
comunicazione che studiano le forme del discorso finalizzate a convincere, cioè a far passare dalla
propria parte nei tribunali le giurie e nelle assemblee i cittadini al momento del voto.
Platone pose al centro del suo interesse queste tecniche del discorso, da posizioni fortemente
polemiche contro i sofisti. Aristotele codificò nei suoi libri sulla Retorica le regole della
comunicazione verbale finalizzate ad esercitare un potere di convinzione.
Si veda su questo punto la voce Retorica (→).
Coraggio
Il termine greco che traduciamo con coraggio è andreia, che originariamente era riferito alla arete
(→) del guerriero, o meglio al tratto tipico dell’uomo (aner) che in quanto cittadino combatte
quando serve e deve quindi essere coraggioso. Dopo il V secolo andreia passò sempre di più a
indicare invece uno dei tratti interiori della arete.
Il tema del coraggio è rilevante per l’etica antica perché pone in questione il ruolo della razionalità
rispetto alle passioni: come deve comportarsi un uomo, in quanto essere razionale, di fronte a
situazioni che implicano rischi anche gravi? Sono in gioco temi come la razionalità umana di fronte
a situazioni complesse, ma anche temi come il senso della vita e della morte, della dignità personale,
e così via.
Platone affronta esplicitamente questo argomento nel IV Libro della Repubblica, dove il coraggio è
definito come “l’opinione retta e conforme alla legge su ciò che si deve e su ciò che non si deve temere”
(Repubblica, IV-430): si osservi che si tratta di una opinione, non di una conoscenza certa, e che in
essa è implicata la polis e non solo l’individuo, come è evidente dal richiamo alla legge (un esempio
tipico di atti di coraggio o di codardia premiati o sanzionati dalla legge è quello delle azioni militari
in tempo di guerra, in cui il rischio della morte o di ferite gravi è sempre presente). C’è dunque sul
tema del coraggio sia un aspetto etico che uno politico, nel contesto della ricerca della verità sulla
arete.
Aristotele riprende il tema del coraggio nel suo esame delle virtù etiche condotto nell’Etica
Nicomachea (vi dedica i paragrafi 6-7 del Libro III), definendolo come il giusto mezzo (→) tra paura
e temerarietà. In Aristotele è chiaro che questa virtù mette in valore la paura come passione nel
considerarla un campanello d’allarme che non va sottovalutato, ma neppure amplificato: la paura va
ascoltata ed esaminata con razionalità, fino a determinare in concreto, situazione per situazione
(Aristotele si riferisce esplicitamente alla guerra), fino a che punto agire con coraggio non sfoci
nell’eccesso della temerarietà, che è comportamento non conforme alla natura di un essere razionale,
così come non lo è l’eccesso di paura.
Il tema del coraggio è ripreso anche in età ellenistica, ad esempio da Epicuro che all’inizio della
Lettera a Meneceo ricorda che i giovani hanno bisogno di coraggio per guardare al loro avvenire.
Coribanti
Sono figure del mito non presenti nella tradizione più antica, ma solo a partire dal VI secolo a.C.
L’origine è frigia: i coribanti sono nove e formano il corteo di Cibele, dea anatolica della fecondità e
della natura selvaggia (non lontana quindi da Dioniso). “Ai Coribanti era attribuita l’invenzione di
un tipo particolare di musica orgiastica, accompagnata dal suono di strumenti a fiato e soprattutto
del timpano, che produceva un effetto di stordimento e di estasi: era eseguita da danzatori armati
che, nel parossismo della danza, si infliggevano a vicenda mutilazioni e ferite; fu praticata in Grecia
e a Roma, e aveva valore di cerimonia purificatrice e di omaggio a Cibele” (Antichità classica 2000,
p. 331)
Corpo
Il termine corpo (in greco soma) è riferito dalla filosofia antica a qualsiasi ente materiale che cada
sotto i sensi, indipendentemente dalla sua composizione e dalla sua struttura. Aristotele ne dà una
definizione che è generalmente accolta, perché riprende la tradizione ed è legata alla comune
percezione delle cose: chiamiamo corpo “ciò che ha estensione in ogni direzione” (Fisica, III-5), cioè
qualsiasi ente che abbia grandezza e quindi si estenda in altezza, larghezza e profondità.
I problemi filosofici che riguardano i corpi in generale sono gli stessi problemi generali della fisica
descritti nella voce Struttura della materia (→), alla quale rimandiamo: l’origine, la composizione, le
leggi fisiche che ne governano le trasformazioni interne e il movimento nello spazio.
Il corpo e la vita individuale e cosmica
Una distinzione importante tra i corpi riguarda la vita: alcuni corpi sono viventi, altri appaiono privi
di vita o perché non l’hanno mai avuta, o perché l’hanno perduta dopo essere stati viventi. I
problemi filosofici su questi temi sono quelli della Vita (→), alla cui voce rimandiamo: innanzitutto
l’identità stessa della vita (la risposta alla domanda “che cos’è?”), poi la sua origine e le leggi che la
governano in relazione al processo che dalla generazione conduce alla corruzione.
Né va dimenticato che diversi filosofi greci hanno concepito vivente, nella sua totalità, l’universo
stesso: si veda, ad esempio la nozione di Anima del Mondo (→), in cui il Mondo è esso stesso
considerato un unico corpo in cui tutte le parti sono collegate tra loro come in un organismo
vivente.
Il corpo e l’anima dell’uomo
Un particolare corpo vivente – ma anch’esso a tutti gli effetti un corpo, sottoposto alle stessi leggi
fisiche e biologiche di qualsiasi altro – è il corpo umano. Oltre alle questioni fisiche e biologiche
generali, in specifico il tema filosofico del corpo per l’uomo rimanda al problema del suo rapporto
con l’anima, che assume vari aspetti:
- innanzitutto un aspetto che riguarda la struttura dell’uomo: qual è il rapporto tra il corpo e l’anima
nell’uomo? come si passa dalle facoltà dell’uno alle facoltà dell’altra, e viceversa?
- in secondo luogo un aspetto che riguarda la vita: quella del corpo è la stessa vita dell’anima? se sì,
l’anima non può vivere senza il corpo, se no, sono possibili teorie sulla sopravvivenza dell’anima
dopo la morte del corpo (si vedano le voci Anima e Immortalità: →);
- in terzo luogo un aspetto che riguarda l’etica: poiché il corpo e l’anima hanno passioni specifiche,
come deve essere organizzata la vita interna dell’uomo, nelle sue relazioni tra anima e corpo? quale
gerarchia stabilire?
Si osservi che quest’ultimo è un tema etico (coinvolgendo tutti i principali problemi di questa
disciplina, quali la felicità, la libertà, il rapporto tra ragione e passione, e così via), ma anche politico,
perché l’organizzazione della città è rivolta al benessere dei corpi così come delle anime, essendo
l’uomo una unità inscindibile dei due elementi, per difficile che sia intendere filosoficamente questa
unità.
Va ricordato che la maniera abituale di pensare e di vivere dei Greci dava molto valore al corpo, a
cui si dedicava grande attenzione: ad esempio con la frequenza abituale dei ginnasi, con l’esaltazione
delle virtù sportive e della bellezza fisica. La concezione platonica del corpo come prigione
dell’anima (espressa soprattutto nel Fedone, e anche nel Fedro in un contesto diverso, ma assente in
altri dialoghi o addirittura contraddetta, come avviene nel Simposio) è sì legata ad antiche tradizioni
(la tesi è presente nei Pitagorici e implicita nelle teorie della metempsicosi), ma non certo
dominante nella cultura greca, né in quella filosofica né in quella espressa per noi dalle tradizioni
letterarie e figurative.
Corteo dionisiaco
Nei riti dionisiaci (→) il corteo era una sorta di processione tumultuosa rituale i cui protagonisti, nel
mito, erano Satiri (→), Menadi (→) e anche Ninfe (→), sicché nelle forme di culto storicamente
attestate le donne che partecipavano ai cortei dionisiaci reali portavano maschere associate a queste
figure.
Quando si parla di corteo dionisiaco quindi ci si può riferire sia al mito e ai suoi racconti, in cui il dio
Dioniso (→) è abitualmente accompagnato da queste figure, sia alla realtà storica, perché i riti
officiati dalle città in epoca storica prevedevano specifici rituali che richiamavano i racconti mitici.
Cos [Scuola di]
Cos è un’isola delle Sporadi meridionali nei pressi della costa dell’Asia Minore, tra Cnido e
Alicarnasso. Abitata da tempi remoti, fu un centro miceneo e poi dorico. In epoca arcaica e classica
ebbe complessi rapporti con l’Impero Persiano e le due potenze rivali di Sparta e di Atene, e fece di
tutto per mantenere la propria indipendenza.
Qui sorse nel V secolo a.C. una celebre scuola medica, il cui più importante rappresentante fu
Ippocrate, che rinnovò in senso razionalista le tradizioni mediche già presenti da tempo nell’isola.
La Scuola di Cos si caratterizzò per un approccio razionale alla malattia e alle pratiche mediche,
depurate dalle tradizioni religiose e dalle pratiche della medicina dei templi (vedi ad esempio la voce
Incubazione: →). Il cosiddetto Corpus Hippocraticum è un insieme di scritti riferiti ad Ippocrate ma
in realtà opera di molti medici della scuola, che hanno gettato le basi della medicina scientifica greca
(gli scritti del Corpus vennero riuniti nel contesto del lavoro storico-filologico della Biblioteca di
Alessandria (→), in età ellenistica).
Va osservato che negli stessi decenni in cui nella Scuola di Cos operò Ippocrate (la seconda metà del
V secolo a.C.) si andava diffondendo in Grecia il culto di Asclepio, con cui riprendeva forza la
medicina a base non scientifica ma religiosa.
Cosa
Il termine è estremamente e volutamente generico, indicando non un elemento specifico della
realtà, ma qualsiasi ente che abbia carattere di realtà o sia concepito poterlo avere. La parola italiana
cosa traduce il latino res, senza però assumerne la connotazione di realtà sostanziale che il termine
latino in qualche modo evoca (va ricordato che in contesti latini legati alla filosofia aristotelica res è
spesso traducibile con sostanza).
Coscienza
Il termine coscienza (in greco synesis, o sueidesis) non ha nella filosofia greca lo stesso rilievo che ha in
quella successiva (già a partire dall’età di Seneca, che utilizza il termine conscientia).
“In filosofia è usato in due accezioni diverse, strettamente connesse tra loro:
- designa la fonte del sentimento del bene e del male (coscienza morale) ed è quindi al centro della
riflessione etica);
- si riferisce all’interiorità dell’uomo, la sfera spirituale della vita, in quanto dotata di consapevolezza
del mondo esterno e di sé (coscienza come sapere di sé e dell’altro), ed è quindi al centro di ogni
riflessione sulla conoscenza.
Il problema centrale è intendere la natura della coscienza, tema che apre a una costellazione di vie di
ricerca:
- poiché la coscienza appartiene alla nostra vita interiore ma è legata all’esteriorità delle cose, delle
persone, delle relazioni, si tratta di comprendere come si legano interiorità ed esteriorità, mente e
corpo, la sfera del mondo interiore e quella del mondo esterno;
- poiché la coscienza non è sempre chiara a se stessa, si tratta di comprendere per quali vie possiamo
meglio divenire consapevoli a noi stessi (il nostro io è un continente da noi stessi assai poco
esplorato);
- poiché nella coscienza troviamo le ragioni del bene e del male, la guida per l’azione, i principi
spirituali che ci elevano rispetto al mondo dell’inorganico, si tratta di comprendere qual è la fonte (o
le fonti) della nostra coscienza (Dio? la natura? o cosa?)” [Pancaldi 2006]
Cosmo
Questo termine (in greco kosmos) venne introdotto in ambienti pitagorici per indicare l’universo
ordinato e governato da leggi immutabili di cui la Terra è parte. La parola kosmos significa di per sé
ordine, e il termine venne applicato all’universo fisico proprio per la sua caratterizzazione ordinata (i
Pitagorici sottolineavano l’aspetto matematico di questo ordine).
Il concetto in realtà non è soltanto scientifico, né nella filosofia delle origini, né nella filosofia
successiva (ad esempio in Platone o negli Stoici), perché l’ordine del cosmo veniva sentito come
espressione di un superiore ordine divino (vedi Cieli: →). Soltanto alcune scuole hanno proposto
una visione esclusivamente scientifica del cosmo, pur ammettendo che gli dèi ne facciano parte (così
Aristotele ed Epicuro, ad esempio).
Il Kosmos da alcune scuole veniva contrapposto per la sua perfezione alla disordinata esperienza
umana. Così in Platone; ma non certo nei fisici, dai primi filosofi naturalisti ai pluralisti e ai
materialisti, e neppure nello Stoicismo, tutte scuole che non riconoscevano alcuna differenza tra
l’ordine del cosmo e l’ordine della realtà umana.
Le tradizioni fondamentali sono quindi due nella filosofia greca:
- chi separa l’ordine del cosmo e il disordine umano (Platone, con alle spalle varie tendenze della
mitologia tradizionale greca e delle religioni dei misteri: →);
- chi non riconosce alcun disordine (se non apparente) nel mondo umano e cerca le regole
dell’ordine universale (quasi tutte le altre correnti del pensiero greco, neoplatonismo compreso), non
necessariamente uguali per la Terra e i Cieli.
Una posizione intermedia è quella di Aristotele, che riconosce la perfezione dei Cieli e il loro ordine
eterno, ma non attribuisce la stessa caratteristica alla Terra e al mondo dell’uomo, che ha caratteri in
parte ordinati, in parte disordinati, e quindi non perfettamente definibili in termini razionali (e
infatti le discipline pratiche e poietiche non hanno lo stesso rigore teoretico).
La nozione filosofica di cosmo va naturalmente contrapposta a quella poetica e mitica di caos (→),
che nei miti cosmogonici assume la veste della pura potenzialità da cui tutto emerge.
Cosmogonia
È il racconto mitologico della formazione dell’universo. Il termine nasce da kosmos, che indica il
mondo ordinato contrapposto al Caos originario, unito alla radice gen (o gon), che richiama la
nascita (dalla stessa radice nascono il verbo italiano generare e il sostantivo generazione).
Le cosmogonie greche sono quindi racconti mitologici sulla nascita del mondo ordinato, nella forma
che conosciamo, a partire da qualcosa di diverso, come il Caos primordiale. Le cosmogonie
implicano quindi anche le teogonie, cioè i racconti mitologici sulla nascita degli dèi, esse stesse
abitualmente associate dalla religione greca, nelle sue varie tradizioni, alla natura.
Oltre a quella celebre di Esiodo (si veda la voce Teogonia: →), ci sono state tramandate, o ne
abbiamo notizie indirette, varie altre, tra cui una orfica. In nessuna cosmologia greca l’origine
dell’universo dipende da un atto di creazione o prevede divinità preesistenti.
Poiché poemi cosmogonici e racconti mitologici di questa natura erano diffusi da secoli (o, nel caso
dell’Egitto e della Mesopotamia, millenni) nelle aree dell’Oriente con cui i Greci erano in contatto,
le cosmogonie greche richiamano in molti punti tradizioni dell’Oriente, anche se in genere rivisitati
con grande originalità.
Cosmologia
È lo studio scientifico del kosmos (→), cioè dell’universo fisico (vedi Astronomia: →). I problemi
della cosmologia sono quelli relativi alla natura della Terra (→) e alla sua posizione nel cosmo, e
quelli relativi ai Cieli (→), alle cui voci rimandiamo.
Va sottolineato che questo studio scientifico – che mise capo nell’antichità all’opera di Tolomeo (→)
che avrebbe poi dominato la scena fino al Seicento europeo, molto dopo l’opera di Copernico –
attinse in Grecia a diverse tradizioni antichissime:
- ai racconti cosmogonici dei primi poeti, che configuravano uno schema di interpretazione
dell’universo in chiave religiosa che influì non poco anche sulle elaborazione scientifiche successive;
- alle osservazioni astronomiche che i popoli orientali compivano da due millenni prima dei Greci.
A parte gli aspetti propriamente scientifici della questione cosmologica, va sottolineato che la
filosofia greca ha impostato la maggior parte dei problemi, di qualsiasi ordine e tipo essi siano,
tenendo conto del loro posto nell’ottica del Tutto; anzi, la filosofia greca si caratterizza proprio, in
gran parte, per questo legame tra il particolare di cui si parla e la sfera del cosmo, dell’universo
ordinato di cui tutti siamo parte.
Cosmopolitismo
Il termine richiama le parole greche kosmos, qui nel senso di mondo, e polites, che significa cittadino.
Fu Diogene il Cinico (→), a quanto sappiamo, a utilizzare per primo questo termine: a chi gli
domandava quale fosse la sua patria rispondeva di essere “cittadino del mondo” (in greco kosmopolites).
La nozione è complessa. Da un lato essere cittadini del mondo significava avere reciso il legame
identitario con la propria polis, che per un uomo dell’età classica era invece uno dei tratti distintivi
della persona; in questo senso il cosmopolitismo è proprio dell’età ellenistica in diretta
contrapposizione con i secoli precedenti.
C’era poi un significato più generale, sottolineato soprattutto dagli Stoici, che della nozione di
cosmopolitismo fecero una sorta di bandiera a favore dell’umanità: non importa essere cittadini di
una città o dell’altra, o essere schiavi o nobili, o Greci o Barbari; importa essere uomini ed essere
riconosciuti dagli altri, come uomini, e alla propria umanità universale, quindi alla propria ragione,
ispirare la propria vita.
Costituzione
Il termine greco che traduciamo con costituzione, politeia, ha un campo semantico in realtà più
vasto: si veda in merito la voce Polites / Politeia (→).
Se usato in senso ristretto, il termine indica semplicemente il complesso delle leggi che ciascuna
polis si dava, indipendentemente dalle altre. Ci viene tramandato che Aristotele raccolse un gran
numero di queste costituzioni, ma dell’intera raccolta a noi è giunta soltanto quella di Atene.
Le leggi definivano innanzitutto il regime politico secondo cui era retta la polis, e quindi indicavano
con leggi specifiche chi era da considerarsi cittadino e chi no, determinando per ciascuno specifici
diritti e doveri. A partire da Platone, e poi soprattutto con Aristotele, si affermò una tripartizione
delle forme costituzionali divenuta in seguito canonica: monarchia, aristocrazia, politia, a seconda
che il potere sia concentrato nelle mani di uno solo (monarchia), oppure di una élite dirigente
(aristocrazia) o da tutti coloro che nella polis sono in possesso dello status giuridico di cittadino
(politia, che in questa classificazione aristotelica corrisponde alla forma di governo che oggi
chiamiamo democrazia).
Aristotele ha studiato le caratteristiche proprie di ciascun tipo di governo, mettendone in luce pregi
e difetti. In particolare ha osservato che per ciascuno dei tre tipi esiste una forma costituzionale
degenerata: la monarchia può degenerare in tirannia, l'aristocrazia in oligarchia e la politia in
democrazia (oggi diremmo in demagogia), intesa negativamente come il governo della moltitudine,
priva di effettiva capacità politica. Questa degenerazione si verifica quando i governanti - siano essi
uno, pochi o molti - non svolgono la loro azione ponendosi come obiettivo il bene dello Stato, ma
usano il loro potere per i loro interessi. Nella Politica così scrive: "La tirannide è infatti una
monarchia che persegue l'interesse del monarca, l'oligarchia quello dei ricchi, la democrazia poi l'interesse dei
poveri: al vantaggio della comunità non bada nessuna di queste".
Crisippo
Vedi Stoicismo
Crizia
Uomo politico, filosofo e poeta ateniese (460 circa – 403 a.C), era un aristocratico di tendenze
oligarchiche radicali. Discepolo di Socrate, ma anche legato ai circoli sofisti attivi nell’Atene degli
anni della Guerra del Peloponneso, fu implicato nel processo delle Erme (→) con Alcibiade nel 415
a.C.
Al culmine della sua carriera politica fu uno dei capi più in vista dei Trenta Tiranni (→), e in
qualche modo l’ispiratore delle politiche più repressive e filospartane. Morì nel 403 combattendo
contro i democratici.
Della sua vasta produzione – ha scritto opere filosofiche in prosa, elegie politiche, opere teatrali –
rimangono soltanto scarsi frammenti (dalla tragedia Piritoo, dal dramma satiresco Sisifo, e da altre
opere), improntati ad un forte radicalismo sofista. È quindi da considerarsi uno degli esponenti della
seconda sofistica, cioè la sofistica radicale (→) che aveva abbandonato il moderatismo politico della
prma generazione dei sofisti.
Crono
Nella mitologia greca Crono (Kronos) è uno degli dèi primordiali, e ha un ruolo essenziale nei miti
cosmogonici: vedi Teogonia (→). Le origini del suo culto sono pre-elleniche, probabilmente
anatoliche. A Roma venne identificato con Saturno.
Cronografia / Cronologia
La cronologia (da chronos, tempo, e logos, discorso) è la descrizione degli eventi nella loro successione
nel tempo. I logografi e gli storici greci, ed anche altri studiosi, hanno cominciato a porre il
problema della cronologia degli eventi storici a partire dal V secolo, utilizzando varie liste di cui si
conosceva a periodicità come metro per fissarne la sequenza: intorno al IV secolo cominciò ad essere
utilizzata la sequenza delle Olimpiadi (→). Il più antico testo pervenutoci che rispetti una rigorosa
cronologia è il Marmo Pario (→).
Chi pose il problema della cronologia in termini scientifici fu lo scienziato Eratostene di Cirene
(→) nel III secolo a.C. in un’opera intitolata Cronografia (e cronografi in Grecia si dissero gli autori
di questo genere di opere).
Sulla base delle tradizioni storiografiche antiche e delle indicazioni della cronografia scientifica, lo
storico Diodoro Siculo (→) nella sua Biblioteca storica propose una cronologia comparata tra la storia
romana e quella greca, la prima fondata sulle liste dei consoli, la seconda sulla sequenza delle
Olimpiadi e le liste degli arconti ateniesi.
Dal punto di vista della storia della filosofia le questioni riguardanti la cronografia sono rilevanti per
due ragioni, una teorica, l’altra pratica:
- la questione teorica riguarda l’interpretazione del tempo che è legata alla logica della successione
cronologica; su questo punto rimandiamo alla voce Tempo (→), ricordando qui soltanto che il
processo di ordinamento della cronologia in sede storica fa parte di quel generale movimento del
pensiero greco che tenta di porre ordine su qualsiasi aspetto della realtà (da questo punto di vista le
questioni di cronografia non a caso sono viste in parallelo a quelle riguardanti la geografia (→) da
studiosi come Eratostene, prima richiamato);
- la questione pratica riguarda la cronologia della sequenza dei filosofi e delle scuole, che venne a
poco a poco sviluppandosi soprattutto in ambienti alessandrini; la nozione stessa di storia della
filosofia è legata anche a questo tipo di studi (vedi la voce Storia della filosofia: →).
Crotone
Crotone è una delle più antiche città della Magna Grecia, di cui tuttavia rimangono tracce
archeologiche estremamente scarse, che non rendono ragione della potenza e della ricchezza che in
alcuni momenti della sua storia la città raggiunse (il santuario di Era Lacinia a Capo Colonna, di cui
resta assai poco, conservava pitture celebri in tutta l’Ellade, opera di Zeusi, e statue di oro
massiccio).
Venne fondata intorno al 710 a.C. da coloni per lo più Achei provenienti da varie località della
Grecia e in tutta la sua storia dovette sempre combattere contro città nemiche per lo più greche esse
stesse, come Sibari a nord e Locri a sud. Nel 510 a C. riuscì ad annientare Sibari, e divenne per
alcuni decenni la città egemone della Magna Grecia. Fu in questo contesto di lotte per la
supremazia che il ceto aristocratico di Crotone trasse vantaggio dalla presenza di Pitagora che nel
corso del VI secolo a.C. visse in questa città e vi fondò la sua scuola. Furono poi le vicende politiche
interne a determinare la ribellione contro la scuola.
Il complesso di queste vicende non ebbe però seguito nei secoli successivi. La città non resse il
confronto con l’espansionismo di Siracusa prima e di Roma dopo. Nel 194 a.C. l’antica potenza di
Crotone era svanita, e anche l’antica consistenza demografica, se i Romani furono indotti a trarvi
una loro colonia.
Ctonio
In greco la parola chthon indica la terra e il mondo sotto la terra e l’aggettivo ctonio significa quindi
per lo più sotterraneo, riferito in genere a culti rivolti alle potenze degli Inferi e per i morti. Ctonio è
anche, simbolicamente, il mondo delle piante, perché affondano le loro radici nella terra e sono
quindi in qualche modo collegati con le potenze degli Inferi. Diversi miti collegati con la semina del
grano nel terreno e la sua nascita come pianta dopo un periodo passato sottoterra sono connessi con
culti di tipo ctonio.
Culto eroico
Vedi Eroi
Cultura orale
Non dobbiamo concepire la cultura orale soltanto come il periodo della storia dell’uomo precedente
la scrittura. La ragione è questa, che l’oralità ha accompagnato l’uomo in tutta la sua storia, e di
cultura orale si parla anche per i nostri giorni: nella storia la civiltà della scrittura (e oggi della
multimedialità) ha accompagnato e non sostituito la cultura orale. Anzi, oggi si parla di nuova
oralità in relazione al fatto che i mezzi audiovisivi, i telefoni cellulari e Internet integrano sì parola
scritta, immagini e oralità, ma creano anche nuovi sviluppi per l’oralità stessa.
Tuttavia nelle epoche della storia dell’uomo in cui non c’erano tecnologie della scrittura – o in cui
c’erano ma venivano utilizzate soltanto per determinati e specifici scopi (ad esempio nel mondo
Miceneo, dove la scrittura veniva utilizzata soprattutto per l’amministrazione della vita economia e
militare dei Palazzi) – l’oralità aveva caratteri diversi da quelli che conosciamo oggi, perché doveva
servire anche agli scopi per cui oggi utilizziamo la scrittura.
Le culture orali dell’antichità ovviamente non ci sono note direttamente, ma soltanto attraverso, per
così dire, lo specchio della scrittura e delle immagini (restituite dagli scavi archeologici) giunte sino
a noi. Per esempio, non sappiamo con precisione come si siano formate nel contesto della cultura
orale dell’epoca i canti che poi entrarono a comporre l’Iliade e l’Odissea, ma sappiamo molto
dell’oralità dai due poemi stessi. Per esempio sappiamo che gli aedi (→) erano una corporazione di
cantori che accompagnava col canto la poesia in determinate occasioni, perché questa situazione ci
viene descritta nei due poemi.
Uno dei tratti tipici dell’oralità è il fatto che le tradizioni possono tramandarsi soltanto attraverso la
memoria. Poiché la poesia è più adatta della prosa alla memorizzazione, è alla poesia che vengono
affidati i racconti di natura religiosa e sapienziale, nonché le tradizioni che educano le nuove
generazioni e tramandano i valori del passato. Per questo si dice, con Platone, che i poeti sono stati i
“maestri della Grecia”.
Perché questo possa accadere, i racconti devono essere noti, spesso ripetuti davanti ad un pubblico o
in privato, e costruiti sulla base di moduli che si ripetono costanti. Così, per esempio, gli epiteti che
accompagnano in maniera costante gli eroi e gli dèi, servono a renderli riconoscibili (in Omero
Achille è “piè veloce”, Afrodite è “dalle belle chiome”, Elena è “dalle bianche braccia”, e così via) e a
favorire la memorizzazione.
Questa maniera “formulare” di trasmettere le tradizioni consente di rinforzare le pratiche e i valori
in cui la comunità si riconosce. A questo stesso mondo appartengono i detti e i proverbi, che si
ripetono con moduli di tipo poetico anche nel corso della normale conversazione, utilizzando le
rime.
Nel campo della filosofia, l’oralità ha accompagnato la scrittura per tutta l’antichità. Anzi, è la
scrittura ad avere in moltissimi casi accompagnato l’oralità, perché un numero elevatissimo di opere
filosofiche sono state composte in seguito a pratiche di lavoro in comune. Nel caso di Platone, i suoi
dialoghi (→) mimano l’oralità e ricostruiscono una sorta di “oralità scritta”, attraverso un raffinato
procedimento letterario. Ma anche opere come quelle di Aristotele o di Plotino sono legate
all’oralità, e più esattamente a varie forme di comunicazione tipiche delle loro pratiche di
insegnamento.
In ogni caso, nell’antichità la filosofia era innanzitutto una pratica comunitaria, sia che venissero
utilizzate le tecniche della dialettica (→), sia che i metodi fossero altri. Non che manchino esempi
di lavoro individuale e di scrittura slegata dall’oralità (ad esempio la trattatistica, di cui però ci
rimangono i testi quasi esclusivamente per il mondo romano,. Ma il tratto distintivo della filosofia
antica è la pratica in comune del discorso filosofico e della vita filosofica (vedi la voce Confilosofare:
→).
Deduzione
Il termine moderno deduzione indica il passaggio da una verità universale nota a una verità
particolare che è ricavabile dalla prima attraverso un ragionamento. Poiché è il sillogismo in
Aristotele lo strumento tecnico per compiere una deduzione in maniera logicamente corretta,
rimandiamo alla voce Sillogismo (→) per la concezione aristotelica della deduzione. Quella che oggi
chiamiamo deduzione corrisponde al sillogismo aristotelico, e sylloghismos è in effetti il termine
greco che traduciamo, a seconda del contesto, con deduzione o con sillogismo o con ragionamento.
Va sottolineato che la deduzione è il procedimento inverso rispetto all’induzione (→), che consente
il passaggio da conoscenze particolari a conoscenze universali.
Dèi / Divino
A proposito degli dèi greci e del divino uno dei massimi studiosi francesi della religione ellenica
scrive così: “L’uomo greco impiega alternativamente le parole dio, dèi, divino, o demone, demonico,
all’interno della stessa frase come se si trattasse di vocaboli per lui molto simili, se non sinonimi.
Personalmente, non so che cosa siano gli dèi o il divino. Le parole dei Greci sono per me un dato di
fatto; e gli dèi – di cui essi sentono la presenza o l’intervento - sono un dato di fatto per loro”
(Rudhardt 1986, p. 13).
In effetti nella religione greca non c’era alcuna teologia fissata una volta per tutte, così come non
c’era una vera e propria casta sacerdotale (vedi la voce Diotima →). C’erano soltanto i racconti dei
poeti che fissavano nei canti le tradizioni orali antiche e ne proponevano di nuove, in genere come
varianti delle esistenti. Ma nessun greco a quanto pare sentiva il bisogno di una teologia che
definisse dogmaticamente una serie di articoli di fede: gli dèi erano esseri superiori all’umano di cui
si avvertiva la presenza in natura, perché qualsiasi evento naturale era riportato, in un modo o
nell’altro, all’azione della sfera del divino. In nessun modo si trattava di presenze soprannaturali: gli
dèi si identificavano con la natura al punto che il cielo è Urano, se una persona si innamora in lei è
presente Afrodite, nella tempesta c’è l’azione diretta di Poseidone, e nel fulmine quella di Zeus. E
così via.
La sfera del divino e quella dell’umano sono entrambe naturali: fino all’età degli eroi (l’epoca dei
poemi omerici) le due sfere si incontravano spesso e gli eroi erano in contatto con gli dèi e le dee, e
non erano rari i casi di amori da cui nascevano comuni mortali (come Enea, figlio del troiano
Anchise e della dea Afrodite). Nelle età successive questo rapporto si affievolisce e diventa meno
diretto, più mediato dai sacrifici e dai riti.
Accanto alle divinità propriamente dette, la mitologia conosce anche una vastissima schiera di esseri
di natura divina (ad esempio Satiri, Menadi, Ninfe, Demoni, e così via) legati in genere a un
particolare dio di cui formano la corte o con cui sono in più stretto rapporto.
Delio
Questa località della Beozia, al confine con l’Attica, era così chiamata perché vi era un importante
tempio dedicato ad Apollo Delio. Qui si combatté una battaglia nei primi anni della Guerra del
Peloponneso: era il 424 a.C. e gli Ateniesi comandati da Ippocrate furono sconfitti dai Beoti
comandati da Pagonda.
Delfi
Città della Grecia sul versante meridionale del monte Parnaso, nella Focide, Delfi era uno dei
luoghi sacri più importanti dell’intero mondo ellenico perché vi sorgeva un antichissimo santuario
che in età arcaica era sede di un oracolo di Apollo. La zona era caratterizzata da frequenti
movimenti tellurici, da varie fonti che sgorgavano dal terreno (la più nota è la fonte Castalia) e da
esalazioni che lasciavano pensare ad attività ctonie (→), in qualche modo connesse con la presenza
del sacro.
A entrare in trance e a ricevere l’oracolo del dio era una donna, la Pizia. Ma ad interpretare gli
oracoli e a consegnarli a chi si era rivolto al santuario erano i sacerdoti, e la forma del responso era
poetica, oscura, e spesso di ambigua lettura.
A Delfi si rivolgevano i singoli, ma anche le città prima di una guerra o prima della fondazione di
una nuova colonia, o per averne l’approvazione alle proprie leggi, o per altre ragioni. In tutta l’età
della colonizzazione Delfi ebbe un ruolo importante nel guidare questo impetuoso movimento
migratorio, protrattosi per secoli.
Va precisato che a partire dall’età arcaica, e soprattutto in età classica, il santuario di Delfi acquisì
carattere panellenico e quindi, per così dire, al di sopra delle parti. Aveva però una caratterizzazione
di tipo aristocratico e conservatore. Quanto alla guida del processo di colonizzazione, va ricordato
che il dio a cui ci si rivolgeva era chiamato Apollo archegeta, termine che possiamo rendere con
l’espressione colui che presiede alle fondazioni.
Demagogia / Demagogo
Composto dal sostantivo demos (popolo) e dal verbo ago (guido), il termine demagogo nella
tradizione greca si riferisce a qualsiasi uomo politico, o semplicemente oratore di fronte
all’Assemblea dei cittadini, che sappia guidare il popolo, cioè convincerlo indirizzandone la volontà
politica.
Di per sé, quindi, la dizione non ha alcun carattere spregiativo. Ma Aristotele indicò nei demagoghi
i responsabili della degenerazione della democrazia che, divenuta demagogia, entra in crisi e muore a
favore di altri regimi come l’oligarchia e la tirannide.
Per l’insieme delle forme di governo si veda la voce Costituzione (→).
Demetra
Dea della terra, la sua figura è ben distinta da quella di Gaia, la Terra-Madre primordiale. Demetra
è piuttosto associata al ciclo delle stagioni che garantiscono la fertilità della terra, e in particolare è
associata al grano, che viene seminato in autunno e rimane a lungo sotto terra prima di riemergere
come spiga e dare il suo frutto.
Questo movimento ciclico delle stagioni e della fertilità è simboleggiato dal mito che lega Demetra
alla figlia Persefone. Quest’ultima mentre raccoglieva un narciso o un giglio venne rapita nelle
profondità della terra e trascinata da Ade negli Inferi. Divenne sua sposa, senza che mai la madre
accettasse la perdita della figlia.
Demetra la cercò invano per giorni e notti, finché non le fu rivelata la verità. Decise allora di
abdicare al suo ruolo divino e di vivere sulla terra, abbandonate le case degli dèi sull’Olimpo. Ma
questo significava l’infertilità del suolo, e Zeus dovette intervenire.
Si giunse a un compromesso: Persefone sarebbe rimasta dall’autunno all’inverno presso gli Inferi,
come divinità moglie di Ade; sarebbe invece tornata presso la madre tutte le primavere, nuovamente
dea dell’Olimpo.
Il culto di Demetra aveva il suo centro ad Eleusi (→) e in Sicilia, e i simboli di questa dea erano la
spiga di grano, il narciso, il papavero.
Demiurgo
Il termine demiourgos in greco indica l’artigiano (i latini traducono faber). Nel mito cosmologico
narrato da Platone nel Timeo il Demiurgo è il dio-artigiano che ha plasmato il mondo forgiando la
materia amorfa preesistente sulla base del modello offerto dalle idee (vedi la voce Modello: →). Non
è un creatore, perché il suo ruolo è quello di plasmare la chora (vedi la voce Materia: →) dandole una
forma.
Il suo ruolo è quello di un artigiano dotato di piena intelligenza delle idee, che agisce con
consapevolezza avendo del tutto chiaro il fine ultimo che è la realizzazione, nei limiti del possibile,
dell’idea di Bene nel mondo sensibile (cioè nell’universo fisico). È gerarchicamente superiore
all’Anima del Mondo e alle altre anime perché esse nascono a causa della sua attività plasmatrice
dell’universo. Ha quindi un ruolo intermedio tra la sfera del sensibile e quella dell’intelligibile, tra
l’universo fisico nel tempo e la sfera eterna delle Idee.
Quello platonico del Timeo è tuttavia un racconto, un mito. Non è una teoria filosofica elaborata
attraverso argomentazioni, e la sua concezione del Demiurgo non è quindi direttamente
paragonabile ad altre concezioni filosofiche del divino (ad esempio il Dio di Aristotele). Di fatto
mentre altre parti dello stesso mito ebbero maggior fortuna (ad esempio la teoria dei solidi regolari:
→), la figura del Demiurgo non ebbe grande seguito. Ripresa negli ambienti del platonismo dei
primi secoli dell’era cristiana, non ebbe però un ruolo nel neoplatonismo da Plotino in avanti.
Democrazia
Composto da demos (popolo) e kratos (potere), il termine democrazia (demokratia) può essere inteso
in vari modi connettendo le parole popolo e potere: ad esempio la democrazia può essere definita
come potere del popolo, cioè esercitato dal popolo o in nome del popolo (le due cose possono essere quasi
del tutto diverse) oppure può essere definita come potere esercitato a vantaggio del popolo. Oggi
intorno al termine democrazia un’intera letteratura ne discute i caratteri.
Per i Greci le cose erano più semplici: democrazia era uno dei tipi di costituzione che si affermarono
nella Grecia al passaggio tra l’età acaica e quella classica, in particolar modo ad Atene, il cui modello
costituzionale democratico del V e IV secolo a.C. è per noi un po’ il paradigma della democrazia
antica (anche perché è quello che conosciamo meglio). Quel che caratterizzava la democrazia
ateniese era il fatto che il cuore del potere politico (ma anche giudiziario) era l’Assemblea (→) dei
cittadini, e cioè degli Ateniesi maschi, adulti, nati da persone che a loro volta erano cittadini. Oggi
per un sistema di questo tipo parliamo di democrazia diretta per distinguerla dalla nostra democrazia
rappresentativa, che i Greci non conoscevano: il potere veniva esercitato infatti di persona dai
cittadini attraverso la partecipazione ai lavori dell’Assemblea e degli altri organi costituzionali. Nel
nostro sistema, invece, il potere reale è nelle mani di rappresentanti eletti dai cittadini (da qui la
dizione democrazia rappresentativa).
Al termine della vita realmente indipendente delle poleis greche, quando ormai la loro identità
politica indipendente era compromessa per la dominazione macedone, Aristotele identificò la
democrazia come potere di tutti in contrapposizione al potere di uno (monarchia: →)) o di pochi
(oligarchia: →), proponendo una classificazione che divenne poi canonica. Ciascuno di questi regimi
politici aveva una propria possibile degenerazione, e per la democrazia Aristotele propose quella che
oggi chiamiamo demagogia (→).
Naturalmente la vita politica e giudiziaria di una polis delle dimensioni di Atene prevedeva una
complessa articolazione di organi e vari tipi di controlli e di bilanciamento dei poteri tra i vari organi
(fermo restando il principio che, in ultimo, il potere reale era nelle mani dell’Assemblea).
Demone
Nei racconti del mito il demone (in greco daimon) è un essere afferente alla sfera del divino che in
qualche modo interferisce nelle vicende dell’uomo, positivamente o negativamente. Così in Omero
e in Esiodo sono detti demoni le forze divine “dispensatrici” di destino per gli uomini.
Nelle religioni dei misteri, da quel che traspare dalle poche testimonianze sicure (tutte non molto
antiche), l’anima stessa dell’uomo è un demone di natura vicina a quella divina che si incarna nel
ciclo delle vite e delle purificazioni (vedi Metempsicosi: →).
Il tema ritorna in Platone, che in due punti importanti della sua opera cita i demoni (nel contesto di
discorsi affini a quelli del mito, ma con significato filosofico):
- nell’Apologia Socrate parla di un demone che è solito fermarlo quando sta per dire qualcosa di
sbagliato o sta per commettere o subire un male (una sorta di voce della coscienza, dunque);
- nel Simposio Eros è detto demone, cioè un essere intermedio tra l’umano e il divino, mediatore tra
la sfera della vita terrena e quella superiore e divina a cui l’anima anela.
Come si vede, al termine demone non è connessa un’immagine negativa. Ma nel folklore, cioè nei
racconti popolari, sappiamo che esistevano già in età arcaica racconti su demoni pericolosi, o
terrificanti, o legati al mondo dei morti con influenza negativa sull’uomo. E a mano a mano che si
va verso l’età ellenistica la connotazione demonica tende a diventare negativa.
Tuttavia nello Stoicismo e in Plotino compare l’idea che esistano esseri con affetti e sentimenti non
troppo dissimili da quelli umani (Plotino li descrive dotati di corpi aerei e ignei).
In molte tombe etrusche e, in parallelo, di varie altre civiltà i demoni sono rappresentati come guide
delle anime dei morti. E in generale la sfera dei demoni è intermedia e mediatrice tra l’umano e il
divino, tra la vita e la realtà dell’oltretomba.
Demonico
L’aggettivo demonico rimanda a demone (→), ma è riferito a persone, non a demoni. Ad esempio
Alcibiade chiama demonico Socrate nel suo discorso che chiude il Simposio platonico (Simposio,
219). Il senso è questo: ci sono persone che hanno qualcosa di diverso e non dominabile, esercitano
un fascino e un influsso magnetico, al di fuori della norma. È come se un demone agisse in loro, o
come se essi stessi fossero dei demoni.
La sfera del demonico è quindi una esperienza reale, concreta: descrive particolari stati di
innamoramento, o di fascinazione, o di esaltazione di tipo erotico o d’altra natura.
Demos
Traduciamo abitualmente questo termine con popolo, ma il significato è in realtà più ristretto: demos
è sì il popolo, ma intendendo con questo termine soltanto l’insieme dei cittadini aventi diritti
politici (quindi maschi, adulti, nati da cittadini a loro volta con diritti politici).
Nella storia greca è costante il conflitto con gli aristoi (→), conflitto che ha determinato il sorgere di
diversi tipi di costituzione.
Va ricordato anche un altro significato del termine, che abitualmente è indicato dall’italiano demo: il
greco demos indica infatti non soltanto il popolo, ma anche i luoghi in cui esso abita; così demi sono
detti i villaggi, o le comunità locali. Nella costituzione democratica ateniese i demi sono le
articolazioni territoriali di base dell’organizzazione politica, e ciascun cittadino è associato ad un
demo.
Definizione
Il problema della definizione (in greco horismos) come strumento discorsivo il cui scopo è la
comprensione di un termine o l’identificazione della natura di un ente nasce in modo esplicito in
ambiente sofista, nel contesto della loro filosofia del linguaggio. Ad esempio è nel contesto di
questo genere di studi che va inquadrato il lavoro di Prodico (→) sui sinonimi.
Nella dialettica socratica quello della ricerca di una precisa definizione è una preoccupazione
costante, espressa dalle domande ricorrenti “che cos’è?”, oppure “che cosa intendi per…?” e così via.
Il problema viene specificato da Platone con diverse strategie, e la dialettica diairetica (→)
presentata nel Sofista è uno dei modi per la soluzione.
Dare una definizione di un termine riferito ad una sostanza significa per Aristotele esaminarne le
cause e identificarne l’essenza, cioè gli elementi costitutivi. Più esattamente, una corretta definizione
di un ente ne individua il genere prossimo e la differenza specifica (→).
Demostene
Uomo politico di primo piano ad Atene e oratore greco tra i massimi dell’antichità, Demostene
nacque ad Atene nel 384 a.C. e si guadagnò da vivere nei primi anni come logografo, per poi
impegnarsi nella politica attiva per tutta la sua vita.
Ad Atene divenne il capo del partito antimacedone, e condusse dure battaglie politiche contro il
partito macedone, vincendole sul piano della politica interna. Benché Demostene abbia svolto
un’intensa attività diplomatica, coronata da notevoli successi, nel tentativo di contrastare la potenza
macedone, alla fine questa scelta politica risultò perdente: Atene e l’intera Grecia non riuscirono di
fatto a contrapporsi in modo efficace alla Macedonia di Filippo II che con la battaglia di Cheronea
del 338 a.C. riuscì a imporsi, anche se la resistenza organizzata rapidamente riuscì a salvare l’Attica
e Atene dall’invasione.
Mantenuto nell’ombra il suo ruolo antimacedone negli anni di Alessandro Magno, alla sua morte fu
Demostene a organizzare la ripresa delle ostilità in senso antimacedone, ma la guerra che ne seguì
non ottenne gli esiti sperati. Nel 322 a.C per sfuggire ai sicari macedoni si suicidò presso il tempio
di Poseidone nell’isola di Calauria.
Grandissimo oratore, di lui restano memorabili orazioni politiche (ad esempio le Filippiche).
Desiderio
La parola greca per desiderio è epythimia, la cui radice è la stessa di thymos, cioè il cuore, l’organo
della vita e dell’appetire.
I problemi filosofici
I problemi connessi a questa nozione sono di due generi distinti:
- problemi sulla natura dei desideri e sulla loro origine: qual è la loro origine nel corpo e nell’anima?
perché desideriamo? che cosa accade nel nostro corpo e nella nostra anima se li respingiamo o se li
assecondiamo? è possibile tracciare una classificazione ordinata delle tipologie dei desideri?
- problemi sul modo di comportarsi rispetto ai desideri: esaminando il problema con razionalità, i
desideri vanno soddisfatti? in quali casi? quali criteri un essere razionale come l’uomo utilizza per
scegliere comportamenti eticamente corretti rispetto ai propri desideri? quali conseguenze per sé e
per gli altri ha la scelta di soddisfare o di non soddisfare i desideri?
Le discipline filosofiche interessate all’elaborazione di una teoria del desiderio sono quindi almeno
due: la fisica e la disciplina che studia l’identità dell’anima, perché è nella base fisica dell’uomo che
va cercata la radice del desiderare così come nella identità della sua anima; e l’etica, perché un essere
razionale come l’uomo non può non prendere razionalmente posizione sui propri desideri, e
scegliere di conseguenza.
Le teorie
Nella filosofia greca qualsiasi riflessione di tipo etico ha affrontato i problemi legati alla nozione di
desiderio. Ferma restando una costante – cioè l’indicazione di procedere con razionalità – le scuole
filosofiche greche hanno fornito un vasto campionario di teorie in risposta ai problemi posti.
Platone ha indicato nelle specifiche facoltà dell’anima la radice del desiderio, in particolare
nell’anima concupiscibile (→), che è a tutti gli effetti un’anima desiderante, ed anche in modo per lo
più eccessivo. Va tenuta a freno. Una specifica analisi è condotta nel Simposio, soprattutto nel
discorso di Socrate-Diotima (→), in cui il desiderio è considerato figlio della mancanza: si desidera
ciò che non si possiede, e quindi il desiderio è, innanzitutto, desiderio di possesso (in qualche modo
è desiderio di completamento della propria identità: si veda il discorso di Aristofane: →).
In Aristotele la nozione di desiderio si lega a quella di appetito (orexis), nel senso che l’anima
dell’uomo è mossa da ciò che è appetibile: in quanto tale, l’anima lo desidera (l’analisi è svolta nel
dettaglio in Sull’anima, 3-10).
Una analisi specifica della nozione di desiderio è anche in Epicuro, che nella Lettera a Meneceo ne
elenca tipologie nettamente diverse tra loro, per ciascuna delle quali è eticamente corretto compiere
scelte specifiche e appropriate. Si devono dunque distinguere
- i desideri naturali e necessari, che vanno soddisfatti (ed è per lo più facile farlo) perché
corrispondono a precise esigenze del nostro corpo e della nostra anima, per natura; di questo tipo
sono ad esempio la fame e la sete;
- i desideri naturali, ma non necessari, cioè quelli che dipendono dalla natura, ma non soddisfarli non
porta alcun male: ad esempio il mangiare cose che ci piacciono piuttosto che cibi che non ci
piacciono, ma sono egualmente utili al benessere del corpo; l’indicazione di Epicuro è di soddisfarli
solo se il calcolo degli utili (→) è favorevole, cioè se i vantaggi che si ottengono nel soddisfarli sono
superiori agli svantaggi; l’intera sfera dell’eros rientra in questa tipologia;
- i desideri vani, cioè quelli che non sono naturali ma sono indotti dalla società o da abitudini; il
consiglio di Epicuro è di non soddisfarli, ma di abituarsi a non desiderare affatto ciò che non è utile
al corpo o all’anima.
Questa complessa teoria dei desideri è caratteristica dell’etica epicurea, che si presenta come una
filosofia che ha di mira l’indicazione di precise condotte di vita.
Destino / Fato
La nozione tradizionale greca di destino o di fato (in greco heimarmene) è espressa dalla figura mitica
della Moira (→). Il tema è stato trattato con grande profondità dai poeti: ad esempio è centrale in
molti passaggi dell’Iliade e dell’Odissea, ed è oggetto specifico di riflessione nei poeti tragici, perché
l’eroe sulla scena spesso è rappresentato combattere contro il destino, pur sapendo che non ha
possibilità di successo.
In filosofia il tema percorre un po’ tutta la filosofia dell’età arcaica e classica, in parallelo alla
riflessione poetica, e diviene oggetto di un dibattito tecnicamente molto complesso presso le scuole
ellenistiche, perché l’Epicureismo esplicitamente lo nega, e lo Stoicismo esplicitamente lo afferma.
Le ragioni della negazione epicurea riposano sulla concezione fisica dell’universo: in un mondo in
cui il movimento degli atomi, sia pur raramente, è casuale (vedi la voce Clinamen: →) non può
esserci un destino ineluttabile e necessario iscritto nella natura e nella vita dell’uomo. Il futuro non è
prevedibile rispetto al passato perché tra passato e futuro può intervenire il caso.
Gli Stoici invece concepiscono l’universo regolato con perfetta razionalità dal Logos, escludono che
ci sia alcuna forma di causalità e ritengono che la posizione di ciascun ente nel cosmo, uomo
compreso, sia esattamente quella che la razionalità universale impone. Dunque la vita di ogni ente,
uomo compreso, è regolata dal destino, la cui nozione, in definitiva, coincide con quella di
provvidenza (→). Il saggio accetta la propria posizione nel cosmo proprio perché la comprende
razionalmente, per quanto i dettagli possano sfuggirgli.
Va sottolineato che lo Stoicismo non ha assunto però una posizione fatalista: il fato non è infatti
visto come un imperscrutabile ordine del mondo che assegna a ciascuno dall’esterno la sua sorte, per
alcuni fortunata per altri sfortunata (vedi la voce Fortuna: →), ma come l’espressione stessa della
razionale necessità naturale alla quale l’uomo dà il proprio contributo. A chi polemizzava contro
questa nozione stoica dicendo che, di fronte ad una malattia grave non avrebbe senso chiamare un
medico, perché se è destino che l’uomo guarisca guarirà, altrimenti morirà, gli Stoici antichi
rispondevano che il destino si attua anche chiamando il medico, perché questa scelta dell’uomo
entra nel gioco degli eventi.
Deucalione e Pirra
A queste due figure della mitologia greca è legata una delle molte narrazioni sul diluvio universale.
Deucalione è figlio di Prometeo e Pirra è figlia di Epimeteo, fratello di Prometeo, e della sua sposa
Pandora. Deucalione e Pirra, divenuti sposi, avevano fama presso gli dèi di essere persone che
ispiravano a giustizia la loro vita, in un mondo di persone molto corrotte. A causa di questa
corruzione Zeus decise di distruggere tutto il genere umano tranne loro due. Prometeo consigliò
loro di costruire una grande cassa che potesse galleggiare sulle acque, sicché quando Zeus fece
piovere per nove giorni e nove notti, e le acque salirono uccidendo tutti, e del genere umano solo
Deucalione e Pirra poterono salvarsi.
Terminato il diluvio, Zeus inviò loro Ermes perché esprimessero un desiderio da esaudire. Essi
chiesero che il mondo fosse ripopolato da uomini, e Zeus ordinò loro di gettare dietro le spalle le
ossa della loro madre.
L’ordine appariva quasi sacrilego, ma Deucalione ebbe un’intuizione: Zeus si riferiva alle ossa della
Madre Terra, cioè alle pietre, e quindi entrambi presero a gettare delle pietre dietro le loro spalle.
Così il genere umano rinacque e la Terra fu nuovamente popolata: dalle pietre gettate da
Deucalione nascevano maschi, da quelle gettate da Pirra nascevano le donne.
Così la loro discendenza fu molto grande.
Diade
La diade, in greco dyas (duo è il numero due), è la realtà duale, scissa: il termine esprime quindi il
principio della differenza già a partire dalla tradizione pitagorica, che trova un eco nelle dottrine non
scritte di Platone, in cui la diade è il principio della separatezza e quindi, implicitamente, del male.
Questa nozione diviene filosoficamente centrale nel neoplatonismo, perché Plotino la attribuisce
alla seconda ipostasi, l’Intelletto, che è quella forma del pensiero eterno dell’Uno in cui l’identità
dell’Uno con sé cede il posto alla differenza nel pensiero tra il pensare e il pensato, e quindi a quella
relazione tra soggetto e oggetto che è tipica della coscienza (è per questa sua natura scissa, diadica,
che la coscienza ha difficoltà a tornare alla radice dell’Essere nell’Uno, e l’anima deve intraprendere
una lunga via di ricerca per raggiungere l’estasi).
Diadochi
Il termine significa successori, e si riferisce ai generali di Alessandro Magno (morto nel 323 a.C.) che
gli succedettero nell’impero, combattendo tra loro per dividersene le spoglie.
L’età dei diadochi va dalla morte di Alessandro Magno, avvenuta nel 323 a.C., allo stabilizzarsi
delle realtà politico-territoriali emerse dalle loro lotte: dopo il 281 a.C, dall’impero unitario di
Alessandro erano emersi tre regni: quello degli Antigonidi con al centro la Macedonia, quello dei
Tolomei d’Egitto, quello dei Seleucidi in Asia. La generazione dei successori dei diadochi, con cui
la situaizone politica si stabilizzò fino alla conquista romana (tra il II e il I secolo a.C. a seconda
delle zone), venne indicata già dalla storiografia antica con il termine epigoni, che significa
discendenti.
Dialettica
Il termine deriva dalle parole greche dia, che significa tra, e logos che significa (in questo caso)
discorso. Il verbo lego significa io dico, parlo, e dialegomai significa discuto.
Già gli antichi osservavano che il termine dialettica (dialektike) non è usato dai filosofi greci con lo
stesso significato. Come per molti altri termini filosofici, tuttavia, questi diversi usi hanno delle
connessioni tra loro, sicché, se non è possibile una definizione univoca della dialettica, è però
possibile una storia della dialettica: è possibile cioè seguire i diversi usi che i filosofi hanno dato a
questo termine nel contesto generale della loro filosofia studiando le ragioni di quella particolare
accezione e la linea di derivazione di quel particolare uso.
Oggi si è soliti distinguere tre diversi usi generali del termine dialettica nella filosofia antica:
- un uso retorico: la dialettica come tecnica di argomentazione e quindi metodo di persuasione (come è
in Zenone e nei Sofisti) o anche soltanto di esposizione filosofica (come è in molti dialoghi platonici
in cui si chiede ad un filosofo se preferisce esporre le sue idee dialogando o mediante un discorso
continuo);
- un uso filosofico soggettivo o intersoggettivo: la dialettica come tecnica del dialogo che consente
attraverso procedure rigorose (diverse da filosofo a filosofo, molte e complesse in Platone) la
definizione di metodi di ricerca e di pratiche di esercizi filosofici;
- un uso filosofico oggettivo: la dialettica come forma del pensiero, studio della articolazione delle idee
nella loro unità e nelle loro distinzioni reali, e dunque non solo metodo, ma scienza (quale sia in
concreto questa scienza, e quindi quale sia la dialettica reale delle idee, dipende dalle posizioni
filosofiche delle varie scuole).
In quest'ultimo uso, la dialettica tende a identificarsi con la filosofia stessa, ed anzi esplicitamente in
diversi passi di Platone e degli Stoici il termine dialettica è solo un altro modo per dire filosofia come
scienza del pensiero e dell'essere (qualunque sia il metodo utilizzato per ottenere questa scienza e
per esporla) e dialettico è detto il filosofo in quanto conduce una vita di ricerca e di contemplazione
della verità.
Un tratto è comune ai diversi usi: la dialettica è sempre connessa ad una certa immagine della
filosofia ed è correlata allo stile di vita filosofica e alle convinzioni profonde su chi sia in realtà il
filosofo, sulla sua identità. Sicché una storia della dialettica antica è inevitabilmente anche una storia
dell'immagine di sé che i filosofi hanno avuto e una storia degli stili di vita che ciascun filosofo e
ciascuna scuola propongono.
Dialettica diairetica
Il termine diairesis, che rendiamo con diairesi, o dialettica diairetica, indica una modalità specifica di
ragionamento dialettico che Platone descrive nel Fedro e di cui dà almeno un esempio specifico nel
Sofista. Consiste nel partire da una idea generale e giungere a definizioni specifiche ricavate da essa
attraverso un processo molto articolato di successive suddivisioni, ad albero: data un’idea, si
enunciano due suoi caratteri; di ciascuno di essi se ne enunciano due più specifici, e così via fino alla
precisa identificazione della definizione voluta, non più di una idea generale, ma di una realtà
particolare.
Il movimento dialettico discendente – dall’universale al particolare – così descritto è parte del più
complesso movimento dialettico di unificazione e distinzione (→) che consente la effettiva presa
della mente sulla realtà (delle idee come delle cose).
Dialetti e lingua panellenica
Vedi Greco
Dialogo / Dialogo platonico
È, letteralmente, il discorso che si svolge tra due persone (in greco dia significa tra e logos qui va
inteso come discorso). Per gli aspetti filosofici del termine e il campo problematico in cui questi
devono essere esaminati rimandiamo alla voce Dialettica (→).
Dialogo però è anche un genere letterario tipico, anche se non esclusivo, della filosofia che si è
imposto a partire da Platone come uno dei principali modelli di scrittura filosofica.
Il dialogo, fissato una volta per tutte da Platone, appartiene a quei generi letterari che alla loro
prima apparizione risplendono nella pienezza della loro maturità, come è accaduto nel mondo greco
anche con l'epica. Ma l'Iliade e l'Odissea hanno alle loro spalle secoli di tradizioni orali e una
riconosciuta e rispettata corporazione di aedi che hanno saputo mantenere per generazioni la
propria identità. I dialoghi platonici cos'hanno alle spalle?
Nulla di secolare e di così strutturato: hanno alle spalle la dialettica socratica e il modello filosofico
sofista, i discorsi politici e giudiziari, la retorica molto ben studiata del tempo, il teatro, i mimi, la
concreta esperienza della ricerca filosofica mai solitaria, il lavorio continuo della dialettica come
metodo di ricerca effettivamente utilizzato, le tradizioni dei racconti. È molto e allo stesso tempo
poco. Molto, perché ciascuno di questi elementi spiega in effetti questo o quel carattere della forma
letteraria del dialogo platonico; poco perché il dialogo al suo apparire è già maturo. La storia interna
al genere è per noi tutta storia della produzione platonica, e non si può oggettivamente sostenere
che i primi dialoghi non siano già maturi nella loro forma e nella sicurezza della costruzione (ad
esempio uno dei capolavori platonici sia dal punto letterario che filosofico è il Protagora, che è quasi
unanimemente considerato precedente ai dialoghi della maturità).
È necessario tenere presente che, dal punto di vista filosofico, i dialoghi platonici sono innanzitutto
una forma di comunicazione. Infatti, mentre della dialettica socratica - come poi di quella platonica
e di quella aristotelica - è possibile dire che si tratta di un metodo della ricerca filosofica, della forma
scritta che la dialettica assume non si può sostenere lo stesso. Anche se, certo, un elemento della
ricerca permane anche nella scrittura: la dialettica non può operare senza il mezzo della
comunicazione e non possiamo pensare che la scrittura dei dialoghi - che deve avere impegnato
Platone per anni e anni, e con continuità, qualunque sia stato il metodo seguito nella composizione
- sia soltanto la registrazione di una ricerca svolta, in comunità o individualmente. Comunque, più
di un rapporto tra la scrittura e la ricerca dialettica dovette esserci presso l'Accademia:
- perché la scrittura dovette implicare una rielaborazione personale e individuale del lavoro dialettico
effettivamente svolto (e in questo senso la riflessione platonica non ha caratteri diversi da altre
forme di riflessione indipendenti dalla dialettica che troviamo in altri filosofi);
- perché i dialoghi platonici non poterono non essere uno degli strumenti per la comunicazione
interna alla comunità dell'Accademia, che conduceva dialetticamente (non c'è però ragione di
pensare che non fossero praticati altri metodi in connessione diretta o indiretta con la dialettica) le
sue ricerche.
Vediamo dunque alcuni caratteri formali dei dialoghi platonici, intesi come forme della
comunicazione filosofica che intrattengono diversi tipi di rapporto con la prassi della ricerca:
- sono inseriti di regola in una scenografia, non priva di significato ed anzi spesso allusiva: Platone se
ne serve per definire lo sfondo, ed è di regola una definizione di significato filosofico; non tenerne
conto, limita spesso la comprensibilità del dialogo;
- la struttura letteraria prevede personaggi caratterizzati come figure nella pienezza della loro
personalità, non semplici maschere, in coerenza con la concezione filosofica della dialettica che è
metodo fondato sul dialogo tra persone che mettono in gioco la loro persona nella integrità della
vita (sentimenti, persino la fisicità dei rapporti, emozioni, riflessioni, diverse forme di pensiero, fino
alle più alte astrazioni);
- le forme di pensiero implicate sono con grande libertà richiamate continuamente nella loro
multiforme varietà, sicché il dialogo si manifesta come forma neutra rispetto ad esse, permettendo
che tutte siano veicolate; ad esempio, in uno stesso dialogo si trovano strettamente intrecciate analisi
teoriche fondate su distinzioni concettuali, continui richiami all'esperienza quotidiana, molti tipi di
pensiero per immagini, narrazioni che richiamano la realtà, racconti che rimandano al mondo del
mito, descrizioni della vita interiore sino alle vette della contemplazione, e così via; sicché una delle
chiavi del successo del dialogo in tutti i tempi (tranne il nostro, che ne fa poco uso) è la sua
versatilità, derivante dalla sua neutralità rispetto alle forme di pensiero, che possono dunque essere
veicolate liberamente in questa forma (non è possibile fare altrettanto con l'aforisma, o la lettera
dottrinale o il trattato);
- non prevedono l’intervento diretto dell’autore (Platone non compare mai) prestandosi così a una
molteplicità di percorsi a più attori (al contrario della forma del trattato: anche se naturalmente
questo non significa che non vi sia un autore, un filosofo al lavoro);
- la dialettica come metodo di ricerca è descritta senza l'ansia di "restare in tema", ma aprendo
continuamente scenari nuovi introdotti dall'uno o dall'altro interlocutore; la forma letteraria del
dialogo permette di dare unità formale all'insieme caratterizzandosi quindi come elemento
unificante dei percorsi; e poiché la dialettica vive della ricchezza degli approfondimenti ed è sempre
ricerca aperta, questo carattere della forma dialogica si rivela prezioso;
- in ultimo, il dialogo comunica per iscritto gli elementi dell'oralità dialettica non mediante la
trascrizione di quanto detto, ma la sua trasposizione in una forma letteraria coerente con la scrittura;
il dialogo può essere quindi uno strumento efficace per la comunicazione dialettica perché rispetta le
regole della scrittura, traducendo in esse quelle dell'oralità. È quindi necessaria una nuova traduzione
all'oralità, quando il lettore si accosta al testo: a lui è richiesto uno sforzo di immaginazione in alcuni
casi decisivo, perché questa forma di scrittura, richiamando la vita (e dunque l'unità nella coscienza
di tutti gli elementi che la compongono, dalle emozioni alle più alte sfere del pensiero), richiede
l'opera di ricostruzione della vita nella pienezza dei suoi rimandi. Il ruolo dell'immaginazione come
strumento di lettura dei testi ne viene esaltato.
Per un quadro di sintesi dei generi letterari nella filosofia dell’antichità vedi la voce Generi letterari
della filosofia antica: →)
Dialoghi aporetici
Sono così chiamati i primi dialoghi di Platone, il cui personaggio principale è Socrate. La loro
specifica caratteristica è che si concludono, dopo complesse indagini dialettiche, senza mettere capo
ad una specifica teoria sulle questioni trattate.
In questi dialoghi aporetici (così chiamati con riferimento alla nozione di aporia: →), cioè
ragionamento che lascia incerti) Socrate con i suoi interlocutori va alla ricerca della definizione di un
concetto (mediante la risposta alla domanda "Che cos'è…?") senza che sia possibile giungere a una
conclusione univoca. Si tratta dunque di dialoghi, e quindi di ricerche filosofiche, la cui conclusione
è aperta.
Dialoghi d’amore
Sono così chiamati i dialoghi che, soprattutto in età rinascimentale, vennero scritti su temi legati
all’amore. Il contesto era spesso il commento al Simposio di Platone, o ad una tradizione filosofica
precedente, per lo più neoplatonica. Il tema dell’amore vi era affrontato sotto due aspetti:
- per la sua forza sull’animo umano e i suoi effetti psicologici;
- per il suo ruolo cosmico o religioso (il contesto è per lo più cristiano).
Dianoia / Dianoetico
Il termine greco dianoia è utilizzato nel linguaggio filosofico come parola anche italiana (da qui
l’aggettivo dianoetico, in greco dianoetikos) e indica la ragione discorsiva, cioè la facoltà della mente
che giunge a conclusioni a seguito di catene di ragionamenti.
La dianoia va quindi distinta
- dalla conoscenza sensibile (aisthesis) e dall’opinione (doxa), che possono essere la base di
conoscenze più o meno ben fondate, ma in sé non hanno caratteri di razionalità e sono spesso forme
di conoscenza imprecise e oscure (che l’analisi razionale mira a chiarire);
- dalla contemplazione intuitiva della verità, la noesis, che consente alla mente di conoscere una
verità con immediatezza e non attraverso catene di ragionamenti come la dianoia, che in sé è ragione
discorsiva.
Su questi termini e nozioni rimandiamo alla voce Nous (→)
Questi termini hanno un uso anche in etica. Nell’Etica Nicomachea (I-13, VI-3) Aristotele propone
una distinzione tra virtù etiche e virtù dianoetiche: le prime sono proprie della parte dell’anima che è
razionale solo in quanto, e se, obbedisce alla ragione (ad esempio controllando le passioni); le
seconde sono le virtù proprie della parte razionale dell’anima (e quindi sono dianoetiche virtù come
la saggezza, la sapienza e così via).
Diatriba
La diatribe è un tipo di dialogo di cui si sono serviti soprattutto i Cinici. Rispetto al dialogo
platonico, ha caratteristiche specifiche, pur trattandosi in ogni modo di un dialogo (→) steso per
iscritto tra più interlocutori:
- ha prevalentemente carattere etico;
- lo stile è mordace, crudo: una forma ironica e sarcastico di conflitto dialettico che mira a mettere
in luce le carenze etiche dell’avversario;
- è breve, intenso, per lo più parodistico e fortemente polemico.
Nella tarda antichità il genere venne molto utilizzato, ma perse i caratteri mordaci e parodistici, per
divenire un breve dialogo su temi etici in cui si confrontano posizioni diverse, con realismo.
Diels
Hermann Diels (1848-1922) è il filologo tedesco, professore all’Università di Berlino, che nel 1903
pubblicò la raccolta dei Fragmente der Vorsokratiker (frammenti dei presocratici), cioè la raccolta dei
testi pervenutici dei primi filosofi e delle testimonianze su di loro. Un suo allievo, W. Kranz, ne
curò una nuova edizione, apparsa nel 1964.
Si veda anche la voce Presocratici (→).
Differenza / Differenza reale
Per descrivere le implicazione teoriche del concetto espresso da questo termine (in greco diaphora), e
il campo problematico in cui ci si muove, va richiamato il suo opposto, cioè identità (→), che indica
gli elementi che consentono di esprimere l’individualità di un evento o di un ente (reale o mentale):
così l’identità di una persona è definita dall’insieme dei caratteri specifici che la individuano rispetto
alle altre, l’identità di un ente qualsiasi è definita dalla risposta alla domanda “che cosa è?”, l’identità
di un concetto o di un termine è espresso dalla sua definizione, e così via.
Dati due eventi o due enti – intendendo per ente tutto ciò che in qualche modo appartiene ad una
qualsiasi sfera del reale ed è qualcosa: cose, parole, immagini, pensieri, e così via – chiamiamo
differenza quell’insieme di elementi che escludono che si tratti dello stesso ente. La differenza quindi
va definita rispetto all’identità di ciascuno. Ma mentre l’identità definisce il carattere proprio di
ciascun ente, il concetto di differenza non definisce affatto un loro carattere: è invece il frutto di un
confronto, una volta stabilita una relazione tra i due (sono soprattutto Aristotele e gli Stoici a
portare avanti questo genere di studi in sede logica e metafisica).
La differenza è quindi sempre una nozione astratta, perché astrae dall’identità di due enti un
carattere che è presente in uno e non nell’altro. Poiché la realtà di cui facciamo esperienza è
composta da enti differenti tra loro, lo studio delle differenze consente di individuare concetti con
cui la mente mira a porre ordine sulla realtà, comprendendola nella sfera del pensiero. In questo
senso la dialettica platonica nella misura in cui va a caccia dell’identità e della differenza tra le idee, o
le classificazioni aristoteliche per genere e specie, sono costruzioni teoriche che mirano a porre ordine
tra le differenze reali degli enti.
A parte questioni specifiche, i problemi di fondo della filosofia greca in ordine alla differenza tra gli
enti sono due:
- da dove trae origine l’enorme differenza degli esseri di cui facciamo esperienza nell’osservazione
della natura? è il problema dell’arché (→) dei primi filosofi naturalisti, reimpostato in modo
originale dai filosofi pluralisti, da Platone, da Aristotele, e dalle altre scuole filosofiche dell’antichità;
- Parmenide pone il problema di come sia possibile che l’Essere sia in se stesso differente da sé,
come appare per il fatto che gli enti sono molteplici, e risponde negando la realtà del movimento e
della differenza stessa; tutta la metafisica e la fisica dopo Parmenide affronta questo problema, e
nessun filosofo greco successivo si allontana dal principio parmenideo che nulla può nascere dal
nulla e che l’essere non può finire nel nulla.
Va poi sottolineato che le differenze tra gli enti nella filosofia greca sono concepite secondo almeno
tre modelli diversi:
- differenze di tipo qualitativo: ad esempio le omeomerie di Anassagora si differenziano per qualità, e
così enti come le cose e le idee in Platone; differenze di questo tipo sono drasticamente negate da
altri filosofi, ad esempio dai materialisti e dallo Stoicismo;
- differenze di tipo quantitativo: ad esempio le differenze tra gli esseri per il materialismo nascono
soltanto da differenze nel peso, nella forma e nella posizione degli atomi;
- differenze di energia: qualitative e quantitative insieme, ma generate da un processo che è di tipo
spirituale, come è il caso della differenza degli enti in Plotino: l’emanazione (→) genera differenze
qualitative che si prolungano in differenze quantitatative (è in questo ambito che va inquadrato il
problema della differenza tra soggetto e oggetto all’interno della coscienza umana, in sé scissa per
Plotino: vedi la voce Soggetto/Oggetto: →).
Differenza specifica
Vedi Genere e specie
Dike
Poiché concepivano vivente la natura, e immaginavano gli dèi con tratti umani, i Greci hanno
sentito un profondo rapporto tra l’uomo e l’universo. Questo è particolarmente visibile nella
concezione arcaica della giustizia (in greco díke), che accomuna in un unico ordine l’universo delle
cose naturali e la città degli uomini. La comunità umana raccolta in società e gli elementi naturali
ordinati in un universo armonico sono concepiti nella tradizione arcaica come se uno stesso ordine
supremo presiedesse ad entrambi.
La giustizia come equilibrio degli elementi
Nel mito Dike è una potenza personale divina, associata a Zeus: è una divinità. Infatti, la giustizia
come equilibrio degli elementi è garantita dal dio supremo, che ha assegnato a ciascuna potenza
naturale il suo campo d’azione ed i suoi limiti, ponendo fine al conflitto primordiale. Dike è dunque
l’ordine cosmico, l’equilibrio degli elementi che, se infranto, deve essere ristabilito mediante
l’intervento di Zeus. Eraclito esprime questo concetto dicendo che il Sole non devierà dal suo corso
perché, se volesse farlo, Dike glielo impedirebbe. La giustizia come realtà naturale è dunque l’ordine
stesso
della
natura,
l’equilibrio
tra
le
forze
che
compongono
l’universo.
In questa visione del mondo, la giustizia non deve essere intesa come il prevalere del bene sul male.
Nella cultura greca questa concezione si svilupperà solo più tardi. Alle origini Dike si presenta come
il bilanciarsi delle forze naturali (è l’ordine dei contrari: il caldo dell’estate e il freddo dell’inverno, il
clima secco e la pioggia, l’alternanza ciclica della notte e del giorno, e così via). La vita in natura è
possibile perché nessuno degli elementi prevale, ma ciascuno è bilanciato dagli altri. Nella
concezione greca arcaica la giustizia è il presupposto della stessa natura e della vita. Il mondo è
giusto, cioè in equilibrio dinamico, perché le forze contrapposte tornano a bilanciarsi tutte le volte
che la necessità naturale porta al prevalere di una sulle altre.
La giustizia come ordine sociale
Allo stesso modo, Dike viene invocata quando l’ordine sociale viene infranto. Il delitto, l’inganno, il
furto generano disordine nella società e aprono un conflitto tra le sue componenti. L’equilibrio è
distrutto e, amministrando la giustizia, deve essere ristabilito.
Già in età arcaica l’assemblea degli uomini liberi, guidata dai giudici – la nobiltà custode delle
antiche leggi – si raccoglie per comporre la lite nata tra i cittadini, per essere essi, o uno di essi,
andati oltre i limiti assegnati a ciascuno. Le forze in contrasto si confrontano, mettendo in campo le
loro ragioni. Poi i giudici emettono la sentenza, che restaura Dike nei suoi diritti e compone la lite
con la riparazione del torto subìto.
La sentenza è pronunciata rispettando le antiche leggi, le themistes (→), le sentenze della tradizione,
le norme cioè che i nobili tramandano di padre in figlio e che vengono ritenute di origine divina:
non l’uomo, ma Zeus stesso ponendo ordine nel cosmo ha dato le leggi, le themistes, all’uomo. Esse
vanno rispettate, perché infrangerle significa lacerare l’equilibrio delle forze cosmiche: un’intera
città, ammonisce il poeta Esiodo – e il legislatore Solone ripete con lui – può pagare le conseguenze
dell’ingiustizia commessa da un solo uomo.
Una sola Dike domina sugli uomini e sulle cose
La natura è dunque piena di dèi, è il luogo dei conflitti delle forze composti dalla legge di Zeus, è la
madre Terra (in greco Gaia) che nutre gli uomini e li fa vivere secondo le sue leggi: un’unica
giustizia, un unico ordine domina sugli uomini e sulle cose. Vita sociale nel cosmo umano e vita
naturale nell’universo si rispecchiano in armonia.
Per la cultura greca arcaica la legge che domina la natura delle cose non è diversa da quella che deve
dominare la città degli uomini, perché entrambi – il cosmo naturale e la città – sono regolati
dall’ordine di Zeus. L’uomo non deve fare le leggi, ma solo conoscere quelle che sono iscritte nella
natura. Per questo è così importante l’assemblea degli uomini liberi, al cui cospetto si decide la
giustizia e si compone la lite sorta tra i cittadini: là gli anziani pronunciano la sentenza ricordando la
legge tradizionale, a cui tutti – dal primo all’ultimo dei cittadini – sono sottomessi.
Dal IV secolo a.C. all’ellenismo
Il tema della giustizia è stato molto dibattuto in ambiente sofista, nel V secolo a.C., ma non ci sono
rimasti i testi esemplari di questo dibattito (che avviene nel contesto della questione ddel rapporto
tra nomos e physis: →). A riprenderlo è Platone che, oltre che trattarne nel Gorgia, pone il tema della
giustizia al centro di una lunga indagine dialettica nei primi libri della Repubblica, e su di essa
costruisce la stessa idea di Stato che poi viene sviluppata nel resto dell’opera, in parallelo allo
sviluppo della visione dell’anima umana. Dopo avere ripreso le posizioni sofiste (vedi la voce
Trasimaco: →), al termine del percorso dialettico Platone sostiene che la giustizia è, parallelamente,
nell’uomo l’armonica disposizione della parti dell’anima, nello Stato l’armonia delle classi sociali
(che corrispondono alle parti dell’anima). Si ha infatti giustizia quando ciascuna parte dell’anima
compie ciò che le compete e resta nei limiti di ciò che le è proprio, e così per ciascun uomo in
società.
Anche Aristotele propone una approfondite analisi alla giustizia, in particolare nel Libro V
dell’Etica Nicomachea, che le è interamente dedicato. La considera come virtù etica che include in sé
tutte le altre, studiandone anche l’applicazione sul piano sociale e politico.
Svalutata da Epicuro, che ne nega il carattere di assolutezza e la circoscrive ai patti che gli uomini
sottoscrivono tra loro, la giustizia è invece nuovamente considerata una virtù dagli Stoici, che la
definiscono come la scienza capace di assegnare a ciascuno ciò che merita (il contesto è quello
tipicamente stoico dell’identificazione tra virtù e conoscenza).
Dilemma
Dal greco dis (due volte) e lemma (proposizione): il dilemma (il termine greco è identico: dilemma) è
quindi una proposizione doppia, cioè un discorso che dà luogo a necessarie contraddizioni interne
ed è insolubile, perché presenta due sole possibilità alternative che si implicano però a vicenda.
Il termine è tardo, e si riferiva a ragionamenti insolubili – autentici paradossi (→) – su cui
insistevano soprattutto gli Stoici nelle loro esposizione della logica.
Dimostrazione
Va distinta nettamente dalla argomentazione (→). La dimostrazione (in greco apodeixis) è il percorso
razionale che mostra la correttezza logica di una proposizione: in Aristotele è il sillogismo
scientifico (→) che parte da premesse vere. Il modello è fissato nel mondo greco dagli Elementi di
Euclide, in cui ciascuna proposizione è “dimostrata” sulla base della deduzione logica da
proposizioni precedenti, in completa assenza di salti logici.
Non è quindi possibile alcuna dimostrazione se non si dispone di proposizioni di partenza che siano
certamente valide dal punto di vista logico, funzione che nella geometria euclidea è svolta dagli
assiomi e dalle definizioni.
Poiché si svolge sul piano puramente logico, il processo dimostrativo persegue obiettivi di coerenza
logica e di certezza rispetto alle origini della dimostrazione. Se questo significhi la possibilità che la
dimostrazione metta capo alla verità riguardo ad aspetti del mondo reale, dipende dal fatto che si
disponga o meno di punti di partenza certi che riguardino aspetti del mondo reale, e non siano
puramente logici.
Così Aristotele ha ritenuto che le scienze teoretiche (al contrario di quelle pratiche e poietiche)
siano oggetto di dimostrazione perché partono da principi certi non solo sul piano della verità
logica, ma anche sul piano della descrizione teorica della realtà.
A parte questa tesi di Aristotele, il modello delle scienze dimostrative dell’antichità rimase la
geometria.
Dio, dèi, divino
Né la mitologia tradizionale greca con i suoi riti privati e pubblici, né le religioni dei misteri, né la
filosofia greca hanno mai avuto l’obiettivo di elaborare argomenti e teorie a sostegno di una
religione. In questo senso la filosofia greca si distingue in modo netto dalla filosofia medioevale (che
è cristiana, o ebraica, o islamica, e non è mai priva di una connotazione religiosa).
Le teorie
Tuttavia molti filosofi hanno teorizzato l’esistenza di un dio o di molti dèi, o di una sfera del divino:
- ad un solo dio accenna, in frammenti però per noi isolati, Senofane, mentre un chiaro monoteismo
è in Aristotele, nel contesto però di una complessa concezione della sfera del divino (anche
Aristotele, come abitualmente fanno gli scrittori greci, parla degli dèi, del divino, e così via);
- lo stesso Senofane mette in guardia contro l’antropomorfismo, e posizioni molto dubitative sulla
possibilità di avere notizie certe sugli dèi sono state proposte dai sofisti e dagli scettici delle età
successive;
- il platonismo mette capo ad una sorta di teologia astrale, e nei miti platonici gli déi hanno un peso
preponderante; quanto questo prefiguri posizioni politeiste, e quanto sia soltanto discorso
metaforico, è difficile dire (ad esempio, che cosa si nasconde dal punto di vista teoretico dietro la
figura narrativa del Demiurgo nel Timeo?); sta di fatto che forme di politeismo (anche sulla base
della teologia astrale platonica) sono state accolte da alcuni degli Stoici; politeista è invece con
chiarezza l’Epicureismo, che dà degli dèi una delle poche versioni coerentemente materialista;
- a parte le tendenze politeiste di alcuni stoici in qualche momento della loro lunga storia, lo
Stoicismo nel suo nucleo teorico è vicino al monoteismo come lo è il neoplatonismo di Plotino;
entrambi però attribuiscono a questo ente originario e divino (il Logos, l’Uno) caratteri divini in un
senso molto diverso dal monoteismo, perché quest’ultimo parla di un Dio come persona, e questo
non si può dire né del Logos stoico né dell’Uno di Plotino; le loro concezioni sono però certamente
filosofie del divino, come lo è in fondo il platonismo stesso, al di là del mito.
Va poi osservato che per molte filosofie antiche l’anima dell’uomo è in qualche modo legata al
mondo divino, o perché ne fa parte (così in Empedocle, ad esempio; nei miti platonici; nella
concezione che Plotino propone dell’anima; e così via), o perché aspira a farne parte (ad esempio
nella concezione platonica della psyché).
I problemi
I problemi che i filosofi hanno posto su dio (o sugli dèi, o sul divino) sono di diverso tipo:
- innanzitutto hanno posto la domanda sulla possibilità di saperne alcunché, fatto non scontato per
nessuno dei filosofi tranne che per Epicuro, che considera del tutto evidente l’esistenza degli dèi (ma
le ragioni a sostegno di questa tesi non sono chiare perché i testi epicurei che ne trattano non sono
giunti sino a noi);
- in secondo luogo il problema della natura del mondo divino rispetto al mondo fisico (la filosofia
antica ha concepito questo rapporto in modo molto stretto, o addirittura diretto, in vari modi:
hanno un rapporto “fisico” con l’universo materiale il dio di Aristotele, il Logos stoico, l’Uno di
Plotino; e gli dèi di Epicuro ne fanno in tutto e per tutto parte);
- in terzo luogo i filosofi hanno posto la domanda sul rapporto tra la sfera divina e i valori etici,
rapporto affermato da alcuni (Platone, Stoici, Plotino) e negato da altri (Aristotele, Epicuro, se non,
in entrambi i casi, come modelli di vita felice).
Diodoro Siculo
Storico greco, Diodoro Siculo deve il suo appellativo alla nascita in Sicilia, avvenuta intorno al 90
a.C. (la morte è collocabile intorno al 20 a.C.). Abbiamo scarse notizie della sua vita, ma sappiamo
che viaggiò molto: fu a Roma, in varie località europee e asiatiche, ad Alessandria. È la classica
figura dell’intellettuale cosmopolita della sua epoca, influenzato dallo Stoicismo, che scrive nella
koine per un pubblico di qualsiasi etnia.
È autore di una Biblioteca storica in 40 libri (a parte estratti e riassunti proposti da autori successivi,
ci rimangono solo i libri I-V e XI-XX). Si tratta di una storia universale dalle origini fino all’età di
Cesare, scritta con l’obiettivo di proporre un modello di storia universale, adatto al lettore di
qualsiasi parte del vasto mondo ellenistico e romano. A questo scopo, la cronologia è proposta in
forma parallela (la serie delle olimpiadi, gli arconti di Atene, le liste consolari romane) in modo da
far emergere la contemporaneità di eventi in aree lontane.
A parte i meriti storiografici intrinseci dell’opera di Diodoro, la sua Biblioteca storica è anche una
fonte per noi importante di informazioni, perché è costruita utilizzando materiali di storici
precedenti le cui opere sono per noi perdute.
Diogene di Sinope
Quella di Diogene di Sinope è una delle figure più singolari dell’intera storia della filosofia greca. Di
lui abbiamo pochissimi scritti, ma un gran numero di narrazioni legate a episodi della sua vita: è
come se questo filosofo avesse voluto insegnare con l’esempio, più che con la parola.
Nato e vissuto a Sinope circa tra il 413 e il 323 a.C., appartenne alla Scuola Cinica (→), di cui fu
una delle personalità di maggior interesse e celebrità. Non si occupò, a quanto sappiamo, di
questioni logiche e di ricerca scientifica, ma si concentrò interamente sull’etica. I suoi atteggiamenti
fortemente anticonformisti e la sua dichiarata avversione per le convenzioni sociali derivavano da
una precisa scelta di vita che Diogene condivideva con gli altri membri della scuola cinica: la scelta
di mirare alla piena autosufficienza come condizione prima per la vita libera.
Non si pensi però a uno stile di vita insofferente nei confronti delle regole e delle esigenze della vita:
Diogene insisteva sulla pratica degli esercizi (askesis) per fortificare il proprio corpo e il proprio
animo, e rendere la persona integrale capace di vivere libera in un mondo che libero è molto poco
(da un punto di vista politico, ma anche sociale, religioso, e così via). Sono le regole sociali, non
quelle imposte dalla natura, l’obiettivo polemico.
Diogene Laerzio
Non conosciamo praticamente nulla della biografia, e persino della identità di questo scrittore e
storico della filosofia (persino l’origine del soprannome Laerzio è oscura) che tuttavia ha avuto
un’importanza fondamentale nel trasmettere alla posterità una notevole quantità di informazioni sui
filosofi antichi.
Era di lingua e cultura greca, ed è vissuto nel III secolo d.C., quando ormai i filosofi dell’antichità
greca erano dei “classici”. Ha scritto un’opera che ci è pervenuta, nota col titolo Vite dei filosofi (il
titolo completo in realtà è Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi). I filosofi di cui propone una
sintesi sulla vita, le opere (spesso con lunghe citazioni, o riportando intere brevi opere) e le dottrine,
sono 84. La raccolta ha inizio con i sette sapienti e si conclude con Epicuro.
L’opera di Diogene Laerzio non si segnala per profondità di pensiero e per particolari capacità di
interpretazione critica, o per sistematicità. Ma è affidabile, ed è quindi per noi preziosa come fonte
di informazioni, anche perché l’autore attinge ad un vasto repertorio di fonti dossografiche per noi
perdute (vedi Dossografia: →).
Dione di Siracusa
Strettamente imparentato con il tiranno Dionisio il Vecchio di Siracusa, Dione ne divenne anche
consigliere. Era nato intorno al 410 a.C., e la sua ascesa politica continuò sotto il successore,
Dionisio II, che salì al potere nel 367 a.C. A quella data già da un ventennio Dione era in stretti
rapporti con Platone, che aveva conosciuto nel corso del primo viaggio che il filosofo aveva
compiuto in Magna Grecia e in Sicilia nel 388 a.C.
Nel 366 convinse Dionisio a invitare nuovamente Platone, che ebbe quindi modo di fare un
secondo viaggio a Siracusa. Ma la situazione politica si complicò, Dione cadde in disgrazia e dovette
lasciare l’isola per il Peloponneso prima, e Atene dopo, dove trovò in Platone e nell’Accademia un
ambiente a lui favorevole. Nel 361 a.C., nuovamente invitato a Siracusa, Platone tornò per la terza
volta, e rischiò di persona nel tentativo di difendere l’amico Dione, ancora in esilio, senza peraltro
ottenere alcun successo.
Pochi anni dopo, nel 357 a.C., mentre Dionisio II era in Italia Dione tentò con successo il rientro
in armi a Siracusa, sostenuto anche dai Cartaginesi. Divenuto a sua volta una sorta di tiranno
sempre meno democratico, non riuscì a realizzare il modello politico platonico e cadde vittima di
una congiura, guidata dall’accademico Callippo, nel 354 a.C.
Dionigi di Alicarnasso
Retore e storico greco, visse nel I secolo a.C. Della sua vita abbiamo scarse informazioni, ma
sappiamo che conobbe a fondo le istituzioni e i documenti antichi della storia di Roma, che propose
nella sua opera dal titolo Antichità romane, in 20 libri (ne rimangono i primi 10).
Sulla scia di Polibio (→), Dionigi ha di mira la presentazione delle istituzioni romane al
cosmopolita mondo ellenistico di lingua greca, e a questo scopo ripropone nella sua opera notizie
tratte da antichi annalisti e da opere antiquarie di Varrone. La sua storia, che va dalle origini alla
prima guerra punica, è quindi per gli storici moderni una preziosa fonte che completa la trattazione
di Livio, soprattutto per quel che riguarda la formazione delle istituzioni e della legislazione di
Roma, di cui Dionigi era fervido ammiratore (considera i Latini una popolazione affine ai Greci).
Dionisie
Erano due feste in onore del dio Dioniso (→) che ad Atene venivano celebrate una nel cuore
dell’inverno (Piccole Dionisie), l’altra all’inizio della primavera (Grandi Dionisie). Erano dunque feste
che aprivano e chiudevano il periodo invernale, sacro al dio. Le più importanti erano le Grandi
Dionisie, nel corso delle quali venivano rappresentate le nuove tragedie (→). Nel corso delle Piccole
Dionisie (dette anche Dionisie rustiche) le rappresentazioni tragiche venivano replicate nei demi
dell’Attica.
A partire dal 488-487 a.C. in occasione delle Grandi Dionisie venivano rappresentate anche le
commedie (→).
Dionisio di Siracusa
È il nome di due dei tiranni di Siracusa, tra il V e il IV secolo a.C., Dionisio il Vecchio e il figlio
Dionisio il Giovane (o Dionisio II).
Dionisio il Vecchio (circa 430 – 367 a.C.) divenne tiranno di Siracusa, la città in cui era nato, in
circostanze drammatiche, quando il pericolo cartaginese era quanto mai concreto: era il 405, e
l’anno precedente i Cartaginesi avevano investito in forze l’isola ed erano riusciti a distruggere
Imera, Selinunte e soprattutto la ricca e potente Agrigento, i cui abitanti si erano dispersi in altre
città greche dell’isola.
La politica di Dionisio fu di immediato rafforzamento militare, con l’appoggio delle classi popolari
che furono fortemente favorite con precisi provvedimenti interni. In pochi anni fu in condizione di
contrattaccare e guidò una serie di campagne militare che non solo costrinsero i Cartaginesi a
ripiegare in Sicilia sui loro possedimenti dell’estremità occidentale dell’isola (la situazione si
stabilizzò con la pace del 392 a.C.), ma gli consentirono anche di estendere la sua influenza su una
vasta area della Magna Grecia.
La Sicilia di Dionisio il Vecchio è quella in cui Platone compì il suo primo viaggio nel 388 a.C.: una
città all’apogeo della propria forza, che si proponeva come polo di aggregazione per i Greci in Sicilia
e nella Magna Grecia. Una forza tuttavia precaria, perché le città greche non si assoggettarono né
sull’isola né sulle coste ioniche al programma politico dei siracusani, fatto che diede la possibilità ai
Cartaginesi di riprendere una politica militare espansiva.
Morto Dioniso il Vecchio nel 367 a.C. proprio nel corso di un nuovo conflitto coi Cartaginesi,
divenne tiranno il figlio Dionisio II, che fino a quel momento era in realtà stato tenuto ai margini
del potere reale dal padre. Personalità meno brillante, preferì cambiare drasticamente politica
rispetto alle mire espansive della Siracusa dei decenni precedenti e chiuse il conflitto con Cartagine
e con gli altri nemici con un compromesso, dando spazio politico al nipote Dione.
Nel corso di un viaggio di Platone a Siracusa, dove era stato chiamato da Dione, questi cadde in
disgrazia e dovette riparare in Grecia. Platone non poté far molto per l’amico siciliano, neppure con
un terzo viaggio di poco successivo.
Nel 357 a.C. Dione rientrò in armi, mentre Dionisio II si trovava in Italia e riuscì per alcuni anni a
prendere nelle sue mani il potere, prima di cadere vittima di una congiura nel 354. Dioniso poté così
rientrare a Siracusa, ma fu definitivamente spodestato da Timoleonte. Passò gli ultimi anni della sua
vita a Corinto, dove morì negli anni di Alessandro Magno.
Dioniso
Dioniso è un dio originario della Tracia, quindi di una regione dai Greci considerata semibarbara,
conosciuto anche da Omero ma relegato in disparte, ai margini del mondo olimpico, per le sue
caratteristiche. Omero ed Esiodo, infatti, hanno rielaborato le credenze del loro tempo alla luce
della loro visione del mondo umano e divino. “Vi sono fondate ragioni di supporre che i poeti epici
fingessero di non conoscere, o riducessero al minimo, le numerose credenze e pratiche esistenti ai
loro tempi. (...) [Essi le esclusero] dai loro poemi, come esclusero molte altre cose considerate
barbare da essi e dal loro pubblico di classe elevata. I poeti epici rappresentano non una vita religiosa
completamente staccata dalle credenze tradizionali, ma una selezione di quelle credenze –
scegliendo quelle in armonia con una civiltà aristocratica e militare, come Esiodo offre una scelta
adatta a una civiltà agricola” [Dodds 1951, pp. 86-87].
Dioniso è in effetti poco in armonia con l’etica eroica. È il dio della natura incontaminata, delle
foreste sui monti, dell’ebbrezza, del vino, delle forze vitali e profonde della natura che nell’uomo si
esprimono nelle passioni sfrenate, liberate dal controllo che la società impone con le sue leggi e i
suoi costumi. È una divinità che originariamente non richiedeva un culto pubblico, officiato dai
capifamiglia e dai magistrati delle città, ma un rapporto personale e diretto tra l’uomo e il dio,
profondo
fino
ad
avvertire
la
presenza
della
divinità
dentro
di
sé.
In particolare le donne riservavano a questo dio un culto vissuto con toni molto intensi: un culto
orgiastico, esagitato ed inquietante, primordiale, associato alla musica dei tamburelli e dei flauti e
alla danza sfrenata che prevedeva il venir meno, durante i riti, di tutte le regole sociali, di ogni freno
alle passioni.
Col tempo, anche questa divinità venne accolta nel pantheon delle divinità olimpiche, ma le forme
del culto assunsero allora toni più moderati, compatibili con la vita sociale della città. A Dioniso, in
Atene, si dedicavano feste particolari (dette Dionisie: →), ed a questo dio è collegata l’origine della
tragedia, uno spettacolo teatrale vissuto dai Greci come una forma d’arte e al tempo stesso di culto,
in onore appunto di Dioniso. Alle origini del culto, le donne invasate dal dio si lanciavano in danze
sfrenate e scomposte; nella tragedia, invece, il loro scomposto agitarsi diviene la danza del coro,
ordinata, anche se permeata da forte passionalità.
Il fatto che questo dio irrazionale sia stato accolto tra le divinità a cui la città tributava un culto
ufficiale mostra come i Greci sentissero divine anche le potenze dell’irrazionale che avvertivano
nell’intimo della loro vita interiore e con esse desiderassero stabilire un rapporto compatibile con la
dimensione pubblica, necessaria alla vita sociale.
Il culto di Dioniso era legato a due sfere culturali:
- la sfera della musica e della danza;
- la sfera del vino che dà un’ebrezza, appunto, dionisiaca.
“Dioniso trae il suo potere dal suo strumento, dal suono insinuante del flauto il quale ovviamente
esclude il canto e la poesia. Dioniso celebra il suo rito unicamente con la musica la quale viene
esaltata attraverso la danza. Dioniso infatti viene quasi sempre raffigurato danzante quasi a
rappresentare le forze primigenie messe in moto dalla potenza del suono” (Fubini 1968, p. 36)
Il corteo dionisiaco, che nelle selve accompagna il dio nel canto e nell’ebbrezza – fino a produrre una
identificazione tra i seguaci e il dio stesso, una sorta di incantesimo mistico in cui la coscienza
individuale si apre alla dimensione del divino -, è formato da varie figure: i satiri e i sileni, e
soprattutto le baccanti, o menadi. Queste ultime sono figure femminili – a cui le donne reali si
ispirano nei loro riti – rappresentate nude o coperte con veli leggeri, il capo incoronato di edera,
abbandonate ad una danza frenetica al suono del flauto o dei tamburelli. Personificano gli spiriti
orgiastici della natura.
Diotima
Sacerdotessa di Mantinea, ma verosimilmente creazione platonica e non personaggio storico, è
l’anziana sapiente di cui Socrate riferisce il discorso che dice di avere ascoltato da lei molti anni
prima, da giovane. La trama del suo discorso è tipicamente platonica. L’opera in cui la sua figura e il
suo discorso sono presentate è il Simposio di Platone, alla cui voce rimandiamo.
Diritto greco
Se col termine generale diritto intendiamo l’insieme delle istituzioni giuridiche che i Greci si sono
dati nel corso della loro storia, va subito detto che lo stato delle nostre conoscenze in materia è
notevolmente lacunoso.
Non essendo mai esistita una struttura politica unitaria dei Greci, non è mai neppure esistito un
corpus di leggi codificate uguale per tutte le aree:
- in età storica ciascuna polis aveva le proprie istituzioni pubbliche – la propria politeia (→), cioè una
costituzione che definiva le norme del diritto pubblico –, ma noi conosciamo nei dettagli soltanto le
leggi di Atene, e non egualmente bene per tutti i periodi della sua storia;
- ciascuna polis aveva poi le proprie norme di diritto privato, delle quali abbiamo scarse notizie
precise per vari periodi e per vaste aree.
Quando compare la prima documentazione scritta dopo il cosiddetto Medioevo Ellenico, tutte le
norme del diritto greco erano ancora tramandate oralmente: sono le themistes, cioè le sentenze che i
giudici applicano di volta in volta inevitabilmente con un grado alto di discrezionalità, come è ovvio
per norme non codificate per iscritto, ma poggiate su una tradizione che poteva di volta in volta
essere rivisitata. La lontana origine le themistes era ritenuta divina.
Intorno al VII a.C. soprattutto nel mondo coloniale, ma anche nella Grecia continentale, avvenne il
passaggio alla scrittura, che nel caso del diritto implicava una codificazione rigorosa: si trattava di
passare dal magma delle themistes, non codificate né ordinate, ma sempre ripetute come fonte del
diritto, a un corpus scritto definito analiticamente in modo preciso e ordinato. Per far questo
divenne indispensabile l’opera di legislatori (→), di cui per molte poleis ci sono stati tramandati i
nomi (a volte semileggendari, come Licurgo a Sparta). Il contesto politico in cui avvenne il
passaggio alla codificazione scritta fu quello del conflitto tra la classe degli aristoi (→) e il demos, il
cui potere tendeva sempre di più ad affermarsi. Poiché l’amministrazione della giustizia, come del
resto l’intera vita politica, era tradizionalmente nelle mani del ceto nobiliare, il passaggio dalle
tradizioni orali alle norme scritte comportò una netta vittoria del demos.
Parallelamente, si ebbe un passaggio graduale nella stessa amministrazione della giustizia: ad
esempio ad Atene tra il VII e il V secolo a.C. il potere giudiziario venne sempre più gestito dalla
città nel suo complesso piuttosto che dagli aristocratici: l’antico tribunale dell’Areopago (→), pur
mantenendo alcune prerogative, passò gran parte delle sue competenze ai tribunali popolari (si veda
la voce Eliea: →).
Diritto naturale
È questa una nozione che avrà un’importanza notevole nella filosofia del diritto dal Seicento in poi,
ma i termini della questione così come furono impostati dai teorici politici moderni sono diversi dai
termini in cui la impostarono i Greci. Ci occuperemo qui solo del dibattito su questo tema nel
mondo greco – e in quello romano che, da Cicerone a Seneca, ed oltre, lo reimpostò adattandolo
alle situazione della Repubblica e dell’Impero senza però mutarne i caratteri filosofici di fondo.
Il problema in filosofia venne posto in termini espliciti in età sofista con la contrapposizione tra
nomos e physis (vedi quindi la voce Nomos / Physis: →), cioè tra le leggi della città e le leggi che la
natura dà all’uomo per ordinare la propria vita. La sofistica radicale sostenne che il diritto naturale,
cioè le leggi stesse della natura umana, giustificano il comportamento individuale e collettivo degli
uomini: dunque la legge della città (il nomos) contrapponendosi a questi comportamenti devia
rispetto alla natura. Il diritto naturale in questo senso altro non è che l’utile che, “per natura”,
ciascuno persegue.
Anche Aristotele, in fondo, giustifica con argomenti simili il diritto naturale come base della vita
individuale e collettiva, ma cambia del tutto il senso di questa giustificazione rispetto ai sofisti
radicali. Infatti, il diritto altro non è che “ciò che produce e custodisce per la comunità politica la felicità e
le sue componenti” (Etica Nicomachea, V-1), e quindi la finalità del diritto è la stessa finalità della
natura. Ma, al contrario dei Sofisti, Aristotele osserva che la polis, e quindi la sua legge, nasce sulla
base di una esigenza naturale di “felicità”, poiché per natura l’uomo è un animale sociale; e tuttavia
la polis è una costruzione umana, non naturale. Le sue leggi sono quindi storicamente determinate e
diverse a seconda delle situazioni storico-politiche, ma il loro fondamento è migliore quando riposa
sulla natura stessa. La contrapposizione tra nomos e physis è quindi respinta.
La scuola stoica ha poi esaltato in massimo grado questo concetto, perché vede nella natura la
perfetta espressione della razionalità del Logos. Nulla che sia “per natura” può quindi essere diverso
da quel che è, ed è perfetto, per quanto l’uomo possa avere difficoltà a comprendere nei singoli casi
questa necessaria perfezione. La natura è quindi il fondamento del diritto.
Discorso
Il termine greco è logos, che ha però significati diversi e stratificati, alcuni dei quali dovremo adesso
discutere (per gli altri rimandiamo alla voce Logos: →).
Va innanzitutto detto che la stessa filosofia è discorso (si veda la distinzione tra filosofia come discorso
e filosofia come pratica nella vice Filosofia: →). Ora, che cos’è un discorso? Innanzitutto è una pratica
linguistica, un pratica cioè che utilizza un linguaggio (→). È un parlare, uno scrivere, un comunicare
attraverso segni. Il contenuto che viene comunicato di per sé non è discorsivo, essendo il discorso
una pratica, un modo per esprimere e comunicare qualcosa che non è né il linguaggio né il discorso.
Dir qualcosa significa certo dire (discorso), ma anche dire qualcosa che è appunto qualcosa, non il
discorso stesso. Nasce quindi il problema del rapporto tra il discorso e il suo contenuto.
Un diverso significato del termine Logos è pensiero, ragione. Il collegamento nella stessa parola che la
lingua greca propone è tutt’altro che casuale ed esteriore, perché il contenuto che comunichiamo
attraverso il discorso è comunque un pensiero, anche quando si tratti del racconto di un evento o
della descrizione di un oggetto materiale. In quanto ne parliamo, lo stiamo pensando. Pensiero e
discorso dunque non si confondono, ma certo nella comunicazione si legano.
Questo vale anche nel caso del discorso interiore, cioè delle pratiche linguistiche che rivolgiamo a
noi stessi nel pensare: i pensieri non sono segni, le parole e le immagini sì, ma noi pensiamo in
parole e immagini. Dunque il legame tra il pensiero e il discorso è a monte della comunicazione
verbale, o scritta, o iconica. Nasce nell’atto stesso del pensare. Questo significa che il pensiero stesso
ha una natura discorsiva? che esiste una sintassi del pensiero (una articolazione delle idee, un loro
strutturarsi) come esiste una sintassi del linguaggio?
Il tema è stato affrontato a fondo. Ecco qualche esempio:
- i sofisti hanno studiato le forme del linguaggio che costituiscono l’intelaiatura dei pensieri,
convinti che nel linguaggio più che nel pensiero (giudicato incapace di giungere alla verità, seppure
una verità esiste) sta la vera forza di persuasione – che è quel che conta nell’arte del discorso;
- Socrate ha utilizzato il linguaggio come strada per la ricerca della verità, ponendo incessantemente
domande sulle parole (“che cosa intendi?”, “che cos’è?”);
- Platone ha studiato l’architettura linguistica del pensiero umano, cioè delle idee, nella convinzione
che esse ci parlino di un mondo diverso, perfetto ed eterno;
- Aristotele ha studiato le regole del discorso (nella Retorica) e del pensiero (nell’Organon, il primo
compiuto testo di logica dell’occidente) separatamente, ma ha riconosciuto la natura linguistica e
quindi discorsiva del pensiero umano.
Così, in altra forma, soprattutto gli Stoici. Altre scuole hanno costruito pratiche di vivisezione, per
così dire, del linguaggio, ottenendo effetti dirompenti e (potenzialmente) eversivi sul piano sociale:
così i Megarici e i Cinici, tra le scuole socratiche, o gli scettici.
Se vogliamo esprimere in sintesi il nucleo teorico centrale del problema filosofico del discorso,
possiamo porre le seguenti domande:
- a parte i problemi di comunicazione, la struttura del pensiero è linguistica e quindi discorsiva?
- la struttura della realtà è linguistica?
Ecco un confronto utile per intendere intuitivamente il problema: per i Pitagorici e per Platone la
struttura della realtà fisica è linguistica, e il suo linguaggio è la matematica (e, per Platone, lo sono
anche le idee); per gli epicurei la struttura della realtà non è linguistica, essendo frutto del casuale
aggregarsi e disgregarsi degli atomi. Dunque, il linguaggio umano per i Pitagorici e per Platone può
“ripetere” la struttura della realtà; per Epicuro è convenzione, rimanda alla realtà, non ne riflette in
sé la struttura (per la semplice ragione che una struttura fissa e invariabile non esiste).
Discorso (Genere letterario del)
Il genere letterario del discorso è per lo più presente nelle opere filosofiche greche (e anche in altri
tipi di opere) all’interno della loro struttura complessiva che utilizza anche altri generi. Ad esempio
nel Simposio di Platone ciascuno dei personaggi principali tiene un discorso. Le regole di questo
genere di discorsi dovevano essere al tempo di Platone già codificate, perché da un secolo la retorica
se ne occupava. E discorsi di vario tipo erano già stati inseriti in opere storiografiche: ad esempio
Tucidide riporta nelle sue Storie un certo numero di discorsi che non erano certo, nella stesura per
iscritto, identici a quelli effettivamente pronunciati dagli uomini politici a cui sono attribuiti;
dovevano però esserne un’immagine rigorosa, se uno storico rigoroso come Tucidide li inserisce.
Il discorso come unità compiuta nella forma dell’oralità era del resto di importanza capitale in una
società basata sulle scelte collettive come quella greca: era un intervento orale di fronte ad un
pubblico per ottenere un preciso effetto, che di volta in volta era di persuasione (nei tribunali, nelle
assemblee), di celebrazione o di commemorazione (nelle feste), e così via.
Questo genere letterario, benché appartenente in linea di principio al registro dell’oralità, aveva
singolari rapporti con la forma scritta: nel caso dei discorsi riferiti da Platone o da Tucidide, per
tornare a esempi celebri, si trattava di stesure per iscritto di testi orali che erano stati effettivamente
pronunciati, o avrebbero potuto esserlo, da persone diverse dall’autore del testo scritto; nel caso dei
discorsi che gli accusatori e gli accusati dovevano tenere personalmente in tribunale (quel che oggi
fanno i Pubblici Ministeri e gli avvocati), si trattava di testi che nascevano per iscritto, stesi da parte
di professionisti di questo genere di scrittura (vedi la voce Logografi: →), per essere poi pronunciati
da altri.
Ad occuparsi delle regola per la stesura dei discorsi erano stati sin dal V secolo a.C. gli esperti di
diritto, e da allora in poi tutti gli studiosi di retorica, alla cui voce rimandiamo (→).
Discorso breve / Discorso lungo
Sono due forme del dialogo filosofico (→) attestate nei testi di Platone e di altri autori, che
corrispondono a pratiche tipiche dell’oralità greca in filosofia.
Il discorso breve è condotto attraverso domande e risposte, in genere con uno dei due interlocutori
che domanda e l’altro che risponde; è quindi un dialogo guidato in cui chi pone le domande
costruisce attraverso di esse un percorso di ricerca.
Il discorso lungo è una esposizione argomentata di un tesi filosofica di un certa ampiezza, in cui non
si può parlare di un dialogo vero e proprio perché l’azione è nettamente distinta: c’è un filosofo che
parla e un altro, o altri, che ascoltano (e parleranno dopo, al loro turno).
Naturalmente queste due tecniche di discorso possono incrociarsi o susseguirsi, da sole o con le
molte altre che formano il complesso delle pratiche dialettiche in uso nell’antichità (vedi la voce
Dialettica: →)
Ditirambo
Il dithyrambos è una delle antiche forme della poesia lirica corale greca. Canto in onore del dio
Dioniso (→), accompagnato dalla musica dell’aulos e da danze di tipo dionisiaco, poteva avere anche
un carattere dialogato, tra il corifeo e il coro. Aristotele nella Poetica sostiene che la stessa tragedia
sarebbe nata per un’evoluzione di questo genere letterario.
Divenire
Il termine (in greco è il verbo ghignesthai) indica uno dei temi centrali della ricerca filosofica greca
sull’essere: lo studio dell’identità degli enti nel loro perenne movimento (→) di generazione e
corruzione (→) e della natura nel suo complesso (vedi la voce physis: →). Sul tema del divenire è
possibile sintetizzare il campo problematico intorno a quattro gruppi di questioni filosofiche.
La superficie instabile dell’esperienza e la realtà profonda delle leggi costanti
L’esperienza ci dice che qualsiasi ente e qualsiasi evento è soggetto al tempo e si trasforma,
incessantemente; non abbiamo notizia di alcun ente dell’universo fisico che non sia soggetto al
divenire né di alcun evento che non passi: in che senso è possibile allora dire che le cose e gli eventi
sono? sembrerebbe che il loro essere sia instabile, eppure la natura ha leggi costanti, e l’instabilità si
rivela agli occhi dello scienziato (già agli occhi di un naturalista del VI secolo a.C., come a quelli di
uno scienziato del XXI secolo) regolata da leggi nascoste e profonde: quali?
L’origine dei corpi nell’universo fisico
Se l’esperienza dice che tutto diviene, è possibile però supporre che a fondamento dei corpi in
perenne divenire nell’universo fisico vi siano enti che non divengono affatto, ma che – pur soggetti
al tempo – ci sono sempre stati e restano uguali a se stessi pur nel gioco continuo della generazione
e della corruzione dei corpi: per esempio potrebbero esistere particelle estremamente piccole che
costituirebbero i “mattoni” di qualsiasi corpo: in questo caso sarebbero i corpi a divenire, non i
mattoni. Esistono particelle di questo tipo, capaci di sfidare il divenire, o anch’essere hanno avuto
un’origine? Se sì, da dove e quando hanno avuto origine? cosa c’era prima?
Se tra l’essere e il non-essere avviene un passaggio nel tempo che chiamiamo divenire, significa che il nonessere esiste?
Se ciascun ente di cui possiamo fare esperienza è soggetto al divenire, il tempo (→) è la cifra
costante dell’universo; dunque ciascun ente che diviene è esso stesso il prodotto di un precedente
divenire; allora l’essere di ciascuna cosa è soggetta al tempo: l’ente ora è, ora non è: che significa
allora il termine essere? che cosa significa che qualcosa non c’è? L’esserci (ora) e il non-esserci (ieri o
domani) sembrano parte di un flusso, di un continuo, che li comprende entrambi, ma questo è
difficile da spiegare senza ammettere l’esistenza del non-essere, il che sembra una contraddizione
logica di non poco conto: è come dire che il nulla esiste; ma, se esiste, è qualcosa, non nulla. Come
si esce da questa contraddizione? Questi temi sono parte del problema dell’essere (→), che da
Parmenide in poi è al centro dell’attenzione in filosofia.
Realtà e verità degli enti senza tempo né divenire
Non abbiamo esperienza di enti che non siano soggetti nel tempo al divenire, ma possiamo pensare
enti di questo tipo. Così accade nella matematica (→), e in specifico nella geometria (→), che per
l’antichità offriva il modello insuperato di costruzione razionale su enti indipendenti dal tempo,
valida in sé e non in rapporto all’esperienza. Ora, enti di questo tipo, non soggetti al divenire, sono
pensabili; esistono certamente nella mente dell’uomo, che però è soggetta al tempo. Hanno anche
una effettiva realtà indipendente dalla mente?
Questo pone in questione le nozioni di verità (→) e di realtà (→): che cosa significa dire che è vero
che la somma degli angoli interni di un triangolo è equivalente a due retti indipendentemente dal
tempo e quindi dal divenire? è reale un triangolo indipendente dal tempo e dal divenire, o è reale
solo il concetto che la mente ne costruisce?
Divinazione
Vedi Mantica
Divisibile / Indivisibile
In Platone la nozione di indivisibile si applica alle idee, individuate nella loro elementare semplicità
(le idee sono prive di parti) attraverso l’analisi e la scomposizione dialettica. In una delle concezioni
dell’anima studiate nel Fedone compare inoltre la nozione di indivisibilità applicata all’anima, e viene
utilizzata come una argomentazione dialettica a favore della sua immortalità.
Aristotele considera indivisibile, perché semplice, l’oggetto della conoscenza di tipo noetico,
contrapposto alla complessità strutturale degli oggetti della conoscenza dianoetica (→).
In entrambe queste concezioni
- indivisibile è ciò che è semplice (→);
- divisibile è ciò che è composto di parti (→).
Essendo la divisibilità un carattere di ciò che è composto, appartiene in realtà ciò che è già diviso
benché le sue parti siano tra loro legate.
Questa concezione è applicata alla realtà fisica dai materialisti, in primo luogo da Democrito (le cui
teorie atomiste Aristotele discute per negarle), poi da Epicuro. Più esattamente, è applicata non ai
corpi, ma alle particelle che li compongono. I corpi sono infatti considerati dei composti, e quindi
divisibili, mentre le loro componenti ultime, gli atomi (→), sono delle realtà semplici non composte
di parti, e quindi sono indivisibili.
Il dibattito sulla struttura della materia (→), e quindi sulla divisibilità all’infinito dei corpi, si
protrasse per tutta l’età ellenistica.
Dogma / Dogmatico
Il termine greco dogma significa dottrina, o anche insegnamento. Ha la stessa radice di doxa
(opinione) e di dokeo, che significa credere. Dogmaticos è detto quindi in riferimento a quelli che
credono. A usarlo in senso positivo sono soprattutto gli Epicurei e gli Stoici, che ritengono che il
saggio debba dar credito, e quindi credere, ciò che la ragione insegna (dunque ciascuna delle due
scuole lo riferisce alle proprie teorie).
Il termine è usato in senso negativo dagli Scettici in relazione alle altre scuole ellenistiche, con
significato negativo, perché l’adesione alle teorie delle varie scuole da parte degli adepti è considerata
ingiustificata razionalmente, viste le ragioni a favore dello scetticismo, cioè dell’impossibilità di
concludere con certezza rispetto a qualsiasi verità.
Dolore
Contrapposto a piacere (→), il termine dolore (in greco lype) esprime uno stato fisico o fisicopsichico di sofferenza che non necessariamente è legato al male (→), se il male è inteso come
carattere qualitativamente negativo dell’essere e dell’esistere degli enti dotati di sensibilità (questa
nozione si estende quindi anche agli animali e, nell’ipotesi che esista, anche a qualsiasi altra forma di
vita cosciente e senziente non animale e non umana).
Infatti la sofferenza di per sé è uno stato fisiologico indispensabile alla vita, e come tale non può
essere considerato un male, anche se il vivente prova dolore. Le due nozioni non sono
sovrapponibili. Tuttavia l’esperienza del dolore ha sollecitato sia nel mondo dei poeti che in quello
dei filosofi interrogativi angoscianti sul senso dell’esistere (→), perché in moltissimi casi il dolore ha
un aspetto che appare del tutto “gratuito” e ingiustificato.
Il punto è che nessun essere vivente nasce per avere scelto di nascere, e la sofferenza del vivente
richiede quindi una spiegazione e rimanda all’interrogativo di fondo sul senso dell’essere (→) qui ed
ora a soffrire: la domanda “perché devo soffrire?” può essere un altro modo per chiedere “perché
sono nato? perché esisto?”.
La filosofia greca, concordemente, ritiene il dolore un fatto del tutto naturale, e come tale da
accettare se inevitabile, da fuggire se evitabile. Le scuole ellenistiche considerarono la fuga dal
dolore evitabile un obiettivo etico primario, uno dei volti della felicità. E una notevole parte delle
loro dottrine mira a dare indicazioni precise e operative a questo scopo (si pensi al Quadrifarmaco
epicureo, in cui si sostiene che il dolore è “facile da evitare”). Presso gli Stoici passioni di questo tipo
vanno tenute strettamente sotto controllo: in questo senso l’apatia (→) e l’atarassia (→) sono
l’obiettivo finale di precisi esercizi spirituali (→) in grado di proteggere l’uomo dalle conseguenze
negative del dolore, anche di quello inevitabile. Anzi, di per sé il dolore fisico è un esempio delle
realtà eticamente indifferenti (→).
Dormienti
In Eraclito e in altri filosofi i dormienti sono le persone che, al contrario del filosofo, non hanno
coscienza della vera realtà delle cose e degli eventi umani. In questa propettiva la filosofia è intesa
come risveglio, atto con cui la coscienza si eleva dalla penombra oscura dell’ignoranza alla luce della
chiara visione intellettuale.
Dominio di sé
Sono gli stoici a indicare nella enkrateia, che traduciamo con dominio di sé, uno degli obiettivi della
vita morale. Per la verità, la nozione è assai più generale e fa parte della comune maniera di sentire
greca: l’uomo libero è innanzitutto un uomo in grado di governare se stesso. E chi non sa governare
se stesso, è sospetto che voglia governare gli altri dedicandosi alla vita politica (il tema è platonico:
ad esempio nel suo discorso che chiude il Simposio Alcibiade dice di non sapere governare se stesso
pur aspirando ad un alto ruolo politico in città, e parla di Socrate – maschera della filosofia stessa come dell’uomo che lo costringe a riflettere su questo).
Il termine dominio implica una gerarchia all’interno stesso dell’uomo: una parte di sé comanda,
l’altra (o le altre) obbedisce (o si allineano gerarchicamente). Così in Platone e in Aristotele, e negli
Stoici, in cui la parte razionale dell’anima deve predominare sulle altre.
Tuttavia il dominio di sé è raccomandato anche, per ragioni pratiche, da chi simili gerarchie non le
istituisce affatto: essenzialmente perché conviene, perché è utile alla vita libera e felice (così presso
gli Scettici e gli Epicurei, ad esempio).
Dossografia
Composto dal sostantivo doxa (opinione) e dal verbo grapho (scrivo), il termine dossografia designa
l’opera degli studiosi alessandrini e romani che, a fini di studio o didattici, o per altre ragioni,
composero opere il cui scopo era raccogliere informazioni di vario tipo sui filosofi: notizie
biografiche, dati sulle opere, sintesi sulle loro “opinioni”. In qualche caso le opere dei dossografi
(doxographos) dovevano essere materiali di studio, o manuali per la formazione filosofica dei giovani
nelle scuole
Una fonte importante per i dossografi successivi dovette probabilmente essere l’opera Dottrine dei
fisici di Teofrasto (→), in 16 libri, composta alla fine del III secolo a.C., di cui ci rimangono
frammenti (alcuni lunghi). Sei secoli dopo, un testo dossografico importante che ci è stata
tramandato si intitola Vite dei filosofi, opera di Diogene Laerzio (→).
Il fatto che i dossografi raccogliessero in modo più o meno organico e sistematico le “opinioni” dei
filosofi non deve lasciar pensare che la filosofia fosse per loro ridotta a opinione. L’obiettivo dei
dossografi era diverso: era quello di orientarsi tra le tradizioni e le scuole della filosofia.
Essendo per lo più di epoca tarda rispetto ai filosofi di cui trattano, la loro attendibilità dipende
dalle loro fonti, per noi per lo più perdute, e spesso un’opera dossografica era la fonte delle
successive. I filologi hanno posto l’obiettivo di identificare le fonti e le possibili derivazioni di un
testo da un altro. Su questo si veda la voce Storia della filosofia (→)
Dottrine non scritte
Nella VII Lettera di Platone (la cui autenticità gli studiosi ritengono molto probabile, anche se non
del tutto certa) Platone fa riferimento a sue dottrine che ritiene non possano essere divulgate per
iscritto perché possono essere comprese solo dopo un lungo e personale esercizio dialettico.
Dichiara quindi che non esisterà mai un suo scritto su questi argomenti.
In vari luoghi Aristotele stesso ne accenna, presentando le dottrine non scritte come una sorta di
teoria sui principi che avrebbe consentito a Platone di costruire una architettura teorica in cui
inquadrare ogni aspetto della realtà, idee comprese: tutto sarebbe deducibile dall’Uno (→) come
principio originario e dalla Diade (→).
Ovviamente, in quanto si tratta di dottrine non scritte, non possediamo testimonianze di prima
mano su di esse. Le testimonianze, compresa quella platonica della VII Lettera, sono indirette.
Sappiamo però che Platone le considerava dottrine non facilmente comprensibili, che richiedevano
una esercitazione dialettica specifica. Nulla dunque di riconducibile a una dottrina dal valore
puramente intellettuale: l’intera personalità del filosofo era in gioco nell’accostarsi ad essa.
L’importanza di queste dottrine non scritte nel complesso delle dottrine platoniche è oggetto di
discussione tra gli studiosi. Si va da chi le considera pure esercitazioni dialettiche, o percorsi di
ricerca destinati alla cerchia ristretta dei filosofi ai gradi più alti della propria formazione, a chi le
considera così importanti da fare delle dottrine non scritte il paradigma sulla cui base interpretare
l’opera platonica nel suo complesso (in Italia tra gli storici della filosofia antica sono Giovanni Reale
e la sua scuola a insistere su quest’ultima posizione).
Dovere
In filosofia la nozione di dovere (dal latino debere, in greco kathekon) come necessità etica è stata
introdotta dallo Stoicismo, ricollegandola storicamente all’invito socratico di elevare la propria
coscienza del bene e del male.
Un’etica del dovere così come è intesa dagli Stoici presuppone che la vita dell’uomo abbia un senso
nell’ordine della vita universale, e che l’individui occupi un posto in quest’ordine che è unico e
irripetibile. C’è una razionalità nel Tutto, sia se visto nella complessità delle sue articolazioni, sia se
visto nella specificità di ogni sua singola parte. L’uomo è una di queste parti, nell’intreccio delle
relazioni con altre parti, e dovere è, semplicemente, essere se stessi; chi è dunque l’uomo? È un ente
razionale che occupa un posto che non si è dato da solo nell’ordine del Tutto. È se stesso se rispetta
questa sua natura, il che implica il dovere di far prevalere la propria razionalità, accettare la propria
posizione e il proprio destino, comprenderne la positività in ordine al Tutto, controllare le passioni
che inevitabilmente farebbero deviare la coscienze da questa razionale comprensione di sé.
Detto questo va precisato che il termine greco che abitualmente rendiamo in italiano con dovere,
kathekon, è privo di alcune delle connotazioni che associamo al dovere. Infatti per gli Stoici il
kathekon è, innanzitutto, il comportamento appropriato ad una terminata situazione, la funzione
specifica dell’uomo nel posto che occupa nell’universo. Il dovere non è quindi in alcun modo al di
sopra della realtà fisica, in una sfera interiore staccata (una sorta di coscienza morale al di sopra della
natura): e infatti chi compie il proprio dovere, nell’accezione storica del termine, segue
semplicemente al meglio la propria natura (fisica e mentale). Gli Stoici definiscono kathortoma le
funzioni che un uomo svolge al meglio nell’adempimento del proprio dovere, cioè di quello che la
propria natura nella posizione che si occupa impone.
Le teorie stoiche sul dovere non sono accolte da altre scuole: ad esempio l’epicureismo ritiene che
l’uomo sia libero da qualsiasi dovere e sia piuttosto l’utile il metro per la vita etica. In questo senso
ad un’etica del dovere può contrapporsi un’etica dell’utile.
Doxa
Opposta ad episteme, che traduciamo con scienza (→) o con conoscenza scientifica, la doxa è
l’opinione, cioè la conoscenza fondata su basi insicure. Non che sia certo che la doxa induca l’uomo
in errore: una opinione può essere vera (da Platone in poi si è sottolineato questo punto), ma non
per questo smette di essere doxa, perché è sì vera, ma non si è in grado di distinguerla con certezza
dalle opinioni false, perché le opinioni sono tutte fondate su basi incerte.
Il problema della doxa è stato posto con chiarezza dalla filosofia delle origini, e in modo
particolarmente radicale nel Poema sulla Natura di Parmenide, dove la via della verità (aletheia: →) è
contrapposta alla via dell’opinione (doxa) per due ragioni:
- perché la via della verità è ben fondata (riposa sulla ragione umana) mentre quella dell’opinione
non lo è (è fondata sulla insicura esperienza);
- perché la via dell’opinione implica necessariamente l’esistenza del non-essere, impossibile ad
ammettersi per la ragione perché ci parla della molteplicità degli enti, del loro cambiamento, della
loro nascita e morte, e così via, tutte cose che implicano appunto l’esistenza del non-essere.
Anche Eraclito, per ragioni diverse, critica con durezza chi si affida alla doxa. Questo tema percorre
un po’ tutta la filosofia greca, perché l’obiettivo comune è passare dal piano dell’opinione al piano
della verità. Ma non per tutti è possibile:
- non lo è in nessun caso per i Sofisti, che tuttavia studiano con la massima cura il mondo della
doxa, che è quello in cui viviamo (lo aveva del resto fatto già Parmenide); e non lo è per le varie
scuole scettiche dell’antichità (Pirrone e i suoi allievi, l’Accademia di mezzo, gli scettici dell’età
tardo-antica), anche se per alcune di queste scuole c’è una possibile gradazione di probabilità tra le
varie opinioni, perché alcune possono essere più vicine al vero di altre, ed è importante da un punto
di vista pratico identificare quali;
- lo è parzialmente per la maggior parte degli altri filosofi: Platone ammette una vera scienza
soltanto per la sfera dell’intellegibile, mentre condanna ad una conoscenza approssimativa, e quindi
alla sfera dell’opinione, l’intero mondo dell’esperienza; Aristotele ritiene che tutte le scienze pratiche
e poietiche si possano fondare solo su opinioni, ed elabora una sorta di gradazione di opinioni, dalle
migliori alle peggiori, enunciando la nozione di endossa (→) e proponendo nei Topici una logica
dell’opinione (vedi la voce Sillogismo dialettico: →); gli Stoici parlano di sospensione del giudizio
(epoche: →) in un numero rilevante di casi; e così via.
Lo studio della doxa non è quindi affatto considerato secondario e inutile o vano; al contrario, nella
convinzione che spesso non si possa vivere che entro una cornice di opinioni, i filosofi hanno
dedicato grande attenzione a questo studio. Fermo restando che, ove possibile, l’obiettivo rimane la
scienza, cioè la conoscenza ben fondata, fedele ai principi della ragione (per quanto diversamente
essi siano stati intesi questi principi nel corso delle ricerche tra i primi filosofi e, sette/otto secoli
dopo, l’ultima grande visione della ragione umana elaborata nel mondo antico, quella di Plotino).
Dramma satiresco
Vedi Teatro Greco
Dualismo / Monismo
Sono termini moderni (entrambi introdotti nella terminologia filosofica nel corso del Settecento)
che designano in termini molto generici posizioni contrapposte rispetto alla nozione di realtà (→):
- sono dualiste quelle teorie che separano, in modo debole o forte, almeno due diversi tipi di realtà;
- sono moniste quelle teorie che considerano qualsiasi realtà individuale o universale, materiale o
mentale, appartenente ad un unico Tutto, sulla base di un legame, o di una rete di legami, che le
uniscono.
Quasi tutte le filosofie greche sono moniste (vedi la voce Uno: →). Compare una forma di dualismo
in Platone che separa in modo netto le realtà che afferiscono al mondo materiale e sensibile e le
realtà che compongono il mondo intellegibile (le idee eterne e la sfera del divino). Ma Platone ha
cercato per varie vie di stabilire dei ponti tra le due sfere della realtà, ad esempio col mito del
Demiurgo (→) o con le nozioni di imitazione (→) e di partecipazione (→), o con la figura di Eros
come demone che collega l’umano e il divino (vedi la voce Simposio: →). Anche il suo dualismo
quindi è in realtà debole e non radicale.
Dubbio
Traduciamo con dubbio il termine greco aporia, che ha anche un diretto corrispettivo in italiano
(vedi la voce Aporia). Infatti il verbo aporein significa essere incerto.
Il dubbio è quindi l’atteggiamento spirituale di chi, di fronte a una scelta da prendere, o a un
ragionamento complesso, non sa che via prendere e, per così dire, si ferma. Ma il dubbio in quanto
tale è anche il motore della ricerca, perché la coscienza del proprio stato di “non sapere” favorisce
l’attività volta al superamento del dubbio (perché lo si vive come inaccettabile).
Ecclesia
Il termine greco Ecclesia indicava in età classica l’Assemblea popolare (→) che costituiva il cuore dei
sistemi politici retti secondo una costituzione democratica (per un quadro generale delle istituzioni
democratiche vedi la voce Democrazia: →). L’Assemblea però esisteva anche in altri sistemi politici,
Sparta compresa, con minori poteri e varie strategie di accesso.
Nell’Atene del periodo classico, le cui istituzioni conosciamo meglio rispetto ad altre poleis in cui
l’Ecclesia aveva un ruolo centrale, avevano diritto (e dovere) di partecipare all’assemblea tutti gli
Ateniesi che avessero diritti politici – i polites (→), cioè i cittadini a pieno titolo -, e chi partecipava
alle riunioni (non infrequenti) riceveva una indennità, in modo che la partecipazione fosse resa
possibile anche per gli strati con minori disponibilità economiche (essere presenti ai lavori
dell’Ecclesia implicava la perdita di un numero non piccolo di giornate di lavoro l’anno).
Si votava per alzata di mano o per acclamazione, solo in casi rari e previsti dalla legge a scrutinio
segreto. Ad Atene il luogo di riunione era dapprima l’agora, poi ci si riuniva al colle della Pnice, poi
al Teatro di Dioniso e al Pireo (dopo la metà del IV secolo).
Anche quando le città greche persero di fatto la loro autonomia politica, l’Ecclesia si mantenne in
vita con poteri diversi. Ad Atene vi partecipava un numero minore di cittadini, e non si riceveva più
alcuna indennità per la partecipazione ai lavori, sicché l’elemento più popolare era di fatto escluso.
Ecista
Il termine greco è oikistes, che potremmo tradurre con fondatore (oikos è la casa, il luogo in cui si
vive). In età storica, l’ecista è l’uomo (in genere un nobile) che guidava la comunità degli uomini che
lasciavano la madrepatria per fondare una colonia (→), cioè una nuova polis. In genere poi queste
figure erano, nei secoli, oggetto dei culti che nel mondo ellenico erano riservato agli eroi.
Molte città la cui fondazione si perdeva nella notte dei tempi narravano miti di fondazione in cui
l’ecista era un dio o un eroe della mitologia, rappresentandolo in genere nelle monete e riservando a
questa figura un culto locale.
Eclettismo
Posizione filosofica che consiste nel tentare la sintesi di una molteplicità di teorie. Le filosofie
eclettiche, quindi, non hanno una propria fisionomia definita rispetto alle altre, ma tentano di trarre
da esse gli elementi comuni. Si parla di filosofie eclettiche, tuttavia, quando questo tentativo di
conciliazione non è svolto soltanto, come spesso è avvenuto nella storia della filosofia, su due linee
di pensiero, ma su molte, senza porsi sino in fondo il problema di una loro compiuta conciliazione
in una nuova teoria organica. È eclettica ad esempio la filosofia di Cicerone, più interessato alla
definizione di principi pratici per l'azione che alle dispute teoretiche tra le scuole.
Nell'uso dei termini eclettismo/eclettico è spesso presente una sfumatura negativa, critica: si
sottintende una effettiva mancanza di rigore teoretico, a favore di altri interessi (etici, ad esempio).
Va comunque chiarito che, pur essendo presente il termine e il concetto nella filosofia greca (è
Diogene Laerzio a parlare di eklektike airesis), è soprattutto la storiografica filosofica moderna ad
averlo usato in senso specifico.
Economia
Di una scienza economica in senso proprio, la filosofia greca non si è di fatto occupata. Ma molte
riflessioni di tipo economico sono presenti in percorsi di ricerca o in teorie di tipo etico e politico.
Il termine però è greco: oikonomia è, etimologicamente, la legge che governa la famiglia, quindi la
casa. L’ambito è quello delle relazioni interne alla famiglia, relazioni di potere (ad esempio tra
padrone e schiavi) e parentali (tra l’uomo e la donna, tra l’uomo e i figli). Aristotele, che è il filosofo
che ha dedicato più attenzione a questi temi, ne tratta in Politica I-3. Platone nella Repubblica
descrivendo lo Stato ideale ne tratta non diffusamente a proposito della classe dei lavoratori.
Edipo
Personaggio della mitologia greca le cui vicende sono portate sulla scena da Sofocle in due tragedie,
Edipo re e Edipo a Colono. Nel mito è figlio di Laio, re di Tebe, e della regina Giocasta. Un oracolo
convince Laio ad esporre il bambino appena nato, che viene trovato e allevato come proprio figlio
dal re Polibo e dalla moglie. Divenuto adulto, si reca a Delfi per sapere chi sono i suoi veri genitori e
riceve una terribile profezia: egli ucciderà suo padre e sposerà sua madre (ma non gli viene rivelata la
loro identità né quella dei suoi genitori). Fuggendo da questo terribile oracolo, ad un incrocio
incontra un uomo con cui viene a lite e lo uccide. Giunto a Tebe, scopre che la città è dominata da
una Sfinge che non fa passare i viaggiatori e li uccide se non rispondono ad un indovinello. Edipo
risponde, uccide la Sfinge e quindi i tebani, grati per averli liberati dalla Sfinge, lo invocano come
re. Sposa così la regina, rimasta vedova, e da lei ha diversi figli, tra cui Antigone. In tarda età scopre
che l’uomo ucciso era suo padre e la regina di Tebe sua madre. Abbandona Tebe e in una atmosfera
sacrale è poi accolto dagli dèi nell’aldilà.
Quello di Edipo, e poi di sua figlia Antigone, è per la filosofia uno dei miti più importanti.
Edipo re
Titolo di una tragedia di Sofocle. L’Edipo re è la tragedia forse più nota di Sofocle, collocabile al
centro della sua attività intorno al 425 a.C.
L’opera fa parte del ciclo tebano e narra di come Edipo, re di Tebe, venga gradualmente a
conoscenza della verità sul suo passato e sulla sua identità, e di come arrivi a punirsi crudelmente per
ciò che, pur inconsapevolmente, ha commesso.
Edipo è stato eletto re di Tebe dopo aver risolto l’enigma della Sfinge, liberando la città dalla sua
oppressione. Ma ora sulla città incombe un’altra terribile sciagura, la peste. Incalzato dai sudditi,
Edipo, considerato il più sapiente degli uomini, invia il cognato Creonte presso l’oracolo di Delfi
per comprendere le cause dell’epidemia. La risposta del dio è che la città è contaminata perché
l’assassino di Laio, il vecchio re di Tebe, di cui Edipo ha sposato la moglie Giocasta, è ancora vivo e
libero.
Edipo, per trovare il colpevole, proclama un bando che prevede l’esilio per l’uccisore di Laio e per
chi lo sta aiutando, nascondendolo. Edipo si rivolge poi all’indovino Tiresia affinché gli sveli
l’identità dell’assassino. Tiresia inizialmente tace scatenando la collera di Edipo, ma poi decide di
rivelare la terribile verità: fu lo stesso Edipo ad uccidere Laio e a sposarne la moglie. Edipo,
incredulo e convinto della propria innocenza, accusa Tiresia e Creonte di congiurare contro di lui
per sottrargli il trono. Ma intanto il dubbio si è impadronito della sua anima. L’indovino,
allontanandosi, profetizza che il futuro svelerà che Edipo ha sposato la sua stessa madre, è fratello
dei suoi stessi figli e che entro la fine del giorno sarà scoperto e se ne andrà vagabondo e cieco in
terra straniera.
Interviene Giocasta a calmare gli animi, e a suggerire ad Edipo di non ascoltare nessuna profezia;
anche a Laio, infatti, era stato predetto che sarebbe stato ucciso da suo figlio, e proprio per questa
profezia il re aveva fatto esporre il figlio avuto da Giocasta su un’alta montagna con i piedi legati da
una fune. I suoi assassini si erano poi rivelati essere dei banditi che Laio aveva incontrato sulla strada
per Delfi. A questo punto Edipo ricorda e racconta a Giocasta la propria storia. Edipo era stato
cresciuto dal re di Corinto Polibo, di cui credeva di essere figlio, ma, dopo aver interrogato l’oracolo
di Apollo che non ne aveva svelato i veri natali, aveva scoperto il suo futuro: avrebbe ucciso il padre
e sarebbe divenuto il marito della propria madre. Per sfuggire a questo tremendo destino, Edipo
fuggì da Corinto e proprio lungo la strada aveva incontrato un uomo che lo aveva offeso, e per
questo lo aveva colpito a morte. Edipo inizia ora a chiedersi se le parole di Tiresia non
corrispondano al vero: è forse proprio lui ad aver ucciso Laio?
La volontà di continuare le indagini per conoscere la verità spinge Edipo a convocare il servo di
Laio. Nel frattempo giunge da Corinto un messo che annuncia che il re Polibo è morto e quindi
Edipo si sente liberato dal dubbio di aver ucciso il padre. La profezia ancora una volta sarebbe
errata. Ma quanto alla profezia riguardante la madre con cui Edipo avrebbe generato dei figli? Il
messo afferma che a questo riguardo non c’è alcun pericolo in quanto i sovrani di Corinto non sono
i veri genitori di Edipo, essendo questi stato adottato da loro. Anzi era stato proprio il messo ad aver
avuto in consegna il bambino da chi lo avrebbe dovuto abbandonare sul monte Citerone. La verità
appare in tutto il suo orrore a Giocasta, mentre Edipo ancora non comprende, anzi pensa che
Giocasta rifiuti solamente il fatto di aver sposato un uomo dalle origini così oscure e incerte. La
verità deve fare il suo corso e Edipo vuole sapere.
Arriva finalmente il servo di Laio che Edipo interroga in modo pressante. Il messo di Corinto lo
riconosce e il servo racconta di aver ricevuto da Laio l’ordine di uccidere suo figlio e di non aver
eseguito il comando per pietà, affidando il bambino ad un pastore diretto a Corinto. La verità è
completamente svelata: Edipo capisce in tutto il suo orrore ciò che è accaduto, la tremenda macchia
che grava su di lui, sulla madre-moglie, sui figli-fratelli. Edipo, re amato, diventa un individuo
mostruoso, colpevole anche se involontariamente di atti tremendi.
Giocasta si suicida impiccandosi e Edipo decide di punirsi accecandosi. Con le orbite grondanti di
sangue, Edipo appare per l’ultima volta per affidare, con dolore, le figlie a Creonte e poi andarsene.
Edonismo
Il termine italiano deriva da hedone, che significa piacere (la radice hed- indica sia la gioia sia la
piacevolezza). L’edonismo è quindi proprio di qualsiasi dottrina etica che ponga il piacere come
elemento importante per la felicità umana e per la pienezza della vita. Ma cosa debba intendersi per
piacere (→), e quale rapporto vi sia tra il piacere e la felicità (→), è oggetto di discussione tra le
scuole filosofiche greche, alcune delle quali rifiutano in modo molto netto l’edonismo (ad esempio il
platonismo), mentre altre lo accettano (dopo la Scuola Cirenaica, la più netta tra le scuole
ellenistiche su questo tema è l’epicureismo), o lo discutono con evidente interesse (ad esempio
Aristotele, e gli stessi Stoici, per i quali, per il suo legame con le passioni, va comunque tenuto sotto
stretto controllo).
Il punto è che, proprio per il suo rapporto con le passioni (→), ricade sotto l’indagine generale che i
Greci hanno dedicato a questo tema, e non c’è scuola filosofica, per edonista che sia (ad esempio la
Cirenaica) che non metta in guardia dalle conseguenze non volute di una concezione edonista della
vita. Ad esempio, per l’epicureismo queste conseguenze vanno calcolate, mediante un preciso calcolo
degli utili (così Epicuro nella celebre Lettera a Meneceo, o Lettera sulla felicità)
Educazione
Vedi Paideia e Pedagogia
Efesto
Figlio di Era, associato alle tecniche e in particolare al controllo del fuoco e alla lavorazione dei
metalli, è zoppo e su questa malformazione si raccontavano varie storie per spiegarla, tutte in
qualche modo legate a sofferenze dell’infanzia o della giovinezza e a difficili rapporti con Era (e con
Zeus). Appartiene comunque al gruppo centrale degli dèi olimpi, ed è lo sposo di Afrodite (ed
amante di varie altre bellissime dee).
In quanto padrone delle tecniche del fuoco e dei metalli, è un dio potente, dalle cui fucine escono
prodotti mervigliosi dell’arte della lavorazione dei metalli. Presiede anche ai Vulcani e alla loro
attività.
Efialte e Oto
Vedi Giganti
Egemonico
Traduciamo con egemonico il termine greco hegemonikon, utilizzato dagli Stoici per indicare la sfera
razionale superiore dell’uomo, scintilla del Logos universale, che ha il compito di guidare ogni azione
e ogni pensiero dell’uomo, in quanto essere razionale. Questa scintilla razionale in noi è,
fisicamente, pneuma purissimo, e da esso si dipartono le facoltà della mente (percepire, assentire,
ragionare, deliberare, e così via).
Se usato in senso assoluto, hegemonicon è quindi il Logos stesso, come supremo reggitore e vita stessa
dell’universo.
Egitto
Per un greco o per un romano l’Egitto – abitato da popolazioni di stirpe camitica – era già una terra
antichissima, perché la sua civiltà si era formata nel corso del IV millennio a.C. e già dopo il 3.100
a.C. circa era nato un solo regno sotto la prima delle 31 dinastie che lo governarono sino all’epoca di
Cesare, quando perse la sua autonomia e fu inglobato nell’Impero Romano.
Gli elementi della cultura egiziana che ci sembra importante richiamare ai fini dello studio della
filosofia antica sono tre:
- la scrittura geroglifica, che rappresentò una delle prime forme di scrittura dell’umanità e pose
l’avvio di quel processo di passaggio dall’oralità alla civiltà della scrittura (→) che per il mondo
ellenico si realizzò a partire dall’VIII secolo a.C.;
- la religione, che concepiva la vita dell’anima oltre la morte e quindi una identità personale
indipendente dal corpo;
- le conoscenze scientifiche, in particolare nel campo della matematica e della geometria, nonché nel
settore astronomico, che furono in parte la base su cui lavorarono i matematici e gli scienziati greci.
Ekpyrosis
Traduciamo con conflagrazione il termine greco ekpyrosis, che indica – letteralmente – la fine del
mondo.
È questa una tesi tipicamente stoica, sulla base probabilmente di un’eco eraclitea, che si basa
(fortemente radicalizzandola) sulla teoria della ciclicità del tempo piuttosto comune nella filosofia
greca (vedi la voce Tempo: →): l’universo nel quale viviamo ha un inizio e una fine, per ampio che
sia lo scorrere del tempo; ma la fine di questo universo coincide con la nascita di un nuovo universo,
che si ripeterà eguale a questo, perché non ci può essere modificazione in ciò che è in sé compiuto e
perfetto.
L’universo muore incendiandosi: l’elemento del fuoco prende il sopravvento e distrugge tutto, ma
allo stesso tempo il fuoco genera un nuovo universo.
Essendo il tempo circolare, da sempre e per sempre gli universi nascono e muoiono con la ekpyrosis.
Elea / Eleatismo
La colonia di Elea, stabilita dai Focesi a sud di Pestum in Campania alla metà del VI secolo a.C. su
un precedente insediamento degli Enotri, sulla rotta commerciale che dall’Oriente portava verso
Marsiglia, sorgeva su un territorio in cui la presenza greca era già consolidata, tra la costa,
l’entroterra e le isole campane.
Era in stretti rapporti mercantili con Atene, e quando l’area campana entrò nella sfera di influenza
di Roma, fu alleata (III secolo a.C.) per poi divenire municipio romano (I secolo a.C.) col nome di
Velia.
Dal punto di vista fisico, sorgeva su un promontorio aperto sul mare, che dava quindi luogo a due
porti. La città decadde nell’età tardo antica quando questi porti cominciarono a insabbiarsi. Oggi
quello che era un promontorio è interrato, e della città antica restano notevoli testimonianze
archeologiche, tra cui la celebre Porta Rosa, con l’unico esempio in Magna Grecia di volta a tutto
sesto di età classica (i resti archeologici della città antica risalgono per lo più al IV secolo a.C.).
La Porta Rosa potrebbe essere quella che Parmenide descrive nel Proemio del suo Poema sulla
natura, anche se sulla esatta topografia dei luoghi parmenidei si sono fatte varie ipotesi. Poiché
Parmenide (→) visse a Elea, e così il suo allievo Zenone (→), la scuola filosofica che fa riferimento
alle tesi di Parmenide sull’Essere è detta, già dalle fonti antiche, eleatica, benché i continuatori come
Melisso (→) non abbiano avuto rapporti diretti con Elea.
Poiché i principi della scuola sono già fissati con Parmenide, il termine eleatismo indica innanzitutto
la filosofia di Parmenide. Ma Zenone, per quanto riguarda il metodo, e Melisso, su alcuni aspetti
non certo secondari della teoria filosofica, hanno apportato contributi di notevole rilievo; se
eleatismo è quindi la filosofia di Parmenide, i metodi e le teorie dei suoi successori vanno inquadrate
unitariamente in questo ambito teorico.
In effetti, se seguiamo in maniera imprecisa la storia della scuola per carenza di fonti, possiamo
invece senz’altro seguire il ruolo che l’eleatismo ha avuto nello sviluppo della successiva storia della
filosofia, perché il principio parmenideo che l’essere non nasce dal nulla e non perisce nel nulla
rimane un assioma per tutto lo sviluppo del pensiero greco: lo rispettano i pluralisti tentando vie
diverse per conciliare l’immodificabilità dell’essere con il divenire delle cose e della vita; lo studiano
con vari gradi di approfondimento sia Platone che Aristotele; lo rispettano le scuole ellenistiche, e
così via.
Elegia
È uno dei tipici componimenti poetici della tradizione greca, sia arcaica che classica (in età
successiva il carattere dell’elegia subì sostanziali modifiche, riprese poi nel mondo latino). L’origine
è ionica, e ionico il dialetto in cui abitualmente si componeva.
Aveva anche un carattere privato, ma ai fini dello sviluppo della cultura filosofica particolarmente
importante è l’elegia politica, a fini quindi pubblici, di cui i componimenti poetici di Solone (→)
sono un modello. La funzione politica a cui l’elegia era finalizzata era duplice: serviva ad esortare
verso determinati valori della comunità, oppure a polemizzare contro i nemici di determinati valori
(interni o esterni che fossero).
Elemento
Il termine greco è stoicheion, plurale stoicheia. Il termine italiano elementi deriva dal latino elementa,
introdotto da Lucrezio e poi accettato da Cicerone che lo usò proprio per descrivere la teoria di
Empedocle (che usa anche il termine radici, rizomata).
La nozione però è precedente, e nasce in fondo con lo stesso Talete, la cui acqua va intesa appunto
come elemento originario della natura che, trasformandosi, ha dato origine a tutte le cose.
Il concetto di elemento è legato a tutte quelle concezioni filosofiche greche che ritengono che la
natura abbia (o derivi da) parti originarie eterne e immutabili e che la complessa formazione di tutte
le cose sia originata da mattoni fondamentali (pochi o molti che siano: ad esempio quattro per
Empedocle, moltissimi per Anassagora, sotto un certo aspetto solo uno per Democrito, i cui atomi
non si differenziano per qualità). In quest’ottica, Platone ritenne, contro i filosofi naturalisti, che i
veri elementi non siano qualcosa di materiale: sono piuttosto le idee sul cui modello sono plasmate
le cose e gli stessi esseri viventi e l’uomo (o, secondo una diversa teoria, sono le specifiche idee di cui
un determinato ente partecipa).
In alcuni filosofi gli elementi, che costituiscono comunque i “mattoni” o i principi generatori delle
cose, non sono però eterni e originari, ma sono anch’essi qualcosa che si è prodotto.
Il termine è anche utilizzato in senso più generico per indicare le parti fondamentali di una dottrina:
questo spiega il titolo Elementi per indicare l’opera geometrica di Euclide.
Elena
Nella mitologia greca è la celebre bellissima donna per la quale scoppia la guerra di Troia. Sono
moltissimi i racconti che la riguardano e diverse le tradizioni sulla sua generazione (per lo più è detta
figlia di Zeus, ma è una donna mortale), sui suoi parenti e sulle sue figlie. Una tradizione la vuole
resa immortale da Apollo, e sorgevano in effetti santuari in suo onore.
La vicenda più celebre che la riguarda è legata al suo matrimonio con Menelao, re di Sparta, e alle
vicende del celebre giudizio di Paride. Questi era uno dei figli di Priamo, re di Troia, e venne
incaricato da Zeus di decidere della contesa che era nata tra Atena, Era e Afrodite: alle nozze di
Teti e Peleo, a cui parteciparono anche gli dèi, Eris gettò tra i convitati un pomo d’oro, destinato
alla più bella fra le dee (Eris è la dea della discordia). Le tre dee la vollero per sé e quando fu il
momento per Paride di decidere, tentarono tutte di corromperlo con dei doni: Atena gli promise la
saggezza e la vittoria in guerra, Era il dominio su tutta l’Asia, Afrodite l’amore della donna più
bella, Elena. Paride assegnò la vittoria ad Afrodite, e partì per Sparta, dove fu accolto con tutti gli
onori. Ma rapì Elena e la portò con sé a Troia. Da qui la guerra.
I racconti della vita di Elena dopo la presa di Troia divergono, ma per lo più la dicono nuovamente
fedele sposa di Menelao.
Nella storia della filosofia la sua figura è legata a un celebre Encomio di Elena scritto da Gorgia da
Lentini in cui si argomenta a favore della sua innocenza con tesi che sono molto interessanti per la
filosofia del linguaggio e per la concezione greca della responsabilità e della colpa.
Elena (Euripide)
Titolo di una tragedia di Euripide. Venne scritta nel 412 a.C., quando si stava ormai delineando il
crollo della potenza ateniese. E infatti Elena, causa della guerra di Troia, diventa in quest’opera un
mero fantasma. È il caso diventa un vero protagonista.
Intanto, chi è Elena? E’ la donna più bella del mondo, figlia di Zeus, trasformatosi in cigno per
sedurre Leda, moglie di Tindaro, re di Sparta. Secondo un’altra versione, invece, Leda avrebbe solo
custodito l’uovo da cui sarebbe nata Elena. La ragazza è ormai giunta in età da marito e il padre, per
evitare possibili inimicizie, fa giurare a tutti i pretendenti che avrebbero aiutato il futuro marito della
figlia se questa gli fosse stata sottratta. La gara indetta per decidere chi avrebbe sposato Elena vede
vincitore Menelao, fratello di Agamennone. Ma un giorno Elena fugge via con Paride, figlio di
Priamo, re di Troia e tutti i greci accorrono in aiuto di Menelao. Questa l’origine della guerra di
Troia. La tragedia di Euripide si discosta proprio in questo punto: era davvero Elena la donna che
era partita con Paride?
Già Gorgia, nell’Encomio di Elena, aveva sostenuto che la donna non era colpevole di quanto
avvenuto perché o vittima del caso, o degli dèi, o costretta con violenza o con la persuasione delle
parole o vittima di Eros. In tutti i casi, dunque, Elena non poteva ritenersi colpevole di nulla.
Euripide sostiene, sulla scia di Stesicoro, che la protagonista non sia partita per Troia con Paride,
ma sia invece rimasta ad attenderlo, fedele. Il dio Ermes aveva nascosto Elena presso il re Proteo in
Egitto, e con Paride sarebbe partito, invece, un fantasma con le sembianze della donna. La guerra di
Troia sarebbe stata perciò scatenata da un fantasma. Quando il re Proteo muore, il fratello
Teoclimeno vuole sposare Elena che però rifiuta, rimanendo fedele alla memoria di Menelao. Arriva
un messaggero che informa Elena che il marito è morto in una tempesta mentre faceva ritorno a
casa, ma la donna si chiede se la notizia sia attendibile. Menelao è sì naufragato, ma non è morto, ed
è sbarcato in Egitto con il fantasma di Elena; arrivato al palazzo di Teoclimeno, Menelao incontra
la moglie, incredulo perché convinto di averla lasciata insieme al suo equipaggio. Il riconoscimento
si fa difficile perché anche Elena, da parte sua, crede che il marito sia morto. Alla fine i due
capiscono la verità e decidono di fuggire, aiutati dalla sacerdotessa Teonoe, sorella di Teoclimeno.
Elena dice al re di aver saputo della morte del marito, e di accettare quindi la proposta di nuove
nozze non prima però di aver celebrato una cerimonia funebre per il marito su una nave in mare
aperto, come da tradizione greca. Teoclimeno fornisce quindi ad Elena una nave con equipaggio, e
la donna insieme a Menelao riesce a fuggire. Teoclimeno, informato dell’accaduto da un
messaggero, è fuori di sé e vorrebbe vendicarsi sulla sorella. Ma intervengono i Dioscuri che
riescono a placare l’ira del re.
Eleusi
Località greca, nei pressi di Atene, dove sorgeva un santuario presso cui si svolgevano i cosiddetti
Misteri eleusini, tra i più importanti e famosi del mondo antico. Questo culto è antichissimo, sembra
addirittura pre-ellenico. Una via sacra univa Atene al Santuario di Demetra (→) (dea della terra, in
particolare del grano, e quindi dea della fertilità); essa veniva percorsa dai fedeli, provenienti da tutta
la Grecia (si trattava quindi, come i giochi olimpici, di una tradizione panellenica). I misteri si
svolgevano all'inizio di autunno e duravano una settimana. Questo culto implicava una forte
partecipazione emotiva e una esperienza diretta del sacro.
Il rito si svolgeva di notte, alla luce della Luna e delle fiaccole, in una atmosfera di forte suggestione,
a giudicare dalle narrazioni tramandateci. Nel corso di queste cerimonie notturne il fedele entrava in
diretto rapporto col dio, ne sentiva in sé la presenza.
Ai Misteri potevano partecipare tutti coloro che parlavano greco e non si fossero macchiati di
delitti che implicavano contaminazione (come omicidi o sacrilegi). Potevano dunque partecipare
non solo gli uomini liberi, ma anche le donne e gli schiavi, e gli stranieri che parlassero il greco. Si
trattava dunque di uno degli strumenti tipici delle popolazioni greche per caratterizzare la propria
identità culturale. Visto il carattere panellenico di Eleusi, il fatto che i Misteri avessero la loro sede
in un santuario controllato da Atene fu per molto tempo un segno della potenza e dell’importanza
di questa città nel contesto delle poleis greche.
Abbiamo alcune notizie sui complessi rituali che si praticavano nel corso della settimana sacra in
autunno, preceduti in primavera da riti che si svolgevano in un sobborgo di Atene e avevano lo
scopo di una purificazione preliminare. I riti prevedevano bagni rituali nel mare greco e in alcuni
fiumi dei dintorni di Atene, cerimonie di purificazione, sacre rappresentazioni, l’uso di determinati
abiti e simboli, cerimonie miranti alla purificazione e alla preparazione all’incontro con la divinità,
in una atmosfera emotiva molto intensa, in attesa di una rivelazione che avveniva nel segreto del
tempio e non poteva essere comunicata all’esterno in alcun modo. Migliaia di persone tutti gli anni
potevano così, entro la cornice strutturata e controllata del rito, partecipare alla esperienza collettiva
e individuale del rapporto con il divino: entrare da protagonisti nella sfera del sacro.
I Misteri eleusini erano connessi a riti della fertilità, di cui Demetra era depositaria, ma erano anche
esperienze rituali del dolore e della rinascita: nel mito infatti Persefone, figlia della dea Demetra, era
stata rapita da Ade, dio degli Inferi, e lungamente cercata dalla madre disperata, il cui dolore veniva
rievocato nel corso dei Misteri, prima di giungere alla riparazione del torto subito con il matrimonio
tra Ade e Persefone. I Misteri eleusini possono essere per alcuni tratti accostati ai culti dionisiaci,
con cui condividevano l’esperienza diretta dell’incontro personale con la divinità nel corso della
cerimonia collettiva.
Eliea
Insieme con l’Ecclesia (→), cioè l’Assemblea popolare, e la Boule (→), è l’istituzione di democrazia
diretta più importante del sistema politico ateniese in campo giudiziario. È il tribunale popolare
ateniese nato al tempo delle riforme di Solone (inizio VI secolo a.C.), ma gli storici sono in dubbio
sulle sue precise attribuzioni per il VI secolo (presumibilmente operava come corte d’appello). Dopo
le riforme di Efialte e di Pericle, divenne un tribunale di prima istanza e parte delle competenze
dell’Areopago le vennero trasferite (ma non i processi per omicidio): i giudici erano 6.000 cittadini
scelti tutti gli anni tra quanti avevano più di trent’anni, e a partire dalla metà del V secolo ricevevano
una indennità.
Il tribunale operava diviso in varie corti. Sulla organizzazione giudiziaria ateniese vedi la voce
Diritto greco (→).
Eliocentrismo / Geocentrismo
Con la dizione eliocentrismo oggi ci si riferisce alle teorie proposte nell’antichità da Eraclide Pontico
(→) e Aristarco di Samo (→), diverse fra loro, che considerano l’universo fisico come una realtà
compatta e finita con il Sole (elio-) al centro (-centrismo).
Geocentrismo è il termine moderno con cui si indicano le teorie cosmologiche, prevalenti
nell’antichità, che considerano l’universo una realtà compatta e finita, formata dalla Terra (geo-)
posta al centro (-centrismo) e dai cieli che le ruotano intorno.
Sul problema cosmologico a cui queste teorie fanno riferimento vedi le voci Cieli e Cosmologia (→).
Va osservato che sia l’eliocentrismo che il geocentrismo sono teorie che considerano l’universo
finito. In una teoria fisica come quella del materialismo antico (l’atomismo di Democrito e di
Epicuro) che considera l’universo infinito nello spazio e nel tempo non può esserci alcun centro.
Elios
Vedi Sole
Elleni / Ellade
Vedi Greci
Ellenico / Ellenistico
L’aggettivo ellenistico, entrato in uso nell’Ottocento, si distingue dall’aggettivo ellenico, in uso già
nella Grecia antica, perché il primo si riferisce alla storia e alla cultura dell’Ellenismo (→), mentre il
secondo indica gli aspetti tipici della cultura greca dei periodi arcaico e classico (→), quando la
civiltà ellenica non aveva ancora dato vita a quella vasta aggregazione cultuale di elementi greci e
orientali che va sotto il nome di ellenismo.
Per i Greci l’Ellade (Hellas) era tutto il territorio abitato dai Greci, ovunque sorgessero le loro città,
non solo nella Grecia continentale e nelle isole dell’Egeo. La nozione è squisitamente culturale, più
che geografica o politica.
Ellenismo
Nel XIX secolo lo storico J.D. Droysen propose il termine ellenismo per indicare il periodo della
storia antica del Mediterraneo e del Medio Oriente successivo alla conquista dell’Egitto e di vaste
regioni dell’Asia da parte di Alessandro Magno. Quest’epoca venne caratterizzata dalla fusione di
elementi culturali ellenici con elementi culturali orientali. Questa fusione diede vita alla cultura
politica dei cosiddetti Regni ellenistici, fondati dai successori di Alessandro Magno che si divisero
in seguito a dure lotte i territori da lui conquistati.
Dal punto di vista della cultura filosofica e scientifica l’ellenismo è caratterizzato da nuove forme di
organizzazione della ricerca e da una attenzione al passato diversa da quella che si era avuta in età
arcaica e classica:
- la ricerca filosofica si struttura in scuole concepite come istituzioni con una propria complessa
struttura e gerarchia interna, con finalità anche didattiche (vedi la voce Scuole ellenistiche: →); non
mancano però modelli diversi di filosofia “popolare”, come è il caso della Scuola Cinica (vedi la voce
Cinici: →)
- la ricerca scientifica si specializza nei vari rami, dalla medicina alla matematica, alla fisica, e così
via, in istituzioni specifiche in vari casi finanziate dai governi dei regni presso cui sorgono: le
istituzioni più importanti sorgono presso le Biblioteche di Pergamo (→) e di Alessandria, con
annesso il Museo (→); però non mancano studiosi che operano in modo indipendente, anche se in
genere in rapporto col potere politico locale, come è il caso di Archimede di Siracusa (→);
- presso queste istituzioni (soprattutto presso la Biblioteca di Alessandria e il Museo, ma anche a
Pergamo) si svolge anche un accurato lavoro filologico di sistemazione e catalogazione della
produzione delle epoche precedenti: nascono le classificazioni dei generi letterari, si sistema il sapere
grammaticale in forma ordinata, si stabiliscono cronologie e successioni di poeti, filosofi, e così via,
in un lavoro di ordinamento del materiale antico che ormai appare come appartenente ad un
periodo concluso rispetto al presente;
- la lingua che viene utilizzata per questo lavoro e per la stesura delle opere nuove è la cosiddetta
koine (→), cioè la forma che prese il greco quando divenne la lingua colta di un vastissimo territorio
tra il Mediterraneo e l’Oriente, presso popolazioni diverse ciascuna delle quali aveva la propria
lingua (anche a Roma il ceto dirigente abitualmente leggeva e parlava il greco).
Emanazione
Il termine greco è proeinai, che in filosofia acquisisce un significato tecnico in Plotino (e nei suoi
immediati predecessori a noi però assai poco noti). È il processo che spiega come sia possibile che
dall’Uno, che è a fondamento dell’essere di ogni ente, si produca l’effettivo dispiegarsi degli enti
eterni e di quelli soggetti al tempo.
Restando coerente al principio greco che l’essere non può mai derivare dal nulla, Plotino concepisce
l’emanazione come un atto di generazione e di progressiva differenziazione (vedi Differenza: →) con
cui la vita dell’Uno si prolunga nell’essere di enti eterni da lui posti come diversi da sé, ma
espressione di sé. A cascata, da questi la vita (e quindi l’essere) fluisce ponendo altri enti fino alle sue
più lontane manifestazioni; così è inteso l’essere degli enti materiali in cui le differenze qualitative
tra gli enti eterni (che Plotino chiama ipostasi: →) si sono prolungate fino a generare differenze
quantitative, tipiche della materia.
L’Uno è energia pura, semplice, che emana se stesso diversificandosi in forme via via più lontane da
sé, ed è questa energia a spiegare l’essere e la vita di ogni cosa (nulla quindi è senza questo legame –
flusso di energia, vita - con l’Uno).
L’emanazione non è un processo di creazione, benché a volte questa parola si trovi nei testi di
Plotino (ma in un senso diverso da quello della filosofia cristiana), perché non implica nessun
passaggio dal nulla all’essere: l’essere degli enti eterni e di quelli temporali non nasce dal nulla, ma
fluisce dall’Uno. Sono gli enti temporali (non quelli eterni) nella loro individualità a nascere e a
morire, non l’energia vivente dell’Uno che costituisce il loro essere. Dunque, nascita e morte, e con
loro la materia e i corpi, riposano su basi solidissime perché eterne, ma in sé hanno ben poca realtà,
perché passano. E hanno quindi ben poca importanza, come manifestazioni superficiali e mobili di
qualcosa di molto profondo e stabile che, vivendo eternamente al di fuori del tempo, in esse si
esprime nel tempo emanando se stesso.
Detto questo va però precisato che proeinai non è il termine maggiormente utilizzato per indicare il
processo che dall’Uno porta alle altre ipostasi e alla natura materiale e spirituale soggetta al tempo.
Più spesso Plotino utilizza proodos, che traduciamo con processione: tutto ciò che esiste procede
dall’Uno, anche se è altro da Lui, e quindi della sua energia vive. Tuttavia nella storia della filosofia
e nel neoplatonismo successivo prevale il termine emanazione, che ha quindi finito per imporsi nella
tradizione successiva.
Emozioni
Vedi Passioni
Empirico
Vedi Esperienza
Encomi e apologie
Sono due generi letterari tipici della filosofia antica, ma anche di altri settori della vita culturale,
come il diritto, la religione, la politica.
L’apologia (dal greco apologhia, che significa difesa) ad Atene era il discorso, in un processo, che
l’accusato aveva il diritto di tenere a propria difesa di fronte ai giudici (questi discorsi erano in
genere scritti però da specialisti, anche se pronunciati dall’accusato: si veda la voce Logografi. →). È
un genere letterario importante per la filosofia perché Platone ha scritto la celebre Apologia di
Socrate, un discorso che in realtà è lontano dai modelli giudiziari dell’epoca ed è costruito da Platone
anni dopo la morte di Socrate probabilmente per proporre una certa interpretazione della figura del
maestro. È quindi un unicum nella storia della filosofia antica. Come genere letterario ha il carattere
di un discorso – quindi sul registro dell’oralità, ma non del dialogo (benché nell’Apologia di Socrate vi
sia un breve dialogo) – costruito come riflessione su episodi che vengono narrati, in uno stile pacato
e semplice (che tuttavia nasconde complessità filosofiche di non piccolo momento)
Di testi dal titolo Apologia di Socrate (per lo più non pervenutici) ne sono state scritte molte altre
nell’antichità, anche diversi secoli dopo la morte del maestro. L’apologia in genere divenne un
genere letterario, non più filosofico ma retorico, e apologisti furono chiamati gli scrittori cristiani
che, nei primi secoli d.C. scrissero a difesa della nuova religione. Nell’antichità poi il genere ha
avuto cultori in vari altri campi non filosofici, come la politica.
Quanto all’encomio (in greco enkomion), è affine all’apologia, ma ha un’origine poetica: la parola
enkomion significa infatti canto per una festa, e lo si eseguiva in occasioni di banchetti o di
processioni, in genere per celebrare vittorie ai giochi panellenici o in altre occasioni di festa. Nel V
secolo a.C. Gorgia trasformò il genere in un gioco retorico in prosa, ma con caratteri che
richiamavano la poesia (ad esempio nell’Encomio di Elena), e così si affermò in età successive (ne
composero, ad esempio, altri retori come Isocrate, o scrittori come Senofonte, o in età successiva
letterati dalla vena satirica come Luciano).
Degli encomi, o elogi, sono esistite quindi due forme:
- discorsi seri in lode di qualcuno (divenne un genere molto frequentato nel mondo politico
romano);
- discorsi semiseri, sospesi tra serietà di fondo e leggerezza scherzosa nello stile e nel contenuto.
Gli elogi del Simposio platonico (tra i più importanti di questo genere letterario per la filosofia)
appartengono tutti a questo secondo genere – tanto quelli rivolti ad Eros quanto quello rivolto a
Socrate da Alcibiade -, ma questo non esclude affatto un contenuto serio. Anzi, nella leggerezza del
gioco (→) si rivelano i molti volti dell’Eros come della filosofia.
Per un quadro generale dei generi letterari dell’antichità in filosofia si veda la voce Generi letterari
della filosofia antica (→).
Endossa
Termine greco utilizzato da Aristotele per indicare le "opinioni ben fondate", cioè le convinzioni
largamente condivise o particolarmente autorevoli, in quanto fondate sull'esperienza e la saggezza di
persone di valore. Sulla loro base non è possibile costruire dimostrazioni certe (si tratta pur sempre
di opinioni, e non di principi certamente veri), ma è comunque possibile costruire una visione etica
del mondo ben fondata.
Ente
Dal termine latino-medioevale ens che a sua volta traduce il greco on (participio presente neutro
sostantivato del verbo einai, essere), l’ente è ciò che è: ciò che sul piano della realtà esiste e ha una
modalità d’essere che gli è propria in modo da essere identificabile individualmente. Ciascun ente
infatti ha il carattere dell’individualità. Precisiamo che non stiamo descrivendo la teoria specifica di
una scuola, ma il significato corrente della parola ente nei testi della filosofia greca.
Mentre al singolare ente e essere non sono sinonimi, al plurale lo sono: negli scritti filosofici si trova
al plurale sia la dizione enti che esseri. In entrambi i casi ci si riferisce a singoli enti in numero
superiore ad uno.
Nella nozione di ente entrano in gioco due concetti che non sono sovrapponibili:
- la nozione di essere (→), perché l’ente è qualcosa e non è nulla;
- la nozione di esistenza (→), perché l’ente esiste in una qualche forma di realtà.
Della nozione di ente facciamo esperienza continua perché nel significato filosofico comune nei testi
greci sono enti tutte le cose intorno a noi e noi stessi. Siamo enti per il solo fatto che siamo
qualcosa, e per il fatto che esistiamo, cioè che ci siamo, qui e ora.
Detto questo, i problemi filosofici sono ancora da definire e da esaminare. Infatti
- non è per nulla chiaro che cosa sia l’individualità di un ente, in un mondo in cui tutto è in
relazione con tutto e in cui ogni corpo è composto di parti; come si può considerare, ad esempio,
individuale in senso assoluto un qualsiasi ente vivente sulla Terra, se non sopravviverebbe senza
l’aria (o l’acqua se è un animale marino)? e inoltre, se un singolo ente della Terra è individuale, lo è
anche la Terra nel suo complesso?
- non è ancora chiaro quali parti siano necessarie per definire l’individualità di un ente: secondo un
celebre esempio, se ad un sacco di grano ne togliamo alcuni chicchi, è ancora un sacco di grano;
quanti è possibile toglierne, o aggiungerne, perché rimanga un sacco di grano? è il celebre
argomento del sorite (→);
- inoltre vanno chiarite le cause che hanno determinato l’essere e l’esistere di ciascun ente, problema
che rimanda alla nozione di causa (→).
Oltre a questi problemi, la nozione di ente condivide con le nozioni di essere (→) e di esistenza (→)
un notevole numero di problemi filosofici, per i quali rimandiamo a queste voci.
Entimema
Con il termine entymema (dal verbo entymeomai, che significa riflettere, trarre conclusioni)
Aristotele intende una forma di ragionamento (cioè di sillogismo: →) che parte da premesse che
sono soltanto probabili; le conseguenze non potranno che essere a loro volta probabili: ad esempio,
se si sostiene una cosa probabile come “Tutti i sapienti sono persone virtuose”, poiché Socrate è una
persona sapiente se ne può concludere che “Socrate è virtuoso”, ma solo in modo probabile.
L’entimema è quindi un ragionamento tipico del procedimento retorico, non adatto alla esposizione
della scienza.
Aristotele poi usa lo stesso termine entimema anche per indicare sillogismi scientifici, cioè basati su
premesse certe, che tuttavia vengono sottintese. Si tratta quindi di una forma abbreviata di
ragionamento: ad esempio, la frase “Quell’uomo ha la febbre, quindi non è in buona salute” è un
ragionamento corretto, ma esposto in forma breve perché la premessa maggiore (che dovrebbe
essere una frase del tipo “La febbre è in tutti i casi segno di una malattia”) è sottintesa.
Entusiasmo
In greco entheos è colui che è ispirato da un dio. In senso generale, l’entusiasmo (in greco
enthousiasmos) è quindi uno stato psichico caratterizzato da esaltazione, o soltanto emotivamente
molto intenso. In specifico, nella tradizione greca il termine indica lo stato di esaltazione che deriva
dalla presenza in sé della divinità, come avviene in certe forme di trance o nei culti dionisiaci. È
inteso in senso positivo o negativo a seconda che si avverta in sé la presenza di un dio o di un
demone, presenza cercata perché benevola o da cui liberarsi perché malvagia (in questo senso sono
interpretate alcune malattie, la cui cura passa attraverso determinate pratiche rituali).
In Platone l’entusiasmo è lo stato in cui si trova il poeta ispirato, che non sa rendere ragione di ciò
che dice perché in lui parla un dio o una Musa. Nei neoplatonici il termine è utilizzato per indicare
lo stato in cui si trova l'uomo che progredisce sulla via dell'estasi.
Epaminonda
Insieme con Pelopida, anch’egli uomo politico e capo militare tebano, Epaminonda (vissuto dal 418
circa al 362 a.C.) fu l’artefice del breve periodo di egemonia tebana sulla Grecia prima della
complessiva crisi del mondo ellenico di fronte alla Macedonia di Filippo II.
Nella battaglia di Leuttra del 371 a.C. fu infatti Epaminonda a guidare i Tebani e a sconfiggere gli
Spartani in quella che fu l’ultimo loro tentativo di imporsi sulla Grecia dopo la Guerra del
Peloponneso. L’egemonia tebana ebbe poi termine con la battaglia di Mantinea del 362, in cui lo
stesso Epaminonda trovò la morte. Tebe, senza la guida di Pelopida (già morto) e di Epaminonda
non riuscì più a imporsi benché la battaglia si fosse chiusa senza un chiaro vincitore sul campo e
quindi tutti i giochi fossero ancora aperti.
A parte la pur importante dimensione politica, Epaminonda è celebre per le innovazioni tattiche,
geniali ed efficaci per l’epoca, introdotte sui campi di battaglia: è sua l’idea del cosiddetto ordine
obliquo, un tipo di schieramento degli uomini in battaglia che dava un ruolo offensivo di primaria
importanza all’ala sinistra.
Filippo II di Macedonia visse da giovane nella Tebe di Epanimonda, e con lui si formò; le
innovazioni tattiche e strategiche che egli introdusse nell’esercito macedone (ma anche le sue
riforme in politica) sono in parte uno sviluppo di quanto aveva visto in opera in gioventù.
Epicureismo
La ricchissima produzione letteraria di Epicuro, il fondatore della Scuola Epicurea, è andata quasi
totalmente perduta. I documenti diretti che ci sono pervenuti costituiscono solo una piccola parte
di quella che sappiamo essere stata una vastissima opera. Possediamo comunque tre lettere
dottrinali, indirizzate A Erodoto (sulla fisica e sulla teoria della conoscenza), A Pitocle (sui fenomeni
atmosferici) e A Meneceo (sull'etica), che costituiscono una summa dottrinale del suo pensiero.
Queste lettere sono state conservate, assieme ad un gruppo di massime e altre brevi opere, da
Diogene Laerzio che le ha riportate nel suo Vite dei Filosofi.
Ci sono pervenute poi altre lettere, questa volta di carattere privato - di cui una alla madre -, un
gruppo di Massime ritrovate nel 1888 nella Biblioteca Vaticana, e infine alcuni papiri rinvenuti ad
Ercolano, che riportano importanti frammenti dell'opera maggiore di Epicuro, Sulla natura.
Nonostante la scarsità dei documenti, si è potuto ricostruire la dottrina epicurea, da una parte
attraverso la testimonianza di autori avversari della sua scuola, dall'altra grazie alle opere di scrittori
appartenenti al circolo epicureo. Costoro, dei quali il più illustre è sicuramente il poeta latino
Lucrezio, ci hanno riportato il il complesso della filosofia epicurea mantenendo una notevole
aderenza al pensiero del maestro; la scuola infatti, a differenza ad esempio di quella stoica, non si è
mai discostata in maniera sostanziale dall'insegnamento del suo fondatore.
Di Epicuro abbiamo scarse notizie anche dal punto di vista biografico. Diogene Laerzio ci riporta
alcuni dati che però non sono sufficienti per tracciare un profilo ampio e completo della sua figura.
Sappiamo che nasce nel 341 a.C. a Samo. Il padre vi si era trasferito come colono ma, essendo
cittadino ateniese di nascita, anche Epicuro lo è. Secondo la tradizione ha come maestri un
platonico e un democriteo, ma egli si dichiara autodidatta.
Nel 323 si reca ad Atene per il servizio militare e vi rimane per circa due anni. Si trasferisce poi
nell'isola di Lesbo dove comincia ad insegnare, ma ben presto è costretto a passare in Asia Minore,
probabilmente per motivi politici, anche se le poche informazioni che abbiamo ce lo mostrano
sempre estraneo alla vita politica.
Qui intorno ad Epicuro si forma nel 309 il primo gruppo di seguaci, ma solo alcuni anni dopo, nel
306, egli fonda ad Atene la sua scuola, detta il Giardino, dal luogo dove i discepoli e il maestro si
intrattengono - appunto un edificio e un giardino - immersi nella campagna e lontani dal caos
cittadino.
Quella di Epicuro sembra essere, più che una scuola, una comunità in cui maestro e discepoli si
raccolgono non già nella pratica degli studi e nella ricerca comune, ma nell'apprendimento e nella
conversazione di una dottrina, nell'osservanza di una regola di vita, nell'esercizio di una vicendevole
amicizia. La scuola epicurea si caratterizza quindi come una comunità unita non solo da un
comune pensiero ma anche da un profondo senso dell'amicizia (cui Epicuro attribuirà una funzione
fondamentale per la vita dell'uomo); tuttavia, nonostante questo carattere privato e quasi familiare,
essa è organizzata secondo una precisa struttura gerarchica: vi è una scala progressiva che procede
per gradi sempre maggiori di avanzamento. Un altro particolare piuttosto interessante è che
appartengono alla scuola epicurea anche donne e schiavi. La scuola epicurea in Atene sopravvive
diversi secoli e comunità epicuree sono attive in molte città greche. L'epicureismo si diffonde poi
anche nel mondo latino. Nel I secolo a.C. ne troviamo testimonianza ad Ercolano.
Qui si viene infatti formando, per opera dell'epicureo Filodemo di Gadara, una scuola che in realtà
si avvicina di più ad un circolo intellettuale di carattere comunque prettamente aristocratico. È in
questo ambito che si colloca la figura di Lucrezio.
Le notizie che abbiamo sulla vita di Lucrezio sono limitatissime. Sappiamo con certezza che nasce
nel 97 a.C.: sarebbe impazzito dopo aver ingerito un filtro d' amore, e si sarebbe poi tolto la vita
all'età di 44 anni, nel 53 a.C. Su questa presunta follia si è discusso a lungo.
Il suo poema De rerum natura si propone di presentare e divulgare la dottrina filosofica di Epicuro.
Lucrezio sembra occuparsi non tanto della parte etica - più familiare e accessibile anche alle classi
meno colte - ma di quella più difficile e ostica dell'epicureismo: la fisica (intesa secondo la
concezione antica e quindi estesa anche ai fenomeni meteorologici, ecc.). In Lucrezio tutto questo
diventa - quasi paradossalmente - poesia, una poesia che racchiude spesso una fortissima carica
emotiva e passionale.
Nel De rerum natura Epicuro viene rappresentato come lo scopritore della verità, come il salvatore
del genere umano, il liberatore dell'umanità dall'ignoranza e dalla superstizione. Dell'opera,
certamente incompleta, ci rimangono soltanto sei libri.
Dopo Lucrezio l’epicureismo ebbe ancora un certo seguito nella società greca e romana, ma più
come tendenza della cultura che come scuola a sé. Non vi furono però più figure di primo piano.
Epicuro
Vedi Epicureismo
Epilessia
A questa malattia, che in Grecia era chiamata morbo sacro ed era associata a interventi della sfera del
divino, è dedicato uno scritto specifico nel Corpus Hyppocraticum (→). Vi si dà una spiegazione in
termini scientifici delle sue cause e delle sue manifestazioni esteriori negando il rapporto con la sfera
del divino e riconducendola a cause del tutto legate alle leggi della natura.
In filosofia l’analisi che presso la Scuola di Cos i medici ippocratici condussero su questa malattia è
considerata una espressione radicale della visione laica e scientifica della medicina, che si ispirava al
razionalismo tipico del periodo. Va però ricordato che le credenze di tipo religioso su questa come
su altre malattie non vennero meno nella cultura antica.
Epimeteo
Nel mito, Epimeteo (il cui nome significa non previdente: letteralmente colui che sa dopo) è fratello di
Prometeo (il cui nome significa previdente: letteralmente colui che sa prima). Figlio del titano
Giapeto e di Asia, benché abbiano altri fratelli forma coppia con Prometeo, di cui è l’esatta antitesi.
È quindi una figura anch’essa associata, come Prometeo, alle origini dell’umanità e della sua
civilizzazione. Ma in versione negativa: per punire Prometeo, Zeus invia a Epimeteo Pandora come
sua sposa, e questi la accetta nonostante sia stato avvertito dal fratello di non farlo. Si rende così
responsabile delle disgrazie dell’umanità: per il racconto di questo mito vedi la voce Pandora (→).
Epimeteo è co-protagonista di un importante mito filosofico narrato nel Protagora platonico (vedi la
voce Protagora: →)
Epinicio
È un componimento lirico greco (vedi Lirica: →) finalizzato alla celebrazione del vincitore di una
delle gare panelleniche (vedi Panellenico: →). Data l’importanza di queste gare sportive e del
prestigio che la città del vincitore ne riceveva, gli epinici erano un momento delle molto sentite
celebrazioni che attendevano il vincitore al ritorno in patria. Composti su commissione, erano
cantati da un coro e richiamavano, oltre all’evento da celebrare, i miti legati alla famiglia del
vincitore o alla città. La definizione del genere risale al poeta Simonide (→), e celebri epinici sono
anche quelli di Pindaro (→).
Episteme
Vedi Scienza
Epitteto
Vedi Stoicismo
Epoche
Termine greco che significa letteralmente sospensione. Viene utilizzato dagli Stoici per indicare la
sospensione del giudizio di verità in tutti i casi in cui ci si trova di fronte a qualcosa di non
comprensibile. La dottrina stoica non dice che l’assenso (→) non va dato; dice solo che non ci sono
ancora gli elementi per darlo, e quindi il giudizio va sospeso in attesa che ulteriori indagini e
ricerche chiariscano.
La dottrina storica dell’epoche è quindi espressione di quella che oggi chiameremmo prudenza
scientifica. Ma già nei primi anni della formulazione delle teorie stoiche la nozione di epoche venne
estesa da altre scuole in direzione dello scetticismo: ad esempio Arcesilao di Pitane (→), scolarca
della cosiddetta Accademia di mezzo a cui diede un indirizzo scettico, sostenne che non fosse
possibile concedere l’assenso a nessuna verità, per cui l’epoche doveva riguardare ogni giudizio.
Gli scettici delle età successive, come Sesto Empirico (→), ripresero questa nozione e la applicarono
alla loro visione scettica anche su temi etici. Sostennero che per ciascuna di quelle che le altre scuole
filosofiche consideravano verità era possibile costruire convincenti ragionamenti a favore e contro,
per cui la ragione discorsiva dell’uomo è costretta a non dare l’assenso a nessuna verità: l’epoche porta
all’aphasia, il silenzio (→) degli Scettici.
Epos
È il termine greco per indicare la poesia epica, cioè i componimenti poetici e musicali che riguardano
le antiche storie degli dèi e degli eroi, il cui modello sono per noi l’Iliade e l’Odissea.
Benché nell’epos trovino posto elementi del folkore (→), ad esempio nel racconto che nell’Odissea
Ulisse fa ai Feaci sugli incontri avvenuti nel corso delle peregrinazioni legate al suo viaggio di
ritorno da Troia, di fatto l’epos non appartiene interamente al genere della cultura popolare, anche se
si rivolge in effetti a tutti e delle tradizioni popolari riprende molto, perché i poeti epici hanno
fortemente selezionato i materiali della cultura popolare (i racconti, i “miti”) dando loro una certa
coerenza (poetica, ma anche religiosa) e abbandonando per lo più gli aspetti magici.
Nella sua Poetica Aristotele accosta del resto l’epos alla tragedia su due aspetti: la serietà dei temi
trattati e la narrazione culturalmente elevata del mito.
Equilibrio / Disequilibrio
L’immagine della natura che emerge da diverse filosofie naturaliste del VI e del V secolo a.C.,
nonché da quelle elleniste (in particolare dall’Epicureismo e dallo Stoicismo) è legata al gioco delle
forze che si bilanciano in modo dinamico. In estrema sintesi, ciascun ente e ciascun evento, pur
concepiti e spiegati in modo diverso da queste filosofie, in tutte sono il prodotto instabile e in
perenne mutamento del conflitto tra forze. Nel punto di equilibrio un ente prende forma, nel
momento del disequilibrio delle forze l’ente muta.
Ad esempio per i filosofi naturalisti e per i materialisti è il gioco tra equilibrio e disequilibrio delle
forze a determinare la vita degli enti; ad esempio per Empedocle l’equilibrio nasce e ha termine per
l’azione di forze cosmiche contrapposte a cui vengono attribuiti nomi divini (come Afrodite e Neikos:
→) che agiscono sui quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco) di per sé inerti; per il materialismo
epicureo sono i movimenti contrapposti e in parte casuali degli atomi; e così via.
Eracle
Tra gli eroi greci – figure umane, ma in stretto contatto con il mondo degli dèi – Eracle è uno dei
più popolari, e il complesso delle vicende che lo vedono protagonista si arricchisce, secolo dopo
secolo, fino alla tarda antichità. La vitalità di questa figura sta in alcune caratteristiche, che la resero
capace anche di attrarre l’interesse dei filosofi: oltre ad aneddoti di rilievo filosofico che lo
riguardano (come il celebre “Eracle al bivio” su cui riflette il sofista Prodico di Ceo: →), Eracle è
anche una delle figure che i Cinici prendevano a modello perché incarnava il loro ideale di
autosufficienza.
La prima di queste caratteristiche è la sua capacità di affrontare lotte e fatiche immani: tradizionali
sono le “dodici fatiche” in seguito alle quali venne accolto tra le divinità e ottenne l’immortalità (e
quindi il culto, variamente diffuso tra la Grecia e la Magna Grecia). La seconda caratteristica è la
sua fortissima volontà, che lo portava ad accettare qualsiasi sacrificio per ottenere i suoi obiettivi.
Eracle incarnava in effetti ideali aristocratici che i Greci apprezzavano molto (ed era un uomo, non
un dio, benché alla fine delle sue fatiche sia stato accolto fra gli immortali): la passione per
l’avventura individuale, la capacità di soffrire per i propri obiettivi e di prepararsi per essere capaci di
ottenerli, l’inestinguibile volontà di superamento dei propri limiti.
Eracle al bivio
Vedi Prodico
Eraclide Pontico
Nato intorno al 390 a.C. ad Eraclea Pontica, dove morì nel 310 circa, Eraclide Pontico visse però
gli anni centrali della sua vita ad Atene, presso l’Accademia, di cui fu anche scolarca nel corso del
terzo viaggio di Platone a Siracusa. Un decennio dopo la morte di Platone, tornò a Eraclea Pontica,
dove fondò una scuola.
Benché si sia occupato, come altri accademici, di una molteplicità di ricerche filosofiche (dalla
geometria alla retorica, dalla cosmologia alla politica) e sia anche stato autore di romanzi (oggi
perduti), Eraclide Pontico deve la sua fama ad una ipotesi cosmologica originale (vedi la voce
Eliocentrismo), diversa da quella elaborata da Eudosso di Cnido (→) negli stessi anni all’Accademia:
Eraclide sostiene che Mercurio e venere ruotano intorno al Sole, e che ciascun pianeta è un mondo
a se stante, formato di terra e d’aria.
Questa teoria cosmologica venne citata da Copernico che considerò Eraclide Pontico un suo
predecessore.
Eratostene di Cirene
Scienziato greco, Eratostene nacque a Cirene intorno al 280 e morì ad Alessandria d’Egitto intorno
al 195 a.C. Nel periodo della sua formazione fu allievo della scuola stoica di Zenone ad Atene, ma
anche dell’Accademia di Arcesilao e del Liceo, poi divenne direttore della Biblioteca di Alessandria
come successore di Apollonio Rodio.
La sua opera scientifica si è indirizzata in quattro campi diversi:
- in astronomia il risultato di maggiore importanza da lui ottenuto fu la misurazione quasi esatta
della circonferenza terrestre, ottenuto con un metodo geometrico su base astronomica;
- in geografia Eratostene fu il primo a proporre una carta geografica delle terre emerse in cui i mari
erano tutti collegati tra loro (il che consentiva di proporre una nuova teoria per le maree) e la
superficie terrestre veniva rappresentata mediante un reticolo di meridiani e di paralleli; l’opera
geografica in cui erano raccolti i suoi studi era la Geografia, in tre libri;
- in matematica propose metodi originali per il calcolo, e l’opera matematica più importante ha per
titolo Sulle medie proporzionali;
- nel campo della cronologia, Eratostene è l’autore di un’opera, Cronografie, in cui pone le basi
scientifiche per la cronologia (→) storica.
Come altri studiosi alessandrini, Eratostene aveva interessi enciclopedici, e scrisse opere di storia
letteraria, di mitologia ed altro. Ma tutte le sue opere, salvo frammenti, sono perdute.
Erinni
Divinità primordiali, nella Teogonia (→) di Esiodo le Erinni sono figlie di Urano, più esattamente
del suo sangue caduto sulla terra al momento del ferimento da parte di Crono.
Il loro numero, originariamente indefinito, venne poi fissato in tre. Sono raffigurate come esseri
femminili terribili, alate, coi capelli intrecciati a serpenti, le mani che tengono fruste o altri
strumenti con cui possono torturare le loro vittime.
Il loro nome significa letteralmente “le irate”, anche se è nell’uso anche un nome dal significato
opposto, cioè Eumenidi, “le benevole”, usato per lusingarle (ma Eschilo nell’omonima tragedia
racconta una storia diversa: vedi la trama dell’Orestea: →). La ragione della loro ira è soprattutto
l’assassinio di un parente: le Erinni perseguitano il colpevole implacabilmente, con la stessa
implacabilità della Moira, senza che neppure gli dèi, neppure Zeus, abbiamo la possibilità di
intervenire. Sono quindi divinità terribili, ma protettrici dell’ordine sociale. Fanno parte di una
arcaica concezione della giustizia, e in questo senso sono associate a Dike (→) come custodi
dell’ordine cosmico.
Erissimaco
Figlio di un medico e medico egli stesso molto noto nell’Atene della fine del V secolo a.C., legato
alle tradizioni mediche e filosofiche dei naturalisti, è un personaggio del Simposio di Platone, in cui
pronuncia un discorso che riprende teorie di alcuni di essi come Eraclito ed Empedocle. Citato in
altri dialoghi platonici (Protagora e Fedro), è presentato come uno stimato professionista, misurato
nei toni e ben padrone di sé (la sera del simposio platonico sta lontano dagli eccessi e va via presto,
finiti i discorsi), ma perfettamente a suo agio nell’ambiente del simposio, a cui si accosta con spirito
sereno.
Il discorso di Erissimaco nel Simposio platonico
Erissimaco dà inizio al suo discorso accettando la distinzione tra le due forma d’amore proposte da
Pausania (→). Prosegue però non tanto sviluppando questo tema, quanto mostrando come Eros
intervenga in tutti i campi con una funzione di bilanciamento tra contrari, che richiama le filosofie
naturalistiche (e in specifico Eraclito, Empedocle e Anassagora). Erissimaco pone al centro del suo
discorso la sua arte medica, mostrando come sia la salute del corpo sia quella dell’anima dipendano
dall’armonia tra i contrari, garantita proprio da Eros. C’è quindi un troppo anche nell’amore, che va
evitato. Torna qui il discorso dei due Eros, perché l’Eros Pandemio tende all’eccesso e va
controllato.
Eristica
Dal verbo erizo (che significa contendo, disputo) l’eristica è l’arte del dialogare con l’obiettivo di far
prevalere la propria tesi su quelle degli altri con qualsiasi mezzo a disposizione, indipendentemente
dal fatto che gli argomenti utilizzati siano validi o meno, veri o falsi, coerenti o contraddittori. È
quindi un’arte legata al dominio degli altri attraverso la parola, e per nulla uno strumento di ricerca
in comune della verità. Coerentemente, va contrapposta nettamente ad un’altra arte del dialogare,
cioè la dialettica, che ha di mira la ricerca della verità. (→)
Diogene Laerzio (→) chiama eristici per antonomasia i filosofi della scuola megarica (vedi
Megarici: →), perché utilizzavano il linguaggio in modo da sottolinearne l’ambiguità e la possibilità
di attribuire alle parole, e più in generale al discorso, significati diversi. L’eristica in questo senso
non è contrapposta alla dialettica, ma è solo l’arte di argomentare in modo da sfruttare tutte le
potenzialità del linguaggio.
Ermafrodito
La mitologia greca conosce diverse figure insieme maschili e femminili, e il termine ermafrodito è
genericamente utilizzato per indicarle (esiste però anche un figlio di Afrodite e di Ermes in cui il
termine è utilizzato come nome proprio).
La figura dell’ermafrodito compare in un passo importante dio Platone, di complessa
interpretazione. Nel discorso che il personaggio-Aristofane pronuncia nel Simposio platonico la
figura dell’ermafrodito è richiamata per indicare la natura originaria dell’uomo, in cui il maschile e il
femminile non si sono ancora differenziati (lo saranno a causa di una colpa commessa contro gli dèi:
la differenza di genere è quindi una punizione voluta da Zeus, anche se nel mito aristofanesco la
punizione consiste piuttosto nell’essere divisi da se stessi).
Erme
Nella Grecia del periodo classico le erme erano pilastrini sormontati dal volto del dio Ermes (da qui
il nome) che si ponevano in segno di augurio e protezione in luoghi particolari (davanti le case, ai
crocicchi stradali, ai confini tra le proprietà) perché Ermes era il dio che proteggeva sia i viandanti
che la proprietà. In epoche successive e a Roma divennero un elemento puramente ornamentale, e al
volto del dio si sostituì il ritratto di personaggi famosi. Ma in età classica il valore religioso delle
erme, e il loro significato di protezione, era molto vivo. Va tenuto conto di questo per valutare
l’impressione che fece ad Atene nel 416 a.C. la scoperta che, prima della spedizione navale contro
Siracusa (si era al tempo della Guerra del Peloponneso), un gran numero delle erme cittadine erano
state sistematicamente mutilate.
Nei processi che seguirono venne accusato anche Alcibiade (→). A quanto sembra l’iniziativa era
stata presa da un gruppo di aristocratici che intendevano impedire la partenza della spedizione in
Sicilia. A soffiare sul fuoco furono ambienti democratici, perché l’episodio (che venne collegato ad
altri gesti sacrileghi) apparve legato ai circoli antidemocratici.
L’episodio nel suo complesso segnala il clima estremamente teso nell’Atene di quegli anni, subito
prima della disfatta contro Siracusa e degli altri episodi che portarono alla sconfitta nella Guerra del
Peloponneso e agli episodi di violenza politica interna connessa che ne seguirono (vedi Guerra del
Peloponneso: →).
Erodoto
Erodoto (vissuto approssimativamente tra il 484 e il 430 a.C.) è originario di Alicarnasso, città
della Caria (regione ai confini del mondo greco), da famiglia greca imparentata con uomini di
stirpe caria. Sin da giovane, quindi, sebbene allevato nella cultura greca, dovette conoscere a fondo
il mondo dei cosiddetti "barbari", che nella sua opera descriverà poi con grande interesse e con
acuto spirito di osservazione. Spinto da circostanze politiche, ma anche dalla propria curiosità e
animato dal desiderio di osservare di persona i paesi di cui intendeva scrivere la storia, viaggiò a
lungo in Oriente e in Occidente: Egitto, Mesopotamia, Macedonia, e così via. Ebbe poi un
rapporto privilegiato con Atene, città in cui ritornò diverse volte, e soprattutto con Pericle, con cui
intrattenne rapporti di amicizia. Quando questi volle fondare la colonia panellenica di Turi nel
444-443, in Italia meridionale, Erodoto - insieme con diversi altri intellettuali della cerchia periclea
- vi si recò collaborando alla fondazione (nelle Storie egli parla di sé come Erodoto di Turi).
Erodoto è erede dello spirito ionico di osservazione e di ricerca, ma anche di quella tradizione
marinara dalla quale derivano i poemi omerici. Le sue Storie sono scritte in prosa, come richiedeva la
cultura del suo tempo, lontana dalla poesia di tipo omerico - ormai arcaica per i Greci del V secolo ma rispondono a uno scopo analogo. Esse trattano delle guerre persiane, il grande scontro tra il
mondo greco e a quello persiano. Erodoto decide di scrivere perché con il tempo non vada perduta
la memoria degli avvenimenti accaduti e delle gesta grandiose degli uomini: che esse non rimangano
senza gloria.
Già dalle fonti antiche Erodoto è considerato, secondo un'espressione di Cicerone, il "padre della
storia". Con questo non si deve intendere che nessuno prima di lui in Grecia abbia composto
narrazioni riguardanti gli avvenimenti del passato o contemporanei, o le storie tramandate dei
popoli. C'erano stati infatti i cosiddetti logografi (→), narratori di logoi, le storie riguardanti questo
o quel popolo, questa o quella città. Erodoto però rinnova profondamente questa tradizione,
inserendo le singole narrazioni, i logoi, in un contesto unitario, che dà senso a ciascuna nell'ordine
generale del divenire storico. È questo sguardo complessivo - unito alla personale minuziosa ricerca
delle informazioni e alla loro verifica - la profonda novità: ciascun avvenimento è interpretato alla
luce del movimento complessivo della storia che unisce popoli e nazioni.
Eroe
In epoca Micenea, e l’eco di queste antiche tradizioni era ancora fortemente presente nella
tradizione culturale dell’età arcaica, gli eroi erano figure a metà strada tra l’umano e il divino, perché
erano figli di un dio e una donna (o di una dea e un uomo), oppure perché erano uomini divinizzati
e resi immortali per intervento di un dio, come accadde ad Eracle (→). In genere agli eroi si
riservava un culto specifico, per lo più presso il luogo della loro sepoltura, dove sorgeva l’heroion, un
tempietto presso cui si svolgevano riti per lo più ctoni.
La funzione di questi eroi era di tipo molto diverso a seconda della loro figura. Per lo più era legata
ai racconti mitici di fondazione, con cui ciascuna comunità faceva risalire a un eroe la propria
origine (eroe eponimo), oppure alle origini di determinate popolazioni (l’eroe in questo caso era
venerato come un antenato comune), oppure di determinati riti o istituzioni civili, economiche, o
sportive (le Olimpiadi erano fatte risalire ad esempio ad Eracle).
Nell’epos gli eroi hanno un rapporto particolare e diretto con gli dèi, con cui sono in contatto spesso
attraverso la parola e la presenza diretta.
Eros
Il termine eros, che traduciamo con amore, ma è presente anche in italiano, si riferisce nel mondo
greco ad una specifica divinità del mito, e allo stesso tempo a varie forme di amore e di sessualità.
Nel mito
Nella mitologia greca, e quindi in specifico nell’epos (vedi la Teogonia di Esiodo: →), Eros è un dio
primordiale, che emerge dal Caos all’inizio del processo di generazione di tutti gli esseri. È una
divinità cosmica, connessa al ciclo delle generazioni e responsabile della coesione del tutto. Lega tra
loro le diverse componenti del Cosmo con legami d’amore, inteso alle origini non come un
sentimento, ma come una forza che spinge alla generazione.
Invece presso i poeti lirici e tragici, Eros è il dio associato sì alla generazione, ma anche e soprattutto
all’amore come passione, come forza che si impadronisce di uomini e donne e li domina: una delle
possenti forze della natura di cui chi si innamora fa esperienza non sempre felice.
In altri racconti mitici la sua origine è diversa, ma un po’ in tutti è associato ad Afrodite (spesso è
detto suo figlio). La raffigurazione come fanciullo che gioca è tarda, del periodo ellenistico, quando
il carattere duro e dominante di Eros cominciò a cedere il posto a narrazioni poetiche più lievi (per
esempio nella favola ellenistica di Amore e Psiche: →). L’associazione con l’arco e la freccia è invece
più antica: Eros incendia i cuori, colpisce con le frecce chi vuole.
In epoca arcaica e classica nella figura di Eros si rispecchiamo quindi due esperienze:
- l’esperienza dei legami cosmici, che tengono unito il cosmo in tutte le sue componenti umane e
divine;
- l’esperienza intima e personale dell’innamoramento, nella sua dimensione misteriosa e irrazionale,
in cui i Greci hanno riconosciuto un tratto legato alla sfera del divino.
“Le unioni di Cielo e Terra restano paradigmatiche. Nel piacere come nella procreazione, l’amore
congiunge gli uomini all’azione delle potenze divine che hanno assicurato la nascita e la formazione
del mondo e che – presenti in ogni angolo dell’universo – contribuiscono ancora oggi a conservarlo
in tutto il suo essere. L’amore ha il potere di donare all’uomo il sentimento di partecipazione alla
vita divina del cosmo e ai suoi ritmi” (Rudhardt 1986, p. 48)
Sulla complessità dei suoi rapporti con Afrodite, e quindi sul suo ruolo, vedi la voce Afrodite.
Nella filosofia
La figura di Eros, tra quelle della mitologia, è centrale in diversi luoghi della filosofia antica,
secondo concezioni molto diverse tra loro. Citiamo alcuni esempi:
- ha un ruolo cosmico in filosofie come quella di Empedocle (nella forma della philia, cioè
dell’amicizia, che è la forza che unifica ciascuno dei quattro elementi cosmici, l’acqua l’aria, la terra e
il fuoco) e di Aristotele (è la forza che muove i Cieli verso il motore immobile);
- ha un ruolo cosmico e insieme psichico in Platone, che nel Simposio elabora vari miti, tra cui uno
“narrato” dalla sacerdotessa Diotima secondo quanto riferisce Socrate, in cui Eros è un demone
mediatore tra l’umano e il divino, e quindi passione che lega le anime e le indirizza verso il superiore
mondo della Bellezza.
Plotino poi sviluppa in una direzione originale i racconti mitici di Platone offrendo una prospettiva
per l’Eros che sarà fatta propria dalle filosofie cristiane medioevali, che vedranno nell’amore una
delle relazioni fondamentali tra Dio e l’uomo (o meglio tra creatore e creatura).
I problemi filosofici
Diversi problemi filosofici sono connessi alla figura di Eros, in modo sia diretto (riguardo all’amore
e al desiderio sessuale come forza universale legata alla vita che spinge alla generazione) sia
indiretto, attraverso le immagini del mito.
Il problema centrale nasce dal fatto che Eros incarna una precisa forza della natura (la potenza della
sfera sessuale e la forza fisica e psichica che porta ai molti fenomeni dell’innamoramento) che è
legata alla nascita della vita, ma anche al ciclo della vita, e quindi alla morte. Chiedersi da dove
derivi la potenza di Eros significa quindi porsi i più alti interrogativi sulla vita e sulla morte,
compresi quelli relativi al senso di tutto questo.
Inoltre Eros, in quanto forza, appartiene al regno della natura e lega l’anima e non solo il corpo in
una rete di passioni che la dominano: forza dominante, appare però anche forza liberante, perché
spinge l’anima verso sentieri che altrimenti non batterebbe. Da dove deriva questa doppia tentenza,
dominante e liberante?
Errore
Nelle teorie della conoscenza e in logica l’errore (in greco pseudos) indica una proposizione falsa, o
meglio il giudizio errato su una proposizione; in etica è un comportamento che non risponde ai
princìpi etici accolti come modello.
Nell'ambito della filosofia l'errore è inteso in diversi modi, accomunati dal fatto che ci si trova
comunque in presenza di un'idea, di un giudizio, di una proposizione, o comunque di una forma del
pensiero e/o della sua espressione in cui vi è una contraddizione che è insuperabile, almeno senza
modificare gli elementi di ciò di cui si parla. Ma che cosa debba intendersi per errore, dipende
naturalmente da che cosa i filosofi intendono per verità (→).
Uno dei problemi affrontati in filosofia è lo studio della genesi degli errori. Se ne occupano diversi
filosofi (Platone mette a tema questa ricerca nel Sofista, Aristotele nel IV Libro della Metafisica,
Epicuro e gli Stoici nelle loro opere logiche, e così via). Il tema è al centro dell’attenzione anche
delle scuole socratiche, soprattutto della Scuola Megarica, e delle varie correnti dello scetticismo. Il
problema affrontato ha molti aspetti:
- si tratta innanzitutto di capire che cosa sia l’errore, come lo si riconosca, quale facoltà dell’uomo sia
implicata nella sua produzione;
- si tratta poi di capire come imparare dagli errori, e come volgerli a scopi utili all’uomo, sia sul
terreno del giudizio sulla verità, sia sul terreno dei comportamenti.
Va in ultimo ricordato che Aristotele indica nell’essere vero o falso (pseudos) uno dei quattro
significati dell’essere (Metafisica, IV, 64 e VI, 4))
Eschilo
Nato ad Eleusi intorno a 525 a.C., Eschilo apparteneva ad una nobile famiglia e visse ad Atene
negli anni cruciali della nascita e del consolidarsi della democrazia. Forse legato ai misteri eleusini
(ma nella sua opera questo tratto non appare), accettò gli sviluppi della democrazia ateniese e ne
riflesse nelle sue tragedie i valori. Sappiamo che partecipò alle più importanti battaglie delle Guerre
Persiane (combatté a Maratona nel 490 a.C., a Salamina nel 480, a Platea nel 479) e che ottenne i
primi riconoscimenti per la sua arte drammatica soltanto nel 485, cioè intorno ai quarant’anni, come
si ricava dai dati della stele nota come Marmo Pario (→).
Fu due volte in Sicilia, alla corte del tiranno Ierone di Siracusa, dove sembra sia entrato in contatto
con i circoli pitagorici. Nel corso del suo ultimo viaggio nell’isola morì a Gela, nel 456 o 455 a.C.
È stato uno dei massimi tragediografi di ogni tempo, e della sua vastissima produzione
(probabilmente superiore alle settanta opere) ce ne rimangono solo sette. Una di queste, l’Orestea
(→), è l’unica trilogia completa che ci sia rimasta dell’intera produzione tragica antica. Le altre
tragedie giunte fino a noi sono Le supplici, Prometeo incatenato, I Persiani e I Sette contro Tebe.
Abbiamo anche in certo numero di frammenti di altre tragedie e di alcuni drammi satireschi (vedi la
voce Teatro greco). Riportò 13 volte la vittoria nelle rappresentazioni tragiche (vedi la voce Teatro
greco: →).
Risale ad Eschilo l’accentuazione del ruolo del dialogo tra i personaggi rispetto al coro. E fu
probabilmente lui a fissare in modo definitivo per il V secolo a.C. la struttura delle tragedie.
Esempio
L’esempio (in greco paradeigma) è per Aristotele “una induzione apparente o retorica che muove da
un enunciato particolare passando attraverso un enunciato generale in cui la prima premessa viene
generalizzata” [Abbagnano 1998]
Nei testi filosofici gli esempi sono usati abitualmente, tanto nella filosofia antica quanto in quelle
successive, come una forma di esposizione di nozioni filosofiche e di argomentazione di una tesi.
L’esempio chiarisce e aiuta la comprensione perché costruisce un ponte tra il caso particolare e
l’universale o tra casi analoghi.
Sotto lo stesso termine esempio – che spesso è una narrazione o una indicazione testuale o di un dato
d’esperienza o di altro dato individuale – si indicano però due distinte operazioni della mente:
- chiamiamo infatti esempio il caso particolare di una teoria universale: l’operazione mentale in gioco è
il passaggio tra l’universale e il particolare, tra il concetto e la cosa, e dunque tra il piano intellettivo
e quelli della sensibilità e dell’immaginazione (la mente passa così dal concreto all’astratto);
- chiamiamo egualmente esempio l’analogia, cioè il passaggio da un concetto ad un altro concetto, o
da un dato a un altro; l’operazione mentale che viene richiesta in questo caso è diversa, perché si
tratta di passare attraverso un elemento comune da un elemento all’altro della stessa sfera di
pensiero, d’esperienza, d’immaginazione, o intellettiva che sia, o di incrociare i piani tenendoli
insieme quando l’analogia lo richiede perché il caso esaminato tiene insieme i vari piani (la mente in
questo caso resta nell’ambito in cui si trovava prima dell’esempio, concreto o astratto che fosse
questo ambito precedente).
Esercizi spirituali
Le scuole ellenistiche indicavano nella pratica dell’askesis, cioè dell’esercizio costante e continuo del
proprio spirito, lo strumento chiave per una vita felice.
Il principio base è dato dal fatto che la vita umana è considerata da queste scuole positivamente, ma
non ingenuamente: il dolore e l’errore sono in agguato ogni momento, ed eventi positivi e negativi si
susseguono, in piccola parte sotto il nostro controllo, in una parte molto maggiore del tutto al di
fuori. Semplicemente, non dominiamo il corso del mondo, ma ci siamo dentro, subendone le
vicende che si snodano nell’orizzonte degli eventi. Dominiamo però noi stessi, o meglio possiamo
dominare noi stessi, in modo da inquadrare gli eventi nel loro corretto contesto e valutarli quindi
correttamente. Le scuole ellenistiche si dividono su quale sia questo giusto contesto (Epicurei e
Stoici si affidano a una precisa scienza della natura e della mente, diversa per le due scuole, gli
Scettici negano ogni scienza e quindi ogni possibilità di valutare positivamente e negativamente il
mondo, e così via), ma tutte concordano sul fatto che bisogna imparare a valutare correttamente (o
non valutare affatto, cosa anche più difficile).
Gli esercizi spirituali (askesis) sono pratiche, spesso quotidiane, per imparare a farlo e tenersi in
continuo allenamento: che qualsiasi cosa accada – davvero qualsiasi, senza eccezioni, anche la più
terribile – ci trovi pronti. Ad esempio per gli stoici “l’atto filosofico non si situa solo nell’ordine della
conoscenza, ma nell’ordine del “Sé” e dell’essere: è un progresso che ci fa essere più pienamente, che
ci rende migliori. È una conversione che sconvolge la vita intera, che cambia l’essere di colui che la
compie. Lo fa passare dallo stato di una vita inautentica, oscurata dall’incoscienza, allo stato di una
vita autentica, dove l’uomo raggiunge la coscienza di sé, la visione esatta del mondo, la pace e la
libertà interiori. Per tutte le scuole filosofiche, la principale causa di sofferenza, di disordine, di
incoscienza, per l’uomo, è costituita dalle passioni: desideri disordinati, timori esagerati. Il dominio
della cura, delle preoccupazioni, gli impedisce di vivere veramente. La filosofia appare dunque in
primo luogo come una terapia delle passioni (…). Ogni scuola ha il metodo terapeutico suo proprio,
ma tutte collegano questa terapia a una trasformazione profonda della maniera di vedere e di essere
dell’individuo. Gli esercizi spirituali avranno precisamente lo scopo di realizzare tale trasformazione”
(Hadot 2002, pp. 31-32).
La nozione di askesis gioca un ruolo tutto particolare nella filosofia dei Cinici (→), che concepiscono
la vita stessa come un costante esercizio per imparare ad essere se stessi qualsiasi cosa accada, e
associano al continuo esercitarsi una particolare fatica (in greco ponos) del vivere, che rende però
liberi.
Esiodo
Esiodo, il secondo poeta epico di cui ci siano rimaste le opere dopo Omero, è vissuto nella Beozia
dell’VIII-VII secolo a.C.. Non abbiamo dati certi sulla sua vita a parte quelli che si desumono dalle
sue opere, in cui a volte fa accenni autobiografici. Dice il proprio nome e racconta qualche evento, e
questa è già di per sé una novità rispetto ai cantori della tradizione omerica, in cui il poeta non parla
mai di se stesso.
La famiglia era originaria di Cuma, in Asia Minore, e il padre si era poi stabilito ad Ascra dove
presumibilmente il poeta nacque. La tradizione vuole che sia morto ad Ascra e sia stato sepolto ad
Orcomeno.
Di lui sappiamo ancora che era un rapsodo e che adottò per le sue opere la lingua dei poemi omerici,
lo ionico letterario. Partecipò a gare poetiche e una volta vinse un premio a Calcide in Eubea.
Di lui ci rimangono la Teogonia (→) e Opere e giorni (→), un’opera dedicata alla vita dei campi e alle
pratiche di coltivazione, nonché alle regole di condotta da tenersi. Al contrario di Omero, che è
espressione della vita eroica e militare, nonché del mondo dei viaggi in mare, Esiodo è espressione
del mondo contadino.
Esistenza
Dal latino ex-sistere, “venir fuori”, “mostrarsi”. Riferita a un ente, l’esistenza è il fatto che un ente c’è.
Benché intuitivamente il termine designi una nozione di immediata evidenza (l’esistenza è il
carattere generale di tutto ciò che, semplicemente, c’è), è molto dibattuta la questione della
definizione filosofica di esistenza, perché
- l’esistere implica sempre un essere in altro (ciò che c’è, è in un mondo, non in se stesso: è se stesso
in un mondo) ed è dunque difficile comprendere che cosa significhi che qualcosa esiste, visto che
l’esistenza sembra non essere un fatto assoluto, ma relativo al Tutto di cui ciò che esiste è parte (ci
sono dunque diversi gradi di esistenza? uno riferito a ciascun ente, uno al Tutto? ma l’esistenza può
avere dei gradi?);
- l’esistenza (o la non esistenza) è un fatto, ma è difficile comprendere quale ne sia il senso; questo
tema si connette al più generale problema del senso dell’essere, nel contesto del problema dell’essere
(→).
Va precisato che questi problemi sono presenti nella filosofia greca, ma rientrano nelle complesse
questioni riguardanti l’essere. Una specifica problematica dell’esistenza separata da quella dell’essere
è in filosofia posteriore al pensiero greco.
Esoterico / Essoterico
Vedi Acroamatico
Esperienza
Il termine greco è empeiria, da cui l’aggettivo italiano empirico.
Il significato del termine
Chiamiamo esperienza l’insieme delle conoscenze del mondo esterno ed interno che manteniamo
nella mente mediante la memoria: in questo senso chiamiamo conoscenza empirica un’informazione
acquisita attraverso i sensi in contrapposizione ad altri tipi di conoscenze (ad esempio quella
puramente razionale della geometria, almeno nel modello fissato dagli Elementi di Euclide (→):
secondo questo modello non si ricorre mai a conoscenze empiriche per le definizioni e le
dimostrazioni, ma solo per le visualizzazione grafiche).
In questo stesso senso diciamo esperta una persona, quando ha accumulato molta esperienza (va
sottolineato che l’esperienza senza memoria (→) e senza riflessione (→) non genera questo tipo di
accumulo).
Come si vede dal termine esperto, l’acquisizione di informazioni dal mondo esterno o interno
richiede una elaborazione tutta interna, perché ciascuna informazione va connessa con quelle che il
soggetto conoscente già possiede. A titolo di esempio, si prenda il caso di una esperienza fatta per la
prima volta ed una invece che si è ripetuta diverse volte: la prima volta una esperienza può richiedere
una riconversione globale delle proprie convinzioni e del proprio sapere, e provocare ritorni emotivi
forti, per la mancanza di abitudine (è solo un esempio e non si può generalizzare: si possono pensare
controesempi, in cui è la ripetizione di esperienze, positive o negative, a generare ritorni emotivi
forti, in presenza o meno del fenomeno dell’abitudine).
Dunque:
- ciascuna esperienza si lega nell’interiorità della mente ad altre esperienze, e questo accade in molti
modi;
- ciascuna esperienza ha un suo tono emotivo, e non è mai priva di legami con la sfera delle
emozioni.
Per conseguenza non si può parlare di esperienza solo sotto il profilo della conoscenza: ogni
esperienza richiede alla mente pensante un impegno in termini di elaborazione sia cognitiva che
emotiva.
I problemi filosofici
Nella filosofia greca la nozione di esperienza è stata al centro della ricerca filosofica sin dalle origini,
in particolare a partire da Eraclito e Parmenide, e tutte le scuole filosofiche successive e i singoli
pensatori hanno preso posizione e svolto in questo campo specifiche ricerche.
I problemi esaminati dai filosofi antichi in estrema sintesi riguardano:
- i modi in cui si forma l’esperienza attraverso i sensi e in cui la mente sistema ciascuna esperienza in
rapporto alle altre; ad esempio: se gli oggetti d’esperienza sono materiali, come avviene il passaggio
alla formazione di una immagine mentale, non essendo quest’ultima di carattere materiale, pur
riferendosi ad un corpo materiale?
- il rapporto tra conoscenza empirica e conoscenza intellettiva (vedi Intelletto: →), ad esempio in
problemi del tipo: come si passa da una conoscenza empirica, sempre individuale, ad una
intellettiva, sempre generale? oppure: nel caso, molto comune, che le informazioni empiriche
contraddicano le conoscenze intellettive, e viceversa, a quale facoltà della mente concedere l’assenso?
ai sensi o all’intelletto?
- molti filosofi (da Parmenide agli scettici, ma non solo: anche in Platone ad esempio c’è un
problema di questo tipo) hanno messo in dubbio la capacità dei sensi di restituirci una immagine
attendibile del mondo esterno e interno, perché la conoscenza sensibile è sempre e inevitabilmente
soggettiva (perché è sempre un soggetto a conoscere un oggetto, restando comunque soggetto) e
parziale (del mondo abbiamo sempre una esperienza limitata nel tempo e nello spazio, e non
abbiamo esperienza dell’estremamente piccolo): ci si può fidare di quanto ci dice? il mondo è
realmente come sembra?
- anche se si ritiene di potersi fidare delle informazioni dei nostri sensi, resta il fatto che l’esperienza
stessa dice che è molto facile sbagliarsi, per poi correggersi (celebre l’esempio del bastone che appare
spezzato se è a metà nell’acqua, o del pilastro quadrato che appare tondo se visto da lontano); in casi
come questo il problema è dunque duplice: qual è la causa dell’errore (→)? è sempre possibile
accorgersene e, se sì, è sempre possibile correggerlo?
Essenza
Il termine è di origine latina, essentia, con cui gli scrittori romani traducono l’espressione greca ti
estin, che letteralmente significa che cos’è. E proprio questo indica innanzitutto il termine essenza: la
risposta alla celebre domanda socratica “Che cos’è?”
L’essenza è quindi l’elemento qualificante (o l’insieme degli elementi qualificanti) l’oggetto del
nostro studio: è quel che lo identifica. Nella filosofia il termine ha finito con l’essere usato come
sinonimo del termine sostanza (→), anche a causa del rilievo che la teoria della sostanza ha avuto
nella filosofia di Aristotele. Ma mentre quello di sostanza è concetto tipicamente aristotelico (nel
mondo greco: dal Medioevo in poi ha vita del tutto indipendente), quello di essenza è più generale,
perché ammette risposte molto diverse da quelle aristoteliche alla domanda “che cos’è?”.
Potremmo quindi dire che mentre sostanza è un termine tecnico della filosofia aristotelica, e non è
utilizzato dalle scuole che non accolgono la sua teoria della sostanza (ad esempio le scuole
ellenistiche), quello di essenza è invece utilizzato perché corrisponde ad una esigenza generale della
filosofia: definire e identificare l’oggetto del discorso. Ma non è esattamente così: l’espressione greca
ti esti, che cos’è, non è un termine tecnico in nessun modo, se non in quanto richiama l’essere. È
quindi quest’ultimo termine ad avere una storia nella filosofia greca: essenza è piuttosto un termine
latino, la cui storia rimanda al Medioevo piuttosto che al mondo greco.
Essere
Questo termine – in greco einai – ha diversi significati e una storia complessa nella lingua greca.
Nei testi filosofici greci i vari significati del termine sono:
- come verbo sostantivato (l’uso è per la prima volta in Parmenide), indica il Tutto: non l’insieme di
tutte le cose, cioè degli enti, ma il Tutto inteso come unità, che Parmenide considera indivisibile e
immutabile; il concetto è quindi simile e allo stesso tempo diverso rispetto ad altri termini (come il
Logos degli Stoici, l’Uno di Plotino) utilizzati da quei filosofi che considerano la realtà come un
Tutto;
- come verbo che indica identità in una definizione o come copula, ed ha quindi un uso puramente
logico-linguistico che non rimanda a una qualche forma di realtà;
- come verbo usato come sinonimo di esistere (vedi la voce Esistenza: →): la dizione “c’è” riferita a
un soggetto dice che l’ente indicato come soggetto esiste;
- come verbo che indica il carattere proprio di un ente in riferimento alla sua essenza, ad esempio
nella ricorrente domanda “che cos’è?” (per chiarire con un esempio: in questo uso del verbo essere,
l’Uno di Plotino è al di là dell’essere, perché lo genera, e non si identifica con esso, mentre se indica
il Tutto, come nel primo dei significati che abbiamo indicato, è attribuibile all’Uno).
Questo sul significato del termine. Quanto ai problemi filosofici connessi con questo termine,
rimandiamo alla voce Essere [Problema dell’] (→).
Essere [Problema dell’]
Sotto questa dizione unitaria si raccoglie un amplissimo numero di problemi centrali della filosofia:
sotto un certo aspetto ogni problema della filosofia, qualunque esso sia, ha una dimensione relativa
all’essere dell’oggetto studiato. Non è quindi possibile proporre un elenco dei problemi, perché per
essere completo dovrebbe comprendere tutti i problemi trattati dalla filosofia, studiati sotto il
versante della domanda relativa all’essere dell’oggetto studiato.
In senso ristretto, il problema dell’essere riguarda:
- la definizione dell’identità di ciascun ente (cosa, azione, evento, pensiero, e così via) in risposta alla
domanda “che cos’è?” in quanto domanda distinta da altre come “a che cosa serve?”, “di cosa è
fatto?”, “a cosa rimanda?” e simili;
- la ricerca sull’origine dell’essere, a partire dal senso stesso di questa complessa domanda (può
infatti essere concepito qualcosa che non sia essere da cui l’essere derivi? se non può, che cosa
significa che l’essere è eterno?);
- la definizione del significato dell’essere in quanto tale (e quindi dell’essere nella sua differenza
rispetto al nulla: →); non quindi dell’essere di questa o quella realtà in relazione ad altre realtà, ma
dell’essere in assoluto, in risposta a domande del tipo: che cosa significa che qualcosa c’è? che
differenza c’è tra l’essere e l’esistere? come possono essere comprese relativamente all’essere in quanto
tale le realtà passate che non sono più e le future che non sono ancora? o, più radicalmente, perché
c’è qualcosa piuttosto che nulla?
- la definizione del senso dell’essere, dunque del valore, della finalità, delle ragioni che vi stanno
dietro, e così via.
Il problema assume per l’uomo una radicalità tutta particolare perché ogni domanda sull’essere è
implicitamente una domanda sul suo essere, dunque su se stesso (“chi sono?”, “chi è il mio io?”), sul
senso della propria vita (“qual è il senso del mio esserci, di quel che mi accade, delle mie azioni?”), e
così via.
Detto questo, va chiarito perché parliamo del problema dell’essere al singolare, come se dessimo per
scontato che sia uno, quando invece nell’esaminare il problema abbiamo parlato di più esseri. L’uso
del singolare è però giustificato, perché la domanda su un comune denominatore tra tutti gli esseri si
pone qualsiasi sia la concezione dell’essere che assumiamo. È in effetti stessa la nozione di essere ad
essere al centro del problema.
Esseri
Vedi Enti
Estasi
La parola ekstasis in greco significa spostamento, ma anche agitazione. In vari indirizzi religiosi dei
primi secoli dopo Cristo, soprattutto alessandrini, venne usata per indicare una trasformazione della
capacità di conoscenza dell’anima operata da Dio che la mette in grado di entrare in immediata
comunicazione con Lui.
Fu Plotino a darle un significato non religioso ma filosofico e a usarla in senso tecnico. L’estasi
divenne l’identificazione totale – caratterizzata da entusiasmo (→) – tra l’anima individuale e l’Uno.
Ora, poiché la coscienza implica la separazione tra il soggetto che conosce e l’oggetto conosciuto
(vedi la voce Soggetto / Oggetto: →), l’estasi implica una forma di conoscenza diversa che non utilizzi
questa separazione: questa facoltà dell’uomo umano è una forma particolarmente fine di intuizione
(→) intellettuale e implica la conversione completa della direzione del nostro sguardo interiore e di
tutta la nostra vita emotiva.
Estetica
Il termine è moderno anche se è coniato sulla base di una parola greca (aisthesis è la sensazione):
nasce nel contesto della filosofia tedesca del Settecento per indicare la disciplina che studia i
problemi filosofici connessi
- con la bellezza (→), alla ricerca innanzitutto di una definizione concettualmente chiara del bello, e
anche del significato della bellezza in natura;
- con la percezione umana della bellezza nel contesto delle facoltà di conoscenza dell’uomo (da qui la
scelta del termine estetica che riprende il greco aisthesis, come scienza della percezione del bello);
- con la natura dell’arte (→) e dell’opera d’arte (→) rispetto al complesso delle attività dell’uomo che
esprimono e definiscono la realtà (in particolare la scienza, la religione e la filosofia stessa).
Tutto questo per il Settecento europeo. Quando nacque, i teorici che proposero il termine estetica e
ne studiarono i problemi ritennero di avere fondato una nuova disciplina filosofica. Tuttavia, benché
senza l’unità sistematica che ci si propose nel Settecento, tutti i singoli problemi filosofici a cui
faceva riferimento la nuova disciplina avevano una lunga storia a partire dai primi filosofi, ma in
contesti diversi (la teoria della conoscenza, la metafisica, lo studio filosofico delle singole arti, come
la scultura, la musica o la tragedia, e così via).
Si parla quindi di estetica anche per la filosofia antica, medioevale e moderna, ma va appunto
precisato che sia il termine sia l’unità del tema sono settecenteschi: per un filosofo greco, ad
esempio, i problemi filosofici sulla bellezza erano un tema legato al problema dell’essere, mentre lo
studio delle arti era per lo più specifico delle singole arti e, se aveva unità, era di tipo pedagogico
(quali arti educano e quali hanno effetti negativi sulla paideia? è questo ad esempio il taglio con cui
Platone studia il teatro e la musica nella Repubblica), oppure legato al complesso delle discipline
poietiche (così in Aristotele).
Etere
In greco aither. Il significato originario del termine è generico: indica qualsiasi sostanza molto fine
(come nell’aggettivo italiano etereo), sicché in Empedocle è utilizzato come sinonimo di aria e in
Anassagora di fuoco. A utilizzarlo in un senso tecnico è invece Aristotele, che aveva il problema di
scegliere un termine che indicasse l’elemento di cui sono composti i cieli, che riteneva diverso dai
quattro di cui sono composti gli enti del mondo sublunare (cioè l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco).
L’etere è dunque concepito come elemento materiale sì, ma con caratteristiche del tutto diverse
dalla materia sublunare: è incorruttibile e inalterabile.
Questa nozione, nel contesto di una cosmologia quasi del tutto diversa da quella aristotelica, venne
poi ripresa dagli Stoici, che fecero dell’etere la matrice degli astri di fuoco, in primo luogo del Sole.
Ritornava così presso di loro l’equivalenza tra etere e fuoco.
Eternità / Eterno
I termini greci per eternità ed eterno sono rispettivamente aion e aidios (o aionos), ed è frequente
l’uso di aei, che significa eternamente. Questi termini non fanno riferimento ad una realtà senza
tempo, ma ad una senza inizio né fine: una realtà che dura sempre nel tempo. In questo senso sono
abitualmente utilizzati dai filosofi greci, anche dagli Stoici che concepiscono il tempo ciclico (vedi la
voce Grande Anno: →).
In Platone e nel neoplatonismo si pone però la questione dell’esistenza di realtà senza tempo, che
hanno cioè una forma d’esistenza indipendente dal tempo, o non temporale. È vero che tutte le
realtà che conosciamo sono sottoposte al dominio del tempo, ma
- è un problema aperto capire che cosa vi sia all’origine del tempo, cosa lo determini e lo orienti;
- il tempo caratterizza ogni ente ed evento, ma è possibile applicare questa nozione anche al Tutto?
- abbiamo esperienza di enti mentali (ad esempio gli enti matematici) per i quali il tempo non ha
alcun significato: ad essi è attribuibile la nozione di realtà?
In questo campo problematico hanno operato Platone, che ha considerato indipendenti dal tempo le
idee (a partire da quelle matematiche), e Plotino che considera indipendente dal tempo la natura
dell’Uno e delle ipostasi che eternamente da lui emanano.
Eterno ritorno
Vadi Grande Anno
Etica
Il termine deriva dal greco ethos che significa comportamento, costume. È presente nel lessico
filosofico fin da Aristotele per indicare il settore della filosofia che si occupa dei princìpi mediante
cui vengono valutati gli atti umani, i comportamenti e le scelte. Per il mondo greco si è soliti
distinguere tra l’etica come disciplina descrittiva, che si propone di individuare i caratteri, le cause e
le conseguenze del comportamento, e l’etica come disciplina normativa, che intende stabilire i criteri
in base ai quali distinguere ciò che è bene da ciò che è male, identificando il senso esatto di questi
termini e i fini dell’azione.
I problemi fondamentali dell’etica riguardano l’oggettività e i fondamenti dei principi-guida per
l’azione umana, come il bene e il male; ma fanno parte dell’etica filosofica anche tutti i principi e i
concetti che entrano in gioco nelle azioni umane e nella responsabilità che ne consegue (ad esempio
la libertà, la giustizia, l’eguaglianza, e così via).
Nelle teorie di vari filosofi greci la distinzione tra temi etici e metafisici, pur essendo abitualmente
proposta, è sfumata piuttosto che netta, perché l’etica è spesso concepita come un aspetto
dell’indagine filosofica sulla realtà, derivando i principi-guida per l’azione dalla costituzione stessa
della natura e dell’uomo, o dall’ordine universale del mondo.
In questione è comunque la natura umana, concepita come fonte prima di domande etiche.
Varie scuole filosofiche dell’antichità hanno negato la possibilità di una lettura del mondo in chiave
di valori e posto altrove rispetto ai valori il criterio per l’azione dell’uomo (così, ad esempio le scuole
cirenaica, cinica, epicurea, e lo stesso aristotelismo, che lega l’etica in modo diretto ai caratteri della
natura umana).
Altre hanno invece proposto, nel contesto di teorie diverse tra loro, un preciso rimando tra etica e
valori oggettivi (il termine è moderno, ma descrive in termini a noi più familiari le complesse teorie
etiche di Platone o di scuole come lo Stoicismo).
Nella filosofia ellenistica l’etica è abitualmente intesa come una delle tre parti in cui si compone il
discorso filosofico (le altre sono la logica e la fisica).
Va precisato che nella cultura filosofica greca c’era largo accordo sul fatto che la vita felice, o la
felicità per usare un termine un po’ più astratto (eudaimonia), sia l’obiettivo dell’etica. Rispetto
all’eudaimonia il problema etico consiste nel determinare i modi in cui questo obiettivo può essere
raggiunto. Questo implica la necessità di distinguere felicità e piacere, felicità e libertà, e così via,
cioè identificare e precisare l’obiettivo di una vita etica rispetto al complesso delle nozioni filosofiche
che le sono connesse, in una articolazione concettuale chiara.
Mentre oggi distinguiamo in modo chiaro l’etica e la politica, i Greci tendevano ad accostarle,
perché la vita felice si realizza in concreto nella comunità degli uomini, e quindi gli aspetti politici
della vita sono necessariamente implicati nella ricerca della felicità. È vero che alcune scuole
sottolineano la radicale individualità del mondo etico (così alcune scuole ellenistiche, come la cinica
e l’epicurea), ma solo la cinica si è posta esplicitamente come filosofia che rifiuta la società politica e
le sue leggi: l’epicurea si limita a valutare come la società “privata” della comunità di amici sia
indispensabile, mentre la società politica in quanto tale può portare lontano dalla vita felice, e ne
diffida; ma non ha mai preso posizione rifiutandola, limitandosi a consigliare agli adepti della scuola
di non impegnarsi direttamente nei conflitti politici.
Un chiaro legame tra etica e politica è invece in Aristotele, che vede queste due discipline nel
contesto di un unico quadro teorico.
Etnografia
Oggi è la disciplina che studia le culture, gli usi e i costumi dei diversi popoli, anche in relazione al
mondo dei valori che ciascuno riconosce come fondamentali.
Nel mondo greco non furono pochi gli intellettuali che ebbero interesse allo studio delle culture
delle popolazioni non greche, che in gran numero circondavano la Grecia continentale e le colonie.
L’interesse di tipo etnografico è molto evidente, ad esempio, in Erodoto che descrive analiticamente
storie, miti, credenze, abitudini, leggi, delle popolazioni la cui storia si è intrecciata con quella dei
Greci.
L’interesse etnografico ha avuto un rilievo non marginale nel dibattito filosofico dell’antichità
perché la consapevolezza della notevole diversità dei costumi ha posto in questione la nozione stessa
di legge (vedi Nomos: →) dal punto di vista del diritto e del suo rapporto con le tradizioni: il
dibattito è quello sulla relatività del nomos in rapporto alla physis e sull’esistenza di valori politici e
morali oggettivi e immutabili (vedi Nomos / Physis: →).
Se popoli diversi sono convinti di essere nel giusto rispettando le proprie tradizioni, e se queste
tradizioni sono a volte duramente rifiutate dagli altri popoli, ci si chiede se esista una universalità di
giudizio in merito a queste tematiche, o se la sfera dell’etica non dipenda piuttosto da convenzioni e
tradizioni.
Eubea
L’Eubea è un’isola che affianca a occidente l’Attica, e questa vicinanza geografica ne ha segnato la
storia.
Abitata da popolazioni di stirpe ionica, come l’Attica, era fortemente specializzata nella produzione
ceramica e in altre forme assimilabili di artigianato. La città principale, dopo serie rivalità con altre,
divenne Calcide, che ebbe anche una notevole attività nel processo di colonizzazione.
Nel 506 a.C. passò sotto il controllo politico di Atene, ma con forti resistenze, che portarono a varie
ribellioni. Gli Ateniesi la controllavano attraverso migliaia di loro cleruchi (vedi la voce Cleruchia:
→), e di fatto la cultura attica finì per avere il sopravvento, senza però che i caratteri specifici
dell’Eubea venissero mai meno. Alla metà del V secolo a.C. passò, come il resto della Grecia, sotto
il controllo macedone e nel 146 a.C. divenne territorio romano. Ma in età imperiale l’antica vitalità
era perduta, e vaste zone dell’isola rimasero addirittura spopolate.
Euclide
Conosciamo assai poco della vita di Euclide, uno dei massimi matematici dell’antichità, autore di un
testo divenuto canonico per il contenuto e il metodo, gli Elementi (il titolo greco è Stoicheia), in cui
il sapere matematico della sua epoca è raccolto, sistematizzato e presentato con un rigore logico
scientificamente ineccepibile. Sappiamo però che ha operato nel contesto della Biblioteca di
Alessandria, o comunque nella Alessandria dell’epoca di Tolomeo I, all’inizio del III secolo a.C.
Ci restano anche sue opere minori di carattere matematico e fisico, come l’Ottica e la Catottrica, in
cui studia i fenomeni luminosi utilizzando la sua geometria; i Fenomeni, che descrivono su base
geometrica la sfera celeste; un’opera di teoria matematica sulla musica dal titolo Katome kanonos, e
altre di cui ci rimangono frammenti o ci sono pervenute non nell’originale greco ma in traduzione
araba medioevale.
Eubulide di Mileto
Vissuto alla metà del IV secolo a.C., Eubulide di Mileto fu uno degli esponenti più in vista della
Scuola di Megara (→), dopo il fondatore Euclide di Megara. Conosciamo assai poco la sua vita e la
sua produzione, ma sappiamo che risale al suo insegnamento e alla sua ricerca la svolta impressa
all’indirizzo metodologico della scuola: dalla dialettica di tipo socratico a forme di ragionamento
vicine alla tradizione degli Eleati.
Diogene Laerzio, che riporta diverse notizie su questo filosofo, riporta anche sette ragionamenti
paradossali, che mostrano le difficoltà della ragione umana nella comprensione della realtà così
come appare. Celebri sono il paradosso del mentitore (→) e il sorite (→), alle cui voci rimandiamo.
Eudaimonia
Vedi Felicità
Eudosso di Cnido
Matematico e filosofo del IV secolo a.C., Eudosso di Cnido nacque intorno al 400 a.C e morì
intorno al 347 (entrambe le date sono congetturali). Si formò probabilmente negli ambienti
pitagorici della Magna Grecia, fu in rapporti con Archita a Taranto e poi con Platone ad Atene,
dove visse a lungo lavorando presso l’Accademia, forse reggendola durante il secondo viaggio di
Platone a Siracusa.
Non è però possibile considerate senz’altro Eudosso un accademico, perché non accettò mai i
fondamenti della filosofia platonica e assunse sempre posizioni diverse, ad esempio sul piacere e
sulla stessa teoria delle idee. Fu però certamente all’interno dell’Accademia una voce molto
ascoltata: la voce di un maestro, la cui specializzazione matematica era chiara.
Ci sono pervenuti solo frammenti delle sue opere; però il V libro degli Elementi di Euclide dovrebbe
essere stato ricavato dai suoi trattati matematici, e questo consente di ricostruirne almeno i temi. La
sua opera dovette comunque essere importante nella catena di elaborazioni teoriche che portarono la
matematica greca al vertice raggiunto un secolo più tardi da Euclide.
Nel periodo in cui operò presso l’Accademia Eudosso elaborò una teoria cosmologica, a base
matematica, molto originale che consentiva di descrivere matematicamente in modo rigoroso il
movimento dei Cieli. Fu questa descrizione matematico-cosmologica la teoria scientifica che
Aristotele utilizzò per la propria teoria fisico-metafisica dei Cieli.
Eudosso si occupò di molte altre questioni (medicina, geografia, oratoria) e soprattutto di etica,
proponendo una teoria del piacere che Aristotele discute nel Libro X dell’Etica Nicomachea.
Euridice
Nella mitologia greca è una ninfa driade, ossia delle querce. Sposò Orfeo (→). Un giorno, cercando
di scappare dalle mire del pastore Aristeo, venne morsa da un serpente velenoso e morì. Orfeo la
seguì nell’Ade e le sue suppliche per riportare in vita la sua amata vennero ascoltate ad una
condizione: egli non avrebbe dovuto mai voltarsi a guardare la sposa finché entrambi non fossero
usciti dall’Ade. Ma Orfeo, sulla soglia, si voltò a guardarla ed Euridice venne nuovamente rapita
dalle profondità infernali.
Euripide
Terzo dei grandi tragici ateniesi del V secolo a.C., nacque a Salamina intorno al 485, ed ebbe presto
un primo successo come poeta tragico nel 441 a.C.; non ebbe però mai il notevole consenso degli
altri due tragici (conseguì solo altre tre vittorie).
Sono abbastanza pochi i dati sicuri sulla sua vita; un certo numero di informazioni proviene infatti
dagli autori di commedie che, al contrario di Sofocle che non venne attaccato, lo attaccarono spesso
e con durezza (pratica, del resto, comune per la Commedia antica verso personaggi della cultura: si
ricordi l’attacco comico di Aristofane a Socrate nelle Nuvole: →).
Ormai anziano, lasciò Atene nel 408 a.C. per la Tessaglia e la Macedonia, e qui fu ospite del re
Archelao presso la cui capitale, la città di Pella, morì nel 406. Giunta ad Atene la notizia della sua
morte, Sofocle lo commemorò alle Grandi Dionisie (→) dello stesso anno.
Pur avendo vissuto quasi tutta la vita ad Atene, non partecipò attivamente alla vita politica e in
qualche modo si distaccò dai suoi stessi concittadini se - come vuole una tradizione di scarso valore
storico, ma significativa - componeva le sue opere all’interno di una grotta aperta sul mare, in
isolamento. Eppure nella sua opera le inquietudini della sua età e la crisi di Atene dopo l’età periclea
si riflettono con evidenza.
Mantenne però stretti contatti con almeno alcuni dei circoli culturali della città e fu profondamente
influenzato dalla sofistica. Le ultime sue opere, tra cui una divenuta poi tra le più celebri, le
Baccanti, vennero rappresentate postume da un figlio, anch’egli tragediografo.
Scrisse (ma il numero è controverso) 88 opere; di lui ci rimangono 17 tragedie e un dramma
satiresco (l’unico pervenutoci integrale dell’intera produzione del V secolo a.C.). Ecco i titoli: Alcesti,
Medea, Ippolito, Ecuba, Andromaca, Eraclidi, Le supplici, Eracle, Troiane, Elettra, Elena, Ifigenia in
Tauride, Ione, Fenicie, Oreste, Ifigenia in Aulide, Baccanti. L’intera sua produzione pervenutaci risale
al periodo della sua maturità e della sua vecchiaia, tra il 438 (Alcesti) e le ultime rappresentate
postume.
Euthymia
Il termine euthymia – che in greco significa letteralmente benessere dell’animo, quindi gioia, serenità –
è entrato nel lessico filosofico con Democrito, autore di un perduto scritto Peri euthymias
(frammento A167 e testimonianze B3-4 Diels). Il benessere dell’animo nasce dalla capacità di
distinguere i vari piaceri e di scegliere tra loro opportunamente.
La nozione è ripresa dagli Stoici (Arnim, III) in rapporto alla gioia: l’euthymia è il benessere
dell’animo che deriva dal disinteresse per ogni cosa, separata dalla terpris, che è la gioia di chi gode
dei propri beni, e dalla sophrosyne (→), che è la saggezza che rende liberi e felici.
Evidenza
“Il termine ricorre nel contesto del problema della conoscenza e indica il fatto che una verità appare
tale alla mente senza che vi sia la necessità di una dimostrazione. Il problema dell’evidenza è dato
dal fatto che essa può nascondere un errore o un inganno: l’evidenza può rivelarsi un’illusione. In
filosofia quindi l’evidenza può essere accolta come un criterio per il riconoscimento della verità se, e
solo se, si riesce a costruire una teoria della conoscenza umana che ne giustifichi le condizioni, i
limiti, i fondamenti” [Pancaldi 2006].
Evoluzione
Il termine è ottocentesco, ma la nozione era presente in alcune scuole filosofiche dell’antichità. A
partire da Darwin, che lo applica alla biologia, il termine evoluzione indica l’insieme dei processi
biologici che hanno consentito e consentono la trasformazione continua delle specie viventi. Nella
filosofia antica hanno assunto una posizione che oggi chiameremmo evoluzionista soprattutto gli
atomisti, ma i dettagli della loro teoria sull’origine delle specie viventi non ci sono note per la perdita
delle loro opere maggiori (c’è però una chiara descrizione in Lucrezio).
Falaride
Abbiamo notizie limitate su Falaride, oggetto più di narrazioni semileggendarie che storiche.
Sappiamo però che fu tiranno ad Agrigento tra il 570 e il 554 a.C., anno in cui una sollevazione
popolare lo depose e lo uccise. Era un immigrato, forse da Creta, ma non conosciamo le vicende che
lo portarono ad Agrigento, e in posizione tale da riuscire a prendere il potere come tiranno.
Il suo nome è legato a molte narrazioni di comportamento crudele. La tradizione vuole che abbia
fatto costruire da un artigiano ateniese, Perillo, un toro di bronzo, in cui veniva rinchiusi i
condannati destinati a morire tra i tormenti (si racconta che il suo costruttore sia stato il primo ad
essere ucciso in questo modo): un fuoco acceso sotto l’animale di bronzo provocava le urla di
sofferenza del condannato, che dall’esterno venivano percepite come muggiti del toro.
La figura di Falaride, connessa a episodi di efferatezza e crudeltà gratuita, fu tra quelle che finirono
per associare alla tirannide (→) un significato negativo, che alle origini non aveva.
Fama
In una civiltà dell’onore (→) e della vergogna come quella omerica, la fama era decisiva, perché
indicava che cosa di un eroe si diceva presso i suoi simili e presso le generazioni future. Anche in
età storica e presso i romani questo tema continuò ad essere una preoccupazione costante, anche se
non come in Omero.
A Roma la Fama (così in latino) era divinizzata, ma andava intesa in un senso diverso: era la
personificazione della voce pubblica. Virgilio la immagina fornita di un gran numero di occhi per
vedere e di bocche per parlare, e la vede spostarsi continuamente da un posto all’altro. Ovidio la
vede in un palazzo di bronzo con molte aperture in cui le voci entrano tenui ed escono amplificate.
Famiglia
La concezione greca della famiglia è legata alla nozione di oikos (o oikia), una dizione che non ha un
preciso corrispettivo in italiano perché indica sia la casa, sia la famiglia che la abita, sia il patrimonio
(da cui il termine economia), sia la casata a cui tutti i membri della famiglia appartengono. Questo
insieme di nozioni riunito in una parola si spiega col fatto che la famiglia in Grecia era in effetti una
unità sia di affetti che economica, centrata su una ereditarietà che aveva nella linea maschile il suo
fulcro.
L’uomo a capo della famiglia aveva molto potere, ma i figli erano liberi dalla sua autorità una volta
raggiunta la maggiore età. La condizione delle donne era invece nettamente subordinata (si cita
spesso a questo proposito un’affermazione di Senofonte che nei Memorabili scrive che i figli maschi
si educano e le femmine si custodiscono). In qualche modo l’affermarsi del potere politico della polis
in Grecia sottrasse potere (e a Sparta anche alcuni ruoli) alla famiglia, liberando i cittadini da vincoli
privati e attribuendo ad essi un ruolo pubblico.
Anche per questa ragione la famiglia entra nella riflessione dei filosofi in relazione a temi di natura
politica: sia Platone che Aristotele, ad esempio, ne trattano in contesti politici (Platone nella
Repubblica, dove sostiene tesi estreme come la comunanza delle donne, e Aristotele nella Politica in
cui considera la famiglia come una società naturale).
Nelle scuole filosofiche ellenistiche la riflessione sulla famiglia diviene meno puntuale, perché
prevalgono altre caratterizzazioni di tipo sociale, come la comunità degli amici presso gli epicurei,
pur continuando le famiglie a svolgere un ruolo sociale importante (e a Roma anche più marcato che
in Grecia).
Fato
Vedi Destino
Fedro
Fedro, giovane e brillante, è un allievo di Socrate. Amante dei discorsi, appassionato di filosofia, da
lui prende il nome uno dei più importanti dialoghi della maturità di Platone, il Fedro appunto, in
cui è ripresa in un contesto diverso rispetto al Simposio la teoria platonica dell’Eros. È Socrate a
convertirlo dalla retorica alla filosofia.
Il discorso di Fedro nel Simposio platonico
Fedro è anche un personaggio del Simposio di Platone. In questo dialogo tiene il primo dei discorsi
sul dio Eros svolgendolo in chiave mitologica. Fedro, richiamando diversi poeti, mostra come Eros
sia un dio dei primordi, antichissimo, a cui si deve tutto quel che di positivo e armonico ha
caratterizzato la vita degli dèi successivi e degli uomini.
L’amore di cui si parla supera la morte, e chi ama (sia esso l’amante o l’amato) è disposto ad
affrontarla come è facile vedere da alcuni esempi mitologici che Fedro analizza, mostrando come
alcuni di essi siano più graditi agli dèi di altri.
Felicità
Di per sé la felicità (in greco eudaimonia) è una condizione dell’animo, dunque un fatto psicologico.
Ma nella concezione greca dell’esistenza umana la nozione si colora, presso i filosofi, di
connotazioni fortemente legate alla libertà e alla razionalità, quindi a caratteri diversi dai fatti
psicologici.
Il significato del termine
Questo dipende dal fatto che la natura umana è concepita caratterizzata da due elementi:
- la padronanza di sé, che implica il controllo delle passioni e quindi la libertà (→), connessa con la
nozione, anche giuridica, di responsabilità (→);
- la razionalità, che è sentita dai Greci come il tratto più proprio dell’uomo (per i rapporti tra
razionalità e felicità vedi anche la voce Contemplazione: →).
L’idea di fondo è che un essere razionale libero, cioè padrone di sé e capace di controllare le proprie
passioni nell’autonomia interiore del proprio io, è per ciò stesso felice.
Per intendere questo concetto va ricordato che l’eudaimonia non viene fatta dipendere da circostanze
esterne sulle quali l’uomo non ha il controllo. Non che in Grecia non esista anche questa nozione,
ma è espressa da un altro termine e fa riferimento ad una esperienza diversa dalla eudaimonia: in
greco l’uomo che è fortunato e ha soldi e ricchezze è olbios (termine che i romani traducono con
felix) e non eudaimon (termine che i romani traducono con beatus). L’elemento che distingue i due
concetti è il fatto che fortuna e ricchezze dipendono poco dall’io e molto dalle circostanze del
mondo esterno, non solo assai poco controllabili ma anche mutevoli con rapidità, mentre
l’eudaimonia dipende in gran parte dall’io piuttosto che dalle circostanze esterne.
Ricorre anche un altro termine, euthymia, nel senso di benessere: in Democrito è il bene supremo,
negli Stoici un altro modo per dire atarassia (→).
Le teorie
Che la ricerca dell’eudaimonia sia un obiettivo della vita umana, è cosa per i filosofi greci ovvia. Sono
tutti d’accordo. Ma poiché l’eudaimonia è legata alla pienezza di sé e alla realizzazione della propria
natura umana razionale – del proprio sé –, tutto dipende da come i filosofi interpretano questa
pienezza e questo sé. Per esemplificare scegliamo due casi estremi:
- per la filosofia di Epicuro l’uomo è, anima e corpo, un aggregato di atomi; la pienezza di sé è il
pieno possesso delle risorse che servono al corpo e all’anima (benessere del corpo e tranquillità
dell’anima); l’uomo è libero e perfettamente felice se questa pienezza è raggiunta, in accordo con la
sua razionalità, che gli insegna che questa, e non altra, è la natura umana; eudaimonia e piacere (che è
una condizione fisica e psicologica di pienezza) coincidono, perché l’uomo è eudaimon quando non
gli manca niente (la teoria dice, con pieno ottimismo metafisico che ha pochi eguali nella storia
della filosofia, che se nulla ci manca automaticamente proviamo piacere percependo la nostra
esistenza);
- per la filosofia di Plotino l’uomo è, anima e corpo, emanazione dell’Uno attraverso vie
estremamente complesse, che mettono capo a due distinte forme d’esistenza per il corpo e per
l’anima; questa differenza fa sì che il corpo non abbia la possibilità di ricollegarsi alle sue radici
nell’Uno, possibilità che invece l’anima ha; l’eudaimonia è quindi raggiungibile realizzando il proprio
io, che non è affatto completo – mai e in nessun caso –, ma è un frammento emanato dall’Uno; per
essere completo, e quindi felice, è quindi ovvio cosa deve fare: ricongiungersi all’Uno e così
completarsi.
I problemi filosofici
Come si vede da questi esempi, un obiettivo comune, cioè l’eudaimonia, può dar luogo a teorie del
tutto diverse.
Il problema filosofico della felicità in Grecia non è mai in alcun modo problema della giustificazione
teorica di questa esigenza che l’uomo sente (essere felice). Il problema non si pone, è un fatto, ed è
accettato come tale. Si pone invece il problema della ricerca dell’eudaimonia (essere beatus è
l’obiettivo, non essere felix, direbbe un romano) e questo problema è impostato dai diversi filosofi in
rapporto alla propria concezione della natura dell’uomo in rapporto alla natura del Tutto.
Ci sono due costanti nelle teorie greche sull’argomento:
- il legame tra libertà (interiore: quella esteriore conta poco) e felicità;
- la necessità di tenere sotto controllo le passioni (sui modi le teorie divergono: dando loro spazio in
modo che trovino libero sfogo, oppure ponendole in equilibrio, oppure rendendo l’io indipendente
da esse).
Fenici
Antica popolazione semitica originariamente (II millennio a.C.) stanziatasi nella fascia costiera,
grosso modo, dell’attuale Libano, era caratterizzata da una specifica vocazione marittima e
mercantile: in età storica città e scali fenici punteggiavano tutto il Mediterraneo soprattutto
orientale, ormai lontano dalle basi di partenza. In occidente la loro città più importante era
Cartagine che, a partire dal III secolo a.C. entrò in rotta di collisione con i Romani e ne uscì
distrutta. Ma già nel V secolo a.C. i Cartaginesi erano entrati in conflitto coi Greci in Sicilia.
Ai fini dello sviluppo della cultura classica greca e romana e della filosofia antica, i Fenici sono da
richiamare soprattutto perché da loro i Greci presero l’alfabeto, che adottarono con modifiche (vedi
Alfabeto: →)
Fenomeno
Dal greco phainomenon (che i Romani traducono con species) il fenomeno è ciò che appare: dunque i
fenomeni sono connessi stabilmente al piano dell’apparenza (→), fatto che implica
- il richiamo ad un osservatore (perché qualcosa appaia, è necessario che ci sia qualcuno a cui
appaia);
- il richiamo ad una realtà che si mostra nel fenomeno (ma non è detto che si mostri interamente né
in modo corretto).
Questo doppio richiamo chiarisce qual è il fulcro dei diversi problemi filosofici connessi al termine
fenomeno: è il fatto che la mente nella sua indagine razionale non può accontentarsi dei fenomeni,
cioè del piano di ciò che appare (dell’apparenza), ma deve tentare di comprendere il piano della
realtà di ciò che appare, che potrebbe essere qualcosa di diverso da come appare. Ad esempio, per gli
atomisti i fenomeni della natura non ci danno alcuna informazione diretta sul fatto che ciò che
appare (le immagini dei corpi) hanno alla loro base la struttura atomica della materia; occorre un
ragionamento per passare dai fenomeni visibili delle cose alla loro struttura nascosta agli occhi
(perché troppo piccola) che invece si rivela alla mente.
Il termine fenomeno è utilizzato già da Anassagora e poi da Platone (che lo usa nel senso di cose
apparenti, la cui realtà è instabile e vuota), ma acquisisce il suo significato tecnico a partire da
Aristotele ed Epicuro, che lo usano soprattutto per indicare ciò che ci si mostra di realtà difficili da
intendere come i fenomeni celesti (il riferimento è ai fenomeni del Sole, della Luna, dei Cieli, ma
anche ai fenomeni atmosferici).
Negli scritti degli Scettici il termine fenomeno indica invece il piano della realtà a cui restare fedeli,
perché l’unico concreto alla luce della nostra esperienza possibile, al contrario del piano dei concetti
che sono concepiti come ricostruzioni sempre soggette al dubbio: ad esempio Sesto Empirico scrive
che lo scetticismo oppone “i fenomeni ai concetti in tutti i modi possibili” (Ipotiposi, I, 5)
Figura
Figura è “il termine della retorica che indica determinate forme del discorso utilizzate a diversi fini
espressivi. In questo senso si parla di figure retoriche per la metafora, la metonimia, e moltissime
altre, studiate e classificate già a partire dalla retorica antica e poi dalla linguistica moderna.
In filosofia le figure retoriche costituiscono un campo di studio molto vasto, per la diversità dei
problemi che sono ad esse connessi:
- problemi retorici ed estetici, in relazione alle condizioni del loro uso e ai loro effetti;
- problemi linguistici e cognitivi, in questioni del tipo: quale legame vi è tra ciascuna figura e i
processi di formazione del linguaggio e del pensiero?
- problemi legati allo studio dell’essere, in questioni del tipo: determinate figure (tra le più
importanti vi è la metafora) sono in grado di esprimere compiutamente determinate forme
dell’essere delle cose e della natura del pensiero in modo migliore del linguaggio proprio?” [Pancaldi
2006]
Nella logica aristotelica le figure (skema) sono le quattro forme nate dalla posizione dei termini
all’interno dell’inferenza sillogistica (rimandiamo quindi su quest’uso del termine alla voce
Sillogismo: →).
Filantropia
Il termine greco philantropia significa letteralmente amicizia per l’uomo, e non fa riferimento
all’amicizia tra persone che si conoscono, o che sono legate da rapporti affettivi positivi di qualsiasi
tipo, ma all’amicizia di qualsiasi uomo verso qualsiasi altro. A mettere a tema questo tratto delle
relazione umane nel mondo antico furono soprattutto gli Stoici, anche se nel tardo epicureismo era
comunque presente: negli Stoici il tema si lega alla nozione di cosmopolitismo (→), perché il cittadino
del mondo considera suoi concittadini gli uomini ovunque siano a qualunque etnia o religiose
appartengano.
Filippo II di Macedonia
Sovrano del Regno di Macedonia dal 359 fino alla morte, avvenuta nel 336 a.C., Filippo II era nato
intorno al 382 a.C. e riuscì a divenire re superando resistenze interne. Aveva avuto una solida
preparazione politica e militare perché era stato educato da Epaminonda (→) a Tebe, e rientrato in
patria si dedicò subito alla riforma radicale delle pratiche militari macedoni. Risale agli inizi del suo
regno la scelta di organizzare l’esercito in falangi, e fu lui a elaborare nuove tecniche di assedio e
nuovi armamenti. In politica interna il suo ruolo fu quello del costruttore della potenza macedone
ponendo le basi per l’unità tra le diverse fazioni e per la riorganizzazione del regno che sotto di lui
acquisì una potenza e una coesione che prima non aveva.
In poco più di vent’anni di regno, Filippo II riuscì a estendere la sua influenza su tutta la Grecia:
l’evento decisivo fu la battaglia di Cheronea del 338 a.C., con cui le città greche alleatesi tra loro in
funzione antimacedone furono sconfitte (tra esse Atene e Tebe, le due maggiori dell’epoca).
Stava preparando una spedizione contro la Persia, proponendosi come guida di tutti i Greci contro i
Persiani, quando venne ucciso nel corso di un attentato. Suo successore fu il figlio Alessandro
Magno (→).
Filologia / Filologi
Col termine filologia (dai termini greci philein, amare, e logos, discorso: i filologi sono quindi,
letteralmente, “coloro che amano il discorso”) si intende lo studio scientifico delle opere scritte che
cominciò ad affermarsi come una necessità professionale dei bibliotecari quando, nel III secolo a.C.,
nacquero le grandi istituzioni di conservazione del patrimonio librario dei secoli precedenti, in
particolare le Biblioteche di Alessandria e di Pergamo.
Qui i conservatori di questo immenso patrimonio di testi scritti (oggi difficile da quantificare, ma
comunque nell’ordine di decine e centinaia di migliaia di “libri”, cioè i rotoli di papiro o i testi in
altri supporti) si trovarono davanti al problema di dare un ordine rigoroso al materiale: gli antichi
testi giungevano loro in versioni spesso diverse le une dalle altre (diverse per l’ordine dei libri, per
singole parole, o per intere parti), sicché era necessario definire quella che oggi chiameremmo una
“edizione critica” dei testi, cioè una edizione che determinasse una volta per tutte in modo
scientificamente attendibile la corretta lezione dei testi e il loro ordinamento.
Soprattutto ad Alessandria e a Pergamo si operò con criteri rigorosi, e i filologi proposero in effetti
un tale numero di edizioni critiche delle opere dei secoli precedenti che è possibile affermare che
ancora oggi noi leggiamo i classici nella veste che ad essi diedero i filologi ellenisti.
Va precisato che la filologia ha a che fare con diversi ordini di problemi per definire i principi
scientifici sulla cui base operare:
- problemi di ordine storico e testuale: gli antichi testi giungevano in diverse varianti, frutto di
sedimentazioni storiche, di trascrizioni, di aggiunte, di interpolazioni, di revisioni degli stessi autori,
e così via; occorreva quindi stabilire principi che consentissero di contestualizzare storicamente un
testo, nel momento della sua composizione, ma anche nella tradizione successiva, quando i testi
erano stati rivisti da persone diverse dall’autore;
- problemi di ordine filosofico: i testi scritti sono una delle forme in cui si trasmette il pensiero, e
questo avviene attraverso il linguaggio, in una sua forma diversa dall’oralità; per interpretare gli
antichi testi in modo corretto occorreva disporre di una interpretazione rigorosa della natura del
linguaggio (ad esempio: nasce da convenzione come vogliono gli studiosi di Alessandria, o da
processi naturali, come vogliono gli studiosi di Pergamo? si vedano su questo punto la voce
Analogisti, Anomalisti, Filosofia del linguaggio: →)
- problemi di ordine linguistico e grammaticale: a seconda delle tesi filosofiche sulla natura del
linguaggio, ai filologi si presentano possibilità diverse per affrontare le questioni linguistiche
specifiche dei testi: occorre infatti interpretare il senso delle parole quando nei secoli il loro
significato ha slittamenti importanti (ad esempio i termini omerici sono spesso diversi, o sono usati
con un significato diverso, rispetto a quelli della lingua greca dell’età classica o dell’età ellenistica); e
occorre inoltre disporre di regole grammaticali che consentano di intendere la struttura della lingua,
per definire il senso dei testi scritti
Filone di Alessandria
Filosofo ebreo vissuto approssimativamente tra il 20 a.C e il 50 d.C., apparteneva a quella vasta
comunità di Ebrei ellenizzati che da secoli risiedeva ad Alessandria d’Egitto (→). Con lui ebbe
inizio il processo che, nei secoli, portò la cultura greca e quella biblica ad avvicinarsi, fatto che
consentì ai filosofi cristiani successivi di utilizzare le categorie teoriche elaborate dai Greci per
intendere la Bibbia.
Filone pubblicò in effetti vari commenti a libri della Bibbia che andavano in questa direzione,
seguendo due linee maestre:
- l’interpretazione allegorica (vedi Allegoria: →) e non letterale delle Sacre Scritture, che avrebbe
avuto un larghissimo seguito nel Medioevo, che consiste nel leggere il testo sacro alla ricerca di un
significato nascosto;
- l’applicazione di concetti, termini e nozioni filosofiche elaborate dai Greci in ambiti del tutto
diversi (ad esempio da Platone e dal neopitagorismo) come base per l’interpretazione allegorica delle
Sacre Scritture (ad esempio attraverso una sorta di lettura in parallelo del Timeo e della Genesi).
Le sue opere più importanti sono proprio i commenti ai testi sacri: Commento allegorico alle sante
Leggi, sui capitoli 2-3 della Genesi, Sul decalogo, Sulle leggi particolari, Sulla migrazione di Abramo, e
così via. Meno importanti sono opere filosofiche in senso proprio, come Sulla provvidenza e Sulla
eternità del mondo.
La sua opera ebbe continuatori diretti ad Alessandria soprattutto in ambienti cristiani, con la
cosiddetta Scuola teologica di Alessandria (→).
Filone di Larissa
Filosofo greco attivo tra il II e il I secolo a.C., fu scolarca dell’Accademia (→) nel 110-109 a.C. A
causa degli eventi politici del periodo, dovette trasferirsi a Roma, dove ebbe come allievo anche
Cicerone.
Appartenne alla fase della cosiddetta Accademia “nuova” e sostenne una forma moderata di
scetticismo, abbandonando la tesi tipica dell’Accademia “di mezzo” sulla necessaria sospensione di
ogni giudizio, accentuando la tendenza, già presente nella scuola, ad ammettere una gradazione
nella validità delle opinioni.
Questa moderazione rese possibile a Filone la costruzione di una teoria etica, non basata su certezze
e verità riconosciute come tali, ma su opinioni ritenuti sufficientemente probabili per guidare
l’azione.
Filosofia / Filosofo
Una tradizione riferita da Cicerone (I secolo a.C.) e Diogene Laerzio (III secolo d.C.) vuole che il
termine filosofia sia di origine pitagorica. Diogene Laerzio però fa riferimento come propria fonte
ad un filosofo della cerchia di Platone, Eraclide Pontico, e non è escluso che il riferimento a
Pitagora vada inteso come identificazione da parte di Platone di una linea di pensiero antica, da lui
ripresa.
In effetti che cosa si debba intendere per filosofia in senso proprio e non generico è solo la
tradizione filosofica a dirlo. Fino al V secolo il termine ha significati generici: riferito a Solone vale
sapiente, ed Erodoto usa il termine filosofo come equivalente di saggio, sapiente. Negli stessi anni i
Sofisti chiamano filosofia il loro insegnamento, che in gran parte ha aspetti retorici e letterari, oltre
che (nel senso successivo del termine) filosofici.
Etimologicamente filosofia significa amore della sapienza (philein è un verbo che traduciamo con
amare, essere amico di, e sophia significa sapienza), e il suo significato tecnico si consolida a partire
dal IV secolo a.C., quando l’attività dei filosofi comincia ad organizzarsi in scuole che operano in
modo strutturato e stabile. Ma i confini disciplinari sono labili, e quando Aristotele intende trattare
di temi che oggi consideriamo specifici della filosofia (ad esempio del tema dell’essere e delle cause
originarie della realtà) non usa solo il termine filosofia, ma parla di filosofia prima, e di filosofia
seconda per indicare la fisica.
In età ellenistica la filosofia è intesa in due modi diversi e complementari, che vanno visti in un
unico quadro d’insieme:
- filosofia come discorso: è un sapere discorsivo, cioè un discorso razionale sul mondo che comprende
vari aspetti (indicativamente tre: la logica, la fisica, l’etica);
- filosofia come arte del vivere: è un sapere pratico, cioè una applicazione del discorso filosofico alle
esigenze della vita sia materiale che spirituale dell’uomo.
Il filosofo non è più quindi, come per Platone, soltanto amico della sapienza, ma possiede sia la
sapienza come insieme di conoscenze vere sul mondo sia la saggezza come insieme di norme da
seguire per una vita libera e felice.
In età ellenistica è però anche sempre stata viva la tradizione scettica, in scuole diverse (Pirrone e i
suoi allievi, la media Accademia, poi gli scettici dei secoli successivi), in cui la filosofia mantiene il
carattere di arte del vivere, ma non quello di sapere discorsivo, impossibile da padroneggiare per gli
scettici, sicché le norme etiche discendono non da un sapere, ma dalla certezza di non sapere.
Sul finire della tradizione filosofica dei Greci, con Plotino, la filosofia mantiene ancora i tratti tipici
dell’ellenismo, ma apre ad una dimensione contemplativa nuova, sicché il discorso razionale punta,
in unione con l’arte del vivere, all’estasi, che mantiene quindi un carattere legato alla razionalità, sia
pure superata da un atto di intuizione.
Finalismo
Il finalismo è la scienza dei fini (in greco il fine, nel senso di scopo, è telos, da cui il termine teleologia
introdotto nel linguaggio della filosofia moderna nel Settecento), cioè lo studio filosofico delle
finalità della natura, dei suoi scopi ultimi. A porre l'accento sul finalismo come uno dei modi di
studiare la natura al fine di comprenderne il senso è Aristotele; questa prospettiva è invece rifiutata
da altre scuole filosofiche antiche, che negano che la natura sia dotata di fini propri (per esempio le
dottrine atomistiche).
Il finalismo è una possibile risposta a problemi del tipo:
- qual è il senso delle cose, della natura, della vita umana? il finalismo trova questo senso in un fine,
che può essere interno alla natura o alla vita (come il ciclo cosmico dell’essere, teorizzato dagli
Stoici) o esterno all’universo fisico anche se non alla Natura (come il Dio aristotelico);
- come spiegare gli organismi viventi, in cui ogni parte sembra rispondere ad un progetto
complessivo ed avere una precisa funzione, un fine? come spiegare il fatto che in natura tutto sembra
avere uno scopo? il finalismo non segue la via di una spiegazione in termini di causa / effetto (→),
come risultante dell’azione di forze meccaniche che non implicano un’intelligenza nella o sulla
natura, ma nei termini del rapporto mezzo / fine (vedi: →), che implica che la natura sia governata
da una intelligenza (comunque la si intenda).
Fine
Vedi Finalismo e Mezzo / Fine
Finito
Il termine greco per indicare il limite è peras (e il contrario è apeiron: →); il finito è peperasmenon.
Nella cultura greca, e quindi anche nella filosofia, l’orientamento prevalente è stato quello di
considerare il finito come sinonimo di completo: qualcosa che è compiutamente un tutto, a cui non
manca nulla. Per questa ragione molti filosofi greci (quasi tutti, con l’eccezione di Melisso e di
Epicuro) concepiscono l’universo fisico come una realtà finita e ben delimitata nello spazio da
precise dimensioni e distanze.
Il tema ha anche una rilevanza per la storia dell’estetica: poiché una parte prevalente della filosofia
antica considera la bellezza un prodotto dell’armonia (→) tra le parti di un corpo (o tra i rapporti
sonori nella musica, cromatici nella pittura, e così via), ciò che è bello è anche finito, perché solo nel
finito possono darsi proporzioni armoniche e relazioni matematicamente definibili in modo
compiuto. Nei filosofi che considerano l’infinito come realtà, e anche come realtà bella (così ad
esempio in Plotino), necessariamente la nozione di bellezza deve cambiare.
Poiché i problemi di fondo sul finito sono gli stessi che per l’infinito, rimandiamo alla voce Infinito
(→) la trattazione di questo tema.
Fisica
Nella filosofia greca la phisike è la ricerca filosofica sulla physis (→), cioè sulla natura vista come
abbiamo precisato nella voce specifica a cui rimandiamo. Quindi il termine si riferisce
- a quella che oggi chiamiamo scienza della natura, al fine di identificare le leggi che la regolano;
- a quella che oggi chiamiamo filosofia della natura, al fine di identificarne l’origine e le
caratteristiche qualitative delle sue componenti (materiali o spirituali che siano) e del Tutto che essa
compone.
Le due ricerche non erano distinte nel mondo greco, e la stessa distinzione delle opere aristoteliche
in una Fisica e in una Metafisica riguarda l’organizzazione redazionale dei suoi scritti, perché i temi
si prolungano nelle sue opere dedicate alla physis in modo continuo.
Presso le scuole ellenistiche il termine phisike designa l’intero complesso di ricerche, unitariamente
costruite in modo organico, che riguardano l’universo fisico, uomo compreso. Va sottolineato che gli
altri due ambiti della ricerca delle scuole ellenistiche – la logica e l’etica – sono sì viste come
discipline filosofiche separate, ma solo per ragioni di organizzazione degli studi e delle ricerche, non
perché riguardino enti diversi. Qualsiasi disciplina filosofica, infatti, studia per le scuole ellenistiche
il Tutto, la differenza riguarda solo l’angolazione da cui si effettua questo studio.
Flauto
Vedi Aulos
Forma / Materia
Questa coppia di concetti è tipicamente aristotelica, se usata in senso tecnico come caratterizzante la
sostanza (→).
Il termine che traduciamo con materia (→), alla cui voce rimandiamo, è in Aristotele hyle.
Il termine filosofico italiano forma (→) dipende dal termine latino forma, con cui gli scrittori e i
filosofi romani tradussero due termini greci entrambi usati da Aristotele:
- eidos, cioè idea (→);
- morphe, che è un sinonimo di eidos usato in senso ristretto da Aristotele.
Negli scritti aristotelici la formula che unisce forma e materia è espressa sia dalla coppia hyle e
morphe, sia da hyle e eidos. Non si dà mai una materia senza forma, né una forma senza materia, per
cui le due nozioni sono separabili rispetto alla realtà della cosa soltanto attraverso un atto della
mente: atto necessario, tuttavia, perché la stessa materia può assumere più forme, e quelle di materia
e di forma sono nozioni radicalmente diverse.
Aristotele chiama sinolo (→) l’unità della materia e della forma, cioè la realtà unitaria dell’ente
studiato.
Fortuna
Il termine greco è tyche, che significa fortuna nel senso di sorte, caso. In Omero non compare come
divinità, ma ha un ruolo non marginale in Esiodo e soprattutto nell’evoluzione della religiosità
ellenistica, in sincretismo con altre divinità orientali come Iside. In quest’epoca in Oriente era
rappresentata come dea sotto figura femminile protettrice delle città – raffigurava la loro buona sorte,
in senso augurale.
Va ricordato che il termine fortuna in italiano ha una valenza positiva, e il termine sfortuna una
negativa; ma la parola tyche (e la fortuna dei latini) ha entrambi i significati: è la sorte, positiva o
negativa, sempre imperscrutabile perché gli uomini non conoscono il loro futuro.
Il tema è quindi vicino a quello di termini come caso (→) e destino (→), ai quali rimandiamo per gli
aspetti filosofici. Va però segnalato il fatto che Aristotele distingue la fortuna dal caso, attribuendo la
fortuna soltanto all’uomo perché la lega alla libertà (non può essere fortunata o sfortunata una
pietra: solo per similitudine possiamo dire fortunata quella di un altare che riceve onori e sfortunata
quella ai piedi dell’altare perché sul pavimento viene calpestata: così in Fisica, II-6)
Frammenti
Col termine frammenti indichiamo per la filosofia antica il vasto complesso di parti - a volte ampie,
a volte della lunghezza di una citazione, a volte di una sola riga o di poche parole – dei testi antichi
perduti. Questi frammenti sono giunti sino a noi attraverso percorsi non sempre lineari. Li abbiamo
perché un autore di cui ci è rimasta l’opera li riporta, a volte citando esplicitamente, a volte
indicando genericamente l’autore. Poiché nel mondo antico non esistevano né diritti d’autore né la
possibilità di difendere la propria produzione scritta da interpolazioni, cattive trascrizioni e simili, i
filologi hanno dovuto compiere un raffinato lavoro di analisi nel tentativo (in molti casi puramente
congetturale) di identificare con esattezza il testo del filosofo citato (già capire, in assenza delle
virgolette che noi oggi usiamo, dove comincia e dove finisce una citazione è un problema filologico
che può dare problemi non sempre risolvibili con certezza). Inoltre vari scrittori non prendono la
citazione dall’originale, ma sappiamo che stavano utilizzando testi che a loro volta citavano, per noi
perduti. Per le questioni filologiche vedi la voce Filologia (→).
Le principali raccolte di frammenti di opere filosofiche dell’antichità riguardano i Presocratici (per
questa dizione vedi la relativa voce: →), le Scuole socratiche cosiddette minori, Epicuro e
l’epicureismo, lo Stoicismo.
Fulmine
È uno dei fenomeni naturali e “celesti” su cui l’attenzione dei filosofi si è soffermata non solo per i
suoi risvolti naturalistici (spiegarne l’origine e i caratteri fisici), ma anche per discuterne il significato
religioso: il fulmine era infatti associato a Zeus, e quindi all’intervento divino sulla natura e
sull’uomo (l’esperienza di fulmini che colpiscono persone e case, portando incendi e la morte,
potrebbe essere stata forse una delle esperienze di base per una lettura divina del fenomeno). C’è
davvero una realtà divina dietro questo tipo di fenomeni?
Una celebre analisi in chiave scientifica e atomistica è nella Lettera a Pitocle di Epicuro dedicata ai
fenomeni celesti.
Fuoco
Quando i filosofi greci parlano di fuoco, non dobbiamo intendere questo termine solo in riferimento
alle esperienze della fiamma, ad esempio in un camino o nella legna accesa in una cucina (esperienza
allora tanto comune quanto oggi quella delle fiamme del gas in una cucina dei nostri tempi).
Le esperienze possibili
Nei testi antichi compaiono infatti anche altre esperienze: le più importanti sono quelle della lava
incandescente (che lasciava pensare che il cuore stesso della Terra fosse infuocato) e degli astri del
cielo, il cui fuoco inesauribile era ben difficile da spiegare (ad esempio: che cosa brucia nel Sole? se
quel fuoco è dello stesso tipo di quelli che si possono accendere sulla Terra, perché il Sole non si
consuma?). Inoltre, poiché i corpi dell’uomo e di molti animali sono caldi, il fuoco evidentemente
trova spazio anche nella formazione e nel mantenimento della vita.
È ovvio che rintracciare una identità comune tra tutte queste esperienze si sia rivelato molto
difficile. E tuttavia i filosofi Greci hanno cercato di farlo, nel tentativo di legare insieme i Cieli e la
Terra, tra loro e con la vita stessa dell’uomo.
La presenza del fuoco sia nei Cieli che sulla Terra ha fatto sì che i problemi filosofici connessi col
fuoco siano di due tipi diversi:
- da un lato i problemi dell’arché e della struttura della materia, alla ricerca del principio originario
che genera il movimento della natura;
- dall’altro il problema cosmologico sulla materia di cui sono fatti gli astri e di cui è fatta la Terra.
Le teorie
Tra le teorie che pongono il fuoco come elemento originario, un posto particolare spetta a quella di
Eraclito, che lo considera (in frammenti per la verità di complessa interpretazione) come l’arche da
cui ogni cosa trae origine e movimento. Questa teoria è stata poi ampiamente sviluppata dagli
Stoici, che fanno del fuoco l’energia vitale del cosmo, connessa con il Logos, da cui tutto trae vita,
senso e ordine. E nel fuoco ha termine il “grande anno” con cui si conclude un ciclo di vita
dell’universo, prima di una nuova origine (vedi Ekpirosis: →).
Nelle teorie di altri filosofi naturalisti il fuoco è un elemento come lo sono anche l’aria, l’acqua e la
terra. Nella visione dell’universo di Aristotele, al contrario di quella degli Stoici (che su questo
punto, a differenza di molti altri, concorda con quella di Epicuro), la materia di cui sono fatti i cieli
(etere, o quinta essenza) è del tutto diversa da quella di cui è fatto il mondo sublunare, e quindi il
fuoco di cui facciamo esperienza sulla Terra non ha la stessa natura del fuoco degli astri.
Il fuoco poi nei racconti mitologici è associato al primo processo di civilizzazione e alla conquista
umana delle tecniche, e a portare i primi semi di fuoco agli uomini è Prometeo (→), in un mito
molto celebre.
Gea o Gaia
In Esiodo è la prima delle divinità che emergono dal Caos primordiale, e da essa vengono generate
direttamente un gran numero delle prime divinità.
Nell’ordine definitivo assunto dall’universo con la generazione degli dèi olimpi - la generazione di
Zeus e dei suoi fratelli – Gea non svolge più alcun ruolo. La dea della Terra è ormai Demetra,
associata alla potenza fecondatrice dei campi, e quindi alle messi. Anzi, l’eventuale attività di Gea
appare un pericolo per l’ordine di Zeus.
Oggi col nome Gaia si indica anche una ipotesi scientifica nata alla fine del XX secolo che considera
il pianeta Terra come una unità sul modello degli organismi biologici.
Gelone
Tiranno dapprima di Gela, poi di Siracusa, Gelone nacque a Gela intorno al 540 e morì a Siracusa
nel 478 a.C. Divenne tiranno a Gela nel 491 a.C. alla morte del tiranno precedente, approfittando
del suo ruolo di comandante della cavalleria. Affidò poi la città al fratello Ierone e si impadronì di
Siracusa, che sotto la sua tirannia divenne una delle più popolose, ricche e potenti tra le città greche
dell’occidente.
Dedicò particolare cura all’esercito e quando nel 480 i Cartaginesi attaccarono Imera, alleatosi con
gli agrigentini li sconfisse imponendo quindi la supremazia dell’elemento greco su quasi tutta la
Sicilia, relegando i Cartaginesi nelle loro basi dell’estremità occidentale dell’isola.
Alla sua morte i Siracusani gli tributarono un culto eroico (→).
Generazione e corruzione
I termini greci corrispondenti a generazione e corruzione sono genesis e phtora, e li proponiamo
associati (come del resto lo erano presso i Greci) perché nel movimento complessivo della vita
descrivono il ciclo che compie un vivente dal concepimento alla nascita, dalla vita alla morte.
Compaiono quindi abitualmente associati nelle opere filosofiche greche. In Aristotele la
generazione e la corruzione vanno nettamente distinti dal semplice movimento – in greco kinesis –
perché con quest’ultimo la sostanza di un ente non muta, mentre muta con la generazione (che
genera una nuova sostanza) e con la corruzione (che la distrugge).
A parte le ricerche biologiche specialistiche (come quelle aristoteliche), i problemi filosofici associati
alle nozioni di generazione e di corruzione sono quelli relativi alla nozione di vita (→), alla quale
rimandiamo. Infatti la nascita e la morte non sono neppure descrivibili se non nel contesto del
fenomeno della vita, della quale tuttavia è difficile dare una precisa descrizione filosofica (a partire
dalla domanda cruciale: che cos’è la vita?, fino ai problemi sul senso del movimento che lega
generazione e corruzione, cioè nascita e morte).
Genere e specie
In Aristotele la definizione di un ente – cioè la pratica discorsiva che attraverso il linguaggio verbale
lo descrive nella sua essenza – ha di mira l’identificazione della verità dell’oggetto studiato. Questo
obiettivo si raggiunge se si riesce a identificare la differenza tra l’ente studiato e gli altri dello stesso
genere, in modo da identificarne la specie (in questo senso Aristotele parla di differenza specifica): per
esempio se l’oggetto di studio è un animale bipede, il genere è il fatto di essere animale, la specie
l’essere bipede (esistono animali di altre specie, per esempio i quadrupedi). Aristotele chiarisce la
nozione di differenza specifica con questo esempio in Metafisica VII-12.
Naturalmente la definizione può essere più o meno analitica e precisa; il procedimento consiste
- nel passare da generi primi a generi prossimi, cioè da nozioni universali di grado più elevato a
nozioni sempre universali, ma di grado meno elevato,
- fino a identificare la differenza nella specie (differenza specifica), determinata con precisione
crescente.
Questo metodo è applicato da Aristotele alle sue classificazioni, ad esempio degli animali, in modo
che dall’universale di grado più generale (l’essere tutti animali) si passi alle specificazioni proprie di
ciascun animale in un ordine specifico decrescente.
Genere prossimo
Vedi Genere e specie
Generi letterari della filosofia antica
La dizione genere letterario indica ciascuna forma di composizione in quanto caratterizzata da tratti
specifici. Le prime classificazioni risalgono a Platone e ad Aristotele, e la codificazione divenuta poi
canonica per il mondo greco si deve poi agli Stoici, ai Peripatetici dell’età ellenistica e ai filologi
alessandrini. I criteri di fondo per la classificazione sono due: il contenuto (ad esempio: tragedia o
commedia) e la forma (ad esempio: poesia epica, romanzo in prosa).
Se applicato alla storia della filosofia, lo studio dei generi letterari consente di chiarire le
caratteristiche specifiche di ciascun genere, e di evitare quindi molti equivoci che nascono dal fatto
che determinati caratteri di un genere vengano scambiati per qualcosa di diverso, attribuendo loro
un significato filosofico che in realtà non hanno. Ad esempio, nel genere letterario del dialogo
l’autore non necessariamente espone le proprie tesi attraverso un solo personaggio, ed è quindi
difficile in un dialogo identificare con precisione, tra le diverse discusse, qual è la tesi dell’autore.
Oppure nel genere letterario della meditazione filosofica le tesi esposte appartengono in genere alla
scuola a cui l’autore appartiene, e lo specifico apporto dello scrittore è nella riflessione tra quelle tesi
e la sua esperienza di vita, interiore ed esteriore, sicché nessuna delle sue affermazioni deve mai
essere intesa come compiuta, essendo tutte parte di un processo meditativo che può cambiare di
segno in un successivo passaggio: quelle che appaiono a una prima lettura contraddizioni non lo
sono affatto, se si intende il genere letterario dell’opera che si sta esaminando.
Per queste ragioni nello studio dei testi filosofici è indispensabile chiarire sempre bene, e tenerne
conto di, qual è il genere letterario del testo.
Specialismi a parte, i generi letterari della filosofia antica sono classificabili, con diverse varianti,
secondo il seguente schema (li indichiamo nella sequenza storica in cui ciascun genere si consolida):
- Aforismi (→)
- Sentenze (→)
- Poemi filosofici (→)
- Trattati (→)
- Encomi e apologie (→)
- Dialoghi (→)
- Racconti filosofici e aneddoti (→)
- Lettere dottrinali (→)
- Meditazione filosofica (→)
- Diatriba (→)
- Commento (→)
Va poi ricordato che di moltissimi testi filosofici dell’antichità abbiamo solo frammenti (→), tanto
che gli studiosi suppongono che avremmo un’immagine ben diversa della storia della filosofia antica
se i testi fossero giunti sino a noi (per citare solo un esempio, il corpus di scritti di Democrito,
interamente perduto tranne frammenti, potrebbe essere stato tanto ampio quanto quello di un
Platone o di un Aristotele). Di molti testi non consociamo neppure il genere letterario e questo
rende controversa l’interpretazione dei frammenti pervenutici.
Geocentrismo
È il termine moderno con cui si indicano le teorie cosmologiche, prevalenti nell’antichità, che
considerano l’universo una realtà compatta e finita, formata dalla Terra (geo-) posta al centro (centrismo) e dai cieli che le ruotano intorno. Vedi su questo punto le voci Cieli e Cosmologia (→).
Va osservato che il geocentrismo, come l’eliocentrismo (→), è una teoria che considera l’universo
finito. Infatti in una teoria fisica come quella del materialismo antico (l’atomismo di Democrito e di
Epicuro) che considera l’universo infinito nello spazio e nel tempo non può esserci alcun centro.
Geografia
Dai termini greci Gea che significa Terra e graphia che significa descrizione, la geografia già
nell’antichità è stata concepita come la disciplina scientifica che descrive la superficie terrestre nelle
sue forme e nei suoi spazi. Scienza descrittiva per eccellenza, ha però un notevole significato per la
filosofia per le ragioni chiarite nella voce Cartografia (→), alla quale rimandiamo.
Benché sia nata come disciplina a se stante, codificata nei suoi metodi e nel suo ambito tematico
soltanto in età alessandrina, quindi dopo il pieno sviluppo della filosofia dell’età arcaica e di quella
classica, la geografia antica si è arricchita dei contributi dei filosofi, da Anassimandro (che sembra
abbia fornito il primo disegno su tavola delle terre emerse) sino ad Aristotele ed oltre.
La geografia antica mirava a due distinti obiettivi:
- fornire indicazioni pratiche per il movimento sulla terra e sul mare;
- fornire una corretta descrizione teorica della Terra, dal doppio punto di vista della sua superficie e
della sua posizione nel cosmo (non sorprende quindi se l’astronomo che fornì una sintesi
matematica dell’astronomia antica, Tolomeo (→), sia la stessa persona che ha fornito la sintesi delle
conoscenze geografiche di tutta l’antichità).
Geometria
Vedi Matematica
Giardino
Nella filosofia dell’età ellenistica il termine giardino (in greco kepos) era associato all’Epicureismo,
perché la scuola (e abitazione) di Epicuro sorgeva in una casa ad Atene circondata da un giardino.
L’immagine rimanda a scene di serenità di vita che sono in effetti tipiche dello stile epicureo.
Va però ricordato che quello del giardino, o del bosco ai margini della città, è un tema ricorrente
nella filosofia antica: al Liceo d’abitudine si faceva filosofia all’aperto, passeggiando (da cui il termini
Peripatetici per indicare i filosofi della scuola), e sia il Liceo che l’Accademia sorgevano in edifici
circondati da giardini. In una celebre raffigurazione dell’Accademia, Platone con i suoi allievi e
compagni di ricerca filosofica sono raffigurati in un giardino, in conversazione all’ombra di un
albero (è un mosaico, noto come La vita nell’Accademia di Platone, risale al I secolo a.C. ed è oggi al
Museo Archeologico Nazionale di Napoli). Il tema è quindi ricorrente, e richiama un tratto
specifico della vita all’aperto, in sintonia con la natura (peraltro antropizzata, perché tale è un
giardino), una sintonia che varie scuole filosofiche hanno raccomandato.
Giganti
Nelle lotte dei primordi, i Giganti sono figure divine nate da Gea. Di dimensione smisurata e forza
immensa, si contrappongono agli dèi olimpi e li costringono alla lotta. In quanto dèi avrebbero
dovuto essere immortali, ma è invece decreto del destino che possano morire se colpiti
contemporaneamente da un dio e da un mortale. Nelle lotte tra gli dèi olimpi e i giganti ha quindi
un ruolo di primo piano l’eroe Eracle (mortale, poi accolto tra gli dèi immortali), che colpisce vari
giganti con le sue frecce mentre questi sono colpiti da Zeus con i suoi fulmini o da altri dèi. Alla
fine la vittoria arride agli dèi olimpi e i giganti vengono uccisi
Gioco
Il termine gioco (in greco paidia) riferito alla filosofia o a pratiche con essa connesse è presente in
vari testi filosofici antichi. Ad esempio Gorgia lo usa per l’Encomio di Elena e Platone in un passo
iniziale del Parmenide fa pronunciare all’anziano maestro queste celebri parole: “Allora Parmenide
disse: "Devo dunque obbedire. Certo mi sembra di essere nelle condizioni del cavallo di Ibico che, forte
corridore, ma vecchio, sul punto di scendere in gara legato al carro trepidava per ciò che stava per affrontare;
il poeta, paragonandolo a se stesso diceva: anch’io, contro la mia volontà così vecchio sono costretto ad
affrontare l'amore. Io stesso, ripensando a questo racconto, sento una grande paura per come possa alla mia
età attraversare un così vasto mare di parole. Tuttavia devo accontentarvi anche perché, come dice Zenone,
siamo tra noi. Dunque, da dove cominciamo? Quale ipotesi poniamo per prima? O forse preferite, visto che
dobbiamo giocare un gioco molto difficile, che cominci dalla mia ipotesi dell’Uno in sé, per verificare quali
siano le conseguenze che derivano dall’affermazione che l’Uno è Uno e da quella che non lo è?" (Platone,
Parmenide, 137b)
Per intendere la nozione di gioco che questi testi richiamano occorre considerare che sia le pratiche
sofiste che la dialettica socratica e platonica mantengono rapporti con la cultura greca della gara, che
in Grecia non era solo legata allo sport e alla poesia, ma era anche un normale modo di concepire le
attività piacevoli nella sfera della cultura (vedi la voce Dionisie: →).
In un suo studio sulla funzione del gioco nelle civiltà umane lo storico olandese Johann Huizinga ha
ricordato che “il punto di vista agonistico del filosofo (...) ha ricondotto la filosofia alla sua sfera
primordiale e originaria, radicata in ogni cultura primitiva" [Huizinga 1939, p. 4; al tema delle Forme
ludiche della filosofia ha poi dedicato il Capitolo 9 di questo suo studio]. Nella filosofia antica il gioco
è quindi legato, secondo Huizinga, ad antiche pratiche ludiche proprie della cultura dei popoli già
agli albori del processo di civilizzazione. Un tratto del piacere ludico sarebbe quindi proprio delle
molte forme di sfida e di gara che la filosofia antica ci ha consegnato nella sua tradizione,
soprattutto nell’arco temporale che va dai filosofi naturalisti a Platone. Il gioco è una forma
importante di elevazione della vita materiale alla sfera della spiritualità. Vi si esprime una esigenza
insopprimibile dell’animo umano.
Il tema del gioco è divenuto centrale nella filosofia romantica e in quella del XX secolo, ma in
termini diversi dalla nozione greca.
Ginnasio
In Grecia i ginnasi (da gymnazein, un verbo che indicava la pratica tipicamente greca del fare
esercizi fisici a corpo nudo) erano luoghi in cui si svolgevano diverse attività: dagli esercizi fisici (dei
locali di ciascun ginnasio faceva parte una palestra) alle attività formative (compreso lo studio della
poesia, della grammatica e della filosofia) e musicali.
Alle origini i ginnasi sorsero nei recinti dei templi e dei boschi sacri, connessi sin dall’inizio sia a
pratiche sportive sia alle esigenze di formazione della popolazione giovanile. In quanto luoghi legati
alle pratiche formative, furono alcuni ginnasi i luoghi ateniesi in cui diversi filosofi organizzarono le
loro scuole: erano dei ginnasi l’Accademia (Platone), il Liceo (Aristotele), il Cinosarge (Cinici).
Giorno / Notte
Nella mitologia greca – in particolare nella Teogonia (→) di Esiodo – Notte (Nyx) è generata dal
Caos primigenio ed è a sua volta madre non solo del Giorno, ma anche di moltissime altre divinità,
come Sorte, Sonno, Sogno, e così via.
Nei primi filosofi l’alternanza del giorno e della notte è uno dei fenomeni che vengono citati come
fondamento dell’idea di regolarità della forze della natura, e quindi di un suo ordine ciclico (vedi la
voce Tempo: →).
Giudizio
Il termine greco è krisis, e indica un elemento essenziale del ragionamento. Il giudizio viene
enunciato tramite la proposizione (apopharesis). Aristotele studia il giudizio nel Dell’interpretazione,
nel contesto di questioni logiche.
È l’atto con cui affermiamo o neghiamo qualcosa di qualcos’altro, ed esprime quindi il punto di vista
di un soggetto che, con la sua ragione, collega tra loro due elementi diversi identificando il legame
che li unisce. In quanto si esprime con una proposizione, giudicare significa collegare
linguisticamente un predicato ad un soggetto, affermando o negando qualcosa.
L’atto del giudizio così descritto implica necessariamente la messa in gioco di facoltà superiori, ma
in senso più debole forme di giudizio (lo sottolinea Aristotele in Dell’anima, III-9) sono presenti
anche nel mondo animale, che per le esigenze della loro vita compiono in qualche modo valutazioni
e scelte, anche se non certo ad un livello razionale.
Il tema del giudizio dopo Aristotele è stato molto sviluppato dalle scuole elleniste, in particolare
dagli Stoici con la loro dottrina dell’assenso, alla cui voce rimandiamo.
Giustizia
Vedi Dike
Giusto mezzo
Col termine mesotes, che traduciamo con medietà – o, con espressione discorsiva, giusto mezzo Aristotele indica nel Libro II dell’Etica Nicomachea una sorta di regola pratica per orientarsi nel
mondo delle disposizioni del carattere e nelle scelte della vita riguardo alle proprie passioni (cioè, in
estrema sintesi, per vivere secondo virtù). La medietà è raccomandata perché in ciascuna passione e
in ciascuno dei caratteri tipici dell’uomo c’è sempre un eccesso e un difetto, che creano molti
problemi e portano ad una situazione di disequilibrio. Chi cerca di comportarsi secondo ragione –
un ovvio fine per un essere razionale come l’uomo – poiché ha per natura passioni, istinti, un certo
carattere e così via, deve cercare la medietà tra l’eccesso e il difetto in ogni scelta e in ogni
disposizione dell’animo.
Questa regola, pur nella sua approssimazione, è giustificata dall’osservazione razionale del
comportamento degli uomini e dalle opinioni stabili e ben fondate degli uomini che si considerano
migliori. Aristotele precisa che
- in sede etica non si tratta di contemplare una verità (theoria), ma di scegliere come agire e quale
posizione prendere in merito al proprio istintivo carattere e alle proprie passioni;
- non è possibile una fondazione sicura dell’etica su principi certi, perché l’etica non è una scienza
teoretica e non conosciamo principi di questa natura applicabili in sede etica; dobbiamo affidarci
all’analisi razionale su elementi d’esperienza e sulle opinioni delle persone che più stimiamo.
Glauco
Alleato dei Troiani nella Guerra di Troia, in Omero Glauco è il comandante del contingente della
Licia. Muore ucciso da Aiace Telamonio combattendo per il possesso del cadavere di Patroclo, e i
venti (per ordine di Apollo) ne trasportano il corpo in Licia. La dinastia dei sovrani di queste terre
sosteneva di discendere da lui.
Glauco nel mito è una figura singolare perché in piena guerra di Troia non esita a scambiare doni,
secondo le consuetudini nobiliari tipicamente omeriche, con Diomede che era sì un nemico, ma era
anche un eroe i cui antenati avevano avuto rapporti di amicizia con i suoi. Nello scambio, Diomede
donò a Glauco le sue armi, che erano di bronzo, e Glauco (accecato da Zeus) ricambiò donando a
Diomede le sue, che erano d’oro.
Gnomico
In greco gnome vuol dire sentenza, o massima, in riferimento specifico a quelle brevi o brevissime
frasi in cui tra il VII e il VI secolo a.C. si cominciò a condensare quanto si voleva sottolineare
soprattutto su temi etici. A farlo furono poeti come Solone, filosofi come Eraclito, e altre figure per
noi più o meno sfumate come i Sette Sapienti (→). Questo tipo di testi si differenziano dai proverbi
perché non sono di matrice popolare ed esprimono direttamente una indicazione etica, mentre i
proverbi lo fanno in genere attraverso una similitudine più o meno implicita. A partire da
Democrito, e soprattutto in età ellenistica, il genere si è poi precisato nelle sentenze e nelle massime
(→).
L’aggettivo gnomico si usa quindi per indicare il carattere di brevi frasi di contenuto prevalentemente
etico, di forte impatto emotivo, sia prese da sole che inserite nel contesto di scritti ampi.
Gnosi, Gnosticismo
Il termine gnosi, in greco gnosis, significa conoscenza. Non va però inteso in senso generico perché
con questo termine si indicano le credenze di un vasto e composito gruppo di filosofi e teologi, o
meglio di seguaci di antiche credenze pagane che utilizzarono elementi dottrinali delle antiche
scuole filosofiche greche per intendere in modo originale un messaggio religioso antico.
Storicamente gli gnostici, i cui testi sono quasi per intero perduti e le cui figure sono assai poco
note, hanno operato nell’età tardo antica prevalentemente in Oriente. Il nome gnostici deriva loro
dal fatto che hanno inteso la conoscenza non come il frutto di un atto di ricerca della mente, ma
come una illuminazione che la mente riceve in forma di rivelazione. Tra i principi gnostici c’è il
considerare l’anima umana imprigionata in un mondo che non è il suo, estranea all’universo fisico,
che è il frutto di una caduta rispetto all’origine divina e perfetta, caduta determinata dalla lotta tra i
principi del bene e del male.
Lo gnosticismo in filosofia ebbe notevole influenza in epoca tardo-antica, e venne combattuto da
Plotino, che nei suoi scritti vi si contrappone.
Gorgia
Gorgia appartiene alla prima generazione dei Sofisti e fu attivo negli anni centrali del V secolo a.C.
Nacque a Lentini in Sicilia intorno al 490, e la sua formazione dovette avvenire nel contesto della
scuola di Empedocle. Ma dovette anche entrare in rapporto con esponenti della Scuola di Elea, o
comunque con circoli culturali in cui le opere degli Eleati erano studiate, perché il tema del rapporto
tra essere e verità ritorna almeno in una sua opera (il filosofo eleate con cui direttamente polemizza
potrebbe essere Melisso).
Nella Sicilia dell’inizio del V secolo fiorivano anche studi di retorica, cioè studi che miravano a
chiarire le tecniche e le regole dei diversi tipi di discorsi. Il fine era non solo teorico (la conoscenza
delle basi del linguaggio umano, compresi i primi elementi di grammatica e di sintassi della lingua),
ma anche pratico (elaborare modelli di discorsi per la formazione dei giovani alla vita politica o al
diritto). Nel 465 a Siracusa era caduta la tirannia di Trasibulo, in uno dei tanti rovesciamenti di
regime politico della città. Ne era seguita una lunga serie di processi, perché molti proprietari che
avevano avuto i loro beni usurpati si rivolsero ai tribunali per far valere i loro diritti. Due giuristi,
Corace e Tisia (di cui sappiamo però molto poco), si rivelarono maestri in un particolare campo
della retorica (→), che era quello della cosiddetta invenzione, cioè delle tecniche per trovare gli
argomenti efficaci per convincere le giurie. Cominciavano anche a fiorire i primi studi sulle forme
della poesia, ormai molto differenziate nel mondo greco, ciascuna con proprie caratteristiche
specifiche (l’epos, la lirica, il teatro). Gorgia dovette entrare in rapporti con Corace e Tisia e si
specializzò negli studi di retorica ed anche nella riflessione filosofica sulla poesia.
Studi di questa natura erano legati anche a quelli musicali, che in Sicilia erano molto sviluppati
(anche per l’influenza dei Pitagorici, che ai fenomeni musicali dedicarono sempre grande
attenzione). In Sicilia stavano nascendo forme musicali nuove, sulle quali si discuteva molto, perché
i conservatori dicevano che avevano un’influenza negativa sui giovani, allontanandoli dalla
tradizione.
Gorgia raggiunse in ciascuno di questi campi un livello di eccellenza che gli venne riconosciuto in
tutto lo spazio culturale greco. Lasciò infatti la Sicilia e divenne uno dei più celebri tra i Sofisti,
maestro nelle tecniche del discorso.
Nel 427 fu ad Atene, a capo di una ambasceria, e qui la sua tecnica del discorso dovette fare molta
impressione, nonostante i Sofisti fossero già noti da tempo e la città avesse visto la presenza dei più
celebri maestri, Protagora compreso. A giudicare dalle testimonianze – non sempre benevole – che
ci sono rimaste, Gorgia doveva avere una capacità quasi magnetica di incantare il suo uditorio,
ottenendo con la sola parola effetti psicologici di notevole rilievo.
È autore di diverse opere, di cui ci rimangono per lo più frammenti, come del suo Sul non ente, o
sulla natura. Rimangono anche due brevi giochi letterari, tipici dello stile gorgiano, l’Apologia di
Palemede e l’Encomio di Elena, quest’ultimo importante per i principi di filosofia del linguaggio che
vi sono esposti.
Gorgone
Le Gorgoni erano rappresentate con la testa circondata da serpenti al posto dei capelli, con grosse
zanne simili a quelle dei cinghiali e con mani di bronzo e ali d’oro che consentivano loro di volare. Il
loro sguardo era così penetrante da impietrire – letteralmente trasformare in pietra – chi lo
affrontasse, pericoloso persino per gli dèi.
La Gorgone per eccellenza è Medusa, una creatura mitologica mortale, mentre le sue due sorelle
non lo erano.
Perseo – il mitico eroe figlio di Zeus – per volontà di Atena affrontò Medusa e la sconfisse,
tagliandole la testa nel sonno senza guardarla direttamente, ma solo attraverso l’immagine riflessa
nel suo scudo.
Grammatica
Benché elementi di una disciplina che nell’ellenismo si chiamò grammatike siano presenti nelle
analisi dei sofisti sul linguaggio, poi più diffusamente nelle opere logiche di Aristotele, la nascita
della grammatica come disciplina specialistica distinta tanto dalla logica quanto dalla filosofia del
linguaggio, benché connessa ad esse, risale al periodo alessandrino. Fu infatti ad Alessandria che si
posero le basi per la definizione delle regole grammaticali e sintattiche che governano la lingua.
Dal punto di vista filosofico, i principi di filosofia del linguaggio che i grammatici delle Scuole
filologiche di Alessandria (→) e di Pergamo (→) tennero presente erano quelli dello Stoicismo,
avendo gli Stoici condotto analisi di tipo specialistico sul linguaggio nei suoi rapporti col pensiero.
Grammatici alessandrini
Poiché dovevano affrontare complesse questioni linguistiche, i filologi della Scuola di Alessandria
(→) (come anche quelli della Biblioteca di Pergamo: →) furono anche grammatici, cioè studiosi della
lingua che affrontano il tipo di problemi che abbiamo descritto nella voce Grammatica (→). La
dizione grammatici alessandrini è quindi generica, e indica quel gruppo di filologi che operarono
presso la Biblioteca di Alessandria e per primi posero le basi sia della scienza filologica sia della
grammatica i cui principi ancora oggi utilizziamo, sia pure con le modifiche che gli studi successivi
hanno introdotto, fino ai nostri giorni.
Grande Anno
Gli Stoici anno proposto un’interpretazione circolare e non lineare del tempo (→). La visione
lineare dice che la sequenza passato / presente / futuro è una linea che può essere percorsa in una
sola direzione. Gli Stoici ammettono questo principio, ma la linea che essi concepiscono è circolare:
c’è dunque un momento in cui il tempo finisce e ricomincia.
Questa teoria è legata alla fisica stoica, che concepisce l’universo come un insieme unitario di
materia e di energia vivente, che fluisce nel tempo secondo leggi immutabili, perfette e necessarie.
Venuto a compimento il ciclo che le sue leggi interne impongono all’universo fisico, l’ultimo suo
atto è l’ekpirosis (→), termine che indica il fuoco distruttore e rigeneratore che infiamma il Tutto.
Compiuto così il ciclo completo della sua esistenza, l’universo fisico ricomincia con un nuovo ciclo
Questo accade da sempre e per sempre: è il Grande Anno.
Poiché l’universo è regolato da leggi razionali, perfette e immutabili, il nuovo ciclo è perfettamente
identico al precedente.
Greci / Grecia
I termini Greci e Grecia per indicare le popolazioni elleniche nel loro complesso e il luogo in cui esse
vivevano entrarono nell’uso non prima del IV secolo a.C.; poi i Romani tradussero con Graeci il
termine greco Graikoi che originariamente indicava una popolazione stanziatasi nell’Epiro per poi
passare (ma non prima appunto del IV secolo a.C.) ad indicare il complesso di quelli che si
definivano Elleni e chiamavano Hellas, che traduciamo con Ellade, la terra in cui vivevano (cioè la
Grecia continentale, distinta dalle aree coloniali). Anche il termine Hellas nasce da una estensione,
perché alle origini indicava soltanto uno dei distretti della Tessaglia meridionale.
Va osservato che per la cultura greca gli Elleni non erano definiti da una etnia particolare, ma dalla
lingua: erano Elleni tutti coloro che (in una delle varianti dei dialetti: →) parlavano la lingua greca e
si distinguevano quindi dai Barbari (→). Già in Esiodo il termine Panellenes indica tutti gli Elleni
ed è usato come identificativo che distingue i Greci da chi greco non è.
Greco
La lingua greca si è formata in un lungo arco di tempo attraverso la contaminazione dei vari dialetti
parlati dalle molte stirpi greche che, in diverse ondate, giunsero nella penisola greca, nell’Egeo e
nelle aree greche dell’Occidente. Il greco appartiene al gruppo delle lingue indoeuropee ed è per
alcuni versi parallelo al sanscrito, derivando in tempi remoti da un ceppo comune (il greco poi con le
migrazioni si è evoluto del tutto indipendentemente).
Non conosciamo naturalmente la lingua effettivamente parlata dalle popolazioni greche, ma
sappiamo che dovevano esistere molti dialetti e parlate locali, anche in zone ristrette. Il greco che è
giunto sino a noi è quello letterario, non solo delle opere nate al tempo della scrittura, ma anche di
quelle – come l’Iliade e l’Odissea – nate prima e poi codificate per iscritto. In entrambi i casi si tratta
di una lingua colta, letteraria; persino la commedia è rimasta fedele all’uso di strumenti linguistici
specifici per la poesia e il teatro, pur con elementi che rimandano ai modi verbali della vita
quotidiana. I Greci erano comunque in grado di capire, qualunque dialetto parlassero, la lingua
letteraria panellenica.
I gruppi linguistici – cioè le famiglie di dialetti – in Grecia e nelle colonie erano tre, a cui
corrispondevano localmente specifiche varianti:
- lo ionico, o attico-ionico, per l’importanza che il dialetto dell’Attica (e quindi di Atene) ebbe nella
produzione letteraria dall’epoca di Solone in poi (ma non prima: la lingua letteraria di Omero
rimanda più al mondo mercantile della Ionia);
- l’eolico, sviluppatosi in Tessaglia e a noi noto nella sua forma più pura attraverso la variante
specifica di Lesbo, in cui Saffo compose le sue poesie;
- il dorico, che si sovrappose all’acheo dapprima nel Peloponneso, poi in Sicilia e in Magna Grecia
(intorno al IV secolo a.C. divenne la base della lingua comune effettivamente parlata nell’Occidente
greco).
Singole realtà (ad esempio l’Arcadia) sfuggono a questo schema, e ciascuna famiglia di dialetti aveva
molte varianti: il greco era in effetti una lingua che mostrava una notevole ricchezza di sfumature, di
varianti, di adattamenti alle situazioni linguistiche locali, spesso miste, per il sovrapporsi delle
popolazioni.
In età ellenistica il greco ha assunto poi una connotazione internazionale particolarmente ampia, per
la quale rimandiamo alla voce Koine (→).
Guerra
In greco polemos. Nella vita di qualsiasi filosofo dell’antichità l’esperienza della guerra era in un
modo o nell’altro presente, almeno finché la pax romana per alcuni secoli non la allontanò (ma solo
per pochi secoli e dal cuore dell’Impero, perché ai margini rimase sempre). Non sorprende quindi
che il tema ricorra spesso nei filosofi anche se, forse proprio per la sua “normalità”, la filosofia
politica e sociale dell’antichità non ha messo a tema ricerche che saranno invece condotte con
grande originalità dai filosofi politici dal Rinascimento in avanti.
Per la filosofia greca la guerra è un fatto: c’è. Ha un risvolto legato alle radici profonde della natura,
ad esempio in Eraclito, in cui il termine polemos è utilizzato per indicare un carattere proprio del
divenire: i contrari si scontrano, come in guerra si scontrano gli eserciti, e ne derivano tutti gli esseri,
secondo la logica eterna e implacabile dell’ordine del Logos, che tutto governa.
Platone, che in altri luoghi dedica solo incidentalmente alcune riflessioni alla guerra, nella
Repubblica dedica però alla classe dei guerrieri analisi specifiche nel contesto della sua visione dello
Stato ideale.
Historia
Il termine greco historia copre un campo semantico vasto e non ha un preciso corrispettivo in
italiano. Lo traduciamo abitualmente con storia, ma indica in realtà qualsiasi tipo di ricerca “sul
campo”, svolta con indagini accurate e di persona, che metta capo ad una esposizione. In questo
senso un’opera di Aristotele che espone le sue indagini sugli animali (è un’opera di anatomia e di
morfologia descrittive) ha per titolo Peri ta zoa historia, resa in latino Historia animalium e in
italiano Ricerche sugli animali.
Dunque una historia è, innanzitutto e in tutti i campi, il frutto di una ricerca. Così anche in
medicina, dove indica la raccolta e la verifica delle osservazioni dei medici del passato utili per un
confronto con l’esperienza presente su casi patologici analoghi.
Hybris
Nella cultura greca è l'atteggiamento dell'uomo che non comprende i propri limiti e va oltre,
condannando se stesso (e coloro che dipendono da lui) ad un inevitabile destino. L'espressione più
tipica della hybris – termine che abitualmente è reso in italiano con tracotanza – è la mancanza di
misura di chi esibisce con arroganza la propria presunta (o anche reale, non cambia nulla)
superiorità sugli altri (e di chi sfida persino gli dèi).
Questa concezione etica, molto diffusa nel mondo arcaico e classico, che considera la hybris da
evitare sempre, è alla base della concezione greca dell'uomo, che non deve mai superare i propri
limiti, concezione espressa anche dal motto Conosci te stesso! (→).
Idea
I termini greci che traduciamo con idea sono due:
- eidos, il cui campo semantico oltre che idea comprende i concetti resi in italiano con essenza,
forma, genere, specie;
- morphe, che rendiamo con forma oltre che con idea.
Esiste anche il termine idea, che Platone usa a volte nel senso di idea mentale, contenuto
concettuale del pensiero.
Eidos ha la stessa radice di un verbo arcaico, eidomai, che significa apparire, essere visti; l’eidos è
quindi originariamente l’aspetto, l’apparenza. E tutti questi termini sono legati alla radice id-, la
stessa di historia, radice che rimanda al vedere.
Aristotele usa il termine eidos per indicare la specie (ad esempio quando distingue tre specie di
retorica, quattro di sovranità, e così via)
Le idee sono quindi qualcosa che la mente, non l’occhio, vede. La maggior parte delle scuole antiche
ha ritenuto che le idee siano prodotte dalla mente stessa, secondo modalità diverse da scuola a
scuola. Platone invece ha ritenuto di potere argomentare dialetticamente a favore di una teoria delle
idee diversa, basata sul principio che la mente non le forma, ma le contempla, ed esse hanno realtà
in sé oggettiva.
Per il complesso dei problemi legati al termine italiano idea rimandiamo alla voce Problema della
conoscenza (→).
Idee [Origine delle]
Nel più ampio contesto del problema della conoscenza (→), quello dell’origine delle idee è il settore
di ricerca che si occupa di studiare i processi di formazione di ogni forma del pensiero (il termine
idea qui è generico, e indica qualsiasi contenuto del pensiero). Per questa via si tratta quindi non
solo di comprendere da dove traiamo le nostre idee (dall’esperienza? dalla mente stessa? e così via),
ma anche se i meccanismi di formazione delle idee (e quindi il pensiero stesso) sono dotati di piena
validità, ed entro quali limiti.
Nella filosofia greca il problema ha assunto un’importanza centrale con Platone e Aristotele, perché
la teoria platonica delle idee implicava che almeno alcune delle idee della nostra mente non siano
formate a partire dall’esperienza, ma siano contenuti del pensare presenti nella nostra mente da
prima. Aristotele, respingendo la teoria platonica delle idee, colloca l’origine delle idee a partire
dall’esperienza sensibile.
Il tema ha sviluppi importanti nelle filosofie successive che si dividono fortemente su questo tema:
ad esempio nell’epicureismo l’origine delle idee viene ricondotta a processi fisiologici (si veda la
teoria dei simulacri: →).
In Platone e (in termini molto diversi) anche in Aristotele il problema dell’origine delle idee era
legato alla domanda non solo sulle facoltà, ma anche sull’origine dell’anima umana e quindi sulla sua
sopravvivenza dopo la morte. Questi temi tornarono ad essere studiati in età tardo-antica, quando il
problema dell’origine delle idee si legò alla questione del rapporto tra intelletto attivo e intelletto
passivo (→) che i commentatori di Aristotele sollevarono (vedi Alessandro di Afrodisia: →), dando
luogo a problematiche che dal problema della conoscenza muovevano verso tematiche teologiche
(come, in fondo, era stato con la teoria delle idee platonica).
Identità
Definisce il carattere specifico di ciascun ente, evento o concetto, permettendo di identificarlo
rispetto agli altri. L’identità può riferirsi a qualcosa di reale, o a enti puramente mentali o virtuali: da
una parola di cui si definisce il significato a un personaggio puramente letterario, a una oggettività
puramente virtuale, o ipotetica, o del tutto astratta. Al limite, l’identità può riferirsi a qualsiasi ente
o evento di qualsiasi tipo e forma di realtà, e per generalizzare a livello così elevato si usa
abitualmente la lettera A, per cui la “proposizione” A = A esprime nella sua forma più generale che
cosa debba intendersi per identità: se qualcosa non è identica a se stessa, non ha identità in senso
proprio e stabile. Queste nozioni sono state studiate approfonditamente dalla filosofia di epoche
successive alla greca, ma il tema è già anche in Aristotele: il principio di identità non è formulato
esplicitamente, ma lo si desume dai suoi scritti perché è implicito nel principio di non
contraddizione (→).
In estrema sintesi i problemi centrali sono due:
- qual è l’esatta identità delle cose che cambiano, in un mondo in cui tutto appare in movimento;
- qual è l’esatta identità delle cose che sono parti di un tutto.
Il problema filosofico dell’identità si è posto quindi alle origini stesse della storia della filosofia con
Eraclito, perché la sua teoria per cui tutto scorre (panta rei: →) implica l’incessante processo di
trasformazione della realtà; per conseguenza implica l’impossibilità di stabilire se non astrattamente
(cioè prescindendo dallo scorrere del tempo, come se si potesse fermare l’attimo) quale sia l’identità
di un ente o di un evento (in Eraclito il problema è risolto col richiamo al Logos).
Il problema è stato ripreso in tutte le filosofie successive che si siano poste il problema di identificare
enti ed eventi.
Nella filosofia greca le teorie sono, in estrema sintesi, quattro:
- le posizioni scettiche, che escludono la possibilità di stabilire una precisa identità per gli enti e gli
eventi, proprio in ragione del fatto che una legge che domina senza eccezioni la materia è il tempo,
che tutto trasforma, mutando così l’identità di ogni cosa; entro certi limiti a questa posizione
aderisce anche Platone, ma solo in riferimento alle realtà materiali;
- le posizioni di chi concepisce sì il movimento continuo come generatore e corruttore di ogni
identità, ma propone precisi concetti che consentono la identificazione degli enti e degli eventi pur
nell’incessante movimento del tempo (ad esempio il Logos di Eraclito e degli Stoici, le categorie
aristoteliche, e così via);
- le posizioni di chi ritiene che elementi del mondo fisico siano invarianti nel tempo, e abbiano
quindi una identità che non muta mai nonostante il mutare del tempo (ad esempio gli elementi di
Empedocle, le qualità delle particelle elementari di Anassagora, gli atomi di Democrito e di
Epicuro, e così via);
- le posizioni di chi ritiene esistano realtà al di fuori del tempo, per le quali quindi non si pone un
problema di trasformazione, sicché la loro identità è certa (per quanto difficile possa essere
comprenderla per chi, come la mente umana, vive nel tempo): le idee platoniche, il Dio aristotelico,
le ipostasi di Plotino, e così via.
Sul tema del rapporto tra l’identità individuale delle parti rispetto al Tutto si veda la voce Tutto: →)
Ilitia
Dea associata al parto, Ilitia (o Ilizia) era venerata anche in ambienti pre-greci, ad esempio a Creta.
A volte identificata con Artemide, era comunque sempre considerata la protettrice dei parti, e come
tale venerata in vari santuari. In Omero le Ilitie sono non una sola dea, ma una pluralità di geni
femminili preposti alle nascite.
Ilozoismo
Da hyle, materia, e zoe, vita, è la teoria tipica dei primi filosofi naturalisti (ma ilozoismo è termine
coniato dagli studiosi moderni) che vede l’intera natura come vivente.
La teoria è poi ripresa dagli Stoici, che vedono la materia vivificata dall’energia del pneuma (→).
Imeneo
È il canto tipico delle nozze, eseguito da un coro di ragazzi e ragazze (si distingue dall’epitalamio
solo per il fatto che quest’ultimo veniva eseguito non durante le nozze, ma la sera del giorno delle
nozze o il mattino successivo). Testi di questo genere poetico risalgono all’età dei primi poeti lirici
(la poetessa che ha lasciato i canti più celebri è Saffo: →), ma il genere venne molto coltivato anche
in età ellenistica e romana.
Il nome Imeneo richiama una divinità che nel mito guida il corteo nunziale. Si raccontavano anche
antiche storie su un giovane ateniese di questo nome, che in tempi remotissimi avrebbe vissuto
peripezie poi finite bene con la propria innamorata, poi divenuta sua sposa. Veniva quindi invocato
il suo nome come buon augurio per gli sposi.
Imera
L’antica Himera sorgeva in Sicilia sulle ultime propaggini delle Madonie, non lontano dalla costa.
Costruita in posizione strategica, controllava un vasto territorio ed era ben difesa da mura poderose,
i cui resti sono ancora visibili insieme all’area sacra.
Venne fondata intorno al 648 a.C. da coloni calcidiesi provenienti non dalla Grecia, ma da Zancle
(cioè Messina) e da gruppi di fuoriusciti da Siracusa. Ebbe un periodo di notevole prosperità tra il
VII e il V secolo a.C., e fu a Imera che per la prima volta in Sicilia vennero coniate le monete di
bronzo, all’inizio del V secolo.
Quando lo scontro tra i Cartaginesi e i Greci per il controllo della Sicilia orientale divenne
inevitabile, nella piana di Imera si tenne lo scontro decisivo: è la celebre Battaglia di Imera del 480
a.C., che la tradizione storiografica greca vuole sia avvenuta lo stesso giorno della battaglia di
Salamina. I Greci autorappresentarono così lo scontro che li stava contrapponendo a Persiani e
Cartaginesi che, da Oriente e da Occidente, tentavano di penetrare nello spazio greco (sono però
ben poche le somiglianze che gli storici riscontrano fra l’attacco persiano e quello cartaginese).
In realtà lo scontro a Imera era avvenuto perché il tiranno di Agrigento Terone aveva scacciato il
tiranno di Imera Terillo, legato a Cartagine, giungendo così a imporre la potenza di Agrigento
(l’antica Akragas) anche sulla costa nord della Sicilia. Nella battaglia di Imera Terone ebbe poi
l’appoggio di Gelone, tiranno di Siracusa. Sul fronte opposto era il cartaginese Amilcare. A ricordo
della battaglia sulla piana tra Imera e il mare sorse un tempio ancora oggi visibile.
Quasi un secolo dopo i Cartaginesi riuscirono a ribaltare le sorti del conflitto: comandati dal sufeta
Annibale, nel 409 a.C. attaccarono Imera e la distrussero uccidendone, si disse, tremila abitanti. Il
resto della popolazione si ritirò a Terme, una località che sorgeva nelle vicinanze su una altura sul
mare (Thermae Himerensis, l’attuale Termini Imerese), e il sito dell’antica Imera venne di fatto
abbandonato (rimase per alcuni secoli un piccolo insediamento, poi l’abbandono fu completo).
Imitazione
In greco la mimesis (termine che traduciamo con imitazione, sulla scorta dei latini che traducevano
imitatio, che ha la stessa radice di imago, cioè immagine) è il processo con cui un soggetto produce
qualcosa sulla base di un modello.
In filosofia i problemi connessi al concetto di imitazione appartengono a due distinti campi:
- nell’ambito di questioni legate alla vera natura dell’essere eterno delle idee e a quello in perenne
divenire nel tempo degli enti materiali, e della natura nel suo insieme, Platone pone il problema del
rapporto tra idee e cose, e propone tra altre soluzioni anche l’imitazione (un’altra è la partecipazione:
→): le idee sono plasmate a imitazione delle idee; è una teoria che pone problemi esaminati da
Platone stesso che ritornano poi nelle filosofie medioevali e moderne che riprendono i concetti
platonici;
- il secondo campo in cui il termine è utilizzato è quello dell’estetica (→): l’arte è comunemente
intesa nella cultura ellenica come imitazione della natura; va ricordato in campo estetico la nozione
di imitazione ha dato luogo a giudizi fortemente diferenziati.
Immaginazione
Il termine greco è phantasia e indica la facoltà della mente di creare in se stessa immagini (→) tanto
in relazione all’esperienza sensibile quanto in modo indipendente. Il problema centrale relativo
all’immaginazione, nel contesto del problema della conoscenza (→), riguarda il suo ruolo tra le
facoltà dell’uomo, e in particolare nel passaggio dalla sfera della sensibilità a quella del pensiero
intellettivo. Un problema specifico è poi il ruolo che l’immaginazione gioca nell’intuizione (→), ed
in particolare nell’intuizione intellettuale.
Il tema dell’immaginazione è poi studiato nelle forme di conoscenza che utilizzano la meditazione,
nel pensiero per immagini (→) e, come è ovvio, nei processi relativi alla dimensione estetica (vedi la
voce Estetica: →).
In Epicuro e negli Stoici l’immaginazione coincide con la facoltà umana che consente di acquisire
rappresentazioni (→) del mondo esterno.
Immagine
Il termine greco che traduciamo con immagine è eikon (da cui anche l’italiano icona). Il verbo eikein
significa rassomigliare. Un sinonimo di eikon è mimema, legato a mimesis, imitazione, e quindi
l’immagine in questo senso è intesa come qualcosa di costruito a imitazione di qualcos’altro. In
Platone le immagini sono in effetti imitazioni, copie, con un valore quindi ridotto rispetto
all’originale.
Nella teoria della conoscenza dei filosofi materialisti le immagini sono eidola (il singolare è eidolon,
per la cui nozione rimandiamo alla voce Simulacri: →), cioè gli effluvi composti da pellicole di atomi
sottilissimi che si staccano dalle cose ed entrano in contatto coi nostri sensi.
La parola immagine in italiano – e le corrispettive nelle lingue moderne – ha quindi un campo
semantico diverso, ma la base è comune alla nozione greca, e comuni sono alcuni dei problemi
filosofici a cui la nozione rimanda (l’estensione del campo semantico per le lingue moderne rimanda
anche ad una estensione del campo problematico rispetto a quello che stiamo per descrivere):
- un primo e ovvio problema è la natura delle immagini che la mente forma e la loro corrispondenza
a ciò di cui sono immagini: si pone quindi per le immagini il problema della definizione di un
criterio di verità, per dar loro credito o meno;
- un secondo problema riguarda il mondo delle immagini usate come segni, quindi non immagini
mentali, ma fisiche: è qui l’intero mondo dell’imitazione nelle opere d’arte e nel linguaggio, quindi i
problemi dell’estetica (→) e della filosofia del linguaggio (→)
Va ricordato infine che nella cultura greca l’immagine non è mai svalutata nella sua realtà, come a
volte accade nella cultura moderna. Ad esempio le immagini dei sogni rimandano, non solo per la
cultura popolare, alla presenza del divino o del demonico; e nel mito le immagini, pur false, sono in
realtà un doppio della realtà, e come tali operano (ad esempio, si veda il mito di Issione, che ama
una falsa immagine della dea Era, ma ha dei figli da questa immagine).
Immobile
La parola greca è akinetos, cioè privo di movimento (kinesis). La nozione è utilizzata soprattutto in
relazione al problema dell’essere (→), per indicare realtà perfette e compiute che, per conseguenza,
non mutano al proprio interno né sono soggette a movimenti dall’esterno (così è immobile l’Essere
di Parmenide, e anche il Dio di Aristotele). In queste filosofie il termine denota quindi compiutezza
e perfezione. Per questa nozione si veda anche la voce Movimento (→).
Immortalità
Il problema filosofico legato alla nozione di immortalità (in greco athanasia, mentre athanatos
significa immortale) è descritto dalle seguenti domande, connesse fra loro: in natura, o in mondi (se
esistono) diversi dalla natura, ci sono esseri viventi che non muoiono? esiste cioè una forma di vita
diversa da quella vegetale e animale che non implichi la morte? se esiste, l’uomo – o una sua parte –
possiede questa specifica forma di vita?
Gli esseri senza morte della mitologia
La risposta della mitologia greca è positiva in due sensi diversi:
- la forma di vita degli dèi, e delle figure associate agli dèi, è diversa da quella degli altri viventi
perché non implica la morte: gli dèi nascono, crescono, non invecchiano, non possono morire; non
hanno morte (e neppure vecchiaia, anche se vivono nel tempo);
- la forma di vita dell’uomo è diversa da quella animale, perché una sua ombra sopravvive, o meglio
vegeta agli Inferi: una condizione non felice né infelice; solo le religioni dei misteri hanno concepito
forma di vita felici a certe e difficili condizioni dopo la morte; a volte, sono concepite altre
incarnazioni (vedi la voce Metempsicosi: →).
Nel complesso la risposta mitica non è rassicurante per l’uomo: per i viventi tutto ciò che di
interessante c’è nella vita finisce con la vita (religioni dei misteri a parte).
L’immortalità va comunque distinta in modo netto dall’eternità (→), che è una nozione filosofica e
non mitologica utilizzata da Platone in riferimento ad entità come le idee che non hanno tempo (in
Platone anche la concezione del divino sembra allontanarsi dalla tradizione della religione greca e
avvicinarsi a questa nozione di eternità, sia pure sempre sotto il velo del racconto mitico, come nel
mito dell’Iperuranio del Fedro).
Se riferita all’anima dell’uomo, l’immortalità è da distinguere dalle teorie sulla vita prima della
nascita e dopo la morte, che implicano sì una estensione della nozione di vita al di là dei limiti
temporali e fisici dell’individuo, ma non implicano di per sé l’immortalità, perché il ciclo delle
rinascite non è necessariamente detto che sia senza fine.
Va poi ricordato che la mitologia greca conosce il problema dell’invecchiamento legato
all’immortalità, e sa quindi che non è certo desiderabile se non associata all’eterna giovinezza.
Il problema filosofico
Le posizioni filosofiche su questo tema
nella filosofia greca sono riassumibili nel seguente schema:
- posizioni scettiche (non solo presso gli Scettici propriamente detti, ma anche presso molti altri),
che negano la possibilità di saperne alcunché;
- posizioni negative, come quelle dei materialisti, che negano l’immortalità (dèi a parte);
- posizioni che aprono alla speranza di una vita immortale, ma come in Platone risolvono la
speranza in narrazioni di miti filosofici;
- posizioni di filosofi, ad esempio Plotino, che affermano forme di vita dopo la morte del tutto
diverse dall’esperienza della vita individuale che facciamo in vita.
Sui problemi filosofici legati alla nozione di immortalità si veda la voce Morte (→).
Impassibile / Impassibilità
Impassibile è chi non si lascia sottomettere al pathos (→), cioè chi si pone al di sopra delle emozioni
e delle passioni (il termine greco è apathes, cioè appunto senza pathos, e l’impassibilità è apatheia).
Questi termini sono riferiti sia all’uomo (li usano gli Stoici per parlare della libertà del saggio dalle
passioni) sia a enti cosmici come la Nous di Anassagora, che non si mescola con le omeomerie, o
come il Dio aristotelico che, nella sua perfezione, non è scalfito dalle passioni. Vedi anche la
nozione di Atarassia (→).
Impronta / Impressione
Nel contesto delle scuole filosofiche dell’ellenismo – in particolare nell’Epicureismo, ma anche nello
Stoicismo con una valenza diversa – la typosis, termine che rendiamo in italiano con impronta, o
impressione, è l’effetto sui nostri organi di senso del contatto con l’oggetto conosciuto.
Presso queste scuole ellenistiche la conoscenza sensibile è infatti interpretata come il risultato di un
contatto diretto tra la cosa e l’organo di senso (ad esempio la vibrazione dell’aria e il timpano, i
simulacri dei corpi e l’occhio, e così via), che produce una rappresentazione mentale dell’oggetto.
Inconoscibile
La nozione greca di agnostos, inconoscibile, è per lo più utilizzata dagli scettici per indicare la vera
realtà delle cose e, in effetti, a loro avviso può essere riferita a qualsiasi realtà e a qualsiasi verità. Il
termine significa che ogni conoscenza umana è illusoria e ci sono fondate ragioni di incertezza su
tutto. Negli scettici il termine non significa che esista una realtà al di là dei limiti della conoscenza
umana, perché non c’è di fatto nulla al di qua di questi limiti. Lo scettico ritiene che la sana ragione
ci porta a dubitare di tutto, e ne elenca i motivi (si pensi a Enesidemo e ai suoi tropi: →).
Prima degli scettici, il termine è riferibile al non-essere e al nulla come oggetti specifici di ricerca
filosofica: la Scuola di Elea considera questa ricerca impossibile perché si tratta appunto di
inconoscibili, cioè di pensieri impossibili: se proviamo a pensare al non-essere e al nulla, non ci
riusciamo perché non c’è nulla da pensare.
Aristotele usa il termine inconoscibile anche in riferimento a realtà di cui non nega affatto
l’esistenza e la realtà: parla della materia come inconoscibile in quanto pura potenzialità priva di
forma. Nello stesso senso nell’età tardo antica diversi autori e scuole che si muovono al confine tra
religione e filosofia (Filone di Alessandria, l’ermetismo, il medio-platonismo, e così via) parlano di
Dio come inconoscibile, non certo perché inesistente, ma perché al di là della portata della mente
umana.
Incorporeo
Soma in greco è il corpo, asomaton è ciò che non ha corpo. Epicuro riferisce questa nozione alle idee
platoniche per contestarne l’esistenza (nulla di incorporeo, cioè di non composto di atomi o derivato
da un composto di atomi, esiste per l’atomismo antico).
Il termine gioca un ruolo importante nello Stoicismo, che considera pienamente esistenti soltanto i
corpi e l’universo fisico che essi formano unitariamente, reso vivo dall’energia del Logos che si irradia
nei corpi come pneuma. Tuttavia l’essere dei corpi e dell’universo fisico implica per esistere e agire
alcuni incorporei, quattro per l’esattezza:
- il lekton (letteralmente ciò che è detto, ma il termine indica più esattamente il significato di ciò che
è detto, significato che ha una realtà puramente mentale e non è un corpo);
- il luogo dove sono i corpi;
- il vuoto che circonda l’universo fisico;
- il tempo che scandisce la vita di ogni corpo.
Queste realtà sono incorporee in un senso molto diverso da quello, polemico, che Epicuro
attribuisce alle idee platoniche: quelle per Epicuro non esistono, e non avendo corpo non sono per
nulla; questi sono condizioni essenziali per l’esistenza dei corpi, ed esistono dunque in loro
funzione.
Incorruttibile
È un termine (aphthartos, mentre phthartos significa corruttibile) che Aristotele riferisce alla natura
eterna dei Cieli e di Dio (ad essere incorruttibile è quindi uno dei tipi della sostanza: →), mentre gli
Stoici lo riferiscono al mondo nella sua totalità (vedi la voce Grande Anno: →).
La nozione di incorruttibile non è sovrapponibile a quella di immobile (→), perché ciò che non ha
movimento non ha neppure corruzione (come il Dio aristotelico), ma ciò che non ha corruzione può
avere movimento: così i cieli per Aristotele hanno movimento. La loro incorruttibilità presuppone
quindi un tipo di movimento perfetto e ciclico, eternamente eguale a se stesso e privo tanto di
generazione quanto di corruzione (vedi anche la voce Generazione / Corruzione: →).
Incubazione
Pratica medica antichissima, diffusa in una vasta area del mondo antico tra il Mediterraneo e la
Mesopotamia.
In Grecia era soprattutto celebre la pratica dell’incubazione utilizzata a fini terapeutici nel santuario
di Asclepio (→) ad Epidauro. L’ammalato era ammesso nel recinto sacro e vi rimaneva per un certo
tempo. Restava nel tempio anche la notte e nel sonno riceveva il sogno inviato dal dio, sogno che
veniva poi interpretato dai sacerdoti che indicavano la cura, consistente in genere in riti religiosi.
L’ammalato dormiva per terra: l’obiettivo era esporlo alla forza salvifica delle potenze ctonie, cioè
sotterranee, che agivano su di lui entrando in contatto diretto.
Indeterminato
Vedi Infinito
Indifferenti
Nel quadro dell’etica gli Stoici chiamano indifferenti (in greco adiafora) tutte le cose e gli eventi che
non hanno una valenza etica, cioè che non aiutano né danneggiano la possibilità di condurre una
vita secondo natura e secondo ragione. In effetti si tratta della maggior parte delle cose e degli eventi
a cui chi non è filosofo dà importanza: si può essere liberi e felici per gli Storici sia da schiavi che da
uomini di successo, eppure non si considera indifferente la propria posizione sociale. Per gli Stoici lo
è, come lo sono la bellezza o la bruttezza, la salute o la malattia, la giovinezza o la vecchiaia, e così
via.
Il termine adiafora è usato in un senso diverso dagli scettici, che a partire da Pirrone considerano
indifferenti rispetto alla verità tutte le cose e le opinioni, perché l’uomo non ha nessuna certezza e il
saggio mantiene la sua indifferenza rispetto a una verità o a un’altra: le ritiene tutte incerte. Così il
saggio non si pronuncia (vedi la voce Afasia: →) sul segno positivo o negativo di qualsiasi evento;
non lo considera né una fortuna né una sfortuna, perché nulla sa di certo, e mantiene integra la sua
libertà interiore.
Individuale / Universale
Vedi Universale
Induzione
È il passaggio che la mente compie dal singolare al generale (in greco epagoge). Aristotele studia
l’induzione negli Analitici Primi, II, 23, ma non la considera un ragionamento vero e proprio, perché
riserva questa nozione per la deduzione (→), che ricava (con un processo inverso) il particolare
dall’universale. L’induzione aristotelica è quindi da identificarsi con il processo di astrazione (→),
con cui la mente da una realtà individuale separa alcuni elementi con un processo che non avviene
nella cosa, ma nella sola mente, per collegarli ad altri elementi astratti da altre realtà individuale
(come un determinato colore simile o uguale in una serie di oggetti colorati).
L’induzione è connessa con la deduzione perché l’universale, da cui la deduzione parte, può formarsi
per induzione.
Infinito / Indeterminato
Il primo a introdurre il tema dell’indeterminato in filosofia è Anassimandro, in un frammento di
difficile lettura (fr. 1 Diels) che ha dato luogo a varie interpretazioni. Aristotele usa il termine
aoristos per dire che il movimento è qualcosa di indeterminato. Ma il termine greco comune per
indicare le nozioni che in italiano esprimiamo con i due termini infinito e indeterminato (non certo
sovrapponibili) è apeiron (→), negativo di peras, che vuol dire limite e deriva dal verbo perao, che
significa terminare, portare a termine, alla perfezione. Il fatto che la lingua greca non distingua tra
infinito e indeterminato, e usi la stessa parola, indica che i due concetti erano allora uno soltanto:
l’infinito non è qualcosa di positivamente esistente con caratteri propri, ma è il non compiuto,
l’indeterminato. A questo proposito nei Libri III e IV della Fisica Aristotele parla di infinito
potenziale, cioè in potenza e non in atto, per indicare realtà indeterminabili come i numeri, che sono
potenzialmente infiniti, ma ciascuno è finito, e la potenziale infinità consiste nel fatto che è sempre
possibile indicare un numero più grande.
A partire però dalla fine del V secolo a.C. compaiono in Grecia concezioni positive dell’infinito. Ce
ne sono almeno due, una proposta da Melisso (in riferimento all’Essere di Parmenide), l’altra
dall’atomismo (per Epicuro infiniti mondi compongono, con infiniti atomi in infinito spazio, il
Tutto). Il tema è stato poi ripreso in chiave neoplatonica da Plotino.
Ingenerato
Il termine greco è agenetos: poiché la generazione (genesis) è l’inizio, ciò che è ingenerato è senza
inizio (vedi anche la voce Eterno: →). Il termine è usato da Platone in riferimento alle idee e
all’anima, da Aristotele in riferimento alla materia (il Cosmo è da lui concepito eterno). Può essere
applicato anche agli atomi e allo spazio dei materialisti, e a tutti i tipi di particelle elementari
proposte dai filosofi pluralisti (ad essere generati sono i corpi, non le particelle che li compongono).
La nozione non implica di per sé l’indipendenza dal tempo, se ciò che è ingenerato esiste da sempre
(così ad esempio il Cosmo per Aristotele e, con diverse teorie, per Epicuro e per gli Stoici). È
coerente con l’indipendenza dal tempo (in questo senso Parmenide chiama ingenerato l’Essere,
Platone le Idee).
Iniziato / Iniziazione
L’iniziazione è quel complesso di riti e di pratiche - legate alla conoscenza, o al passaggio all’età
adulta, o ad uno stadio superiore della propria identità personale – che consentivano l’ingresso in
una comunità solo a chi aveva determinati requisiti e aveva superato alcune prove.
Lo stesso termine iniziazione è riferito quindi almeno a due distinti ambiti:
- al passaggio dall’adolescenza all’età adulta, accompagnata in molte civiltà antiche dai cosiddetti riti
di passaggio (diffusissimi in Grecia con pratiche e tradizioni diverse da città a città); i riti di
passaggio simboleggiamo la morte dell’uomo (o della donna) e la rinascita in una nuova e più elevata
condizione;
- all’ingresso in comunità religiose chiuse come quella, ad esempio, pitagorica, o come le sette delle
religioni dei misteri (→); l’iniziato doveva superare una serie di prove, riceveva rivelazioni di ordine
sacro (o magico), ed acquisiva così un nuovo status, impegnandosi per ciò stesso a rispettare gli
obblighi derivanti dalla sua nuova posizione sociale e personale.
Anche in filosofia compare talvolta l’iniziazione, in genere da parte di una figura sacrale (dea o
sacerdotessa) a un giovane: così nel Poema sulla Natura di Parmenide e nel discorso di Socrate nel
Simposio di Platone. Ma nulla lascia pensare che si tratti di qualcosa di diverso da un’ambientazione
di tipo letterario (che tuttavia ha dato molto da discutere agli studiosi): in entrambi i casi le teorie
“rivelate” non hanno in effetti nulla di iniziatico.
Inno
È un canto in onore di un dio. Anche nella storia della filosofia antica vi sono inni dal profondo
significato filosofico, ad esempio l’Inno a Zeus (→) di Cleante in cui Zeus è chiamato il dio “dai
molti nomi” (e identificato quindi con il Logos stoico).
È un genere letterario molto antico, forse pre-greco, che trovò continuità – anche attraverso lo
Stoicismo – fino all’età cristiana.
Intelletto
Vedi Nous
Intelletto attivo (o produttivo) / Intelletto passivo
Sono espressioni di Aristotele, discusse in particolare in L’anima, III-4,5. Studiando la conoscenza
intellettiva in analogia alla conoscenza sensibile, Aristotele osserva che è possibile applicare la
relazione potenza/atto, prima utilizzata per descrivere la sensibilità, anche alla conoscenza
intellettiva (“Chiamo intelletto ciò con cui l’anima pensa e apprende”, scrive Aristotele): l’intelletto è in
potenza in quanto può ricevere tutte le forme intelligibili (con cui evidentemente ha un’affinità
strutturale). Se prima non conosce nulla, è nel pensare che attua la sua potenzialità visto che le
forme intelligibili sono oggetti mentali pensati. Questo passaggio presuppone però che vi sia una
causa efficiente, un intelletto produttivo che produce (analogamente alla luce nei confronti dei colori)
le forme intelligibili delle cose illuminando la mente dell’uomo.
Fissati questi punti, Aristotele afferma che
- l’intelletto passivo è separato, inalterabile e non mescolato con gli organi corporei;
- l’intelletto produttivo possiede anche i caratteri dell’immortalità, eternità, impassibilità: non subisce
affezioni e non conserva traccia dei contesti accidentali della singola esistenza, cioè non subisce i
condizionamenti del corpo (“Quando è separato, è soltanto quello che è veramente, e questo solo è
immortale ed eterno …, e senza questo non c’è nulla che pensi”).
È di particolare importanza, al fine della storia della filosofia medioevale, il fatto che
l’interpretazione dei passi aristotelici che riguardano questi temi siano stati al centro di un dibattito
secolare, protrattosi dalle prime interpretazioni greche (vedi Alessandro di Afrodisia: →) a quelle
arabe, sino a tutta la Scolastica europea. Va precisato che la pagina aristotelica in cui queste tesi
sono esposte è breve, oscura e isolata rispetto al percorso complessivo dell’analisi della conoscenza
umana, e questo spiega la difficoltà degli interpreti.
Intellettualismo etico
Con questa dizione si fa abitualmente riferimento a quella concezione tipicamente ellenica, ripresa
da Socrate, per cui l’uomo compie sempre quello che ritiene essere il bene, e non ha inclinazioni per
quello che ritiene essere il male. Le azioni e le scelte che consideriamo negativamente sono quindi
condotte in buona fede, nella convinzione soggettiva di operare per il bene. L’errore non è quindi
della volontà, ma dell’intelletto, che confonde il male per il bene. Per i sostenitori
dell’intellettualismo etico come Socrate, l’obiettivo dell’etica filosofica è quindi rendere la coscienza
più consapevole della differenza tra il vero bene e il male. Il tema è legato alla massima socratica “so
di non sapere” (→), e alla sua riflessione sulla coscienza morale. Va osservato che con
l’intellettualismo etico la libertà viene associata alla ragione più che al volere.
Intelligenza
È la phronesis dei Greci, termine usato alle origini in senso generico (per Eraclito è sinonimo di
pensiero) poi in senso tecnico e specifico da Platone (la phronesis è il pensiero puro, la conoscenza
delle idee) e da Aristotele (che usa questo termine per indicare il discernimento morale, la prudenza
del saggio).
Sui problemi filosofici connessi con l’intelligenza vedi la voce Nous (→).
Intelligibile
È un termine tipico del platonismo e delle scuole ad esso collegate: la parola greca è noetos, la cui
radice è la stessa di nous (→), alla cui voce rimandiamo.
L’intelligibile è ciò che non è oggetto di conoscenza sensibile, ma può essere “visto” dalla mente in
se stessa. Platone lo riferisce alle idee e al mondo delle idee.
Il problema filosofico che questa nozione sottende è duplice:
- quale tipo di realtà abbiano conoscenze di questo tipo, che non riguardando enti individuali e
materiali non hanno per oggetto del pensiero nessun ente di cui sia possibile fare esperienza (si può
pensare in termini intelligibili l’idea di uomo, ma si può fare esperienza solo di singoli uomini);
- quale verità si esprima nel mondo intelligibile, se una verità si esprime (Epicuro, ad esempio, nega
che negli intelligibili vi sia alcuna verità, neppure in quelli matematici; Platone ritiene che di verità
si possa parlare solo per gli intelligibili).
Il tema ha uno sviluppo notevole nel neoplatonismo, che fa dell’Intelligenza una ipostasi eterna.
Intenzione
Legato alla volontà, è l’atto interiore con cui il soggetto (cosciente di sé e nel pieno delle proprie
facoltà di intendere e di volere) pone un fine, uno scopo, alle proprie scelte. Non è quindi quel che si
vuole, ma la ragione per cui lo si vuole, l’obiettivo che si ha di mira nel volere qualcosa. Vedi la voce
Volontà (→).
Intermedio / Intermediario
Le nozioni di intermedio e di intermediario – in greco metaxu – compare nelle opere filosofiche
greche, soprattutto in Platone e in Aristotele, in contesti diversi:
- in Platone e in Aristotele in cosmologia, o sul tema del rapporto tra le parti che compongono il
Tutto, svolgono la funzione di enti intermedi varie realtà, diverse: in Platone il Demiurgo e l’Anima
del Mondo (→) (nel Timeo); in Aristotele i Cieli, in quanto sensibili e materiali, ma allo stesso
tempo incorruttibili ed eterni;
- in relazione al sapere umano, perché è intermedio tra l’ignoranza e la sapienza; Platone considera
intermedia in questo senso l’opinione giusta, che è vera ma non può essere considerata un saldo
possesso della verità perché è opinione, vera per caso: potrebbe essere falsa, per quel che ne sa chi ha
quella opinione, visto che non è in grado di giustificarne e comprenderne la verità (altrimenti non si
tratterebbe di doxa, ma di episteme);
- in relazione ad Eros secondo il discorso di Socrate-Diotima del Simposio platonico: Eros è
presentato sia come intermedio che come intermediario, perché è a metà strada tra sapienza e
ignoranza; è mortale e immortale allo stesso tempo; è legato al mondo degli uomini e a quello degli
dèi; può quindi svolgere la funzione di intermediazione tra il mondo degli dèi e quello degli uomini
(e quindi tra la loro sapienza e la nostra ignoranza);
- in relazione alla filosofia stessa per Platone, sospesa tra la percezione del proprio non sapere e
l’amore per il sapere: “la filosofia è una disciplina erotica, in quanto presenta un modello tensionale
che la caratterizza in modo essenziale: la pratica filosofica è anche, proprio come Eros di Diotima,
una modalità intermedia, la cui funzione sembra quella di mediare tra l’intelligibile e il sensibile, tra
la ragione e le passioni, tra l’essere e il divenire” (Ferrari 2006, p. 116).
Il problema dell’identificazione di un ente nel Cosmo e di una facoltà nell’uomo che svolga un ruolo
intermedio nasce in Platone dall’aver concepito l’universo diviso in due sfere, una materiale,
sensibile e soggetta al tempo, l’altra intellegibile ed eterna. Poiché le due sfere del reale hanno
un’evidente molteplicità di rapporti, ma non è facile comprendere come dall’eterno si passi al tempo,
dall’intellegibile al sensibile, e così via, è necessario studiare elementi che consentano il passaggio. In
questo senso il problema dell’identificazione di intermediari, sia tra gli enti che nell’uomo in quanto
appartenente ad entrambe le sfere (ha il corpo e conosce sensibilmente, ma pensa in termini di pura
intellezione), è analogo al problema del rapporto tra le idee e le cose che Platone esamina
proponendo varie soluzioni, espresse per lo più dai termini imitazione (→) e partecipazione (→).
In questo senso il problema ritorna in Aristotele, che ammette l’esistenza di un ente puramente
intelligibile e non corporeo come il Dio “pensiero di pensiero”, in rapporto però con l’universo fisico
(attraverso i Cieli, appunto con funzione di intermediazione).
Benché il termine metaxu sia utilizzato anche da altre scuole, il tema non ha più un rilievo centrale
nelle scuole ellenistiche che hanno respinto la tesi platonica, e in parte anche aristotelica, che il
Tutto sia composto di parti eterogenee (materiali e non materiali, soggette al tempo e
indipendenti).
Quanto al neoplatonismo, che riprende l’antica tesi platonica, i gradi intermedi sono molti o
moltissimi, a seconda degli autori, perché si passa dalla realtà originaria (l’Uno) alle molteplici realtà
attraverso varie ipostasi e ulteriori passaggi intermedi.
Intermundia
Il termine è latino (ad esempio in Cicerone, De natura deorum, 19-19) e traduce il greco metakosma:
in senso tecnico è termine specifico della teoria fisica epicurea e indica gli spazi tra i mondi dove
abitano gli dèi. Per mondi si deve intendere ciascuno dei sistemi di stelle, pianeti e altri corpi celesti
connessi a formare una unità, come è il caso dell’insieme degli astri (dal Sole alla Luna) e della
Terra. Per Epicuro, e quindi per Lucrezio, di sistemi di questo tipo, cioè di mondi, ce ne sono
infiniti perché infinito è lo spazio vuoto e infiniti sono gli atomi.
Da dove nasca e come sia razionalmente argomentata la teoria per cui gli dèi abitano in questi spazi
tra i mondi non è chiaro, per la perdita delle opere maggiori di Epicuro.
Interpretazione
Il termine greco è hermeneia, reso in latino con interpretatio. Interpretare significa intendere il senso
di un insieme linguistico, cioè di un insieme di segni di qualsiasi tipo: una proposizione, un testo,
l’espressione di un volto, un comportamento, e così via. Ovunque ci sia comunicazione attraverso
segni (e quindi comunicazione tout court, perché si comunica sempre attraverso segni) può nascere
un problema di interpretazione, cioè la domanda: che cosa significa?
In filosofia il problema dell’interpretazione è posto esplicitamente, ma in modo diverso, da Platone
e da Aristotele. Platone parla dell’arte di interpretare gli oracoli (cioè di intenderne il senso, sempre
oscuro) e studia i poeti come interpreti per lo più inconsapevoli di verità ispirate (interpreti nel senso
di “portavoce” degli dèi).
Aristotele usa il termine hermeneia per trattare (appunto nel trattato Peri ermeneias, cioè
Dell’interpretazione, che fa parte dell’Organon) del linguaggio come “interprete” dei pensieri, in
modo da poterli comunicare all’esterno.
In filologia il problema dell’interpretazione divenne centrale in età ellenistica, quando (soprattutto
presso le Biblioteche di Alessandria e di Pergamo) gli studiosi si posero il problema di interpretare
gli antichi testi scritti della tradizione letteraria greca, a partire dall’Iliade e dall’Odissea. Ci si trovò
di fronte ad una massa di problemi di correttezza dei testi, di autenticità delle opere, di
interpretazione del significato delle parole che si era modificato nel corso dei secoli, e così via.
Interpretare, cioè intendere correttamente, gli antichi testi si rivelò un compito difficile. Vennero
elaborati diversi metodi per venire a capo dei problemi di interpretazione (in risposta a domande del
tipo: “che cosa intende dire in questo passo questo poeta, o questo filosofo?”, oppure: “come va
interpretato questo segno? cosa c’è scritto esattamente in questo punto di questo antico papiro?”, e
così via). Si vedano su questo punto le voci Analogisti e Anomalisti (→).
Dal I secolo d.C. in poi negli ambienti culturali ebraici e poi cristiani si pose anche il problema della
corretta interpretazione delle Sacre Scritture, e su questo punto nacquero scuole e metodi
contrapposti che avranno notevole influenza sul Medioevo, quando il problema diventerà centrale
per la cultura europea.
Intuizione / Intuizione intellettuale
Una delle fondamentali modalità del conoscere. In generale, l’intuizione (in greco epibole) è la
conoscenza immediata che il soggetto ottiene senza il passaggio attraverso il momento della
riflessione, del ragionamento o di altre forme del pensiero discorsivo. È una forma di conoscenza
legata all’individualità dell’io che in sé trova strumenti immediati per il pensiero. Può però avere
difficoltà a trovarli: l’intuizione è una facoltà della mente che può essere difficile da attivare.
Nella storia della filosofia si è distinta
- l’intuizione sensibile (l’atto con cui il soggetto percepisce coi sensi l’oggetto d’esperienza);
- l’intuizione intellettuale (l’atto con cui il soggetto nella sua interiorità concepisce con il proprio
intelletto una verità in modo non mediato, atto che rimanda quindi all’unità del soggetto e
dell’oggetto).
In filosofia il dibattito sull’intuizione, soprattutto quella intellettuale, ha diviso in modo netto i
filosofi, che si sono contrapposti nel considerarla come fonte primaria di conoscenza (in quanto
capace di restituire la fondamentale unità del reale) o come una fonte imprecisa (perché “salta” ogni
argomentazione).
Secondo una concezione più limitata, il termine intuizione è stato utilizzato per indicare una forma
rapida di pensiero per immagini, che prelude a forme che saranno legate alla riflessione e al
ragionamento, ed è utile in via provvisoria o come avvio alla conoscenza complessa.
Invidia degli dèi
Concezione arcaica, ma ancora fortemente presente nella cultura tradizionale del V secolo a.C. (la si
ritrova in Erodoto), che consiste nel concepire le fortune dell’uomo come pericolose da esibire per
non incorrere nell’ira divina: gli dèi, invidiosi, possono togliere all’uomo le sue capacità, o la sua
bellezza, o il suo sapere, o le sue arti. O la sua stessa vita.
Per non incorrere nell’invidia degli dèi è buona regola non andare oltre i limiti imposti alla natura
umana e non vantarsi mai: vivere avendo coscienza della precarietà di qualsiasi propria superiorità e
fortuna.
Involontario / Volontario
I campi di applicazione di questa nozione sono il diritto e l’etica. Akousios, involontario, è l’atto
compiuto perché una forza esterna costringe all’azione (akon è avverbio: involontariamente, suo
malgrado). Ekon significa volontario, e si applica in quelle situazioni in cui la ragione dell’uomo
porta alla scelta consapevole (su questa nozione di scelta consapevole si veda la voce Volontà: →).
Io
È il termine con cui il soggetto cosciente di sé indica se stesso. Non ha quindi plurale: il “noi” indica
infatti una pluralità di io, non un io plurale. In filosofia per indicare la soggettività cosciente di sé in
termini astratti si usa allora l’espressione “l’io”, che fa riferimento ai caratteri comuni a qualsiasi io
umano. La precisazione “umano” è importante perché nel mito ci sono altri io, in particolare gli dèi.
Nella filosofia greca non ci sono invece “io” diversi dall’uomo che parlano di sé: è questa una
prerogativa tipica del linguaggio religioso (lo ri ritrova ad esempio nella Bibbia), non di quello
filosofico, perché nessun uomo (a parte la rivelazione appunto religiosa) ha esperienza di un io non
umano che si riferisca con questo termine a se stesso. Si ritrova però questa dizione attribuita a dèi e
figure non umane nei miti filosofici platonici e nei poemi filosofici, in contesti quindi legati al
pensieri per immagini e a varie forme di metaforizzazione (→).
Per la cultura omerica, e in particolare per Ulisse (Odisseo), si parla oggi a volte di “nascita dell’io”,
per indicare il fatto che in Omero gli eroi mostrano di non avere una piena e chiara visione della
propria autonoma soggettività come qualcosa di unitario: mostrano di percepire il proprio corpo, o
parti di esso, come entità semi-autonome, e nello stesso modo parlano come se le passioni e
addirittura le loro stesse scelte provenissero dall’esterno, per intervento in genere divino (ad esempio
è Ate che confonde Agamennone quando all’inizio dell’Odissea attacca lite con Achille; altrove è
Afrodite che fa innamorare, è Atena che infonde nel cuore..., e così via).
Nel poemi omerici si assiste ad uno slittamento di interpretazione sull’io, per cui Odisseo appare,
nell’Odissea e non nell’Iliade, maggiormente cosciente della propria autonoma, piena e individuale
soggettività. Questo giustifica l’espressione “nascita dell’io”.
I problemi
I problemi filosofici legati al termine io sono moltissimi, proprio perché questo termine raccoglie in
unità la soggettività cosciente di sé, che è legata all’intero mondo delle nostre conoscenze esterne e
interne. Non c’è quindi problema filosofico che non abbia un risvolto nell’io, perché qualsiasi
problema è comunque legato alla coscienza di sé, che è già presupposta per il fatto che si ha
coscienza (anche solo albeggiante) di un problema.
Se però vogliamo in specifico indicare i principali problemi filosofici che riguardano direttamente
l’io (in senso lato, lo abbiamo visto, lo riguardano tutti), possiamo identificare i seguenti:
- un primo campo di problemi lo ha indicato Eraclito quando, in celebri frammenti, scrive di avere
indagato se stesso e dice che nessuno può davvero dire di conoscere il proprio logos, tanto esso è
profondo: è il tema che Socrate, oltre un secolo dopo, svilupperà mostrando come l’analisi della
coscienza umana sia un compito continuo e interminabile; in estrema sintesi, mentre ciascuno di noi
“sente” di essere un io, conoscere quest’io si rivela indagine lunga e difficile; nella filosofia moderna
per esprimere questa nozione si parla di autocoscienza dell’io;
- un secondo campo problematico riguarda la natura dell’io: è una realtà semplice, o è un composto? se
quest’ultima ipotesi è quella corretta, come e da dove si forma? quali sono le sue componenti? è di
natura materiale o spirituale? e quindi: che validità hanno le teorie che parlano di una vita dell’io
indipendente dal corpo? (vedi anche la voce Anima: →)
- un terzo campo problematico riguarda il rapporto tra l’io e i suoi oggetti (corpo compreso, nella
misura in cui il corpo è oggetto della coscienza che l’io ha di sé come io che “ha” un corpo): i
problemi nascono dal fatto che l’io sembra non poter conoscere se stesso se non conosce un oggetto,
e questo significa che l’io non conosce l’io, ma solo il sé, e attraverso il sé conosce gli altri oggetti (in
sintesi: conosce gli oggetti e ha anche coscienza di conoscerli: vedi la voce Coscienza: →); dunque,
quali sono esattamente i rapporti tra l’io e i suoi oggetti? (vedi anche le voci Soggetto e Soggetto /
Oggetto: →)
Le teorie
Le grandi teorie sulla natura dell’io elaborate dai filosofi greci sono riconducibili a tre distinti campi:
- le teorie che concepiscono l’io come una realtà spirituale (vedi la voce Spirito: →) e quindi
semplice (→), e pongono il problema della sua relazione col corpo, che invece è materiale e
composto da parti, e con realtà diverse dal corpo, anch’esse spirituali (così soprattutto Platone e
Plotino);
- le teorie che concepiscono l’io come una realtà composta, o comunque formatasi anch’essa come
tutte le altre, e ne studiano la natura in rapporto al corpo e al complesso delle leggi dell’universo
fisico (così ad esempio Epicuro e lo Stoicismo);
- le teorie scettiche, che da diversi punti di vista non considerano possibile pervenire sull’io a
conoscenze certe (il campo è assai più vasto della scuola scettica propriamente detta).
In questo schema non abbiamo inserito le filosofie naturaliste e in genere quelle del V secolo a.C.,
perché lo stato dei frammenti che possediamo non permette in molti casi di definire con esattezza la
posizione dei filosofi sul tema, ma anche perché i problemi che abbiamo descritto sono stati
formulati in modo teoreticamente chiaro tra l’età di Democrito e di Platone e quella di Aristotele
(ad esempio la distinzione concettuale tra spirito e materia non è posta prima di Democrito e di
Platone). I problemi sull’io nel V a.C. secolo sono, per così dire, in formazione: ad esempio in
Parmenide è logicamente possibile porre il problema del rapporto tra l’io e l’Essere come oggetto
della conoscenza scientifica; ma in modo esplicito (allo stato delle nostre conoscenze dell’opera
parmenidea attraverso frammenti) Parmenide non pone questo problema. Questo non significa
affatto che le teorizzazioni posteriori sono un progresso: significa solo che il campo problematico
della nozione di io si è modificato dopo.
Iperuranio
Nel mito platonico della biga alata (→) decritto nel Fedro, l’Iperuranio (Hyperouranous:
letteralmente al di là di Urano, cioè del Cielo) è la regione al di là del cielo, cioè fuori dal nostro
mondo, in cui vivono la loro vita perfetta gli dèi e le idee. Per Platone “si tratta di una regione non
spaziale, giacché il cielo racchiudeva tutto lo spazio e al di là del cielo non c’è spazio. L’espressione
quindi è puramente metaforica” [Abbagnano 1998].
Ipostasi
In greco il termine hypostasis significa fondamento, nel senso di base, sostegno. Assume un
significato storicamente molto importante (verrà ripreso anche dalla filosofia cristiana medioevale)
in Plotino, che usa il termine ipostasi per indicare le sostanze che formano quell’architettura
dell’essere che è a monte del mondo della nostra esperienza esterna (l’universo fisico) e interna
(l’anima). Questa architettura è eterna, e procede per emanazione (→) dall’Uno (Hen), che è dunque
la prima ipostasi (cioè il primo fondamento del mondo), verso l’Intelletto (Nous) e l’Anima del
Mondo (Psyche), che sono la seconda e la terza ipostasi derivate a cascata dall’Uno. Il mondo che
vediamo e sentiamo è, per così dire, un edificio del tutto superficiale e instabile, perché ha carattere
temporale e quindi passa, ma riposa su fondamenta pienamente stabili, perché eterne.
Ipotesi
Il termine è usato da Platone in un senso simile al nostro: il metodo dialettico esamina e discute
varie ipotesi (hypothesis) per elevarsi attraverso questo esame verso il principio.
In Aristotele invece l’’hypothesis è la premessa del sillogismo dimostrativo (Analitici Secondi, I, 1). C’è
però un senso più ristretto del termine: in questa accezione è simile all’uso italiano del termine,
perché indica le premesse non necessarie, la cui validità è solo presupposta.
Ippodamo di Mileto
Abbiamo poche notizie biografiche su Ippodamo di Mileto, uno dei massimi urbanisti dell’antichità
attivo nel V secolo a.C., probabilmente nato nell’ultimo decennio del VI secolo. Sappiamo di alcune
sue realizzazioni concrete: diresse i lavori per il porto ateniese del Pireo realizzato alla metà del V
secolo a.C. e nel 444 fu incaricato da Pericle di presiedere ai lavori per la fondazione della colonia
panellenica di Turi, in Magna Grecia.
Da Aristotele in poi Ippodamo è considerato l’urbanista che ha codificato la disciplina urbanistica
(è) secondo principi razionali. La pianta ortogonale della città (oggi dal suo nome nota come pianta
ippodamea) era in realtà già ben nota, ma fu da lui perfezionata secondo criteri di razionalità ed
efficienza. A lui risale la chiara e articolata distinzione della città in spazi funzionali: l’area destinata
agli edifici pubblici, l’area sacra, l’area delle abitazioni private. Furono suoi gli studi per il
dimensionamento delle aree urbane per una popolazione standard di 10.00 abitanti.
Introdusse in urbanistica criteri ispirati all’egualitarismo e alla superiorità della sfera pubblica su
quella privata: nelle città Ippodamo voleva che le case fossero simili per proporzione e struttura, in
modo da garantire a tutti efficienza e decoro, secondo un ideale democratico di cittadinanza, senza
eccessive disparità; inoltre risale a lui il principio che alcuni spazi della città possano essere preclusi
alle iniziative private e rimangano di proprietà pubblica per finalità pubbliche.
Alcuni temi platonici esposti nella Repubblica a proposito del comunismo della proprietà
potrebbero risalire ad una riflessione sulle concezioni ippodamee, ai tempi di Platone ormai
divenute classiche.
Ippolito
È figlio di Teseo (→), il mitico re fondatore di Atene, e di una delle Amazzoni. Nel racconto
mitologico Ippolito è fervente seguace di Artemide, la dea della caccia, ma non si cura per nulla di
Afrodite, disprezzandone i favori. Così Afrodite decide di vendicarsi. Suscita una invincibile
passione d’amore per Ippolito in Fedra, la seconda moglie di Teseo e, quando questi la respinge,
temendo che il figlio racconti tutto al padre, è Fedra stessa ad accusare Ippolito presso Teseo di
averla violentata.
Il racconto mitico narra dell’ira del re e della sua decisione di agire contro il figlio invocando da
Poseidone la punizione su di lui. Così mentre il giovane Ippolito guida il carro su una spiaggia, il
dio del mare invia un mostro marino che spaventa i cavalli: imbizzarriti, sbalzano il giovane in modo
così violento da provocarne la morte.
I mali si succedono a catena, perché Fedra stessa, saputo di cosa lei stessa è stata la causa (pur per
impulso di Afrodite in cerca di vendetta), si uccide. Sicché Teseo perde sia il figlio avuto dalla prima
moglie sia la seconda moglie.
Una tradizione italica vuole che Artemide, che Ippolito molto venerava, abbia convinto il dio della
medicina Asclepio (→) a risuscitarlo dai morti. Trasportatolo nel suo santuario di Ariccia in Italia,
Ippolito sarebbe lì venerato insieme con Artemide, identificato con il dio Virbio, compagno di
caccia della dea.
Questo mito, in cui si legano in un intreccio inscindibile scelte divine e responsabilità umane, è stato
portato sulla scena da Euripide nella tragedia Ippolito.
Ippolito
Titolo di una tragedia di Euripide. Venne scritta nel 428 a.C., e appartiene quindi alla fase matura
della vita del poeta.
Gli dèi tornano in questa tragedia, ma come personificazione dei sentimenti umani. Protagonisti
sono Afrodite, Artemide, Teseo, Ippolito e Fedra, sorella di Arianna.
Terminata la relazione con Arianna, Teseo si innamora di Fedra e la sposa. Ma Afrodite, che non
ama le principesse cretesi, condurrà il matrimonio ad una tragica conclusione. Teseo ha avuto un
figlio, Ippolito, da una precedente relazione con Antiope, una delle Amazzoni. Ippolito è dunque
figliastro di Fedra. Afrodite, oltre a non sopportare Fedra, non ama neppure Ippolito. Questi è
giovane e bello, e si disinteressa di tutto amando solo la caccia e i boschi, seguendo la dea Artemide.
Pur essendo in età da matrimonio, egli rifiuta di sposarsi; d’altronde è figlio di un’Amazzone, la cui
tribù era composta di guerriere che per accoppiarsi si servivano solitamente di prigionieri di guerra
che poi venivano uccisi o usati come schiavi.
Nel prologo Afrodite esprime quindi il suo sdegno per Ippolito il quale rinnega l’amore e decide di
vendicarsi di lui facendo sì che la matrigna, Fedra, se ne innamori. A differenza di una tragedia
andata perduta in cui Fedra rivelava il suo amore ad Ippolito, in questa la donna nasconde la sua
passione incestuosa, ma ne è distrutta anche fisicamente. L’amore che prova è una sorta di malattia
che porta Fedra a disperarsi, a rifiutare il cibo, a desiderare solo la morte. Teseo è lontano; il coro è
incuriosito dal comportamento di Fedra e la nutrice, che conosce bene la donna, è molto
preoccupata. Fedra, dietro le insistenze della nutrice, rivela a questa il terribile segreto. La prima
reazione è quella dell’orrore, poi prevale l’amore verso la padrona, che spinge la nutrice a rivelare ad
Ippolito, dietro giuramento di silenzio, la passione che sta divorando Fedra. Il giovane, sconvolto, si
scaglia contro Fedra e poi contro l’intero genere femminile con una durissima invettiva: “O Zeus, e tu
un male insidioso come sono le donne, l’hai portato nelle case degli uomini ed hai fatto che vedessero il Sole?
Se volevi propagare la stirpe dei mortali, non dovevi servirti delle donne per fare questo. Bastava che gli
uomini portassero dell’oro o ferro o bronzo nei templi per averne in cambio il seme dei propri figli, ognuno
del valore del prezzo offerto, ed abitare liberi e senza donne nelle loro case. […] E andate alla malora! Io
non sarò sazio di odiarvi mai…”. Fedra, di nascosto, ha udito ogni cosa: l’unica soluzione è darsi la
morte non prima però di aver salvato l’onore vendicandosi di Ippolito. Fedra lascia scritte terribili
parole che accusano Ippolito di averla violentata. Quando Teseo ritorna, apprende della morte della
moglie e delle accuse rivolte al figlio, e invoca da Poseidone il castigo di Ippolito. Questi afferma
con vigore la propria innocenza, ma non può rivelare la verità avendo giurato silenzio alla nutrice.
Ippolito viene quindi bandito dalla città e mentre corre lontano, sulla spiaggia si leva un’onda,
scatenata da Poseidone, da cui esce un toro selvaggio che fa imbizzarrire i cavalli e rovesciare il
carro. Nel frattempo Teseo ha appreso la verità da Artemide e non gli rimane che disperarsi,
stringendo tra le braccia il figlio morente.
Ipse dixit
È un’espressione latina (“Lo ha detto Lui”) che traduce il greco “Autos eira”. Il motto nacque
originariamente in ambiente pitagorico proprio in riferimento alla figura di Pitagora: è lui l’“Ipse” di
cui si parla. Infatti presso la scuola pitagorica (che aveva le caratteristiche di una setta per iniziati:
→) la parola del maestro era concepita come una sorta di rivelazione: un’autorità che non si
discuteva.
Questo motto implica la prevalenza dell’autorità sulla libera ragione: lo sottolinea Cicerone nel De
natura deorum (I, 5, 10). Tuttavia nel pitagorismo non mancò la ricerca razionale ed originale, che
però veniva svolta attribuendo al maestro anche scoperte molto successive.
In età medioevale il motto fu riferito anche ad altre autorità, e dal XII-XIII secolo in poi soprattutto
ad Aristotele.
Irascibile
Platone chiama thymoeides, che traduciamo con irascibile, la parte dell’anima che esprime emozioni
forti ed intense ed è caratterizzata dalla forza interiore, e quindi dal coraggio. Nel mito della biga
alata del Fedro è uno dei due cavalli, quello bianco.
Nella Repubblica il corrispettivo sociale di questa forza interna all’anima è la classe dei custodi, la cui
virtù fondamentale è il coraggio, cioè la capacità di usare la forza dominandola e orientandola.
Ironia
L’ironia (in greco eironeia, letteralmente dissimulazione) è termine abitualmente associato a Socrate e
al suo metodo di indagine dialettica (→). Tecnicamente consiste in un modo del discorso breve (→)
che Socrate utilizza abitualmente (la nostra fonte principale sono i dialoghi platonici) consistente
nel dar credito alle tesi del suo interlocutore senza proporre alcuna tesi propria, per poi dimostrare
l’inconsistenza della tesi dell’avversario. Questo risultato è ottenuto attraverso domande sempre più
incalzanti, costruite sulle tesi stesse dell’avversario spesso con una venatura scherzosa, simile alla
sfida e al gioco, che ne mostrano la nascosta contraddittorietà.
Irrazionale
Il termine irrazionale applicato al contesto greco rimanda agli studi che a partire da un celebre ciclo
di lezioni del filologo inglese Erik R. Dodds raccolte in volume col titolo I Greci e l’irrazionale (vedi
Bibliografia: →) hanno approfondito gli aspetti della cultura greca legati alle credenze di tipo
religioso, misterico, magico.
Dodds scriveva alla metà del Novecento e da allora questo tipo di studi si sono moltiplicati,
consentendo di allargare fortemente lo sguardo degli studiosi sulla civiltà greca. Di questo genere di
studi ha tratto molto vantaggio anche la storia della filosofia perché i filosofi greci hanno mantenuto
molti tipi di rapporti con la sfera dell’irrazionale, seguendo tuttavia la via maestra di una
comprensione razionale dell’uomo e del cosmo.
Gli studiosi che hanno aperto la strada a questo tipo di ricerche e coloro che l’hanno continuata
hanno applicato allo studio del mondo classico le acquisizione delle scienze dell’uomo del nostro
tempo: il mondo antico è stato quindi osservato dall’angolo visuale della psicologia storica,
dell’antropologia dei nostri giorni, della sociologia, dell’etnologia, della linguistica, e così via.
Isocrate
Retore ateniese, Isocrate appartiene alla stessa generazione di Platone, di cui era più grande di pochi
anni (era nato ad Atene nel 436 a.C.). Morì quasi centenario nel 338 a.C., secondo la tradizione
lasciandosi morire per non sopravvivere alla perdita dell’indipendenza della Grecia in seguito alla
sconfitta di Cheronea, con cui quell’anno Filippo II di Macedonia era riuscito a imporre la propria
supremazia.
Apparteneva ad una famiglia facoltosa ed ebbe una formazione di prim’ordine (sembra che sia stato
da ragazzo allievo dei più celebri sofisti, come Prodico di Ceo e Gorgia). Ma un rovescio di fortuna
dovuto alle vicende della Guerra del Peloponneso lo costrinse ad esercitare il mestiere di logografo
(→), cioè di scrittori di discorsi giudiziari. Dopo il 390 a.C., fondata una propria scuola di retorica e
di formazione politica, più o meno in diretto confronto con l’Accademia platonica attiva negli stessi
anni, prese le distanze dalla pratica di logografo. Di questa attività ci rimangono 6 orazioni.
La sua scuola venne in effetti frequentata da giovani che sarebbero da adulti diventate delle
personalità politiche di primo piano nella vita politica ateniese. In un’orazione dal titolo Contro i
Sofisti, del 390 a.C., Isocrate chiarisce la nozione di retorica che è alla base del suo insegnamento:
non vuote astrazioni come le scuole filosofiche ateniesi del tempo (la contrapposizione con
l’Accademia nei decenni successivi diventerà aperta rivalità), né semplice insegnamento tecnicopratico come quello proposto dai Sofisti, ma cultura nella sua totalità, che ha di mira la formazione
dell’uomo integrale. Vera filosofia dunque, come Isocrate stesso scrive.
Della sua vasta produzione restano una serie di discorsi politici, simili alle moderne “lettere aperte” a
uomini politici dell’epoca, in cui Isocrate propone un ideale politico panellenico in funzione
antipersiana (i titoli sono Panegirico, Areopagitico, Filippo, Panatenaico), e una non ampia parte della
sua produzione retorica.
Isole dei Beati
Vedi Campi Elisi
Isonomia
Da isos (uguale) e nomos (legge), l’isonomia nelle poleis greche rette secondo costituzioni
democratiche è il carattere specifico che rende tale il cittadino: l’uguaglianza di fronte alla legge.
Ispirazione
È una nozione in parte religiosa, in parte poetica. Nella tradizione greca ispirato è il poeta, e ad
ispirarlo sono le Muse, o Apollo. Dunque l’ispirazione implica la presenza di un dio che ispira, cioè
che fa una rivelazione e concede il sapere poetico necessario per annunciarla. Va sottolineato che
non è la capacità tecnica della musica e del canto ad essere un dono degli dèi o delle Muse, ma il
contenuto della narrazione: vedi su questo la voce Poeta (→).
In filosofia il termine ha un rilievo in Platone, nel contesto della sua interpretazione della figura del
poeta: si veda per questo punto la voce Entusiasmo (→).
Issione
Issione è un eroe greco che si è macchiato di una colpa molto grave, l’uccisione di un congiunto, il
padre della sposa. Il suo delitto viene poi purificato per intervento di Zeus, che lo fa partecipe
dell’immortalità. Ma Issione insidia Era, la moglie di Zeus, che allora dà ad una nuvola le
sembianze di Era per avere la prova della colpevolezza di Issione. Dai suoi amori con quella che
crede Era, ed è invece solo un’immagine della dea, nascono i Centauri, mentre Issione viene punito
con un terribile supplizio: legato ad una ruota, che gira mossa a colpi di frusta, è costretto a gridare
continuamente: “Si debbono onorare i benefattori”.
Istante
Il termine greco è nyn. Nell’ambito del problema filosofico sulla identità del tempo (→), l’istante è
definito da Aristotele “la continuità del tempo, perché connette il passato al futuro” (Fisica, IV-13)
Istinto
In greco l’orme è l’istinto come tendenza naturale e spontanea, la pulsione interna che spinge
all’azione. Questo tema è centrale per quelle scuole che pongono l’accento sull’importanza per l’etica
del vivere secondo natura, essendo l’istinto una delle manifestazioni della nostra natura: non la sola
però, perché l’istinto è di per sé pre-logico o a-logico, e l’uomo è un essere (anche) razionale.
Così presso gli Stoici la nozione di istinto diviene centrale. Il termine greco che ricorre nei loro
scritti è oikeiosis, che indica l’istinto di conservazione, cioè quell’istinto primario che ci fa essere quel
che siamo e ci porta a difendere il nostro essere. Guidato dalla ragione, questo istinto è il metro per
l’azione saggia, perché è eticamente positivo tutto ciò che è secondo natura, e l’uomo è per natura
istinto e razionalità insieme.
La nozione di oikeiosis va nettamente distinta dalla nozione di pathos, cioè dalle passioni: l’istinto
primario che ci fa vivere non è una passione, il nostro io non è passivo verso questo istinto, ma lo
vive in sé come forza attiva.
Kairos
Nella mitologia greca il dio Kairos è la personificazione del concetto di momento opportuno, attimo
fuggente, momento che passa, opportunità da cogliere subito, o è perduta per sempre. Aveva un
altare a Olimpia ed era celebrato come il più giovane figlio di Zeus. In questa veste lo scultore
Lisippo lo raffigurò in una celebre statua.
Nella retorica antica questo tema ritorna sia in Aristotele che in Isocrate, per indicare la necessità
per l’oratore di sfruttare il momento opportuno – una finestra di opportunità che si apre e presto si
chiude.
Kalos kai agathos
Vedi Bellezza
Kithara
Vedi Lira
Koine
Indica la lingua comune (koine dialektos) che si affermò nel corso del IV secolo a.C. avendo come base
il dialetto attico e come estensione varie componenti di altri dialetti, soprattutto ionici. Fu questa
lingua comune che venne utilizzata dai Greci come base linguistica della loro influenza politica e
culturale su un vastissimo territorio – dall’Egitto al cuore dell’Asia – ottenuto in seguito alle
conquiste di Alessandro Magno.
La koine, divenuta la lingua-base dell’epoca ellenistica nel Vicino e nel Medio Oriente, utilizzata in
ambienti diversi su territori vastissimi, si trasformò rapidamente e si arricchì di moltissime nuove
parole, anche per le esigenze pratiche poste dallo sviluppo delle scienze e della produzione. Presso i
ceti colti dell’epoca, anche a Roma, era normalmente in uso il bilinguismo, e la seconda lingua di
moltissimi non greci era appunto la koine.
Per conseguenza in età alessandrina i classici della scienza e della filosofia stesi per iscritto tra l’VIII
secolo a.C. e il IV erano in una lingua che si era notevolmente trasformata ed era ormai percepita
come appartenenti a secoli verso cui la distanza storica era tale da potersi guardare ad essi come ad
un’epoca chiusa: oggetto quindi degli studi storico-filologici degli studiosi alessandrini presso la
Biblioteca di Alessandria e il Museo.
Kósmos
Vedi Cosmo
Lachete
Uomo politico di primo piano e generale ateniese, Lachete fu al centro di numerosi episodi della
Guerra del Peloponneso: guidò una spedizione navale nelle acque della Sicilia e dello Stretto di
Messina e, più tardi, nella zona di Argo, dove trovò la morte nel 418 a.C. combattendo a Mantinea.
A lui Platone ha dedicato uno dei suoi dialoghi aporetici, il Lachete appunto, in cui si discute su che
cos’è il coraggio.
Lassù / Quaggiù
Vedi Alto / Basso
Lavoro
Nella filosofia greca il lavoro, inteso come azione di carattere sociale ed economico volto alla
trasformazione della natura ai fini dell’uomo, non è oggetto di specifici studi come nella filosofia
moderna. Riflessioni sul lavoro compaiono episodicamente, in contesti diversi, per lo più
incidentalmente. Ad esempio molte forme di lavoro manuale e artigianale compaiono nelle
riflessioni di Socrate o di Platone, ma si tratta per lo più di esempi, o passaggi dialettici che mirano
a tutt’altro.
In generale, il lavoro manuale è scarsamente considerato nella cultura antica anche perché molte
forme erano legate alla schiavitù. Ma il lavoro artigianale aveva un significato non secondario sia per
la valenza sociale che per la competenza tecnica che richiede. In questo senso è il personaggioSocrate nei dialoghi platonici a notare che il sapere degli artigiani non è poca cosa, ma è limitato a
specifiche attività, al di fuori delle quali l’artigiano non ha alcun sapere particolare.
Nelle loro analisi politiche sia Platone che Aristotele riservano scarsa attenzione al lavoro, pur
considerato come necessario.
Una maggiore considerazione, ma senza che siano proposte analisi specifiche, è presso alcune scuole
ellenistiche: ad esempio i Cinici lo considerano uno strumento positivo di esercizio, che aiuta con la
sua fatica a raggiungere i pieno dominio di sé (e in questo senso lo raccomandano al filosofo),
mentre gli scettici considerano le attività manuale alla stesa stregua delle altre, e manifestano la loro
indifferenza al riguardo (così Pirrone è descritto mentre svolge lavori domestici o servili con assoluta
noncuranza della scarsa considerazione sociale di queste attività).
Detto tutto questo, va però ricordato che la nostra conoscenza del mondo greco dipende dalle
testimonianze scritte che ci sono pervenute, e quindi tutto ciò che è possibile dire che presso le classi
colte questa fosse la concezione del lavoro. Non sappiamo quale fosse la comune maniera id sentire
delle classi lavoratrici.
Lega delio-attica
Con questa dizione (ma gli storici parlano anche di Lega marittima) si indica l’alleanza politicomilitare, ma anche economica, che si formò nel 478-477 a.C. (cioè all’indomani della battaglia di
Micale: vedi Guerre Persiane: →) tra un elevato numero di poleis dell’are ionica, intorno ad Atene
(nel momento della sua massima fioritura, della Lega facevano parte circa 200 poleis marittime
greche).
La funzione di questa lega era la difesa contro eventuali nuovi attacchi persiani. Il nome deriva dal
fatto che il luogo in cui si conservava il tesoro della Lega era l’isola di Delo, almeno fino al 454-453,
quando Pericle impose il suo trasferimento ad Atene.
Di fatto la lega finì col diventare uno strumento dell’imperialismo ateniese, fino al punto che
l’Atene dell’età di Pericle era di fatto al vertice di un sistema di potere politico, militare ed
economico che imponeva le proprie scelte sulle città alleate, comprese iniziative militari contro
quelle che si fossero ribellate.
La Guerra del Peloponneso contrappose quindi non solo Atene, ma l’intera Lega delio-attica con le
sue risorse a Sparta e al suo sistema di alleanza, la Lega peloponnesiaca (→).
Sempre in funzione antispartana ma senza assumere caratteri imperialistici, una seconda Lega
marittima si costituì nel 378-377 a.C., quasi trent’anni dopo lo scioglimento della prima, avvenuto
nel 404 con la sconfitta ateniese nella Guerra del Peloponneso. Questa seconda lega ebbe un peso
nelle successive lotte, conclusesi con la supremazia di Tebe sia sugli Spartani che sugli Ateniesi in
seguito alla battaglia di Leuttra del 371 a.C.
In realtà questa sequenza di lotte che ebbe le due leghe come protagoniste portò come esito finale
l’indebolimento complessivo della Grecia, di cui approfittò nei decenni successivi il Regno di
Macedonia, con Filippo II, per imporre la propria volontà.
Lega peloponnesiaca
Gli storici moderni indicano con questo nome l’alleanza militare costituitasi già nel VI a.C. tra
Sparta e la maggior parte delle poleis del Peloponneso e, in seguito, anche al di fuori della penisola.
Gli antichi si riferivano alla stessa realtà politico-militare parlando degli “Spartani e i loro alleati”,
fatto che indica come Sparta fosse in realtà il cuore della lega, nata originariamente come somma
degli accordi bilaterali tra Sparta e le singole poleis.
Nel V secolo a.C. la Lega peloponnesiaca si contrappose alla Lega delio-attica (→), e la sconfisse con
la Guerra del Peloponneso (→). Al contrario di quella delio-attica, la Lega peloponnesiaca fu
un’alleanza secolare, perché, nata all’inizio del VI secolo, era ancora attiva al tempo del progressivo
indebolimento di Sparta nel IV secolo a.C.
Legge
Vedi Nomos
Legislatore
Nelle poleis greche, in particolare nelle colonie, il legislatore era l’uomo politico (in alcuni casi semimitico, come Licurgo a Sparta, in altri storico come Solone ad Atene) che fissava le leggi della città.
Nel caso delle colonie queste leggi erano spesso redatte come vere e proprie costituzioni, in forma
scritta, al momento della fondazione o poco dopo. Nelle colonie il legislatore poteva essere una
figura diversa da quella dell’ecista (→).
L’evoluzione delle leggi nel mondo ellenico e il loro passaggio dalla forma orale alla forma scritta è
parte della storia del diritto greco (→).
Lete
Divinità della dimenticanza, nel mito greco Lethe incarna l’oblio in contrapposizione e allo stesso
tempo in associazione a Mnemosyne, la dea della memoria (→). Sono entrambe divinità connesse al
mondo degli Inferi, dove esistevano due fonti le cui acque fissavano la memoria o inducevano
l’oblio. Le anime dei morti bevevano l’acqua della fonte di Lete per dimenticare gli eventi della vita
sulla Terra, e nelle tradizioni misteriche che ammettevano la metempsicosi tornavano a bere la
stessa acqua quando si reincarnavano per dimenticare quanto avevano visto negli Inferi.
Antiche testimonianze parlano di analoghe fonti dell’oblio e della memoria in Beozia, presso un
oracolo: chi desiderava consultarlo dovevano bere le acque.
Lete è poi anche la divinità benevola della dimenticanza quando si tratta di allontanare la propria
mente da un dolore che solo l’oblio può guarire.
Lettera dottrinale
Il genere letterario della lettera dottrinale compare con Epicuro. Ha avuto un successo notevole nel
periodo ellenistico e ha fatto da modello alle "Epistole" della tradizione cristiana (Paolo e gli altri
Apostoli). Presuppone l’esistenza di comunità lontane che seguono un modello di vita filosofica e
quindi è strettamente connesso con un’idea di filosofia che ormai con piena consapevolezza connette
ricerca filosofica teorica e stile di vita.
Le lettere di Epicuro che ci sono pervenute sono di varia ampiezza, ma brevi o lunghe che siano
hanno alcune caratteristiche formali che le rendono ben riconoscibili e definiscono il genere:
- ciascuna ha un solo tema, per ampio e articolato che sia, e la materia è trattata con ordine
espositivo semplice, in uno sforzo di sintesi unito alla maggiore chiarezza possibile: in tutta
evidenza, i destinatari non sono filosofi, ma persone che leggono o ascoltano di filosofia senza essere
interessati alla ricerca teorica e scientifica in sé e ai suoi aspetti tecnici;
- ciascuna fa uso di una terminologia rigorosa, che ha un significato tecnico preciso nell’economia
complessiva delle dottrine filosofiche della scuola; i termini sono chiaramente definiti, privi di
ambiguità; chi legge, deve impadronirsi a fondo del linguaggio tecnico, anche se non è interessato ai
dettagli;
- il rapporto tra esposizione della dottrina e argomentazione è assai particolare: vengono saltati tutti
i dettagli e le tesi sono esposte una ad una concatenate in un ordine rigoroso; le argomentazioni
sono poche, immediatamente efficaci, facili da capire e da memorizzare; vi è dunque un misto di
tecnica argomentativa (semplificata ma proprio per questo di grande forza quando è presente) e di
tecnica espositiva; è qualcosa di molto lontano dalla raccolta di opinioni (vedi la voce Dossografi: →)
per due motivi: in primo luogo perché non si tratta di opinioni isolate, di tesi non concatenate, ma
di posizioni filosofiche connesse a formare un tutto ordinato; in secondo luogo perché le
argomentazioni sono presentate in forma rigorosa, senza che la essenzialità del discorso sacrifichi
nulla alla precisione;
- si fa un uso limitato delle metafore e del linguaggio per immagini; la più importante figura retorica
che a volte viene utilizzata è la similitudine (come… così…), la più adatta a rendere con chiarezza
un concetto, permettendo il legame tra astrazione del pensiero e concretezza dell’esperienza
sensibile.
Per un quadro generale dei generi letterari della filosofia antica si veda la voce Generi letterari della
filosofia antica (→).
Libero arbitrio
Vedi Libertà
Libertà
Nella filosofia greca il termine libertà (eleutheria) ha diversi significati che aprono ciascuno a vari
problemi filosofici.
La libertà come libero arbitrio
In questo senso, la libertà è la capacità dell’uomo di scegliere tra possibilità diverse, realmente date
nel contesto in cui si opera, senza che si sia determinati alla scelta in modo necessario. Il termine
greco è proairesis, che indica appunto la libertà di scelta, e quindi la relativa facoltà.
In nessun caso il libero arbitrio è concepito come libertà assoluta (cioè senza limiti e condizioni),
perché sempre sono presenti almeno due condizioni che lo limitano:
- devono esistere possibilità reali tra le quali scegliere (se non ci sono, il libero arbitrio è solo una
condizione virtuale della mente, ma non certo attuale);
- esistono sempre condizionamenti e pressioni di vario genere, dal potere della società sul singolo
alla sua educazione: le forze sociali e quelle psichiche premono sempre in una direzione o nell’altra,
e non sempre in maniera lineare e univoca.
Si ha comunque libero arbitrio se, fermi restando questi limiti e condizioni, la mente dell’uomo
conserva anche un piccolo spazio che le consente di scegliere senza essere determinata.
Il problema filosofico del libero arbitrio è dato dal fatto che, benché l’uomo percepisca la libertà del
proprio volere, essa può essere considerata reale, e non solo una percezione psicologica priva di
effettiva realtà, solo se si riesce a spiegare come è possibile che, in un universo regolato da leggi
necessarie, questa necessità non si applica alla mente dell’uomo nel momento in cui sceglie.
Il problema è stato esaminato in termini concettualmente chiari soprattutto in età ellenistica, dopo
le acquisizioni delle grandi filosofie del IV secolo a.C.: soprattutto quelle di Democrito, di Platone e
di Aristotele. A parte le scuole scettiche, che sospendono il giudizio ritenendo la questione
indecidibile, le più importanti teorie sono quella epicurea (che ammette il libero arbitrio sulla base
del clinamen: →) e quella stoica (che lo limita ad ambiti estremamente ristretti anche se importanti
per la vita etica individuale, e comunque ininfluenti sul piano della natura universale, che segue
comunque il suo corso necessario).
Libertà come padronanza di sé e indipendenza dell’io dalle passioni
Indipendentemente dal fatto che la mente possieda o meno il libero arbitrio, i filosofi greci hanno
usato il termine libertà riferito all’uomo per indicare la condizione dell’io che non agisce perché
spinto da incontrollabili e soprattutto irrazionali passioni, ma perché determinato dalla propria
ragione (a volte intesa come espressione della ragione universale, come nella lunga tradizione che dal
Logos di Eraclito porta al Logos stoico e al neoplatonismo). L’uomo libero è l’uomo padrone di sé,
ed in particolare capace di far sì che il proprio io si autogoverni attraverso la ragione. C’è un termine
in greco che indica la padronanza di sé: è enkrateia (→), che ha una particolare valenza da Socrate
agli Stoici.
Intesa in questo senso, la libertà è stata considerata un obiettivo etico alto e realmente perseguibile
da un po’ tutte le scuole ellenistiche, anche dai Cinici e dagli Scettici. Per secoli questa libertà è stata
considerata la condizione fondamentale per una vita non solo etica, ma anche felice. Una vita tra
l’altro secondo natura (→), essendo la più profonda realtà della natura umana raccolta nel suo nucleo
centrale: nella sfera razionale della mente.
Libertà come valore giuridico e politico dell’uomo e del cittadino
La concezione della libertà come padronanza di sé ha carattere privato, ma ha anche un risvolto
pubblico.
Questo significato giuridico e politico del termine libertà può essere intuitivamente compreso in
rapporto a due situazioni opposte:
- la condizione dello schiavo (che non è considerato uomo nella pienezza della sua umanità);
- la condizione del suddito degli Imperi orientali (dall’Egitto alla Mesopotamia).
I Greci percepivano se stessi come uomini in antitesi a queste due condizioni che facevano parte del
bagaglio comune di esperienza, data la presenza della schiavitù in tutto il mondo ellenico e la
vicinanza con l’Oriente. Essere giuridicamente liberi significa essere titolari di diritti e di doveri,
cittadini di una polis in cui ci si riconosce e che, in linea di principio, si autogoverna, qualunque sia il
regime politico di fatto vincente in un certo momento storico.
Questa nozione non è molto diversa nel diritto romano: la libertas è un requisito della capacità
giuridica che si acquista per nascita, se entrambi i genitori sono persone libere o, fuori dal
matrimonio, se lo è la madre. La libertà a Roma poteva essere acquisita anche dagli schiavi, se
liberati dal padrone (vedi la voce Liberto: →), cosa che non raramente accadeva.
La legge codificava con precisione le situazioni che determinavano la perdita della libertà (per essere
stati fatti prigionieri in guerra, o per reati commessi, o per altre ragioni)
In tutti i sensi del termine libertà, c’è comunque un riferimento alla nozione di responsabilità, alla
quale rimandiamo a completamento del discorso qui svolto (vedi la voce Responsabilità: →).
Liberto
A Roma, è lo schiavo liberato dal suo padrone, in genere attraverso la manumissio (manomissione),
un negozio giuridico in seguito al quale l’ex schiavo acquisiva lo status libertatis. Il liberto manteneva
rapporti col suo ex padrone (patronus), del quale prendeva prenome e nome, e verso cui manteneva
alcuni obblighi di assistenza e di servizio. I liberti erano cittadini romani, ma mantenendo il nome
che avevano da schiavi come cognome erano ancora identificabili (avevano anche alcuni obblighi
che li rendevano identificabili in altro modo) e non potevano accedere alle massime cariche
publiche. Le disposizioni relative ai liberti si modificarono in età imperiale.
Vari filosofi e intellettuali, per lo più greci, furono a Roma prima schiavi e poi liberti (un caso
celebre è quello di Epitteto: →).
Libia
Presso gli Egizi era così chiamata la terra dove abitavano i Libi, una popolazione che viveva su una
parte della Libia dei nostri giorni.
I Greci invece indicavano con questo nome genericamente tutta la costa africana aperta sul
Mediterraneo, mentre per i Romani il nome Libia come identificativo di una provincia apparve
soltanto al tempo di Diocleziano.
Nella mitologia si chiamava Libia una ninfa collegata alle vicende mitiche dell’Africa settentrionale,
avendo avuto da Poseidone due figli le cui vicende erano connesse con antiche narrazioni
mitologiche greche sulla Fenicia e sull’Egitto.
Il nome Libia venne ripreso in età moderna, mentre non venne utilizzato dopo la conquista araba
dell’Africa Settentrionale avvenuta nel corso del VII secolo d.C.
Libro
In greco è biblion (la parola italiana viene dal latino liber). Dal punto di vista fisico si trattava per lo
più di rotoli di papiro (la parola italiana volume deriva dal nome latino di questi rotoli, volumes, dal
verbo volvo, avvolgo) oppure di codici, che a differenza dei rotoli erano formati da pagine legate
insieme.
Poiché la forma tipica per tutta l’antichità greco-romana della circolazione dei libri fu per lo più il
rotolo di papiro (il codice aveva un uso diverso, per lo più privato), quando si dice che un’opera è in
dieci libri significa che era composta da dieci rotoli di papiro, ciascuno dei quali conteneva una
porzione definita dello scritto complessivo.
Nel mondo antico non esisteva la nozione di diritto d’autore, e non c’era alcuna possibilità di
tutelare i propri scritti da manomissioni, circolazioni con interpolazioni, e così via. Lo stesso
termine latino auctor (cioè autore) indicava in un primo tempo il contributo personale che un autore
dava a una tradizione antica e rispettata, per affermarsi solo col tempo per indicare lo scrittore unico
di un testo.
Questa situazione ha generato problemi filologici in parte insolubili, se non in modo puramente
congetturale:
- i frammenti che oggi leggiamo di opere perdute sono per lo più citazioni che un certo scrittore ha
fatto di testi della tradizione precedente, in libri giunti sino a noi; ma quali parole o frasi
esattamente siano dell’autore citato (spesso la citazione non è direttamente da un originale, ma da
uno scrittore successivo che cita o sintetizza un originale) e quali dello scrittore che cita è spesso
problema controverso, non essendo sentita nell’antichità la necessità di attribuire con esattezza la
paternità di un testo; si veda su questo punto la voce Frammento (→).
- molti testi della filosofia greca giunti sino a noi sono stati rivisti da filosofi o scrittori delle età
successive, o ordinati e titolati in modo diverso dall’originale; è quindi molto difficile ricostruire la
trama degli originali (il problema è particolarmente complesso per le opere di Aristotele); altri testi
non sono stati rivisti dall’autore, ma da allievi, e parti potrebbero essere di mano loro (ad esempio
testi di sintesi, o appunti di lezioni), ed è per noi quasi impossibile distinguere con certezza i due
livelli dei testi;
- le copie di antichi libri (cioè di rotoli di papiro) e di codici giunti sino a noi sono spesso di epoca
medioevale, o comunque tarda rispetto al momento della stesura; dalla copia originaria i copisti
hanno ricavato altre copie, e così via per secoli, fino a giungere alla copia giunta a noi; in questi
passaggi possono essere intervenuti errori, come è inevitabile, o deliberate modifiche non dichiarate,
o possono essere state inserite note che copisti successivi hanno riportato come parti del testo, e così
via.
Liceo / Aristotelismo
In greco Lykeion. È la scuola filosofica fondata ad Atene da Aristotele in locali nei pressi di un
tempietto dedicato ad Apollo Liceo. C’era anche un giardino e dei viali in cui passeggiare, e gli
aderenti alla scuola erano anche detti Peripatetici, e Peripato il Liceo stesso, dall’abitudine di far
filosofia passeggiando.
Il Liceo rimase attivo nel corso dell’età ellenistica e il suo modello di organizzazione della ricerca
venne utilizzato per la fondazione del Museo (→) di Alessandria. Assunse una direzione di ricerca
di tipo sempre più strettamente scientifico, trascurando i temi di logica e di filosofia prima che
Aristotele aveva invece curato.
Il termine aristotelismo è moderno, e si riferisce alla ripresa della filosofia di Aristotele avvenuta in
Occidente, in diverse fasi, nel XII-XIII secolo e nel Rinascimento. In Oriente invece c’è stata
maggiore continuità con la traduzione antica, perché i filosofi arabi hanno continuato a leggere le
opere di Aristotele quando con la fine dell’età tardo-antica ormai in Occidente non circolavano più.
Ma il termine aristotelismo può essere utilizzato anche per la storia del Liceo e dell’influsso delle
opere di Aristotele nell’antichità. Se usato in questo senso, dobbiamo distinguere due aspetti:
- la vita del Liceo come istituzione ad Atene, che ebbe come primi scolarchi due figure di primo
piano nel campo della ricerca scientifica, Teofrasto (→) e Stratone di Lampsaco (→), che
impressero alla scuola un chiaro indirizzo rivolto allo studio delle scienze della natura (va anche
ricordato che Aristotele aveva tenuto scuola in altri luoghi negli anni tra l’abbandono
dell’Accademia e la fondazione del Liceo);
- la storia delle opere di Aristotele e del loro influsso sulla filosofia antica: insieme alle opere
pubblicate, anche gli scritti di scuola di Aristotele (in una forma diversa da quella con cui oggi le
conosciamo) dovettero ancora circolare nel III secolo a.C. perché sembrano essere note ai filosofi
dell’epoca (ci sono chiari indizi in Epicuro, ad esempio); furono poi pubblicate soltanto alla metà del
I secolo a.C. da Andronico di Rodi (→), e questo diede luogo alla ripresa del loro studio e alla
nascita di veri e propri commentari, quasi tutti per noi perduti, ma che dovettero essere in gran
numero a giudicare dai titoli e dagli autori di cui ci rimane memoria; il più importante (allo stato
delle nostre conoscenze) di questi commentatori antichi è Alessandro di Afrodisia (→).
In estrema sintesi, lo studio delle opere di Aristotele nel mondo antico e quindi l’influenza delle idee
di questo filosofo è stata maggiore nell’età tardo antica che nell’epoca immediatamente successiva a
quella in cui visse.
Va ricordato infine, per il mondo antico, che le opere di Aristotele furono riprese anche da Plotino
in vari punti per i suoi commentari alle opere di Platone.
Licurgo
Licurgo è un personaggio semileggendario. Legislatore di Sparta, nel V secolo a.C. era ritenuto
l’uomo che aveva dato le istituzioni alla sua città. In realtà la costituzione spartana e l’insieme delle
istituzioni si formarono in un lungo periodo di tempo, tra l’VIII e il VI secolo a.C., e non si hanno
precise notizie storiche su un unico legislatore, che comunque potrebbe esserci stato almeno per
alcuni elementi e istituzioni.
Nella leggenda Licurgo si sarebbe ispirato alle antiche tradizioni di Creta, e avrebbe poi cercato
presso l’oracolo di Delfi la conferma della sua legislazione.
Linguaggio / Linguaggi
È un insieme ordinato e coerente di segni (→) che rimandano a un significato (→) e consentono in
questo modo la comunicazione e il passaggio di informazioni. Poiché ogni segno indica qualcosa di
diverso dal segno stesso, il linguaggio implica un passaggio tra due livelli:
- il livello dei segni, che possiedono una loro struttura e una loro articolazione indipendente dal
significato di ciascuno di essi (ad esempio una lettera dell’alfabeto o una parola, se intesa come un
unico segno) e da quello che emerge dalla loro relazione (ad esempio una proposizione);
- il livello della realtà che viene indicata dai segni, che ne costituisce il significato.
Data la necessità del passaggio tra i due livelli perché vi possa essere comunicazione, non c’è
linguaggio senza la mente; anzi, data la natura comunicativa ed espressiva del linguaggio, senza due
menti che comunicano (tuttavia è anche corretto parlare al singolare perché ciascuna mente
comunica con se stessa attraverso il linguaggio, e quindi è sufficiente una sola mente perché vi sia un
realtà linguistica).
Che cosa significa allora conoscere un linguaggio e comprenderlo? Significa saper fare due operazioni
distinte:
- in primo luogo significa conoscere (intuitivamente o in modo analitico) la struttura interna al
linguaggio, ad esempio per il linguaggio verbale la grammatica e la sintassi; questa operazione non
comporta ancora la comprensione del linguaggio, cioè il passaggio al significato: ad esempio, è
possibile individuare in una lingua straniera la struttura grammaticale e sintattica (soggetto, verbo,
complementi, e così via) prima di conoscere il significato delle singole parole e quindi della
proposizione nel suo insieme;
- in secondo luogo significa comprendere il significato dei segni linguistici nella loro complessa
strutturazione, dunque significa passare dal segno al significato.
Vi sono tante forme del linguaggio quanti tipi di segni: suoni, immagini, posizioni del corpo, e così
via. Ad esempio c’è un linguaggio verbale che utilizza i suoni, uno scritto che utilizza segni grafici;
c’è un linguaggio della musica e uno della danza, c’è un linguaggio del corpo e un linguaggio
dell’architettura, e così via.
Poiché il linguaggio è un modo in cui la mente organizza i segni e li usa per comunicare, e poiché
ogni ente ed evento può essere un segno, la pluralità dei linguaggi nasce dalla pluralità delle forme
comunicative che la mente elabora.
Sui problemi filosofici legati alla nozione di linguaggio si vedano le voci Discorso e Filosofia del
linguaggio (→)
Linguaggio [Filosofia del]
I problemi filosofici sul linguaggio che storicamente la filosofia greca ha posto sono solo alcuni di
quelli che la filosofia delle epoche successive porrà. L’elenco che adesso proponiamo è quindi
limitato alla filosofia greca.
I sofisti e Socrate
Benché la natura del linguaggio sia stata implicitamente esplorata dai filosofi precedenti (e in parte
anche dalla riflessione dei poeti), sono stati i sofisti per primi a porre esplicitamente la domanda
sulla natura della comunicazione verbale, chiedendosi quale sia il rapporto tra il linguaggio e la
psiche umana (la loro risposta è che il linguaggio è una convenzione (→) e che esso ha sulla psiche
un potere quasi magico, agendo come un incantesimo: →).
L’interrogazione sofista sulla natura del linguaggio (vedi la voce Neutralità del linguaggio: →) ha
un’eco nell’indagine socratica: nel corso delle sue indagini dialettiche Socrate chiede
incessantemente “che cos’è?”, oppure “che cosa intendi con questo termine?”, invitando il suo
interlocutore ad approfondire la comprensione dei segni. Questo genere di domande portano la
filosofia socratica, se l’indicazione di Aristotele su questo punto è storicamente corretta, a porre il
problema non solo del passaggio da una parola ad un ente d’esperienza o a un evento, ma anche a un
concetto: in quanto il linguaggio è una via per esprimere nozioni universali, lo si può “percorrere” in
senso opposto per passare dalla parola al concetto? il lavoro sulle parole è già lavoro sul concetto?
(Vedi anche la voce Concetto: →)
Platone
Platone pone il problema del rapporto tra l’articolazione interna del pensiero umano, e quindi del
linguaggio che lo esprime, e l’articolazione oggettiva delle idee. È un problema che viene esaminato
negli ultimi dialoghi, ma è implicito in tutto il platonismo. Ad esempio, posta l’esistenza oggettiva
ed eterna degli enti matematici, è ovvia la domanda sulla articolazione di questi enti nelle loro
reciproche relazioni; in che rapporto sta allora la struttura linguistica della geometria come insieme
discorsivo di assiomi, teoremi e dimostrazioni, e la struttura geometrica degli enti matematici in sé
considerati? Il linguaggio è un modo umano per intenderli, traducendo una realtà altrimenti
incomprensibile in segni comprensibili alla mente dell’uomo, o corrisponde effettivamente alla loro
realtà?
Aristotele
Nella sua filosofia Aristotele ha dedicato al linguaggio studi specialistici, con l’elaborazione del
primo corpus organico di logica (→) della filosofia occidentale. I problemi che ha posto sono
moltissimi. In estrema sintesi:
- nelle Categorie studia il rapporto di predicazione, cioè i modi in cui un predicato può essere
attribuito ad un soggetto; in questo senso i problemi della filosofia del linguaggio posti da Aristotele
sono anche problemi connessi all’identificazione della realtà: i predicati possibili sono infatti le 10
categorie (→), che non solo modi di dire la realtà attraverso il linguaggio, ma anche modi di essere
della realtà;
- in Dell’interpretazione studia il rapporto tra linguaggio, pensiero e realtà (le parole sono simboli
delle modificazioni che l’anima subisce e attraverso cui conosce le cose, e queste modificazioni sono
a loro volta immagini delle cose reali); è qui che Aristotele studia le proposizioni, a cui è possibile
attribuire verità o falsità (in se stesse e in rapporto al loro significato, cioè alla realtà);
- nelle Confutazioni sofistiche studia le ambiguità linguistiche che i retori sfruttano per confutare i
loro avversari, mettendo così in atto artifici esclusivamente linguistici che è compito dell’analisi
filosofica mostrare per quel che sono: ambiguità linguistiche utilizzate come arma in un confronto
verbale.
Le scuole ellenistiche
Nei filosofi materialisti come Democrito ed Epicuro l’indagine filosofica sul linguaggio segue vie
diverse perché la loro teoria generale sulla natura e sull’uomo si basa sul principio che non esiste
nulla al di fuori degli atomi e del vuoto, e quindi ogni espressione della mente (e il linguaggio non fa
eccezione) va ricondotta a questa base. I problemi esaminati sono dunque:
- qual è l’origine storica del linguaggio umano e di quello degli animali?
- qual è la natura del linguaggio rispetto alla realtà? la rispecchia o la duplica in modo più o meno
arbitrario nella mente?
- qual è la natura dei segni linguistici? sono pure convenzioni o rispecchiano una qualche forma di
realtà? (La risposta è negativa: i concetti sono solo anticipazioni – prolessi – e i segni sono
convenzioni.)
Presso gli Stoici la logica ha avuto uno sviluppo piuttosto ampio, in direzione diversa da quella
aristotelica, e vari aspetti riguardano la filosofia del linguaggio. Ne sottolineiamo uno, di particolare
importanza per i suoi esiti: nello studio delle parole e delle proposizioni gli Stoici hanno sviluppato
lo studio della grammatica (→) e della sintassi, giungendo a esiti che sono stati utilizzati negli stessi
loro anni dai filologi delle Biblioteche di Alessandria (→) e di Pergamo (→). È in ambito stoico, ad
esempio, che sono nate le classificazioni dei vari casi e l’ordine delle declinazioni con la terminologia
che ancora oggi è in uso (nominativo, accusativo, e così via).
Una particolare attenzione al linguaggio è stata poi posta dai filosofi scettici (vedi la voce Silenzio:
→), ed anche gli Stoici hanno elaborato una complessa filosofia del linguaggio. Ma il campo
problematico è rimasto invariato: l’ellenismo si è mosso con grande originalità di percorsi di ricerca,
ma sul solco del problemi aperti dai filosofi precedenti. Nella prima filosofia cristiana invece il
campo problematico si è ampliato soprattutto a partire da Agostino di Ippona.
Linguaggio [Neutralità del]
Questa dizione raccoglie due degli specifici problemi della filosofia del linguaggio (→) posti per la
prima volta dai Sofisti il primo e da Aristotele il secondo:
- qual è il rapporto tra il linguaggio e la verità? il linguaggio è neutro rispetto ad essa, perché può
esprimere sia il vero sia il falso, restando logicamente coerente e dotato di senso, oppure c’è un nesso
inestricabile tra verità e linguaggio? (i Sofisti si sono pronunciati a favore della neutralità del
linguaggio);
- se a natura della mente è linguistica, nel senso che il pensiero utilizza sempre un linguaggio per
formarsi, per esprimersi e per essere comunicabile ad altri, le strutture del linguaggio influenzano il
pensiero?
Lira
Antichissimo strumento musicale a corde, già in uso nel III millennio a.C. presso i Sumeri, poi
presso gli Egiziani e altri, la lyra divenne di notevole importanza per la poesia e la musica greca.
Accompagnava vari tipi di componimenti ed era associato al dio Apollo in contrapposizione agli
strumenti legati alle musiche dionisiache, come l’aulos (→) e i tamburelli.
La kithara (da cui l’italiano chitarra) era una lyra dalla forma e struttura più elaborata, avendo tra
l’altro la cassa armonica di legno.
Lirica
La dizione lirica (sottinteso poesia) fa riferimento al fatto che nella poesia greca il canto dei versi in
alcuni generi letterari era accompagnato dal suono della lira (→). Ma per convenzione oggi per lirica
si intende un vasto genere di composizioni poetiche diverse dall’epica e dalla tragedia che venivano
cantate o recitate, sempre con l’accompagnamento musicale di diversi strumenti, non solo della lira.
I secoli di massima fioritura della lirica greca furono il VII e il VI a.C. Quando gli studiosi di epoca
alessandrina misero mano all’ordinamento del patrimonio che giungeva loro da secoli di produzione
poetica, distinsero la poesia lirica in monodica (composizioni intonate da una sola persona) e corale
(da un gruppo guidato da un corifeo).
Uno dei caratteri della lirica è il fatto che, al contrario dell’epica, il poeta parla in prima persona ed
esprime emozioni e sentimenti personali.
Logica
Il termine greco è logike, studio del logos (→), cioè della facoltà umana del pensiero discorsivo, ben
distinta dalla nous (→) come facoltà del pensiero contemplativo. Il termine si diffuse alla fine
dell’età ellenistica, e quindi per quasi tutto il periodo della storia della filosofia greca non compare.
Quanto il termine entrò nell’uso, si applicò soprattutto ai vari studi aristotelici raccolti nell’Organon
e alla canonica stoica.
Vanno quindi distinte
- la logica come analitica (→), termine che in Aristotele indica il passaggio mediante l’analisi dalle
conseguenze di un ragionamento alle premesse che lo fondano, e viceversa;
- la logica come canonica (→), termine che nell’ellenismo indica la disciplina che studia il canone,
cioè il criterio, per distinguere il vero dal falso.
Prima di Aristotele e degli Stoici la disciplina che si avvicina alla logica in quanto studio del logos è
la dialettica (→), che da Zenone, a Socrate a Platone ha assunto varie modalità e significati, ed è
stata plicata a una grande quantità di ricerche, tanto sul pensiero quanto sulla realtà a cui il pensiero
rimanda. E l’intero movimento di riflessione sul pensiero umano trova la propria origine in filosofia
in due dei primi filosofi: in Eraclito per la sua riflessione sul Logos, in Parmenide per la sua
indicazione dei principi di coerenza interna della ragione, impliciti nella sua analisi sull’essere.
Si può quindi sostenere che la logica, nata come termine nella tarda età ellenistica e come nozione
con Aristotele, ha radici che rimandano alla storia della filosofia sin dalle sue origini.
Logografi
Il termine era utilizzato in Grecia in due significati collegati, ma distinti. È composto da logos, qui
nel senso di discorso, e grapho, scrivo.
In un primo senso, si indicavano come logografi un gruppo di storici, precedenti alla grande
storiografia del V secolo a.C. (Erodoto e Tucidide) o contemporanei, il cui lavoro mirava a
ricostruire per iscritto le antiche tradizioni sulle fondazioni delle città, o sulle vicende degli eroi o su
altri temi di interesse storico. Tucidide accusava questi suoi predecessori del VI e V secolo (Erodoto
compreso) di prestare più attenzione al diletto dell’uditorio (questi scritti erano utilizzati come base
per la lettura in pubblico) che alla ricerca della verità storica. Su questo punto vedi anche la voce
Storiografia (→).
In un secondo senso, che fa riferimento in genere al V e al IV secolo a.C., il termine logografi
indicava gli estensori dei discorsi che andavano pronunciati in tribunale sia da parte dell’accusa che
da parte della difesa: erano profesisonisti del settore, esperti di diritto e di retorica, che preparavano
i testi che sarebbero stati letti dalle parti in tribunale, non essendo previsto nel diritto processuale
greco la figura dell’avvocato.
Logos
Alle origini della cultura greca, il termine era riferito all’attività della mente che raccoglie in unità
una molteplicità di esperienze e di informazioni ricavandone quella sintesi che è a fondamento del
sapere umano, almeno nel senso in cui la saggezza e la sapienza di un uomo sono frutto di
consolidata esperienza: “Logos deriva da legein, raccogliere, che in Omero esprime ancora sovente il
sollevare e radunare oggetti concreti […]. Il sostantivo logos, già nei passi più antichi in cui lo
incontriamo, ha un significato squisitamente spirituale. È l’espressione per quella attività dello
spirito umano che consiste nel raccogliere, nel coordinare e nel combinare insieme le impressioni
sensoriali, attività in cui rientrano anche il contare e il calcolare. […] In esso poteva anche essere
incluso l’impulso all’agire razionalmente. Per ora rimanga acquisito ciò che è essenziale: il logos
esprime in primo luogo una relazione col mondo circostante; indica lo spirito umano in quanto
attivo in due direzioni, nel raccogliere il materiale empirico e nel rielaborarlo soggettivamente con
l’ausilio delle capacità intellettive. Fu appunto l’unione di queste due funzioni a mettere i Greci in
grado di dominare teoricamente il mondo esterno, a fare del logos il principio della loro scienza, ad
assicurare a questa il successo” (Pohlenz, pp. 315-317).
Dunque la radice di logos è la stessa di legein, che significa parlare, e in effetti un significato di logos è
parola, o linguaggio (→) o discorso (→). È per il fatto che il linguaggio è legato al pensiero, che in
esso si esprime (o si forma), che logos significa pensiero, o meglio attività razionale della mente. Ed
è perché l’attività razionale è teorizzata da alcune filosofie greche come propria del governo del
mondo, che il termine Logos in questi filosofi (Eraclito e Stoici in particolare) designa il principio
razionale interno alla natura, che la anima con la sua energia e la indirizza con la sua capacità di
previsione (vedi anche la voce Provvidenza: →).
“Il logos è, della filosofia stoica, il concetto centrale, che soppiantò completamente, nella dottrina
come nella terminologia, il Nous aristotelico. Perché? Nous e noein sono termini correnti già in
Omero, e già in Omero indicano una funzione prettamente spirituale, distinta dalla percezione dei
sensi. Il nous può poi essere concepito come sede effettiva della coscienza, in quanto solo per mezzo
suo le impressioni sensibili giungono a livello della coscienza: «il nous vede, nous sente, tutto il resto è
cieco e sordo», dice Epicarmo. Tuttavia, nella sua essenza, il nous non dipende dal mondo esterno: è lo
spirito pensante, che opera anche senza organi sensori. Appunto per questo già in Parmenide il
nous, indipendentemente dalla esperienza esterna, può cogliere il vero essere e ritrovarvi sé stesso.
Per Platone è il nous che contempla le sedi iperuranie e le idee spoglie di ogni materialità. La
filosofia di Aristotele trova il suo coronamento nella rappresentazione del nous divino, volto solo
verso sé stesso […].
Il logos è cosa assai diversa. La parola, che nell’epica è ancora recente, ricevette il suo contenuto
concettuale, non diversamente dal termine physis, ad opera del movimento spirituale sorto in Ionia
col proposito di intendere e di dar forma al mondo mediante la ragione. Con la parola logos venne
quindi connesso fin da principio il rapporto dell’uomo con il mondo esterno. Gli Elleni avvertirono
dentro di sé la presenza di un intelletto che «raccoglie», riunisce e «somma» i diversi oggetti
percepiti, le rappresentazioni, le impressioni, sì da conquistare per questa via la visione e la
comprensione di un tutto; e poiché per il loro temperamento vivace e comunicativo il pensiero, il
logos, consisteva essenzialmente in un dialogo con sé stessi e con gli altri, designarono al tempo
stesso con la medesima parola anche quelle forme espressive che proprio allora stavano
conquistandosi un posto accanto alla poesia ispirata: il discorso e il racconto organizzati
razionalmente e costruiti in base ad un calcolo preciso. […]
Ma per i Greci l’essenza del logos non si esaurisce nel conoscere e nel parlare. Non si può solo dire
che una cosa è, ma anche che una cosa deve essere. Il logos non si arresta alla conoscenza, ma
contiene anche l’impulso a operare. Solo partendo da questa funzione possiamo capire perché il logos
divenne il concetto fondamentale della filosofia di Zenone ed ebbe un significato quale il nous non
poté mai raggiungere. Per Zenone il logos non rappresentava soltanto la ragione pensante e
conoscente, ma anche il principio spirituale che dà forma a tutto l’universo razionalmente e in base a
un piano rigoroso, e fissa per ogni singola creatura la sua destinazione. Per Zenone, come per
Eraclito, il logos regna tanto nel cosmo quanto nell’uomo e ci fornisce la chiave per cogliere non solo
il significato del mondo, ma anche quello della nostra esistenza spirituale, e per conoscere il nostro
effettivo destino. In questo modo esso indicava anche la via per arrivare ad una comprensione del
divenire cosmico tale da soddisfare in egual misura il pensiero razionale di Zenone e il suo
sentimento religioso” (M. Pohlenz, La Stoa).
I problemi filosofici connessi con il termine logos sono ovviamente molti, perché entrano in gioco sia
i temi della teoria della conoscenza che quelli della logica e della metafisica (si veda quanto abbiamo
sintetizzato per la voce Nous: →). Se tuttavia vogliamo indicare il punto di incrocio di tutti i filoni di
ricerca sul logos, allora è utile porre questa domanda: la ragione discorsiva dell’uomo, che si articola e
si esprime mediante varie forme di linguaggio, trova riscontro in una forma di razionalità iscritta in
natura o comunque esistente oggettivamente al di fuori della mente dell’uomo?
Il logos è proprio della mente dell’uomo e si esprime nella razionalità attraverso il linguaggio. Questa
razionalità, certo in una diversa forma, appartiene anche alla natura?
Luciano di Samosata
Singolare figura di scrittore greco di epoca imperiale romana, Luciano di Samosata (120 circa –
dopo il 180 d.C.) visse a lungo da giovane tra Antiochia, dove esercitò l’attività forense, e varie
località della Grecia, dell’Italia e della Gallia, per poi stabilirsi ad Atene, dove visse un ventennio a
partire dalla metà del II secolo d.C., prima di trasferirsi, ormai anziano, in Egitto come funzionario
imperiale, dove morì.
Scrittore di successo, autore di romanzi, di dialoghi, di saggi, si caratterizzò come un moralista che
guarda con occhio ironico, a volte satirico, ai comportamenti del mondo intorno a sé. La filosofia
compare nella sua opera soprattutto come pratica di vita, a volte presa di mira con durezza satirica in
questo o quel comportamento specifico.
È autore anche di scritti filosofici in senso proprio, come il Negrino, in cui esalta la autentica vita
speculativa, e l’Ermotino, in cui illustra il principio scettico della vanità di ogni fede filosofica.
Lucrezio
Vedi Epicureismo
“L’uomo è la misura di tutte le cose”
È il celebre detto di Protagora che istituisce nella filosofia occidentale la posizione sulla verità che
ha poi assunto il nome di relativismo (→). Non conosciamo il contesto in cui la frase è stata scritta,
né se questa “misura” riguardi solo la conoscenza o anche i valori morali.
Macedonia
Territorio montuoso posto a nord della Grecia propriamente detta, la Macedonia in età storica era
comunque abitata da popolazioni vicine alla cultura greca, di cui però non è ben chiara l’origine
etnica. I Macedoni erano solo una delle popolazioni che abitavano la regione, ma erano riusciti con
una progressiva politica di espansione e di consolidamento a controllare e unificare tutte le altre
etnie.
Protagonista di questa politica di unificazione era stata la monarchia, mantenutasi in quest’area in
età arcaica mentre in Grecia era scomparsa. L’avvicinamento alla cultura greca si intensificò nel V
secolo, quando i re macedoni furono coinvolti in vario modo, ma in posizione marginale, nelle
guerre della Grecia (sia la Guerra Persiana che quella del Peloponneso).
La svolta avvenne sotto Filippo II, re di Macedonia alla metà del IV secolo a.C., e sotto il suo
successore Alessandro Magno, che riuscirono a dare solidità al regno e a costruire e mantenere
l’egemonia sulla Grecia e a lanciare poi l’attacco contro l’Oriente, rivendicando il ruolo guida su tutti
i Greci in questa guerra.
Dopo la morte di Alessandro Magno, il suo impero si frazionò fra i suoi generali, e la Macedonia
tornò ad essere uno stato di rilievo regionale, prima di entrare progressivamente nella sfera di
interesse dei Romani che, dopo la seconda guerra punica, si impadronirono in pochi decenni di
tutta l’area, che nel 148 a.C. divenne poi provincia romana.
La storia dei rapporti tra la Macedonia e la Grecia è importante ai fini dello sviluppo della filosofia
greca per due ragioni:
- perché sotto Filippo II e Alessandro Magno Atene perse la sua autonomia, e uno dei massimi
filosofi greci del momento, Aristotele, era strettamente legato alla corte di Macedonia; tuttavia la
visione politica di Aristotele e la sua filosofia risentirono poco, a quanto sembra dalle opere
pervenuteci, del nuovo clima politico: per Aristotele è ancora la polis il luogo per eccellenza in cui ad
uomini liberi conviene vivere;
- perché dopo Alessandro Magno l’età ellenistica si sviluppò legando la Grecia all’Oriente, e
consentendo la nascita di poli internazionali di assoluto prim’ordine per gli studi e la ricerca come
Atene e Alessandria d’Egitto, oltre a diverse altre minori (come Pergamo, ad esempio).
Maestri del sapere
Con questa espressione Platone descrive i poeti. Il contesto è polemico, perché nella Repubblica
Platone ritiene di poter argomentare a favore della tesi che si tratti di cattivi maestri, da non seguire,
sicché nella città ideale la musica, le arti e la poesia saranno poste sotto controllo o bandite. Ma allo
stesso tempo Platone intende descrivere una realtà di fatto, perché i giovani greci si formavano in
effetti sui testi poetici, e le tradizioni dei padri erano tramandate per questa via e rese note a tutti nel
contesto della cultura orale.
Chi sia il vero maestro del sapere è il problema che è al centro della filosofia tra l’età dei Sofisti, di
Socrate e di Platone. Sia i Sofisti che Platone ritenevano di essere loro questi maestri, i primi a
favore della poesia utilizzata però solo come base di un sapere tradizionale da trattare con la
massima libertà, il secondo contro questo sapere (che pure utilizza di continuo).
È il tema centrale della pedagogia (→) e dell’educazione come problema filosofico (vedi la voce
Paideia: →). Di fatto tutte le scuole ellenistiche si sono proposte come maestre del sapere,
proponendo ciascuna una propria via filosofica per la vita e per la ricerca della felicità dell’individuo
e della collettività, e un sapere teorico a supporto di questa via.
Magia
Il termine magia – in greco magike techne, arte magica – si è diffuso soltanto nella tarda antichità per
indicare l’arte di operare prodigi, e in specifico di agire sulle cose, sugli uomini e sugli stessi dèi,
dando così all’uomo un potere superiore al naturale. Nel mondo ellenistico si usava il termine
magheia per indicare le pratiche dei sacerdoti persiani che perseguivano obiettivi di divinazione ed
anche di guarigione (magia utilizzata come pratica medica): in questo senso i magi venivano confusi
con gli astrologi e gli indovini caldei.
Detto questo per i termini e le nozioni dell’epoca tra l’ellenismo e la tarda antichità – quando queste
pratiche si diffusero anche nel mondo greco con l’ingresso di credenze e riti dall’Oriente, e il sorgere
di nuove divinità e religioni –, va anche ricordato che forme di magia erano note ai Greci sin dai
poemi omerici, e alcune figure del mito sono associate alla magia: Circe, ad esempio, ma anche
Medea, sono maghe, e i loro poteri magici sono descritti come efficaci.
Tuttavia per la maniera di sentire greca queste realtà magiche restarono sempre ai margini della loro
sfera culturale. Anche la localizzazione geografica di queste figure è per lo più marginale rispetto
allo spazio greco, e i loro poteri erano comunque limitati, e sottoposti a quelli degli dèi. Ben diversa
la magia nell’età ellenistica, e soprattutto nel mondo tardo-antico, fortemente esposto a influssi
religiosi nuovi e a pratiche a sfondo contrario alla tradizione razionalista (per le quali si usa
abitualmente il termine irrazionale: →)
Magna Grecia
I Greci chiamavano Megale Hellas, e i Romani quindi Magna Grecia, dapprima la costa ionica
dell’Italia meridionale, poi l’intera Italia meridionale colonizzata dai Greci tra l’VIII e il V secolo
a.C.
La Sicilia non entrava in genere entro questa indicazione geografica, che per noi è attestata per la
prima volta in Polibio, lo storico greco che scrive nel II secolo a.C. in ambiente romano
(verosimilmente, tuttavia, la dizione è parecchio più antica).
Lo sviluppo della civiltà romana dovette molto all’incontro/scontro con i vicini Greci del sud. Ma la
Magna Grecia non era tutta e solo greca: lo erano le coste, ma l’interno era abitato da numerose
popolazione italiche, che entrarono in complessi rapporti coi Greci, non sempre ben chiari agli
storici moderni per la scarsità delle fonti. La civiltà del meridione d’Italia in età romana risulta
quindi dalla fusione, più o meno compiuta, tra l’elemento italico, l’elemento greco e quello romano.
Magnanimità
È nozione etica tipicamente greca, che non ha un preciso corrispettivo in italiano, se non in
espressioni come avere un animo grande (etimologicamente a questa nozione del resto rimanda il
termine greco che traduciamo con magnanimità, cioè megalopsychia, grandezza d’animo).
La magnanimità è il tratto tipo della persona che sa elevarsi al di sopra della massa, ma sa anche
considerare i propri limiti e l’effettivo pesa della propria grandezza, che è riscontrabile del resto nei
fatti. Un uomo magnanimo è quindi in effetti un uomo grande (per potere, per ricchezza, per
saggezza, e così via) che sa di essere tale, ma sa anche quanto sia facile eccedere o cadere in difetto, e
non fa mai pesare agli altri la propria (effettiva e reale, e realmente esercitata) superiorità.
Il magnanimo non è quindi umile: sa di essere in posizione superiore; ma è saggio, e non giudica
dall’alto gli altri. Una figura di questo tipo è tratteggiata soprattutto nelle opere di Aristotele (una
precisa descrizione della magnanimità è in Etica Nicomachea, IV-3) e nei frammenti degli Stoici, in
toni e modi non molto dissimili.
Va osservato che la figura dell’uomo magnanimo è erede delle caratteristiche degli antichi eroi (→),
del tutto cambiati i tempi e le condizioni sociali, in un contesto non più mitico ma filosofico.
Maieutica
La maieutike (sottinteso techne) è in Grecia l’arte della levatrice. Nel Teeteto di Platone il
personaggio-Socrate un po’ ironicamente, ma non troppo, paragona il proprio metodo filosofico al
mestiere della madre, appunto levatrice. Solo che la nascita a cui allude Socrate non avviene nel
corpo, ma nell’anima: con la sua dialettica, se i giovani che si rivolgono a Socrate per far filosofia
insieme sono gravidi nell’anima, allora Socrate li aiuterà a partorire nuove e belle idee, senza
insegnare loro nulla, ma facendo in modo che siano essi stessi a elaborarle fino a renderle coscienti e
mature.
Questa metafora è legata al rifiuto socratico di insegnare, e quindi di avere allievi, e al suo “so di non
sapere” (→), e anche alla sua interpretazione dell’antico motto delfico “Conosci te stesso!” (→).
Ovviamente non sappiamo se la metafora è di invenzione platonica, e quanto in generale vi sia di
storico in questa immagine del maestro che l’anziano Platone propone (il Teeteto è un dialogo
difficilmente databile, ma comunque in genere considerato dagli studiosi posteriore a quelli della
maturità: è stato quindi scritto decenni dopo la morte di Socrate).
Male
Il termine greco kakon, che traduciamo con male, fa soprattutto riferimento, ma non in via esclusiva,
al male morale, cioè al male commesso dall’uomo con una precisa scelta (pienamente consapevole o
meno). Ma vi sono altri tipi di mali oggettivi in natura, la cui comprensione nell’ordine del tutto è
difficile.
Nel mito
Il mito conosce bene il problema del male (perché esiste?) e ne dà due soluzioni: una
imperscrutabile, associandolo alla Moira, al destino che governa uomini e dèi, che non dà certo
spiegazioni per i suoi decreti; l’altra associandola agli dèi, da cui “tutto proviene”, sia il bene sia il
male.
Già nel mito il problema della responsabilità umana di fronte al male è posto: attraverso varie figure
dell’epos e della tragedia ci si interroga sulle radici del male (ad esempio nell’Antigone di Sofocle, in
particolare nel celebre Secondo Stasimo), sulla responsabilità individuale (ad esempio nel Libro I
dell’Odissea sulla scelta di Egisto di vendicare la morte del padre Agamennone uccidendo la madre
che aveva assassinato il marito).
In filosofia
Il problema ritorna in termini etici soprattutto nel V secolo a.C. ed è esplicitamente posto da
Socrate che, col suo intellettualismo etico (→), nega che l’uomo scelga consapevolmente il male,
assumendo una posizione largamente condivisa nella cultura greca a lui precedente e successiva, ma
non da tutti.
Una visione pessimistica sulla natura dell’universo fisico e sulla stessa natura umana è assunta – sulla
scorta di elementi pitagorici – da Platone che nel Fedone parla del corpo come prigione dell’anima:
la sfera della fisicità è vista in contrapposizione con la perfetta e immutabile realtà delle idee, e
l’anima umana è concepita sospesa tra queste due realtà. Il male è tutto da una parte, nelle passioni
che legano l’anima al corpo: nel celebre mito della biga alata (→) del Fedro questa concezione è resa
nella figura del cavallo nero, indomabile e passionale, che punta in basso (verso le passioni del
corpo) e non in alto (verso la pura contemplazione delle idee).
Questa visione lacerata dell’uomo, sospeso tra pulsioni contrapposte che lo portano sia verso il male
che verso il bene, non rimane nelle filosofie successive. Per Epicuro il male è solo una sensazione,
come il bene, e non ha alcuna realtà diversa dal fatto che un certo evento venga percepito come male
piuttosto che come bene; la regola è dunque semplicissima: evitare i mali e cercare i beni, e su questa
base è costruita una teoria del piacere (→) e dell’utile (→).
In Epicuro il male non ha realtà oggettiva, ma nemmeno il bene, perché l’universo è solo composto
da atomi e spazio vuoto e non è caratterizzato da nessun valore etico. Per gli Stoici invece il Tutto è
intrinsecamente bene, ed è governato da una forza perfetta e buona, il Logos. La loro soluzione del
problema del male è quindi lontana da quella epicurea: gli Stoici semplicemente negano che esista
nella natura delle cose. Ciò che chiamiamo male è tale solo perché non ne capiamo la necessità
nell’ordine del tutto: in realtà è un frammento (da noi non compreso come tale e considerato
isolatamente) del bene universale. Se applicato alle scelte dell’uomo, il male non è qualcosa di
oggettivo, ma di soggettivo: nasce dalla mancata indipendenza dell’io dalle passioni. Se l’io mantiene
la sua indipendenza, niente e nessuno può fargli del male.
In tutte queste teorie sul male, il significato del termine è comunque sempre su due piani,
variamente connessi:
- il piano del male fisico (dolore, malattia, e così via);
- il piano del male morale (la colpa).
Naturalmente il problema del male può essere esaminato anche da un punto di vista diverso,
giuridico, e per questo aspetto rimandiamo alla voce Filosofia del diritto (→).
Mania
La mania, o divina mania in Platone, è il delirio ispirato da un dio. Il campo semantico collegato al
termine va da profezia a divinazione, da poesia ad amore, tutte nozioni che hanno una comune
radice nel delirio di origine divina.
Va però ricordato che nella mitologia greca Mania è una dea associata alla pura e semplice follia,
quindi una divinità dai caratteri estremamente inquietanti: ad esempio gli dèi mandano Mania, che
fa letteralmente impazzire gli uomini, quando non osservano i riti o incorrono in altre colpe. Nella
catena di sciagure che ne seguono, i Greci leggono in controluce la mano degli dèi.
Quando Platone associa la mania all’ispirazione, compie una operazione di sintesi tra la mitologia e
la filosofia, mantenendo gli antichi tratti inquietanti in un contesto che tuttavia è positivo.
Mantica
Di particolare importanza soprattutto per la comprensione di vari passi dei dialoghi di Platone, in
cui la mantica è spesso citata, e degli scritti stoici appartiene tuttavia ad un universo culturale diverso
da quello della filosofia, con cui tuttavia la filosofia mantiene complessi rapporti.
La mantica (in greco mantike, termine reso in latino divinatio) è l’arte di potenziare le facoltà di
conoscenza dell’uomo – e quindi l’intelletto – rendendo la mente capace di accedere a un sapere
superiore all’umano. Dato questo obiettivo, la filosofia le è contraria per i suoi aspetti irrazionali
(vedi la voce Irrazionalismo: →), ma non le è contraria negli obiettivi. E il razionalismo tipico dei
Greci, che si è espresso nella filosofia, ha influenzato a sua volta la mantica.
Maratona (Battaglia di)
Demo dell’Attica a 42 chilometri a nord di Atene, ai bordi di una pianura aperta sul mare,
Maratona è uno dei luoghi simbolici della Grecia antica perché qui si combatté nel 490 a.C. la
battaglia decisiva della prima fase delle Guerre Persiane (→).
I Persiani attaccavano con truppe trasportate via mare, e scelsero per lo sbarco la baia di Maratona
perché a nord di Atene offriva la possibilità di un buon approdo e la pianura rendeva difficile ai
Greci la difesa contro la forte cavalleria persiana. Il comandante delle forze ateniesi, Milziade, che
poteva anche contare sull’appoggio di forze plateesi (mentre i rinforzi spartani giunsero a battaglia
vinta), scelse una strategia d’attacco che sorprese i Persiani: molto inferiore di numero, attaccò a
sorpresa mentre la cavalleria nemica stava ancora preparandosi alla battaglia, sicché non poté avere
alcun ruolo. I Persiani furono costretti a imbarcarsi nuovamente, e puntarono allora ad un attacco
diretto contro Atene, che supponevano scarsamente difesa. Quando giunsero in vista del porto del
Falero, trovarono Milziade e i suoi uomini schierati a difesa: le truppe ateniesi avevano intuito il
pericolo e avevano compiuto un veloce dispiegamento. I Persiani si ritirarono senza attaccare.
Marco Aurelio
Vedi Stoicismo
Mare
A parte l’Oceano (→), che appartiene prima alla sfera del mito, poi a quella dei tentativi scientifici
di rappresentare le terre emerse (vedi la voce Cartografia: →), il mare era per i Greci una fonte
indispensabile di vita e di lavoro, e come tale legato a moltissimi racconti mitologici. Popolato da
Ninfe e altre creature marine e divine o semidivine che vivono sulle sue sponde (come Scilla,
Cariddi, le Sirene, per indicare alcuni degli “incontri” di Ulisse nelle sue peregrinazioni descritte
nell’Odissea), abitato da dèi potenti come Nereo (→) e molto temibili come Poseidone (che
nell’ordine imposto da Zeus del mare è il signore, così come Zeus lo è dei cieli), il mare è spesso al
centro dei racconti del mito.
È però anche oggetto di ricerca scientifica: Aristotele, che è stato un grandissimo biologo marino,
ha studiato a fondo gli esseri viventi che lo popolano.
Per i Greci costituiva un serio problema anche spiegare come mai si ritrovassero in montagna fossili
di evidente origine marina (conchiglie, pesci, e così via). Questi ritrovamenti diedero luogo a varie
teorie sull’origine delle rocce e in generale sulla formazione della natura nell’aspetto in cui la
vediamo.
Marmo Pario
La dizione si riferisce a una stele di marmo ritrovata nell’isola di Paro di cui rimangono frammenti.
Originariamente era di ampie dimensioni, circa 2 m per 70 cm. Vi erano iscritti molti dati sulla
storia greca, in parte mitici (dalla metà del I millennio a.C. all’età di Omero), in parte storici (per i
secoli successivi fino alla metà del III a.C.) in una prospettiva ateniese, e questo ha lasciato pensare
che quella ritrovata fosse una copia a Paro di un originale prodotto ad Atene. L’autore è ignoto, e si
suppone che la stele sia stata scolpita intorno al 245 o poco prima.
Marsia
Nella mitologia greca Marsia è un sileno (→) associato all’invenzione del flauto a due canne. L’area
in cui le vicende della sua vita si snodano è la Frigia.
Ad Atene invece l’invenzione del flauto a due canne era attribuita ad Atena, che però avrebbe
gettato via lo strumento essendosi accorta, rispecchiandosi in un fiume, che le sue gote si
deformavano nel suonarlo. Alla sua proibizione di raccoglierlo non avrebbe obbedito Marsia, che
anzi se ne sarebbe servito così bene da divenire un virtuoso dello strumento, fino a sfidare lo stesso
Apollo con la sua lira.
Apollo avrebbe accettata la sfida e, una volta vinta, avrebbe punito Marsia appendendolo a un pino,
o a un platano, e scorticandolo. Una tradizione dice che il dio si pentì poi della sua ira, e trasformò il
sileno in un fiume.
Dietro questo mito si cela la contrapposizione tra due tipi di musica, collegati al suono del flauto
(Marsia) e della lira (Apollo). Il flauto infatti era lo strumento dei riti dionisiaci, la lira è lo
strumento apollineo per eccellenza.
Massime
e
sentenze
Il genere è in sé una variante dell’aforisma e della forma gnomica (gnome in greco è la sentenza) di
derivazione poetica legata alla tradizione orale. Ha assunto un notevole sviluppo in età ellenistica –
ma già Democrito le propone – ed è legato all’identità che la filosofia ha assunto nell’Ellenismo.
Così le massime e le sentenze
- sono simili all’aforisma, ma prive di ambiguità, distanziandosi quindi in modo certo consapevole
dalla tradizione eraclitea, ma anche oracolare, sapienziale, e simili;
- hanno tutte un orientamento pratico, e anche quando richiamano specifici punti della teoria
l’obiettivo è comunque indicare una via all’azione o alla riflessione;
- espongono in modo piano e semplice le regole della scuola, apprese altrove, non attraverso le
sentenze stesse, proponendosi come ausilio della memoria;
- le figure retoriche legate a questo genere sono, come nelle lettere dottrinali, per lo più similitudini
o metafore di immediata lettura, cioè figure che hanno come obiettivo la chiarezza: non servono a
colpire, a interessare, a stupire; la loro funzione è diversa, sicché non vi si trova spesso quel tratto
caratteristico del "pensiero aforistico" che condensa in una frase o in una parola o in uno scontro di
parole un mondo di pensieri.
Degli elementi formali della tradizione rimangono due cose: la estrema brevità in un contesto
formale legato all’oralità che apparenta questi testi alla poesia (e ne facilita quindi la
memorizzazione); la radicalità delle tesi che vengono sostenute, con stile a volte piano, a volte
tagliente, a volte ostile.
Qual è la funzione di questi testi? In quale rapporto stanno con le lettere dottrinali e con i trattati,
cioè con gli altri generi che abitualmente gli autori delle sentenze e delle massime hanno utilizzato?
La pratica di vita proposta dalle scuole ellenistiche è fondata su un preciso criterio-guida: la costante
applicazione dei princìpi dottrinali (in sé teorici) alle scelte individuali (del seguace della scuola) e
collettive (delle comunità di seguaci). Perché questo possa accadere, questi princìpi dottrinali
devono essere sempre presenti alla mente, indipendentemente dalle ragioni filosofiche che ne
determinano la validità, ed indipendentemente dalla ricerca filosofica in quanto tale. Certo, al
momento opportuno chi sceglie di vivere secondo i dettami di una certa scuola filosofica ne studierà
la dottrina; a seconda dei suoi interessi la approfondirà fino al punto da potere discutere i dettagli
tecnici con i seguaci di altre scuole; farà anche ricerca, a volte, all’interno della cornice della dottrina.
Ma tutto questo a monte della pratica di vita. Per quella serve qualcosa di diverso: serve avere
sempre presenti i principi della scuola, serve potere richiamare la frase giusta al momento giusto, a
seconda della situazione in cui ci si trova a vivere, in modo da essere sempre pronti ad affrontare
l’esistenza con le chiavi interpretative corrette per vivere una vita felice.
La funzione delle massime e delle sentenze è legata allora alle pratiche individuali di ricerca della
felicità, così come le lettere dottrinali sono legate alle pratiche collettive, proprie delle scuole; ma
mentre le lettere hanno una funzione formativa, non solo pratica (perché servono a dare ai seguaci
della scuola le corrette chiavi di lettura della realtà, utili poi nella pratica), massime e sentenze non
hanno un funzione formativa, ma di rapido richiamo. Da qui la loro struttura formale.
Per un quadro generale dei generi letterari della filosofia antica si veda la voce Generi letterari della
filosofia antica (→).
Matematica
Il termine greco mathema, che intorno al VI-V secolo a.C. venne applicato alla scienza dei numeri e
delle figure geometriche, in origine indicava l’insieme delle conoscenze che derivano dall’esperienza
o, più in generale, il sapere. Le conoscenze matematiche in epoca arcaica greca derivavano da due
fonti:
- una prima fonte erano le conoscenze che in questo campo l’Oriente aveva raccolto ed elaborato a
partire dal III Millennio a.C., soprattutto nel campo della geometria e dell’astronomia: osservazioni
accurate del moto dei pianeti (utili a vari scopi, dalla definizione del calendario agli studi di
astrologia), metodi empirici per la costruzione dei sistemi di canalizzazione delle acque e per
l’agrimensura, e così via; molti teoremi erano già stati enunciati, ma per lo più non dimostrati sulla
base di una compiuta teoria matematica;
- una seconda fonte erano le esperienze di lavoro degli architetti e degli artigiani, che per il loro
lavoro avevano bisogno di conoscenze matematiche, anche se solo di tipo empirico.
Il contributo che la filosofia diede allo sviluppo della matematica tra il VI e il V secolo a.C. - prima
prima dell’amplissimo lavoro teorico che portò due secoli dopo agli Elementi di Euclide (III secolo
secolo a.C.) e al lavoro teorico di Archimede di Siracusa – fu proprio il passaggio da una visione
empirica della matematica alla elaborazione di una coerente teoria.
Questo passaggio è il riflesso, in campo matematico, della nascita stessa della filosofia, che da Talete
in poi non si muove più soltanto sul piano della raccolta dei dati, ma tenta di interpretarli da un
punto di vista teorico, e quindi in primo luogo razionale.
Materia
Nella filosofia precedente ad Aristotele non esiste un termine specifico per indicare la materia come
nozione comune a qualsiasi ente fisicamente esistente. L’assenza di un termine corrisponde in effetti
alla assenza del concetto: la nozione di materia, infatti, come realtà omogenea e separata dalla mente
nacque nel IV secolo a.C. in ambito platonico-aristotelico quando la differenza tra la sfera della
fisicità e quella della mente e delle idee portò a teorie che postulavano l’esistenza di realtà diverse,
l’una solo materiale, l’altra solo spirituale. I filosofi precedenti, in particolare i naturalisti e i
pluralisti, non avevano posto questa distinzione: ad esempio il termine Nous in Anassagora designa
sì la Mente che governa e plasma l’universo fisico, ma non è concepita in termini che possano essere
definiti materiali o spirituali: è una energia intelligente che opera all’interno della physis senza
tuttavia mescolarsi con le “omeomerie”. Anche il mito era sulla stessa linea.
Hyle-Chora
Non è quindi un caso se il termine greco per indicare la materia come ciò di cui sono fatti i corpi
(indipendentemente da quanti tipi di materia esistano) compare per la prima volta in Aristotele: è
hyle, che prima di Aristotele significava bosco, o legno come materiale da costruzione. Aristotele
estende il senso di questa parola alla realtà fisica di qualsiasi corpo.
Quello di materia è in Aristotele un concetto molto complesso perché non c’è mai la realtà fisica di
un corpo senza che ci sia il corpo, ma nessun corpo è formato solo da questa realtà fisica: qualsiasi
corpo ha anche una forma (→), cioè una struttura che dà alla materia una architettura (queste
nozioni possono essere comprese solo nel contesto generale della teoria aristotelica della sostanza
(→).
Subito prima di Aristotele una diversa nozione di materia era stata proposta dai filosofi atomisti per
risolvere il problema parmenideo della conciliazione tra l’immutabilità dell’essere e il continuo
movimento in natura che forma e disfa l’individualità dei corpi. Democrito aveva postulato – su basi
esclusivamente razionali e non empiriche – l’esistenza di atomi pieni che si muovono nello spazio
vuoto. In Democrito, come in Epicuro che riformula con varianti non secondarie l’atomismo, la
materia piena non esiste da sola: la sua esistenza implica lo spazio vuoto. Ma l’atomismo non aveva
affatto bisogno della nozione di materia separata da qualcosa che materia non è, perché non
contrapponeva la fisicità dei corpi a enti non fisici (il pensiero e la coscienza sono ricondotti
all’attività dell’anima che è anch’essa un aggregato di atomi).
Contemporaneamente a Democrito, Platone aveva utilizzato il termine chora per indicare un
principio eterno, informe e preesistente al cosmo, che nel mito del Timeo il Demiurgo utilizza per
far nascere i quattro elementi e dar forma, sul modello delle idee, all’universo materiale ordinato. La
chora è quindi sì materia, ma nel senso di ricettacolo originario di tute le forme possibili.
I problemi filosofici
Dato questo quadro, che diede luogo tra il III secolo a.C e il III d.C. a nuove teorie generali sulla
materia (in particolare quella degli Stoici e quella di Plotino), è possibile sintetizzare in breve i
problemi filosofici che questo concetto pone:
- innanzitutto la risposta alla domanda “che cos’è?”, difficile per varie ragioni; ne ricordiamo due: i
filosofi greci erano ben consapevoli che non era possibile avere esperienza della struttura della
materia perché sarebbe stato necessario avere dati su particelle troppo piccole per le capacità dei
sensi dell’uomo; erano poi altrettanto consapevoli del fatto che la materia in quanto tale è
impensabile, perché la mente pensa pensieri (sensazioni, immagini, idee, non cose materiali se non
attraverso una loro duplicazione sul piano della rappresentazione o della teoria);
- c’è poi il problema dell’origine della materia: è soggetta al tempo, ma è sempre esistita? se non lo è,
come si è formata?
- in ultimo, è un problema comprendere come la materia, di cui il corpo umano è parte, interagisca
con la sfera spirituale: è la materia a determinare le condizioni per la nascita della coscienza come
vogliono i materialisti? o viceversa è il mondo spirituale a governare la materia, come vogliono i miti
platonici e molte altre teorie successive?
L’impostazione di alcuni di questi problemi implica la separazione della materia dall’energia
spirituale. Ma non tutte le scuole accettano questa separazione. Ad esempio non la accettano gli
Stoici, e neppure gli Epicurei.
Matrimonio
Né il matrimonio (gamos) né la famiglia sono approfonditamente studiati nella filosofia greca.
Spesso citati, sono visti come un fatto privato, legato quindi a considerazioni etiche o di
opportunità, piuttosto che per la loro rilevanza sociale. Del resto uno dei caratteri della polis antica
era proprio il fatto che, pur mantenendo un ruolo importante per la famiglia, sottolineava il ruolo
del cittadino come individuo. Quanto ai figli, raramente entrano nella riflessione dei filosofi se non
per i problemi educativi che non riguardano però solo i genitori o la famiglia, ma la società intera,
trattandosi di educare dei cittadini (per questo rimandiamo alla voce Paideia: →).
Detto questo, va sottolineato che le indicazioni che i filosofi greci danno sul tema del matrimonio
per la figura del saggio sono per lo più improntate alla più grande prudenza.
Nello Stato ideale tratteggiato nella Repubblica Platone prevede per le classi dirigenti non la
formazione di una famiglia nel matrimonio, ma la comunanza delle donne, e quindi dei figli.
Epicuro considera il matrimonio una fonte di problemi, e il saggio che voglia vivere una vita felice
farà bene a privilegiare la comunità degli amici piuttosto che la famiglia, che tuttavia non viene
negata. Chi invece è ostile alla vita nel matrimonio sono i Cinici, che col loro tipico stile diretto e
tagliente lo considerano “niente” (la considerazione si estende anche al desiderio di avere figli).
Valutazione più positiva è presso gli Stoici, che lo considerano un passo utile, ma non certo
indispensabile, sulla via della saggezza.
Medea
Inquietante figura del mito, protagonista di una celebre tragedia di Euripide (la Medea: →), Medea
è sposa di Giasone, il capo della spedizione degli Argonauti, e figlia del re Eeta della Colchide,
nonché pronipote della maga Circe. È anch’essa dotata di poteri magici.
Quando Giasone giunge nella Colchide coi suoi compagni alla ricerca del Vello d’oro, il re Eeta
rifiuta di consegnarlo; così Afrodite ed Eros fanno in modo che la figlia Medea si innamori di
Giasone e gli metta a disposizione i suoi poteri magici, con cui Giasone riesce a sottrarre il Vello
d’oro e a fuggire. Medea lo accompagna nella fuga con la promessa del matrimonio una volta giunti
in Grecia. Inseguiti dal fratello, Giasone e Medea lo uccidono in circostanze drammatiche e
riescono a fuggire.
Anni dopo, sposatasi con Giasone e avuti due figli da lui, Medea viene ripudiata dal marito e si
vendica uccidendo la rivale e i due figli avuti da Giasone.
Medea (Euripide)
Titolo di una tragedia di Euripide, del 431 a.C., appartenente al ciclo degli Argonauti.
Antefatto: Giasone guida la spedizione degli Argonauti per riportare in Grecia, dalla Colchide, il
vello d’oro. La decisione non era stata presa per spirito di gloria o avventura, ma per necessità. Iolco,
la città di cui il padre Esone era re, è stata usurpata dal fratellastro Pelia; quando Giasone fa ritorno
a Iolco non viene riconosciuto perché vestito in modo strano e con il piede sinistro scalzo. Pelia,
avvisato da un oracolo, comprende di doversi guardare da tale personaggio. Giasone, dopo aver
chiesto udienza a Pelia per reclamare il regno, riceve da Pelia come risposta che il regno sarebbe
stato restituito se il nipote fosse riuscito a riportare in Grecia il vello d’oro, impresa difficilissima.
Giasone quindi parte a bordo della nave Argo per raggiungere la Colchide dove il re Eete, padre di
Medea, custodisce il vello. Quando Giasone arriva, Medea si innamora di lui e, dopo aver sconfitto i
suoi dubbi, prende la decisione di aiutare Giasone nella sua impresa, tradendo però in questo modo
il padre, custode del vello. L’ira di Eete è terribile e Medea, per salvarsi e per amore di Giasone,
abbandona la patria ed fugge con lui. La nave Argo sta per essere raggiunta dal padre Eete e Medea,
pur di fermarlo, non esita ad uccidere il fratello Assirto, che si trova con lei sulla nave, e a gettare in
mare le membra del corpo per costringere il padre ad interrompere l’inseguimento al fine di
raccogliere ad uno a uno i “pezzi” del cadavere del figlio. Gli Argonauti sono così riusciti a tornare a
Iolco; nel frattempo Pelia ha ucciso il padre di Giasone. Questi deve ora vendicare il padre e lo fa
grazie all’intervento di Medea che con uno stratagemma manda a morire Pelia per mano delle figlie
di lui. Giasone e Medea devono così abbandonare Iolco e, come esuli, raggiungono Corinto insieme
ai loro due figli.
Medea, donna straniera e sospetta perché dotata di superiore sapienza, è dunque a Corinto, ma una
nuova minaccia incombe sulla sua vita: Giasone la vuole abbandonare per sposare Glauce, figlia di
Creonte, re di Corinto. Medea, tradita, ingiustamente abbandonata, arrabbiata, disperata, isolata,
medita vendetta. La nutrice, conoscendo profondamente l’animo di Medea, teme che questa possa
compiere qualche tremenda azione. Così, quando giunge un vecchio schiavo, informando la nutrice
che i figli di Medea saranno, per volontà di Creonte, banditi dalla città, la nutrice, sentendo
avvicinarsi la minaccia, raccomanda al vecchio di tener lontano da Medea i suoi figli.
Per consiglio del Coro la nutrice entra nel palazzo per condurne fuori Medea e permetterle di
parlare con persone amiche, le donne del coro, che possano calmare il suo furore. Medea denuncia il
destino di tutte le donne, e soprattutto il suo destino. Privata di parenti, di amici, di patria, giunta al
delitto per l’uomo amato, ora sta per perdere anche lui. Una sola cosa chiede Medea al Coro: il
silenzio sul suo proposito di vendetta. Giunge Creonte che intima a Medea di lasciare quello stesso
giorno la città, coi suoi figli. Medea, fattasi calma e umile, domanda ragioni e supplica, ma il re le
dice di temere la sua presenza, per sua figlia e per Giasone e tanto più la teme quanto meglio essa sa,
perfidamente, farsi mansueta. Ma quando Medea gli chiede ancora un giorno, un giorno solo per
prepararsi a partire, egli finisce col concederglielo, pur con un oscuro e negativo presentimento.
Rimasta sola, Medea invoca ogni sua forza d'animo e di magia per preparare a Glauce e Giasone
“nozze amare”.
Giasone cerca di convincere Medea che le nozze con Glauce potrebbero essere un’opportunità per i
figli e che lei stessa, se non fosse così violenta, potrebbe continuare a vivere a Corinto. Dopo queste
meschine parole, la vendetta di Medea può compiersi: la donna invia a Glauce, attraverso i figli, in
dono un peplo e una ghirlanda d’oro, intrisi di un magico veleno, che farà morire la fanciulla appena
li avrà indossati e chiunque poi la toccherà. Glauce muore così insieme al padre che tenta
disperatamente di salvarla. La vendetta non è però ancora conclusa: Medea deve colpire Giasone in
ciò che ama più profondamente, i figli. La donna, piangendo, bacia i figli, in un andirivieni di
commozione profonda unita al proposito di portare a termine il suo progetto. Medea dunque agisce:
uccide i suoi figli con le proprie mani. Furente arriva Giasone, ma è troppo tardi. Medea si leva con
i corpi dei figli sul carro del Sole, suo progenitore, durissima di fronte allo strazio di Giasone,
ritenuto unica causa della sciagura a cui viene negato anche di dare sepoltura ai figli.
Medicina
È l’insieme delle conoscenze teoriche e delle tecniche che consentono il trattamento e, nei limiti del
possibile, la cura delle malattie. Perché i medici, che in Grecia erano una categoria professionale di
cui vedremo tra poco i caratteri, possano operare è indispensabile identificare che cosa sia la malattia
ed elaborarne la nozione, cosa non facile perché malattia come evento naturale e punizione divina
sono nozioni difficili da distinguere nell’universo tradizionale della cultura del mito.
Tuttavia già in età omerica, e poi per tutto il corso dell’età arcaica, i medici erano nettamente
distinti in due diverse tipologie:
- c’era la medicina legata ai templi, che curava per lo più con pratiche rituali, sia che la malattia
avesse una origine naturale, sia che ne avesse una riconosciuta come divina (fermo restando che gli
dèi greci non sono soprannaturali, ma parte della natura stessa in cui vive l’uomo); c’erano molti tipi
di cure, tra cui celebre era l’incubazione (→);
- c’erano poi i medici laici, figure che con passare dei secoli acquisirono una professionalità sempre
più precisa e rispettata, che operavano con farmaci ed eseguivano interventi di vario tipo sul corpo
del malato.
C’era poi una terza categoria non esattamente di medici, ma di guaritori: seguivano antichissime
tradizioni popolari, in parte magiche, e si muovevano di polis in polis col loro bagaglio di saperi al
confine tra religione e magia.
Intorno al V secolo a.C., in perfetto parallelismo con quanto stava accadendo in diverse altre
discipline scientifiche (ad esempio la matematica: →), la medicina subì una radicale svolta nel
mondo dei medici laici, fermo restando che la medicina dei templi proseguì il suo corso (e così le
pratiche dei guaritori). Accadde che
- i medici si organizzarono in scuole stabili e si diedero un metodo per la ricerca, che si basava sia
sulla raccolta sistematica dei dati d’esperienza (con il conseguente studio dei casi e la ricerca
dell’identificazione delle singole malattie), sia su procedure razionali per l’interpretazione dei dati:
celebre in questo contesto è la Scuola di Cos (→), il cui medico più celebre fu Ippocrate;
- nel contesto della definizione di un metodo razionale l’attività del medico venne precisata come
mirante a tre obiettivi riguardo alla malattia e al malato: l’anamnesi, la diagnosi e la prognosi (cioè
lo studio del quadro generale dell’ammalato e del suo passato sanitario, l’identificazione della sua
malattia e la previsione del suo decorso), per poter orientare la cura.
Va ricordato che sia nel contesto delle scuole mediche (alcuni filosofi del V secolo a.C. furono anche
medici o coinvolti in ricerche in campo medico: ad esempio Empedocle e Anassagora) sia in altri
ambiti di ricerca naturalistica si andavano affinando anche le conoscenze sulla fisiologia umana.
Medioevo ellenico
Con questa dizione gli storici dell’antichità si riferiscono all’epoca tra il XII secolo a.C., quando
crollò la civiltà micenea e scomparve la pratica della scrittura nell’Egeo, e l’VIII secolo a.C., quando
la civiltà ellenica ricomparve nelle testimonianze scritte e nell’archeologia in forme notevolmente
diverse, organizzate intorno a strutture urbane di tipo nuovo, le poleis (vedi la voce Polis: →).
Medioplatonismo
All’inizio del XX secolo gli storici della filosofia antica hanno cominciato a usare la dizione
medioplatonismo per indicare la tendenza alla ripresa dello studio dei dialoghi di Platone da parte di
un vasto gruppo di filosofi che hanno operato tra il I e il II secolo a.C. dopo l’età degli ultimi filosofi
accademici (Filone di Larissa, Antioco di Ascalona) e di Cicerone che, nel mondo latino, ne aveva
discusso l’opera. A parte l’autore di un manuale di introduzione alla filosofia di Platone dal titolo
Didaskalikos, per noi ignoto, le figure più rappresentative sono quelle di Numenio di Apamea (→) e
di Plutarco (→).
Il medioplatonismo non ha unità dottrinale, e ciascun filosofo segue una sua strada nella lettura di
Platone. Il termine è stato coniato perché è utile distinguere questi platonici dal successivo
neoplatonismo (→), le cui origini sono per noi oscure perché abbiamo scarsissime notizie della
formazione di Plotino, con cui per noi quest’ultima scuola ha effettivamente inizio.
I medioplatonici hanno comunque alcuni tratti in comune: una concezione sistematica della
filosofia, la ricerca di unità di dottrina nelle opere di Platone, nonché l’interesse preminente per la
teologia.
Meditazione filosofica
Nella vita filosofica effettivamente praticata nel mondo antico la meditazione era una pratica
collettiva o individuale sempre connessa ad una sorta di dialogicità implicita (ne vediamo traccia, ad
esempio, in certi testi di Seneca sulla felicità, sulla vecchiaia o sulla morte): chi medita, lo fa
dialogando con sé o con altri.
La meditazione assume molti volti, a seconda delle scuole, ma ha una caratteristica comune: non è
un percorso di ricerca, ma di applicazione della ricerca (cioè della filosofia come discorso teorico) alla
vita (intendendo la filosofia come pratica di vita: per queste nozioni vedi la voce Filosofia: →). Il
filosofo in meditazione raccoglie tutto il suo spirito (non solo la mente e non solo le facoltà
intellettive) in un tempo dedicato, in luoghi opportuni, in situazioni adatte, sicché tutta la persona
ne risulta coinvolta.
In questo raccoglimento - che assume i toni della sospensione del flusso normale della vita
quotidiana, con il suo carico di esigenze, tensioni, problemi - il filosofo rivede la propria vita
applicando a questa sua riflessione i princìpi della scuola filosofica a cui appartiene. La meditazione
è quindi caratterizzata da
- profondo raccoglimento interiore, sia che la si pratichi in solitudine che in una comunità di vita
filosofica;
- acquisizione di una dimensione interiore di distacco dall’urgere della vita e dalle sue esigenze, e
dunque implica una certa esperienza del tempo diversa da quella abituale;
- coinvolgimento di tutta la persona e di tutte le sue facoltà (la meditazione ha quindi una dimensione
fisica, una emotiva, una intellettuale);
- acquisizione di un ritmo della vita interiore che consenta l’equilibrio delle proprie facoltà.
Che cosa fa in concreto il filosofo in meditazione? A seconda delle varie scuole la risposta è diversa,
ma il tratto comune è quello che prima abbiamo indicato: riflette con grande concentrazione sulla
propria vita o su aspetti dell’esperienza individuale o collettiva, in rapporto al senso complessivo del
tutto di cui l’uomo è parte, secondo l’interpretazione che di questo rapporto danno i principi della
scuola.
Quel tratto specifico della filosofia che consiste nel legare l’esperienza particolare alla natura
universale, trova nella meditazione una delle sue applicazioni pratiche più tipiche, come mostra
anche il sentire comune, che spesso rappresenta il filosofo, appunto, in meditazione.
Meditazione filosofica [Genere letterario della]
Come genere letterario a se stante, la meditazione filosofica offre pochi esempi nell’antichità, non
perché la meditazione non sia diffusa, nella pratica di vita come nella scrittura filosofica, ma perché
è espressa all’interno di vari generi letterari piuttosto che in uno specifico: ad esempio la nozione di
meditazione può essere applicata a un non piccolo numero di testi, o parti di testi antichi, dal
Fedone di Platone a vari scritti degli Stoici e dei neoplatonici, nei più diversi generi letterari.
Tuttavia vi sono testi in cui la meditazione assume una veste letteraria propria, come nei celebri
Ricordi di Marco Aurelio. Lo scritto in realtà ha per titolo A se stesso, e ben a ragione, perché i molti
brevi testi di cui si compone sono singole meditazioni condotte con un metodo rigoroso. Infatti in
testi di questo tipo il filosofo
- riflette, concentrandosi nella propria interiorità, sugli eventi quotidiani di cui è stato testimone, o
protagonista, o osservatore;
- richiama alla mente i principi della scuola (nel caso di Marco Aurelio è lo Stoicismo) che possono
essere applicati al caso su cui sta meditando;
- lega le proprie esperienze e i principi della scuola mediante una trama di riflessioni su di sé, che
utilizzano anche le potenzialità del linguaggio per immagini, in particolare le similitudini e le
metafore.
Per un quadro generale dei generi letterari in filosofia nell’antichità si veda la voce Generi letterari
della filosofia antica (→).
Megara
Era una antica e importante polis greca, che sorgeva in posizione chiave per le comunicazioni
all’interno della Grecia e tra i mari che la circondavano. Aveva porti che si aprivano sia sul Golfo di
Corinto che sul versante dell’Attica. L’origine della città è dorica e un tratto caratteristico della sua
storia tra l’VIII e il VI secolo a.C. è il fatto che da qui partirono coloni che fondarono poleis sia verso
Oriente che verso Occidente.
Ebbe una storia piuttosto travagliata, anche per la sua posizione al centro delle vie di terra e delle
rotte di mare, e subì più volte distruzioni radicali sicché dell’antico splendore restano oggi tracce
molto scarse.
Ha un’importanza particolare per la storia della filosofia e per la storia della cultura greca in genere
perché qui fiorirono diverse scuole e varie tendenze artistiche, che così sintetizziamo:
- per il V secolo a.C. si parla di farsa megarese per indicare una tradizione di teatro popolare
precedente alla commedia attica (di cui non si sa bene se fu uno dei modelli, poi modificato) che
consisteva in giochi d’improvvisazione legati a maschere dai tipi fissi, sulla base di una comicità
nettamente popolare e burlesca;
- a Megara fiorì poi una scuola storica, la cui produzione ci è pervenuta per frammenti, con caratteri
nettamente antiateniesi (la città aveva difficili rapporti con Atene e al tempo della Guerra del
Peloponneso parteggiò per Sparta);
- a Magara fiorì poi una scuola filosofica (vedi Scuola Megarica: →) fondata da Euclide di Megara,
amico e allievo di Socrate.
Megarici
Sono detti Megarici i membri della Scuola megarica, una delle scuole socratiche (→) che si
formarono dopo la morte del maestro avvenuta nel 399 a.C.
Venne fondata da Euclide di Megara, un allievo di Socrate che Platone nel Fedone dice essere stato
presente al momento della morte del maestro, quindi appartenente alla cerchia più stretta dei suoi
amici.
Il tratto caratteristico dei Megarici, che fiorirono per tutto il IV secolo, è la commistione fra la
tradizione socratica e quella della Scuola di Elea, in particolare di Zenone e del suo metodo di
confutazione.
Le figure più importanti della scuola sono Eubulide di Mileto, Stilpone di Megara (→) e Diodoro
Crono.
Memoria
Nella mitologia greca Mneme, o Mnemosyne, è la dea che incarna la memoria. Appartiene al gruppo
delle dee più antiche, in quanto figlia di Urano e di Gea (si veda la voce Teogonia: →). Madre delle
nove Muse, nate in seguito a nove notti d’amore con Zeus, attraverso le sue figlie la memoria degli
eventi primordiali giunge sino agli uomini attraverso i canti, sicché Mnemosyne è legata alle
esperienze originarie della vita del cosmo.
Associata alla dea della memoria è però anche Lethe (→), l’oblio, alla cui voce rimandiamo per il
legame tra Mnemosyne e il mondo degli Inferi.
In filosofia il tema assume un rilievo importante nelle ricerche sulla fisiologia animale e sulla
conoscenza umana di Aristotele, che la studia soprattutto nel breve trattato Su memoria e
reminiscenza, distinguendo:
- la memoria come capacità di trattenere nella mente le rappresentazioni, studiata nel contesto della
facoltà sensitiva e quindi legata al corpo (questo spiega perché anche gli animali hanno una
memoria);
- la reminiscenza, come capacità di richiamare, a partire da una rappresentazione presente, una
rappresentazione precedente, che implica un processo di tipo razionale ed è quindi tipicamente
umana.
Ad una base esclusivamente fisica della memoria pensano le scuole ellenistiche (soprattutto Epicurei
e Stoici), mentre ad una base esclusivamente spirituale pensa Plotino, che la lega alla psyche e non al
corpo.
In sintesi, i problemi che la filosofia antica ha affrontato sulla memoria sono i seguenti:
- l’identificazione delle diverse tipologie di memoria e lo studio fisiologico e psicologico della loro
formazione e del meccanismo che le governa;
- l’identificazione della natura stessa della memoria, con un rimando alle basi fisiche o psichiche
dell’uomo.
Menadi
Figure mitologiche associate a Dioniso, sono coi Satiri (→) le protagoniste dei riti dionisiaci. Sono
rappresentate come donne invasate nell’estasi dionisiaca, che si abbandonano a danze scomposte al
ritmo di musiche orgiastiche (gli strumenti musicali delle Menadi sono per lo più il flauto e il
tamburello).
In quanto espressione della natura selvaggia, sono associate alle belve, che esse soggiogano: sono
quindi raffigurate in forme femminile coperte da leggeri veli in posizione di danza orgiastica, o
trasportate da pantere da loro soggiogate o con lupacchiotti che esse abbracciano.
Col nome di Menadi si chiamavano anche le donne che partecipavano ai riti dionisiaci (→).
Mente
Vedi Nous
Mentitore (Paradosso del)
È uno degli argomenti contro la possibilità della mente umana di costruire un discorso
razionalmente rigoroso. Si prenda l’affermazione “Io sto mentendo”; si cade in contraddizione sia se
è vera, sia se è falsa: se è vera, chi pronuncia la frase si contraddice perché afferma di stare
mentendo; se è falsa, si contraddice egualmente, perché è falso che sta mentendo, quindi dice la
verità.
Nella filosofia greca questo celebre paradosso ci è stato riportato in molte varianti. Quella originaria
risale alla Scuola di Megara, e più esattamente ad un suo esponente della metà del IV secolo a.C.,
Eubulide di Mileto (→).
Meraviglia
Il legame tra la meraviglia (in greco thaumazein) e lo sviluppo della conoscenza nell’uomo, fino
all’impulso che lo porta alla filosofia, è sottolineato da Aristotele, sulla base di tradizioni precedenti,
anche platoniche.
Il riferimento è a quell’atteggiamento dello spirito umano che porta a non considerare ovvie e
scontate le cose e gli eventi, ma a chiedersi come mai esistono e sono come sono. Meravigliarsi è
quindi l’atteggiamento interiore di chi non si accontenta della superficialità e dell’abitudine, ma
pone domande e vuol capire.
Metafisica
Non usato dai filosofi greci, il termine è però greco e indica i libri di Aristotele da leggersi dopo
quelli della Fisica (la dizione meta ta physica significa letteralmente dopo la fisica). A ordinare in
questo modo gli scritti aristotelici fu Andronico di Rodi nel I secolo a.C. in quella che fu la prima
edizione del corpus aristotelico, per la parte delle opere “essoteriche”, cioè scritte per un uso interno
alla scuola e non destinate alla pubblicazione. Di recente studi filologici hanno portato a pensare che
il termine possa essere più antico, ma si tratta di congetture.
Nell’accezione che adesso diamo al termine, è entrata nell’uso solo a partire dalla diffusione in
Europa delle opere del filosofo arabo Averroè nel Medioevo, che con questo termine (tratto da
Andronico) indicava quella che Aristotele chiamava invece filosofia prima (→): la scienza dell’essere
in quanto essere che, in un ordinamento generale delle scienze, è a fondamento del sapere
scientifico stesso: “Ora, poiché noi ricerchiamo proprio questa scienza, dovremo esaminare di quali cause e
di quali princìpi sia scienza la sapienza. E forse questo diventerà chiaro, se si considereranno le concezioni
che abbiamo del sapiente. Noi riteniamo, in primo luogo, che il sapiente conosca tutte le cose, per quanto ciò è
possibile: non evidentemente che egli abbia scienza di ciascuna cosa singolarmente considerata. Inoltre,
reputiamo sapiente chi è capace di conoscere le cose difficili o non facilmente comprensibili per l’uomo (infatti
la conoscenza sensibile è comune a tutti e, pertanto, è facile e non è affatto sapienza). Ancora, reputiamo
che, in ciascuna scienza, sia più sapiente chi possiede maggiore conoscenza delle cause e chi è più capace di
insegnarle ad altri. Riteniamo anche che, tra le scienze, sia in maggior grado sapienza quella che è scelta per
sé e al puro fine di sapere, rispetto a quella che è scelta in vista dei benefici che da essa derivano. E riteniamo
che sia in maggior grado sapienza la scienza che è gerarchicamente sovraordinata rispetto a quella che è
subordinata: infatti, il sapiente non deve essere comandato ma deve comandare, né egli deve ubbidire ad
altri, ma a lui deve ubbidire chi è meno sapiente” (Aristotele, Metafisica).
Metafora / Metaforizzazione
Tra tutte le figure retoriche, la metafora è con la similitudine la più importante al fine della
esposizione della filosofia nei testi antichi, ed entra da protagonista in luoghi in cui il pensiero è in
formazione, comportandosi come uno strumento del pensare e non solo come strumento di
esposizione del pensiero già formato.
In questo senso si parla
- di metafora per indicare la figura retorica presente in un testo filosofico;
- di processo di metaforizzazione per indicare una particolare forma del pensiero che si esprime, al
termine del suo percorso di formazione, mediante una metafora.
La metafora consiste in una forma particolarmente contratta di elementi d’esperienza o di concetti
(o di catene di questi elementi) in una sola immagine, che assume quindi il ruolo di snodo attraverso
cui il pensiero può passare liberamente da un’esperienza all’altra, o da un concetto all’altro,
associandoli.
Si parla di processo di metaforizzazione perché l’associazione di due elementi a vario grado di
astrazione come sono le esperienze, le immagini e i concetti, consente al pensiero di muoversi per
gradi, istituendo passaggi immediati e, per così dire, semplificati, tra di essi. In questo modo
concetti complessi e molto astratti possono essere raggiunti a partire da esperienze concrete e
quotidiane, e il percorso può essere compiuto anche in senso inverso: questo spiega perché il
linguaggio dei filosofi in meditazione è, almeno in qualche caso, particolarmente ricco di metafore
veicolate attraverso immagini.
Va sottolineato che le metafore e i processi di metaforizzazione sono connessi con la sfera delle
emozioni, che possono essere espresse per questa via dando al pensiero per immagini una specifica
tonalità emotiva.
Metaponto
Colonia achea fondata a partire da città del Peloponneso nel VII secolo a.C. (ma fonti antiche
parlano di coloni greci di diversa provenienza), Metaponto divenne presto una polis molto florida,
soprattutto a causa del suo entroterra agricolo e della sua posizione lungo le rotte battute dai
mercanti. Nelle sue monete i simboli della città erano, coerentemente, la spiga e la dea Demetra
(→).
Posta sul Golfo di Taranto tra le foci di due fiumi, il Bradano e il Basento, sul bordo di una fertile
anche se piccola pianura (era quindi priva di acropoli, e l’area sacra sorgeva a nord-est del tessuto
urbano), la città aveva in età classica una pianta perfettamente ortogonale (gli isolati rilevabili ancora
oggi dai resti archeologici misurano m. 190 x 35) ed era tra le più ricche della Magna Grecia, anche
se non tra le più potenti dal punto di vista militare.
Nel territorio circostante, a forte vocazione agraria, sono state rilevate tracce di una fitta e regolare
rete di canali, nonché di fattorie, tempietti, santuari extraurbani, necropoli, che lasciano pensare ad
una cura secolare del territorio.
La storia della città è legata, da punto di vista militare, soprattutto ai conflitti con le altre città
greche. In età romana era però già fortemente decaduta perdendo, come diverse altre città greche,
l’antico splendore, testimoniato ancora adesso dai templi che sorgono nella sua area.
Ci viene tramandato che Metaponto ospitò Pitagora dopo che questi fu costretto a lasciare Crotone,
e divenne quindi uno dei centri più importanti di diffusione del pitagorismo.
Meteci
Erano così chiamati nelle poleis greche gli stranieri che risiedevano stabilmente, per lo più per lavoro
o per altre ragioni, in città. Erano uomini liberi, ma non godevano di pieni diritti politici nella città
che li ospitava. Nei regimi democratici i meteci, non essendo cittadini, non partecipavano
all’Assemblea e alla vita politica con un ruolo attivo.
Soprattutto ad Atene la figura dei meteci era regolata favorevolmente dalla legge: avevano diritti (e
doveri) intermedi tra quelli dei cittadini e quelli degli stranieri non residenti.
La figura dei meteci era molto importante dal punto di vista economico; le poleis greche,
dall’economia vivace in senso produttivo e mercantile, avevano interesse a far affluire in città
persone con competenze specifiche in molti campi, dall’artigianato al mondo degli affari e del
commercio. Diversi filosofi importanti, ad esempio Aristotele, erano meteci.
Per queste ragioni in decine di città greche la figura dei meteci era ammessa e regolata
favorevolmente dalle norme. A Sparta però non era ammesso agli stranieri di fissarvi stabilmente la
loro residenza.
Metempsicosi
In greco metempsychosis, letteralmente passaggio delle anime (l’anima è psyche). È l’antichissima
credenza religiosa, attestata in Grecia per l’Orfismo (→), presente in ambito filosofico dai
Pitagorici, da Empedocle e da Platone nei suoi miti, sulla vita dell’anima dell’uomo prima della
nascita e dopo la morte, cui segue una nuova reincarnazione in una nuova vita (non necessariamente
umana).
Metis
Dea antica, dei primordi, è la prima sposa di Zeus. Il suo nome indica l’intelligenza astuta, la
prudenza, ma anche (se inteso in senso negativo) la macchinazione e il disegno di chi agisce
nell’ombra con mosse ben calibrate.
Gea e Urano (vedi la voce Teogonia) rivelarono a Zeus che Metis gli avrebbe dato una figlia, e dopo
un figlio, e quest’ultimo lo avrebbe spodestato. Per impedire che questo accadesse, Zeus inghiottì
Metis, tenendola così dentro di sé per averne i consigli. In Zeus quindi la forza si unisce
all’intelligenza astuta.
Metodo
Traduciamo con metodo il termine greco methodos, che in filosofia indica le tecniche con cui si fa
filosofia, cioè si pongono i problemi e si studiano le strategie di ricerca per giungere ad una
soluzione. In questo senso caratterizza la filosofia come sapere di tipo specialistico, in quanto
utilizza metodi che le sono propri e la distinguono dalle altre discipline: ad esempio Platone e
Aristotele contrappongono in modo radicale le loro tecniche di ricerca (che sono più d’una e non
sovrapponibili per i due filosofi) a quelle di scuole che non considerano appartenenti al mondo della
filosofia, come quella di Isocrate (→), finalizzata alla formazione dei politici e del personale
giuridico e basata sull’uso di metodi retorici. E Platone può contrapporre il rigore dei metodi
dialettici all’eristica sofista, escludendo anche per il metodo utilizzato la sofistica dall’ambito di ciò
che va chiamato autenticamente filosofia.
Abbiamo scarse informazioni sui metodi della ricerca filosofica prima della scuola di Elea e dell’età
dei sofisti, per la scarsità dei frammenti pervenutici. Ma già nel Poema sulla natura di Parmenide,
che dal punto di vista espositivo è una rivelazione, è evidente l’interesse per il rigore
dell’argomentazione razionale, che implica un ordine mentale e quindi un metodo. In Zenone
questo metodo assume la veste di una tecnica di confutazione, da cui prende le mosse la storia della
pratica più celebre e specifica della filosofia antica, la dialettica (→), alla cui voce rimandiamo (non
prima però di avere ricordato che non si tratta di un solo metodo, ma di una sorta di famiglia di
metodi).
Aristotele dedica molta attenzione ai metodi di ricerca della filosofia, differenziandoli a seconda
della possibilità di fondarli su conoscenze certe (come è il caso della metafisica e della matematica) o
solo su opinioni ben fondate (come è il caso di discipline come l’etica). E l’Organon stesso, in quanto
studia le forme del pensiero e del linguaggio, implica la definizione delle regole di metodi rigorosi
per condurre con ordine la propria ragione.
Al metodo di ricerca filosofica le scuole ellenistiche, scetticismo compreso, dedicano indagini
specifiche: dal metodo delle spiegazioni multiple (→) di Epicuro alla logica stoica, dal silenzio di
Pirrone al rigore della procedura di analisi della coscienza di Plotino, la filosofia antica ha offerto un
vastissimo campionario di metodi di indagine filosofica.
Va poi ricordato che le scuole ellenistiche hanno anche studiato metodi, per così dire, didattici per
chi desidera accostarsi alla filosofia per viverla, non per fare ricerca specialistica. Gli esercizi spirituali
(→) della tradizione antica appartengono a quest’area di lavoro filosofico.
Mezzo / Fine
La nozione di fine – in greco telos – ha nella filosofia greca, soprattutto con Aristotele, due valenze:
- una è riferita all’uomo (e in parte anche al mondo animale): è lo scopo di una azione, e quindi è la
ragione che conferisce senso;
- una è riferita a oggetto prodotti dall’uomo, e alla natura stessa: il fine spiega le ragioni per cui
ciascun ente è fatto com’è fatto.
Nella sua dottrina delle quattro cause (→) Aristotele ne conclude che il fine è una causa (causa,
appunto, finale), perché è necessario capire qual è il fine di un’azione, di un ente e della natura stessa
per comprendere le ragioni per cui esistono nel modo in cui esistono e non in un altro.
Questa visione finalistica (vedi la voce Finalismo: →) della natura è tipicamente aristotelica e, in un
senso diverso, stoica; è stata respinta da altre scuole, in particolare dalle scuole materialiste.
Questo per quanto riguarda gli aspetti relativi all’essere delle cose e delle azioni. Il tema del rapporto
mezzo-fine è stato però visto dai filosofi greci anche sotto altri punti di vista:
- dal punto di vista delle tecniche e quindi della nozione di arete, la virtù intesa nel senso tradizionale
di capacità specifica, l’accento non è posto sui fini, ma sulla padronanza dei mezzi: l’artigiano e l’uomo
che vale, ciascuno con la propria arete, sono in grado di raggiungere i propri obiettivi (comunque e
per qualsiasi motivo posti) scegliendo i mezzi adeguati e padroneggiandoli;
- dal punto di vista etico, il rapporto tra i mezzi e i fini è decisivo, perché non è assolutamente
sufficiente porre il fine (ad esempio la felicità o la libertà, fini su cui i filosofi greci in generale
concordano pur attribuendo loro significati non sempre sovrapponibili), ma è indispensabile
organizzare la propria vita in modo da disporre di mezzi adeguati per raggiungere i fini (ad esempio
gli esercizi, spirituali e non, per i Cinici e gli Stoici, il calcolo degli utili per gli Epicurei, e così via).
Mimesi
Vedi Imitazione
Misteri [Religioni dei]
La religione dei Greci – così come ci viene presentata dai grandi poeti, soprattutto Omero ed
Esiodo che per primi ordinarono gli antichi miti in una forma teologica elaborata e raffinata – è
strettamente legata alla città ed alla vita in comunità. Non è una religione privata, non nasce da un
impulso del cuore. Il culto è essenzialmente pubblico.
Accanto a questa sorta di “religione di Stato” (l’espressione è moderna) sono esistite varie altre
forme religiose, senza che questo fosse sentito particolarmente come una contraddizione: il
politeismo ammette senza problemi una molteplicità di culti. Accanto agli dèi del pantheon
tradizionale – dèi universali, cosmici, che i Greci riconoscevano venerati anche da altri popoli,
sebbene con altri nomi – esisteva una miriade di culti locali, legati a forze divine o semi-divine, la
cui sfera d’azione era limitata a particolari zone: ad esempio, dove si veneravano antiche tombe di
eroi nasceva un culto in onore di questi uomini, considerati come semidèi, dispensatori di fortuna o
di sventure; oppure ciascuna città poteva venerare singole divinità, protettrici del luogo.
Una forma diversa di culto era poi riservata a divinità particolari, come Dioniso, che chiedevano un
rapporto personale e privato tra il fedele e il dio.
Affine a questo tipo di culto, ma con caratteristiche particolari, erano le cosiddette religioni dei
misteri (mysteria). A fianco degli esercizi propri della religione ufficiale, in determinate località si
svolgevano riti privati, a cui partecipavano gruppi di fedeli che erano stati iniziati a verità particolari:
una forma di culto non pubblica, quindi, non rivolta a tutti i cittadini, ma solo a coloro che
aderivano ad essa, ispirati dalle rivelazioni particolari della divinità.
Uno di questi culti era però non privato, ma pubblico e panellenico. Si svolgeva di notte – alla luce
della Luna e delle fiaccole, in una atmosfera di forte suggestione, a giudicare dalle narrazioni
tramandateci – presso il tempio di Eleusi, nelle vicinanze di Atene: sono i cosiddetti misteri eleusini
(vedi la voce Eleusi: →), dei quali sappiamo poco anche perché chi vi partecipava era vincolato al
segreto sulle verità rivelate dalla divinità. Nel corso di queste cerimonie notturne il fedele entrava in
diretto rapporto col dio, ne sentiva in sé la presenza.
È chiaro che la religione ufficiale, che pure rispondeva alle aspettative politiche della città, non
poteva soddisfare del tutto le esigenze religiose e spirituali dei cittadini, perché non consentiva la
piena espressione di quel sentimento religioso che in ogni tempo è connesso con la fede. I culti
misterici, privati o pubblici – non universali certo, ma adatti a particolari esigenze di gruppi di
persone –, consentivano una diversa partecipazione al mondo divino, che i Greci sentivano presente
ovunque intorno a sé, nella natura.
Alcune sette non erano in contrasto con gli ordinamenti pubblici e convivevano apertamente con la
religione ufficiale della pólis. Altre, invece, si opponevano allo stile di vita della città e tendevano a
isolarsi, formando comunità molto chiuse.
Per la filosofia, particolare importanza riveste la setta che si richiama al nome di Orfeo (→), il
mitico cantore, ritenuto autore di testi sacri che si tramandavano di generazione in generazione, cui
si attribuiva anche una discesa agli Inferi.
Misteri Eleusini
Vedi Eleusi
Mito
I miti (in greco mythos, termine che in origine significava tanto discorso quanto progetto, nel senso
di macchinazione, per poi precisarsi nel senso di racconto sugli dèi e gli eroi) sono narrazioni,
presenti in un numero straordinariamente grande di culture su tutti i continenti (quindi in pressoché
totale mancanza di contatti per millenni, per alcune aree). Gli oggetti di queste narrazioni sono, in
estrema sintesi:
- le origini dell’universo (miti cosmogonici), che riguardano quindi non solo la Terra, ma anche gli
astri, in un contesto che è divino in pressoché tutte le culture;
- le forze della natura e il mondo divino che è ad esse connesso;
- la nascita, l’identità e le prerogative degli dèi (il mondo del mito è quasi in ogni caso politeista);
- la vita degli eroi, che spesso sono concepiti vivere in un contesto di stretti rapporti tra l’umano e il
divino;
- determinati ambienti della natura supposti popolati da forze superiori all’umano (il mare, le fonti, i
fiumi, gli antri, e così via);
- le fondazioni delle città.
Per ogni cosa da spiegare, il mito ricorre ad un racconto.
Miti filosofici
Questa dizione appare in sé intimamente contraddittoria, perché la filosofia si è proposta sulla scena
della cultura greca in antitesi al mito, indiuca una diversa direzione di ricerca e di fonte della verità:
non gli antichi racconti dei poeti, ma l’esperienza e la ragione umana.
Tuttavia i poeti greci utilizzavano anche il racconto – nelle molte varianti del mito che consentivano
anche adattamenti a problematiche nuove - come veicolo di riflessioni e di indagini sull’uomo e sulla
sua cultura, ad esempio anche sui più scottanti temi del diritto, della morale e, in particolare,
sull’attualità politica. Ad esempio i grandi tragici greci del V secolo a.C. hanno trattato – da poeti, e
non da filosofi – una tale massa di problemi di rilievo filosofico che un certo numero di figure da
loro portate sulla scena (ad esempio due tra le più celebri: Edipo e Antigone: →) sono state al
centro di dibattiti filosofici in varie epoche, compresi gli ultimi due secoli.
Non è dunque accaduto che, comparsa la filosofia, la poesia abbia esaurito il suo ruolo nell’ambito
della riflessione etica, giuridica, politica, e più in generale abbia abbandonato la pratica della
riflessione sui problemi di senso e di valore. Così per i filosofi il mito si è rivelato, se non una fonte
di conoscenza, almeno
- una fonte di riflessione capace di porre con forza questioni di grande rilievo filosofico, anche se
non di risolverle;
- un mezzo per esporre questi problemi, ma anche per tentare vie di indagine che sfruttassero le
potenzialità del pensiero per immagini (→).
Già nei sofisti quest’uso del mito è ben delineato: Gorgia usa ad esempio la figura mitologica di
Elena per una riflessione filosofica, condotta con uno stile letterario particolare e raffinato (come
sempre nei sofisti), sul ruolo della parola e del discorso, nonché implicitamente su concetti etici e
giuridici quali la responsabilità individuale per le proprie scelte; e Protagora nel Protagora platonico
utilizza un mito per esporre una sua argomentazione a favore della tesi che la virtù sia insegnabile.
Questi richiami al mito, o nuove elaborazione di antichi miti, non contrastano affatto col carattere
razionale della filosofia, perché sono uno strumento di comunicazione efficace, non una fonte di
conoscenza. E si comunica in molti modi, a seconda delle finalità che si vuole raggiungere.
Nei suoi dialoghi Platone ha fatto un uso molto ampio, e di rilievo filosofico centrale, di miti
filosofici che hanno caratteristiche diverse da quelle cui abbiamo prima fatto cenno per i Sofisti:
- pur richiamando a volte singoli elementi o figure della tradizione, sono miti (stando allo stato
attuale delle nostre conoscenze) di libera invenzione platonica; il loro autore sfrutta pienamente
quella libertà che i poeti avevano di rielaborare il mito, ma essendo per lui qualcosa di molto diverso
da una fonte di conoscenza, estende questa libertà fino a fare dei miti pure creazioni letterarie
autonome da ogni tradizione (benché connesse con questa o quella tradizione, spesso per noi
perduta);
- nei miti platonici non vengono esposte argomentazioni o teorie compiute e definitive, cioè
proposte al termine e come esito di un percorso di ricerca, ma vengono visualizzati percorsi dialettici
di ricerca: il mito platonico non sta a sé, ma è parte di una complessa trama di dialogo (la dialettica
come metodo di ricerca filosofica). Serve per fare ricerca, non per esporre una teoria già elaborata.
Modello
Il termine greco è paradeigma, da cui l’italiano paradigma (in latino exemplar). Anche archetipos, da
cui l’italiano archetipo, è utilizzato nel senso di modello, soprattutto in Plotino.
In greco paradeigma rimanda alla radice deik-, legata all’atto del mostrare, mentre la preposizione
para indica un’origine: il modello è quindi ciò che si mostra rispetto a un’origine.
Il termine è tipicamente platonico e viene utilizzato in vari suoi dialoghi per indicare le idee eterne
in quanto sono il modello rispetto ai quali intendere le cose sensibili. Nel mito cosmogonico
descritto nel Timeo è il Demiurgo a plasmare la materia informe prendendo come modelli proprio le
idee, fino a dar forma all’universo fisico che conosciamo.
La stessa nozione, ma con un articolazione diversa, torna in Plotino, che raddoppia a volte il
termine paradeigna con archrtypos, ad esempio quando scrive “L’intelletto è l’archetipo e il paradigma
di questo mondo” (Enneadi, III, 2)
La nozione filosofica di modello rimanda quindi ad una differenza radicale sul piano dell’essere tra
la realtà delle essenze perfette ed eterne – in quanto sono idee, si usa l’espressione essenze ideali – e la
realtà effettuale e sensibile dell’universo fisico soggetto al tempo.
Trasferendo questo schema al rapporto tra la sfera ideale della teoria (ideale in quanto composta da
idee della mente che rimandano a quelle eterne) e la possibilità pratica di realizzarla, Platone usa il
termine modello (paradeigma) anche per indicare la teorizzazione dello Stato ideale nella Repubblica.
L’uso del termine stabilisce implicitamente un parallelo col rapporto tra idee e cose: come le cose
sensibili sono realizzazioni imperfette del modello ideale perfetto delle idee corrispondenti, allo
stesso modo gli Stati storicamente esistenti possono al massimo avvicinarsi al modello dello Stato
ideale (e a questo obiettivo concretamente Platone lavorò, soprattutto a Siracusa).
Moira
È il destino (→), il fato impersonale e imperscrutabile, superiore persino agli dèi. Il fatto che questa
figura sia impersonale, dice che nella mitologia greca c’è un fondo oscuro e misterioso che va molto
oltre la luminosità degli dèi olimpii: va alle radici stesse dell’esistere, che è regolato da un destino
iscritto nella vita di ogni vivente. Così se è giunta la sua ora, neppure gli dèi possono venire in auto
di un eroe in pericolo di morte sul campo di battaglia. Ma chi decide che di un vivente è venuta la
sua ora? La risposta della religione e del mito in Grecia è impersonale.
La raffigurazione della Moira spesso è al plurale: alle origini ciascun vivente ha la sua Moira, cioè la
sua parte di vita, di felicità, di dolori, e così via. A mano a mano che dagli strati più arcaici dell’epos
ci si avvia verso l’età classica, le narrazioni sulla Moira si precisano: la raffigurazione si fa concreta
mostrando tre dee (le sorelle Atropo, Cloto e Lachesi), che sono padrone del filo della vita di
ciascuno. La prima fila, la seconda avvolge, la terza taglia quando è giunta l’ora della morte.
Monarchia
Dal greco monos (uno solo) e arche (governo), la monarchia è la forma di organizzazione politica che
vede il potere concentrarsi nelle mani di un uomo solo, al vertice di una piramide di poteri
variamente organizzata.
Nel mondo greco la monarchia è esistita, ma solo nel periodo miceneo. Nell’età arcaica e classica
nessuna delle poleis greche aveva un regime politico di questo tipo, ma la monarchia era ben nota ai
Greci perché le grandi realtà politiche dell’Oriente (in Egitto come in Asia) erano invece rette con
regimi politici monarchici in qualche caso da tempi antichissimi (i Faraoni erano al vertice della
piramide politica egiziana dall’inizio del III millennio).
Erano monarchie anche realtà politiche più piccole, come la Macedonia, fino alla metà del IV
secolo a.C.
Nella cultura politica greca la monarchia, implicando un ridimensionamento della libertà dei
cittadini e la ridefinizione del loro ruolo, non venne mai accettata; venne però subita, con periodiche
ribellioni, a partire dalla metà del IV secolo a.C. quando il re di Macedonia, Filippo, riuscì a
sottomettere le città greche.
Aristotele, che era legato alla corte di Macedonia, nella sua classica tripartizione dei regimi politici
(vedi la voce Costituzione: →) considera la monarchia come il governo di uno solo, ma ne dà una
valutazione sostanzialmente positiva, anche se inadatta a reggere le poleis greche, abituate ad
autogovernarsi, e ne indica la degenerazione nella tirannia (→), che era invece tipica di diverse
realtà politiche greche della sua epoca, soprattutto nella Magna Grecia.
Monoteismo
Il monoteismo è una religione fondata sulla fede in un unico Dio. In età greco-romana, prima del
Cristianesimo, l’unica religione monoteista nell’area mediterranea era l’Ebraismo.
Nessuna delle filosofie dell’età antica mise capo ad una religione, ma molte filosofie hanno condotto
indagini razionali sulla divinità e sul divino. E un numero notevole di singoli filosofi e di scuole
filosofiche hanno condotto ricerche ed elaborato teorie che portano verso il monoteismo: ad
esempio posizioni monoteiste si riscontrano in Senofane, e con maggiore chiarezza teoretica in
Aristotele, negli Stoici (presso la cui scuola vi sono però anche tendenze al politeismo, sempre di
stampo filosofico più che religioso) e in Plotino. Questi filosofi tuttavia concepiscono in modo
molto diverso gli uni dagli altri la natura di Dio e il suo rapporto col mondo.
Posizioni che possono essere lette in chiave monoteista sono anche in altri filosofi (c’è chi ha letto in
questa chiave, ad esempio, la nozione di Nous di Anassagora o la nozione di Bene in Platone).
Già nel mito esiste una tendenza verso il monoteismo: possono essere ad esempio interpretate in
questo senso le concezioni su Zeus di Esiodo e di Solone. Ma solo come tendenza, nel quadro del
politeismo (→) tipico della mitologia antica.
Mentre le religioni monoteiste sono storicamente caratterizzate dalla fede in una rivelazione
(nozione diversamente intesa dalle varie religioni, e speso dalle varie confessioni) e dalla presenza di
libri sacri, le tendenze monoteiste nella ricerca filosofica hanno comunque sempre mantenuto nel
mondo greco come base l’esperienza e la ragione.
A partire da Filone di Alessandria (→) ha inizio un impetuoso movimento (peraltro molto
contrastato fino a Plotino compreso, vincente dopo) che coniuga religione e filosofia, ma quando
questo avviene siamo già in contesti religiosi che usano categorie filosofie, e non in contesti di
ricerca filosofica pura.
Morale
Vedi Etica
Morte
Per la difficoltà di inquadrarla in un ordine di senso, quello della morte (in greco thanatos) è tra i
problemi filosofici più complessi tra quanti ne abbiano affrontato i filosofi antichi.
I problemi maggiori non riguardano la comprensione della morte nell’ordine della natura: certo, in
presenza di una chiara nozione filosofica di vita (→) quale quella proposta dalle varie scuole
filosofiche greche (in genere alternative l’una all’altra, con pochi tratti comuni) la posizione della
morte nel ciclo della vita ne consegue: la parabola generazione/corruzione (→) è concettualmente
chiara in teorie come quella di Aristotele, o di Epicuro, per alternative che siano. Ma questo di per
sé non ne spiega il senso.
Se vogliamo esplicitare in che cosa consiste questo problema, possiamo articolare in questo modo il
nostro discorso:
- la morte fa problema perché è in sé misteriosa: è letteralmente un’esperienza impossibile, perché
non si può vivere né la propria morte né quella degli altri; che cosa ne sappiamo, in realtà?
- fa inoltre problema perché chiude la vita: ma a morire è l’intera vita, o una sua parte sopravvive? e
in che forma?
- perché i viventi devono morire? non solo l’uomo, certo, ma qualsiasi vivente: la domanda è la
stessa, per diversa che sia la coscienza della morte (che, se riferita alla propria morte, è sempre
coscienza di una possibilità, mai di una realtà) che supponiamo inesistente in una pianta, crescente
negli animali a seconda della complessità della loro percezione di sé e del mondo, alta nell’uomo.
In estrema sintesi: che senso ha vivere se si deve morire? Ma messa in questi termini la domanda
filosofica non è in realtà tanto sulla morte, quanto sulla vita.
Motore immobile
Il motore, cioè l’essere che muove (in greco kinoun, che ha la stessa radice di kinesis, movimento), è
il dio aristotelico “pensiero di pensiero” eternamente identico a se stesso e privo quindi di
trasformazione interna, dunque immobile nella sua perfezione e compiutezza (dunque sia motore
che immobile: in greco kinoun akineton). È atto puro, privo di qualsiasi forma di potenzialità (vedi la
voce Atto / Potenza: →) e questo ne spiega l’immobilità, essendo il movimento in Aristotele il
passaggio da una potenza a un nuovo atto.
Movimento / Mutamento
Il termine greco kinesis, che traduciamo con movimento o cambiamento (e i latini traducevano con
motus) è entrato in uso con un significato tecnico in filosofia sin dai primi filosofi: i problemi
filosofici sollevati sono quelli che abbiamo tracciato parlando del divenire (→), voce a cui quindi
rimandiamo.
A partire dall’età di Anassagora e di Democrito i filosofi si sono posti anche il problema della natura
del movimento, cioè di una definizione che potesse superare le difficoltà messe in luce dalla scuola
degli eleati soprattutto con i celebri paradossi di Zenone, che confutano la possibilità stessa del
movimento e quindi mettono in crisi la visione del mondo offertaci dai nostri sensi. Il problema era
conciliare la permanenza dell’essere con la realtà del cambiamento senza far entrare in nessun modo
in campo il nulla.
Gli atomisti rispondono negando che le particelle che costituiscono la materia – gli atomi – mutino
mai: sono eterni e identici a se stessi. Si muovono, ma rimanendo se stessi, ed è il loro movimento
nello spazio vuoto che determina la nascita e il perire dei corpi. Non c’è dunque nessuna
trasformazione nell’essere costitutivo delle cose (gli atomi), ma solo nella loro aggregazione. Epicuro
introduce tra i vari tipi di movimento degli atomi anche il clinamen (→).
Definizione completamente diversa dà Aristotele che distingue vari tipi di movimento e lo definisce
come “passaggio all’atto (entelecheia) di ciò che è allo stato di potenza (dynamis)” (Fisica, III, 201a).
Aristotele sostiene che tutto ciò che si muove è mosso da qualcosa, principio che era già stato
enunciato da Platone, e questa teoria porta alla necessità di ammettere un primo motore (è Dio
come motore immobile: →) per spiegare l’origine del movimento nella natura.
Esistono però movimenti perfetti e ciclici teorizzati dai filosofi greci e dunque qualitativamente
diversi da quelli che osserviamo nel mondo sublunare: sono i movimenti dei Cieli per Aristotele e
quelli del Tutto per gli Stoici (vedi la voce Grande Anno: →):
Un termine connesso a kinesis (movimento) è metabole che traduciamo con mutamento. È utilizzato
per lo più in contesti biologici, per indicare i processi di generazione e di corruzione dei viventi, ma
è anche riferito agli enti materiali nel loro complesso, e alla natura come loro unità, in perenne
divenire (→). Ha però in generale un significato tecnico meno preciso, per indicare trasformazione.
Muse
Nella mitologia greca sono figlie di Zeus e di Mnemosine, la dea che personifica la memoria (che
attraverso le Muse diviene appunto accessibile agli uomini consentendo un forte salto in avanti della
cultura).
Le Muse erano nove e furono generate in nove notti d’amore. Esistono altre genealogie, e il loro
significato è simbolico: alle Muse è collegato infatti il predominio dell’armonia nell’universo. Il
legame è in particolare con la musica, perché le Muse hanno come loro specificità quella di cantare e
allietare gli dèi, ma presiedono un po’ a tutte le arti e alla sfera della cultura: eloquenza, persuasione,
saggezza, storia, matematica, astronomia, e le singole arti – tutto questo è sotto l’influenza delle
Muse.
Una tradizione le associa all’Elicona e le pone in diretto rapporto con il dio Apollo, che dirige i loro
canti.
Museo
Il termine greco è Mouseion, che significa luogo dedicato alle Muse, e quindi alle arti e alle scienze a
cui ciascuna di esse presiede. In Grecia il modello di questo genere di edifici era dato dal Museo
posto sull’Elicona in cui si conservavano i testi poetici di Esiodo e in cui, come in altre istituzioni
pubbliche greche, si elevavano statue a personalità del mondo delle arti.
Istituzioni di questo tipo, che collegavano la ricerca poetica e le scienze alla religione, esistevano
anche presso le grandi scuole filosofiche del IV secolo a.C. ad Atene, come l’Accademia e il Liceo.
E fu proprio sul modello dell’organizzazione della ricerca del Liceo di Aristotele che i Tolomei (→)
all’inizio del secolo successivo fondatono il più celebre dei Musei dell’antichità, quello di
Alessandria d’Egitto, con annessa la celebre biblioteca (vedi Biblioteca di Alessandia: →).
Nato quindi all’epoca dei Tolomei nel III secolo a.C., il Museo di Alessandria d’Egitto rimase attivo
per secoli, e operava ancora nell’età imperiale romana. Vi lavoravano (stipendiati con fondi pubblici
come oggi accade per le grandi università e coi centri di ricerca) studiosi provenienti da tutto il
mondo ellenistico prima, ed ellenistico-romano dopo. Vi si coltivavano studi di ogni tipo: letterari,
filologici (celebri i grammatici alessandrini), storici, che portarono avanti un lavoro di ordinamento
di tutto il sapere antico. Qui le discipline scientifiche, in particolare la matematica e l’astronomia
(vedi Sistema tolemaico: →), raggiunsero livelli altissimi, insuperati fino alla rivoluzione scientifica
del Seicento europeo.
Musica
È l’arte delle Muse (mousike techne) per eccellenza. Va ricordato che la musica greca era collegata
con altre arti: con la danza in vari generi letterari, con la poesia in quasi tutte le sue forme.
L’esperienza della musica era non solo dell’orecchio, ma di tutto il corpo, per via della danza, e della
mente, perché le immagini musicali si legavano strettamente a quelle poetiche.
A giudicare dai numerosi scritti sulla musica, quella musicale doveva essere un’esperienza molto
forte nella vita delle persone anche comuni, se tra il V e il IV a.C. sorse una discussione prolungatasi
per decenni e molto vivace sulla ammissibilità di questa o quella armonia ai fini educativi del
popolo, e quindi ai fini politici, a causa del ruolo che la paideia greca aveva nella formazione del
cittadino.
Un primo problema che collega la musica alla filosofia è quindi la seguente duplice questione:
- il ruolo della musica (e della danza, e dalla parola poetica) sulla psiche umana, problema studiato a
fondo dai pitagorici, dai Sofisti, poi da molti altri (per esempio da Aristotele con la sua teoria della
catarsi: →); il problema non riguarda solo la comprensione di quale sia questo ruolo, ma anche del
perché determinate musiche abbiano determinati effetti e altre altri (il tema implica per essere
trattato l’elaborazione di una teoria della psiche umana);
- il ruolo della musica nella paideia greca.
A partire dai Pitagorici, la musica venne studiata anche da un punto di vista matematico, alla ricerca
di regole dell’armonia che, attraverso la musica, consentissero di comprendere le leggi armoniche
che regolano il cosmo. La teoria musicale nei Pitagorici e in altri teorici che li hanno seguiti su
questo punto è una via d’accesso al problema della natura nascosta dell’essere della realtà.
Mutamento
Vedi Movimento
Musica celeste
Nella tradizione pitagorica il movimento ordinato dei Cieli che risponde a precise e invariabili leggi
matematiche è una delle prove che mostrano come tutto il Cosmo sia regolato da numeri. Se si
applica questa concezione alla sfera dei suoni, ne derivano teorie musicali a noi non note nei
dettagli, per la scarsità delle informazioni sul pitagorismo delle origini (e in generale sulla musica
greca), ma connesse al principio che le relazioni tra le quantità e il movimento generano suoni
secondo regole matematiche costanti e definibili.
Poiché i Cieli si muovono con movimenti regolari, in ambienti pitagorici si diffuse l’idea – che ebbe
poi un rilievo notevole nel Medioevo – che il loro movimento generasse una musica ineffabile e
perfetta, non udibile dall’orecchio umano per la imperfezione dei nostri sensi.
L’universo sarebbe quindi percorso da una melodia costante, letteralmente intriso di armonie
musicali.
Naiadi
Nella mitologia sono ninfe delle acque: creature mortali, ma molto longeve, sono in genere
concepite come figlie degli dèi associati a un fiume o ad una fonte. In Omero sono però figlie di
Zeus.
Erano legate a poteri di guarigione, sicché i malati di determinate malattie bevevano l’acqua di certe
fonti nel contesto di pratiche di culto e, insieme, di cura. In alcune fonti e in alcuni fiumi era
proibito però bagnarsi, per non incorrere nella collera delle Naiadi, collera che provocava misteriose
malattie.
Alle Naiadi sono collegati moltissimi miti, essendo spesso queste figure – mortali, ma sospese tra
l’umano e il divino – madri di eroi e protagoniste di eventi molto speciali (come è il caso, ad
esempio, della ninfa Aretusa di Siracusa: →).
Natura
Vedi Physis
Natura [Filosofia della]
La filosofia della natura (vedi anche la voce Physis: →) elaborata dai Greci studia la natura da una
vasta complessità di punti di vista, ma tutti coerenti nel ricercare una unità supposta al di sotto di
ogni sua manifestazione:
- alle origini della filosofia la domanda è stata posta sull’arche: (→), problema che è stato poi
affrontato da tutte le scuole successive;
- la domanda si è quindi precisata su quella che noi oggi chiamiamo, con dizione non greca,
struttura della materia (→), anche alla ricerca della identità stessa della materia (→) come tale;
- in tutte le epoche, si è posto il problema del rapporto tra il singolo fenomeno naturale e il Tutto
(→), alla ricerca sia delle leggi che governano la natura nei suoi aspetti più particolari, sia
dell’energia che la plasma.
Necessità
Il termine greco è Ananke, ed è il nome di una divinità. Di per sé il significato originario della
parola, ad esempio in Empedocle, è quello di decreto inesorabile degli dèi.
Nella cultura greca il termine è quindi presente in due distinti ambiti:
- nel mito è la dea, dai tratti non lontani dalla Moira (→), che incarna la forza suprema del cosmo, a
cui tutti devono obbedire, anche gli dèi; in questo senso nelle versioni popolari del mito è legata alla
morte, come destino inevitabile dei viventi, mentre nelle versioni colte del mito (o in quelle legate
alle religioni dei misteri) è divinità cosmica, espressione della imperscrutabile necessità del
movimento del tutto (così anche nei miti platonici);
- in filosofia la nozione di necessità esprime il rigore delle leggi di natura, che non ammettono
eccezioni: in questo senso il termine compare dai frammenti dei primi filosofi naturalisti in poi.
Non tutti i filosofi hanno accettato l’idea che l’universo sia regolato da leggi necessarie e immutabili.
Nell’epicureismo la nozione di necessità compare, ma non in senso assoluto, perché le leggi di
natura sono sì costanti, ma con l’eccezione – di fondamentale importanza nell’economia del tutto –
del clinamen, frutto del caso e non della necessità.
Gli Stoici hanno interpretato la necessità naturale come l’espressione della razionale e perfetta guida
del Logos sulla natura – un Logos razionale che opera dall’interno delle forze naturali regolandole con
leggi immutabili.
Nemesi
Nella mitologia greca la Nemesis è una divinità figlia della Notte, legata al ciclo della guerra di Troia
perché da lei discende Elena.
Quel che più conta però è che la Nemesi è la personificazione della vendetta divina, e soprattutto
della punizione voluta dagli dèi contro chi si macchia di hybris (→): una punizione inesorabile, certa.
Nel suo santuario di Ramnunte in Attica si conservava una statua scolpita da un allievo di Fidia: il
blocco di marmo di Paro utilizzato per la statua era stato portato dai Persiani a Maratona per
innalzarvi un monumento alla loro vittoria. Un tipico gesto di hybris, punito dalla loro sconfitta.
Neopitagorismo
La dizione neopitagorismo si riferisce alla ripresa delle tematiche pitagoriche antiche che avvenne in
ambiente ellenistico a partirte dal II secolo a.C. ad Alessandria e nel secolo successivo a Roma.
Attivo fino al II secolo d.C. e capace di influenzare le correnti filosofiche e religiose dell’età tardo
antica – dalla Scuola teologica di Alessandria (→) alle varie scuole platoniche dei secoli successivi,
fino al neoplatonismo – il neopitagorismo ha caratteri che sovrappongono le tematiche di tipo
matematico a esigenze squisitamente religiose. È dunque un movimento filosofico-religioso che si
basava su due esigenze di fondo:
- spiegare la molteplicità del mondo a partire dall’unità: così l’universo fisico e spirituale era descritto
rispetto alla sua origine dai principi contrapposti dell’Uno e della Diade, teoria che riprendeva
antiche tematiche sia pitagoriche che platoniche (dunque, una interpretazione in chiave aritmetica
del principio dell’essere, che in alcuni autori metteva luogo a una dialettica triadica);
- mostrare come si possa realizzare la purificazione delle anime, nel contesto di una concezione che
vede il male e il bene combattere nel mondo, riprendendo le antiche tematiche pitagoriche (a volte
singoli filosofi sono presentati come reincarnazioni di Pitagora stesso, nel contesto della ripresa della
dottrina della metempsicosi).
Neoplatonismo
Per quanto attiene alla filosofia dell’età tardo-antica, con la dizione neoplatonismo ci si riferisce a due
linee di ricerca che storicamente si incrociano, ma avendo valenze diverse è opportuno tenere
distinte:
- la ricerca filosofica che ha al centro i testi di Platone e di altri autori della tradizione classica ed
ellenistica, soprattutto Aristotele e gli Stoici, ma anche tendenze più recenti, come il
neopitagorismo; l’esponente più importante di questo tipo di ricerca, strettamente filosofica e non
religiosa, è Plotino, che non è il fondatore della scuola, essendo la sua filosofia, per sua
testimonianza, fortemente debitrice rispetto a quella del suo maestro Ammonio Sacca, che fondò
una scuola ad Alessandria alla metà del III secolo a.C, del quale però non consociamo le teorie;
- la ricerca religiosa, a base filosofica, ma con finalità legate alla ripresa del politeismo, per lo più in
chiave anticristiana, svolta anch’essa sui testi platonici e con modalità simili a quelle di Plotino,
fortemente influenzata anche dal neopitagorismo e dalle diverse correnti del misticismo orientale
attive già nei primi secoli dell’Impero Romano.
Tra il III e il VI secolo d.C. le due linee di ricerca si incrociarono, e in parte si sovrapposero, sicché
col passare dei secoli la caratteristica religiosa del neoplatonismo fece sì che religione e filosofia si
sovrapponessero, così come non era stato nel pensiero di Plotino, che è di fatto l’ultimo
rappresentante della tradizione filosofica greca che ha concepito la filosofia con uno status del tutto
indipendente dalla religione. Sulla sua scia nel V secolo Plutarco di Atene fondò la cosiddetta Scuola
di Atene, il cui più importante rappresentante è Proclo, che tentò una sintesi filosofica organica del
pensiero antico sulla linea maestra seguita da Plotino. Questa scuola venne chiusa dall’imperatore
Giustiniano nel 529 nel contesto della lotta contro i residui non cristiani della tradizione greca.
La linea di ricerca filosofico-religiosa ispirata ai principi del neoplatonismo ebbe invece il suo centro
nella Scuola di Siria e nella Scuola di Pergamo, entrambe del IV secolo; quest’ultima è quella presso
cui si formò il futuro imperatore Giuliano, detto l’Apostata, che tentò una ripresa dell’antico
paganesimo in chiave anti-cristiana.
Nereidi
Sono divinità marini, nipoti di Oceano e figlie di Nereo, da cui il nome. Il loro numero varia (50 o
100) ma non la loro identità: sono fanciulle bellissime che vivono in fondo al mare nel palazzo del
padre, sedute su troni d’oro e occupate nelle attività femminili, oppure nei giochi con i tritoni e i
delfini, tra le onde. È stato proposto l’accostamento tra queste figure e le onde, sempre mobili, del
mare, di cui sarebbero la personificazione.
Nei racconti mitologici sono per lo più spettatrici degli eventi marini e hanno una debole identità
individuale, sicché di ben poche di loro si raccontano miti specifici (una delle più celebri tra le
Nereidi è Teti, madre di Achille).
Nereo
Divinità marina dalle origini antichissime (nel mito appartiene alla generazione precedente a
Poseidone), è una delle divinità associate alle forze primigenie della natura, in questo caso quella del
mare. Padre delle Nereidi (→), rappresentato spesso con la barba bianca, a cavallo di un tritone, è
divinità in genere benevola, caratterizzata dal fatto che può assumere qualsiasi aspetto. È questo un
carattere piuttosto comune delle divinità marine, ma in Nereo è particolarmente accentuato, come si
vede in un racconto mitologico che lo accosta a Eracle (→): l’eroe tenta di costringerlo a rivelargli
come raggiungere le Esperidi (→) che abitano l’estremo occidente, e Nereo per sottrarsi assume
forme diverse.
Nestore
Nestore è una figura assai singolare nel panorama degli eroi greci perché rappresentato nell’Iliade
molto vecchio. La ragione della sua straordinaria longevità stava nel favore di Apollo, che aveva
voluto così ripagarlo di terribili lutti familiari legati a varie vicende mitologiche, collegate a Eracle.
La sua figura nei poemi omerici è positiva: re di Pilo, ancora forte in battaglia, è un vecchio saggio,
capace di dare consigli vincenti. A lui ci si rivolge per consiglio, ottenendo sempre un concreto aiuto
(gli eroi omerici, tuttavia, sono assai meno saggi di lui e non sempre seguono i suoi consigli: come si
vede dalla celebre lite con cui ha inizio l’Iliade, tra Agamennone e Achille; Nestore aveva cercato
saggiamente, ma inutilmente, un accordo).
Ninfe
Sono divinità minori, a volte mortali, associate a boschi, o a fiumi, a fonti, o al mare o a determinate
montagne. Presiedono insomma al territorio nei suoi punti importanti. Ad esempio le Naiadi (→)
sono ninfe delle fonti e dei fiumi, le Nereidi (→) sono ninfe che vivono nel mare, e così via.
In Omero sono figlie di Zeus, e sono spesso protagoniste di miti locali, essendo associate a specifici
luoghi. Erano oggetto di preghiere, perché potenti sul loro ambiente, che era lo stesso nei cui pressi
varie comunità umane vivevano. Spesso accompagnano le dee, e ne formano la corte; per lo più sono
associate ad Artemide, la dea della caccia, o a figure femminili molto particolari, come sono in
Omero Calipso (essa stesa una ninfa) e la dea-maga Circe.
Nobili
Vedi Aristoi
Noesi
Vedi Nous
Nomos
Vedi Nomos / Physis
Nomos/Physis
Il problema del rapporto tra il nomos, cioè la legge, e la physis, cioè la natura, ed in particolare la
natura umana, compare per la prima volta con Protagora e diviene poi centrale nella riflessione degli
ultimi sofisti. Ebbe un peso storicamente notevole nel dibattito politico ad Atene nel corso della
guerra del Peloponneso.
I primi Sofisti avevano sostenuto che non vi sono leggi etiche e politiche oggettive riconoscibili
come assolute, e dunque che la legge politica e morale non può essere fondata su ciò che gli antichi
hanno chiamato “la Giustizia di Zeus”, supremo ordinatore del mondo. L’uomo deve darsi da solo
le leggi, ancorando i princìpi di giustizia a valori che siano indipendenti non solo dalla religione, ma
anche dalla tradizione.
Il dibattito ad Atene
Queste tesi suscitarono un vivace dibattito ad Atene, perché la posizione sofista – che affascinava i
giovani – sembrava distruggere quel fondamento di tradizioni su cui riposava l’edificio politico e
culturale della polis. Porre in dubbio che ci sia una giustizia oggettiva significava porre in dubbio il
fondamento di validità delle leggi. Poiché da Protagora in poi i Sofisti non riconoscevano più un
fondamento oggettivo al nomos (cioè un fondamento religioso alle leggi della polis), il
comportamento privato e pubblico andava regolato sulla base della stessa natura umana, che è parte
della physis.
Questo significa che ciascuno poteva considerare se stesso misura di tutte le cose e regolarsi nel
modo più rispondente alla propria natura? Tale prospettiva cominciava ad affascinare molti giovani,
soprattutto alcuni del ceto aristocratico, che mal tolleravano il potere del popolo ed erano desiderosi
di esaltare la forza e il diritto dell’individuo rispetto alla volontà della massa (si pensi alla figura di
Alcibiade: →). La dottrina sofista sembrava fornire loro validi argomenti.
Protagora non si spinse su queste posizione estreme – come farà invece, pochi anni dopo, l’ala
radicale della sofistica – perché pensava che il nomos, cioè le leggi che costituiscono il patrimonio
della cultura di un popolo, andasse comunque salvato, anche se non era più possibile accettare che le
antiche tradizioni avessero un’origine divina. Osserva infatti che distruggendo del tutto la legge cade
la possibilità di ogni forma di convivenza civile ordinata e pacifica, che è condizione indispensabile
per il libero e armonico sviluppo della natura umana. Nel suo pensiero quindi nomos e physis devono
trovare un momento di conciliazione nel rispetto di quei criteri che consentano la vita ordinata della
società.
I termini del dibattito
Questo non significa che le istanze delle nuove generazioni, insofferenti delle limitazioni imposte
dalle antiche tradizioni, debbano essere respinte. Solo, non si deve portare la critica al passato al
punto da distruggere la possibilità della civile convivenza.
“È nota da tempo la grande importanza che i due termini nomos e physis ebbero in gran parte del
dibattito filosofico della seconda metà del V secolo a.C. La parola physis si traduce di solito “natura”.
Era il termine che scienziati ionici presero ad usare per indicare l’insieme della realtà o i suoi più
stabili principi materiali (o elementi costitutivi). Ma entrò presto nell’uso per designare anche la
formazione o l’insieme dei caratteri di una cosa particolare o di un gruppo di cose, specie una
creatura vivente od una persona (come nell’espressione “la natura dell’uomo”). In ogni caso il
termine comportava – almeno implicitamente – un contrasto tra le caratteristiche proprie di una
cosa in quanto tale, da essa posseduta di diritto o spontaneamente, e le caratteristiche acquisite o
imposte. […] Nomos, solitamente tradotto “legge”, oppure “convenzione”, oppure “uso”, a seconda
del valore che sembra adattarsi meglio al contesto, è un termine forse un po’ più sottile di quanto
suggeriscano queste traduzioni. Tanto il significato quanto la storia della parola sono stati molto
discussi, spesso senza approdare a conclusioni ben chiare. Ma credo che la questione possa spiegarsi
senza difficoltà. Il termine nomos e tutta la serie dei vocaboli greci connessi sono sempre prescrittivi
e normativi, mai puramente descrittivi; forniscono una sorta di direttiva o di prescrizione che
influisce sul comportamento e sulle azioni di persone e cose. Il termine moderno che corrisponde
più da vicino a nomos è “norma”: fissare o promulgare nomus vuole dire fissare norme di
comportamento. Così nomos come “legge” è una norma prescritta per legge, nomos come
“convenzione” è una norma prescritta per convenzione; in ogni caso ciò che viene detto o prescritto
è che qualcosa va fatta o non fatta, oppure deve essere o non essere vera, o deve essere accettata
come vera. […]
Lasciare il nomos per ritornare alla physis voleva dire – in uno dei suoi aspetti – negare il nomos,
inteso come norme di comportamento tradizionalmente accettate. Ma lo scopo probabilmente non
era mai (o per lo meno quasi mai) puramente negativo: mirava in realtà ad introdurre un apparato di
norme più soddisfacenti e convincenti al posto di quelle che ormai non erano più del tutto
accettabili. Senza dubbio la vera ragione per cui si attaccavano molte delle norme tradizionali stava
nel processo di mutamento sociale e politico che era in pieno svolgimento in Atene nell’ultimo
periodo del V secolo. Ma il vero attacco era in parte intellettuale e nasceva dall’assunto che le norme
tradizionali, se accettate senza verifica, contengono al loro interno contraddizioni e incongruenze. Si
cercava la loro sostituzione – dove necessaria (ma solo dove necessaria) – con qualcosa che fosse
intellettualmente soddisfacente: in altre parole qualcosa che fosse razionale ed intimamente
coerente, e che insieme tenesse nel dovuto conto la vera natura degli esseri umani” (Kerferd, I
Sofisti, p. 164).
Non contraddizione [Principio di]
Vedi Contraddizione
Non-Essere / Nulla
In greco il non-essere è me on, oppure ouk on, nulla è meden. Il primo problema filosofico è se sia
possibile definire positivamente questi concetti, che di per sé indicano negatività: non dicono di che
cosa si parla, perché non c’è qualcosa di cui si parla, ed è questo che si dice, che non c’è niente. La
loro definizione sembra essere solo negativa: posto il concetto di negazione (→), il nulla e il nonessere sono due modi di dire la stessa cosa, che l’essere di cui si parla viene negato in un qualche
senso del concetto di negazione (in primo luogo ne viene negata l’esistenza).
Sembrerebbe dunque impossibile pensare positivamente il nulla e il non-essere. Parmenide
esplicitamente nega che sia possibile farlo, e quindi coerentemente identifica il pensiero e l’essere.
Nella cultura greca del mito come in quella filosofica in effetti il nulla non viene mai pensato
positivamente. Ad esempio non viene mai proposta la nascita di qualcosa dal nulla o la sua
dissoluzione nel nulla. In Esiodo tutto è generato a partire dal Caos, non dal nulla. E in filosofia
l’idea di creazione non è mai stata proposta dai Greci. Quanto ai corpi e alla vita nella natura, si ha a
che fare con un processo continuo di generazione e di corruzione, mai con un processo di
nullificazione.
Quanto a enti che somigliano al nulla, come lo spazio vuoto che pure viene teorizzato in vari
ambienti filosofici ellenistici, non vi si attribuisce mai il carattere positivo del non-essere: quando
viene affermato, lo spazio vuoto viene concepito come qualcosa, non come nulla, per difficile che sia
dire esattamene che cos’è questo qualcosa.
Parmenide però pone un problema, che risolve negativamente, a cui tutta la filosofia greca
successiva ha posto la più grande attenzione: ha sostenuto che senza una concezione positiva del
nulla (come qualcosa che c’è, ed è il nulla) non è possibile pensare né il movimento né la pluralità
degli esseri. Ora, i sensi ci mettono in comunicazione con un mondo in incessante movimento e
fatto di un altissimo numero di enti: questa immagine del mondo è forse puramente illusoria e la
realtà è invece totalmente diversa?
La necessità di pensare positivamente il nulla, o il non-essere, dipende dal fatto che nessuno degli
enti di cui facciamo esperienza è, in senso assoluto, un tutto. Così, definire qualcosa dicendo
“questo ente è....”, significa implicitamente dire anche che cosa non è. Il non-essere di un ente serve
alla sua definizione. Ma che cos’è il non-essere è una domanda che è possibile porre?
Non-sapere
Dizione comune nei testi filosofici antichi per indicare un sapere che ci si accorge di non possedere.
Essenziale non è tanto il fatto che una certa nozione, o informazione, o altro, non si sa (fatto
comune, data la esiguità del sapere umano), quanto il fatto che si ha coscienza di questo non sapere.
Il tema è stato posto in termini molto chiari da Socrate nell’Apologia platonica là dove ha proposto la
distinzione tra ciò che non si sa, ma non si sa neppure di non sapere, e ciò che si sa di non sapere
(vedi la voce So di non sapere: →)
Nous
In Omero questo termine designa una facoltà umana, cioè la capacità di comprendere le situazioni o
di penetrare con la propria mente le intenzioni di un’altra persona. È uno sguardo, ma non fisico: è
lo sguardo della mente che va oltre il visibile. E già in Omero è associato più alle divinità che
all’uomo, che è divino quando la sua mente ha questo potere.
Nella filosofia Nous è la mente, ma il termine è per lo più associato a realtà superiori e cosmiche,
come in Anassagora (Nous è l’intelligenza che pone ordine nel mondo penetrando tra gli elementi
senza mescolarvisi) e in molti altri autori (Platone associa questo termine alla mente del Demiurgo,
Aristotele a Dio come pensiero di pensiero e motore immobile, Plotino a una delle ipostasi,
l’Intelletto).
Va inoltre ricordato che i filosofi greci hanno usato il termine nous anche per indicare la mente
come insieme delle facoltà di conoscenza dell’uomo. Su questo punto si veda la voce Pensiero (→),
che completa il discorso fin qui svolto.
Notte
Vedi Giorno / Notte
Nulla
Vedi Non essere
Nulla di troppo
È un detto tradizionale, associato al celebre Conosci te stesso!, che esprimeva uno dei tratti tipici della
comune maniera di pensare presso i Greci:
- ricorda che la misura e l’equilibrio sono una regola aurea per non incorrere in guai anche seri;
- ricorda che la natura umana è limitata e che tentare di oltrepassare questi limiti è pericoloso.
Numenio di Apamea
Filosofo greco di origini siriache, vissuto nel II secolo d.C., è uno degli esponenti del cosiddetto
neopitagorismo (→), ma allo stesso tempo è stato uno dei filosofi che, con altri esponenti del
medioplatonismo, hanno scritto commentari su Platone, considerato come depositario di una
sapienza da scoprire e disvelare. È autore di opere come Sulle dottrine segrete di Platone e Sul bene.
Influenzato dalla visione monoteista dell’Ebraismo e del Cristianesimo, sostenne la completa
separazione del principio unitario del Bene rispetto all’universo fisico, che in quanto legato alla
materia considerava irrimediabilmente legato al male. La realtà sensibile, opera di un Demiurgo
come in Platone, comprende anche l’uomo, la cui anima irrazionale non appartiene alla sfera del
Bene e combatte contro un’anima razionale, immortale, che invece vi appartiene. Il principio del
bene e quello del male sono quindi all’opera nell’uomo, la cui anima razionale può ricongiungersi al
Bene soltanto distaccandosi dalla sfera della sensibilità e del male attraverso forme complesse di
meditazione.
Nuvole
La commedia Le Nuvole di Aristofane (→) venne rappresentata nel 423 a.C., nei primi tempi
della Guerra del Peloponneso. Il tema trattato - Socrate e con lui i sofisti messi alla berlina - non
è isolato nella commedia antica: sappiamo infatti che esisteva un genere di esuberante satira
contro i filosofi nella commedia del quinto secolo. Non è naturalmente possibile definire con
esattezza quanto rilevante sia l'immagine socratica che emerge da Le nuvole ai fini della
delineazione della figura storica di Socrate e, soprattutto, della percezione che di lui aveva la gente
di Atene. Tuttavia l'opera di Aristofane illustra bene, pur nella deformazione del teatro comico,
alcuni elementi del dibattito culturale del momento.
Per quanto riguarda la posizione personale di Aristofane, certo questi tende al tradizionalismo ed
attacca la cultura sofista, a cui Socrate è assimilato.
Ecco in sintesi la trama delle Nuvole. Strepsiade, cittadino ateniese oberato da debiti e privo di
cultura elevata, ha un figlio, Filippide, appassionato di cavalli e scialacquatore. Ha sentito parlare dei
sofisti, gente capace di render più forte il discorso più debole, e decide di recarsi da loro per
imparare come fare a non pagare i debiti acquisendo grande abilità dialettica. Recatosi nel
«pensatoio» trova Socrate sospeso per aria dentro una cesta intento a studiare i fenomeni celesti.
Questi accetta di averlo come allievo, ma la «lezione» - tra mille effetti comici - si dimostra troppo
difficile per il povero Strepsiade che preferisce allora mandare il figlio da Socrate. Filippide,
imparata la lezione, riesce a non pagare i creditori, ma poi finisce col picchiare il padre dimostrandogli di aver ragione a farlo - e minaccia anche la madre. La commedia si chiude con
Strepsiade che, furibondo, dà fuoco al «pensatoio».
A proposito della caricatura di Socrate, va notato che il motore fondamentale della caricatura è nella
tendenza costante della commedia a dar corpo - letteralmente - alle metafore, e a tradurre concetti
astratti (o punti astrusi di una linea intellettuale) in forme concrete e addomesticate. Socrate, per
indagare sugli elementi superiori al livello terreno (meteora), diviene lui stesso, letteralmente metéoros
(cioè «sollevato in aria» ).
Oceano
Nei racconti del mito, Oceano è il dio delle acque che circondano le terre emerse sulla superficie
della Terra (vedi Terra →). In Esiodo è uno dei Titani, espressione della potenza fecondatrice
originaria delle acque marine, da cui nel mito vengono generate le divinità dei fiumi e delle sorgenti.
Che le terre emerse fossero circondate dalle acque era concezione comune nel VI secolo a.C. anche
presso i primi filosofi naturalisti, che accettarono il concetto di fondo del mito, ma lo trasferirono
sul piano della ricerca scientifica e della loro visione generale della Terra e del Cosmo. Supponendo
che la superficie della Terra fosse piatta, l’oceano era visto come un fiume che delimitava il limite
estremo delle terre emerse.
Nei cartografi successivi (vedi Cartografia →), una volta affermatasi l’idea della sfericità della Terra,
le masse continentali vennero concepite in modo regolare: erano quattro, due su ciascuno emisfero,
separate tra loro da ampi bracci di mare, l’oceano appunto, incrociantisi ad angolo retto.
Oggettività della colpa
Vedi Colpa
Oligarchia
È il governo dei pochi (oligoi sono i pochi, archo è un verbo è significa io comando – da cui la parola
arconte). Nella tripartizione delle forme di governo della polis proposta da Aristotele l’oligarchia è la
degenerazione dell’aristocrazia (→).
Il tratto negativo che i Greci vedevano nell’oligarchia, e non nell’aristocrazia, dipendeva dal fatto
che l’aristocrazia era giustificata dalla tradizione e dall’effettiva superiorità in termini o morali, o
politici o di potenza degli aristoi (i migliori, cioè i nobili di antica tradizione), mentre l’oligarchia era
il potere di pochi che si impongono contro i loro concittadini con la violenza e contro leggi e
tradizioni: l’esempio tipico è quello dei Trenta Tiranni (→) nell’Atene del 404-403 a.C.
Olimpia / Olimpiadi
Olimpia è un centro religioso greco, panellenico, molto antico, attivo con la sua area sacra già in un
periodo che i dati archeologici consentono di fissare al X-IX secolo. Sorgeva nell’Elide, una delle
sub-regioni storiche del Peloponneso, e vi si tenevano ogni quattro anni i celebri giochi a cui
partecipavano atleti da tutta la Grecia e dalle colonie, in una atmosfera sacrale e pacifica.
Di particolare importanza è che le Olimpiadi servivano ai Greci per indicare i periodi della loro
storia (l’uso divenne stabile in età ellenistica, ma era diffuso già prima). Tuttavia i Greci non
sapevano da quanto tempo si tenevano le Olimpiadi, che si diceva fossero state fondate dal mitico
eroe Pelope e, cadute in disuso, rifondate da Eracle. Si prendeva quindi come data della prima
Olimpiade l’anno che per noi è il 776 a.C, perché risaliva a quella data la prima delle statue offerte
dai vincitori (offrire statue o elevare monumenti pubblici divenne poi una pratica comune).
Olimpo
Il monte Olimpo è un massiccio che sorge tra la Tessaglia e la Macedonia, il più elevato della
Grecia (2918 m). Antichi racconti mitologici collocavano sulle sue cime, spesso coperte di nubi, la
dimora degli dèi ed in particolare di Zeus.
Di fatto però nel corso del tempo il nome Olimpo divenne più generico, per indicare le dimore
celesti delle divinità, non direttamente legate ad una precisa localizzazione geografica.
Omeomerie
Riferendosi ai caratteri qualitativi della materia secondo Anassagora, Aristotele chiama omeomerie
(in greco omoiomere) le singole qualità che costituiscono i corpi. Ciascuna realtà di questo tipo, se
divisa, mantiene le stesse caratteristiche qualitative. Sulla esatta natura delle omeomerie e sul
rapporto tra quelli elementi originari e i corpi sono state proposte diverse interpretazioni, perché
l’esiguità dei testi di Anassagora che ci sono pervenuti ha fatto sì che diversi problemi che emergono
dai testi non trovino diretta soluzione.
Omero
Uno dei tratti più sorprendenti della cultura greca del periodo arcaico è che essa al suo apparire in
forma scritta si presenta con due grandissimi capolavori poetici, l’Iliade e l’Odissea. Il vertice della
poesia epica appare raggiunto sin dall’inizio, senza che ci siano note fasi preparatorie.
È però una sorta di illusione prospettica. Questi poemi sono stati associati al nome di un autore,
Omero, come se fossero stati composti da lui senza precedenti tradizioni. In realtà non sappiamo
come sono andate le cose. Ma è assai poco probabile che i due poemi siano stati composti come oggi
un poeta o uno scrittore compongono le sue opere. È assai più coerente con quanto sappiamo del
mondo della cultura orale immaginare altri scenari.
La stesura delle due opere risale all’VIII-VII secolo a.C. Ma per stesura forse bisogna soltanto
intendere il fatto che uno (o forse due) poeti hanno fissato in maniera stabile e ordinata il corpus
tradizionale dei canti connessi ai temi delle due opere, dando loro una struttura coerente e unitaria.
Il materiale potrebbe essere quello della tradizione, forse antica di centinaia d’anni, conservata
oralmente di generazione in generazione.
Di fatto, il mondo politico e sociale descritto nei poemi omerici è palesemente quello miceneo, o
meglio è quanto del periodo miceneo si era tramandato molte generazioni dopo. Le vicende
dell’Iliade e dell’Odissea rimandano quindi ad un mondo che scomparve intorno al XII secolo a.C.,
mentre la loro stesura nella forma che conosciamo è di circa cinque secoli dopo.
Le differenze di stile e di concezione dell’uomo e degli dèi che gli studiosi hanno osservato tra le
due opere hanno fatto nascere l’ipotesi che l’Iliade sia più antica dell’Odissea, e c’è chi ritiene che i
poeti che hanno raccolto gli antichi canti siano diversi, sotto il nome di Omero.
Non mancano altre ipotesi. È la cosiddetta questione omerica, nata dal fatto che non sappiamo né le
circostanze della composizione, né il metodo, né se Omero sia un personaggio storico o leggendario.
Molte delle poleis greche si contendevano nell’antichità l’onore di avere dato i natali a Omero. E i
Greci delle epoche successive, quando i poemi omerici erano divenuti i testi fondamentali della
cultura ellenica, ne sapevano in realtà ben poco anch’essi.
Le due opere emergevano da un lontano passato, di cui si sapeva ormai pochissimo in epoca storica.
Ma lì i Greci – tutti i Greci, qualsiasi dialetto parlassero – potevano riconoscere le origini e i
fondamenti della loro cultura. La lingua in cui erano scritti i poemi era molto particolare, perché
non era uno dei dialetti greci parlati nelle varie aree nel mondo ellenico, tra le coste dell’Egeo e la
Magna Grecia: era una arcaica lingua letteraria, una lingua comune (sia pure basata su uno dei
dialetti, lo ionico) che tutti capivano.
Omosessualità in Grecia
La sessualità nell'antica Grecia può essere compresa solo come componente di un complesso
costume sociale, che prevedeva - e ammetteva - pratiche, espressioni e indirizzi molteplici e
diversificati: dall'eros omosessuale maschile, meglio definito come pederastia, a quello femminile;
dall'eros eterosessuale all'interno del matrimonio a quello collettivo, ad esempio nei simposi e nei
riti dionisiaci, all'eros tra il signore e le etere. Queste ultime, a differenza delle vere e proprie
prostitute, vivevano spesso nella stessa casa del padrone e della sua legittima consorte, si
occupavano dei piaceri, degli svaghi e dei divertimenti dell'uomo; erano anche suonatrici di flauto
e danzatrici, avevano spesso una cultura superiore alla media e, come le geishe giapponesi,
occupavano una posizione sociale piuttosto elevata, o comunque si muovevano in un ambiente
aristocratico e signorile.
In generale possiamo sostenere che per i Greci le diverse espressioni dell'eros erano in qualche
modo codificate, ma godevano tutto sommato di una certa interscambiabilità, per lo più assente ai
giorni nostri. In tal modo, anziché escludersi a vicenda, potevano spesso convivere l'una con l'altra:
l'eros omosessuale femminile e la pederastia, per esempio, seguivano un percorso pedagogico che
portava al matrimonio, suprema istituzione sociale. Questo conciliare omosessualità ed
eterosessualità matrimoniale in un’unica linea formativa è oggi per noi impensabile.
La pratica educativa comune nelle principali città della Grecia - Atene e Sparta prime fra tutte prevedeva che i fanciulli, ancora piuttosto giovani, venissero separati dalle famiglie (si trattava in
genere di fanciulli appartenenti a famiglie aristocratiche) e posti sotto la guida di maestri più
anziani: questi dovevano impartire loro un'educazione che andava dalla pratica del ginnasio
(qualcosa di simile alla palestra) all'insegnamento letterario, matematico, musicale e artistico; a
Sparta invece si trattava per lo più di un addestramento militare. Le fonti letterarie pervenuteci
mostrano chiaramente come venissero intessute relazioni omosessuali tra il maestro e gli allievi.
Erastes / Eromenos
Laddove queste relazioni vengono istituzionalizzate, quindi ammesse dalla legge, si stabiliscono
limiti morali ed etici ben precisi: "L'amante (erastes) appare come maestro dell'amato (eromenos),
garante delle qualità morali e delle cognizioni che l'amato deve acquisire stando con lui. L'amore
di un adulto per un fanciullo è fondato sulla trasmissione del sapere e della virtù; [...] in questo
quadro, la relazione amorosa è vissuta come uno scambio: la potenza dell'eros che emana
dall'amato colpisce l'amante che ne è stimolato, per sublimazione, sul piano morale. Ricevendo
dall'amato l'impulso amoroso, l'amante realizza il proprio amore trasmettendo le qualità di cui è
portatore [...]. La relazione omosessuale, in tal modo, viene a coincidere con la relazione
pedagogica" (Calame 1983, p. XIV).
Lo stesso valore pedagogico era assegnato anche all'omosessualità femminile: il suo ambito era
quello dei gruppi femminili corali o dei circoli privati (il più celebre dell'antichità è quello della
poetessa Saffo nell'isola di Lesbo). Le giovani, attraverso il canto, la musica e la danza, dovevano
acquistare quelle qualità di grazia e bellezza che la società greca richiedeva alla donna adulta.
Anche quello tra la fanciulla e la sua insegnante corifea (la guida, cioè, del coro) era dunque uno
scambio pedagogico.
Omosessualità e matrimonio
Nel suo complesso la pratica omosessuale era ammessa e istituzionalizzata solo se ricopriva un
periodo limitato della vita del fanciullo o della fanciulla. A questo periodo avrebbe dovuto far
seguito quello del matrimonio e dunque dell'eterosessualità. "Paradossalmente, l'educazione
femminile alla bellezza tramite la relazione omoerotica [cioè omosessuale] ha come scopo la
preparazione al matrimonio e ad una delle due funzioni essenziali agli occhi dei Greci: la
procreazione. L'omosessualità nell'adolescenza si limita dunque ad introdurre, con la sua funzione
pedagogica, all'eterosessualità adulta" (Calame 1983, p. XVI), sia per il maschio che per la
femmina. Infatti "per il popolo greco, il matrimonio era un'istituzione sacra e la procreazione
costituiva uno degli obblighi più importanti nei riguardi della patria. (...) D'altra parte, in una
società che sia ancora abbastanza solida al proprio interno e non sia sul punto di sfaldarsi, le cose
non possono andare in altro modo. L'impulso primordiale all'autoconservazione non può non
opporsi ad una forma dell'eros [quale quella omosessuale] che, diffondendosi su vasta scala,
impedirebbe la procreazione e condurrebbe sia all'estinzione del gruppo che della società". Però "la
presenza di costumi omosessuali e di rapporti amorosi fra uomini giovani e anziani è dimostrabile
solo all'interno dei cosiddetti Stati dorici, ove, del resto, la pederastia era un fenomeno assai
limitato e circoscritto alla sola classe aristocratica" (Kelsen 1933, p. 72-79).
Le leggi e le norme morali che regolavano la pratica omosessuale erano dunque estremamente
rigorose e limitative: così come condannavano una relazione pederastica fondata sul puro piacere e
prolungata nel tempo, allo stesso modo non ammettevano l'unione tra schiavi e uomini liberi, o tra
persone della stessa età, e condannavano severamente la prostituzione, sia femminile che maschile.
La prostituzione infatti, in quanto soddisfacimento puramente carnale degli istinti sessuali, e in
quanto rapporto di carattere venale, era considerata una degenerazione dell'eros. Dunque, quello
che noi chiamiamo amore omosessuale nella Grecia antica era qualcosa di completamente diverso
ed estraneo al concetto odierno di omosessualità, riferito quest'ultimo a una libera relazione
personale e sentimentale tra due adulti, a una scelta non solo sessuale ma anche di un modo di
essere e di amare.
Onesicrito
Filosofo e storico greco vissuto nella seconda metà del IV secolo a.C., fu allievo di Diogene di
Sinope (→) ed è celebre per aver partecipato alla spedizione in Asia di Alessandro Magno.
Come storico seguì il modello proposto da Senofonte (→) con la sua Ciropedia e scrisse una
biografia di Alessandro, in termini fortemente positivi. Tra le testimonianze relative alla spedizione
in Asia, Onesicrito ha riportato anche alcune descrizioni dei cosiddetti gimnosofisti (→). Delle sue
opere rimangono solo frammenti.
Onore [Civiltà dell’]
Si indica in questo modo la civiltà del mondo greco così come compare nell’Iliade e nell’Odissea,
perché gli eroi (il discorso vale soltanto per loro, non per il popolo) sono dominati nelle loro scelte
da un imperativo tenuto sempre presente: la fama (→), il nome che essi hanno presso i loro simili, e
avranno presso le generazioni future. Per l’onore si fa tutto, senza onore è preferibile morire: e
l’onore è appunto la fama positiva di un eroe presso i suoi simili e, soprattutto, presso le generazioni
future.
Gli studiosi parlano anche di civiltà della vergogna per indicare lo stesso concetto, perché la
vergogna e il disonore sono per l’eroe omerico molto peggiori della morte.
Ontologia
Mentre la nozione è greca, il termine è moderno: nasce nel Seicento attraverso la composizione dei
termini greci on (ente, al genitivo ontos) e logos (qui nel senso di discorso su, studio di). L’ontologia è
quindi un discorso sull’ente, uno studio che mira a comprendere l’ente nel suo rapporto con l’essere
o, se si preferisce, l’essere in tutte le sue forme e manifestazioni.
Per il significato dei termine essere (→), ente (→) e per il problema dell’essere (→) rimandiamo alle
relative voci.
Opera d’arte
Vedi Estetica
Opinione
Vedi Doxa
Opposti
Vedi Contrari
Oralità
Vedi Cultura orale
Ordine
Il termine greco è taxis. Indica due nozioni simili, ma da tenere distinte:
- la sequenza del prima e del dopo in una serie, in cui quindi tutti gli elementi sono disposti, appunto
“in ordine” quando ciascuno è al proprio posto rispetto agli altri (Aristotele tratta questo tema in
Metafisica V-11, in relazione al rapporto di causa e di effetto, in cui l’ordine va dalla causa all’effetto,
e più in generale in relazione a tutto ciò che ha un determinato posto in una sequenza rispetto a un
principio);
- la disposizione reciproca delle parti in un tutto, che può essere vista da diversi punti di vista: ad
esempio in un essere vivente può essere letta in chiave di necessità causale (la disposizione dipende
da una serie di cause ordinate in sequenza) o in relazione ad un fine (la disposizione dipende dalla
finalità che ha ciascun organo e l’organismo nella sua completezza).
La nozione di ordine presuppone dunque, in ogni caso un principio d’ordine, cioè un concetto
rispetto al quale riconoscere l’ordine come tale. La nozione è quindi particolarmente importante in
quelle scuole, come la aristotelica e la stoica, che riconoscono un principio d’ordine (Aristotele vede
il finalismo nella natura come principio d’ordine, gli Stoici riconoscono con questa funzione la
razionalità del Logos).
Ordine di Zeus
Vedi Zeus
Orestea
L’Orestea conclude la carriera drammaturgica di Eschilo ed è l’unica trilogia pervenutaci
interamente. Con essa Eschilo vinse nel 458 a.C. le Grandi Dionisie (→). Le tre tragedie che la
compongono sono l’Agamennone, le Coefore e le Eumenidi. L’autore narra l’assassinio di
Agamennone ad opera della moglie Clitennestra, istigata dall’amante Egisto; la vendetta di Oreste,
figlio di Agamennone e Clitennestra, che uccide la madre; la persecuzione del matricida da parte
delle Erinni; la finale assoluzione di Oreste di fronte al tribunale ateniese dell’Areopago, istituito da
Atena.
Agamennone
Per comprendere la trama dobbiamo brevemente descrivere l’antefatto. Agamennone, dovendo
partire per la guerra di Troia e non avendo venti favorevoli, per propiziarsi il favore degli dei decise
di sacrificare la bellissima figlia Ifigenia. I venti divennero favorevoli e la spedizione riuscì a partire.
La moglie Clitennestra decise così di vendicare la figlia, con l’aiuto di Egisto, suo amante e cugino
di Agamennone.
La tragedia ha inizio con il monologo della vedetta appostata sul tetto della reggia di Argo che vede
all’orizzonte il segnale luminoso mandato dai fuochi che annunciano la caduta di Troia e quindi il
ritorno di Agamennone.
La gioia per la vittoria è però adombrata dalle riflessioni del coro degli anziani argivi, sgomenti per
il sangue versato e ancora dubbiosi sull’effettivo ritorno di Agamennone. Dopo un inno a Zeus,
come colui che punisce chi compie ingiustizia, entra in scena l’araldo che annuncia il ritorno a casa
di Agamennone, a differenza di Menelao che non tornerà in quanto vittima di un naufragio.
Clitennestra, recitando la parte della sposa fedele, dichiara di aspettare con ansia l’arrivo del marito,
ma il clima già preannuncia l’azione che si scatenerà contro Agamennone, colpevole di aver ucciso
Ifigenia, e colpevole inoltre di essere figlio di Atreo che aveva ucciso i figli del fratello Tieste,
dandogli poi in pasto le loro carni, tragedia dalla quale solo Egisto si era salvato. A ciò si aggiunga
che Agamennone non torna solo, reca infatti con sé come concubina Cassandra, scatenando quindi
la gelosia della moglie. Esteriormente Clitennestra accoglie con gioia il marito, è in realtà la gioia di
colei che sta per compiere la sua vendetta: ella lo invita ad entrare in casa su un tappeto di porpora,
segno del bagno di sangue che sta per segnare le vite di tutti.
Rimane in scena la sola Cassandra, la profetessa condannata a non essere creduta, che lancia lamenti
verso Apollo per la rovina della sua città e di se stessa. Le sciagure che hanno in passato colpito la
casa di Atreo stanno per ripetersi e colpiranno Agamennone e la stessa Cassandra.
Cassandra raggiunge Agamennone in casa: dall’interno provengono le grida di questi. Clitennestra
compare in scena con la scure in mano, esultante di gioia e ferocia. Di fronte al coro attonito, questa
esalta l’atto compiuto, rivendicando la propria vendetta: Agamennone ha così pagato la morte della
figlia Ifigenia, la colpa di aver condotto in casa Cassandra, ma anche le colpe del padre Atreo. Con
lei, ad esultare per la vendetta compiuta compare Egisto. Il coro, però, lo maledice, dichiarando di
rimanere fedele al re ucciso, prospettando la sciagurata e futura tirannide e invocando il ritorno di
Oreste. Di fronte al furore che ora muove Egisto, il quale vorrebbe liberarsi in modo violento dei
vecchi, Clitennestra interviene per placarlo. La coppia regale entra nel palazzo.
Coefore
La seconda tragedia dell’Orestea prende il nome dalle donne, appunto le coefore, che portavano le
libagioni ai morti e narra della vendetta di Oreste per l’uccisione del padre. La colpa chiama altra
colpa ma la giustizia che punisce non è ancora placata.
Sono passati alcuni anni e Oreste, dopo essere stato salvato dalla furia di Egisto dalla sorella Elettra,
fa ritorno ad Argo con Pilade, figlio dell’uomo che lo ha ospitato lontano da Argo e garante del
volere di Apollo che ha ordinato di vendicare l’uccisione di Agamennone. All’alba Oreste si reca
presso la tomba del padre e vede giungere un corteo di donne, le coefore appunto, mandate da
Clitennestra per portare libagioni sul sepolcro del marito (le offerte servivano per placare i morti).
Con esse viene anche Elettra. Clitennestra aveva fatto un orribile sogno: partoriva un serpente che le
mordeva il seno, succhiando insieme latte e sangue. Era, il sogno, il presagio dell’ira degli dei per la
colpa commessa ed ella sperava, con le offerte, di placarli. Ma ormai, afferma il coro, Dike sta per
abbattersi sui due amanti assassini.
Elettra invoca Ermes, il dio che aveva il compito di guidare le anime dei morti nell’aldilà, e chiede
pietà per sé ed il fratello, mentre le coefore la esortano ad invocare aiuto per vendicare la morte del
padre. I due fratelli si stanno per incontrare sulla tomba del padre: Elettra intuisce la presenza del
fratello da una ciocca di capelli che Oreste aveva posto, come offerta, sulla tomba e dall’impronta del
piede di questi. Oreste esce allo scoperto e i due si abbracciano. I fratelli, insieme al coro, piangono
la sorte del re, chiedono il suo aiuto e protezione per compiere l’inevitabile vendetta contro
Clitennestra, la vera responsabile del terribile delitto. L’offerta di libagioni voluta da Clitennestra si
trasforma quindi nel compimento del suo destino che le era stato preannunciato dal sogno. Oreste si
trova quindi a dover scegliere tra due azioni entrambi colpevoli: la rinuncia alla vendetta o il
matricidio. La decisione è per il matricidio quale compimento della vendetta. Oreste si reca,
travestito da forestiero, alla reggia dove incontra la madre che non lo riconosce. Egli porta la falsa
notizia della propria morte e Clitennestra si dimostra straziata; manda l’anziana nutrice di Oreste a
chiamare Egisto, raccomandandosi che questi arrivi scortato. Ma le coefore convincono la nutrice a
condurre Egisto solo e disarmato. Il coro invoca ora l’aiuto di Zeus affinché tutto vada come deve
andare e tutti possano trarre beneficio dalla vendetta che sta per compiersi. Per primo viene ucciso
Egisto, a cui segue il dolore di Clitennestra; poi cade lei. A nulla vale il suo tentativo di impietosire
il figlio mostrandogli il seno che lo ha allattato da piccolo. Oreste è vittima di un attimo di
esitazione, ma Pilade gli ricorda il compito a cui lo stesso dio lo ha chiamato e Oreste compie
dunque il suo dovere. Clitennestra muore. La vendetta è portata a termine; il coro esulta perché
Dike ha trionfato. Ad Oreste appaiono ora le Erinni (le dee vendicatrici dei delitti, specialmente
quelli tra consanguinei) vestite di tenebra e la sua anima non regge, nonostante ribadisca che il
delitto compiuto è un atto di giustizia impostogli dal dio. Oreste fugge inseguito dalle Erinni, non
viste dal coro. La maledizione della stirpe degli Atridi non è ancora finita.
Eumenidi
L’ultima tragedia dell’Orestea prende il nome dalle Erinni che si trasformano in Eumenidi quando
assumono un atteggiamento benevolo, e narra la persecuzione di Oreste da parte delle Erinni e la
finale assoluzione del matricida.
Oreste, inseguito dalle Erinni, si rifugia a Delfi, nel santuario del dio Apollo; la stessa sacerdotessa
del dio, la Pizia, rimane inorridita alla vista delle mostruose figure che accompagnano Oreste.
Giunge quindi lo stesso Apollo che esorta Oreste a recarsi nella città di Pallade, Atene, dove potrà
mettere fine al suo strazio. Oreste riesce dunque a fuggire, e subito arriva lo spettro di Clitennestra
che sveglia le Erinni le quali, accortesi della fuga di Oreste, levano un canto di odio. Queste
vengono cacciate dal tempio e, istigate da Clitennestra, si danno all’inseguimento di Oreste che
sembra non poter sfuggire alla persecuzione.
La scena si sposta ora ad Atene, di fronte alla statua di Atena dove Oreste prega. Ma le Erinni sono
riuscite a raggiungerlo e tutte intorno danzano e cantano un canto d’orrore a cui sembrano non
potersi sottrarre neppure i più grandi tra gli uomini. Finalmente interviene la dea Atena che
convince le Erinni a sottoporre Oreste al verdetto di un tribunale di ateniesi di dodici membri (su
modello del tribunale ateniese dell’Areopago), presieduto dalla stessa dea. Le Erinni saranno
l’accusa, Apollo la difesa ed il criterio – stabilito da Atena – è che l’accusato sarà assolto se ci
saranno pari ragioni a favore dell’assoluzione e della condanna. Ora la sorte di Oreste è nelle mani
della nuova giustizia del tribunale della città. Oreste spiega di aver compiuto una vendetta legittima
e per di più su ordine di Apollo, il quale a sua volta individua in Clitennestra la vera colpevole,
avendo assassinato il marito, padre di Oreste; Oreste aveva dunque tutto il diritto di vendicare il
padre. Il tribunale deve ora votare: i voti risultano in parità, ma a favore di Oreste vota anche Atena.
Di fronte a tale verdetto, le Erinni affermano di voler scatenare tutta la loro ira contro gli ateniesi,
minacciando la città di terribili mali. Oreste nel frattempo si allontana, promettendo eterna alleanza
tra la città e la gente di Argo. Atena interviene a placare le Erinni, promettendo che la città di
Atene garantirà loro venerazione; a questo punto le Erinni si tramutano in Eumenidi, benigne, ed
intonano un canto festoso che promette pace e serenità per tutti i cittadini della città di Pallade.
Orfeo / Orfismo
Orfeo + un mitico cantore, il cui nome è associato a una delle religioni dei misteri. Per gli studiosi
l’etimologia più probabile del suo nome è orphne, oscurità.
Il mito di Orfeo ed Euridice
La testimonianza più antica che ci è pervenuta è del poeta Ibico (metà del VI sec. a.C.) che si
riferisce ad “Orfeo dal nome famoso”.
Le prime versioni complete del mito che ci sono pervenute sono latine: quella contenuta nel IV libro
delle georgiche di Virgilio e quella nel X libro delle Metamorfosi di Ovidio. Secondo la tradizione
Orfeo è figlio del sovrano tracio Eagro (o di Apollo) e della musa Calliope e visse in Tracia all’epoca
degli Argonauti che accompagnò nella spedizione alla ricerca del vello d’oro. Apollo gli donò la lira
e le Muse gli insegnarono a suonare. Con questo strumento egli incantava animali selvaggi, rocce,
alberi. Durante la spedizione riuscì a salvare i marinai dall’incantesimo delle sirene, intonando un
canto ancora più melodioso e riuscendo a placare anche le onde del mare in tempesta. Dopo la
spedizione visse in Tracia e sposò la ninfa Euridice (→). Questa, mentre scappava dal pastore
Aristeo che la insidiava, fu punta da un serpente velenoso e morì. Persefone, impietosita dal dolore
di Orfeo, concesse a questi di scendere nell’Ade per far tornare in vita la sua sposa, ponendo però
una condizione: che Orfeo non dovesse mai voltarsi a guardare Euridice prima di essere uscito dalla
casa di Ade. Ma sulla soglia, Orfeo si voltò a guardare Euridice, la quale venne così nuovamente
inghiottita da Ade. Orfeo, distrutto dal dolore per la perdita dell’amata, rifiutò da allora in poi il
canto, la gioia e anche le donne, provocando così la furia delle Baccanti che, per vendicarsi del
disprezzo da lui manifestato verso il genere femminile, lo fecero a pezzi, gettando la sua testa
nell’Erebo. Le Muse raccolsero i pezzi del suo corpo e li seppellirono ai piedi dell’Olimpo. Zeus
trasformò la lira di Orfeo in una costellazione.
Nella versione di Ovidio, Orfeo ridiscende nell’Ade, ritrova Euridice e da allora i due sposi possono
passeggiare insieme, a volte l’uno accanto all’altra, a volte l’uno davanti e l’altro dietro, senza più
paura per Orfeo di voltarsi e perdere ancora la sua amata Euridice.
L’Orfismo
Legato a questi antichi miti è l’orfismo, una religione misterica che per noi si confonde con alcune
dottrine pitagoriche sulla metempsicosi e sulla necessaria purificazione delle anime. Benché
probabilmente molto antico, le testimonianze scritte certamente riferibili all’Orfismo sono tarde, e
non è quindi possibile seguire lo sviluppo delle credenze collegate ad Orfeo. Ci viene tramandato
che esistevano libri sacri, la cui origine è nel viaggio compiuto da Orfeo nell’Ade, alla ricerca di
Euridice: avendo conosciuto di persona il mondo al di là della vita, Orfeo ha acquisito una sapienza
più che umana.
L’Orfismo è importante nello sviluppo della filosofia soprattutto perché Platone lo riprende e ne
discute in vari punti dei suoi dialoghi, non sempre in chiave positiva, perché doveva esistere una
versione popolare di queste credenze su cui Platone ironizza. Le tesi riprese da Platone, e sulla sua
scia da altri filosofi, sono soprattutto due:
- la concezione dell’anima umana come una sorta di demone indipendente dal corpo e imprigionato
in esso nel ciclo delle rinascite (metempsicosi);
- la nozione di vita personale e cosciente dell’anima dopo la morte.
Organon
Il termine non risale ad Aristotele, ma è stato utilizzato per indicare il complesso degli scritti che
Andronico di Rodi nel I secolo a.C. raggruppò insieme perché trattavano temi che oggi indichiamo
sotto la dizione logica (→) (ed anche, in parte, filosofia del linguaggio: →).
Ciascuno di questi scritti ha un suo titolo, e Organon è il nome dell’intera raccolta. In greco la parola
organon significa strumento, e in effetti i temi logici trattati da Aristotele non formano una scienza a
se stante, ma sono propedeutici alla scienza, fornendo appunto gli strumenti logico-linguistici
necessari per affrontare la ricerca filosofica e scientifica.
Benché temi logici sino presenti negli scritti dei filosofi precedenti, e alcuni dei dialoghi platonici
siano tematicamente dedicati a indagini di questa natura, l’Organon di Aristotele costituisce la prima
sistematica analisi dedicata alla logica nel contesto della filosofia occidentale.
Origene
Teologo cristiano di lingua greca, Origene nacque ad Alessandria intorno al 185 d.C., e morì
durante la persecuzione dell’imperatore Decio contro i cristiani dopo essersi ritirato a Cesarea, in
Palestina, dove tenne scuola. Era stato educato al Cristianesimo e agli studi teologici dal padre,
anch’egli ucciso nel corso di una persecuzione anticristiana.
Ad Alessandria aveva tenuto scuola di grammatica, ma anche di teologia, e la sua opera va
inquadrata nel contesto della Scuola teologica di Alessandria (→) di cui fu, con Clemente
Alessandrino, il massimo esponente.
Fu uno scrittore molto attivo (antiche tradizioni fissano in 800 il numero dei suoi libri), ma è
rimasto ben poco in originale: scriveva in greco e una parte della sua produzione ci è stata
tramandata solo in traduzioni latine posteriori. La parte maggiore dei suoi scritti riguarda i singoli
testi biblici, trattati secondo tre generi letterari distinti:
- gli Scoli, cioè brevi note ai testi limitate ai passi di più difficile interpretazione;
- le Omelie, cioè commenti di carattere popolare, orientate alle esigenze della predicazione;
- i Commentari, cioè commenti al testo sacro di tipo filologico e teologico, utilizzando il metodo
allegorico di Filone di Alessandria (→) e la sua pratica di lettura del testo sacro della tradizione
ebraica attraverso concetti e nozioni filosofiche greche (Origene orientava in senso mistico le
proprie interpretazioni allegoriche).
Di Origene è piuttosto importante uno scritto apologetico (cioè in difesa del Cristianesimo) dal
titolo Contro Celso, in risposta ad uno scritto anticristiano del filosofo platonico Celso.
Osservazione
Condotta con metodo, è una delle pratiche che caratterizzano la filosofia già al suo nascere e la
distinguono dal mito (l’altra pratica è il ragionamento, l’analisi razionale sulle osservazioni fatte: vedi
le voci Esperienza e Logos: →).
Detto questo, va però ricordato che anche i racconti della mitologia che interpretano gli eventi
naturali attraverso racconti si fondavano in qualche modo sull’osservazione. La differenza con le
pratiche di raccolta dei dati tipiche dei filosofi è che queste sono condotte con metodi che, a mano a
mano che si avanza nei secoli, diventano sempre più raffinati: Aristotele, due secoli dopo l’avvio di
questo genere di pratiche, è ormai padrone di metodi che gli consentono di classificare, sulla base di
precise osservazioni in numero veramente elevato, ogni genere di enti studiati: dagli animali alle
piante, dalle costituzioni delle città alle forme del discorso, e così via.
La tradizione di pensiero che porta nella direzione dell’osservazione come pratica filosofica deve
molto alle ricerche matematiche e astronomiche dell’Oriente: in Egitto e soprattutto in
Mesopotamia almeno dal III millennio si scrutavano i cieli tenendo memoria dei dati osservati (sui
movimenti del Sole, della Luna, dei pianeti, sulle eclissi, e così via) e si praticavano misurazioni per
gestire la canalizzazione delle acque o la divisione dei terreni. Quando i primi filosofi si rivolsero
all’indagine naturalistica mediante l’osservazione, la svolta fu certamente radicale perché la direzione
dell’indagine stava virando in direzione della scienza piuttosto che del mito, ma si trattò di un nuovo
impulso ad antiche pratiche, piuttosto che di nuove pratiche tout court.
Ousia
Vedi Sostanza
Paideia
Termine greco che traduciamo con educazione, o formazione, ma che ha in sé anche il riferimento ad
un mondo culturale che fa sì che l’uomo sia davvero uomo: senza la paideia, è un uomo non
completo, non pienamente maturo e padrone di sé.
Il concetto di educazione nella tradizione filosofica greca del periodo classico non può essere
compreso se non nel contesto della polis: educare una persona significa per questi filosofi educare il
cittadino. Le ragioni per cui è visto in maniera così stretta il legame tra l'uomo e il cittadino sono
diverse da filosofo a filosofo; ma dietro le ragioni filosofiche è indubbio che su questo punto tutti
subiscano l'influsso della concezione tipicamente greca dell'uomo, una concezione che non aveva
eguali nelle culture dei popoli del vicino Oriente e che i Greci sentivano fortemente come propria:
l'uomo come portatore di una cultura che si esprime nella sua libertà individuale, resa possibile
soltanto dalla vita nella libera comunità politica, la polis.
Da questa idea prese le mosse il filologo classico Jaeger in quello che è forse il più importante e
approfondito studio dedicato alla nozione greca di paideia: "L'educazione, in primo luogo, non è
faccenda individuale, ma, per sua natura, è cosa della comunità. (…) L'edificio di ogni comunità
riposa sulle leggi e norme, scritte e non scritte, in essa vigenti, le quali vincolano essa medesima e i
suoi membri. Ogni educazione è perciò emanazione diretta della viva coscienza normativa d'una
comunità umana" (Jaeger).
Questo aspetto dell'educazione - il legame tra la formazione dell'individuo e la cultura della
comunità - così fortemente sottolineato dai Greci come carattere dell'uomo libero, caratterizza i
problemi connessi alla nozione di paideia::
- qual è la vera natura dell'uomo che l'educazione deve valorizzare, ed innanzitutto rispettare ed
esprimere
- quale rapporto deve esservi tra l'educazione come trasmissione di valori acquisiti dalla comunità e
l'educazione come cammino personale, libero, per la realizzazione di sé?
Si tratta di questioni tipicamente filosofiche, ed in questo senso la pedagogia è stata per secoli una
disciplina filosofica: infatti, la domanda sulla vera natura dell'uomo - sulla sua identità nel mondo rimanda ai più complessi problemi metafisici ed etici (rimanda al rapporto con la natura, con Dio,
con le finalità e il senso della vita, e così via), e lo studio del rapporto tra individuo e comunità, dal
punto di vista della libera espressione di sé nella cultura, rimanda ai fondamentali temi filosofici
della libertà, dei fondamenti del diritto e della legge, dei suoi limiti, e così via.
Panatenee
Il nome di questa antica festa ateniese deriva da pan, che significa tutto, unito al nome di Atene, e
significa quindi festa di tutti gli Ateniesi. La dizione fa riferimento al sinecismo, nel mito attribuito al
re Teseo, con cui Atene legò a se l’intera Attica in un unico corpo politico.
La festa aveva il suo momento culminante in una grande processione che dal sobborgo del
Ceramico giungeva fino all’Acropoli passando per tutti i luoghi sacri di Atene, cui seguivano
sacrifici rituali.
Era il momento di maggiore visibilità della concezione ateniese dell’unità politica della popolazione.
Pandora
È la prima donna, e il suo nome significa letteralmente ricca di doni, creata da Efesto e Atena in
esecuzione di un preciso ordine di Zeus che intendeva punire gli uomini per aver ricevuto il fuoco da
Prometeo (→). Al momento della sua nascita ricevette sì moltissimi doni dagli dèi, ma anche la
doppiezza d’animo.
Tra i doni di Zeus c’era un vaso. Incuriosita, lo aprì, e secondo una delle diverse versioni del mito ne
uscirono tutti i mali, compresa la morte, che si sparsero irrimediabilmente sulla Terra, portando
dolore al genere umano. Solo la speranza rimase sul fondo del vaso, lasciando così aperto uno
spiraglio per le umane sorti.
Sposa di Epimeteo (→), da lui ebbe una figlia, Pirra (vedi la voce Eucalione e Pirra: →).
Panellenico
Questo aggettivo significa letteralmente “di tutta la Grecia”, ed è riferito a quelle istituzioni non
proprie di una specifica polis ma a quelle che, pur spesso legate a un luogo sacro o a una città,
avevano un significato per tutti i Greci, ed erano effettivamente frequentate da cittadini di tutte le
poleis, sia della madrepatria che delle colonie.
Va ricordato a questo proposito che i Greci non hanno mai avuto istituzioni politiche unitarie, se si
escludono accordi e leghe in genere non destinati a durare. Ma allo stesso tempo hanno sentito in
modo molto radicale l’appartenenza ad una comune cultura – e, più in generale, ad un comune
livello di civilizzazione -, sicché la distinzione tra Greci e Barbari (→) rimase per tutta la loro storia
un elemento caratterizzante. Le istituzioni di tipo panellenico rafforzavano periodicamente il senso
di appartenenza ad una stessa comunità.
Benché in Grecia e nelle colonie si parlassero almeno quattro dialetti (→), c’era una lingua
panellenica, ed era quella fissata dalla tradizione dell’epos, a partire dai poemi omerici: ovunque
fossero, i cantori proponevano in questa lingua – che tutti capivano - i loro canti.
Le istituzioni panelleniche più importanti erano di due tipi:
- religiose: in determinati luoghi sorgevano templi e strutture religiose a cui ci si rivolgeva da tutta la
Grecia; la più celebre di queste istituzioni era Delfi (→), il cui santuario ebbe tra l’altro un ruolo
decisivo nel processo di colonizzazione perché le città da cui partivano i gruppi fondatori di nuovi
insediamenti si rivolgevano di norma all’oracolo di Apollo per averne il responso;
- sportive: c’erano almeno quattro istituzioni panelleniche di questo tipo: le olimpiadi e i giochi
pitici, nemei e istmici.
La differenza tra istituzioni di tipo religioso e sportivo non va enfatizzata, perché anche le gare
sportive erano poste sotto il segno di un dio. Va ricordato che il vigore fisico e in genere tutta la
sfera della fisicità del corpo era sentita dai Greci strettamente legata alla sfera religiosa, come è ovvio
per una cultura le cui divinità sono espressione delle forze della natura (se il divino è in natura, nelle
forze della natura e del corpo, nonché nelle passioni, va riconosciuto un elemento di matrice
religiosa).
Panezio
Vedi Stoicismo
Panta rei
La traduzione italiana di questo celebre detto di Eraclito è “tutto scorre”. In questa lapidaria sentenza
Eraclito concentra la sua teoria del divenire (→), alla quale rimandiamo.
Papiro
È una pianta erbacea perenne che in Egitto era utilizzata per diverse applicazioni sin dal III
Millennio a.C. Nel mondo greco si diffuse la pratica della scrittura su fogli ricavati dalla lavorazione
di questa pianta e, a partire dal I secolo a.C., anche a Roma, dove rimase in uso ben oltre il II secolo
d.C. quando cominciò a diffondersi l’uso della pergamena, raccolta in volume e non in rotolo (si
veda la voce Libro: →)
La produzione e la lavorazione del papiro come supporto per la scrittura in età ellenistica divenne
una delle componenti importanti dell’esportazione dell’Egitto, che tentò con i Tolomei di stabilirne
il monopolio.
I rotoli di papiro sono un supporto per la scrittura facilmente deperibile. Ma in particolari
condizioni, soprattutto nel clima secco del deserto quando non esposti agli agenti atmosferici (ad
esempio nelle tombe), un numero notevole di papiri si sono conservati. Nel corso del XX secolo e
dei primi anni del XXI ne sono stati ritrovati e pubblicati oltre 40.000 (ma i ritrovamenti sono
superiori alle pubblicazioni, per la difficoltà dell’analisi filologica dei testi, spesso assai poco leggibili,
e una parte dei papiri ritrovati devono quindi essere ancora pubblicati). La nostra conoscenza dei
testi scritti del mondo classico (prevalentemente letterari, ma in qualche caso anche filosofici) si va
quindi accrescendo per questa via.
A titolo di esempio, tra i più importanti ritrovamenti recenti segnaliamo quello di alcune decine di
versi dei poemi di Empedocle, alcuni dei quali già noti, altri di nuova acquisizione.
Paradigma
Vedi Modello
Paradosso
Celebri quelli di Zenone: i paradossi sono ragionamenti che mettono capo ad una contraddizione,
che va sciolta con nuove ricerche (o che si dimostra, in qualche caso, insolubile). La nozione è affine
a quella di aporia (→).
Il termine è greco e deriva da para (contro) e doxa (opinione), termini che rimandano ad un
significato più generico di quello, specialistico, che prima abbiamo indicato: paradosso nel senso di
“opinione contraria” è detta nel mondo greco quell’opinione che va contro il comune sentire ed è
quindi sorprendente, paradossale nel senso che evoca sorpresa, ma non implica contraddizione - se
non nel senso che va contro: Aristotele ad esempio distingue le endossa (→), opinioni condivise dai
più e dai migliori, dai paradossi, che non sono opinioni condivise, ma controverse.
Nel senso tecnico di ragionamento che implica contraddizione, oltre ai paradossi di Zenone prima
richiamati, ricordiamo il più celebre tra quelli che l’antichità ha proposto, cioè il paradosso del
mentitore: se una persona dice “io sto mentendo”, una delle due: se dice la verità, allora mente
(perché non è vero che sta mentendo), se dice il falso, allora dice la verità (perché in effetti non è
vero che sta mentendo).
Gli storici della filosofia fanno risalire alla Scuola megarica (→) il primo compiuto tentativo, sulla
scia di Zenone, di sfruttare i paradossi per porre in crisi le pretese della ragione e soprattutto e
soprattutto per mettere in luce la dimensione problematica del linguaggio. Su questo punto vi sono
due posizioni:
- chi ritiene che i paradossi mostrino i limiti della razionalità e del linguaggio (una linea di pensiero
greco va da Zenone agli scettici passando attraverso Gorgia e i Megarici);
- chi ritiene invece che si tratti sì di una sfida per la ragione e per il linguaggio, ma risolvibile con
corrette pratiche logiche e linguistiche (Platone, Aristotele, Epicureismo, Stoicismo).
Il tema è ancora d’attualità ai nostri giorni (alcuni filosofi e alcuni matematici del XX secolo hanno
ripreso questo antico dibattito).
Paride
Negli antichi racconti mitologici e nell’Odissea, il troiano Paride è uno dei figli di Priamo e di
Ecuba, chiamato anche Alessandro. I suoi comportamenti furono alla base dello scoppio della
guerra di Troia, perché fu lui a rapire Elena da Sparta (per il racconto di queste vicende vedi la voce
Elena: →).
Nell’Iliade Paride non è tra gli eroi che hanno un ruolo di primo piano, e la sua figura non è quella
di un valoroso soldato. Ma, dopo avere avuto la peggio nel duello diretto con Menelao ed essere
stato salvato da Afrodite, sua protettrice, fu lui a uccidere Achille colpendolo al tallone con una
freccia (peraltro guidata nella sua traiettoria da Apollo). La sua morte avvenne sotto le mura di
Troia colpito da una freccia scagliata dall’eroe greco Filottete.
Intorno alla figura di Paride fiorirono diversi altri miti, la maggior parte legati alla sua giovinezza.
Parresia
Il termine è riferito alla filosofia dei Cinici, ed in specifico al loro stile. Parresia significa libertà di
parola, o meglio franchezza di parola, quel dir la verità senza se e senza ma che caratterizza chi,
come i filosofi cinici, non rispetta affatto le consuetudini e le convenienze sociali.
La parresia è quindi lo stile estremo e dissacrante con cui i Cinici dicono la verità, con voluta e
provocatoria sfrontatezza. Ma sempre e rigorosamente senza nulla tacere del vero e senza mai
mischiare quella che ritengono essere la verità con elementi retorici, o persuasivi, o ambigui.
Partecipazione
La nozione di partecipazione (in greco methexis) ha acquisito un significato filosofico a partire da
Platone. L’uso del termine prima era relativo ad attività pratiche, come partecipare ad una guerra o a
un banchetto.
Partecipare di qualcosa significava anche avere la propria parte di una eredità. Qualcosa di
quest’ultimo significato (partecipare come avere parte, acquisire un bene) rimane in Platone, che fa
della partecipazione una delle due possibili modalità che vengono studiate per spiegare il rapporto
tra le cose e le idee che fanno loro da modello (l’altra modalità è l’imitazione: →). Se questa ipotesi è
corretta (e Platone si limita all’esame, senza concludere), le cose partecipano delle idee. “Attenzione:
si partecipa a qualcosa portando il proprio contributo e si partecipa di qualcosa ricevendo la propria
parte. Occorre dunque dire che il mondo sensibile partecipa del mondo intellegibile” [Gobry]
Passione
Dal greco pathos (→), il termine è utilizzato dai filosofi greci in tre campi problematici distinti, con
lo stesso significato di base: si ha passione quando un ente viene modificato da un altro ente. La
passione è quindi intesa sempre come il contrario dell’azione: nell’azione l’ente agisce, nella passione
subisce.
I significati del termine
- In ambito metafisico Aristotele, sulla scorta di una precedente tradizione, indica nella passione una
categoria (→) correlativa e complementare all’azione.
- Nel campo del problema della conoscenza la passione è da diversi filosofi studiata come tappa del
processo della conoscenza sensibile (in tutte le teorie per cui i nostri sensi non conoscono
direttamente gli enti esterni, ma le modificazioni, quindi le passioni, che essi inducono nel nostro
corpo: così, ad esempio, in Epicuro) o della conoscenza intellettiva (il tema è trattato
approfonditamente in Aristotele che distingue l’intelletto attivo e l’intelletto passivo (→), in passi
particolarmente problematici quanto alla loro interpretazione.
- In ambito etico, le passioni sono, con termine unificante, quel vastissimo complesso di emozioni,
sentimenti, pulsioni interiori, forze interne che spingono all’azione, affezioni, tendenze del carattere,
inclinazioni del cuore, e così via, che l’io trova nella propria interiorità e subisce: non ne è lui l’attore.
C’è poi un signoficato più generale del termine: “la radice path- si ritrova in latino, dove assume lo
stesso significato; l’infinito pati vuol dire sia soffrire, provare sofferenza, sia permettere, consentire.
Passio (più tardo) da un lato ha un significato di sentimento intenso e penoso, dall’altro di lunga
sofferenza fisica: la passione del gioco, la Passione di Cristo, dei martiri” [Gobry]
Etica: passioni e libertà umane
Dei tre ambiti problematici, nella filosofia antica il settore forse più trattato è stato quello etico,
costituendo anzi il tema delle passioni uno dei fulcri dell’interesse dei filosofi verso l’etica.
Su due temi etici connessi alle passioni anche i poeti si sono a lungo interrogati, ponendo
interrogativi sulla responsabilità (→) umana e sulla colpa (→) ; su questi temi, sia in ambito
letterario che filosofico, sono state poste diverse domande:
- da dove hanno origine le passioni? l’io ne è responsabile? il tema ha aspetti fortemente inquietanti
nella concezione arcaica di Ate (→), o nella descrizione dell’Eros (→) come passione invincibile; ma
il tema è generale per molte passioni, non per una in particolare; provengono dalla natura universale
e dalla nostra natura, o forze oscure e potenti agiscono sull’uomo dall’esterno?
- in definitiva il problema che i poeti e i filosofi pongono è: l’uomo è davvero libero? o le passioni
dominano non solo la sia vita interiore, ma la sua stessa mente e quindi le sue scelte e le sue azioni?
In filosofia il tema dell’origine delle passioni e quello della libertà dell’io dalle passioni sono al centro di
teorie complesse che coinvolgono la metafisica, la fisica e la biologia, perché da Democrito a tutta la
filosofia del IV secolo a.C. l’indagine sulla natura umana ha aspetti che riguardano sia il corpo (da
qui la ricerca in chiave biologica), sia l’anima (concepita dotata di energie proprie).
Per tutte le filosofie ellenistiche l’obiettivo primo del saggio è tenere sotto controllo le proprie
passioni, fare in modo che l’io non le patisca. I modi in cui questo avviene e le teorie che spiegano
come possa avvenire sono diverse da scuola a scuola, ma non vi sono eccezioni a questa ricerca:
anche i cinici e gli scettici concordano. L’io non è libero se non è, innanzitutto libero dalle passioni.
Classificazione delle passioni
Un problema diverso, e analizzato con cura da Platone a tutta la filosofia ellenistica, è quello della
precisa identificazione di ciascuna passione, attribuendo ad essa un nome ed una fisionomia
riconoscibile. La ricerca filosofica sulla classificazione delle passioni (Platone, Aristotele, gli Stoici vi
dedicano studi ampi e approfonditi) mira sia ad un obiettivo di conoscenza (comprenderne la natura
e i modi in cui ciascuna agisce) sia ad un obiettivo di controllo (conoscendole, le si controlla
meglio).
Pathos
Vedi Passione
Pausania
Uomo politico e retore, a noi non altrimenti noto che dalle opere di Platone (compare nel Protagora
e nel Simposio su posizioni vicine ai Sofisti) e di Senofonte (è tra i personaggi del suo Simposio), è
presentato come retore molto esperto, vicino al relativismo sofista per le posizioni filosofiche.
Il discorso di Pausania nel Simposio di Platone
Nel Simposio di Platone è tra i protagonisti che pronunciano un loro elogio di Eros. Pausania
propone una distinzione tra due Afrodite e quindi due Eros, con caratteri molti diversi. Una
Afrodite è Urania, cioè celeste, e caratterizza l’amore spiritualmente elevato tra maschi. L’altra
Afrodite è Pandemia, e l’Eros popolare che le è associato va tenuto sotto controllo perché tende
all’eccesso.
Tutto il discorso di Pausania si sviluppa poi intorno all’esame delle condizioni per cui è cosa
onorevole e consigliabile per l’amato cedere all’amante. Vengono fissate alcune regole di
convenienza sulla base del principio sofista del relativismo etico, per cui nulla è in sé buono e degno
di onore, ma tutto lo è o non lo è a seconda dei modi in cui le scelte vengono fatte.
Peana
Originariamente inno in onore di Apollo proprio della lirica corale greca (ma le origini sono
probabilmente cretesi, da una danza antichissima praticata a fini di culto), divenne poi un carme di
guerra e di vittoria. Era eseguito da un coro maschile con l’accompagnamento dell’aulos (→) o della
cetra (→).
Pedagogia
In greco pais è il bambino, agogos è la persona che fa da guida. Il pedagogo è quindi una guida per
l’educazione e per l’istruzione dei bambini e la pedagogia è la disciplina che ha per oggetto la
formazione dell’uomo a partire dalla prima infanzia. Per lo studio di questa nozione rimandiamo alla
voce Paideia: →).
Peloponneso
La regione storica del Peloponneso (il nome significa letteralmente isola di Pelope, un antico eroe del
mito) è una penisola (a lungo citata come un’isola dalle fonti più antiche) tra l’Egeo e lo Ionio,
aperta verso il Mediterraneo a sud. È legata alla terraferma dall’ismo di Corinto.
Era divisa in diverse subregioni, tra cui l’Arcadia, l’unica a non avere sbocchi sul mare e ad essere
interamente collinare o montana, in cui sopravvivevano in età storica gruppi eredi di antichi
insediamenti eolici. Nel II Millennio a.C. l’intero Peloponneso era controllato dai Micenei, che
avevano qui le loro rocche più importanti e il centro del loro potere: Micene, Tirinto, Pilo, Argo. È
complessa e solo parzialmente nota la vicenda che portò intorno al 1200 a.C. al crollo del sistema di
potere miceneo e alla distruzione delle possenti rocche. Col tempo, la penisola venne colonizzata dai
Dori, che fondarono Sparta intorno al 1000 a.C. e, con successive guerre, si imposero su tutta la
popolazione del Peloponneso.
In età arcaica e classica il potere dominante nel Peloponneso era quello dei Dori, che aveva il suo
centro a Sparta, che con Atene (e, in misura minore, Tebe) fu uno dei centri che polarizzarono la
vita politica e culturale dell’intero mondo greco.
Alcune delle istituzioni religiose e culturali di primo piano nella civiltà ellenica avevano sede nel
Peloponneso, ad esempio Olimpia, dove si svolgevano le Olimpiadi quadriennali.
Peloponneso (Guerra del)
Gli storici greci chiamano con la dizione unitaria Guerra del Peloponneso un vasto conflitto, che si
combatté in realtà su tutto lo spazio greco, tra il 431 e il 404 a.C.
Protagoniste del conflitto erano Atene e di Sparta, ma la guerra ebbe come co-protagoniste un
altissimo numero di altre poleis (volenti o nolenti, ben poche rimasero neutrali). Atene e Sparta
erano infatti le città capofila di due sistemi di alleanza, nate o consolidatesi dopo le Guerre persiane
(→): rispettivamente la Lega delio-attica e la Lega peloponnesiaca. La causa di fondo della guerra,
chiaramente identificata da Tucidide che nelle sue Storie ha condotto una approfondita ricerca
storica su questo periodo della storia greca, era la rivalità politico-economica tra i due schieramenti
e, segnatamente, tra le due potenze maggiori, Atene e Sparta, che tendevano a condurre una politica
di tipo “imperialista” che presto rese incompatibile nell’unico spazio greco la presenza di più di un
sistema di potere.
Gli eventi bellici si svolsero in diverse fasi, e i non pochi periodi in cui non si combatté furono in
realtà soltanto delle brevi tregue:
- la prima fase della guerra durò dal 431 al 421 a.C., e venne combattuta quasi esclusivamente come
guerra di logoramento, con poche battaglie campali: i Peloponnesiaci devastarono sistematicamente
l’Attica, mentre i suoi abitanti si rifugiavano entro le mura di Atene (che giungevano dalla città al
porto del Pireo, mantenendo quindi libera la possibilità di navigazione), mentre gli Ateniesi e i loro
alleati colpivano sul mare il commercio peloponnesiaco; la cosiddetta Pace di Nicia del 421 si rivelò
in realtà soltanto una tregua;
- la seconda fase della guerra durò dal 421 al 413 a.C., e venne combattuta su molti fronti; il più
importante, perché si rivelò decisivo, fu quello siciliano perché gli Ateniesi decisero di attaccare
Siracusa, alleata di Sparta, riportando tra il 415 e il 413 una disastrosa sconfitta, che ebbe un costo
umano e materiale elevatissimo per le risorse di Atene e dei suoi alleati;
- la terza fase della guerra durò dal 413 al 404 a.C., e venne combattuta prevalentemente nella Ionia
e in Attica, con Atene assediata nell’ultimo periodo, prima della definitiva sconfitta.
La guerra si concluse con la netta vittoria di Sparta, che impose ad Atene un regime oligarchico
detto dei Trenta Tiranni (→), presto crollato per ragioni interne, sicché ad Atene poté essere
restaurata la democrazia. Tebe e altre nemiche di Atene ne avrebbero voluto la distruzione, ma fu
proprio Sparta a negare quest’esito alla guerra probabilmente temendo che l’uscita definitiva di
scena di Atene potesse preludere all’espansione di altre potenze greche, potenzialmente tanto
pericolose per Sparta quanto lo era stata Atene.
Penia e Poros
Nel Simposio di Platone il personaggio-Socrate riferisce di una rivelazione ricevuta da giovane dalla
sacerdotessa Diotima. Narra tra l’altro un racconto mitologico sulla nascita di Eros: concepito come
un demone mediatore tra l’umano e il divino, e non come un dio, Eros è nato da un amplesso voluto
da Penia (penia in greco significa povertà) con Poros, figlio della dea Metis (il termine poros vuol dire
espediente). Penia e Poros sono quindi personificazioni divine di nozioni d’esperienza.
Eros è quindi povero come la madre (desidera sempre ciò che non ha) e come il padre trama inganni
e usa tutti gli espedienti per raggiungere i suoi obiettivi.
Pensiero
Il temine italiano pensiero è generico, e indica l’intera sfera dell’attività della mente in quanto
conosce la realtà esterna e costruisce realtà mentali dei tipi più diversi: pensare è quindi tanto
immaginare quanto riflettere, o formare idee nella propria mente, o costruire teorie, e così via.
Il termine greco è nous (→), che indica sia il pensiero che la mente pensante. Ci sono però vari
termini derivati da nous usati dai filosofi greci, e tra essi ricordiamo:
- Parmenide usa il termine arcaico noema per indicare il pensiero, e usa il verbo noein quando dice
che la stessa cosa è il pensare e l’essere (rispettivamente noein e einai: è il fr. 3).
- noein è appunto il verbo che indica l’atto del pensare (così in Parmenide e, dopo di lui in Platone,
Aristotele, Plotino, tutti filosofi per cui il pensiero ha una sua sfera variamente intesa, ma ben
distinta da quella della fisicità del corpo);
- noesis è la ragione contemplativa, l’atto della mente nel momento della theoria, cioè della
contemplazione (→);
- noeta sono gli oggetti del pensiero, i pensati (in Platone e in Plotino il temine è usato per lo più al
plurale, al singolare è noeton);
- dianoia è la conoscenza discorsiva;
- Aristotele usa eunoia (buon pensiero, pensiero positivo) per indicare la benevolenza e gli Stoici
usano pronoia (letteralmente il pensare prima, il prevedere) per il loro concetto di provvidenza (→);
- infine agnoia è l’ignoranza.
Collegate alla nozione di pensiero la lingua greca usa anche altre parole, alle quali rimandiamo, ad
esempio logos (→) e i vari termini che traduciamo con l’italiano idea (→). Per una sintesi dei
problemi filosofici sui temi trattati in queste voci vedi la voce Problema della conoscenza (→).
Pensiero di pensiero
Questa dizione (noesis noeseos) è riferita da Aristotele a Dio, atto puro privo di potenzialità: è “l’atto
stesso per cui Dio è Dio. Infatti l’intelligenza (nous) dell’Essere eterno, che è il Bene in sé,
perfettamente desiderabile, può essere in atto solo incontrando il proprio specifico oggetto; ora,
quest’oggetto è necessariamente se stesso, ed è questo pensiero perfetto (noesia) che pensa se stesso;
atto intellettivo puro, è l’esistenza stessa di Dio (Metafisica, A, 7, 1072°-b)” [Gobry]
Pensiero per immagini
Questa dizione è utilizzata nell’ambito delle ricerche a noi contemporanee nel campo delle scienze
cognitive per indicare le forme del pensiero che utilizzano le potenzialità dell’immaginazione e delle
immagini per l’elaborazione e/o la comunicazione del pensiero in tutte le sue articolazioni, comprese
quelle intellettive, le astrazioni pure, le intuizioni intellettuali, e così via.
Il tratto unitario delle molto variegate forme di pensiero per immagini è l’uso di figure o di
narrazioni per pensare e per comunicare. Quindi il termine immagine nella dizione pensiero per
immagini indica
- o un elemento d’esperienza, comunque acquisito (quindi, per citare due casi estremi, tanto
l’immagine visiva di un ente reale, quanto il personaggio di un’opera teatrale, non vista a teatro ma
letta, quindi soltanto immaginato);
- o un elemento formato dall’immaginazione che non trova alcun corrispettivo nell’esperienza.
Si veda comunque su questo punto la voce Immagine (→). Nel pensiero per immagini la narrazione,
quando è presente, serve a comunicare queste immagini, ma anche ad articolare la trama concettuale
tra le immagini attraverso gli eventi narrati. Questo tipo di narrazione ha quindi la stessa struttura
di un mito, ed è per questa ragione che Platone ad esempio può raccontare, senza alcuna
contraddizione con i caratteri propri della ricerca filosofica, vari miti liberamente elaborati dotandoli
di pieno senso filosofico.
Diverse forme
Nella filosofia antica le forme del pensiero per immagini che ricorrono più frequentemente sono le
seguenti:
- singole immagini, o poche associate, con valore metaforico o metonimico (si pensi ad esempio alla
lira e al fiume di Eraclito) e le similitudini (si pensi alle similitudini in Lucrezio e negli Stoici), sia
nel corpo di scritti ampi in generi in snodi teorici importanti (si pensi alla metafora della seconda
navigazione in Platone), sia in aforismi e in brevi pensieri (generi letterari che fanno abitualmente
ricorso al pensiero per immagini, più di altre);
- i racconti mitologici reinterpretati, o i miti filosofici di nuova elaborazione (su questo tema vedi
Miti filosofici: →);
- le personificazioni di concetti in figure (ad esempio Zeus per il Logos nell’Inno a Zeus di Cleante);
- le visualizzazioni di concetti come forma di interpretazione di strutture, ad esempio quando il
pensiero matematico si esprime in immagini geometriche cariche di valore perché considerate
espressione di una realtà eterna (l’immagine della circonferenza per il moto dei cieli, i solidi del
Timeo platonico, e così via);
- il richiamo all’esperienza come base per argomentazioni e percorsi dialettici (come in Socrate, che
parte regolarmente da immagini d’esperienza della vita quotidiana).
Le finalità
L’uso di queste forme di pensiero nella filosofia antica risponde a diverse finalità.
In alcuni casi serve per esprimere in modo rigoroso concetti che sono considerati carichi di valori
emotivi e quindi inesprimibili attraverso le forme del pensiero razionale, considerato poco efficace al
fine di rendere ragione di questi valori emotivi: ad esempio ricorre al pensiero per immagini con
questa finalità Plotino nel descrivere la tensione dell’anima verso l’Uno (processo unitariamente
intellettivo ed emotivo), e a volte anche Platone (ad esempio nella descrizione del mito della biga
alata del Fedro).
In altri casi serve ad esprimere con la massima forza un concetto, caricandolo per lo più
implicitamente di valori emotivi o estetici (come quando Epicuro parla nelle sue sentenze
dell’amicizia o Marco Aurelio si propone di somigliare ad uno scoglio nella tempesta).
In altri casi serve ad uno scopo più complesso: esprimere più linee di pensiero, anche divergenti,
fuse in un’unica immagine, che costringe il lettore ad attivare a sua volta forme di pensiero diverse
(maestro di queste, a volte davvero suggestive, apparenti contraddizioni è Eraclito).
Nel ricorso al mito, soprattutto in Platone, la finalità appare quella di dar spazio a percorsi dialettici
altrimenti inesprimibili.
Vi sono casi in cui il filosofo gioca con i suoi lettori – la scrittura filosofica ha aspetti letterari, alcuni
legati al gioco: →) – proponendo immagini con forte valore concettuale ed emotivo in cui è
indecidibile se l’autore stia usando un linguaggio proprio o figurato (ad esempio quando Epicuro
dice che la felicità umana è realmente possibile e si può essere felici come gli dèi).
Percezione
Vedi Rappresentazione
Perfetto
L’aggettivo greco teleios significa perfetto nel senso di completo in tutte le sue parti e di ben fatto:
qualcosa di compiuto a cui non manca nulla.
È importante sottolineare che la comune maniera di pensare greca identifica il perfetto col finito:
l’Essere di Parmenide è concepito finito e perfetto, e così varie rappresentazioni antiche
dell’universo fisico (così in Aristotele e negli Stoici).
Pergamo
Città dell’Asia Minore, in età ellenistica divenne la capitale di uno dei regni nati dopo la morte di
Alessandro Magno. Di notevole importanza politica, passò poi ai Romani con l’intero regno che
dalla città prendeva il nome, quando l’ultimo re, Attalo III, lasciò il regno per testamento a Roma,
di cui era stato alleato seguendo la politica tradizionale dei suoi avi. Roma del resto a quest’epoca
(Attalo III morì nel 133 a.C.) controllava ormai di fatto tutto l’Oriente.
Nella storia della cultura e della filosofia Pergamo occupa un posto particolare perché era sede di
una delle due più importanti istituzioni culturali dell’ellenismo (l’altra era la Biblioteca di Alessandria:
→), Anche a Pergamo infatti sorgeva una grande biblioteca, in concorrenza con quella di
Alessandria, che svolgeva la stessa funzione: era un luogo di conservazione del patrimonio librario
dell’antichità e allo stesso tempo un centro di ricerca. Si parla di una Scuola di Pergamo (→) in
concorrenza con le scuole alessandrine dell’epoca, soprattutto per gli studi in campo filologico e
storico.
Vi si coltivavano anche studi filosofici, e ancora nel III secolo d.C., quando ormai la città era avviata
ad una netta decadenza, vi fu fondata una scuola filosofica di ispirazione neoplatonica legata al
politeismo greco, detta anch’essa Scuola di Pergamo, celebre perché lì si formò l’imperatore Giuliano
(vedi la voce Neoplatonismo: →).
Pericle
Uomo politico ateniese, Pericle (Atene 495 ca. – 429 a.C.) fu al centro della scena politica non solo
ateniese, ma di tutta l’Ellade per quasi un trentennio tra la metà del V secolo e il 429 a. C. quando
mori, all’improvviso, vittima della peste che aveva colpito Atene nei primi anni della Guerra del
Peloponneso.
Ebbe un ruolo centrale come promotore della politica culturale della sua città. Nella cosiddetta età di
Pericle e nel periodo immediatamente successivo Atene divenne - con Sparta con cui era prima in
competizione, poi in guerra - la città della Grecia più importante dal punto di vista della capacità di
aggregazione politica. Di fatto a capo della Lega di Delo, era la polis capofila di un vero e proprio
impero marittimo, e questo le consentì anche di attrarre personalità del mondo della cultura che
trovarono in Pericle un protettore e, in molti casi, un amico personale. Pericle fu infatti amico di
Anassagora e di Protagora, che furono a lungo ad Atene negli anni centrali del secolo. E intorno a
lui si svilupparono le condizioni culturalmente favorevoli perché Atene cominciasse ad attrarre
intellettuali da tutto lo spazio greco. Tra l’altro, fu in gran parte Pericle a gestire la ricostruzione
della città (acropoli compresa, coi suoi monumenti) dopo le distruzioni operate dai Persiani al
tempo delle Guerre Persiane.
Peripatetici / Peripato
Vedi Liceo
Periodo arcaico
Gli storici indicano come periodo arcaico della storia greca i secoli dall’VIII al VI a.C., in cui presero
forma le istituzioni delle poleis greche sia dell’Egeo che della Sicilia e della Magna Grecia (è questa
l’epoca della fondazione delle nuove colonie d’Oriente e d’Occidente) e si stabilizzarono le pratiche
culturali elleniche. E’ in quest’epoca che è sorta la filosofia.
L’epoca precedente è abitualmente indicata come Medioevo ellenico (→).
Periodo classico
Gli storici indicano come periodo classico della storia greca i secoli V e IV a.C., in cui la potenza
politica e commerciale dei Greci raggiunse il suo culmine, in regime d’indipendenza fino alla metà
del IV secolo, e si stabilizzarono le forme culturali introdotte nel corso del periodo arcaico. Furono i
secoli di massima produzione in tutti i campi delle arti e delle scienze, della filosofia e delle
discipline ad essa collegate. In questi secoli il razionalismo greco condusse ad adottare criteri
scientifici per antiche pratiche come la medicina e la geometria. Fu l’ultimo periodo in cui i Greci
del continente e dell’Egeo rimasero indipendenti, prima di cedere alla forza militare e politica della
Macedonia, cosa che accadde già nella seconda metà del IV secolo a.C..
Periodo ellenistico ed ellenistico-romano
Gli storici indicano come periodo ellenistico della storia greca (la dizione è in uso dall’Ottocento) i
secoli dal III al I a.C., quando la civiltà dei Greci diede vita a un processo di sintesi culturale con
varie culture orientali, in seguito alla spedizione di Alessandro Magno sul finire del IV secolo a.C. e
alla conseguente conquista di vaste zone dell’Asia e dell’Africa (soprattutto l’Egitto).
Si parla invece di periodo ellenistico-romano per quella fase della storia greca in cui la civiltà ellenica
venne inglobata politicamente nel contesto dell’Impero Romano (sicché questo periodo si suole far
iniziare con la battaglia di Azio del 31 a.C. e con la conquista romana dell’Egitto). A quest’epoca
seguì quella che abitualmente si chiama età tardo-antica (dal IV al VI secolo d.C.), che si chiuse
definitivamente con l’imperatore d’Oriente Giustiniano, che con atto simbolico chiuse l’ultima
scuola filosofica pagana (era la Scuola di Atene (→), una nuova Accademia rifondata dai
neoplatonici).
Persefone
Figlia di Zeus e di Demetra, che era la dea del grano e della fertilità della terra, Persefone venne
rapita da Ade mentre raccoglieva fiori nelle pianure della Sicilia (così racconta un Inno omerico).
Divenuta sua sposa, è quindi dea degli Inferi. A primavera lascia gli Inferi e torna sulla Terra, per
rientrare nelle profondità infernali in autunno.
Il suo culto è strettamente connesso con quello della fertilità della terra, e quindi con quello della
madre Demetra (→), che con lei è al centro dei riti che si svolgevano a Eleusi (i cosiddetti misteri
eleusini: si veda la voce Eleusi: →).
Perseo
È un mitico eroe di tradizione argiva, ma assurto presto al rango di eroe panellenico. Intorno alla
sua figura si narravano moltissimi racconti, intorno a vari nuclei principali.
Un ciclo riguardava la sua celebre impresa consistente nell’uccisione della Medusa, l’unica mortale
tra le Gorgoni (→), per la quale aveva avuto l’appoggio di vari dèi e in particolare di Atena, a cui
infine aveva donato la testa della Medusa, che anche da morta pietrificava chi la guardasse. Atena la
mise al centro del suo scudo.
Un secondo ciclo riguardava Andromeda, da lui salvata mentre stava per essere divorata da un
mostro marino, esposta allo scopo di placare l’ira di Poseidone.
In età storica si tributava a Perseo uno dei culti eroi tipici della religione greca.
Persiane (Guerre)
Sotto la dizione unitaria di Guerre Persiane la storiografia greca indica un complesso di episodi
militari che opposero i Greci e i Persiani all’inizio del V secolo a.C., a seguito di un tentativo
sistematico, condotto su vasta scala e senza economia di mezzi, dell’Impero Persiano di spezzare
l’autonomia delle città greche delle due sponde dell’Egeo e dell’interno.
La guerra ebbe due fasi principali (precedute e seguite da vari altri episodi militari, perché la
conflittualità tra il mondo greco e quello persiano si estese ben al di là dei limiti cronologici delle
Guerre Persiane vere e proprie):
- nel 490 a.C. una spedizione persiana (il loro re era Dario) venne fermata nella pianura di
Maratona (→) dalle forze congiunte degli Ateniesi e dei Plateesi, al comando di Milziade;
- dieci anni dopo, nel 480, il nuovo re persiano Serse organizzò una spedizione militare per terra e
per mare con forze dieci volte superiori a quelle messe in campo nel precedente tentativo di attacco;
il comando militare greco venne affidato agli Spartani, ma a subire direttamente l’attacco fu l’Attica,
che venne devastata e la stessa Atene distrutta, dopo che alle Termopili (→) gli Spartani di Leonida
erano riusciti a ritardare l’avanzata delle forze di terra; gli abitanti dell’Attica avevano avuto il tempo
di riparare in zone sicure, e l’ateniese Temistocle riuscì ad attrarre negli angusti spazi di mare di
Salamina (→) la flotta persiana, che venne duramente sconfitta.
L’attacco contro la Grecia era virtualmente fallito. Ma le operazioni militari continuarono fino al
478, quando i Greci inflissero altre serie sconfitte ai Persiani, per terra nella Battaglia di Platea (il
comando era dello spartano Pausania) e per mare nella Battaglia di Micale (il comando era di fatto
dell’ateniese Santippo).
Essere riusciti a sconfiggere le forze persiane, tanto superiori dal punto di vista strettamente
militare, fu un fatto vissuto dai Greci come una prova della superiorità delle loro istituzioni e della
loro modello di civilizzazione. Da questo punto di vista le Guerre Persiane furono un episodio
centrale della storia della civiltà greca, che ebbe conseguenze su tutto il modo di percepire la propria
cultura nell’età classica.
Persiani
In età classica, quella dei Persiani era in Oriente la potenza nemica dei Greci per eccellenza, e
contro il loro impero si combatterono le cosiddette guerre persiane (→) all’inizio del V secolo a.C. e
alcune fondamentali battaglie della spedizione di Alessandro Magno (→) alla fine del IV.
L’Impero Persiano si era formato di recente rispetto al periodo del confronto politico-militare coi
Greci: soltanto alla metà del VI secolo, infatti, Ciro il Grande era riuscito a impossessarsi di
Babilonia e della Lidia. Nei decenni successivi altre conquiste territoriali avevano consentito ai suoi
successori di creare un vastissimo impero che si affacciava sull’Egeo.
Fermo restando che dall’Oriente tra il II e il I Millennio a.C. dovettero giungere in Grecia varie
tradizioni religiose (un numero notevole di divinità della miologia greca rivelano origini orientali), la
cultura dei Persiani, o per meglio dire delle popolazioni dell’Oriente dominate dai Persiani,
influenzò in età storica la cultura greca per molti aspetti, come rilevò lo stesso storico Erodoto (→).
I più importanti ai fini dello sviluppo della filosofia sono di tipo scientifico e politico:
- le conoscenze matematiche e astronomiche greche dipendevano, all’origine, da quelle orientali, e
su questa base progredirono fino a giungere alle grandi sintesi teoriche dell’età ellenistica (ad
esempio con Euclide e Archimede) ed ellenistico-romana (ad esempio con Tolomeo);
- la struttura politica dell’Impero Persiano venne studiata dai teorici politici greci e divenne un
termine di confronto importante, data anche la drastica diversità con i concetti e i valori politici
fondamentali dell’Ellade, basati sulla nozione di polis.
Importanti riflessioni sul rapporto tra la cultura ellenica e quella persiana sono nella tragedia I
Persiani di Eschilo (→).
Persona
Il termine latino persona designa la maschera che gli attori ponevano sul volto quando recitavano,
tanto nella tragedia quanto nella commedia. Il termine greco corrispondente è prosopon, che prima
di indicare la maschera indicava il volto stesso degli attori trasfigurato dalle sostanze coloranti con
cui si truccavano.
Con il tempo a Roma per persona si cominciò ad intendere non solo la maschera teatrale, ma il
carattere che la maschera rappresentava, anche perché nella commedia cominciarono ad essere
introdotti caratteri fissi e tipizzati.
Una persona è quindi il personaggio di una commedia o di una tragedia: un uomo, ma identificato
nel suo carattere e nelle sue relazioni con gli altri da caratteri fissi, stabiliti dall’autore di teatro.
Furono gli Stoici a utilizzare questo concetto come metafora per la situazione dell’uomo nel mondo,
e a rappresentare la vita individuale come la parte teatrale che il Logos impone a ciascuno di noi di
recitare (questa metafora ricorre nello stoicismo dell’età imperiale romana, soprattutto in Marco
Aurelio e in Epitteto, ad esempio nel Manuale, 17).
Nel linguaggio della teologia, sin dal I secolo d.C. il termine venne utilizzato per indicare le singole
“persone” dell’unica Trinità del Cristianesimo, e fu in questo contesto che nacquero accese
discussioni teologiche sfociate poi in eresie.
Physis
In Metafisica, V-4, Aristotele passa in rassegna il significato corrente al suo tempo della parola
physis, distinguendo:
- secondo il significato etimologico è la potenza universale e autonoma che possiede, comunica e
organizza la vita;
- è anche la causa interna della generazione e della corruzione di ogni ente nel Tutto;
- è la materia prima di ciascun ente (il legno di cuisono fatte le piante, ad esempio, il bronzo di cui è
fatta una statua, e così via);
- è la sostanza, cioè l’insieme unitario dei loro caratteri costituitivi, degli esseri naturali.
Al tempo di Aristotele il termine physis era però in uso nel linguaggio della filosofia da due secoli, e
la storia della parola è interessante: “Il fenomeno più impressionante che l’uomo potesse osservare
nel mondo che lo circondava era il crescere – phyesthai – delle piante, il quale da un inizio
insignificante, dal minuscolo seme, conduce alla maturità, in cui la pianta, pienamente sviluppatasi,
realizza il proprio essere. I Greci indicarono questo stato, in cui la pianta raggiunge il suo
determinato essere-così, col sostantivo verbale Physis. In Omero questa parola compare in un solo
passo, in cui vuol rendere la struttura e l’aspetto di una pianta al colmo del suo sviluppo. Il nuovo
pensiero s’impossessò di questo concetto e, generalizzandolo, ne ampliò e ne approfondì
enormemente il valore. Dalla crescita delle piante lo si trasferì non solo alla vita animale, ma al
mondo intero, con tutti i suoi singoli oggetti. Anche a questi si attribuì una Physis, un determinato
essere-così, e, come avvertirono anche i Romani traducendo Physis con natura, in questa parola si
espresse la sensazione che l’essenza delle cose fosse il risultato di un processo di sviluppo, di una
crescita organica. […]
Al parlante il termine physis risultava essere anche il sostantivo verbale dell’attivo phyein, e perciò in
esso poteva risiedere anche il senso attivo “far crescere”. In tal modo la physis veniva ad essere la
forza che provoca ogni divenire, ogni crescere. Ora, nel mondo vegetale, l’uomo poteva costatare
ogni anno che questo divenire si attua secondo un ordine fisso: che, cioè, il germogliare, il crescere,
il maturare, l’appassire, il morire succedono regolarmente l’uno all’altro. […] [La physis] non
procede a salti e a capriccio e, nel contempo, non richiede una direzione dall’esterno, proprio come
la crescita della pianta. Si elaborò così il concetto di una physis che comprende e regola tutto ciò che
accade nel mondo, seguendo le sue proprie leggi immanenti e inviolabili” (Pohlenz).
Sui problemi connessi al termine physis vedi la voce Natura, Filosofia della (→); per il rapporto tra
nomos e physis vedi la voce Nomos/Physis (→)
Piacere
Il termine greco che traduciamo con piacere è hedone, la cui radice hed- indica sia la gioia sia la
piacevolezza. Lo stesso termine è utilizzato per i piaceri del corpo e per quelli della vita interiore e
della mente.
In generale nel mondo greco il piacere è classificato come una passione (→), quindi qualcosa di
passivo, che si subisce, e va quindi tenuto sotto controllo per tutte quelle scuole che ritengono che le
passioni siano un pericolo per la libertà e la felicità dell’io. Ma vi sono almeno due scuole filosofiche
del tutto favorevoli al piacere:
- la scuola cirenaica (→), che sottolinea il carattere fisico dei piaceri, associandolo allo stato del corpo
più che della vita interiore: il piacere è però da vivere nell’attimo, per la sua instabilità (ha un
carattere dinamico);
- la scuola epicurea, che fa del piacere il criterio stesso della vita etica, ma intende con questo termine
la pienezza del proprio essere, tanto in riferimento al corpo quanto alla sfera della vita interiore
dell’anima: ha quindi di mira non un piacere vissuto nell’attimo, ma un piacere stabile, da perseguire
secondo criteri che si ispirano alla prudenza utilitaristica (vedi anche la voce Utile: →).
Quanto a Platone e ad Aristotele, ne trattano il primo nel Filebo e il secondo in Etica Nicomachea (la
tesi che conclude l’indagine è nel Libro X).
I problemi filosofici connessi al piacere sono così sintetizzabili:
- la determinazione della natura del piacere e quindi la classificazione dei piaceri;
- il rapporto tra il piacere e la felicità (→): le due nozioni vanno identificate come sostiene Epicuro,
o vanno tenute rigorosamente separate come pensano gli Stoici?
- il rapporto tra il piacere e i valori morali: poiché il piacere è una passione, qual è il suo posto
rispetto ai valori che sono indipendenti dalle passoni?
Pindaro
Poeta greco, Pindaro nacque nel 518 a Cinocefale e morì ad Argo intorno al 438 a.C., ormai
novantenne. Appartenente ad una nobile famiglia di stirpe dorica, nel periodo della sua formazione
visse ad Atene e lavorò poi a lungo in Sicilia per vari tiranni, componendo per loro soprattutto
epinici (→), canti corali con l’accompagnamento del flauto e della lira che celebravano le vittorie
degli atleti.
Con la storia della filosofia Pindaro non ha rapporti diretti, benché sia vissuto nelle stesse zone in
cui operavano numeroso filosofi. C’è però un rapporto indiretto: Pindaro era profondamente legato
alla religiosità tradizionale (era personalmente in rapporti con la cerchia dei sacerdoti di Delfi), e la
ripensava con la stessa problematicità dei poeti tragici; venuto in contatto con i Pitagorici, ne
dovette conoscere le concezioni religiose, per noi difficilmente distinguibili dall’Orfismo, e in alcuni
suoi testi poetici compare una testimonianza delle credenze relative alla vita delle anime dopo la
morte tipiche di questi movimenti filosofico-religiosi.
Di lui ci rimangono quattro libri di epinici, ordinati secondo la festa panellenica per cui furono
composti: Olimpiche (14), Pitiche (12), Istmiche (7), Nemee (11).
Pirrone di Elide
Pirrone di Elide, filosofo greco, visse circa tra il 365 e il 275 a.C. e, come Socrate, non scrisse
nulla, sicché la sua ricerca filosofica ci è nota - e non senza incertezze - da testimonianze posteriori,
in particolare per l’esposizione che ne fece il suo allievo Timone di Fliunte (→). Della sua vita è
significativo il fatto che abbia potuto conoscere direttamente il pensiero orientale, avendo preso
parte alla spedizione di Alessandro ed essendo giunto al suo seguito sino in India.
Pirrone è considerato il padre dello scetticismo antico, e in qualche modo dello scetticismo tout
court, sicché la dizione pirronismo è sinonimo di scetticismo. Lo sviluppo successivo della scuola
non dipese però direttamente da lui, che ebbe discepoli ma non fondò alcuna scuola, vivendo una
vita molto lunga, ritirata e tranquilla. Di lui è quasi più importante la testimonianza personale, che
colpì molto i suoi discepoli, piuttosto che la dottrina, peraltro a noi nota solo indirettamente.
Sappiamo che teorizzava il silenzio scettico di fronte alle pretese di verità, e considerava saggia
l’aphasia, con cui il saggio impara a non pronunciarsi ben sapendo che sostenere una verità o il suo
opposto è, stando a quel che sappiamo, equivalente, perché nulla sappiamo con certezza. L’esito di
questo percorso di ricerca è la tranquillità dell’animo – atarassia – e la libertà interiore del saggio.
Pistis
Nella filosofia greca la pistis, che traduciamo con credenza, è l’atteggiamento di chi accorda credito a
esperienze sensibili formandosene un’opinione non necessariamente ben fondata, ma a volte sì. È
quindi in ogni modo legata all’opinione (doxa) e non alla conoscenza scientifica (episteme).
A partire dall’età tardo antica, ma già in Filone di Alessandria che scrive nella prima metà del I
secolo d.C, il significato della parola cambia, per indicare la fede come apertura a Dio e alla sua
rivelazione nelle Scritture. Con questo significato, ormai legato alla religione, il termine pistis è
utilizzato dai filosofi successivi.
Platea (Battaglia di)
Vedi Guerre Persiane
Platonismo
Vedi Accademia
Pluralisti / Pluralità degli enti
Gli storici della filosofia indicano col termine pluralisti quei filosofi che, dopo Parmenide, proposero
varie soluzioni al problema parmenideo della impossibile pluralità dell’essere, basate tutte su questo
principio: che l’unità dell’essere può essere conciliata con la pluralità degli enti, se concepita in modo
opportuno. I tratti comuni ai pluralisti sono i seguenti:
- andava rispettato il principio parmenideo della impossibilità che gli enti nascano dal nulla o
periscano nel nulla;
- andava accettata l’impossibilità logica dell’esistenza del nulla e del non-essere;
- andava accettata l’immutabilità degli enti;
- poiché non nascono né muoiono, gli enti devono quindi essere concepiti eterni (nel senso di
esistenti da sempre e per sempre nel tempo, non nel senso di indipendenti dal tempo: vedi la voce
Eternità: →).
- poiché non si trasformano e sono immutabili, gli enti non sono i corpi e le anime, soggetti al
continuo mutamento che si osserva in natura, ma le loro parti componenti, particelle elementari
troppo piccole per cadere sotto i sensi.
Filosofi pluralisti sono quindi Empedocle (gli enti sono le quattro radici), Anassagora (le omeomerie)
e Democrito (gli atomi).
Pitagorismo
Il movimento pitagorico è poco noto nelle sue fasi iniziali e nei dettagli del suo sviluppo perché la
figura di Pitagora è avvolta da coltre di narrazioni semileggendarie, benché sia con certezza una
figura storica, e i Pitagorici dei due secoli successivi alla sua morte presero l’abitudine di attribuire al
maestro le teorie correnti della scuola, elaborate nel tempo. Anche Aristotele si riferisce a loro in
termini generici.
Pitagora è vissuto nel VI secolo a.C. e ha operato in Magna Grecia, e fu qui che la scuola si sviluppò
tra il V e il IV secolo, tra molte vicissitudini politiche e instabilità, perché i Pitagorici avevano
posizioni aristocratiche e dovettero pagare un prezzo alle idee democratiche vincenti alla metà del V
secolo. I Pitagorici finirono col disperdersi in varie località non solo della Magna Grecia e della
Sicilia, ma anche della Grecia. Nonostante abbia espresso figure di primo piano anche sul fronte
politico, come Archita di Taranto, contemporaneo di Platone, la scuola esaurì la sua vitalità nel
corso del IV secolo.
A questa data sia l’aritmetica che la geometria, nonché gli studi musicali, stavano prendendo strade
diverse da quelle pitagoriche, che non stavano riuscendo a confrontarsi con argomentazioni
sufficientemente convincenti con i problemi posti, ad esempio, da Zenone di Elea con i suoi
paradossi, o con i problemi posti dalle grandezze incommensurabili (ad esempio il rapporto tra la
diagonale e il lato del quadrato), tema quest’ultimo su cui si aprirono dure discussioni all’interno
della scuola stessa, con successive divisioni.
Sotto il profilo delle credenze religiose, lo stato delle fonti non ci consente di distinguere con
chiarezza le posizioni pitagoriche e quelle dell’Orfismo (→).
La storia del pitagorismo antico ha dunque termine col IV secolo. Ma due secoli dopo vi furono
studiosi che si richiamarono alle antiche dottrine (ve ne saranno anche nel corso del Medioevo e
dell’età moderna), e gli storici della filosofia parlano quindi di un neopitagorismo (→), alla cui voce
rimandiamo.
Plutarco di Cheronea
Nato a Cheronea, in Beozia, da una influente famiglia intorno al 50 d.C., Plutarco rimase sempre
legato alla città delle sue origini, alla sua famiglia e alla cerchia dei suoi amici, ma visse a lungo ad
Atene, in Asia, in Egitto, e soprattutto a Roma, dove ricoprì incarichi pubblici ed ebbe alte
onorificenze, acquisita la cittadinanza romana. Legato alle tradizioni religiose dei suoi padri, venne
anche nominato sacerdote del grado più elevato presso il santuario di Delfi, sede del celebre oracolo.
Morì dopo il 120 d.C., lasciando un numero elevatissimo di opere (antichi elenchi, forse non
attendibili, riportano 277 titoli), per lo più brevi.
Quel che ci è stato tramandato da questo ampio corpus è forse un terzo del totale, ma è egualmente
consistente. Le sue opere si dividono in due raccolte:
- le Opere morali, che in realtà trattano di moltissimi argomenti filosofici e scientifici, ma anche
retorici, religiosi, politici; sono di ispirazione per lo più platonica, e da un punto di vista filosofico
Plutarco è oggi considerato uno degli esponenti del medioplatonismo (→);
- le celebri Vite parallele, opera storica consistente in una raccolta di biografie presentate a coppie: un
greco e un romano (si tratta per lo più di generali o di statisti).
Pneuma
Il termine è greco (pneuma), e significa soffio, quindi respiro, e per estensione soffio vitale, anima.
Così nei primi filosofi naturalisti. L’aria di Anassimene è pneuma, riunendo in sé la nozione fisica di
elemento e quella biologica di principio di vita.
Il termine poi venne utilizzato dagli Stoici per indicare l’energia fisica mediante cui il Logos vivifica
la natura, sorgente primaria di vita e, nell’uomo, del pensiero stesso. È concepito da Crisippo come
una miscela di fuoco e aria presente in tutte le cose.
Poema filosofico
Il termine poema nell’ambiente culturale greco fa riferimento in prima istanza all’Iliade e all’Odissea,
poi ad altre opere dell’epos. La dizione poema filosofico si riferisce ad alcune opere che dal punto di
vista del genere letterario – compreso lo stile, le forme linguistiche, e così via – sono poemi, ma dal
punto di vista del contenuto sono testi filosofici.
Va innanzitutto stabilita una netta differenza tra i poemi filosofici e le opere poetiche liriche e
tragiche dell’antichità, che spesso hanno un significato filosofico e in alcuni casi sono di elevato o,
senza esagerazione, elevatissimo interesse filosofico, come alcune delle tragedie attiche. Non sono
però opere filosofiche, sono opere poetiche di interesse filosofico.
I poemi filosofici sono invece opere filosofiche in tutto e per tutto, esposte però in poesia nella
forma dell’epos. I filosofi che hanno scelto questo genere letterario come forma primaria di
comunicazione filosofica sono tre: in Grecia Parmenide ed Empedocle (il cui poemi sono legati alla
tradizione dell’epos omerico), a Roma Lucrezio (che ha come modello la tradizione latina, ed è
comunque ammiratore di Empedocle).
Il caso di Lucrezio è diverso da quello dei primi due perché Lucrezio non è un filosofo che espone
proprie ricerche filosofiche, ma un poeta-filosofo che sceglie di divulgare i principi dell’epicureismo,
scuola a cui aderisce, in questa forma. Benché il suo intento sia, con termine moderno, in qualche
modo divulgativo, Lucrezio non rinuncia alle analisi specialistiche, sicché la sua opera è per noi una
fonte importante per la conoscenza del pensiero epicureo, data l’esiguità dei testi non solo di
Epicuro, ma anche degli epicurei giunti sino a noi.
Parmenide ed Empedocle invece espongono loro teorie filosofiche con un apparato che, pur nella
forma poetica vicina all’oralità tipica dell’epos, presenta un ricco e articolato apparato argomentativo
rigoroso e razionale. Non c’è da questo punto di vista nessun cedimento (gli studiosi discutono però
su come inquadrare il poema sulle Purificazioni), ed anzi c’è il tentativo di piegare la tradizione
poetica orale alle nuove esigenze della filosofia: la loro scelta va inquadrata nel contesto dell’epoca,
quando i poeti erano ancora i “maestri della Grecia” (vedi la voce Poesia / Poeti: →) e scrivere nel
loro stile e nelle forma della loro tradizione, ma con contenuti filosofici, significava candidarsi ad
essere maestri al loro posto, quanto ai contenuti del sapere da trasmettere.
Nei loro poemi filosofici rimane però qualcosa della sacralità della poesia epica, che è legata alla
sfera degli dèi perché di essi, e non solo degli eroi, canta le gesta. Sia nel poema di Parmenide che in
quelli di Empedocle sono presenti aspetti legati alla tradizione religiosa (la rivelazione,
l’introduzione di figure legate alla sfera del divino, il tono sacrale, e così via). Come si debba
conciliare quest’eco religiosa con la pura razionalità dei contenuti filosofici, è problema aperto per
gli studiosi, che ne discutono. Ma questo tratto rimane anche in poemi filosofici della modernità, e
sembra quindi connesso al genere letterario. Mette in questione l’identità stessa della filosofia per i
filosofi che scelgono il poema filosofico come via privilegiata di comunicazione filosofica.
Va poi sottolineata una differenza netta rispetto all’epos, che accomuna piuttosto i poemi filosofici
alla poesia lirica loro contemporanea o alla tradizione esiodea: i filosofi parlano in prima persona,
sono un “io” che si presenta sulla scena poetica e filosofica e riceve una rivelazione (Parmenide) o
insegnano in prima persona (Empedocle e Lucrezio).
Per un quadro generale dei generi letterari nell’antichità si veda la voce Generi letterari della filosofia
antica (→).
Poesia / Poeti
Il termine greco per poesia, poiesis, ha in realtà un campo semantico nettamente più vasto perché –
dalla radice poi, fare – si riferisce a qualsiasi attività produttiva in vista di un bene. Questo tratto è
coerente con la visione greca dell’arte (→) come di un fare, e dell’opera d’arte come di un prodotto
in qualche modo artigianale.
Tutta la poesia greca, almeno fino all’età classica, tratta nella forma del mito (epica, tragedia) o in
altro modo (lirica) temi molto affini a quelli trattati dai filosofi. Ed anzi, la filosofia stessa ha
utilizzato in vario modo la tradizione poetica, sia sotto il profilo espressivo che su quello dei temi
trattati:
- alcuni dei filosofi del V secolo a.C. (in particolare Parmenide ed Empedocle, oltre a Senofane
nella cui opera poesia e filosofia si toccano) hanno usato le forme dell’epos per esprimere concetti
filosofici (nel mondo romano l’esempio più illustre è quello di Lucrezio);
- molti filosofi hanno seguito Eraclito (ma già Anassimandro lo aveva fatto) nel proporre tesi o
argomentazioni filosofiche in prosa, ma con uno stile che richiama fortemente alcuni tratti della
poesia (l’andamento formulare, la sonorità ritmica, la ricerca di cadenze che facilitino la
memorizzazione, e così via);
- da Eraclito a Platone il confronto polemico (ma non uniformemente tale: non sono polemici i
Sofisti, ad esempio) dei filosofi contro i poeti è diffusissimo, fino ad una dura condanna platonica
della poesia stessa (va ricordato che invece ci sono poche attestazioni di condanne della filosofia da
parte di poeti, se non nella commedia, che è un genere letterario in realtà indipendente dalla poesia
stessa, mentre vi sono poeti come il tragico Euripide chiaramente influenzati dalla filosofia);
- in ultimo, i filosofi hanno posto a tema la poesia come oggetto di analisi filosofiche, con obiettivi
essi stessi filosofici, tentando di inquadrarla nel contesto delle attività dell’uomo; così, ad esempio
Gorgia e, alla fine dell’età classica, Aristotele con la sua Poetica; dopo, lo studio della poesia assume
aspetti più spiccatamente letterari, con i filologi alessandrini, più che filosofici (ma non mancano
trattazioni estetiche importanti, ad esempio in Plotino).
I generi letterari della poesia greca sono molti, ma il complesso della produzione dei poeti più essere
ricondotto a tre grandi tradizioni:
- l’epos (→), che è il più antico ed è legato alle tradizioni orali, sicché le sue origini sono ben
precedenti l’VIII secolo a.C., quando i primi testi vennero fissati per iscritto;
- la lirica (→), che si afferma a partire dal VI secolo a.C.;
- la tragedia (→) e in generale le rappresentazioni drammatiche che nascono alla fine del VI secolo
per poi avere il periodo del loro massimo splendore nel V secolo (va anche ricordata la commedia,
almeno quella di Aristofane: →) .
Poietico
Il termine greco poiesis in Aristotele designa una particolare forma d’azione, quella rivolta alla
produzione: le discipline che se ne occupano studiano quindi il mondo delle attività artigianali, ma
anche della poesia, cioè del fare nel senso di produrre.
Le discipline poietiche si distinguono quindi da quelle discipline filosofiche che, come l’etica e la
politica, sono rivolte allo studio della vita pratica (→), libere in sé da preoccupazioni di tipo
produttivo.
Polemos
Vedi Guerra
Polibio
La figura del greco Polibio nel panorama della cultura antica si colloca all’incrocio tra Roma e la
Grecia: fu lui infatti che – scrivendo da storico, ma utilizzando anche la propria notevole esperienza
politica e militare – pose il rapporto tra la cultura greca e la potenza politico-militare romana e offrì
ai suoi concittadini greci una giustificazione storico-politica della supremazia romana,
salvaguardando le tradizioni culturali greche.
Nato nel 200 circa a.C., Polibio era figlio di un uomo politico di primo piano, uno dei capi della
Lega achea, cioè della confederazione tra le città greche che, tra serie rivalità interne, affrontavano il
problema della residua indipendenza delle città elleniche rispetto ai regni vicini e, soprattutto, a
Roma.
Nel 169 Polibio era un giovane comandante della cavalleria achea che destò sospetti presso i
Romani e venne deportato in Italia da Lucio Emilio Paolo con altri mille ostaggi. L’esperienza
romana segnò a fondo il percorso politico e culturale della sua vita. Entrato in contatto con il
cosiddetto Circolo degli Scipioni, si impegnò in una intensa attività di politica culturale che, ai nostri
occhi, ha il suo culmine nella stesura delle sue Storie, una vasta opera scritta in greco nella tipica
koine ellenistica in 40 libri (ce ne restano i primi 5, oltre ad alcuni estratti di epoca bizantina) in cui
è descritta la formazione del sistema globale di potere romano nel corso delle Guerre Puniche.
Polibio attribuisce la capacità di crescita di Roma al fatto di avere scelto una costituzione mista, in
cui i tre classici sistemi politici identificati dalla tradizione greca e codificati da Aristotele (la
monarchia, l’aristocrazia la democrazia) sono fusi attraverso un attento bilanciamento. Il potere di
Roma, dice Polibio ai suoi concittadini greci, ha una funzione positiva perché ben fondato e capace
di tenere unite le popolazioni più diverse sotto un'unica legge.
Policleto
Vedi Canone
Polimnia
Nella mitologia greca è una delle Muse. Polimnia (o Polinnia) è legata a seconda delle tradizioni a
varie invenzioni, come la lira, l’arte mimica e la geometria. È poi anche legata alla storia, e
all’agricoltura, in una vasta gamma di competenze e associazioni. Nel Simposio di Platone è detta,
con tradizione però isolata (e quindi rivelatrice di una concezione specifica), madre di Eros.
Polis
Il termine non ha un preciso corrispettivo in italiano. Significa tanto città come realtà urbana
definita da un abitato, quanto città-stato, cioè unità politica il cui cuore sono i cittadini che vivono
su un territorio composto da un abitato centrale, da vari demi (cioè villaggi) e dalla campagna.
Il termine italiano politica coerentemente deriva da polis, in quanto arte del governo della polis. Per
la maniera greca di concepire l’uomo e il cittadino, la polis è sinonimo di vita associata regolata da
leggi (quindi di vita civile tout court).
I Greci non ebbero mai una unità politica, finché rimasero indipendenti, e la forma-tipo della loro
organizzazione politica fu la polis che si autogoverna e, quando la popolazione diviene troppo
numerosa per restare nella stessa città, dà vita ad una nuova polis che nasce indipendente dalla stessa
madrepatria, e secondo lo stesso principio si autogoverna.
Storia del termine
Il termine ha una storia che parte, allo stato attuale delle nostre conoscenze, dall’età micenea, epoca
in cui indicava il palazzo fortificato in cui risiedeva la nobiltà. In Omero polis è l’acropoli: per
l’abitato invece nei poemi omerici ricorre il termine hasty. L’evoluzione del significato del termine
polis suggerisce quindi che le città-stato greche si siano formate dal nucleo originario nobiliare e
fortificato, quando il demos finì con l’acquisire una maggiore importanza e i cittadini assunsero
rispetto ai nobili un ruolo più attivo, mirante alla isonomia (→), cioè all’eguaglianza di fronte alla
legge. Ma le discussioni tra gli storici si questo punto sono aperte, perché il periodo della
formazione delle poleis è il cosiddetto Medioevo ellenico (→) successivo al crollo della civiltà
micenea, per il quale manca una documentazione storica sufficiente. Quando ricompare la scrittura
nel mondo greco, e quindi le prime testimonianze storicamente certe, il mondo greco sia nel
continente che nelle colonie è già organizzato in poleis.
I problemi filosofici
I problemi filosofici connessi alla polis sono di due tipi:
- quelli strettamente politici, legati cioè all’organizzazione e alla gestione del potere, per i quali
rimandiamo alle voci nomos e politeia (→);
- quelli legati alla formazione dell’uomo e del cittadino nel contesto della vita associata regolata da
leggi, dei suoi diritti e dei suoi doveri, per i quali rimandiamo alla nozione tipicamente greca di
paideia (→).
Tutto questo fino al IV secolo a.C. In età ellenistica le poleis greche persero in gran parte la loro
libertà entrando, in Grecia e nell’Egeo, nella sfera di potere dei regni ellenistici, mentre in Sicilia si
svilupparono strutture politiche di tipo territoriale, ancora basate sull’autonomia delle poleis, ma
ormai aventi anch’esse come modello i regni ellenistici (così, ad esempio, a Siracusa). Quindi i temi
politici trattati dai filosofi si sganciarono dalla tradizione (e così per le questioni legate alla paideia)
per essere visti in un’ottica statale di tipo ellenistico prima, romano poi.
Politeismo
È politeista qualsiasi religione fondata sulla credenza nell’esistenza di molti dèi e, più in generale,
della concreta e operante presenza divina nel mondo. La maggior parte delle religioni antiche sono
politeiste (se si esclude l’Ebraismo) e si basano su racconti sugli dèi e gli eroi, i cosiddetti miti (→)
presenti su tutti i continenti (i racconti sono diversi da cultura a cultura, anche se con molte
contaminazioni, ma si osservano varie costanti).
Non mancano nel politeismo antico anche rivelazioni (→) e libri sacri (→), come è il caso di alcune
delle religioni greche dei misteri, come l’Orfismo (→). In generale però le rivelazioni sono un tratto
tipico delle religioni monoteiste (vedi la voce Monoteismo: →).
Nel mondo greco anche in filosofia sono presenti posizioni politeiste, ad esempio in modo esplicito
in Epicuro, la cui concezione degli dèi non dà luogo ad una religione, ma consente di assumere gli
dèi come modello per la vita umana. In modo molto sfumato, sempre sotto il velo del mito, il
politeismo è fortemente presente in Platone, nella cui filosofia il fenomeno religioso, le tradizioni
dei padri, le religioni misteriche sono comunque passate al vaglio dell’analisi dialettica. Alcuni
grandi miti platonici sono leggibili in chiave politeista e una sorta di religione astrale – al confine tra
filosofia, religione e scienza – sulla base del Timeo (→) platonico si è in effetti storicamente
prodotta.
Polites / Politeia
Polites è il cittadino, cioè colui che è titolare di diritti politici a pieno titolo (non lo sono in Grecia le
donne, non i meteci (→), per nulla gli schiavi). Aristotele ne dà una definizione molto netta (ma
scrive nella seconda metà del IV secolo a.C., quando la vita delle poleis (vedi la voce Polis: →) che si
autogovernavano era ormai fortemente insidiata o stava per scomparire): “Il polites (cittadino) in
senso assoluto non è definito da altro che dalla partecipazione alle funzioni di governo e alle cariche
pubbliche” (Politica).
La nozione di politeia è più complessa perché indica concetti che nella cultura greca delle poleis
erano sentiti associati in modo così stretto da essere espressi da un solo termine, mentre per noi
sono concetti sì associati, ma distinti, per i quali utilizziamo termini diversi.
Politeia è quindi:
- la costituzione di una polis, cioè l’insieme delle leggi che definiscono il regime politico secondo cui
si regge; le tipologie storicamente attestate, così classificate da Aristotele nella Politica, sono
essenzialmente tre: l’oligarchia, la democrazia, la monarchia, oltre alle loro degenerazioni e a varie
forme miste;
- il corpo civico: sono i cittadini-polites che insieme formano la cittadinanza-politeia; tipico il fatto
che per indicare lo stato ateniese o spartano in greco si dica “gli Ateniesi” o “gli Spartani”;
- il diritto giuridico di cittadinanza, che si acquisisce per nascita, ma può anche (a seconda dele
costituzioni delle singole poleis) essere concesso in determinati casi.
Abbiamo indicato nella voce Politica (→), alla quale rimandiamo, l’indicazione dei problemi
filosofici connessi alle nozioni di polis, di polites e di politeia.
Politica
La nozione di politica (in greco politike) come tema filosofico percorre quasi l’intera storia della
filosofia greca, nel senso che quasi tutti i filosofi e le scuole hanno posto a tema l’uno o l’altro dei
problemi specifici di questo campo di studi. Tuttavia la definizione dei problemi e la loro
articolazione rispetto al contesto è stata molto diverse per le diverse epoche. Va poi precisato che
l’idea che la politica costituisca una sfera autonoma di indagine non è stata elaborata dalla filosofia
greca. È una tesi moderna, nata nel contesto del Rinascimento italiano ed europeo (a partire da
Machiavelli). Per i Greci la politica
- è collegata strettamente alla filosofia della natura e alla scoperta delle leggi che la regolano: così è
per i primi filosofi (valga per tutti la tesi di Eraclito che un’unica legge domina sull’universo, sugli
dèi e sugli uomini) e, nel contesto di una teoria molto diversa, per gli Stoici;
- è collegata strettamente all’analisi dell’identità profonda dell’uomo, e in specifico della sua anima
(così in Platone);
- è parte dell’etica, e con essa forma un tutt’uno (così in Aristotele).
Autonoma e definibile separatamente rispetto alle altre discipline filosofiche, la politica non lo è
mai.
Sotto un certo aspetto, la politica – il termine è legata alla parola polis – come disciplina filosofica è
lo studio delle relazioni che legano la vita della polis ai dati portanti della natura universale e della
natura umana. La politica come disciplina filosofica si distingue quindi in modo piuttosto netto (ma
Platone tenta di far in modo che siano invece nozioni sovrapponibili con la sua teoria che vede i
filosofi come uomini politici ideali) dalla politica come arte del governo della polis, di cui sono
esperti coloro che concretamente fanno politica. Il suo obiettivo è
- l’ancoraggio della legge che governa la polis a un solido sistema di certezze razionali che abbiano la
loro base nella natura stessa, ivi compresa l’elaborazione di una teoria della giustizia che consenta di
distinguere il giusto e l’ingiusto nella legge;
- la definizione di una teoria dello Stato che chiarisca gli obiettivi dell’azione politica in diretto
rapporto con gli obiettivi etici (dato il rapporto tra il cittadino e la polis, che è stato molto stretto
fino all’età ellenistica esclusa, nessun obiettivo etico può essere raggiunto se non in un contesto
politico).
Poros
Vedi Penia e Poros
Poseidone
Divinità forse di origine pregreca, nella mitologia greca è signore del mare e delle acque, così come
Ade è il signore degli Inferi e Zeus il signore dei cieli – ripartizione questa successiva alla vittoria di
Zeus su tutti gli altri dèi, e all’instaurazione dell’ordine immutabile di Zeus (Poseidone e Ade sono
suoi fratelli); così ad esempio nella Teogonia (→) di Esiodo.
In uno strato più antico del mito Poseidone doveva essere associato alle potenze della terra, ed a
questo più antico epos risale probabilmente l’associazione tra questo dio e animali come il toro e,
soprattutto, il cavallo.
Posidonio
Vedi Stoicismo
Possibile / Possibilità
Benché siano presente nelle concezioni filosofiche del V secolo a.C., le nozioni di possibile e di
possibilità sono al centro della riflessione soltanto a partire dal IV.
In Aristotele il possibile (dynaton) è ciò che è contenuto nell’essere in potenza (→) prima di essere
realizzato in atto. Il possibile è quindi un modo dell’essere di un ente. In Metafisica V-12 è definito
come ciò la cui realizzazione non implica contraddizione o, il che è lo stesso, ciò che non è
impossibile che sia. Aristotele studia questa nozione anche in sede logica.
I Megarici polemizzarono contro la nozione di possibile in quanto potenziale, osservando che il
possibile è soltanto ciò che in effetti si realizza, e non anche quello che, pur in potenza, poi in effetti
non si realizza. Il possibile non è quindi riconducibile al potenziale, come in Aristotele, ma alla pura
necessità prima che si realizzi.
I Megarici su questo punto erano eredi della tradizione eleatica, che applicavano a temi discussi tra
l’età di Platone e quella di Aristotele. Da un punto di vista eleate, se si ammette la nozione di
possibile deve anche ammettersi quella di non-essere, o non-ente, perché il possibile non è reale, ma
(forse) lo sarà: e questo implica un passaggio dal non-essere all’essere. Non a caso Platone aveva
escluso la nozione di possibilità dalla sfera delle idee – forme immutabili e quindi prive di qualsiasi
tipo di potenzialità – mentre l’aveva ammessa per l’universo fisico soggetto al tempo (un mondo
eracliteo, in continua trasformazione, privo di pienezza dal punto di vista dell’essere).
In ogni caso in Aristotele la nozione di possibilità, se spiega il movimento (passaggio dalla potenza
all’atto, e quindi realizzazione di alcune potenzialità ad esclusione di altre), implica una minore
perfezione: è l’atto nella sua pienezza ad essere davvero reale, non il possibile (per questa superiorità
dell’atto, Dio deve da Aristotele essere concepito come atto puro privo di ogni forma di potenzialità
e quindi di possibilità).
Benché manchino i testi originali su questo specifico punto della teoria (a noi nota da Lucrezio),
nella dottrina del clinamen (→) di Epicuro è possibile intravedere una visione diversa della
possibilità rispetto ai Megarici e ad Aristotele. Infatti il clinamen consente il movimento e spiega
come nasca lo stato dell’universo fisico che è oggetto della nostra esperienza, ma non è l’attualizzarsi
di una potenzialità: non modifica in qualcosa l’essere degli atomi, quindi rispetta su questo punto sia
la visione parmenidea che quella eraclitea. Dunque il clinamen implica un diverso tipo di possibilità
perché
- non richiede il passaggio dal non-essere all’essere, in quanto non trasforma l’essere degli atomi;
- non è passaggio dalla potenza all’atto;
- è un carattere specifico dell’essere degli atomi, una possibilità sempre presente che, anche una
volta realizzatasi, può nuovamente realizzarsi.
Potenza
Vedi Atto / Potenza
Potere
Il termine è utilizzato soprattutto nel contesto della filosofia politica, ma molti filosofi trattano
questo tema – in sé politico – in stretta connessione con la loro concezione della natura. Se
definiamo il potere come la capacità di compiere un’azione che sia effetto di una scelta, e quindi
dalla propria volontà libera, è ovvio che nessun uomo ha un potere assoluto e che il potere di
ciascuno collide col potere degli altri, perché ciascuno è soggetto di scelte indipendenti. Il contesto
in cui la nozione di potere acquista senso è quello della natura, perché l’uomo vive soggetto alle leggi
di natura e qualunque sia il suo potere esso è sempre limitato al contesto naturale. Valgono quindi
per il potere le riflessioni che abbiamo proposto per il libero arbitrio (vedi la voce Libertà: →).
Si pongono quindi una serie di problemi, rilevati già dalla filosofia greca e trattati in tutti i tempi:
- poiché l’uomo è soggetto alla natura e alle sue leggi, il suo potere è limitato; ma qualsiasi potere
concesso all’uomo dalla natura è legittimo? oppure vi sono istanze superiori che lo limitano
ulteriormente? i filosofi che pongono una sfera di valori superiore a quella della natura (ad esempio
Platone) guardano al tema del potere in stretta dipendenza da questi valori; i filosofi che rifiutano il
dualismo tra natura e istanze superiori cercano la risposta a questa domanda nel contesto della
natura stessa, variamente interpretata; altri cercano nell’uomo stesso (tentando di identificare una
radicale autonomia della mente) la via di soluzione al problema;
- come deve essere strutturata la società perché la questione del potere sia trattata in termini di
giustizia? una società giusta ed equa deve garantire dall’esterno (attraverso norme, istituzioni,
sanzioni) che i singoli siano protetti dal potere che altri possono esercitare su di loro? se sì, entro
quali confini deve esercitarsi la reciproca libertà tra gli individui sui temi sociali ed economici?
- questi problemi riguardanti la società hanno un importante risvolto politico, che apre alle
questioni di quello che oggi chiamiamo costituzionalismo: i filosofi pongono infatti la domanda sulla
legittimità del potere dello Stato, sui suoi fondamenti e sui suoi limiti, sul potere dei cittadini
rispetto a quello dello Stato, e così via; in estrema sintesi: su quali basi deve essere fondato e
strutturato lo Stato perché il suo potere sia legittimo e giusto?
- più in generale la questione del potere entra nel gioco di qualsiasi relazione umana, compresa
l’amicizia, l’amore, e così via; la filosofia pone quindi la domanda sul rapporto tra la spontaneità
della vita - che si esprime nelle emozioni, nei sentimenti, nell’arte, e così via – e le forme strutturate
della società che implicano relazioni di potere: ad esempio, in che rapporto stanno le relazioni di
potere legate ai rapporti d’amore rispetto alla naturale spontaneità di questo sentimento?
Potidea
Città greca sull’istmo della penisola calcidica, era colonia corinzia. Alla metà del V secolo a.C.
faceva parte della Lega di Delo, e quindi era alleata di Atene. Ma Corinto, con cui aveva stretti
rapporti, era legata alla Lega Peloponnesiaca, e quindi era alleata di Sparta. Quando il conflitto tra
Atene e Sparta divenne insanabile, Potidea subì un forte pressione da parte dell’Atene di Pericle che
sfociò in un attacco militare ateniese contro quella che era ormai una ex alleata. L’assedio durò dal
432 al 430 a.C., e determinò l’intervento spartano a difesa di Potidea.
Questo episodio fu una delle cause scatenanti della Guerra del Peloponneso.
Pratica / Pratico
Dal greco praxis, che significa azione, l’aggettivo pratico (praktikos) indica tutto ciò che è relativo
all’azione, spesso detto in contrapposizione a ciò che è relativo alla pura sfera della conoscenza (in
questo senso l’aggettivo pratico si contrappone a teoretico, o contemplativo: →).
È soprattutto Aristotele a separare in modo netto le scienze che hanno a che fare con la pratica da
quelle che hanno a che fare con la conoscenza pura. Le scienze pratiche sono la politica e l’etica
(viste in un unico quadro d’insieme) l’economia, la retorica, l’arte militare, che vanno anche distinte
dalle attività produttive (vedi Poietico: →), che implicano la lavoro manuale, come quello degli
artigiani o dei contadini.
La base teorica delle discipline pratiche non riposa su uno stesso grado di certezza della metafisica o
della matematica, per cui si tratta pur sempre di scienze su cui non si può raggiungere lo stesso
grado di certezza.
Predicato / Predicabile
Traduciamo con predicato il termine greco kategorema, mentre kategoroumenon è il predicabile. Il
contesto è quello tecnico degli scritti logici di Aristotele, e poi degli Stoici: all’interno di una
proposizione il predicato è infatti ciò che si afferma del soggetto (la definizione è in Aristotele,
Categorie, IV).
Presocratici
La dizione presocratici per indicare i primi filosofi del VI e del V secolo a.C. è recente. Ha una storia
ottocentesca ed è poi stata introdotta nel 1903 dal filologo Hermann Diels (→) che ha intitolato I
presocratici la sua raccolta sistematica dei frammenti e delle testimonianze antiche su questi filosofi,
compresi quelli dei Sofisti e di Democrito che sono contemporanei di Socrate (Democrito anzi visse
ancora un trentennio dopo la sua morte).
La dizione rimanda all’idea che con Socrate la filosofia greca ha subito una svolta radicale, passando
dalle indagini naturaliste all’indagine sull’uomo e soprattutto sulla sua anima. Benché sia stata e sia
oggetto di severe critiche (in ordine sia alla cronologia, sia al ruolo di Socrate nel contesto della
filosofia greca), la dizione è entrata stabilmente nell’uso.
Principio
Veri Arche
Pritaneo
In varie poleis greche (così anche ad Atene) il pritaneion era l’edificio in cui avevano la loro residenza
ufficiale i pritani, titolari di una delle magistrature più importanti con funzioni diverse a seconda
delle diverse epoche storiche e dei regimi politici (nell’Atene democratica i pritani erano 50 e
restavano in carica per la decima parte dell’anno – quindi poco più di un mese – con vari compiti,
tra cui la preparazione dei lavori della Boule).
Il pritaneo era in origine un edificio pubblico – simile alle case private – in cui ardeva il focolare
sacro della comunità; qui i magistrati prendevano i pasti in comune, e qui si ricevevano gli ospiti
illustri.
Privazione
In Aristotele la steresis - cioè la privazione – si contrappone al possesso di una determinata forma da
parte di un ente. Questa mancanza gioca un ruolo importante nel passaggio dalla potenza all’atto
che termina il divenire, perché è in ragione di una certa privazione che si mette in modo il
dinamismo del cambiamento, per acquisirla (Metafisica, V-22).
Probabilità
Il termine greco pithanon, che traduciamo con probabilità, significa alla lettera attendibilità,
persuasività. È termine utilizzato dagli scettici, e in particolare dai filosofi dell’Accademia di Mezzo,
Arcesilao e Carneade (vedi le rispettive voci: →) per indicare il fatto che, se la verità è inafferrabile,
non è detto che ogni conoscenza sia egualmente erronea. Al contrario, per ogni nostra conoscenza
c’è un certo grado di vicinanza e di lontananza rispetto alla verità, e l’obiettivo della ricerca
filosofica è determinare il grado di probabilità delle conoscenze utili alla vita, in modo che sulla base
di queste si possa scegliere come agire.
Le dottrine specifiche della scuola non ci sono note nei dettagli, ma questa filosofia del probabile ebbe
un notevole successo nel periodo ellenistico e romano, e i Romani con la loro esigenza di ricavare
dalla filosofia regole pratiche per la vita ne rimasero profondamente influenzati.
Problema filosofico
La nozione di problema (dal greco problema) non è specificamente filosofica, perché tutte le scienze
e tutte le arti definiscono e affrontano problemi. E ciascuna disciplina ha problemi specifici, e anche
una propria concezione della nozione stessa di problema (si hanno quindi problemi matematici,
fisici, filosofici, così come si hanno problemi pratici, operativi, teorici, e così via).
L’uso del termine è stato introdotto a partire dagli ambienti matematici dell’antichità, ed è stato poi
precisato da un punto di vista logico da Aristotele, che se ne occupa in Topici I.
Per la natura della filosofia così come è stata intesa dai Greci, un problema si caratterizza come
filosofico quando – qualsiasi tema riguardi: pratico, operativo, teorico, e così via – il suo esame e
quindi la sua soluzione passa attraverso una teoria generale che inquadra lo specifico tema di cui si
tratta in un ordine generale di comprensione della realtà.
Ad esempio:
- un problema è politico quando riguarda determinate relazione di potere all’interno della polis o tra
le poleis; diventa un problema di filosofia politica quando è esaminato alla luce di una teoria generale
sulla polis, sulla natura umana, sulla posizione dell’uomo nel cosmo;
- un problema è fisico quando riguarda uno specifico aspetto delle leggi che governano la natura;
diventa un problema di filosofia della natura quando viene esaminato e portato a soluzione (se questo
è possibile) alla luce di una teoria generale sulle leggi che governano la natura universale;
e così via.
Processione
Vedi Emanazione
Proclo
È uno degli ultimi filosofi greci, attivo presso la Scuola di Atene (→) nel V secolo d.C.
Nato a Costantinopoli intorno al 410 d.C., studiò ad Alessandria per poi trasferirsi ad Atene e
divenire scolarca della Scuola neoplatonica. Qui compose e pubblicò le sue opere più importanti,
che consistono in una lunga serie di commenti alle opere platoniche (Commentari alla Repubblica, al
Timeo, al Parmenide, e così via) e nell’esposizione sistematica del neoplatonismo pagano (in opere
dal titolo Istituzione teologica e Teologia platonica).
Proclo si pose l’obiettivo di offrire una sintesi sistematica del pensiero e della religione della Grecia
seguendo l’asse portante della filosofia neoplatonica, letta in chiave religiosa (gli antichi dei dèlla
mitologia greca erano reinterpretati filosoficamente) pur mantenendo le caratteristiche filosofiche
che risalivano a Plotino.
Prodico
Nato tra il 470 e il 460 a.C., Prodico di Ceo fu il primo dei sofisti a ricoprire nella sua città cariche
politiche. Fu ai suoi tempi un sofista molto noto, e la tradizione vuole che abbia accumulato una
fortuna con il suo insegnamento.
Come scrittore, gli si attribuiscono 23 opere, di cui non ci restano che frammenti. Nelle Ore, un
trattato su temi etici e religiosi, sembra che abbia sottolineato il valore morale delle decisioni e della
responsabilità individuale: è in questo contesto che è proposto l’apologo di Eracle al bivio, a noi noto
nella versione di Senofonte, in cui si narra che a 15 anni, posto di fronte alla scelta tra una vita
agevole e ricca di piaceri e una lunga e faticosa, Eracle scelse questa seconda. Nella stessa opera era
presente una tesi razionalista sull’origine della religione, che sarebbe nata secondo Prodico dal
desiderio di ingraziarsi le forze naturali personalizzandole e divinizzandole.
Platone nel Protagora ironizza a proposito dello studio sul linguaggio condotto da Prodico, che lo
aveva portato a scrivere un’opera, il Trattato di sinonimica, con l’obiettivo di classificare le sfumature
lessicali tra i sinonimi. In realtà questo studio di tipo linguistico non doveva essere molto lontano
dalla pratica socratica di giungere ad una definizione precisa delle parole, o dagli studi di Democrito
sulla natura convenzionale del linguaggio.
Prolessi
L'anticipazione o prolessi (dal greco prolexis) è termine utilizzato dalle scuole ellenistiche a proposito
della conoscenza umana. Epicuro indica con questo termine i concetti - che a suo avviso si formano
con l'accumularsi delle sensazioni nella memoria - perché permettono di "anticipare" la conoscenza
della realtà, di sapere sulla realtà molte cose che essa non è in grado di dirci con la sola osservazione:
l'anticipazione è il frutto dell'esperienza accumulata e sedimentata. La teoria epicurea che interpreta
i concetti come anticipazioni esclude quindi per essi ogni valore autonomo e ogni esistenza
indipendente, come invece riteneva Platone. Ogni conoscenza intellettiva è ricondotta alle sue basi
sensibili.
Presso gli stoici l'anticipazione è il risultato di un processo di associazione di idee.
Prometeo
Antica figura del mito presente in molte narrazioni che coinvolgono sia gli dèi che gli uomini,
Prometeo è legato alle origini della civilizzazione dell’uomo e quindi alle tecniche. Il suo nome
significa letteralmente colui che pensa prima, e quindi è associato a quella forma di saggezza pratica
che consiste nel pensare prima di agire e nel progettare. È lui a portare semi di fuoco (→) agli
uomini sottratte alla fucina di Efesto o al Sole, avviandoli così a compiere i primi passi verso la
civiltà.
Il mito racconta che fu punito per questo da Zeus che lo incatenò su una rupe del Caucaso e mandò
un’aquila a divorargli il fegato, con un supplizio che non aveva mai fine perché il fegato ricresceva
sempre, e sempre veniva divorato. Liberato da Eracle, nel mito si riconciliò con Zeus e ottenne
l’immortalità.
La sua figura è associata a quella di Pandora (→), perché dopo il furto del fuoco Zeus decise di
punire gli uomini inviando questa figura femminile.
In ambito filosofico, Prometeo col fratello Epimeteo è protagonista di un mito filosofico narrato da
Platone nel Protagora (→).
Prometeo incatenato
Titolo di una tragedia di Eschilo. Secondo gli studiosi è di dubbia attribuzione. Non se ne
conoscono, inoltre, né la data né l’occasione della rappresentazione. Si ipotizza facesse parte di una
trilogia, preceduta dal Prometeo portatore di fuoco e seguita dal Prometeo liberato. Un altro motivo
della dubbia paternità di quest’opera risiede nel fatto che qui Zeus non appare come il supremo e
giusto reggitore, quanto come un tiranno, a differenza delle altre tragedie eschilee. Ciò nonostante
quest’opera e la figura di Prometeo in essa raffigurata costituiscono un punto di riferimento
fondamentale della cultura occidentale.
La scena in cui si svolgono i fatti coinvolge solo divinità. Siamo nella Scizia, terra desolata; il titano
Prometeo, figlio di Giapeto, fratello di Crono, è punito da Zeus per aver donato agli uomini il
fuoco. La sua punizione è quella di essere legato ad una rupe, esposta alle tempeste, con catene più
dure del diamante. Lo legano due figure simboliche, Violenza (Kratos) e Forza (Bia), e un avvoltoio
gli divorerà eternamente il fegato che sempre tornerà a riformarsi. L’origine di questa punizione non
risiede in una maledizione, ma nella volontà e nella scelta di Prometeo stesso: “Spensi all’uomo la
vista della morte. Seminai la speranza, che non vede. Poi li feci partecipi del fuoco”. Prometeo è dunque
colui che di sua volontà ha deciso di aiutare i mortali, sfidando il tiranno Zeus e subendo così la
collera del padre degli dèi. Arrivano sulla scena le Oceanine, che tentano di portare conforto a
Prometeo; poi Oceano, che vuole indurlo alla rassegnazione; poi Io, tramutata da Zeus in mucca e
resa folle nel suo eterno viaggio a cui il Titano predice la sua futura liberazione; e infine Ermes. A
nulla valgono le parole di conforto e i consigli dispensati: Prometeo ribadisce che la punizione e i
tormenti che sta subendo sono la conseguenza della sua volontà.
Il protagonista potrebbe avere una via d’uscita: conosce infatti un segreto che può rovinare Zeus.
Teti, di cui Zeus è innamorato, genererà da questi un figlio in grado di sconfiggere il padre. Zeus
tenta di estorcere a Prometeo, attraverso Hermes, il segreto offrendogli in cambio la liberazione dal
tormento, ma il Titano rifiuta, rimanendo fedele alla propria missione di protettore degli uomini e
alla libera scelta compiuta. Prometeo si dimostra così superiore perché capace di accettare i tormenti
e le sofferenze, di resistere alle lusinghe e alle minacce per affermare l’autonomia del suo destino. Il
segreto non viene perciò rivelato e Zeus scaglia un fulmine contro la rupe a cui Prometeo è legato
affinché questi rimanga schiacciato.
Delle tragedie non pervenute, sappiamo che Zeus e Prometeo si riconcilieranno cosicché forza e
saggezza potranno rinsaldare la sovranità diventata così più forte e giusta.
Proposizione disgiuntiva
Vedi Sillogismo
Proprietà
I filosofi greci non hanno dedicato specifica attenzione al tema della proprietà, come invece è
avvenuto in età moderna e contemporanea. Non c’è quindi stato un dibattito ampio. Vi sono
tuttavia almeno due luoghi celebri:
- nel Libro V della Repubblica Platone, nel delineare i caratteri del suo Stato ideale, ha proposto il
collettivismo per i filosofi e i guerrieri nelle proprietà materiali e sulle questioni familiari, donne e
figli compresi: vedi la voce Comunismo (→);
- in Politica II-3 Aristotele osserva gli svantaggi della proprietà comune perché di esse ci si prende
meno cura delle private; osserva anche che, quando ci si prende molta cura delle pubbliche, è perché
tornano a vantaggio delle private.
Come per ogni altro tipo di ricchezza, anche la proprietà è considerata con scarsa attenzione dai
filosofi ellenisti, quando non duramente screditata: Diogene il Cinico propone di rinunciarvi in
nome della libertà, e quando vede un bambino che beve avendo per bicchiere il cavo della sua mano
butta via, perché superflua, persino la ciotola che portava con sé; gli Epicurei la ammettono, ma con
prudenza, e sempre nel contesto del calcolo degli utili; quanto agli Stoici, anch’essi la ammettono,
ma non incide su quel che conta, cioè la libertà del saggio, perché non è che uno degli indifferenti
(→).
Protagora
Protagora è il primo dei grandi sofisti del V secolo. Nacque ad Abdera nel 485 a.C. e viaggiò molto,
fermandosi in diverse città ad insegnare, acquisendo notevole fama. Ad Atene si legò al circolo di
intellettuali che si radunavano intorno a Pericle. Non ebbe quindi una vera e propria patria, anzi
come sofista itinerante professava una sorta di cosmopolitismo, tipico della scuola. Quando Pericle
volle fondare la colonia panellenica di Turi, intorno al 440, Protagora venne incaricato di
formularne le leggi. Secondo la tradizione, anch’egli – come Anassagora, Socrate ed altri – avrebbe
subito un processo per empietà, e, condannato, avrebbe dovuto abbandonare la città. Autore di
diverse opere, non ci restano di lui che frammenti, come il celebre “l’uomo è la misura di tutte le cose”,
frase che inaugura il relativismo (→) nella filosofia greca. La sua opera più importante è La verità, o
discorsi sovvertitori.
Provvidenza
Il termine greco pronoia che i latini traducevano con providentia, e noi con provvidenza, indica la
capacità di previsione della mente: pronoia è composto dalla stessa radice di nous, mente, e dalla
preposizione pro, davanti a.
Gli Stoici ne hanno fatto un termine tecnico della loro filosofia attribuendo al Logos universale
questa capacità di previsione, di pensare avanti: il Logos è così in grado di ordinare il mondo
disponendo ogni cosa secondo la piena compiutezza dell’essere del Tutto.
La provvidenza non va quindi concepita come un intervento esterno o correttivo rispetto al corso
naturale degli eventi, ma come la piena razionalità di ciascun evento naturale in ordine al Tutto.
Nello Stoicismo il tema della provvidenza si collega al problema filosofico del male (→), perché la
percezione umana dell’imperfezione della natura e della presenza del male nel mondo si rivela un
errore prospettico: interpretiamo come male determinati aspetti della realtà perché non capiamo le
ragioni per cui il Logos ha ordinato così gli eventi. In realtà quel che ci sembra male e imperfezione è
tale solo per la nostra ignoranza: è invece necessario – assolutamente indispensabile – per la
perfezione della realtà intera (su questa nozione di necessità vedi la voce Necessità: →).
Psyche
Traduciamo psyche con anima, ma il significato di questo termine greco appartiene ad una sfera
religiosa e filosofica precedente a quella cristiana; quindi c’è sempre il rischio di dare al termine
anima (che deriva per noi dal latino anima) un significato che il termine psyche per un greco non
aveva, e di non associarlo a significati che invece aveva. Precisiamo dunque il significato di psyche
nella cultura greca, che ha una lunga storia:
- in Omero la psyche è il soffio vitale, che si concretizza in quella parte dell’uomo che, al momento
della morte, abbandona il corpo e si reca nell’Ade, dove vive una vita larvale, simile a fumo (così, ad
esempio, vede le “ombre” Ulisse nel suo viaggio agli Inferi descritto nell’Odissea);
- nelle religioni dei misteri, in particolare nell’Orfismo (le cui concezioni sono simili a quelle
pitagoriche e a quelle descritte da Empedocle), la psyche è una sorta di demone indipendente dal
corpo, che può anche vivere varie vite reincarnandosi, secondo le antiche credenze sulla
metempsicosi (→);
- qualunque sia la teoria filosofica sulla natura della psyche, quando i filosofi (dai primi naturalisti
agli ellenisti) usano questo termine e pongono il problema della sua identità (spirituale, materiale, o
altro), ciò di cui parlano è la forza che è identica in qualsiasi vivente e lo rende, appunto, vivo: in
questo senso sono comuni espressioni del tipo anima vegetativa, o anima sensitiva, in riferimento
anche alle piante e agli animali.
Detto questo, per una chiarificazione sui problemi filosofici connessi alla psyche, e per un quadro
complessivo delle teorie filosofiche, rimandiamo alla voce Anima (→).
Puniche (Guerre)
Sotto il nome unitario di Guerre Puniche la storiografia romana raccoglieva quel lungo complesso di
eventi bellici che, in tre distinte fasi, caratterizzarono lo scontro tra Roma e Cartagine fra la metà
del III secolo a.C. e la metà del secolo successivo. A seguito di queste guerre Roma, che prima
controllava soltanto la penisola italiana dagli Appennini Tosco-Emiliani alla Calabria, divenne una
potenza non solo di terra ma anche di mare, con il controllo diretto o indiretto di tutte le coste del
Mediterraneo occidentale, e poté quindi rivolgersi (anche in questo caso vittoriosamente)
all’Oriente.
Le guerre sono dunque tre:
- la Prima Guerra Punica va dal 264 al 241a.C, e si concluse con la vittoria romana, in seguito alla
quale venne mantenuto il controllo della Sicilia, divenuta la prima Provincia, conquistata nel corso
degli eventi bellici;
- la Seconda Guerra Punica, scoppiata dopo varie violazioni della pace che aveva chiuso la precedente,
va dal 218 al 201 a.C, vide i Cartaginesi con Annibale portare la guerra in Italia, e si concluse con
una radicale vittoria romana, che le consentì di diventare una potenza mediterranea con
l’acquisizione di un vasto arco di territori dalla Pianura Padana alla Provenza alla Spagna;
- la Terza Guerra Punica va dal 149 al a46 a.C., un’epoca in cui ormai Cartagine non era più una
potenza militare, anche se manteneva attivamente i suoi commerci, conclusasi con la totale
distruzione della città stessa e la dominazione diretta romana dei suoi territori.
Purificazione [Riti di]
Nel contesto religioso della Grecia della mitologia e delle religioni dei misteri, i riti di purificazione
erano le pratiche che miravano ad eliminare la contaminazione e lo stato di impurità, concetti
magico-religiosi per i quali rimandiamo alla voce Contaminazione (→).
Puro / Impuro
Vedi Contaminazione
Quadrifarmaco
È dizione della tradizione epicurea. Il metodo pedagogico epicureo prevede che il contenuto della
dottrina sia espresso in modo da poter essere facilmente memorizzato: per questo si avvale di
formule efficacemente espressive. La più famosa di queste formule – molte delle quali risalgono a
Epicuro, mentre altre sono della sua scuola – è probabilmente il cosiddetto quadrifarmaco (dal greco
tetrapharmakon), un insieme di quattro sentenze che racchiudono una parte del contenuto essenziale
dell’etica di questa scuola, presentato come farmaco contro l’inquietudine della vita umana e contro
la sofferenza.
Un epicureo del I sec. a.C., Filodemo di Gadara, ci riporta in forma molto sintetica le formule del
tetrapharmakon:
1) gli dèi non sono da temere;
2) non c’è rischio da correre nella morte;
3) il bene è facile a procurarsi;
4) il male è facile da sopportare con coraggio.
La necessità di simili formule adatte ad una pedagogia per i non-filosofi nasce dal fatto che la
filosofia di Epicuro si rivolge a tutti, e deve quindi adeguarsi nei suoi mezzi espressivi anche a chi
non ha capacità, possibilità o interesse ad approfondire i tecnicismi filosofici della dottrina. Essa si
presenta non come una complessa indagine per pochi iniziati, ma come una ragionevole guida per
tutti.
Questione omerica
Vedi Omero
Quinta essenza
In ambiente latino – e poi medioevale - si indicava con la dizione quinta essenza l’etere, cioè
l’elemento naturale di cui Aristotele riteneva fossero fatti i cieli. Qualsiasi sostanza del mondo
sublunare sarebbe invece composta da uno dei quattro elementi – l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco –
o dalla loro mescolanza. Rimandiamo quindi alla voce Etere (→).
Racconti filosofici e aneddoti
Tra le opere della storia della filosofia antica, o al loro interno, si trovano diversi generi letterari
riconducibili al comune denominatore della narrazione.
L’aneddoto, la metafora narrata, l’aforisma a base narrativa
Platone e Aristotele raccontano ciascuno un aneddoto su Talete e di questi uno, in cui Talete
compare accanto ad una servetta tracia, è forse tra i più noti della storia della filosofia. La letteratura
aneddotica è molto ricca per la filosofia greca e in generale si caratterizza per l’avere come
protagonisti i filosofi stessi che, attraverso un loro comportamento, esemplificano in concreto un
concetto. Questo genere letterario fiorisce in età ellenistica, un’età in cui la figura di Diogene con la
sua lanterna, la botte e il suo breve e celebre scambio di battute con Alessandro Magno può valere
più di un trattato. L’aneddoto in genere è presentato come una forma di caratterizzazione della
persona di un filosofo, prima che delle sue idee, secondo un modello di filosofia come pratica di vita
che unisce con coerenza pensiero e azione, modello che percorre tutta la filosofia antica.
Questa forma di aneddotica, legata alla persona del filosofo (secondo un modello di legame tra la
persona e le tesi che incarna assai diverso da quanto accade nella scienza, dove pure fioriscono
racconti, e tutti sanno di Newton e della mela) si diversifica nettamente da un’altra forma presente
nei testi filosofici, e cioè l’aneddoto o la metafora narrata presentati dal filosofo stesso come racconto
breve, anche in forma aforistica.
Il racconto come via alternativa (metaforica) alla analisi mediante concetti
Il racconto come via alternativa alla esposizione razionale è spesso ed esplicitamente utilizato da
Platone. Il caso esemplare, e sempre citato, è all’inizio del Protagora, quando Protagora risponde alla
domanda di Socrate in due modi, dapprima con il racconto di Prometeo ed Epimeteo, poi mediante
una analisi attraverso argomenti razionali e d’esperienza. Il racconto qui non è la descrizione di un
caso particolare di cui il concetto è l’universale, ma ha un significato metaforico, su un registro
narrativo alternativo all’analisi concettuale, che viene condotta prima o in un secondo tempo (in
Platone avviene spesso: oltre al caso citato è così per il mito della Caverna, narrazione collocata tra
due analisi di tipo concettuale che la precedono e la seguono e addirittura fornita di una sorta di
interpretazione autentica), oppure non viene condotta affatto (si pensi in Platone al mito di Er che
chiude la Repubblica).
Il racconto così usato è quindi espressione di una forma del pensiero per immagini che ha una sua
logica interna autonoma: vive di vita propria, più dell’apologo o della metafora narrata, perché
queste forme sono più strettamente connesse ad elementi concettuali (appartengono al registro della
similitudine: l’apologo, l’aneddoto, "somigliano" al concetto – uno, piuttosto che una costellazione
concettuale -, tutto accade come se…) e non se ne intende il senso se non in rapporto al concetto, di
cui sono diretta espressione (nella loro connessione con valori emotivi, che possono essere estranei al
concetto in quanto tale, ma non al processo con cui la mente lo forma). Il racconto breve, invece,
deve essere "interpretato". La sua relazione al concetto è quella di una porta di ingresso ad un
mondo "diverso": Platone scrive spesso, introducendo uno dei suoi racconti, di regola nella forma
del mito (vedi Mito platonico: →), che non è possibile una analisi propria del problema trattato, di
tipo concettuale (di tipo "dialettico"), ed è più semplice (scrive frasi come "per ora è sufficiente", "ci
basti…") accostarsi alla soluzione di un problema mediante un racconto (che a volte inizia con il
richiamo alla forma della similitudine). Dunque il racconto breve ha caratteristiche non lontane
dall’aneddoto, dall’apologo, dalla metafora narrata, ma su un registro di maggiore autonomia:
molteplici linee di pensiero e di vita possono incrociarsi in esso – una multilateralità di vita -,
laddove il concetto ha una dimensione in sé unilaterale e ha bisogno di legarsi ad altri per restituire
il continuum della vita (in Platone non un concetto, ma una analisi dialettica che determina i
passaggi tra i concetti accompagna il racconto).
L’esempio, la descrizione di un caso
L’esempio (→), o la descrizione di una caso, sono usati come forme di argomentazione o di
comunicazione filosofica, in ultima analisi di "persuasione": strumenti che servono a convincere
mostrando la fondatezza del concetto non attraverso argomenti razionali astratti, colti nella loro
unilateralità razionale separata dalla vita, ma attraverso legami di vita e d’esperienza. E dunque
l’esempio risulta tanto più convincente quanto più è immediatamente intuitivo, e quindi legato ad
un mondo di esperienze che il lettore (o l’ascoltatore) riconosce come proprio. Spesso si percepisce
che l’esempio è legato all’esperienza stessa di chi scrive.
Qui il concetto è già formato, la teoria costruita: si tratta solo di mostrare attraverso il caso
particolare la validità della tesi generale, e questo fa sì che la concretezza dell’esperienza porti alla
forma del racconto.
Per un quadro generale dei generi letterari nella filosofia del’antichità si veda la voce Generi letterari
della filosofia antica (→).
Radice
In greco rizoma: il termine è utilizzato da Empedocle in senso metaforico per indicare gli elementi
d’origine della realtà, così come le radici (rizomata) sono l’origine della pianta a partire dal terreno:
fuor di metafora, questi elementi sono l’acqua, la terra, l’aria e il fuoco.
La dizione rizomata corrisponde quindi al termine elemento (stoicheia).
Ragione
Vedi Logos e Intelletto
Ragioni seminali
Con l’espressione logoi spermatikoi, che rendiamo in italiano con ragioni seminali (seguendo i latini,
che parlano di rationes seminales) a cui gli Stoici hanno dato un significato tecnico, si intende nella
loro teoria fisica l’insieme delle singole forze che generano gli enti, come espressione dell’unico
Logos.
Analoga espressione, ripresa dagli Stoici, usa Plotino per indicare lo stesso concetto, ma riportato
alla sua teoria sulla genesi dell’universo fisico a partire dall’azione dell’Anima del mondo. Una teoria
simile a quella dei logoi spermatikoi non era presente in Platone, e il fatto che Plotino l’abbia
introdotta nella sua visione dei rapporti tra il mondo delle ipostasi eterne e la sfera del sensibile e del
mondo sottoposto al tempo mostra come il neoplatonismo non sia solo una forma di platonismo,
ma una filosofia organica e originale (benché costruita nella forma del commento ad antichi testi) su
base platonica, ma sul modello delle grandi sintesi ellenistiche di tipo sistematico.
Rappresentazione catalettica
È la rappresentazione evidente che secondo gli Stoici rappresenta il criterio di verità: si ha quando la
mente si trova con immediatezza di fronte ad una verità che riconosce intuitivamente come tale,
comprendendola (il termine greco è katalepsis, che significa comprensione).
Su questa nozione sorse un ampio dibattito al tempo della prima Stoa, soprattutto perché
l’Accademia che in quel periodo aveva un indirizzo scettico negava che si potessero davvero avere
rappresentazioni di questo tipo.
Il contesto problematico in cui questa nozione è stata proposta dagli stoici è quello della conoscenza
umana e delle sue fonti.
Rapsodi
Vedi Aedi
Razionale / Razionalità
Vedi Ragione
Reincarnazione
Vedi Metempsicosi
Relativismo
È la posizione filosofica - sul tema della verità, del pensiero e dei valori etici – che per la prima volta
nella storia della filosofia greca è stata proposta da Protagora con il celebre motto “L’uomo è la
misura di tutte le cose” (→).
Il termine relativismo però è moderno e indica le teorie che
- negano la validità oggettiva, indiendente dal pensiero, della nozione di verità: se la verità è aletheia
(→), disvelamento, una volta disvelata essa non offre nulla di oggettivo, ma solo caratteri soggettivi,
quindi potenzialmente diversi da soggetto a soggetto senza alcuna contraddizione logica;
- sostengonono che un valore - di qualsiasi tipo: logico, etico, estetico, politico, e così via – può
essere affermato o negato solo da un soggetto, perché non esiste alcuna oggettività del valore: i
valori sono posti dal soggetto, sono scelti, non esistono in sé.
In una versione così radicale il relativismo nella filosofia greca è stato proposto solo dai Sofisti, e la
seconda sofistica ne ha tratto conseguenze più drastiche rispetto ai primi teorici del’età di Protagora
(vedi la voce Nomos / Physis: →). Versioni del relativismo più specifiche e limitate a determinati
settori sono invece presenti anche in altre scuole; ad esempio
- lo scetticismo non nega espressamente l’oggettività della verità, ma sospende il giudizio su questo
punto; ne deriva sul piano etico e su quello dell’assenso alle nostre conoscenze una posizione
relativista, ma solo per il fatto che non è possibile conoscere con certezza la verità, non perché si
sappia positivamente che una verità non c’è (la tesi scettica è che non si sa se c’è o non c’è);
- l’epicureismo nega che nella oggettività del mondo materiale (atomi e vuoto) vi siano valori etici,
ma non nega affatto che l’uomo possa conoscere la verità; il relativismo riguarda quindi soltanto il
piano delle scelte di ciascuno sul proprio stile di vita (il metro essendo il piacere e il dolore
soggettivi, non una qualche forma di bene e male oggettivi).
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. A parte queste due forme, generale e settoriale, del relativismo,
non vi sono nella filosofia greca altre posizioni che possono essere accostate a questa nozione. Ma si
parla a volte impropriamente di relativismo per indicare quelle posizioni, tipiche ad esempio degli
scienziati nel corso delle loro ricerche, che consistono nel sospendere il giudizio per mancanza di
dati certi sulla cui base affermare o negare una tesi. Queste posizioni non sono affatto relativiste nel
senso filsoofico del termine, perché affermare che non c’è la verità, o non la si può conoscere, non è
affatto la stessa cosa che affermare che non la si conosce ancora e una ricerca in un certo settore è in
corso. Ad esempio non è relativista la posizione epicurea sulle spiegazioni multiple (→), mentre è
relativista, in senso limitato, la teoria del piacere dei Cirenaici per il riferimento alla soggettività.
Se vogliamo indicare in breve a quali problemi è connessa la nozione di relativismo, in estrema
sintesi sono tutti i problemi si riducono a due, espresse dalle seguenti domande:
- esiste una verità oggettiva sulla realtà? se esiste, l’uomo può conoscerla?
- esistono valori oggettivi di qualsiasi tipo essi siano?
Religione
Il termine italiano deriva dal latino religio, la cui etimologia è discussa già dagli antichi (Cicerone
nel De natura deorum propone relegere, cioè scegliere con cura, considerare, detto in riferimento agli
atti di culto; Agostino propende per religare, cioè legare, vincolare).
In ogni caso per il termine religio nel mondo romano l’accento batte sugli aspetti rituali più che sulla
fede o sul rapporto personale con la divinità, in accordo con il carattere pubblico della religione
“ufficiale”, legata alle tradizioni e agli obblighi pubblici: religio è l’obbligo che il cittadino e lo Stato
riconoscono verso il mondo divino, ed è un obbligo che riguarda precisi comportamenti privati e
pubblici, innanzitutto i riti e le pratiche di culto. La religione è quindi l’espressione del legame che
unisce la sfera dell’umano a quella del divino. Il termine greco per indicare l’analogo concetto è
latreia, che indica in effetti il servizio divino.
Nel mondo romano la religio è sentita come pratica che richiede rigore, ma anche misura. C’è un
eccesso e un difetto: l’eccesso è la superstitio, un eccedere nelle forme di culto oltre il dovuto; il
difetto è la negligentia, cioè il trascurare gli atti di culto (il che può accadere tanto per semplice
incuria e negligenza, quanto per disprezzo).
Benché i filosofi antichi abbiano in molti casi teorizzato o supposto l’esistenza degli dèi, e in
qualche caso li abbiano anche proposti a modello per la via umana, la filosofia è sempre stata
considerata, senza eccezioni, indipendente dalla religione. Ne è diversa la matrice: la filosofia antica
si basa solo ed esclusivamente sull’esperienza (interna ed esterna) e sul ragionamento, e non
ammette fonti di verità indipendenti da queste.
Anche in filosofi come Platone, in cui la riflessione sul divino è particolarmente sentita, la verità
sugli dèi è comunque cercata con la ragione, per quanto ci si richiami nei passaggi dialettici a
tradizioni religiose e si propongano miti. La figura di Zeus degli Stoici è un nome per il Logos
universale, e in Plotino il rapporto che lega l’anima dell’uomo a Dio non ha nulla a che vedere con la
fede.
Questo tratto differenzia in modo radicale la filosofia antica da quella medioevale (che è ebraica,
cristiana, o islamica, mai priva di aggettivi che la leghino a una religione).
Reminiscenza
Nel Menone e nel Fedone di Platone la reminiscenza (anamnesis, da cui il termine medico italiano
anamnesi) è l’atto della mente con cui l’uomo ricorda idee che non ha imparato dall’esperienza in
vita, ma in una forma di vita precedente diversa da quella umana, a diretto contato con l’eterno
mondo delle idee.
Questa teoria, espressa in forma di percorso dialettico nei due dialoghi e in parte attraverso il ricorso
al mito (così anche nel Fedro), rielabora in modo del tutto autonomo e originale antiche dottrine
pitagoriche e consente a Platone
- di argomentare a favore della pre-esistenza dell’anima rispetto alla nascita, e quindi a favore della
sua indipendenza dal corpo e della sua vita immortale;
- di chiarire che la reminiscenza è la base della conoscenza delle idee, che non possono essere
apprese attraverso l’esperienza o liberamente formate dalla mente, e quindi devono avere
un’esistenza indipendente dalla mente stessa (teoria delle idee).
Per la differenza tra memoria e reminiscenza in Aristotele si veda la voce Memoria (→).
Res
Vedi Cosa
Responsabilità
I problemi connessi a questo termine appartengono innanzitutto a due sfere, quella del diritto e
quella dell’etica (più sotto aggiungeremo la sfera della politica, perché i filosofi greci l’accostavano
all’etica).
Sia in diritto che in etica, perché ci sia responsabilità è indispensabile che chi compie una azione sia
- consapevole delle sue scelte (vedi la voce Coscienza: →)
- e libero di farle (vedi la voce Libertà: →).
Se manca uno di questi requisiti, chi ha compiuto l’azione non ne è responsabile.
Nello svolgersi secolare della cultura greca dal mondo omerico all’ellenismo la nozione di
responsabilità ha una storia complessa, perché la libertà di scelta del singolo e la coscienza che
l’uomo ha di sé e delle ragioni che determinano le proprie scelte sono state concepite secondo
modalità che si sono andate profondamente modificando. Ad esempio, benché Omero conosca la
nozione di responsabilità individuale, in un numero notevole di casi le scelte dei singoli sono
attribuiti all’intervento divino (ancora in Gorgia, nell’Encomio di Elena la responsabilità di Elena è
negata per questa ragione, secondo una interpretazione del mito che nel V secolo tutti ancora
comprendevano, anche se non è detto che la condividessero).
Oltre a quello giuridico ed etico, la nozione di responsabilità ha un aspetto politico, perché la
comunità politica – nel mondo greco in primo luogo la polis considerata come una unità – si assume
responsabilità collettive che, oggettivamente, hanno conseguenze che ricadono tanto sui singoli
quanto sulla propria o su altre comunità.
Inoltre per il modo di sentire arcaico, in pieno accordo con l’esperienza individuale e politica, le
scelte etiche e politiche dei singoli possono ricadere su altri singoli (ad esempio i figli) o sulla
comunità (nei versi di Esiodo e di Solone si ricorda come una ovvietà, qualcosa di perfettamente
noto a tutti, che le colpe di uno ricadono sulla città intera). Dunque la responsabilità ha vari aspetti
che la legano alla sfera della politica.
C’è poi una responsabilità oggettiva, una sorta di oggettività della colpa (→), determinata dal fatto
che, anche senza averlo voluto, e quindi senza averne colpa, si sono commesse azioni che
comportano conseguenze per sé e per gli altri. Anche molto pesanti.
Retorica
La retorike (sottinteso techne) è nel mondo greco l’arte del dire, innanzitutto in senso giuridico e
politico: l’arte di costruire discorsi convincenti, basati su argomenti utili a ottenere il consenso di un
pubblico alle proprie tesi. È quindi l’arte specifica di chi parla in pubblico, in un’assemblea di
cittadini, in un tribunale, e così via.
In quanto arte, è una tecnica (→), e va appresa come si apprendono tutte le tecniche. A partire dal V
secolo a.C. se ne sono occupati quasi tutti i filosofi. Va però ricordato che la retorica era studiata
anche da chi, come Isocrate (→), era in diretta concorrenza con i filosofi anche per ragioni
professionali, ed ha quindi (anche) un proprio cammino indipendente.
Tra i filosofi fu Aristotele a sintetizzare le ricerche dei suoi predecessori e a proporre ricerche nuove,
e di questi studi è giunta sino a noi la sua Retorica. Sia su base aristotelica, che su tradizioni
indipendenti da quelle filosofiche (per esempio da tradizioni giuridiche) tra la Grecia e Roma si
sviluppò nei secoli successivi una sistemazione definitiva (per il mondo antico) dell’intera materia,
che veniva nelle scuole divisa in cinque parti, che indichiamo con i termini latini perché fu a Roma,
ma sulla base di influenza greca, che avvenne la codificazione:
- l’inventio consisteva nella ricerca degli argomenti e dei mezzi capaci di ottenere gli effetti di
persuasione voluti;
- la dispositio era la scelta e l’ordine delle parti del discorso;
- l’elocutio riguarda l’espressione linguistica e i suoi stili;
- la memoria studiava le tecniche di memorizzazione necessarie all’oratore che parla in pubblico;
- la pronunciatio o actio studiava l’esecuzione del discorso, ad esempio la voce, i gesti, e così via.
L’insieme delle discipline che componevano la retorica antica sono ai nostri giorni studiate in vari
ambiti, soprattutto in quelle che oggi chiamiamo discipline della comunicazione. I filosofi se ne sono
occupati perché la retorica si muove sempre intorno a due serie di problemi che sono di pertinenza
filosofica:
- i problemi della filosofia del linguaggio (→), perché la retorica ha sempre a che fare con il
linguaggio in diverse sue forme (linguaggio verbale, scritto, gestuale, soprattutto);
- i problemi legati alla ricerca della verità perché la retorica, come tecnica di persuasione, può servire
sia al confronto dialettico finalizzato alla scoperta del vero, oppure può servire come arma di
dominio di una persona su altre, cioè come strumento di persuasione del tutto neutro rispetto alla
verità: si pensi come esempio al problema della neutralità del linguaggio (→) sollevata dai Sofisti.
All’interno di questo contesto di problemi filosofi come Platone hanno fortemente combattuto
l’eristica (→) come esasperazione dell’arte della parola, mentre Aristotele ha studiato
approfonditamente il problema delle tecniche di argomentazione non ben fondate anche se vincenti
sia nella Retorica che nelle Confutazioni sofiste, che fanno parte dell’Organon.
Ricerca
Vedi Skepsis
Rinascita
Vedi Metempsicosi.
Riti dionisiaci
Vedi Dioniso
Rivelazione
Anche se la mitologia greca non è legata in modo diretto ad una rivelazione divina, i Greci
conoscevano comunque la nozione di rivelazione: ad esempio, sono le Muse in Esiodo (→Teogonia)
che rivelano al poeta, che può quindi cantarle a sua volta, le genealogie degli dèi e le lotte dei
primordi; e nell’Orfismo (→) c’è un libro sacro in cui Orfeo rivela quanto ha visto nell’Oltretomba.
La rivelazione è quindi intesa come un racconto di eventi, più che di verità di tipo teologico o di
altra natura, e quindi come fonte di determinate tradizioni. A raccontare è chi sa, e quindi di volta
in volta un dio, le Muse, o Orfeo, o altre figure del mito; e l’uomo è il destinatario di questo
acconto, in genere attraverso la mediazione di un poeta.
Sacrificio
Il termine greco è thysia, dal vervo thyo che significa far fumare. L’italiano sacrificio deriva dal latino
sacrum facere, cioè compiere un rito, o un atto, sacro.
Diffuso in moltissime civiltà, il sacrificio era il cuore dei riti sacri e consisteva in una offerta al dio o
agli dèi.
“Nel mondo greco antico il sacrificio cruento costituiva un elemento determinante nella
demarcazione simbolica tra l’umano e il divino, fra Greci e Barbari, tra normalità e devianza. Entro
i confini della città greca il sacrificio si risolve in una spartizione collettiva delle carni in cui si riflette
la visione greca dell’organizzazione sociale. I marginali, le forme di aggregazione religiosa e sociale
atipiche, vengono esclusi dalla spartizione, mentre i rispettivi ruoli del sacrificatore e dello spettatore
pongono anche una divisione di ruoli tra l’uomo e la donna” [Fabietti-Remotti 1997].
Saffo
Poetessa greca, molto celebre già nell’antichità, Saffo nacque nell’isola di Lesbo e lì tenne un tiaso
(→), nel cui contesto ha operato come poetessa. Oggi restano 213 frammenti, di varia lunghezza,
delle sue poesie e un’ode nella sua interezza, ma nell’antichità circolarono ampiamente raccolte dei
suoi versi suddivisi in nove libri: erano canti d’amore, inni, poemetti mitologici, canti per le nozze.
Le notizie sulla sua vita sono molto incerte. Fu da giovane a Mitilene, poi esule in Sicilia, per poi
rientrare in patria e occuparsi dell’educazione delle ragazze del suo tiaso. Soprattutto i poeti comici
hanno diffuso molte e incontrollabili leggende sulla sua vita.
La sua poesia è stata in tutti i tempi molto apprezzata, in particolare per i toni e le immagini che
caratterizzano il suo mondo poetico sui temi d’amore.
Saggezza / Saggio
In greco la saggezza è phronesis, e il saggio è sophos. Gli elementi caratterizzanti l’uomo saggio su cui
le filosofie antiche concordano sono tre: la libertà (→) interiore, la coscienza (→) del proprio sapere e
allo stesso tempo dei propri limiti, la virtù (→). Ma come in concreto debbano intendersi i tre
termini alle cui voci rimandiamo, è oggetto di discussione tra le scuole. Per i rapporti tra saggezza e
sapienza, cioè sophia, vedi la voce Sapienza (→).
Va osservato che, se per tutto il periodo della filosofia greca si discusse su quali fossero le
caratteristiche specifiche del saggio, e quindi in che cosa consistesse esattamente la sua saggezza; ma
già alle origini della filosofia la figura del saggio è associata ai due elementi del sapere e del saper
vivere: infatti i sette saggi (→) della tradizione sono figure esemplari
- perché hanno un sapere superiore a quello dei loro concittadini (un sapere umano, non in qualche
modo superiore all’umano: non sono figure legate a saperi di tipo divino);
- perché possiedono l’arte del vivere che rende liberi e felici (pari agli dèi, scriverà Epicuro,
sostenendo qualcosa che è nel comune sentire dei Greci).
In età ellenista la figura del saggio incarnò l’ideale di perfezione della vita di chi segue i dettami
della filosofia, proprio perché unisce nella sua persona il sapere e l’arte del vivere, che sono i due
volti della filosofia (→) stessa per il modo in cui è stata concepita dai Greci.
Salamina
Isola greca nei pressi dell’Attica, da cui è separata da uno stretto braccio di mare. Abitata da tempi
remoti (vi sono resti di un insediamento miceneo) in età storica fu dominata da Megara, poi da
Atene a partire dalla fine del VI secolo a.C., senza però entrare stabilmente a far parte dei territori
ateniesi propriamente detti: gli Ateniesi vi trassero una cleruchia – da kleros, che significa lotto di
terreno – cioè una presenza di coloni con funzione per lo più militari che mantenevano la
cittadinanza ateniese e vivevano delle terre loro assegnate.
Nel corso della Guerra del Peloponneso l’isola di Salamina accolse, subito prima della celebre
battaglia del 480 a.C., tutti gli abitanti dell’Attica in fuga di fronte all’avanzare dell’esercito
persiano. Fu Temistocle a insistere perché si desse battaglia contro la sterminata (rispetta a quella
greca) flotta persiana proprio nelle ristrette acque tra la costa Attica e Salamina. In effetti fu un
trionfo, e la celebre Battaglia di Salamina fu vissuta dai Greci come il momento della vittoria della
libertà greca, e quindi della sua superiorità rispetto al mondo dei Persiani.
Sapienza
Il termine greco sophia, che traduciamo con sapienza, fino ad Aristotele escluso era equivalente a
phronesis, che traduciamo con saggezza (→). Così in tutti i filosofi che ne trattano, Platone
compreso: la sapienza è il carattere di chi sa e quindi agisce con saggezza (naturalmente queste
nozioni di sapere e di saggezza non sono sovrapponibili per tutti i filosofi, che anzi si differenziano
molto tra loro nell’indicare il loro corretto significato).
Aristotele invece distingue nettamente la sophia dalla phronesis:
- la sophia è la sapienza che riguarda i principi e la conoscenza teoretica, sia essa di tipo fisico,
cosmologico, matematico, e così via
- la phronesis è la saggezza di chi, conosca o meno i principi che regolano l’universo, conosce bene
l’uomo e ciò che lo riguarda e sa comportarsi in maniera adeguata (sia su temi etici che politici).
Questa distinzione deriva dal fatto che le scienze pratiche per Aristotele non possono fondarsi su
una theoria, cioè sulla conoscenza teoretica o contemplazione della verità, perché si basano soltanto
su opinioni, per ben fondate che siano, e non è quindi possibile in questi campi raggiungere lo
stesso grado di certezza scientifica raggiungibile in altri campi (come la fisica, la “filosofia prima”, la
matematica).
Questa differenza è presente nel pensiero tardo antico; non è invece accolta dagli Stoici, che tornano
a legare sophia e phronesis: il saggio è colui che è guidato, secondo natura, dal Logos, e conosce
quindi le ragioni profonde che regolano la vita dell’uomo come dell’intero cosmo. Sapienza e
saggezza nel loro pensiero tornano ad essere due volti della stessa medaglia (il volto teorico e quello
pratico).
Satiro
È una delle figure tipiche del corteo del dio Dioniso (→). I Satiri nelle raffigurazioni più antiche
hanno un aspetto solo parzialmente umano, perché la parte inferiore del corpo era simile a quella di
una capra, mentre nelle raffigurazioni successive sono più simili agli esseri umani, pur rimanendo
una coda in ricordo delle origini. Questo riferimento al mondo animale dipende dal fatto che i satiri
erano divinità dei campi, espressione della natura selvaggia e primordiale. Legati alla potenza
sessuale, sono spesso raffigurati in atteggiamenti orgiastici (come è ovvio dato il loro ruolo
dionisiaco), mentre danzano nell’estasi dionisiaca o inseguono Menadi (→) e Ninfe (→).
Scelta
Il termine prohairesis che rendiamo in italiano con scelta indica quell’atto della mente con cui
concediamo il nostro assenso a una verità piuttosto che ad altre, o con cui decidiamo di agire in un
certo modo piuttosto che in un altro. Il tema della scelta ha quindi un rilievo filosofico sia su
questioni di conoscenza che di etica. Un uso particolare del termine è in Plotino, che lo riferisce
all’auto-produzione e all’auto-scelta che definiscono il rapporto dell’Uno con se stesso.
Perché ci sia scelta, devono esserci alternative note a chi sceglie: è quindi decisivo il momento della
conoscenza.
Perché ci sia scelta, chi sceglie deve essere libero: è quindi decisivo il libero arbitrio, cioè che la
volontà dell’uomo non sia sottoposta a meccanica necessità. Tuttavia per la maniera comune di
sentire dei Greci il ruolo della volontà è meno centrale del ruolo della conoscenza: per via
dell’intellettualismo etico (→), l’uomo che conosce secondo verità sa già dove indirizzare la propria
volontà, e quindi sceglie di conseguenza.
In ultimo va ricordato che un particolare uso del termine proairesis è in Epitteto, che lo usa per
indicare una scelta di fondo da cui ne dipendono molte altre.
Scepsi
È il termine da cui deriva scetticismo (→). In greco skepsis significa ricerca, e la scepsi è quindi tipica
di chi, nella coscienza di non sapere e della facilità con cui si cade in errore, non smette comunque
di far filosofia, pur sapendo che la ricerca della verità non avrà mai fine e non porterà ad alcun esito
certo.
Scetticismo
Il termine scetticismo deriva dall'aggettivo greco skeptikos, detto di colui che osserva, che riflette.
Nella sua ispirazione originaria, quindi, il termine suggerisce l'idea di un ricercatore che
attentamente studia l'oggetto della sua osservazione per coglierne tutti gli aspetti.
In senso più specifico, tuttavia, il termine scetticismo è passato ad indicare nella filosofia greca quelle
correnti di pensiero che non ritengono possibile per l'uomo giungere alla conoscenza della verità.
Esaminata la capacità umana di conoscere le cose nella loro vera realtà, lo scettico arriva alla
conclusione che così ampia è la possibilità dell'errore da lasciar dubitare che qualsiasi conoscenza
possa mai essere sicura.
Lo scetticismo, partito dalla stessa esigenza di ricerca e di riflessione sulla realtà delle altre scuole
filosofiche, si differenzia da esse perché finisce col rifiutare ogni costruzione teorica. Tutte le
filosofie sono ai suoi occhi incerte, tutte le tesi dubbie e poco solidamente fondate.
Le opere dei grandi filosofi dello scetticismo antico sono in grandissima parte perdute. La nostra
più importante fonte di conoscenza sono gli scritti di Sesto Empirico (→), medico e filosofo greco
che ha sistemato con lucidità e coerenza gli argomenti della tradizione scettica, ormai secolare al
tempo in cui scrive (il II-III d.C.).
Le premesse per un atteggiamento scettico sono già presenti nella filosofia dei naturalisti, nonché
in Socrate e in Platone. Il tema della impossibilità della conoscenza piena della verità ricorre, ad
esempio, in Eraclito e in Senofane. Parmenide poi indica nei sensi una fonte di conoscenza
contraddittoria, incapace di cogliere la realtà nella sua vera essenza: fonte di opinione, piuttosto che
di verità. Quanto ai sofisti, assumono una posizione relativista, e Protagora nega che si possa
raggiungere una conoscenza sicura sul tema, pur così essenziale, degli dèi e della loro natura. Nella
Apologia poi Platone ci presenta Socrate come uomo che ha coscienza di non sapere e proprio per
questo è superiore in sapienza agli altri uomini. Platone contrappone l'incerta e vaga conoscenza
sensibile alla conoscenza intellettiva, quella cioè che intuisce le idee nella loro purezza eterna ed
immutabile (sia pure con l'oscurità che la condizione umana non consente di superare). Il mondo
della materia è caratterizzato dall'apparire piuttosto che dall'essere: le cose sono soggette ad un
incessante mutamento, il loro essere è instabile ed ogni sapere risente di questa precarietà. Non ci
può essere una conoscenza vera della realtà materiale perché la realtà materiale non è stabile. Non
può essere conosciuta secondo verità perché non c'è in essa verità piena.
Tuttavia nessuna di queste filosofie ha sviluppato sino in fondo il punto di vista scettico (se non,
sotto alcuni aspetti, la sofistica, che tra le scuole antiche è la più vicina allo scetticismo ellenistico).
La scuola scettica compare per la prima volta con un uomo, contemporaneo di Epicuro, ma di lui
più anziano, che ha avuto modo di venire a contatto con la civiltà dell'Oriente, perché è stato in
Asia al seguito della spedizione di Alessandro. Si tratta di Pirrone di Elide, alla cui voce
rimandiamo (→).
Schiavitù, schiavo
La schiavitù (in greco douleia) era la condizione giuridica delle persone (uomini, donne, bambini alla
nascita) che erano ridotte allo stato di un bene avente valore di mercato (una merce, quindi, che si
compra e si vende) in proprietà di un padrone.
In Grecia, almeno in alcune epoche storiche, anche un Greco poteva cadere in schiavitù, per lo più
per debiti, ma questo era percepito negativamente, e ad Atene la legislazione di Solone intervenne,
all’inizio del VI secolo, a sanare questo tipo di situazione. Da Solone in poi, la schiavitù di un Greco
è sentita manifestamente come un arbitrio.
Lo schiavo era abitualmente un barbaro, fatto prigioniero in guerra o acquistato.
La schiavitù, diffusa per tutta l’epoca della storia antica, era percepita come un fatto naturale e si
hanno pochissime riflessioni di tipo giuridico o etico, e più in generale filosofico, su questo tema.
Alcuni filosofi però hanno posto la questione sulla legittimità della riduzione di una persona in
schiavitù, risolvendo il problema in vari modi: questo problema è posto, con una celebre soluzione
che riporta la schiavitù a un fatto di natura, nella Politica di Aristotele; di parere opposto era stato il
sofista Antifonte, che in un celebre frammento dichiara che “per natura siamo assolutamente uguali,
sia Greci che Barbari”.
Per lo Stoicismo, in cui il tema della libertà umana è particolarmente sentito (e quindi il tema della
schiavitù è trattato in rapporto alla necessità per l’uomo di essere libero per essere davvero se stesso,
davvero uomo), la schiavitù che impedisce all’uomo di essere libero non è la condizione giuridica
dello schiavo, ma la schiavitù (metaforica, ma non tanto) dalle passioni. Si può essere liberi
(interiormente) in catene e schiavi nel lusso e nella ricchezza che dà il potere. Ma, di per sé, dicono
“nessun uomo è per natura schiavo”, rifiutando con ciò la tesi aristotelica sulla schiavitù e aprendosi a
un ideale universale di reale uguaglianza. Si è spesso sottolineato come la storia dello Stoicismo
antico si chiuda con uno schiavo liberato (Epitteto) e un imperatore (Marco Aurelio).
Sciamano
“Dal tunguso shaman o saman, il termine designa genericamente il protagonista di un complesso di
cerimonie e attività rituali che costituiscono il centro della vita religiosa della comunità. È stato
esteso dall’area culturale della Siberia, da cui proviene originariamente, a categoria applicabile anche
ad altre culture, per designare un individuo cui viene socialmente riconosciuta una particolare
abilità nell’entrare in comunicazione con il mondo degli spiriti o delle potenze soprannaturali
provocando uno stato di trance” [Fabietti-Remotti 1997]..
Alcune figure della filosofia delle origini sono state associate allo sciamanesimo, ad esempio
Pitagora, anche a causa di racconti sulla sua presenza contemporanea in posti diversi e sulla
memoria delle vite precedenti. Ma l’accostamento è discusso tra gli studiosi.
Scienza
Il termine greco che traduciamo con la parola italiana scienza è episteme che, in contrapposizione a
doxa, opinione, indica una conoscenza certa sul cui fondamento non ci possono essere aporie (→).
La concezione antica della scienza è diversa da quella moderna perché suppone che, almeno in
determinati ambiti, la mente umana giunga a conoscenze inconfutabili in termini assoluti.
Il modello dell’episteme come forma di conoscenza rigorosa che dà luogo a una teoria, cioè alla
contemplazione (→) della verità da parte della mente, ha trovato il suo classico modello negli
Elementi di Euclide, che raccolgono il sapere matematico della tradizione greca precedente al III
secolo a.C. esponendolo con pieno rigore deduttivo.
Va osservato che la contrapposizione tra episteme e doxa risale, nel suo nucleo concettuale primario,
ai primi filosofi (si pensi al Poema sulla Natura di Parmenide), per trovare poi varie articolazioni
nell’età di Democrito, di Platone e di Aristotele, ciascuno dei quali propone una propria visione
della scienza. Poiché anche le più importanti scuole ellenistiche – l’Epicurismo e lo Stoicismo – e,
secoli dopo, anche il neoplatonismo, propongono una propria visione dell’episteme, è possibile
affermare che un filo rosso su questo punto lega l’intero percorso della filosofia greca.
Ma esiste un filo rosso di segno opposto, che sottolinea la difficoltà di giungere all’episteme (da
Senofane ai sofisti, da Socrate e Platone – nonostante la sua teoria delle idee – alle scuole
socratiche), o nega del tutto la possibilità di farlo (Pirrone, l’Accademia di mezzo, la scuola scettica
successiva). Vedi su questo punto la voce Scetticismo (→).
Scolarca
Quando le scuole filosofiche dell’età classica ed ellenistica si diedero stabili strutture organizzative e
divennero centri internazionali di ricerca filosofica e scientifica, si chiamò scolarca il filosofo –
successore del fondatore – che guidava l’intera struttura dandole una precisa direzione di ricerca e di
stile di vita, dato lo stretto legame che l’antichità vedeva tra attività di ricerca filosofica e vita pratica.
Scrittura filosofica
Vedi Generi letterari
Scuola di Atene
Benché ad Atene abbiano avuto la loro sede molte delle scuole filosofiche dell’antichità, e per secoli,
nessuna scuola per tutta l’epoca della filosofia greca sino all’età tardo antica è nota come Scuola di
Atene.
Con questa dizione è invece chiamata la scuola platonica fondata, su presupposti neoplatonici non
ancora cristiani, da Plutarco di Atene, il cui più importante rappresentante è Proclo (→). Ad essa
appartenne anche Simplicio (→).
La Scuola di Atene – che proponeva una sintesi del pensiero greco e della tradizione “pagana” venne chiusa nel 529 dall’imperatore d’Oriente Giustiniano che intendeva porre fine ad una
istituzione in rotta di collisione con il vincente pensiero cristiano.
Scuola filosofica
Benché alcune scuole filosofiche dell’antichità siano state anche delle istituzioni educative dove si
tenevano corsi regolari (con un paragone per la verità improprio potremmo pensare ad alcune
università del nostro tempo che sono insieme luoghi di alta ricerca e di alta formazione), la dizione
scuola filosofica ha un significato più generale e si applica a realtà storiche molto diverse fra loro,
alcune delle quali non hanno nulla delle strutture educative (ad esempio si parla di Scuole socratiche
→).
È quindi opportuno chiarire il senso generale, valido per tutte le epoche della filosofia antica, tanto
nel mondo greco quanto in quello romano: per scuola filosofica si intende il complesso delle
dottrine, delle ricerche, delle pratiche di vita che gruppi di filosofi, sia coordinandosi tra loro sia
individualmente e senza rapporti organici, hanno portato avanti sulla scia di un maestro che ha
svolto il ruolo di caposcuola.
Detto questo possiamo specificare meglio alcune tipologie:
- alcune scuole sono tali solo nel senso che le teorie di un filosofo vengono accolte da altri, che
proseguono le ricerche su questo filone, senza porsi problemi sulla fedeltà al maestro, e in qualche
caso allontanandosene decisamente: in questo senso si parla, ad esempio, di una scuola di Mileto o
delle scuole socratiche, o dello scetticismo come scuola;
- altre scuole sono nate intorno ad un maestro molto stimato (in qualche caso addirittura entrato
nella leggenda), e l’asse portante del suo pensiero è stato sviluppato dai suoi seguaci con l’esigenza di
una sostanziale fedeltà, se non al dettaglio, almeno ai principi generali; alcune di queste scuole, prive
di qualsiasi forma di organizzazione e quindi sviluppatesi come puri indirizzi di pensiero, sono
durate molto a lungo: scuole di questo tipo sono quelle di Elea, il pitagorismo dopo il IV secolo
a.C., la scuola cinica, il neoplatonismo (alcuni di questi indirizzi di pensiero sono stati vivi per più di
un millennio, sia pure senza continuità);
- alcune scuole hanno avuto il carattere di una setta, legata a determinate pratiche di vita oltre che a
determinate teorie, come è il caso della scuola pitagorica dei secoli dal VI al IV a.C;
- a partire dal IV secolo a.C. si impose il modello delle scuole strutturate come organizzazioni stabili
- insieme di ricerca, di pratica di vita, di insegnamento -; per tutto l’ellenismo vi furono quattro
istituzioni di questo tipo: l’Accademia, il Liceo (o Peripato) e le scuole degli Epicurei e degli Stoici.
Scuole ellenistiche
Nel periodo ellenistico (→) le scuole filosofiche erano prevalentemente di due tipi, con differenze
interne a ciascun tipo:
- istituzioni dotate di una propria organizzazione interna, che tenevano corsi regolari per la
formazione dei giovani e per chiunque volesse accostarsi alla forma di vita filosofica proposta da
ciascuna scuola;
- correnti di pensiero seguite da filosofi indipendenti che si richiamavano ad una comune dottrina.
Al primo tipo di scuola appartenevano un gruppo di scuole attive ad Atene:
- l’Accademia (→), fondata da Platone all’inizio del IV secolo a.C;
- il Liceo (→), fondato da Aristotele nella seconda metà del IV secolo a.C;
- la Scuola Epicurea (→), fondata da Epicuro alla fine del IV secolo a.C.;
- la Scuola Stoica (→), fondata da Zenone all’inizio del III secolo a.C.,
ciascuna con un proprio scolarca e una propria tipica organizzazione della ricerca e della vita
filosofica.
Al secondo tipo di scuole, prive di una specifica localizzazione geografica, appartenevano
- la Scuola Cinica (→), fondata da Antistene nella prima metà del IV secolo a.C.;
- la Scuola Scettica (→), che si richiamava alla tradizione di Pirrone, attivo alla fine del IV secolo
a.C.;
- varie tradizioni eredi delle antiche filosofie delle origini, come il Pitagorismo (→).
Scuole socratiche
Alla morte di Socrate i suoi allievi non formarono un gruppo compatto, ma si divisero in diverse
scuole, ciascuna delle quali prese una propria strada, sviluppando le suggestioni socratiche nelle più
varie direzioni. Oltre all’Accademia (→) fondata da Platone, le scuole socratiche che la tradizione
storiografica moderna chiama
minori in riferimento all’Accademia sono tre:
- la scuola dei Cirenaici (→);
- quella dei Megarici (→);
- quella dei Cinici (→).
Seconda navigazione
Platone ha usato la metafora della seconda navigazione (in greco deuteros plous) per indicare il
percorso dialettico di ricerca in direzione della realtà del mondo intelligibile.
La dizione di per sé indica la navigazione che le navi greche compivano, abbandonata la costa,
quando dovevano attraversare tratti di mare aperto non più in vista delle terre emerse, affidandosi
quindi solo alle indicazioni degli astri per tenere la rotta.
Segno
La nozione di segno – in greco semeion – è stata studiata in modo esplicito per la prima volta nella
filosofia greca dagli Stoici, anche se elementi della nozione sono presenti nei filosofi precedenti,
soprattutto in Aristotele.
Per segno si intende – con gli Stoici – qualsiasi ente o evento che agli occhi di una mente pensante
rimandi ad una realtà nascosta: ad esempio in questo senso i movimenti del corpo possono
rimandare ai movimenti dell’anima.
Dato questo carattere dei segni, il fatto che l’uomo sia in grado di riconoscerli e di usarli è indice di
una netta differenza tra la sua mente e quella degli animali. Il segno, infatti, richiede in ogni caso
una operazione esclusivamente interiore ed intellettuali che passi dal segno come ente o evento
conosciuto alla realtà di cui quell’ente o evento è segno.
A partire dalla tarda antichità si è sviluppata una teoria dei segni (già con Agostino che ne tratta nel
De Magistro) che, sulla base delle riflessioni dei Greci, si svilupperà in profondità nel corso della
filosofia medioevale.
Semplice
Nelle filosofie di Platone e di Aristotele e in Plotino il termine semplice (haplous) nel senso di non
composto indica il carattere di quelle realtà che per natura non sono composte, ma sono in se stesse
un’unità compiuta, immutabile e immobile (le idee platoniche, il Dio pensiero di pensiero di
Aristotele, l’Uno di Plotino). Aristotele sottolinea che realtà di questo tipo hanno in se stesse la loro
necessità (Metafisica V-5), perché ciò che è semplice, in quanto non composto di parti e
immutabile, non può essere oggetto di interventi esterni che ne modificano la struttura (essendo
semplici, e non avendo quindi parti, non c’è in loro alcuna struttura).
Seneca
Vedi Stoicismo
Senofonte
Nato intorno al 430 a.C. e morto intorno al 355, Senofonte è uno storico e scrittore greco molto
prolifico, le cui opere sono in gran parte giunte sino a noi. Come storico non ha la statura di
Tucidide, di cui intende proseguire l’opera (le sue Elleniche, in 7 libri, giungono fino al 362 a.C.),
ma è una fonte importante di informazioni soprattutto per quanto riguarda la storia militare, di cui
aveva competenza diretta (fra i trenta e i quarant’anni era stato impegnato in importanti azioni
militari in Asia e in Grecia, con ruoli direttivi). È autore anche della Anabasi (in 7 libri: è il racconto
di una spedizione militare in Asia di cui era stato protagonista) e della Ciropedia (in 8 libri: su Ciro
il Grande, di cui si narrano gli anni di formazione).
Aveva conosciuto Socrate e ne era stato influenzato, senza tuttavia appartenere alla cerchia dei suoi
allievi. Sulla figura del filosofo ha lasciato un ampio corpus di scritti filosofici (Apologia di Socrate,
Economico, Memorabili), che non hanno tuttavia la profondità di quelli platonici e comunque
restituiscono una immagine del maestro notevolmente diversa. Ha anche scritto un Simposio in cui,
come in quello platonico, Socrate parla dell’amore.
Senso / Significato
In espressioni moderne come “il senso della vita” o “il significato della vita” i due termini possono
essere usati, e sono di fatto usati dai filosofi, indifferentemente. Indicano genericamente, in una
accezione non tecnicamente precisa, che un certo oggetto del discorso (in questo caso la vita) non è
insensata, ma è comprensibile alla luce dell’intelletto pensante, oppure ci si chiede se lo è. Si trova, o
solo si cerca, una ragione.
In questa accezione generica, la maggior parte delle filosofie antiche hanno ritenuto che l’intera
realtà abbia senso e significato, cioè possa essere compresa nei suoi elementi riportando il particolare
studiato all’ordine complessivo del tutto. È questa la visione del cosmo, nel suo insieme e nei singoli
dettagli, di un Aristotele, di un Epicuro, degli Stoici, di Plotino e di vari altri (ma non di tutti).
Se però da questo uso generico passiamo all’uso tecnico dei termini senso e significato, allora occorre
differenziare.
Senso
Se per senso di un oggetto del discorso (nell’esempio prima indicato, la vita) intendiamo un valore
(→), cioè qualcosa che giustifica agli occhi della ragione la sua esistenza in termini positivi, allora le
posizioni delle scuole divergono: per Epicuro, ad esempio, la vita non ha alcun senso, perché è il
frutto del caso; siamo quindi liberi di dargliene uno, spetta al soggetto decidere, e la filosofia ha
come primo compito, oltre a guarire dai mali, anche quello di indicare la strada per costruire un
senso alla propria vita (il principio-guida indicato è l’utilitarismo, sulla base di una teoria del
piacere). Viceversa, per lo Stoicismo il valore esiste, ed è dato dal Logos, e per un essere razionale
come l’uomo questo porta al dovere, che può essere compreso solo studiando con razionalità la
posizione dell’individuo rispetto al Tutto.
In quanto valore, il senso dell’oggetto del discorso
- può essere di molti tipi: ci sono valori emotivi, estetici, etici, politici, economici, e così via;
- può essere molteplice: l’oggetto del nostro discorso può averne più d’uno, ed è oggetto
dell’interpretazione che la mente compie comprenderne le gerarchie (che possono essere decisive
quando si tratta di prendere delle decisioni, a seconda che si consideri più importante un senso o
l’altro, cioè un valore o l’altro).
Significato
Il significato di un oggetto del discorso (una parola, un ente, un evento) è ben distinto, se si fa del
termine un uso tecnico, dal suo senso, perché indica soltanto di che cosa in realtà si sta parlando:
l’oggetto del discorso (in quanto afferente all’universo del linguaggio: →) è allora inteso come segno
(→) per qualcos’altro, e il qualcos’altro è il significato di quel segno. Una lettura razionale della realtà
ha quindi l’obiettivo di passare dal segno al suo significato.
Poiché qualsiasi ente o evento, materiale o mentale, può essere segno:
- avremo quindi il significato di una parola o di qualsiasi altro elemento linguistico (ad esempio
delle immagini);
- avremo il significato di un gesto, di una scelta, che risulterà quindi comprensibile agli occhi di un
osservatore nello stesso senso in cui una parola prima non nota risulta comprensibile se si spiega che
cosa vuol dire;
- avremo anche il significato di un sintomo, in medicina, che il medico è in grado di interpretare;
e così via.
Mentre lo studio del senso, in senso tecnico, appartiene alla filosofia sin dalle sue origini, e sotto un
certo profilo la caratterizza in senso forte (filosofia come ricerca sulle questioni di senso), lo studio
specialistico del significato è stato portato avanti, dopo Socrate e Platone, soprattutto da Aristotele
nell’Organon, e dopo di lui dai grammatici alessandrini e, in logica, soprattutto dagli Stoici.
Sensi / Sensazione / Sensibilità
I sensi sono gli organi del corpo che consentono alla mente di acquisire informazioni dal mondo
esterno ed interno. Uno dei problemi fondamentali delle teoria della conoscenza proposte dai
filosofi greci è determinare i modi in cui, concretamente operano i sensi. Ciascuna scuola ha
proposto una propria teoria. E, tra i sensi, le varie scuole ne privilegiano abitualmente uno: ad
esempio Platone riconduce la conoscenza sensibile nel suo più alto grado alla vista, mentre Epicuro
riconduce al tatto questo ruolo, perché di fatto tutti i sensi operano per contatto diretto (è la teoria
dei simulacri). Per questi aspetti e per i problemi connessi rimandiamo alla voce Conoscenza,
Problema della (→).
La conoscenza che i filosofi greci hanno avuto della fisiologia degli organi di senso (studiata
approfonditamente dai filosofi naturalisti, dai materialisti, da Aristotele e da alcune scuole
ellenistiche) è lontana da quella moderna, per le conoscenze limitate che si avevano sul sistema
nervoso e sul cervello.
Chiamiamo sensazione qualsiasi conoscenza provenga dai sensi. Una sensazione è quindi sempre una
rappresentazione (→) dell’oggetto di conoscenza (interno o esterno), cioè una immagine (visiva,
uditiva, tattile, e così via) mediante cui la mente conosce attraverso i sensi il proprio oggetto. Per i
problemi connessi alla sensazione si veda la voce Esperienza (→).
Il termine greco aisthesis, che significa tanto l’atto del sentire (la sensazione) quanto la facoltà del
sentire (sensibilità) si riferisce alla sfera dei sensi, ma vi aggiunge gli aspetti emotivi che vi sono
connessi: il legame tra sensazione ed emozione, espresso dal termine sensibilità, è mostrato dal fatto
che le emozioni (→) sono percepite come sensazioni. Quali poi siano le ragioni del legame tra
emozioni e sensazioni, è oggetto di studio e di specifiche teorie delle varie scuole filosofiche.
Sentenze
Vedi Massime e sentenze
Sessualità
Vedi Eros
Sette sapienti
Nel corso dei secoli, tra il VI e il IV a.C., quando la tradizione si consolidò stabilizzandosi, vennero
considerati sapienti in Grecia una serie di personaggi, alcuni storici, altri leggendari, le cui vite
costituivano un modello positivo. Il numero sette era probabilmente legato a valenze simboliche.
Benché la lista non comprenda sempre gli stessi nomi, a seconda delle diverse fonti, quattro dei sette
sapienti sono citati stabilmente: sono Talete di Mileto, Pittaco di Mitilene, Biante di Priene, Solone
di Atene; gli altri tre variano. Di tutti, i personaggi certamente storici sono Talete (→) e Solone
(→), gli altri sono semileggendari.
Sfera
Nella cultura greca la sfera rappresenta un’immagine visiva di compiutezza e perfezione. Anche per
questa ragione (ma non solo per questa) Platone e Aristotele concepirono l’universo fisico come una
sfera finita e perfetta (i due concetti per la maniera di pensare greca si sommano a formare un tutto
unitario).
Va osservato che questo aspetto della cultura greca portò Parmenide a raffigurare l’Essere (“simile
a…” scrive nel suo Poema sulla Natura) nella forma di una sfera perfettamente uguale in tutte le sue
parti
Sfero
Il termine (in greco sphairon) è proprio della filosofia di Empedocle, e indica uno dei momenti del
ciclo complessivo del movimento cosmico: quando la forza della Philia (Amicizia) che lega tra loro i
quattro elementi vince in massimo grado sulla Contesa, che invece li separa, il cosmo assume un
aspetto perfettamente ordinato e unitario: i quattro elementi sono mescolati in modo compiuto.
Poi il ciclo riprende, con il crescere della forza della Contesa.
Sibari
Tra la fine dell’VIII secolo, quando venne fondata da coloni prevalentemente achei, e la fine del VI
secolo a.C., è stata una delle maggiori tra le poleis della Magna Grecia, fino a controllare un
territorio molto vasto tra le coste ioniche e tirreniche.
Era una città dalla chiara vocazione commerciale, legata a Mileto da un flusso continuo di traffici.
L’aggettivo sibarita, nel senso di persona ricca che vive nel lusso, deriva sia dalla ricchezza della città
che dal fatto che vi si commerciava in generi di lusso.
Lo scontro decisivo che portò alla sua distruzione nel 510 a.C. fu con la rivale Crotone, che la
sconfisse in battaglia e la distrusse, giungendo al punto da inondarne il sito dove sorgeva con le
acque del fiume Crati.
L’area fu ripopolata alla metà del V secolo a.C. con la fondazione della colonia panellenica di Turi,
ma lo splendore di un tempo era ormai scomparso.
Sileni
Simili ai Satiri, ma raffigurati con la coda equina, i Sileni sono figure del mito associate a Dioniso e
più in generale all’esperienza iniziatica, al vino e alla morte.
Altre tradizioni fanno riferimento ad un’unica figura di Sileno, che si raccontava fosse stato maestro
di Dioniso, e lo si raffigurava come un vecchio obeso che si regge a fatica, per la sua ubrachezza, su
un asino.
Silenzio
Socrate non ha scritto nulla, ma raramente è rappresentato in silenzio (a volte sì: nel Simposio
platonico due volte, prima dell’ingresso nella casa di Agatone e nel discorso di Alcibiade, entrambe
le volte immerso in quella che sembra una profonda meditazione). Di Pirrone di Elide, invece, ci
viene tramandato non solo che non ha scritto nulla, ma anche che ha osservato un rigoroso silenzio
di fronte a determinate situazioni della vita o di fronte alle parole di altri, coerente con la tesi
scettica sull’impossibilità di usare il linguaggio conferendogli senso e verità. Ci sono silenzi e silenzi,
in effetti, e oggi utilizziamo l’espressione “silenzio assordante” per indicare un silenzio più eloquente
di un intero discorso.
Ora, di fronte ad un libro mai scritto, a delle parole mai pronunciate, non possiamo non chiederci:
può la filosofia fare a meno di parole?
Certo non può fare a meno di esempi "esemplari". Certo non può fare a meno di un linguaggio. E
l'esempio lo è (così sia Socrate che Pirrone dicono qualcosa attraverso il loro silenzio). Ci sono figure
della filosofia che pur avendo utilizzato parole hanno comunicato anche attraverso un’immagine di
sé, come Diogene con la sua botte. E i molti episodi tramandatici della vita di Pirrone sono di
questo tipo. Ci sono messaggi filosofici che vivono di estrema essenzialità, assolutamente non
discorsiva, come se si concentrassero in un punto soltanto: come il confutare i paradossi di Zenone
sul movimento mettendosi a camminare in assoluto silenzio.
Dunque il silenzio per un filosofo greco può essere utilizzato come una forma di linguaggio.
La filosofia antica non si è in effetti lasciata irretire in una forma privilegiata di linguaggio e di
razionalità. Ha tentato tutte le vie in tutte le direzioni, come fa dire Platone al personaggioParmenide all’inizio del suo omonimo dialogo (o almeno ha tentato molte vie in molte direzioni).
Quanto a Plotino, considera il silenzio connesso alla contemplazione (Enneadi III, 8, 4)
Silli
I silli sono componimenti poetico-filosofici, per lo più in esametri, utilizzati da Timone di Fliunte
(→) per proporre la filosofia di Pirrone sottolineandone il carattere scettico attraverso la satira e la
parodia. Sono un genere letterario minore, ma tipico del periodo ellenistico.
Sillogismo
Sylloghismos in greco significa ragionamento, ma il termine ha assunto con Aristotele un significato
tecnico per cui anche in italiano si usa la parola sillogismo, in riferimento a quest’uso.
Aristotele ne tratta a vari livelli nelle sue opere di logica, raccolte nell’Organon:
- negli Analitici primi ne tratta al livello di quella che oggi chiamiamo logica formale: studia cioè,
indipendentemente dai contenuti, la forma (cioè la regola logica) che i ragionamenti deduttivi
devono seguire perché siano validi (vedi anche le voci Deduzione e Induzione: →);
- negli Analitici secondi ne tratta in quanto sono uno strumento di dimostrazione razionale, e quindi
consentono la conoscenza scientifica discorsiva;
- nei Topici tratta dei sillogismi di tipo dialettico, intendendo con questo quella forma di
ragionamento le cui premesse sono opinioni a vario grado di probabilità e non proposizioni certe;
- nelle Confutazione sofistiche tratta dei ragionamenti solo apparentemente veri, ma comunque
convincenti e dunque da smascherare.
Il sillogismo nella sua forma categorica (cioè affermativa) è un insieme di tre proposizioni affermative
connesse tra loro secondo una particolare regola. La prima e la seconda fungono da premesse del
ragionamento: la prima è la premessa maggiore, la seconda la minore, e sono costruite in modo da
avere un elemento in comune, il cosiddetto termine medio, come nella sequenza:
- “tutti gli uomini sono mortali”
- “tutti i Greci sono uomini”
- “tutti i Greci sono mortali”
in cui il termine medio presente nelle due premesse è “uomini”.
A seconda della posizione del termine medio nelle due premesse, i sillogismi possono essere
classificati in varie figure, e all’interno di ciascuna figura a seconda delle varianti possono essere
identificate varie classi, che la tradizione chiama modi. Le combinazioni in assoluto possibili sono
256, ma quelle in cui si ha a che fare con modi validi sono solo 19: solo in questi infatti la
conclusione segue davvero in modo logicamente stringente dalle premesse.
Sillogismo dialettico
Nei Topici – opera che fa parte del suo corpus di studi di logica, l’Organon – Aristotele studia un
tipo di sillogismo (→) che non si basa su premesse certe, ma incerte, a vario grado di incertezza. In
pratica propone una logica dell’opinione, facendo della doxa (→) una base di studio rilevante per tutte
quelle situazioni della vita in cui una certezza su cui fondare le nostre deduzioni non è alla nostra
portata.
La dialettica per Aristotele ha varie funzioni:
- è utile come esercizio della mente al ragionamento (ha quindi una sorta di funzione propedeutica
nei confronti della scienza)
- è utile perché insegna il modo corretto di dialogare con gli altri;
- è utile alla ricerca filosofica in tutti quei campi in cui non disponiamo di una fondazione certa del
nostro sapere (per Aristotele si tratta di campi vastissimi: tutte le scienze pratiche e poietiche).
Simile agli dèi / Divino
Queste espressioni sono comuni nel linguaggio letterario e filosofico dell’antichità, in riferimento a
determinate persone (l’eroe, il saggio) che hanno caratteri di eccellenza per un tratto o per il
complesso della loro personalità. Non indicano necessariamente un rapporto con la sfera del divino,
se non come termine di riferimento e di paragone. Così nel mito Odisseo è divino, nella poesia la
persona amata da Saffo è simile agli dèi, in filosofia le anime secondo Platone sono di stirpe divina
(nel contesto di un mito filosofico), e il saggio epicureo è felice come gli dèi.
Anche in filosofia il mondo umano si rispecchia nel mondo divino, almeno per quei filosofi che
ritengono di poter dimostrare che gli dèi (o il dio) esistono.
Vedi su quest’ultimo punto la voce Dio, dèi, divino (→)
Simile / Dissimile
Nella filosofia greca prevale il principio che il simile conosce il simile, utilizzato per spiegare come
avviene la conoscenza sensibile in molti autori come Empedocle e Democrito (il tema viene poi
ampiamente sviluppato nella teoria della conoscenza di Aristotele e dei filosofi ellenisti).
La filosofia greca ha elaborato anche il principio opposto, che il dissimile conosce il dissimile: lo
utilizza, in controtendenza, Anassagora secondo la testimonianza di Teofrasto.
Simonide
Tra i massimi poeti lirici greci, nacque intorno alla metà del VI secolo (forse nel 556 a.C.) e morì
molto anziano nel 468. Le circostanze della sua vita, e il suo stesso impegno di poeta, lo portarono
presso le corti di numerosi tiranni tra l’Attica e la Sicilia, e la sua presenza è attestata in varie altre
località del mondo greco.
Coltivò, oltre agli epinici (→), diverse altre forme di poesia lirica, in uno stile molto vigoroso.
Scrisse con accenti intensi anche sulle vicende storiche del suo tempo, come il carme in onore dei
morti delle Termopoli, in cui esprime l’orgoglio greco unito al dolore per i caduti.
In vari canti funebri esprime un profondo pessimismo sulla condizione umana.
Simpatia
La nozione di simpatia (in greco synpatheia), introdotta nel lessico filosofico in ambiente
peripatetico, è stata utilizzata soprattutto in età ellenistica e tardo antica, soprattutto dagli Stoici e
da Plotino, per indicare i legami che rendono unitario il cosmo e la realtà intesa come un Tutto.
Simplicio
Filosofo greco, le sue opere sono una delle nostre fonti di conoscenza del pensiero antico, perché ci
sono pervenute e in esse Simplicio riporta notizie, opinioni e passi di filosofi delle origini come
Anassimando, Empedocle, Parmenide. Il suo lavoro è quindi parte di quella catena di scritti
dossografici che ha consentito almeno ad una parte del pensiero antico di giungere a noi (vedi le
voci Dossografia e Storia della filosofia: →).
Attivo nel VI secolo d.C., membro di quella Scuola di Atene (→) fondata dai neoplatonici in cui
operò anche Proclo, quando Giustiniano la chiuse nel 529 si trasferì in Persia, per poi rientrare ad
Atene negli anni successivi. Compose quindi una serie di commenti ad opere di Aristotele (Fisica,
Categorie, Il cielo, L’anima) e al Manuale di Epitteto.
Simposio
Quella del simposio era un'usanza assai diffusa in Grecia: ci si riuniva alla sera in un ristretto gruppo
di amici e conoscenti, a casa di qualcuno, e lì si trascorreva il tempo sorseggiando vino, discutendo
di svariati argomenti - il più delle volte dotti -, ascoltando il suono del flauto e i canti, spesso fino a
tarda notte o addirittura fino a mattina.
Nella letteratura molti autori hanno scelto questa ambientazione come cornice letteraria per la
propria opera, poiché bene si adattava a un tipo di esposizione dottrinaria ed erudita, ma non trattatistica e quindi più scorrevole e discorsiva. Gli esempi più famosi sono proprio quelli del Simposio
platonico e del Simposio di Senofonte, poi imitati da Plutarco, Macrobio e molti altri.
La parola greca symposion è composta da syn, insieme, e pinein, bere. La sua etimologia ci mostra
come la consuetudine di riunirsi insieme, in un cenacolo privato di amici, fosse legata al vino,
nella sua matrice prettamente culturale e tradizionale.
Nella Grecia antica e classica, infatti, il vino aveva un'importanza e un significato speciali: non era
semplicemente svago o vizio, ma diventava addirittura una vera e propria pratica di natura religiosa. Dioniso era il suo dio.
Come si svolgeva un simposio
Innanzi tutto è necessario distinguere il simposio vero e proprio dal banchetto che era la fase
immediatamente precedente il simposio, durante la quale gli ospiti, a coppie di due, venivano fatti
accomodare sui klínai - una sorta di letti muniti di un comodo schienale cui appoggiarsi -, dopo
che i servi del padrone di casa avevano tolto loro i sandali e lavato i piedi. Infine veniva servita la
cena da giovani schiavi, possibilmente aggraziati e di bell'aspetto. Questa prima fase non era mai
accompagnata dal vino, che veniva consumato soltanto alla fine del pasto e per tutta la durata del
simposio. La netta separazione tra il momento del mangiare e quello del bere era dovuta a un
motivo essenzialmente religioso: il vino, essendo legato al culto di Dioniso, diventava l'elemento
principale di un vero e proprio cerimoniale; non poteva dunque venire consumato semplicemente
come bevanda, durante la cena, cioè durante una normale occasione d'incontro, priva di valenza
simbolica e religiosa. A volte, poi, gli invitati al simposio si incontravano direttamente dopo la
cena, al tramonto, eliminando dunque il momento della cena insieme.
La fase successiva era quella che dava inizio al simposio vero e proprio. I giovani schiavi portavano
olii profumati e corone di fiori, con cui cingevano il capo dei convitati e le coppe del vino. Veniva
fatta un'offerta simbolica a Zeus, con cibi e vino, mentre un coro, cui talvolta si univano anche i
convitati, innalzava un canto solenne e celebrativo, al suono del flauto e della cetra. L'effetto
suggestivo doveva certamente essere straordinario.
Il significato del bere insieme
Il simposio assume così una funzione e un significato sacrali: "L'offerta è in origine un rito che
deve rompere il tabù insito nel vino, bere significa penetrare nel demonico. [...] Il vino non è
semplicemente un dono degli dèi, ma è una divinità esso stesso: Bacco, Bromio, Dioniso, come
spesso il linguaggio simposiale chiama direttamente il vino" (Von Der Muhll 1983, p. 11.). II
simposio, nel suo complesso, era un rito collettivo, che attestava ai convitati l'appartenenza
esclusiva a una ristretta cerchia comunitaria, da cui erano rigorosamente esclusi tutti gli altri. Il
cerimoniale di cingere il capo dei convitati con corone di fiori era il gesto simbolico che sanciva il
loro ingresso nella nuova comunità, così come il bere in comune stava a suggellare un patto di
amicizia e di fratellanza. "Nella cultura greca per poter leggere nel cuore di un amico con cui si sta
insieme bisogna aver bevuto con lui a banchetto, perché il vino rivela il vero animo dell'uomo"
(Trumpf 1983, p. 47.). 'Il vino è il mezzo per guardare dentro l'uomo", dice Alceo, un poeta lirico
dell'età arcaica (sull'argomento è giunta sino a noi un'elegia di Senofane).
L'uso del bere vino non era mai libero e indiscriminato: fra i presenti veniva eletto un simposiarca,
che regolava nei minimi dettagli la quantità di vino da consumare, il dosaggio di acqua con cui
allungarlo e perfino il numero di coppe che spettavano a ciascuno. La moderazione nel bere era
considerata in genere un segno imprescindibile di buon comportamento e rispettabilità.
L'ubriachezza smodata era talvolta una fonte di vergogna e offesa; nel Simposio di Platone viene
più volte sottolineato che Socrate, per quanto vino potesse bere, non si lasciava mai andare
all'ubriachezza. Per la mentalità greca l'eccesso a cui poteva portare il vino, assunto in quantità
indiscriminata, rientrava in qualche modo all'interno del concetto di hybns, la tracotanza, e quindi
l'opposto - al negativo - del principio di armonia e misura, quello stesso principio che regolava
l'ordine del mondo.
La musica e l’Eros nel simposio
Durante il simposio, oltre alle flautiste, agli schiavi e ai coristi, potevano esservi le etere, una sorta di
cortigiane di condizione servile, che intrattenevano gli ospiti con danze, giochi, indovinelli. La
presenza delle etere era inseparabile da un elemento tipicamente sessuale; le pitture vascolari che ci
sono rimaste confermano questa funzione erotica che le danzatrici e le suonatrici di flauto
ricoprivano. È importante però comprendere che la sessualità - nei suoi diversi aspetti e
orientamenti: omosessualità maschile e femminile, eterosessualità, amore collettivo - era concepita
dai Greci in maniera del tutto diversa dalla nostra. Nel caso specifico del simposio, per esempio,
l'elemento erotico - e in particolare orgiastico - era inserito in un contesto che abbiamo definito
intellettuale e addirittura sacrale, e questo non deve apparire strano o contraddittorio. Questa
sessualità era infatti strettamente connessa all'aspetto intellettuale: l'orgia non rappresentava
necessariamente uno scendere di livello, un abbandonarsi a istinti indecorosi e scandalosi, ma
costituiva un normale aspetto delle riunioni conviviali.
L'elemento ludico del simposio era però sostanzialmente marginale; il suo carattere primo era
infatti quello intellettuale: venivano discussi svariati argomenti, recitate o improvvisate
composizioni poetiche o discorsi retorici. Come nel Simposio platonico, quando il discorso si
innalzava a un livello particolarmente alto, venivano mandati via i suonatori, le danzatrici, gli
schiavi e chiunque non appartenesse alla cerchia dei convitati.
Un particolare importante che è stato fin qui trascurato è il carattere rigorosamente maschile di
questi incontri conviviali: le donne infatti non erano mai tra i convitati - anche quelle appartenenti
alle classi sociali più elevate -, così come d'altronde erano escluse dalla vita politica.
Simulacri
In Epicuro i simulacri (in greco eidola) sono le sottilissime pellicole composte di atomi che si
staccano tutti i momenti dai corpi e, colpendo i nostri organi di senso, provocano la formazione
delle rappresentazioni che ne abbiamo. La dottrina dei simulacri costituisce la base fisica della teoria
materialistica della conoscenza.
Sinecismo
Dalle parole greche syn e oikeo, che traduciamo con insieme e risiedo, il termine sinecismo indica la
riunione di varie comunità distribuite su un territorio allo scopo di costituire una sola polis. Questa
pratica era dettata per lo più da necessità di difesa comune, o da altre ragioni politiche miranti al
rafforzamento del territorio. Benché i dettagli storici siano spesso lacunosi e vari casi di sinecismo
siano riferiti a leggende di tipo mitico (come il sinecismo delle varie città dell’Attica al tempo del
mitico re di Atene, Teseo), si suppone che sia trattato della volontaria perdita di autonomia di
piccoli centri a favore della città più grande, oppure della fondazione di una città comune da parte di
villaggi sparsi. In ogni caso, il sinecismo difficilmente era frutto di una rapida e traumatica decisione
politica, e più spesso era il frutto di un lento e naturale processo di rafforzamento intorno a un
centro comune.
A fianco del sinecismo, esistevano varie altre forme di unione politica tra poleis:
- con la synpoliteia (da syn e politeia, termine per cui rimandiamo alla voce specifica: →) diverse
comunità politiche, non necessariamente contigue, si legavano con un patto di unione per formare
quello che oggi chiameremmo un unico Stato (era spesso usata da città di ridotte dimensioni per
accedere ai bvantaggi di appartenere in condizione di parità ad una realtà politica più ampia);
- con la isopoliteia (isos significa uguale) diverse poleis concedevano ciascuna il diritto di cittadinanza
ai cittadini dell’altra, pur restando realtà politiche distinte.
Sinolo
È termine specifico della filosofia aristotelica, ed in particolare della sua teoria della sostanza (→).
In greco synolos significa unità, e in effetti il sinolo è l’unità della sostanza studiata, più esattamente
unità di materia (→) e di forma (→). La sua realtà è per definizione legata al movimento, perché la
materia è soggetta al passaggio dalla potenza all’atto e quindi al perenne processo delle
trasformazioni: il sinolo può quindi generarsi, corrompersi, trasformarsi. Oltre che alle nozioni di
materia e di forma, per il sinolo vanno quindi anche richiamate le nozioni di atto (→) e di potenza
(→).
Sinonimo / Sinonimica
La sinonimica era una disciplina linguistica introdotta da Prodico di Ceo (→) con il suo Trattato di
sinonimica. Aveva l’obiettivo di identificare le sfumature lessicali dei sinonimi e il loro rapporto con
la realtà della cosa a cui essi fanno riferimento.
Benché Platone abbia ridicolizzato questa ricerca (ad esempio nel Protagora), in effetti essa non è
lontana dall’indagine socratica sul significato delle parole e sull’identità dei concetti.
Ricordiamo che i sinonimi (synonymos) sono termini che hanno uno stesso significato (cioè dicono
la stessa “cosa”), o che si differenziano per piccole sfumature di significato coprendo un campo
semantico molto simile. Aristotele (in Categorie 1-1) ne dà una definizione più estesa, chiamando
sinonimi “quegli oggetti che hanno tanto il nome in comune quanto la medesima definizione”.
Sinope
L’antica Sinope è l’attuale Sinop, in Turkia. Fondata da coloni provenienti da Mileto, venne
distrutta dai Cimmeri nel VII secolo a.C. e quindi nuovamente rifondata, sempre dai Milesi.
Divenne un centro commerciale di primaria importanza lungo le rotte del Ponto Eusino, sulle cui
coste sorgeva, tanto da fondare a sua volta diverse altre colonie che le divennero tributarie.
La prosperità commerciale che le derivava dalle sue produzioni e dalla vocazione mercantile, favorita
dalla posizione, fece sì che le potenze dell’area non le consentissero di mantenersi autonoma.
Politicamente andò quindi soggetta prima ai Persiani, poi sotto i sovrani del Regno del Ponto, poi
sotto i Romani. Riuscì a mantenere il suo ruolo commerciale anche per tutto il periodo imperiale
romano.
Siracusa
Al contrario della maggior parte delle città greche della Sicilia e della Magna Gecia, Siracusa
mantenne (tra alti e bassi) la sua posizione di città egemone in Sicilia, e in alcuni momenti di
capitale, per oltre un millennio, tra la sua fondazione avvenuta nella seconda metà dell’VIII secolo
a.C. e la conquista araba della Sicilia, avvenuta nel IX secolo d.C. (poi gli Arabi spostarono la
capitale a Palermo e la centralità di Siracusa venne meno).
Una delle ragioni storiche del persistere del ruolo di Siracusa in Sicilia, e in alcuni periodi anche in
vaste aree della Magna Grecia, fu il suo stabile legame con l’Oriente, dovuto anche alla sua
posizione. Era una città particolarmente ben difendibile, perché il suo cuore sorgeva su un’isola
(Ortigia) a ridosso della costa, fatto che consentiva anche la possibilità di avere due porti.
A fondarla, secondo la tradizione nel 734 a.C., furono coloni provenienti da Corinto, città alla quale
rimase sempre legata, sia da un punto di vista culturale che commerciale, pur nella abituale reciproca
indipendenza politica. Fondò a sua volta varie colonie.
La forma tipica di governo che si affermò a Siracusa fu la tirannia, con tiranni in qualche caso
particolarmente abili.
Dal punto di vista della storia della filosofia e della scienza, Siracusa fu una città importante in
diverse epoche:
- nel V secolo a.C. perché ospitò i più importanti tra i poeti lirici e tragici (tra cui Eschilo)
dell’epoca e qui furono composte alcune delle maggiori opere del teatro e della lirica (il teatro greco
di Siracusa è ancora oggi attivo);
- nel IV secolo a.C. perché fu al centro di ben tre tentativi (falliti) di Platone di porre le condizioni
per la trasformazione dello Stato esistente sulla base delle sue idee politiche;
- nel III secolo d.C., perché fu la sede dove operò uno del massimi scienziati dell’antichità,
Archimede.
Sirene
Figure del mito, e più in generale del folklore, le Sirene (in greco Seirenes) erano demoni marini che
abitavano isole e scogli del Mediterraneo occidentale, in numero di due o quattro, o più. Ad esse
erano associate varie tradizioni e raffigurazioni. Avevano il volto e una parte del corpo di donna, per
il resto erano uccelli con artigli molto pericolosi.
Attiravano i marinai facendoli naufragare contro gli scogli, per poi divorarli. La loro arma di
seduzione era il canto, a cui si diceva nessuno sapesse resistere. Ma il mito racconta di due casi in cui
il loro potere subì una sconfitta: quando gli Argonauti compirono la loro spedizione, Orfeo era con
loro, e il suo canto si rivelò più affascinante, sicché i marinai si salvarono; e Ulisse, in un celebre
episodio dell’Odissea, sapendo per una predizione che la sua nave sarebbe passata nei pressi degli
scogli delle Sirene, ne ascoltò sì il canto, ma non prima di essersi fatto legate all’albero maestro e
avere tappato con la cera le orecchie dei suoi marinai.
Siria
È la regione mediorientale che comprendeva nell’antichità i territori oggi divisi tra gli Stati di Siria,
Israele, Giordania e Libano. Abitata da tempi antichissimi, la Siria fu culla della civiltà umana nei
millenni della nascita delle città e dell’agricoltura (per le aree non desertiche era parte della
cosiddetta “mezzaluna fertile”). Nel II Millennio a.C. Ittiti ed Egiziani si confrontarono a lungo per
il controllo di queste terre.
In età greca, la Siria era legata alle grandi realtà politiche dell’Oriente: Assiri, Babilonesi, Persiani, e
in ultimo i Macedoni di Alessandro Magno, riuscirono a conglobare nei loro imperi le città siriache
che, come Damasco, nei primi secoli del I millennio a.C. si erano sviluppate come città-stato (il
fenomeno è parallelo alla nascita delle poleis greche negli stessi anni).
Dopo Alessandro Magno, la Siria fu uno dei territori dell’Impero dei Seleucidi – emerso dalle lotte
tra i “diadochi” – e tale rimase fino alla conquista romana (le lotte tra i Seleucidi di Siria e i Tolomei
d’Egitto si protrassero a lungo indebolendo entrambi). Nel 63 a.C. i Romani crearono la Provincia
di Siria, a quel tempo fortemente ellenizzata, con diverse città di nuova fondazione organizzate e
gestite sul modello greco.
Va sottolineato il ruolo mercantile della Siria, aperta da un lato sul Mediterraneo, dall’altro
sull’interno asiatico, e percorsa dalle vie carovaniere. Ebbe sempre un ruolo di cerniera tra le
variegate realtà asiatiche e le realtà mediterranee, nel I Millennio a.C. soprattutto greche.
Dal punto di vista della storia della filosofia la Siria ha un ruolo non secondario sia perché da
quest’area provenivano diversi filosofi che scrissero in greco e furono spesso pienamente ellenizzati,
sia perché alcune delle città siriache erano fortemente influenzate dalla cultura greca e ospitavano
istituzioni di studio e di ricerca di tipo greco.
Sistema filosofico
La nozione è moderna, e anche la dizione: nel linguaggio filosofico greco il termine systema compare
tardi, con Sesto Empirico, e indica l’insieme delle premesse e delle conseguenze di un ragionamento
condotto con ordine. Gli Stoici tuttavia a volte usano il termine systema per indicare il cosmo, cioè il
Tutto ordinato in ciascuna delle sue parti.
La nozione moderna di sistema filosofico indica invece l’insieme unitario di dottrine filosofiche che si
richiamano ad un unico principio, sicché tutti i problemi esaminati e tutte le teorie proposte sono
ricondotte ad un unico quadro d’insieme.
Da questo punto di vista almeno l’Epicureismo, lo Stoicismo e il Neoplatonismo sono sistemi,
anche se nell’antichità non si usava questa nozione e non se ne introdusse il concetto. In linea di
principio lo è anche la filosofia di Aristotele, ma con due riserve: lo stato in cui ci sono pervenuti i
suoi scritti, non privi di punti oscuri che rendono difficile su determinate questioni ricostruire una
sicura visione d’insieme, e il fatto che Aristotele non riconobbe a tutte le parti della sua enciclopedia
filosofica lo stesso grado di certezza razionale e di deducibilità rispetto a principi.
Ancor meno sistematica è la filosofia di Platone, che si presenta come un insieme di percorsi
dialettici. I tentativi di ridurre il platonismo a unità sistematica – portati avanti a partire da Plotino
– si sono protratti fino a gran parte dell’età rinascimentale, in qualche caso anche ponendo
l’obiettivo di ricostruire una unità tra le loro opere (così, ad esempio, nel Quattrocento italiano).
Ancora oggi ci sono studiosi che tentano di leggere il platonismo in chiave sistematica.
Sistema tolemaico
In età moderna si chiamò così la descrizione fisico-matematica dell’universo proposta da Claudio
Tolomeo (→), lo scienziato alessandrino del II secolo d.C. che propose in modo organico e unitario
le conoscenze astronomiche del suo tempo inserite in un disegno interpretativo complessivo, che era
basato su concezioni geometriche su molti punti d’avanguardia (soprattutto nel campo della
trigonometria piana e sferica).
Nel Medioevo la sua opera astronomica venne conosciuta come Almagesto, dal titolo che le diedero
gli Arabi, perché l’opera venne letta dagli intellettuali europei attraverso la mediazione della cultura
araba. Il titolo greco era Mathematike syntaxis, cioè Sintassi matematica, o Raccolta matematica.
Il sistema tolemaico, basato su complessi calcoli astronomici e su una geometria molto elaborata che
mirava a interpretare in modo unitario e coerente tutti i dati astronomici di cui l’antichità disponeva,
concepiva l’universo finito, sferico e geocentrico. La Terra era quindi posta al centro dell’universo
circondata da Cieli – concepiti come strutture cristalline perfettamente trasparenti, ma solide – che
ruotavano in modo perfettamente regolare. A ciascun cielo era associato un astro (nell’ordine: Luna,
Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) e l’insieme era chiuso dal cielo delle stelle fisse.
Poiché questo modello non corrispondeva del tutto ai dati, Tolomeo propose vari altri movimenti
dei Cieli, anch’essi del tutto regolari, descritti da figure geometriche per le quali propose modelli e
calcoli spesso originali.
Società
Il termine greco koinonia, che traduciamo con società, è legato a koinos, comune, e dunque la società
è ciò che è comune ai suoi membri (da koinos viene coena, la cena, cioè il pasto comune). In Platone
la società è la comunità che si identifica con la polis stessa. Aristotele precisa la nozione
distinguendo due tipi di società, la famiglia e la polis, entrambe tese al bene comune (Politica, I, I, 1)
e collegate dal fatto che la polis svolge una funzione sociale più ampia, ma egualmente su base
naturale (vedi la voce Stato: →).
Di fatto la nozione di società e quella di polis (quindi di Stato, nella misura in cui la polis è uno Stato
nel senso moderno del termine) tendono a sovrapporsi almeno sino all’età ellenistica. Quando il
legame tra l’uomo e il cittadino, inteso come membro della comunità politica in cui si identifica (la
polis, appunto), comincia a venir meno per l’inserimento delle città greche in complessi più ampi – i
regni ellenistici in Oriente, la sfera politica romana in Magna Grecia e in Sicilia -, il modello di
società a cui fanno riferimento i filosofi cambia:
- gli Epicurei sottolineano come, dentro la compagine dello Stato a cui il saggio dedicherà un
impegno limitato e prudente, vi sia spazio per una società ristretta decisiva per la felicità individuale,
la comunità di amici di cui il “Giardino” di Epicuro era stato il modello; una società privata, ma non
troppo, perché il legame tra i membri non è simile a quello, davvero privato, di una famiglia, ma ha
caratteristiche a se stanti;
- gli Stoici sottolineano che l’uomo è cittadino del mondo e quindi la società a cui deve fare
riferimento non è quella a cui appartiene per ragioni di nascita o politiche, ma è l’umanità stessa;
scrive Cicerone che per gli Stoici “noi siamo nati per l’aggregazione degli uomini e per la società e la
comunità del genere umano” (De finibus, IV).
Socrate/Diotima
Nel Simposio di Platone il personaggio Socrate pronuncia come gli altri protagonisti un discorso su
Eros, ma dice di riportare in effetti le parole della sacerdotessa Diotima , alla cui voce rimandiamo.
Poiché in controluce Platone sembra stabilire un accostamento tra Socrate ed Eros, dedichiamo una
voce specifica al discorso di Socrate/Diotima.
L’immagine di Socrate che emerge dal Simposio è nettamente ambivalente:
- da un lato è un essere demonico (l’espressione è di Alcibiade nell’elogio finale), dai tratti dionisiaci
con le sue “arie da flauto”, simile al Sileno che racchiude in sé tesori nascosti la cui contemplazione
(è sempre Alcibiade a dirlo) apre ad esperienze meravigliose; sembra in possesso di verità nascoste
agli altri, fatto confermato dalla sua stessa affermazione di essere esperto delle cose d’amore (in tutto
il Simposio il “so di non sapere” non ha campo in realtà) e dalla rivelazione di cui è fatto oggetto da
parte di Diotima; attrae i giovani che se ne innamorano; la stessa caratteristica demonica è nei suoi
discorsi, di fronte ai quali chiunque lo ascolti subisce un incantesimo, superata l’apparente loro
semplicità: mettono in questione il proprio io, scuotono l’anima; tutti questi caratteri che emergono
dalle sue stesse parole e dall’elogio di Alcibiade sono in qualche modo anticipati e confermati dalle
parole iniziali di Apollodoro;
- dall’altro Socrate è una persona di straordinaria calma e capacità di dominio di sé; sa stare per ore
concentrato in se stesso, a pensare; sopporta il freddo anche in condizioni estreme; è
coraggiosissimo in guerra; resiste ad ogni tentazione dei sensi e ad ogni tentativo di seduzione;
benché tutti lo vedano bere, nessuno lo ha mai visto ubriaco; e così via.
Queste due anime del maestro – quella demonica e quella capace di pieno dominio di sé – hanno
entrambe tratti simili all’immagine di Eros, soprattutto (ma non solo) così come emerge dalla
rivelazione di Diotima:
- Eros è filosofo dai tratti inquietanti e non dominabili in quanto amante della sapienza;
- Eros è sereno nella sua pura contemplazione della bellezza una volta giunto al culmine dell’ascesa
nell’ultima rivelazione di Diotima.
Come le due immagini di Eros sono poste in relazione, attraverso una cesura del suo discorso, dalla
stessa Diotima, così le due immagini di Socrate si richiamano l’un l’altra: ma quando Alcibiade
rivela a Socrate nella notte in cui la seduzione diviene esplicita di vedere in lui un tesoro interiore,
Socrate nega che questo tesoro esista.
Socrate resta per Alcibiade come per tutti (e quindi a maggior ragione per noi) una figura
imprendibile.
Il discorso di Socrate-Diotima nel Simposio di Platone
Il discorso di Socrate ha una premessa nel dialogo con Agatone, che viene costretto [con qualche
pedanteria, osservano alcuni degli studiosi] ad ammettere di avere sbagliato nel dire che Eros è
bello. In quanto amante della bellezza, la desidera; non può quindi essere bello perché non si
desidera ciò che si possiede.
Socrate precisa di avere egli stesso a suo tempo sostenuto le tesi di Agatone – allora era giovane
come lui - e di essere stato indirizzato sulla via della conoscenza della vera natura di Eros dalla
sacerdotessa Diotima, ormai anziana (vedi la voce Diotima: →). Ha così appreso le ragioni per cui
Eros non può essere bello; ma non è brutto: è a mezza via tra la bellezza e la bruttezza, e desidera la
bellezza; quindi Eros è amante, non amato.
È un demone, non un dio, e media tra la realtà degli uomini e quella degli dèi in modo che il Tutto
sia ordinato e unito. Presiede quindi alle arti divinatorie. Figlio di Poros e di Penia, concepito nella
notte in cui gli dèi festeggiavano la nascita di Afrodite, è strettamente legato alla sua bellezza.
Trama inganni come il padre, è sempre povero come la madre, è filosofo in quanto ama la sapienza.
Chi segue Eros è quindi sempre pieno di desiderio per quel che non ha, in tutti i campi, e questo
stimola la creatività perché il fine ultimo non è soltanto il possesso di ciò che non si ha – il desiderio
è figlio della mancanza di ciò che si desidera -; chi è in amore desidera anche creare nella bellezza,
sia nei corpi (procreando) che nell’anima (con le opere proprie dell’anima). Dietro tutto questo
Diotima legge il desiderio di immortalità, che può essere raggiunto solo attraverso la creatività del
corpo e dell’anima.
Precisando che non è certa che Socrate potrà seguirlo nel discorso che sta per fargli, Diotima gli
rivela una scala ascendente che chi è innamorato può percorrere, se ben guidato, che lo porta a
liberarsi dei vincoli d’amore per la singolarità delle persone e ad aprirsi alla pura contemplazione
della bellezza eterna e perfetta, che è il fine ultimo di tutta la ricerca di un cuore innamorato.
Socrate-personaggio / Socrate-storico
In molti dei dialoghi di Platone compare il personaggio Socrate. Non si tratta solo dei dialoghi
giovanili, relativi cioè a un periodo in cui Platone era legato alla memoria recente del maestro; si
tratta anche di dialoghi della maturità e, in misura minore, della vecchiaia. Il personaggio di Socrate
ha quindi accompagnato Platone lungo quasi tutto l’arco della sua vita di scrittore.
Noi non possediamo alcuno scritto di Socrate, non perché siano stati perduti, ma perché la filosofia
di Socrate si è svolta interamente sul registro dell’oralità. Ci sono state tramandate altre
testimonianze sulla vita e sul pensiero di Socrate, in particolare da Senofonte, ma si tratta di opere il
cui spessore filosofico non è considerato elevato. Per conseguenza noi conosciamo molto male, e
indirettamente, l’esatto contenuto dell’insegnamento di Socrate. Anzi, la nostra fonte principale
sono proprio le opere di Platone.
Tuttavia Platone non aveva certamente alcuna intenzione di tipo storico: non intendeva registrare
nei suoi dialoghi l’insegnamento del maestro, ma intendeva proseguire per altra via – legata alla
pratica della scrittuta – l’insegnamento e la sua ricerca orale del maestro. Per conseguenza in molti
dialoghi il personaggio di Socrate sembra proprio che enunci riceche e teorie platoniche (o
comunque legate alle pratiche di vita e di ricerca dell’Accademia).
Noi non riusciamo quindi più a distinguere con chiarezza le teorie del Socrate storico da quelle del
Socrate personaggio platonico e suo portavoce. Ma nelle opere della maturità (nel Simposio, nella
Repubblica, nel Fedro, e così via) sembra proprio che il personaggio di Scrate dia voce al pensiero di
Platone e alle ricerche dialettiche dell’Accademia.
“So di non sapere”
È una celebre frase di Socrate, nell’Apologia platonica, che definisce la differenza tra l’ignoranza
consapevole e quella inconsapevole, stabilendo la superiorità della prima sulla seconda perché dà un
effettivo guadagno in termini di conoscenza e consente di evitare errori.
Non si tratta di una nozione scettica in senso proprio: la frase non significa che è impossibile sapere,
ma che è facile ingannarsi ed è indispensabile distinguere il vero dal falso e, quando non si sa il vero,
accettare il fatto che la ricerca deve continuare.
Soffio vitale
Vedi le voci Pneuma e Psyche
Sofisma
La parola greca sophisma, che rendiamo con sofisma in italiano, era usata in ambienti platonicoaristotelici per indicare qualsiasi forma di ragionamento capzioso, di tipo eristico (→), introdotto
nel discorso con l’obiettivo di vincere una contesa verbale con un avversario, con scarso o nullo
rispetto per la verità. Un’arma dialettica, dunque, non uno strumento di ricerca comune della verità.
Sofista / Sofistica
Con il nome di sofisti si indicano un gruppo di filosofi e di professionisti dell’insegnamento della
retorica e della formazione dei giovani che operarono nello spazio culturale greco nella seconda metà
del V secolo a.C.
Erano insegnanti che si spostavano da una città all’altra e proponevano regolari corsi a pagamento.
Poiché questi corsi erano molto costosi, potevano affidare i loro figli ai Sofisti soltanto i membri
delle élite dirigenti. L’obiettivo era la formazione dei cittadini (Vedi Paideia: →) in un contesto in
cui le capacità retoriche erano essenziali, nelle magistrature, nei tribunali, nelle assemblee, in
generale nella vita politica.
I singoli esponenti della sofistica non formarono mai un gruppo compatto e non c’è una dottrina
comune, ma solo temi comuni e uno stile di pensiero. Ciascuno dei sofisti ha proprie posizioni
filosofiche e ha svolto indagini indipendenti. I Sofisti hanno però dato vita ad un clima culturale che
ha portato a identificarli, già in epoca platonica, come appartenenti ad un’unica scuola filosofica: i
Sofisti infatti proponevano, a fianco di tecniche nuove nell’uso del linguaggio, anche una analisi
razionale della tradizione che ha portato gli studiosi moderni a parlare di “illuminismo greco”. È in
questo contesto che essi posero la questione del rapporto tra la legge e la natura: si veda su questo
punto la voce Nomos / Physis: (→).
Si distinguono due successive generazioni di sofisti:
- la prima è quella dei maestri che avviarono le pratiche professionali di insegnamento e di ricerca:
Protagora di Abdera (→), Gorgia di Lentini (→), Prodico di Ceo (→), Ippia di Elide (→), e altri;
- la seconda è quella della cosiddetta Sofistica radicale (→), alla cui voce rimandiamo.
Le opere dei Sofisti sono perdute, salvo frammenti o brevi scritti, sicché è possibile ricostruire
l’identità di scuola e le dottrine dei singoli filosofi solo attraverso ricostruzioni di altri. Un problema
serio è rappresentato dal fatto che la nostra fonte più importante sono i dialoghi di Platone, in cui i
Sofisti compaiono in numero notevole, spesso come protagonisti (da Protagora a Gorgia, a vari
altri), ma Platone era un critico molto severo della Sofistica, e mette spesso in luce negativa i suoi
esponenti (anche se non sempre: non così la figura di Protagora nel Protagora, ad esempio). Questo
ha favorito variazioni molto forti nell’interpretazione che gli storici della filosofia hanno dato della
Sofistica in generale e dei singoli sofisti in particolare.
Sofistica radicale
Gli storici della filosofia indicano con questa dizione i sofisti della seconda generazione, attivi
intorno all’epoca della Guerra del Peloponeso, quindi nell’ultimo quarto del V secolo a.C.
L’aggettivo radicale dipende dal fatto che questi filosofi accentuarono il carattere di rottura rispetto
alla tradizione che il razionalismo sofista portava implicitamente con sé già nei filosofi della prima
generazione.
Vedi le Crizia (→), Antifonte Sofista (→) e Nomos / Physis (→).
Sofocle
Poeta tragico, nacque a Colono nei pressi di Atene nel 496 a.C., ed era quindi di una generazione
più giovane rispetto a Eschilo. Visse a lungo (morì ad Atene nel 406 a.C.), e sopravvisse al più
giovane Euripide, il terzo dei grandi poeti tragici del V secolo a.C., e per la prima parte della sua
vita operò quando ancora Eschilo era in attività. Sicché la sua vita copre quasi l’intero secolo.
Nato in una famiglia facoltosa, dovette avere una educazione raffinata, e si impose presto come
musicista e attore, e solo dopo come poeta tragico. Negli anni di Pericle fu vicino al grande statista
ed ebbe incarichi politici di primo piano: fu due volte stratega e, ormai molto anziano, ebbe un
ruolo importante ad Atene nei difficili anni dopo il fallimento della spedizione in Sicilia al tempo
della Guerra del Peloponneso.
Le fonti ce ne parlano come di una persona di successo, che seppe procurarsi il benvolere dei suoi
concittadini, che gli tributarono molti onori (ebbe 18 vittorie alle Grandi Dionisie: →). Una parte
del suo successo, oltre che alle qualità personali e alla sua attività come poeta tragico, era dovuta al
suo impegno religioso: ricoprì infatti diversi incarichi di questa natura.
Della sua vasta produzione (sembra che abbia composto quasi un centinaio di tragedie e 25 drammi
satireschi) ci rimangono solo sette tragedie (Antigone, Filottete, Aiace, Edipo re, Edipo a Colono, Le
Trachinie, Elettra) e vari frammenti.
La tradizione attribuisce a Sofocle alcune innovazioni tecniche per la tragedia: un terzo attore,
l’aumento da 12 a 15 dei coreuti, la separazione tematica delle tre tragedie che componevano la
trilogia (vedi la voce Teatro greco: →), che Eschilo aveva invece mantenuto.
Soggetto / Soggettivo
Hypokeimenon, che traduciamo con soggetto, letteralmente indica ciò che sta sotto, il substrato.
Questo è il significato del verbo hypokeisthai, stare sotto, cioè stare a fondamento, alla base di.
Aristotele riferisce questo termine alla ousia, la sostanza (→) in quanto è un substrato per gli
accidenti.
A parte quest’uso aristotelico, il termine soggetto (vedi la voce Io: →) ha poi un uso generale, in due
distinte accezioni:
- in senso tecnico come sinonimo di io, al centro del processo di conoscenza e della coscienza come
sapere di sé, come fonte dell’azione morale, del giudizio estetico, e così via, o come espressione della
funzione conoscitiva dell'io;
- in senso più generale come l‘identità di chi compie un'azione e ne porta la responsabilità.
I problemi filosofici intorno al soggetto nascono dalla grande difficoltà di darne una definizione non
puramente intuitiva e di intenderne l'identità in domande del tipo: chi è l'io? che cos'è la mente di
cui è parte? ha una natura materiale o spirituale? e così via.
Sul piano della conoscenza si veda anche la voce Soggetto/Oggetto.
Soggetto / Oggetto
Questa dizione è moderna, ma almeno uno dei campi problematici a cui essa è legata (per la
filosofia moderna se ne porranno altri) è chiaro già nella filosofia greca, in particolare in Plotino.
Perché l’io abbia chiara coscienza di sé come soggetto conoscente, è indispensabile che abbia
coscienza di un oggetto; questo significa che la coscienza per sua natura deve sdoppiarsi in soggetto
e oggetto: è possibile superare questo sdoppiamento e intuire l’origine della differenza tra soggetto
ed oggetto, se questa origine unitaria esiste? Plotino chiarisce che l’Uno come origine prima di
qualsiasi realtà non può essere solo oggetto di conoscenza intellettuale, perché altrimenti sarebbe un
oggetto accanto ad altri oggetti che il soggetto conosce; invece l’Uno non è un oggetto, ma la fonte
della distinzione tra soggetto e oggetto. Per risalire all’Uno occorre una forma di conoscenza che
non separi il soggetto e l’oggetto.
Se una simile forma di conoscenza esista, è problema che Plotino esamina rispondendo
affermativamente (è l’intuizione intellettuale che mette capo all’estasi: vedi le voci Intuizione ed
Estasi: →).
La filosofia greca precedente non ha posto il problema in questi termini, che nascono con Plotino;
ma le teorie sull’io e sulla coscienza che sono state proposte non consentono di affermare che altri
prima di Plotino (neppure Platone, che spesso parla sotto il velo del mito) avrebbe risposto
affermativamente alla domanda sull’esistenza di una facoltà di coscienza che non passi per la
distinzione tra soggetto e oggetto. A meno che la contemplazione (→) platonica non si intenda in
questo senso.
Vedi anche le voci Io e Coscienza (→)
Sogno
In estrema sintesi, le concezioni greche sui sogni sono due, entrambe presenti nei poemi omerici e
quindi probabilmente risalenti a tempi antichissimi:
- una interpreta il sogno come proveniente da una realtà esterna alla mente, in genere divina, e legge
quindi il contenuto del sogno come un messaggio che la persona che sogna riceve dall’esterno (così,
ad esempio il sogno di Achille in Iliade, XXIII); questa concezione del sogno è legata in medicina
alla pratica dell’incubazione (→);
- una l’interpreta invece come una voce proveniente dall’interno che parla attraverso simboli, e
quindi da ascoltare perché chi sogna riceve una sorta di messaggio da se stesso (così ad esempio il
sogno di Penelope in Odissea, XIX).
In entrambi i casi il sogno è concepito come un messaggio, e quindi come un linguaggio il cui
contenuto comunicativo può essere interpretato, cioè inteso nel suo senso autentico, nascosto o
palese che sia. E intorno al V secolo a.C. fiorì la professione degli interpreti di sogni, con ambizioni
scientifiche; di queste figure si servirono anche i sovrani (non si trattava quindi soltanto di credenze
popolari), ad esempio Alessandro Magno che era accompagnato nella sua spedizione in Asia dal suo
interprete personale.
La base scientifica delle interpretazioni era data dalla convinzione, proposta esplicitamente dalla
medicina laica, che i sogni fossero un segnale diagnostico, perché durante la notte l’anima del
dormiente poteva captare piccoli segnali con cui il corpo segnalava i propri squilibri. Una lettura in
chiave scientifica del sogno propone anche Aristotele, che se ne occupa in due trattatelli dei Parva
naturalia, intitolati Sul sonno e la veglia e Sui sogni.
Sull’antica arte dell’interpretazione dei sogni è giunto sino a noi un celebre trattato dell’antichità,
intitolato appunto Interpretazione dei sogni (in greco Oneirokritika), scritta nel II secolo d.C. da
Artemidoro di Daldi, in cui vengono distinti i sogni concernenti il presente o il passato e quelli
concernenti il futuro: i primi derivano da una percezione sensoriale diretta o da una sua
amplificazione fantastica, i secondi hanno un carattere profetico o semplicemente simbolico.
Sole
Nelle culture dell’Oriente vari dèi erano associati al Sole, sia in Egitto che in Mesopotamia. In
Grecia il Sole è Elios, divinità raffigurata come un giovane bellissimo – a volte associato ad Apollo –
che percorre la volta celeste su un carro di fuoco trainato da cavalli. Anche nel mondo romano il
Sole è una divinità.
In filosofia, il problema della natura del Sole, e in particolare del suo calore, è studiato a partire dai
naturalisti, e ritorna in tutte le teorie cosmologiche dell’antichità. Il tema più studiato è però la sua
posizione rispetto alla Terra (→) e il calcolo dei suoi movimenti, sia a fini di ricerca astronomica, sia
al fine della migliore definizione del calendario annuale.
Nell’antichità prevalse la tesi della centralità della Terra (vedi la voce Sistema Tolemaico: →).
Solidi regolari (o Solidi platonici)
Sono solidi costruiti passando dai poligoni piani allo spazio tridimensionale, e hanno una
caratteristica specifica: le loro facce sono identiche. Euclide negli Elementi dimostra che ne possono
esistere solo cinque:
- il tetraedro (quattro facce triangolari);
- il cubo (sei facce quadrate);
- l’ottaedro (otto facce triangolari);
- il dodecaedro (dodici facce pentagonali);
- l’icosaedro (venti facce triangolari).
Di possibile (ma non certa) origine pitagorica, la riflessione filosofica su questi solidi è legata a
Platone che nel Timeo li associa a elementi fisici:
- il tetraedro al fuoco (→);
- il cubo alla terra (→);
- l’ottaedro all’aria (→);
- il dodecaedro con l’etere (→);
- l’icosaedro con l’acqua (→).
Questa teoria, carica di valenze mistiche e astrologiche, potrebbe risalire a Teeteto (→), un
matematico della cerchia di Platone, ed ha una storia importante tra l’età tardo-antica e il
Medioevo, quando gli studi platonici ripresero dopo un’epoca di stasi.
Anche in età moderna i cinque solidi regolari furono oggetto di studi specifici, soprattutto da parte
di Keplero.
Solone
Solone, nato ad Atene intorno al 640 e morto nel 560 a.C., era un aristocratico che ci è noto non
solo per la sua attività politica, ma anche per la sua produzione poetica di cui ci rimangono diversi
frammenti, in cui chiarisce le proprie scelte politiche e le ragioni della sua riforma. Noto anche al di
fuori di Atene, i Greci lo considerarono uno dei Sette Sapienti.
Nel 594-593 venne nominato arconte ad Atene con poteri straordinari, e in questa veste introdusse
nel sistema politico ateniese riforme fondamentali e, in parte durature, almeno nei loro principi.
Solone stabilì che nessun cittadino sarebbe mai più stato venduto per debiti, e fece in modo che
riconquistassero la libertà e potessero tornare nell’Attica quanti erano stati venduti come schiavi. Da
quel momento in poi la intangibilità della libertà dei cittadini rimase uno dei principi giuridici più
radicati nella cultura ateniese.
Il termine per indicare questa riforma è seisachtheia, cioè sgravio dei pesi, perché i contadini
impoveriti vennero sgravati dei loro debiti e restituiti alla loro libertà. I contadini chiedevano di più,
cioè una nuova distribuzione delle terre dell’Attica, ma questa riforma avrebbe comportato un forte
ridimensionamento del potere dei nobili. Solone non scelse questa strada, ma quella di un equilibrio
coerente con la tradizione, solo un po’ più favorevole al demos. Il potere reale rimase quindi nelle
mani dei nobili, con alcuni correttivi che si dimostrarono essenziali per gli sviluppi futuri delle
istituzioni ateniesi.
Lo strumento tecnico per realizzare un miglior equilibrio dei poteri tra nobiltà e demos fu la
distribuzione dei cittadini in quattro classi di censo.
Il sistema di Solone non era basato sulla distinzione tra nobili e demos: non era la nascita a
determinare l’appartenenza ad una classe, ma il censo, misurato in prodotti agricoli. Da qui il
termine timocrazia (da time, censo) per indicare il tipo di costituzione che Solone introdusse.
Poiché il sistema di misurazione faceva riferimento a quanto ciascun cittadino ricavava dalla terra, e
non da altre attività, questa costituzione continuava a vedere i nobili al vertice dello Stato, perché
erano loro i grandi proprietari terrieri. Ma le classi con minori proprietà terriere ottennero due
vantaggi:
- a tutti venne riconosciuto il diritto di far parte a pieno titolo, indipendentemente dal censo,
dell’ekklesia, l’assemblea tradizionale che riuniva i cittadini e aveva di fatto pochi poteri (si ponga
attenzione a questo punto perché nello sviluppo delle istituzioni ateniesi questi poteri cresceranno
fino a divenire decisivi per la vita della polis con la nascita della democrazia);
- accanto all’Areopago (→), il tribunale di estrazione nobiliare, venne istituita l’Eliea, un tribunale
popolare di cui potevano far parte tutti i cittadini di età superiore ai trent’anni (vi si accedeva per
sorteggio, e i membri erano in numero molto alto, circa 6.000).
Questa riforme sul momento poterono sembrare non decisive – un sapiente dosaggio di poteri in cui
la nobiltà manteneva comunque la propria superiorità –, ma si rivelarono invece la base di sviluppi
notevoli: con l’ekklesia e l’Eliea, infatti, il demos aveva adesso la possibilità di insidiare la superiorità
del potere nobiliare, anche perché disponeva ormai di leggi scritte, cui tutti, nobili e demos,
dovevano sottostare.
Sorite (Argomento del)
La dizione greca soreites logos, cioè argomento (o ragionamento) del mucchio (soros vuol dire
mucchio) indica un celebre argomento proposto da Eubulide di Mileto (→), uno dei successori di
Euclide di Megara alla guida della Scuola Megarica (→). L’argomento si propone di mostrare
l’illusorietà delle nozioni di individualità e di pluralità degli enti, e quindi della stessa nozione di
ente come realtà. Si prenda un ente chiaramente identificabile come un mucchio di grano (o
qualsiasi altro ente che sia composto da parti, e tutti lo sono nella nostra esperienza): un chicco non
basta a fare un mucchio; quanti ne servono? due sono sufficienti? o tre? in realtà non è identificabile
un numero esatto, e quindi la nozione “mucchio di grano” è logicamente vaga e indeterminabile con
esattezza.
Questo argomento è riportato da Diogene Laerzio, VII-82. Aristotele riporta, attribuendolo a
Zenone di Elea, un argomento simile (Diels A-29), ma volto a dimostrare la scarsa attendibilità dei
sensi in generale e dell’udito in particolare: una grande quantità di grano che cade fa rumore; ma un
solo chicco di grano non fa rumore (percepibile dal nostro orecchio); ed è impossibile determinare
con esattezza quanti ne servono perché l’orecchio percepisca il rumore (né si comprende come mai
piccoli oggetti che cadono, come i chicchi di grano, in gran numero facciano rumore, mentre
ciascuno singolarmente non fa rumore).
Sostanza
È termine tipico della filosofia aristotelica, che ha tuttavia nella filosofia greca una storia precedente
e successiva. In greco è ousia, da ousa, participio femminile del verbo einai, essere. Nel contesto della
frase, quando non è usato con un significato specificamente tenico, ousia può indicare
semplicemente la realtà, ciò che è reale. E in effetti questo è il suo significato generale, al di là dei
tecnicismi con cui alcuni filosofi (Aristotele soprattutto) lo usano: l’ousia indica ciò che è, ciò che ha
realtà ed esiste davvero nel mondo esterno alla mente, al di fuori del nostro pensiero.
In Aristotele l’ousia (parola che, dato il suo legame col verbo essere, potrebbe essere resa con entità)
è la sostanza, cioè il significato principale e concreto dell’essere; quindi la prima delle categorie (→),
quella a cui tutte le altre ineriscono. Detto questo, va però anche ricordato che Aristotele usa in
realtà il termine in un vasto arco di significati:
- in senso debole lo riferisce alla materia che, in quanto ypokeimenon, è il sostrato (→) delle cose;
- in un senso più forte lo riferisce alla forma, perché dà identità alla materia, altrimenti informe,
dando vita all’identità degli enti;
- in senso pieno lo riferisce al sinolo come unità di materia e forma, che costituiscono l’identità
compiuta dell’essere degli enti.
Poiché la sostanza definisce l’essere di un ente, se l’ente è immateriale (ad esempio il Dio “pensiero di
pensiero”) cade ogni riferimento alla materia: sostanza è infatti, qualunque sia l’ente e a qualsiasi
realtà appartenga; è ciò che definisce nel modo più compiuto il suo essere, e risponde alla domanda
“che cos’è?”.
Il termine dopo Aristotele è utilizzato soprattutto dagli Stoici per indicare la materia, che costituisce
con la sua fisicità la base sostanziale dell’universo che, appunto, è universo fisico, vivificato dal Logos,
l’energia razionale che permea ogni cosa, anch’essa fisica.
A modificare in profondità l’uso del termine è Plotino, che chiama ousia l’essere dell’Intelligenza al
di là di cui si trova l’Uno, che è dunque alla radice della sostanza del pensiero senza identificarsi con
esso.
Sostrato
È termine aristotelico, poi ripreso dagli Stoici. Dal punto di vista del discorso, il sostrato
(hypokeimenon) è il soggetto di cui si predica qualcosa. Dal punto di vista reale è l’ente a cui si
attribuiscono determinati caratteri, quindi di volta in volta la materia, o la forma, o il sinolo (così in
Metafisica, VII-3).
Gli Stoici usano questo termine per indicare la base materiale dei corpi, mentre in altri autori
posteriori, come Sesto Empirico, indica gli oggetti reali stessi. Si veda anche la voce Sostanza (→).
Sparta
Sparta è stata per molti secoli, dall’VIII alla metà del IV a.C. quando la sua potenza decadde, una
delle polis più importanti dell’intero mondo ellenico, colonie comprese. In diretta competizione con
Atene nel periodo classico, sia dal punto di vista politico-economico che da quello della visione
sociale e dei modelli di vita individuale e collettiva, ha avuto la capacità di sconfiggerla sul piano
militare al tempo della Guerra del Peloponneso (→) e di influenzarne il dibattito politico-culturale
per secoli, offrendo un modello di vita pubblica e privata e un ideale di formazione dell’uomo
alternativi a quelli della sua democrazia (una parte non piccola dei ceti aristocratici ateniesi guardava
con simpatia a questi aspetti di Sparta, Platone compreso).
Dal punto di vista della storia della filosofia Sparta ha un ruolo importante perché ad essa hanno
guardato i teorici politici del mondo greco, studiandone con attenzione i valori e le istituzioni. Non
è invece importante direttamente come centro di studi filosofici, perché a Sparta non vi sono state
produzioni teoriche di rilievo. Ve ne sono state invece in colonie occidentali (da Siracusa a varie
città della Magna Grecia) legate alla cultura dorica e a Sparta.
La città era stata fondata dai Dori intorno al 1000 a.C., ma a parte i dati archeologici abbiamo
notizie semileggendarie dei suoi fondatori e dei primi secoli di vita, per mancanza di
documentazione scritta fino all’VIII secolo a.C.
In epoca storica la città si identificò con Lacedemone, che era stata la capitale dell’antico Regno di
Menelao, l’eroe omerico che dal punto di vista storico va collocato in età micenea. Ma non dovette
esserci continuità tra le due città, né furono abitate dallo stesso gruppo etnico greco, perché i primi
erano Micenei, i secondo Dori.
Tra il X e il VII a.C. secolo Sparta riuscì a controllare gran parte del Peloponneso, in particolare la
Laconia e la Messenia (quest’ultima area con due durissime e lunghe campagne militari che gli
storici hanno chiamato guerre messeniche: →).
La popolazione di Sparta era fortemente stratificata: al vertice della società c’erano gli Spartiati,
eguali tra loro, dediti al mestiere delle armi. La campagna era abitata dalla vasta moltitudine dei
contadini della Laconia e della Messenia, ridotti in semi-schiavitù: erano i cosiddetti Iloti, termine
dalla radice antichissima, forse predorica, che rimanda all’idea di cattura, di prigionia. Non avevano
alcun diritto politico né civile ed erano in una posizione giuridica simile ai servi della gleba del
Medioevo europeo, non molto lontana da una schiavitù vera e propria.
C’erano poi alcune città vicine a Sparta la cui popolazione, pur sottomessa agli Spartiati, aveva
tuttavia potuto mantenere i diritti civili e autogovernarsi, almeno entro certi limiti. A Sparta per
indicare queste popolazioni si parlava di Perieci, termine che rimanda all’idea di vicinanza (da peri,
intorno, e oikeo, abito).
La costituzione spartana è stata fissata in un lungo arco di tempo, ma la tradizione la fissava in un
tempo originario e la attribuiva all’opera di un legislatore, Licurgo, per noi figura semileggendaria.
Le sue istituzioni erano rigidamente oligarchiche, e lo stile di vita degli Spartani era di tipo militare,
con forti tradizioni comunitarie.
Spazio
La nozione greca di spazio è associata nel mito alla genesi del mondo: così ad esempio nella
Teogonia (→) di Esiodo lo spazio cambia completamente volto quando dal Caos originario si passa
al mondo ordinato in cui – a seguito di terribili violenze tra gli dèi – il Cielo e la Terra hanno
assunto la loro configurazione definitiva.
In filosofia, lo spazio diviene problema esplicitamente posto quando nasce la domanda sulla sua
identità rispetto al complesso della natura, il che accade nell’età di Democrito e di Platone che
pongono le stesse domande (in estrema sintesi: che cos’è lo spazio? qual è la sua natura rispetto alla
materia e ai corpi?) e danno due risposte diametralmente opposte:
- per Platone (Timeo, 51-52) è un carattere della materia stessa, per cui non è possibile che esista
spazio vuoto; sulla stessa linea Aristotele, che lo definisce “Il limite estremo ed immobile di ciò che
contiene” (Fisica, IV); non è quindi identico con la materia, ma le è connesso, sicché non può esistere
senza i corpi (per conseguenza anche per Aristotele il vuoto non esiste);
- per Democrito, e poi per tutto l’atomismo antico, lo spazio è totalmente separato dagli atomi (che
sono materia piena) ed è postulato come loro contenitore; è quindi logicamente necessario che lo
spazio vuoto esista perché è la condizione stessa d’esistenza e di movimento degli atomi.
Queste due teorie (lo spazio come qualità posizionale della materia, oppure come contenitore delle
particelle di materia che si aggregano nel vuoto a formare i corpi) si sono confrontate per tutta
l’antichità.
Sul significato metaforico di espressioni spaziali come lassù e quaggiù, o in alto e in basso, si veda la
voce Alto / Basso (→).
Specie
Vedi Genere e specie
Spiegazioni multiple
Nell’ambito dell’Epicureismo sono le teorie specifiche, alternative le une alle altre, costruite per
spiegare razionalmente, sulla base della teoria generale dell’atomismo, fenomeni complessi sui quali
non è possibile raggiungere una certezza scientifica.
Sono utili sia a fini scientifici, sia perché mostrano come non sia mai necessario ricorrere a enti o a
forze soprannaturali oppure occulte per la soluzione di problemi fisici. La razionalità trova sempre
una (possibile) spiegazione di tipo naturalistico, e l’atomismo si dimostra una teoria generale utile
come base per qualsiasi teoria specifica.
Le spiegazioni multiple sono proposte da Epicuro soprattutto sui fenomeni celesti, sui quali più
forte è il pericolo di spegazioni di tipo mitologico che ricorrono all’intervento degli dèi.
Spirito / Realtà spirituali
I termini sono moderni. Tuttavia la nozione filosofica di spirito – e quindi di realtà spirituale non
virtuale, ma esistente in una forma oggettivamente rilevabile – nasce con Platone ed è legata a due
diverse matrici:
- la tradizione religiosa che parla di esseri la cui natura è certo indefinita, come è tipico dei racconti
mitologici o delle rivelazioni delle religioni dei misteri, ma non è interamente riconducibile alla
fisicità dei corpi (demoni, tra cui la stessa anima umana per alcune tradizioni misteriche, dèi e molte
altre figure sospese tra l’umano e il divino, il mortale e l’immmotale, il fisico e lo spirituale: ninfe,
satiri, e così via);
- la ricerca filosofica sulla natura della conoscenza umana e quindi sulla natura dell’anima come
soggetto del conoscere.
La teoria platonica
Le due matrici si distinguono bene in molti passi dei dialoghi di Platone; in altri si confondono o si
sovrappongono, come accade ad esempio nella narrazione dei miti platonici o nei moltissimi cenni,
sparsi nelle sue opere, a credenze religiose.
Ferma restando questa origine, la teoria platonica mette capo ad una precisa e filosoficamente molto
complessa teoria dell’esistenza di due dintinti livelli dell’essere:
- il livello della materia, soggetta al tempo e al divenire, instabile e inafferrabile con pienezza dal
punto di vista dell’intelletto (ma Platone definisce per lo più attraverso miti che cosa debba
intendersi per materia);
- il livello delle realtà spirituali (idee platoniche, realtà divine, anime) descritto in parte in termini
dialettici, quindi intellettivamente chiari, in parte attraverso miti.
Le caratteristiche delle realtà spirituali sono l’eternità, l’intelleggibilità (non piena per noi, perché la
nostra mente è intrisa di fisicità e quindi risente dei limiti della materia e del tempo che la domina:
da qui la necessità di ricorrere al mito) e, per alcune di esse (non per l’anima) l’immutabilità.
Platone però non chiarisce di che cosa sono fatte le realtà spirituali.
Le teorie dopo Platone
La sua concezione dello spirito viene discussa e in parte respinta da Aristotele, che ne mantiene solo
alcuni elementi (ma le discussioni tra gli interpreti su questo punto sono durate per tutto il
Medioevo, e dividono ancora oggi gli studiosi), ad esempio nella concezione di Dio come motore
immobile. L’elemento caratterizante lo spirito è in Aristotele il puro pensiero, e dunque la realtà
spirituale di Dio è coerentementemente definita “pensiero di pensiero” (chiamiamo spirituale quella
realtà indipendente dalla fisicità dell’universo che è caratterizzata dal pensiero che ha come oggetto
non la realtà fisica ma se stesso).
Le nozioni di spirito e di realtà spirituale sono respinte come inesistenti da Democrito ed Epicuro,
per i quali ad esistere solo solo gli atomi pieni e lo spazio vuoto. Quelle che Platone ha concepito
come realtà spirituali o non esistono (le idee platoniche) o se esistono come l’anima umana sono in
realtà anch’essi corpi composti di atomi. Sono quindi materiali.
Le nozioni di spirito e di realtà spirituale sono poi riprese dagli Stoici e da Plotino, che sulla base
della lettura stoica di questo concetto interpreta i testi platonici.
- Per gli Stoici lo spirito è energia (→), che plasma la materia, la rende vivente e, in alcuni esseri
come gli animali, cosciente, fino ai più alti gradi della coscienza nell’uomo, che comprende la piena
razionalità del Tutto che dall’energia spirituale è guidato; materia e spirito non sono quindi come in
Platone due livelli separati dell’essere, ma due livelli che si integrano nell’unità della natura (cioè del
Tutto), come la vita (energia) si integra con il corpo materiale dei viventi;
- Per Plotino le correnti di energia che vivificano la realtà materiale sono l’estrema propaggine della
realtà spirituale originaria dell’Uno: lo spirito quindi è sì energia vivente, come per gli Stoici, ma
produttiva e creatrice, e la materia ne è per così dire il grado quasi-zero (il grado zero sarebbe il
nulla): della creatività dello spirito e della sua trasparenza a se stesso attraverso la perfetta luce della
coscienza razionale ed emotiva, nella materia rimane poco.
I problemi
Lungo l’arco di questa secolare vicenda di ricerche teoriche, a parte il rapporto con le tradizioni
religiose (che però hanno un peso soprattutto in Platone e, molto più debolmente, negli Stoici), i
problemi filosofici legati alle nozioni di
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Dizionario della Filosofia greca