Libe Edizioni
www.libedizioni.it
JOSEBA SARRIONANDIA
L’AMICO CONGELATO
Traduzione di Roberta Gozzi
Titolo originale: Lagun izoztua
© 2001 - Elkarlanean S.L. Donostia
© 2014 - Associazione Culturale Libe Edizioni
ISBN 978-88-909457-7-9
La traduzione di quest’opera è stata realizzata con il
contributo di
Instituto basco Etxepare - Etxepare Euskal Institutua
copertina di Roberto Clemente
6
L’amico congelato
L’AMICO CONGELATO
joseba sarrionandia
7
8
L’amico congelato
9
10
L’amico congelato
11
Devi sapere che, se vuoi entrare a Kalaportu,
costeggerai la rocca che chiamano Pietra-dei-gabbiani a
mezzo tiro di fune di distanza e che non dovrai avvicinarti
troppo perché lì ci son delle rocce, e andrai il più possibile
verso la riva e attraccherai a tredici braccia e dovrai fare
molta attenzione alle distanze perché ci sono rocce ovunque.
Martin Garaizar, Ixasoco nabigazioa
Tutti noi, esseri viventi ma anche oggetti, più o meno
non siamo nient’altro che residui raccolti e organizzati del
calore del sole. Siamo vestigia del sole, resti di fiammiferi
accesi sulla superficie fredda del mondo.
Paulo Zetzan, Inpresioak
Voi sapete, amici miei, che ci sono dei viaggi
immaginati per essere un’illustrazione della vita, che possono
essere presi come simbolo dell’esistenza. Hai iniziato a
lottare, hai lavorato e ti sei sforzato, ti sei bagnato di sudore,
ti sei quasi ammazzato, a volte sei addirittura morto nel
tentativo di fare qualcosa, e alla fine...
Joseph Conrad, Giovinezza
12
L’amico congelato
13
1
L’AMICO CONGELATO
L’amico si è congelato.
Così c’è scritto in uno dei messaggi che ho
ricevuto oggi:
Goio si è congelato. Cerca di andare a
trovarlo appena puoi.
Josean
Un’altra nota diceva:
Senti, Maribel, tu sei il postino, no? La nostra
cassetta delle lettere è arrugginita ed è diventata
un nido per gli uccelli.
Tomas
14
L’amico congelato
È da tempo ormai che le nostre cassette
della posta sono arrugginite e che gli uccelli ci
fanno il nido, depongono le uova e ci allevano i
piccoli.
Mi incarico di ritirare e consegnare le lettere
e i pacchetti il più rapidamente possibile ai vari
amici dispersi qua e là e, come gli altri, anch’io
sono sempre in attesa di quel che giunge dal nostro
lontano Paese. Manderò un telegramma a Tomas
per dirgli che, se non arrivano lettere, la colpa non
è del postino.
Il congelamento, testualmente, è il processo
di raffreddamento dell’acqua, o di un’altra sostanza
contenuta in un corpo, fino alla solidificazione. Goio
vive nella zona di Bluefields, Josean a Prinzapolka,
sempre sulla costa atlantica ma più a nord.
Josean mi dice che Goio si è congelato,
ma chissà cosa intende dire con questa storia del
congelamento!
Goio vive solo, in esilio da quasi quattordici
anni, con documenti falsi, su una delle isole che
il vasto Río Escondido crea quando sfocia nel
mare, in una casa umida con il tetto di uralite e le
15
pareti di legno. Qui tutto ammuffisce, si ammala e
marcisce e, con il passare del tempo, un po’ tutti
ammuffiremo, ci ammaleremo e marciremo, ma
congelarsi? È impossibile che qualcuno si congeli
in questo soffocante clima tropicale.
Alle nove del mattino del giorno dopo sono
alla stazione degli autobus: ho pagato 70 cordoba
per il biglietto da Managua a El Rama e 120
cordoba per la panga che mi porterà da El Rama
a Bluefields. Sulla cartina appesa a una parete
della stazione riesco a leggere qualche altro nome:
Pearl Lagoon, Corn Island, Sandy Bay, Gray Town,
Bragman´s Bluff. Il viaggio in autobus si fa di notte
e, sotto un cielo senza stelle che invita al sonno, ci
lasciamo alle spalle i piccoli abitati.
Mi sveglio all’alba, quando siamo ormai vicini
a El Rama. Scendiamo dall’autobus e corriamo tutti
verso le panga.
“Bianca, bianca, bianca” dicono i facchini, “È
troppo pesante per Voi, ve la porto io quella borsa.”
Dal pontile di legno ci imbarchiamo sulla
panga e scendiamo lungo il fiume. Il Río Escondido
si snoda verso la costa dei Miskito, dei Sumo e
16
L’amico congelato
dei Rama. L’acqua ha il colore del caffè, perché il
fiume erode la terra e per l’inquinamento prodotto
dall’industria dell’allevamento. La nostra panga
procede carica di persone e di pacchi. Accanto
a me, una cesta con tre galline, schiacciate l’una
contro l’altra, un ammasso di piume tremolanti, la
testa nascosta sotto l’ala, il sedere all’insù, l’ano
stretto e rosa ben visibile.
Ogni tanto ci imbattiamo in qualche tronco
che galleggia sulla superficie dell’acqua e vediamo
anche un guscio di tartaruga. Sugli alberi delle rive
le anatre si asciugano al sole e, più a monte, lungo
un sentiero, due bambini piccoli vanno a scuola,
con la divisa bianca e blu, in ritardo e senza fretta.
Ancora più in là, tra alberi e banani, umili
capanne. Nel cielo azzurro volteggiano i condor.
Siamo a Bluefields e anche al molo si sente
musica reggae e si può comperare bon.
“Che cos’è?”
“Pane di cocco”, mi rispondono.
Per raggiungere la casa di Goio dalla città,
17
bisogna camminare qualche chilometro su una
strada praticamente di fango, cercando di evitare
le buche. Lungo l’intero cammino, non trovo che
pozzanghere che sembrano orme lasciate da un
fantasma gigantesco passato da lì prima di me.
Arrivo davanti a un’insegna:
TROPICAL TIMBERS COMPANY
Nella segheria stanno ancora lavorando,
il lamento rotondo e continuo della sega risuona
nel silenzio della riva del fiume. Qua e là, grossi
tronchi di mogano sono in attesa del loro destino:
da una parte della sega si ridurranno a un mucchio
di segatura e dall’altra diventeranno ordinate torri
di tavole color sangue.
Per attraversare il fiume, prendo una vecchia
barca che non ha padrone né corda che la tenga
legata e, dopo aver cercato di buttar fuori l’acqua
con una lattina, inizio a remare per raggiungere
l’altra riva. Faccio impacciati sforzi con i due remi
finché inizio a sudare, scoppia un temporale e la
notte piomba sul pomeriggio, stendendo fino a terra
18
L’amico congelato
una tenda scura sostenuta dai fili della pioggia.
Cerco di legare la barchetta come posso e,
quando arrivo a casa di Goio, sono bagnata fino
alle ossa e lui è lì, che guarda dalla finestra, come
potrebbe farlo un’iguana.
“Allora, ce l’hai un riparo per la postina,
vero?”
Goio non mi risponde, la porta è aperta,
così passo davanti alla finestra ed entro in casa,
grondante.
Nemmeno una volta entrata mi presta
maggior attenzione di quanta ne presti alla pioggia.
Dalla penombra grigiastra, in controluce alla
finestra, si intravedono la sua testa rossa e il suo
viso pallido.
“Non mi riconosci?” gli chiedo.
E lui non mi risponde, Goio sembra ghiaccio
che guarda la pioggia tropicale.
Dall’oscurità
della
cucina
appare
timidamente un ragazzino, nero e scalzo.
“Il Rosso ha passato tutto il mese a guardare
la pioggia”, dice in un inglese approssimativo.
The Red, ha detto il ragazzino. Aggiunge che
19
ha perso la memoria, che non riconosce nessuno
e non è per niente strano che non riconosca
nemmeno me perché, da quando si è ammalato, il
Rosso non riconosce nemmeno se stesso.
“Ma che cosa ti è successo, Goio?” gli dico in
basco, e lui mi guarda con gli occhi di un impiccato.
Goio ha i capelli rossi e la gente del posto
lo chiama The Red. Benché da tempo i suoi
documenti portino il nome di Juan Zapata Ovalle,
nessuno lo chiama Juan. E adesso il Rosso è qui,
di fronte a me, sotto la sua capigliatura che sembra
un cappello di fuoco, la pelle bianca e un oscuro
nulla nello sguardo.
“Sono Maribel, amico mio!”
Né un ciao, né un abbraccio. Frammenti di
secoli e di assenze, cristallizzati e sovrapposti. Il
tempo, nel suo mestiere di vetraio, ha eretto fra di
noi uno spesso muro di cristallo.
“Ma cos’è successo?”
La sua bocca è piena di silenzi e lui rimane lì,
a guardare lo scrosciare dell’acqua, senza essere
padrone di se stesso, senza altra relazione con
il mondo che la contemplazione di un paesaggio
20
L’amico congelato
delle dimensioni di una finestra.
Vado alla porta e guardo lo zerbino, con
l’ingenua speranza di chi, davanti a qualunque
entrata, vuole leggere sotto i piedi:
Non si legge nessun benvenuto. Tuttavia,
in mancanza di quello, mi soffermo sulle linee e i
colori e mi rendo conto che il tappetino all’entrata è
una cartina del mondo.
Chi avrà spiegato questo vecchio
mappamondo per terra, sulla soglia di casa, perché
raccolga il fango e la polvere dei visitatori? Forse
lo stesso Goio e, nell’aprirlo e collocarlo all’entrata,
avrà individuato il nostro lontano e piccolo Paese,
disegnandolo con la punta dell’indice tra linee e
21
colori graffiati e scrostati. Poi l’avrà lasciato lì, per
terra davanti alla porta, come uno zerbino, in modo
che i piedi degli abitanti di questo remoto isolotto
possano distruggere la cartografia del mondo.
Il ragazzino che mi ha detto che il Rosso
ha passato tutto il mese a guardare la pioggia si
prende cura di lui.
“Oggi abbiamo mangiato “rondown”, dice
questo ragazzino con aria soddisfatta e tranquilla.
Sono i vicini a occuparsi di lui, sono loro a
preparargli i pasti.
“E gli portiamo anche manghi, avocado,
caimito e zapote, e arance e anche limoni.”
Con il dito indica il Rosso:
“Tutti lo aiutiamo, perché lui ha sempre
aiutato tutti. Io ero dentro la pancia di mia madre
ed è stato lui a tirarmi fuori”, dice mentre si stringe
il collo come se volesse impiccarsi con le proprie
mani.
Goio fa l’infermiere di professione, aveva
lavorato tre o quattro anni all’ospedale Cruces
di Barakaldo prima di scappare nel Paese Basco
francese. Lì era rimasto altri tre o quattro anni e,
22
L’amico congelato
quando era venuto in esilio sulla costa atlantica del
Nicaragua, non aveva fatto fatica a trovare lavoro
nella zona di Bluefields, questa costa con tante
malattie e così pochi medici.
“Quando sei nato...?” gli chiedo.
“Mi ha tirato fuori prendendomi per la testa
ed è stato lui a portarmi a questo mondo, così sono
nato io.”
Quattro o cinque anni più tardi, quando i
sandinisti persero il governo di Managua, quando
altri rifugiati baschi lasciarono il Paese, Goio non
sentì il bisogno di partire subito. Non era stato uno di
quelli che andavano in giro a mostrare l’etichetta di
rivoluzionario o di basco, e non se ne andò in quella
ritirata. Nella zona di Bluefields era conosciuto, la
gente del luogo lo stimava e lì nessuno gli avrebbe
fatto domande sul suo titolo di infermiere.
“Sa cosa gli succede adesso?” dice il cipote
nel suo inglese elementare. “Non riconosce se
stesso.”
Rimaniamo a lungo in silenzio, al buio.
“Le auguro la buona notte”, mi dice come se
fosse un lord inglese e, tenendo con le due mani
23
una lunga foglia di palma sopra la testa, se ne va
correndo sotto la pioggia.
In un attimo è sparito tra le palme, schizzando
scalzo nelle pozzanghere verso la sua capanna.
Io e Goio rimaniamo seduti ognuno sulla sua
sedia, ad ascoltare il suono della pioggia sul tetto
di uralite, a guardare sullo schermo della finestra il
film, senza senso e allo stesso tempo ineluttabile,
che ha come argomento la parete di cenere formata
dalla pioggia.
“Non sai più chi sei?” gli dico. “E chi puoi
essere? Goio, Goio Ugarte, il solito Goio Ugarte...”
Ma la bocca del Rosso è una tomba.
“Goio, Goio, Goio...”
Provo in tutti i modi a parlare con lui, invano
perché, fra tutti i dialetti possibili, ha scelto il
silenzio, così mi siedo sul letto demoralizzata. Non
posso dormire con questa sensazione di irrealtà
che l’insonnia infonde all’ambiente che ti circonda.
Quando smette di piovere, il Rosso si alza
dalla sedia, si sdraia sul pagliericcio e, quando mi
sembra che si sia addormentato come un animale
stanco, mi alzo e mi avvicino alla finestra aperta.
24
L’amico congelato
Da lì l’acqua del fiume mi appare
all’improvviso totalmente sconosciuta ed estranea,
come le piante della foresta e tutto il resto. Il Río
Escondido è lì di fronte a me, una grande chiazza
nera distesa sulla terra, che guarda le stelle e, in
un angolo, gli aironi allungano il loro bianco collo
verso una luna di sperma.
Nella foresta si sentono versi di strani
uccelli, forse c’è un tucano dal duro becco su un
albero. Nell’acqua si sente un frullio e si vedono dei
mulinelli: due caimani che combattono l’uno contro
l’altro. E, sempre lì, legata al pontile di fronte alla
casa, la barchetta dà testate contro i tronchi marci.
Ce n’è anche un’altra legata, con la prua immersa
nel fango e la poppa che va su e giù.
Sull’ampia distesa del lago, verso il mare,
mi è sembrato che la pinna di uno squalo tagliasse
l’acqua per poi sparire nelle profondità lasciando
alcune bolle sulla superficie calma. E anche le bolle
spariranno velocemente dallo specchio d’acqua
che sembra dominio della luna.
25
Mi sveglio vestita e, guardandomi attorno, mi
rendo conto di essere ancora nella casa di legno,
la mia borsa è sempre lì, come la fotografia della
regina Vittoria un po’ più in alto. E, vicino a Queen
Victoria, un altro poster, quasi fosse suo marito: il
giocatore nero Duncan Campbell, che stringe con
forza la mazza da baseball tra le mani, cappellino
verde in testa, sorridente, i muscoli di tutto il corpo
in tensione in attesa della palla.
“Buongiorno, Goio!”
Il Rosso è seduto su una sedia e guarda
dalla finestra la luce del mattino.
“Allora, nemmeno oggi abbiamo voglia di
parlare?”
Mi avvio verso l’abitato di Bluefields in cerca
di un negozio, non so cos’altro potrei fare in questa
situazione, l’intenzione di fare la spesa è l’unica
certezza che mi resta. Nelle vetrine del quartiere
di Beholden vedo riflessa la mia immagine, quella
di una donna che fa sue le abitudini caratteristiche
del genere a cui appartiene.
El Cantonés. Sul banco c’è un drago di
gesso e non si capisce se quello che esce dalla
26
L’amico congelato
sua bocca sia del fuoco o una lingua. Forse è lì
per proteggere questo esile commerciante cinese.
Perché sulle mensole le bottiglie vuote sono
allineate accanto a quelle piene?
“Zucchero, caffè, pane, dentifricio, lamette
da barba...”
Il commerciante cinese di età indefinita
si chiamerà Wang oppure Li e, alzando in alto la
mano con la paletta, versa dello zucchero finissimo
sopra la montagnola che ha formato sul piatto della
bilancia, fino ad arrivare a due libbre esatte con un
margine di un granello in più o in meno.
Sulla parete vedo Chiang Kai-shek, che
osserva il mondo dalla quiete del ritratto. Lo saluterei,
se non trovassi la cosa estremamente fuori luogo.
So chi è Chiang Kai-shek: in casa, sugli scaffali di
Armando, c’è un libro di storia contemporanea e
ogni tanto ne guardo le immagini.
Per strada, gli abitanti di Bluefields: neri,
meticci, bianchi, cinesi, arabi, indiani, sia dell’India
che d’America. Alcuni neri portano un colorato
cappello di lana in testa oppure le trecce all’aria
e percorrono la lunga via Beholden fino alla riva
27
del mare, convinti che la profezia dei rastafari
si compirà e, canticchiando reggae, evocano
Babylon. Attraverserò le strade di Bluefields e
tornerò all’isola del mio amico e, oltre la città, vedrò
paesaggi dall’esuberante vegetazione, il sole nella
salsedine della baia, le palme da cocco con la loro
ombra a forma di stella, una tranquilla giornata
dei tropici, con tutte le caratteristiche da rivista di
viaggi.
Mentre sto tornando all’isola fluviale,
nella fessura di una parete semidistrutta scorgo
un’iguana, mimetizzata con il muro e con la crepa,
il collo gonfio come se avesse gli orecchioni. E si
mimetizzerà altrettanto bene tra i rami degli alberi e
anche con le foglie verdi, con il cielo trasparente e
con il silenzio della spiaggia dove deporrà le uova.
Non so che fare e la passeggiata non mi
ha chiarito le idee, arrivando a casa mi ritrovo con
la stessa reale e indiscutibile assurda situazione.
Goio fermo, pallido, muto, che guarda dalla
finestra, sembra un pezzo di ghiaccio a un angolo
della spiaggia. Il ragazzino color terra è seduto sul
pavimento come un indiano, con una rivista aperta
28
L’amico congelato
sulle gambe incrociate e osserva la fotografia che
occupa le due pagine centrali di Penthouse, un po’
curvo sui seni generosi di una bionda.
“Torno a Managua” dico, e nessuno mi
presta attenzione, né il mio vecchio amico, né il mio
piccolo amico.
Sono tornata dalla città con la spesa e
il biglietto per il volo del giorno dopo. Domani
mattina andrò a quel pezzo di terra calpestata
che chiamano aeroporto e prenderò l’aereo per
Managua. Sarà uno di quei velivoli che ogni tanto
iniziano a starnutire e a tossire, farò tutto il viaggio
terrorizzata e comunque riuscirò a vedere la terra
dall’alto, che è bellissima, e il povero Rosso rimarrà
quaggiù, in questo deserto della parola, in questa
profonda giungla della dimenticanza.
Arrivo nell’estesa e sparpagliata Managua
alle dieci del mattino e per le undici sono a casa.
Armando non c’è, ma non sarà lontano. Riconosco
subito l’ambiente accogliente della nostra dimora
quando, nell’aprire il frigorifero, vedo sul piatto di
29
legno la massa pronta per fare il pane, vicino ad
alcune lattine di birra, disposte ordinatamente in
fila e con l’etichetta in vista.
Mi faccio una doccia, indosso abiti puliti,
bevo una spremuta d’arancia ed esco. L’acqua mi
ha lavata ma mi rendo subito conto che non mi ha
scrollato di dosso l’inquietudine.
La prima cosa che faccio è una telefonata,
più che una domanda si tratta di una richiesta, per
sapere se c’è qualche possibilità di avvicinare Goio
al Paese Basco. Il mio contatto dice che Iparralde
brulica di poliziotti francesi e spagnoli e che, da
quando è stato sospeso il cessate il fuoco, i rifugiati
si aspettano delle rappresaglie perché come dice
il detto, per un basco il Paese Basco è il posto più
rischioso del mondo.
Mi ricordo che conosco un medico a
Managua che fa lo psichiatra, Honorato Delaselva,
e lo chiamo subito. È il telefono di casa e sua
moglie mi dà l’indirizzo dello studio: Via “dove c’era
La Racachaca”, due isolati verso il lago e poi un
isolato più in giù.
Avvicinandomi, vedo immediatamente le
30
L’amico congelato
lettere viola di una targa:
Honorato Delaselva
DOTTORE IN PSICOLOGIA
E PARAPSICOLOGIA
Suono il campanello e una donna bionda mi
apre la porta:
“Vorrei parlare con Honorato Delaselva.”
“Prego, entri...” dice, con voce da
centralinista.
Attraversiamo il corridoio e mi indica una
poltrona, color limone, invitandomi a sedere.
“Si accomodi, per favore”, dice mentre si
asciuga le lacrime con un fazzoletto.
“È successo qualcosa?”
“Honorato se n’è andato con un’altra donna.”
“Se n’è andato? E per quanto tempo?”
“Non lo so. Se vuole aspettarlo...”
“Ma Lei non sa quando posso vederlo?”
“L’ha fatto anche a Lei?”
“No, a me ancora no”, le dico, senza sapere
31
esattamente cosa faccia Honorato.
Nello stesso istante in cui cerca di farmi un
sorriso, le scappa una lacrima.
“Mi ha lasciato una lettera ma non ho
intenzione di aprirla”, mi dice mostrandomi la
busta. “Guardi il nome dell’indirizzo, c’è scritto
Maria Eugenia e Maria Eugenia sono io...”
Ha gli occhi bagnati e comincia a
singhiozzare:
“È caduto di nuovo dal mondo del lavoro a
quello delle emozioni...”
Mi alzo, imbarazzata.
“Non aprirò la lettera, non voglio sapere
niente” dice, mentre una lacrima che non è riuscita
a catturare con il fazzoletto le scivola sulla guancia.
“Ha fatto la stessa cosa anche a Lei?”
“No, a me no. Mi scusi!”
“Non c’è di che” la sento dire mentre me ne
vado.
Quanto torno a casa, Armando è lì con il suo
grembiule bianco e dalla cucina esce un gradevole
32
L’amico congelato
profumo di farina e di pane.
“Pane di Etxarri, oggi?”
“L’ho appena messo nel forno” dice Armando
strofinandosi le mani sul grembiule.
Perché Armando fa pane di Etxarri anche a
Managua.
E dice sempre, prima o dopo pranzo, che
fare bene il pane è importante come essere un
buon militante.
“E tu? Com’è andato il viaggio?”
“Un disastro. Ho trovato Goio molto male,
non c’è più con la testa. Non mi ha detto nemmeno
una parola...”
“Cosa gli succede?”
“Non lo so. Forse soffre di amnesia, è come
se si fosse congelato...”
“E cosa hai fatto?”
“L’ho lasciato lì, i vicini si occupano di lui, ma
devo trovare un medico al più presto e dovremmo
farlo ricoverare in un ospedale.”
“Pensi di portarlo via da lì?”
“Non credo che Mosquitia sia un posto
adatto, soprattutto in queste condizioni. Quello è
33
un buco.”
“Per noi qualunque posto è un buco!” dice
Armando.
A volte mi piace la sua ironia, i suoi cinici
giochi di parole, ma non sempre. Non dico niente,
nemmeno lui lo fa.
Alla fine devo dire qualcosa:
“Pensavo fosse ben radicato sulla Costa
Atlantica.”
“Radicato? La gente non mette radici in
nessun posto...“
“Qualcuno sì.”
“Gli alberi mettono radici, ma l’essere
umano è per sua natura sradicato. Ha i piedi, per
camminare...”
“E le chiappe per sedersi!” dico seccata.
Armando ha aperto il forno e dice che ci
vuole ancora un momento.
Armando è il nome che qui ha Josu, il mio
uomo, il mio compagno, mio marito e tutto quello
che è per me. Formiamo una bella coppia, pare.
Invece di rimanere nel Paese Basco francese,
andò a Parigi a studiare filosofia, ci incontrammo
34
L’amico congelato
di nuovo nel ‘87 e decidemmo di venire assieme in
America.
“È la nostra maledizione...”
Ha detto la nostra maledizione e ha
continuato a parlare come se si trattasse di
qualcosa a cui pensava da tempo e che finalmente
ha l’occasione di esprimere:
“È la maledizione di Ulisse. Viviamo qui e
stiamo sempre pensando di ritornare là, ma più
passa il tempo, più diventa difficile lasciare questo
posto per l’altro e, anche se tornassimo nella
nostra sognata terra, non sarebbe più il luogo che
abbiamo lasciato ma un altro posto a noi quasi
sconosciuto...”
Josu e le sue citazioni, la sua bibliografia,
sempre con una nota a piè di voce. E io penso allo
zerbino davanti alla porta, quel tessuto sfilacciato
messo lì per le scarpe bagnate dell’umida Bluefields.
“Perché non fai una proposta più concreta?”
Mi guarda sorpreso:
“Più concreta?”
E la fa: dobbiamo cercare la soluzione al
problema in un ambiente famigliare e di fiducia e,
35
invece di portarlo via dalla costa atlantica e lasciarlo
solo in un ospedale, bisogna portare Goio a casa di
qualche amico.
“Goio ha un amico di gioventù che vive come
noi” dice, “è stato a casa nostra, a Hendaia, credo
si chiami Andoni Martinez, ma non so dove si trovi
adesso...”
Apro la porta e resto a puntellare lo stipite,
guardo fuori, osservo il lenzuolo steso dalla vicina
di fronte: mosso dagli zoccoli del vento, sembra
un’onda legata a due pali.
“Lo conosci?” mi chiede Armando.
La vicina, una bella indigena, è entrata in
casa sua passandoci sotto. Le nostre lenzuola,
invece, sono pulite e stese sul letto.
“Chi?”
“Chi vuoi che sia! Andoni!”
“Forse sì, credo di averlo incontrato una
volta, tempo fa, ma lo conosco solo di vista.”
“Non hai il suo contatto?”
“No.”
Armando sforna il pane di Etxarri e lo
appoggia sul tavolo. E il profumo, il colore e la
36
L’amico congelato
tenerezza del pane appena sfornato iniziano a
diffondersi per tutta la stanza.
“È una buona abitudine mangiare del pane
come si deve”, dice Armando. “Dovrai trovare
questo Andoni...”
Per cena preparo un’insalata con fagioli e
riso. Faccio cuocere una tazza di riso, un’altra di
fagioli neri, aggiungo pomodoro crudo a pezzettini
e cipolla tagliata sottile, condisco con pepe, olio e
sale.
Poi, siccome Armando è una di quelle
persone che quando c’è un problema ti dà un
libro, mi porta un volume: Les dissolutions de la
mémoire, lettere bianche su una copertina rossa. E
inizia a battere sulla sua macchina da scrivere, tip
tip tap tip tip...
Appoggio il libro aperto sul viso come se
fosse un tetto.
Quando vado a letto, vedo il pane ancora
tiepido sul tavolo. Da sotto la crosta il calore
sprigiona un fumo sottile.
37
Mi sono svegliata con le prime luci del giorno,
ho aperto gli occhi e, guardando la parete, ho dovuto
pensare un po’, prima di capire dove mi trovavo.
Inquieta, anche se non ricordavo cosa avevo
sognato. Mi sono alzata, ho acceso la radio e sono
stata quasi un’ora ad ascoltare un fiume di notizie.
Mi uscivano dalle orecchie dati sull’inflazione, morti
sulla strada, ministri, ordinanze, asteroidi, titoli,
previsioni del tempo e altre novità, così l’ho spenta
e ho ripreso in mano il libro.
Ho passato la mattinata con il libro in mano,
con le dissoluzioni della memoria, a volte girando le
pagine in modo meccanico, a volte soffermandomi
su qualche brano, abbastanza confusa e incapace
di passare alla pagina successiva. Ho dimenticato
il francese, ci sono parole che non capisco, per
esempio, cos’è le néant? Perdo il filo del discorso e
anche quello che capisco non mi suggerisce cosa
fare nel caso di Goio.
A mezzogiorno, le néant est structure
constitutive de l´existant, esco a passeggiare per
le strade della caotica Managua, piena di dubbi,
come immersa in un liquido amniotico.
38
L’amico congelato
Ho voglia di gridare: “Goio, devo parlarti!”
Griderei tanto da farmi sentire fino a
Mosquitia. E continuerei a camminare in silenzio
per queste strade, fino a uscire dalla cartina e
anche dal globo terrestre.
Ho saputo che Andoni vive in Ecuador, in
una valle perduta ai piedi delle Ande, è sposato con
una ragazza quechua e lavora come antropologo,
ma con documenti falsi, come noi.
L’unico legame che abbiamo con il Goio di
prima è questo Andoni Martinez.
Quando torno a casa, nel pomeriggio,
Armando è seduto alla macchina da scrivere: tip tip
tap tip tip top tip tip. La nostra casa, oltre a essere un
panificio clandestino, è anche un ufficio periferico.
Qui Josu prepara delle bozze che non scriverà mai
in bella. Sono sempre frammenti, progetti, prove,
schemi che non verranno mai portati a termine.
Josu ha la parete della stanza coperta di
illustrazioni e scritti. C’è anche un’immagine nuova,
strappata da una rivista e appesa con puntine da
disegno, uno spaventoso uomo grasso, nudo e
sicuramente malato. Leggo cosa ha scritto Josu al
39
margine:
Leigh Freud, Nudità di massa. Il modello è
morto di meningite, polmonite e AIDS.
“E questo?”
“Ha quarantadue anni, come noi.”
“Non hai uno specchio migliore?”
Vecchie fotografie, caricature e, cosa che
non mi è mai piaciuta, di nuovo la parete sporca di
pennarello. Ecco la nuova scritta:
Il tempo passa e non succede niente
Penso, con spirito materno, che non ha
ancora superato l’abitudine che hanno i bambini
di quattro o cinque anni di scrivere sulle pareti, è
inutile arrabbiarsi.
Tesi, antitesi e...
“Voglio rivendicare le leggi della dialettica”
dice Josu.
40
L’amico congelato
“Questo sì che è un po’ anacronistico, non
credi?”
Il termine dialettica, una parola che non
sentivo da tempo, riguardando la storia passata
con una torcia mi riporta alla mente idee utopiche
discusse da giovani nelle scuole del popolo e lette
in tanti libri.
“Tesi, antitesi e...” inizio a ripassare.
Josu mi interrompe:
“Tesi, antitesi e sintassi.”
“Sintesi” lo correggo.
“No, no. Sintassi!” ribatte scherzoso.
Più che hegeliano Josu è rimbaudiano e,
con quei suoi occhiali rotondi, più che leninista
sembra lennonista. E tip tip tap tip top tip, batte sui
tasti come se stesse suonando una melodia. La
vita è assente, non viviamo in questo mondo, ma
immagina che...
“Passi tutto il tuo tempo a scrivere bozze
e progetti che non diventeranno mai niente...” gli
dico.
“E alloooooraaaaa?”
Abbiamo passato il tempo ad aspettare il
41
futuro, credendo che ci avrebbe portato qualcosa
di nuovo, progetti e intenzioni congiunturali, legate
alla situazione, abbiamo fatto colazione con titoli di
giornali, pensando che non si trattasse di fatti attuali
ma di cose che sarebbero accadute in futuro.
Questo è quel che vorrei dire a Josu. E so
che mi risponderebbe che il presente è mutevole,
che il presente è sempre provvisorio.
Tuttavia
è
un’aberrazione
rendere
permanente l’instabilità, ripetere continuamente la
stessa provvisorietà, ammucchiare bozze invece
di portare a termine un’opera, rimandare al futuro
invece di vivere il presente.
“Stiamo sempre aspettando come dei
paralitici...” dico, senza aggiungere altro.
“Certo che anche tu sei abbastanza criptica
oggi, cara!”
Il giorno dopo cominciamo a organizzare la
cosa.
In Colombia, vicino a Barranquilla, in un
paesino chiamato Rioquemado pare che viva un
42
L’amico congelato
basco, appartenente a una famiglia di esiliati dopo
la guerra, che lavora in un centro psichiatrico. In
ogni caso, sono convinta che prima dobbiamo
andare a trovare il vecchio amico di Goio e, per
fortuna, sono riuscita a contattare questo Andoni
per telefono.
“Maribel, che Maribel?”
“Ecco, la postina...”
“Ah, ciao, come stai?”
“Bene, ma qui abbiamo un amico congelato.”
“Un amico congelato?” chiede.
“Sì, un tuo conoscente, Goio, di Kalaportu.
Ha problemi di amnesia.”
“È malato?”
“Sì, sì, sta piuttosto male e sarebbe meglio
se stesse con gente che può aiutarlo a recuperare
la memoria. Abbiamo pensato che anche tu potresti
aiutarlo.”
“Mi piacerebbe provarci.”
“Che te ne pare se veniamo entrambi per un
periodo?”
“Se potete fare il viaggio, a me va benissimo.
E se volete fermarvi qui un po’ di tempo, non ci
43
sono problemi.”
“Quindi possiamo venire?”
“Sì, quando volete.”
“Allora partiamo subito” gli dico. “Dovremmo
arrivare il 22 giugno.”
44
L’amico congelato
2
RAGAZZI DI KALAPORTU
La madre di Goio accese la radio alle sette
in punto del mattino. Manuel Fraga Iribarne aveva
inaugurato una diga e, sciolto il nodo della cravatta,
aveva dichiarato che ci avrebbe fatto volentieri
il bagno, le truppe nordamericane avevano
occupato nuove zone del Vietnam disseminandole
di esplosivi, nella città di Trelew diciotto prigionieri
erano stati uccisi durante un tentativo di evasione,
un atleta sovietico aveva corso i cento metri in dieci
secondi ma le organizzazioni internazionali non
riconoscevano il record, Pelé diceva che il Brasile
avrebbe vinto i mondiali di calcio...
Quel mattino d’agosto, Goio e sua madre
andarono al cimitero a portare dei fiori. Benché
fosse estate, era una mattina uggiosa e triste, e
Goio raggiunse la loro tomba camminando tra le
altre infreddolito e inquieto. La madre prese una
45
scopa che trovò lì vicino e pulì sopra e attorno alla
lastra di marmo; poi tolse i fiori appassiti da un
barattolo di latta appoggiato sulla tomba, li buttò in
un angolo e andò a prendere dell’acqua fresca per
le rose rosse che aveva portato.
Goio conosceva le lettere dell’alfabeto e
lesse il suo nome e cognome sulla lapide:
Gregorio Ugarte
1937-1958
Con le mani in tasca, lesse di nuovo il suo
nome, sorpreso, sotto la erre la i e la pi, poi calcolò
l’età del defunto fra quelle due date ormai passate.
La vita quindi era quel trattino collocato tra 1937 e
1958.
Mentre sua madre preparava il barattolo con
l’acqua e i fiori freschi, Goio guardava le tombe
aperte e pensò che il lavoro del becchino era sì
facile, ma piuttosto sgradevole. Mettere la bara
nella fossa o introdurla in un loculo della parete e
poi chiuderli per sempre.
La madre appoggiò i fiori e, senza pregare,
46
L’amico congelato
si allontanò tra le tombe. Goio la seguì, spaventato,
timoroso di rimanere indietro e perdersi nella
foschia, in quel labirinto di tombe. Lesse la parola
PAX su una parete e poi Riposi in Pace su una
lapide stesa a terra. Si sentiva solo il rumore dei
suoi passi sulla ghiaia.
In quel momento i becchini iniziarono a
scavare.
Goio voleva chiedere una cosa a sua madre,
ormai sulla porta del cimitero, ma lei si mise a
parlare con due vecchie vestite a lutto.
“Questo è tuo figlio?” chiese una di loro.
Lui vide sui capelli bianchi di quelle donne
anziane la cenere che ricopre ogni cosa e nei loro
visi gli parve di scorgere l’espressione di un Dio
annoiato.
Le fece la domanda quando arrivarono a
casa.
“Come è morto lo zio?”
“È annegato in mare, tre mesi prima che tu
nascessi” rispose sua madre. “Per questo porti il
suo nome.”
Dopo un momento, Goio uscì di casa con
47
la bicicletta. Prima di andarsene, sul portone,
tolse i parafanghi e abbassò il manubrio in avanti.
Voleva che fosse come una di quelle da corsa,
ma la bicicletta in realtà sembrava lo scheletro di
un vecchio asino, o così per lo meno la vide Goio
stringendo le mani sul manubrio e avviandosi
verso il porto. Prese il molo basso e arrivò fino alla
punta di Harriandi, si girò e, ripercorso tutto il porto,
imboccò il molo di levante e, passando dal cantiere
navale, raggiunse il promontorio di Kaioarri.
Da lì tornò a casa, come uno sconfitto
Gabika.1
Dopo pranzo, dalla finestra di casa guardò la
stazione ferroviaria e vide il professore di francese,
Mesie Nonmonsieur che aspettava il treno per
Bilbao, con il suo soprabito color gabardine e due
valigie di pelle, una in ogni mano.
In quel momento arrivò sua madre dalla
1
Francisco Gabikagogeaskoa (1937-2014), conosciuto
come Patxi Gabika, ciclista basco , vinse la Vuelta spagnola nel
1966. [N.d.T.]
48
L’amico congelato
cucina.
“Goio, vai a fare un giro.”
E vide un uomo giovane dietro di lei. Lo
conosceva, era Andres, un pescatore, indossava
ancora la tuta da lavoro. Sembrava che fosse
venuto lì a cambiarsi.
“Pioverà”, disse Goio.
“E allora?”
Rimase in silenzio, lì in soggiorno. Finché
non smette di piovere non puoi uscire, stai in casa,
gli aveva sempre ordinato sua madre prima di
allora. Ma, da quando quell’uomo aveva iniziato
a venire a casa loro, Goio era molto più libero di
andare dove voleva e aveva iniziato a sentire frasi
come Esci, se vuoi...
Quando udì un suono metallico, seppe
che sua madre aveva chiuso la porta a chiave e
allora uscì. Sulle scale notò l’odore di candeggina
e sbatté la porta. Come se non avesse sentito il
forte rumore provocato, scese i due piani saltando
gli scalini di legno di quattro in quattro.
Davanti al portone contò le lastre di pietra
tra un lato e l’altro della strada, tredici in tutto ma,
49
quando le ricontò iniziando all’altra parte, gliene
risultarono solo undici.
Poi si arrampicò su un vecchio palo della
luce. Abbracciava il palo con forza, portava un po’
più su le gambe e poi, sostenendosi su di esse,
allungava le braccia e il corpo e, afferrandosi
forte, portava le gambe ancora più in alto. Si stava
arrampicando sempre più in alto sul palo quando
venne colto da una specie di panico che, dalla
punta delle dita dei piedi, su per i polpacci, la vita,
il petto fino alla testa, infilandosi in tutte le fessure,
raggiunse la punta delle dita delle mani.
Perché si era arrampicato su quel palo? Per
fuggire da sua madre e da quell’uomo, perché tutte
le volte che arrivava Andres lui doveva andarsene.
Perché, quando appariva quell’uomo, gli occhi di
sua madre evitavano lo sguardo di Goio. Sentì un
brivido guardando in basso, abbracciò con forza il
palo all’altezza della finestra verde di legno chiusa
del primo piano, poi strinse forte le gambe e staccò
le mani per risalire ancora un po’.
In quel momento non c’era anima viva per
strada e nessuno aprì una finestra per dirgli, con
50
L’amico congelato
quel modo brusco che di solito hanno gli adulti
quando sgridano i bambini, “Cosa fai lì, moccioso,
scendi immediatamente”. Non si vedeva nessuno
e Goio continuò a salire, mentre gocce di sudore
gli scendevano sulla fronte fino agli occhi. Staccò
una mano per sfregarsi un occhio con il pugno e
fu sul punto di cadere: non riusciva a sostenere il
peso del suo corpo, aveva bisogno di entrambe
le braccia per rimanere attaccato al palo scuro.
Guardò verso l’alto, con gli occhi irritati che non era
riuscito a strofinare. I cavi della corrente elettrica
erano ormai vicini, diede altre tre o quattro bracciate
e li sentì vibrare sopra i suoi capelli rossi.
Era quasi in cima, stretto con forza al ruvido
palo, e da lassù avrebbe potuto vedere il mare e i
gabbiani che volano con il vento tra la bruma e il
sale. Invece guardò verso la camera di sua madre,
le imposte di legno erano aperte e, all’interno, dietro
il vetro, di fronte a lui, la vide nuda, in piedi vicino al
letto, abbracciata all’uomo giovane, anche lui nudo
e in piedi. Sua madre aprì le gambe e le strinse
attorno alla vita di lui, le braccia serrate con forza
al suo collo, come se volesse avvinghiarsi e unirsi
51
al corpo dell’uomo. La visione durò poco, un battito
di palpebre, ma a Goio fu sufficiente per perdere
la forza nelle braccia e nelle gambe: il palo scivolò
verso l’alto. Cadde e, quando toccò terra, aveva la
parte interna delle mani e delle braccia bruciata e
le gambe graffiate da cima a fondo.
Gli venne voglia di piangere. A malapena
riuscì ad alzarsi, aggrappandosi dolorante al palo.
Non vide nessuno nei dintorni e si avviò verso la
riva del mare, doveva almeno ripulirsi del sangue
prima di tornare a casa. In quel momento scoppiò
un temporale e la pioggia diede un po’ di sollievo
alle escoriazioni, soprattutto quando aprì le mani
con i palmi rivolti verso l’alto.
Poco dopo arrivò Juan Bautista.
“Sei caduto?”
Goio non gli rispose.
“Hai fatto a botte con il palo?” gli chiese Juan
Bautista.
Goio, come se non l’avesse sentito, disse:
“Andiamo al mare.”
“Comincia a piovere.”
“E allora?”
52
L’amico congelato
Alla stazione videro Mesie Nonmonsieur con
le sue valigie sotto la pioggia, gli occhiali bagnati,
l’impermeabile sempre più scuro, in attesa del
treno per Bilbao. Goio e Juan Bautista passarono
dall’altra parte della strada e lui, con le lenti degli
occhiali coperte dalle gocce di pioggia, sicuramente
non li vide.
“Va a vivere a Bilbao”, disse Goio.
“Qua si sarebbe annoiato.”
“E adesso chi ci farà lezione di francese?”
I ragazzi trascorrevano così quei pomeriggi
di agosto. In pantaloncini corti, su e giù per le
strade di Kalaportu senza una meta precisa, lungo
la serpeggiante frontiera tra l’acqua e la terra.
Kalaportu non era grande, all’epoca il porto avrà
avuto una quindicina di imbarcazioni, un piccolo
cantiere navale per aggiustarle, la fabbrica di
ghiaccio e molte altre cose.
Le barche che attraccavano in quel porto non
erano molte, ma al largo ne passavano parecchie e
i ragazzi distinguevano le loro sirene, le bandiere e
l’attività a cui si dedicavano. Da quelle imbarcazioni
venivano buttati svariati oggetti e la marea portava
53
verso le rocce resti di cibo, calendari, scatole
metalliche di biscotti con disegni di aerei che
lanciavano scatole di biscotti, pagine di giornale,
fatture di importazione-esportazione e salvagenti
scoloriti, forse abbandonati da un naufrago o che
forse avevano abbandonato un naufrago, con un
numero di targa che, benché quasi illeggibile, i
curiosi ragazzi della costa decifravano:
Liverpool 35-12-32
Quel giorno andarono ad Harriandi. Si
sedettero sugli scogli vicino al bunker e, al tramonto,
mentre guardavano tremare il mare sotto di loro,
Juan Bautista estrasse dalla tasca un pacchetto di
Celtas e ne offrì una a Goio. Juan Bautista, quando
fumava, rimaneva incantato a guardare il fumo che
usciva dalla sua bocca.
“Guarda, spazi vuoti che si riempiono di
fumo”, diceva Juan Bautista.
Diceva proprio così e gli piaceva che il vuoto
si riempisse di fumo e, con la stessa cerimoniosità,
soffiava un’altra boccata.
54
L’amico congelato
Goio strinse la sigaretta tra le due dita. Tutti
i ragazzi trattenevano il fumo in gola perché erano
convinti che così la voce si facesse più roca, più
virile, e che un giorno avrebbero avuto una voce
abbastanza profonda e le tasche così piene di soldi
da poter girare il mondo come se fosse sempre
domenica.
“Hai qualche donna in mente?” chiese Juan
Bautista.
“Sì, mia madre” disse Goio sputando i fili
di tabacco che la sigaretta senza filtro gli aveva
lascito sulle labbra.
“Come, tua madre?” disse Juan Bautista
ridendo: “Sei ancora attaccato alle gonne della
mamma...”
Juan Bautista aveva una voglia tremenda di
baciare una ragazza sulla bocca.
“In questa vita l’unica cosa che conta è
scopare” disse.
“E il calcio?”
“Il calcio è un passatempo” rispose Juan
Bautista, “e, a pensarci bene, un passatempo
abbastanza stupido.”
55
Faceva delle pause, per espellere il fumo
dalla bocca, per riempire i vuoti di rotonde boccate,
per completare le idee:
“Certo che correre come pazzi dietro a una
palla che al suo interno contiene solo aria...”
I gabbiani volavano facendo cra, cra, cra.
“E a te, diventa duro l’uccello?”
“Cosa?” disse Goio.
“Se ti diventa duro?” disse Juan Bautista,
tirando fuori il suo arrossato e gonfio.
“Vaffanculo!”
Goio si sentì a disagio e scese tra gli
scogli quasi fino all’acqua. La ragione della sua
inquietudine era quell’arnese senza nome, al
quale non riusciva ad associare una parola esatta,
perché tutte quelle che conosceva gli sembravano
imprecise; pistolino era troppo infantile, uccello,
asta, verga, bastoncello erano ridicoli e altri modi
di chiamarlo erano assurdi o comici. In ogni caso,
pensava che quel pezzo di carne dovesse avere
un vero nome segreto. Cercò tre sassi piatti e,
stringendoli in mano, verificò che fossero ben
arrotondati.
56
L’amico congelato
Ne lanciò uno: non rimbalzò sull’acqua e al
primo plof andò a fondo. Il secondo rimbalzò due
volte, goffamente e non emise quel sibilo di arco
che deve fare sull’acqua una pietra piatta e liscia
ben lanciata:
Ft,,, ft,,ft, plof.
Dopo il terzo rimbalzo affondò con la
pesantezza del piombo. Goio rimase lì, da solo, a
tirare pietre al mare.
Dopo un po’, Juan Bautista lo raggiunse tra
gli scogli e il suo sasso arrivò molto più lontano:
Ft,,,, ft,,, ft,, ft, ft plof.
Poi Juan Bautista disse:
“Andiamo a giocare a behelaino!”
Si tolsero i vestiti e, dagli scogli, si tuffarono
nell’acqua fredda. Stare in behelaino significava
rimanere in piedi sott’acqua, toccare la sabbia o le
pietre del fondo con la punta di un piede, muovere
le braccia come pinne per mantenersi sul fondo,
uno di fronte all’altro, guardandosi, cerulei, i visi
deformati, i polmoni sul punto di scoppiare.
Alla fine riemergevano mezzi asfissiati.
Goio risalì ansimante e con il naso che
57
sanguinava. Senza nemmeno asciugarsi, cominciò
a rimettersi i vestiti.
Benché fosse estate bisognava essere a
casa per le sei. Quando suonava la sirena della
fabbrica di ghiaccio e taceva il rumore delle seghe e
dei martelli del cantiere navale, i ragazzi correvano
a casa e le madri, già tornate dal lavoro, dicevano
dalla finestra:
“A casa!”
Tornando a casa Goio avrebbe visto di
nuovo il professore di francese, ancora in attesa
del treno che sarebbe dovuto arrivare alle tre del
pomeriggio ma che era spesso in ritardo, e delle
volte non arrivava fino a sera. Una volta in stazione,
si fermava pochissimo e ripartiva immediatamente
per Bilbao.
“A casa” gli disse sua madre.
E, una volta a casa, cenarono del pesce che
sapeva di gasolio.
Quando sentì il fischio del treno si avvicinò
alla finestra. Ormai era buio e vide il treno per Bilbao,
58
L’amico congelato
così a lungo atteso dal professore di francese.
Mesie Nonmonsieur non era più sui binari, ormai
sarà stato seduto dentro. Dai finestrini quadrati del
treno usciva una luce giallognola ma, con quelle
fioche lampadine e con il dondolio dei vagoni,
sicuramente dentro non si poteva leggere un libro,
nemmeno asciugando e pulendo gli occhiali per
bene.
Da Kaiondo verso nord, il mare era sempre
lì, una pianura insondabile, oscura, rumorosa, con
il suo odore di salsedine, i pesci abissali, i suoi
gabbiani, le barche locali e forestiere. Lì viveva
Goio, in quel paese isolato, Kalaportu, e al tramonto
vedeva le luci delle scialuppe in lontananza e ancora
più in là: brillavano al ritmo delle onde formate dai
battiti del cuore oscuro del mondo.
La banda di luce del faro passava
intermittente salutando la notte, con una frustata
ogni cinque secondi. Goio sentiva alle sue spalle
la presenza della madre, che stava lavando i piatti
in cucina, il suono di coltelli, bicchieri, cucchiai e
piatti sotto l’acqua. Sua madre era sempre dietro
di lui, ed era una bella donna sua madre? Questo
59
si chiedeva Goio: quella donna che adesso sta
lavando i piatti in cucina, che cuce le reti al molo, è
una donna attraente?
Una volta era entrato in bagno senza
bussare e l’aveva sorpresa nuda, che si stava
asciugando appena uscita dalla doccia. Era rimasto
di sasso vedendo quel corpo umido e bianco, il
seno generoso, i capezzoli rotondi e marroni, i peli
scuri del pube e le gocce d’acqua che scivolavano
sulla sua pelle. Si era reso conto che stava facendo
qualcosa di proibito, guardare una donna nuda,
soprattutto trattandosi di tua madre, e si era girato
per andarsene.
Ma lei gli aveva detto “Guarda qua” e Goio
era rimasto sulla porta.
Guardava sua madre evitando di portare gli
occhi al seno e al ventre, finché lei gli disse:
“Guarda, da qui sei nato tu.”
E vide che sua madre aveva una mano sul
basso ventre. Quando disse “Da qui sei nato tu”,
indicava la sua pancia con l’indice e gli mostrò una
terribile cicatrice, lunga e grossa come un dito, una
cicatrice che partiva dall’ombelico e, scendendo,
60
L’amico congelato
arrivava quasi fino a quel nero bosco di peli tra le
gambe che lui non voleva guardare.
“Tocca se vuoi, non avere paura” gli disse.
Goio allungò il braccio, senza che i suoi
occhi vedessero niente. Sua madre gli prese la
mano e lo obbligò ad accarezzare le labbra cucite
di quella ferita, la cicatrice gli sembrò morbida.
Si spaventò e uscì correndo.
61
3
L’AMICO CONGELATO
Ho detto ad Andoni “Dovremmo arrivare il
22.”
Così stiamo per abbandonare questa palude
che è Bluefields.
Per andare al porto, passiamo davanti alla
casa del cipote. Sulla porta della baracca circondata
da banani ci sono cinque bambini quasi nudi, in fila
uno acanto all’altro, magrissimi, la pelle color terra
e lo sguardo sveglio. I banani sono storti: tronchi
obliqui e lunghe foglie come pantaloni laceri stesi
ad asciugare. Il nostro cipote è il più alto di tutti e,
quando solleva il braccio e agita la mano sopra la
testa, mostrando un sorriso che sembra polpa di
cocco, i suoi fratelli lo imitano.
Il Rosso, che non ha avuto il tempo di
capire dove stiamo andando, e io, che non l’ho
ancora capito, ci ritroviamo al molo di Bluefields,
62
L’amico congelato
in attesa di una barca che viene da Printzapolka
e Puerto Cabezas. Ci dirigiamo verso sud dove
attraverseremo luoghi dai nomi improbabili: Monkey
Point, Puerto Limón, Barranquilla.
Dietro di noi ci sono anche dei turisti e Juan,
con la sua pelle bianca e i capelli rossi, sembra un
gringo in questo contesto, lì sul pontile puntellato e
quasi marcio. In queste acque che sono per metà
Mar Atlantico e per metà lago brodoso, navigano
tranquille piccole barche e navi mercantili sotto la
luce indifferente del sole. Un anziano sostiene una
corda, che sparisce nell’acqua in mezzo a onde
circolari, convinto che qualche pesce si imbatterà
nella sua esca.
L’acqua è tiepida e torbida, come un brodo
che si sta raffreddando.
La chiatta arriva tardi e troppo carica, l’acqua
sfiora la linea di galleggiamento. Saliamo a bordo,
usciamo in mare e avanziamo: di fronte a noi una
striscia di terraferma, una lunga fila di mangrovie
a destra, mentre a sinistra si vede il mare aperto.
Il sole è forte e la maggior parte dei passeggeri
cerca l’ombra per ripararsi e poter dormire. Noi
63
rimaniamo a guardare, alternativamente da una
parte e dall’altra, appoggiati al parapetto.
Arrivati a Puerto Limón non scendiamo
dall’imbarcazione per non dover passare controlli
e dogana. La sosta è interminabile e io e il Rosso
rimaniamo a contemplare la città a mezzo miglio di
distanza, appoggiati sui gomiti, come chi ha tutto il
tempo del mondo. I bracci delle grandi gru oscillano
piegati sui mercantili, mentre caricano o scaricano
merci.
Questo sole bruciante scurisce la pelle e
annebbia gli occhi. Inoltre rinsecchisce il paesaggio,
trasformandolo in qualcosa di strano e tremolante,
come un dormiveglia.
“Non hai nostalgia del freddo?” chiedo a
Goio.
L’acqua color muschio e caffè colpisce -ciaff
ciaff- la chiglia e ci culla dolcemente all’interno del
porto.
Il Rosso non dice niente. È sempre lì, in
piedi sulla sua ombra addormentata.
Poi, senza dare tempo al tramonto di offrire
lo spettacolo della sua bellezza, cala la notte
64
L’amico congelato
tropicale, calda e appiccicaticcia, e le stelle iniziano
a brillare come lucciole nel firmamento dell’oscura
e vasta epidermide del mare.
Attracchiamo a Barranquilla e non abbiamo
problemi per passare la dogana. Il Rosso mi segue
con la valigia in mano, la testa un po’ inclinata,
quasi volesse essere testimone dei suoi passi.
Nella stazione ferroviaria c’è una gran folla
in movimento, valigie, scatole, borse da viaggio
ovunque. Un bambino abbracciato alla gamba di
suo padre gli chiede dove va.
“Che caldo che fa!” dico.
Però, che conoscenze meteorologiche
possiede questa donna, penserà il mio amico
congelato.
E gli rispondo, come se lui davvero avesse
detto quel che è stato solo un mio pensiero:
“Scommetti che questo pomeriggio piove?”
Ma la risposta arriva da un’altra parte.
“Può piovere, tuonare o fare fulmini, ma io
vado ad Antiochia.”
65
A parlare è stato Petre, il fisarmonicista,
sorridente, che ci comunica le sue intenzioni e si
presenta:
“Sono Petre, il fisarmonicista.”
Prima di salire sul treno compro due giornali,
El Heraldo e El Universal, per avere qualcosa da
leggere durante il viaggio.
Sistemiamo la valigia nel portabagagli sopra
le nostre teste e ci sediamo uno accanto all’altra.
Di fronte a noi una grossa donna nera ha occupato
due posti e tiene sulle ginocchia una bambina che
avrà cinque anni. Questa nonna o mamma di un
brillante color catrame, sembra un Budda Madre,
con un fazzoletto multicolore in testa e due anelli
dorati che le dondolano dalle orecchie.
Il treno lascia la stazione e Goio ha chiuso
gli occhi, indifferente all’interminabile andirivieni,
ai colori, alle grida e ai rumorosi odori. Odore di
ceste, di banane, di rane fritte, di camere da letto
che sono per più di due persone.
“Mi dici come ti chiami?”, mi chiede la
bambina dalla comoda poltrona che è il grembo
della nonna.
66
L’amico congelato
“Io mi chiamo Maribel. E tu?”
“Io Claudia.”
“E il tuo fidanzato come si chiama?” dice,
sollevando il piccolo dito per indicare il mio amico.
“Juan.”
Apro El Heraldo de Barranquilla per leggere
almeno i titoli: Fernando Botero redimerà Medellín;
in una fotografia abbastanza sfocata lo si vede
mostrare un suo quadro a un gruppo di bambini.
“Anch’io sono capace di leggere” dice la
bambina mentre si infila sotto il mio braccio e mi
copre un quarto della prima pagina de El Heraldo.
Il presidente Alberto Fujimori presterà
giuramento per la carica. Ritiratosi Alejandro
Toledo dalla sfida elettorale, Alberto Fujimori ha
facilmente vinto le elezioni e, nonostante i gravi
incidenti scoppiati, inizierà il suo terzo mandato.
“Di-cian-no-ve-giu-gno, du-e-mi-la”, ha letto
la bambina trascinando le sillabe come tutti quelli
che stanno imparando.
Adesso guarda l’altro giornale che ho sulle
ginocchia e, dopo la testata El Universal la bambina
passa la punta dell’indice sotto de Cartagena e mi
67
indica la data:
“Diciannove giugno duemila” ripete adesso
senza indecisioni.
La Segretaria di Stato degli Stati Uniti,
Madeleine Albright, si riunirà oggi con...
“Oggi è l’anno diciannove,” dice.
Valderrama infortunato.
“Davvero?”
“Davvero, davvero” risponde l’affettuosa
bambina. “C’è scritto qua, guarda, diciannove. E
l’anno prossimo sarà il venti.”
Il treno procede velocemente, oscillando e
sbuffando, quasi senza fiato, mentre Valderrama
è infortunato, e non è facile sapere cosa sia più
irreale.
Ma c’è qualcosa di irreale nell’ambiente, tutum tu-tum tu-tum, forse quando andavo in treno
da Euba a Bilbao, all’età di questa bambina, bilbao, bil-bao, bil-bao, la memoria è irreale, l’edificio
scuro della stazione di Atxuri e poi al ritorno Eu-ba,
Eu-ba, Eu-ba.
Questo tu-tum tu-tum mi riporta alla mente
molte altre parole, per esempio, guar-da-te ri-cor-da
68
L’amico congelato
er-bet-ta e anche questo rumore di voci suggerito
dal girare delle ruote è un po’ irreale, sol-tan-to desi-de-ri, sol-tan-to de-si-de-ri.
All’improvviso, il rumore del freno e lo
stridere del ferro. Il convoglio si ferma, allarmato, e
tutt’attorno si vedono divise militari che ci ordinano
di scendere.
“Controllo!” grida un soldato.
“Scendete tutti in fila e mettetevi contro il
treno!” grida un altro soldato.
La Budda Madre con la bambina, dietro di
loro scende il Rosso e io lo prendo per il braccio.
Cammina in fila come un automa e dev’essere
l’unico a non tremare.
“Documenti in mano!”
Ci hanno messo con la faccia contro il treno,
le mani alzate, le gambe aperte e controllano i
documenti uno a uno.
“E tu chi sei?” chiede un militare a Goio.
“Juan Zapata” dico io, accanto a lui.
“Juan?” dice il soldato puntandolo con la
canna del mitra. “Rispondimi o ti faccio un altro
buco del culo!”
69
“È malato...” dico girandomi.
Sento il forte colpo del calcio del fucile nelle
costole e, quando cado in ginocchio senza fiato, i
documenti di entrambi si spargono a terra.
“No, no. Devi rispondere tu! Chi sei?” ripete
il soldato al Rosso.
Goio resta muto, con una faccia da
nonsonojuanenonconosconessunjuan.
“Juan Zapata Ovalle, ma è malato” insisto di
nuovo e sento un tremendo colpo sulla fronte.
Mi si annebbia la vista e riesco a sentire un
lungo e distorto “L’ho chiesto a lui!” mentre precipito
dolcemente nell’abisso.
Quando riprendo conoscenza, vedo
scarponi neri, divise verdi e le bocche delle armi.
Anche il Rosso è steso al suolo vicino a me, la
faccia contro il pavimento del rimorchio di un
camion militare, abbiamo le mani legate dietro
la schiena. Le costole fanno male, la testa gira e
mi preoccupa non sapere dove siamo né quanto
tempo è passato.
Il treno è lì a fianco e si mette in movimento, si
scuote prima di allontanarsi e se ne va senza di noi,
70
L’amico congelato
tu-tum tu-tum tu-tum; nella cornice di un finestrino
vedo, come se fosse un ritratto, lo sguardo di una
bambina che vive nell’anno 19 e che ci osserva da
sempre più lontano.
“Faccia a terra!” mi ordina un soldato
dandomi un calcio.
La fronte contro il metallo, ci portano in
camion fino a un accampamento militare. Lì ci
fanno scendere dal rimorchio e, in fila con altri
quattro detenuti, ci lasciano in cortile sotto il sole.
È un cortile di terra, un piccolo campo da
calcio, porte senza rete ai due lati e, in mezzo,
sull’asta, ondeggia al vento la bandiera della
Colombia. Così in alto, quella bandiera scolorita
sembra la camicia di un impiccato lì da molto
tempo.
I soldati, schierati in file e imbracciando il
fucile, iniziano a correre attorno al campo di calcio
e cantano in coro al ritmo della marcia: Chi cade
resta steso / chi vince ha sempre ragione / chi
fugge ha perso per sempre / chi resta in piedi può
ancora vincere...2
2
In spagnolo nell’originale. [N.d.T.]
71
Le mani legate dietro la schiena, ci portano
nell’ufficio del comandante. Sfoggia dei grossi baffi
neri, come se un corvo si fosse posato sopra le sue
labbra.
Seduto dietro una scrivania coperta da
mucchi di fogli, il militare controlla i nostri passaporti
e poi dice:
“Juan Zapata Ovalle e Maribel Lima
Arguedas, stranieri...”
“Il mio amico è malato...” gli dico.
“Dove state andando?” regge i nostri
passaporti in una mano che sembra la zampa di
un’iguana.
“Stiamo andando da un medico, a un
ospedale di Quito”.
“E pensate di attraversate tutta la Colombia
e poi l’Ecuador per arrivare fino a Quito?”
“Sì, vogliamo fare il viaggio in treno.”
Il comandante scoppia in una fragorosa
risata. Sono sicura che non ci sia nessuno che
desideri una carezza da quella mano.
“Da nordest fino a sudovest, e in treno? Il
suo amico non starà molto bene, ma anche Lei non
72
L’amico congelato
scherza...”
Mi restituisce i documenti e, arricciandosi il
baffo da corvo con la punta delle dita, mi dice:
“Se volete un consiglio, tornate a casa!”
Poi ordina ai due soldati:
“Oggi non passerà più nessun treno, portate
questi due disgraziati fino alla strada.”
Ci portano con una jeep americana nuova
attraverso un paesaggio pieno di rovi e acacie.
All’improvviso la jeep si ferma e ci ordinano
di scendere. Mentre scendiamo, l’autista con il suo
stivale nero dà un calcio nel petto al Rosso.
“Non si sa mai” dice.
E comincia a sparare con il mitra verso la
foresta. Gli spari alterano la paziente esistenza
vegetale di alberi, arbusti ed erba, e potrebbero
aver eliminato qualche insetto e distrutto qualche
nido d’uccello.
Ci gettano la valigia praticamente addosso
e se ne vanno, abbandonandoci in questo luogo
dove fa un caldo soffocante. Dobbiamo trovare
dell’acqua per lavarci o per lo meno ripulirci dal
sangue.
73
Rimaniamo a lungo sul ciglio della strada,
seduti sul nostro piccolo bagaglio, in attesa che
passi un autobus o qualcosa che ci possa portar
via da qui. In questo silenzio assoluto, sento un
fischio continuo e strano, ma non è niente, è solo il
silenzio, il silenzio trasformato in rumore dentro la
mia testa.
“Non senti questo suono?” chiedo a Goio.
Il corpo dolorante, il fischio in testa e il Rosso
che non dice una parola.
La situazione è difficile ma, nonostante tutto,
seduta all’ombra, penso a quanto è bella la vita, il
paesaggio e l’aria stessa.
Arriviamo a Barranquilla che ormai è buio e
in un piccolo hotel per turisti troviamo una stanza
dove passare la notte. Il nome dell’hotel, con la sua
insegna al neon intermittente, ha un che di triste e
strano:
HAPPY DAYS
74
L’amico congelato
Vicino a Barranquilla, a Rioquemado, vive
la famiglia Urioste, di cui ho il telefono. Vennero in
Colombia dopo la guerra e ci rimasero. Pare che il
figlio maggiore sia medico e sia il direttore di una
clinica.
“Per favore, posso parlare con Jose
Urioste?” dico al telefono.
“È morto due anni fa. Ma se ha bisogno di
qualcosa, io sono sua figlia Arantxa...”
“In effetti, sì. Siamo a Barranquilla e abbiamo
avuto qualche problema...”
“Sei basca?” mi chiede in euskara.
E, senza aspettare la mia conferma, mi
propone:
“Se vuoi puoi venire qui, a casa nostra. Ti do
l’indirizzo...”
Mostro al tassista l’indirizzo scritto su un
foglietto. Il taxi percorre la spiaggia fino alla città
di Barranquilla, poi prende una superstrada ed
esce sei o sette chilometri più avanti. Barranquilla
è situata su una collina tra il fiume Magdalena e
l’Atlantico e, attraversata in taxi, sembra un caotico
labirinto urbano, con strade in cui si incrociano
75
automobili moderne con carretti carichi di erba
trascinati dagli asini.
“Qua, a destra” dice il tassista.
Adesso imbocchiamo altre strade, tra
quartieri di povere baracche e case mai finite.
“Adesso a sinistra” dice.
Leggo un vecchio cartello della United Fruit
Company che ci lasciamo alle spalle. Si sente il
ticchettio del tassametro tictac tictac.
“Adesso si chiama Chiquita Brands
International” dice il tassista, guardando dallo
specchietto retrovisore il Rosso seduto dietro.
“Cosa?” chiedo io.
“Dicevo che la vecchia United Fruit Company
adesso ci chiama Chiquita Brands International”. E
ci indica il cartello che ci siamo lasciati alle spalle.
Acacie, rovi, edifici. Sulla parete, una grande
scritta di lettere sgocciolanti per la troppa pittura:
76
L’amico congelato
“Adesso di nuovo a sinistra” dice il tassista,
consultando il foglietto che ha appoggiato sulla
coscia.
La strada asfaltata risale la collina fino a un
arco di pietra con un grande cancello di ferro che
chiude l’entrata.
“Questo è Rioquemado” dice il tassista.
Si apre il cancello e compaiono due persone.
“Buon giorno, sono Arantxa e voi dovete
essere i baschi...” dice la donna in una lingua basca
con un marcato accento dialettale.
“Io sono Imanol” si presenta l’uomo, con la
stessa peculiare cadenza.
“Entriamo, se volete” dice Arantxa.
Prendo la valigia, pago il taxi e, oltrepassato
l’arco, risaliamo lungo un sentiero in compagnia di
Arantxa e Imanol.
“Siamo fratelli” dice Imanol in spagnolo.
“Anche se Arantxa è molto più bella di me, ci hanno
fatto con lo stesso stampo.”
Compaiono due pastori tedeschi che
scendono correndo verso di noi.
77
“Come va nel Paese Basco?” chiede
Arantxa.
“Sono molti anni che ce ne siamo andati dal
Pese Basco” le rispondo. “Il mio amico è malato e
siamo in cerca d’aiuto.”
“Se siete baschi, non vi faremo altre
domande. Questa è casa vostra...” dice Arantxa,
accentuando la sua inflessione dialettale.
In cima alla collina c’è un grande casa che
ricorda un casale basco, fiancheggiata da un’alta
palma. È un ampio edificio a due piani, dalle grosse
pareti di pietra e un tetto rosso a due spioventi.
Entriamo da una grande porta e
raggiungiamo una sala camminando su un tappeto
bianco che sembra di pelle di agnello; ci saranno
volute almeno una sessantina di pelli cucite
l’una all’altra per realizzare un tappeto di queste
dimensioni. Ci sediamo attorno a un tavolo rotondo
di vetro, un po’ sorpresi dal posto, il caminetto, una
tigre imbalsamata, i lari del fuoco, il pacchetto di
Marlboro, il mantice, un videoregistratore Betamax,
tutto confuso in un evidente disordine.
Imanol mi mostra una bottiglia.
78
L’amico congelato
“Gin colombiano, gradite?”
Gli dico di no.
“Nostro padre lo chiamava spirito” dice
Imanol. “Mi piace berne un goccio...”
E cominciamo a parlare di Goio, con Goio
seduto accanto a noi, ma senza Goio.
“La cosa migliore è ricoverarlo” decide
Imanol. “Così potremo tenerlo sotto osservazione...”
“E finché lui rimane in ospedale” aggiunge
Arantxa che arriva con il caffè “tu, se vuoi, puoi
rimanere qui”.
“Preferirei restare vicino a lui.”
E il caffè, preparato da Arantxa e servito
fumante in tazzine sottili, è il miglior caffè che abbia
mai bevuto.
“Qui o là, avete una stanza e un rifugio dove
stare finché vorrete” dice Arantxa.
Sul tavolo vedo la foto di una bambina che ci
guarda con un sorriso dolce.
“È mia figlia” dice Arantxa con lo stesso
sorriso della fotografia, “adesso è a scuola, fino al
pomeriggio, ma vedrete come parla il basco.”
“E voi, dove siete nati?” chiedo.
79
“Qui, in questa casa”, risponde Arantxa.
“Ma anche se siamo nati in Colombia,
siamo figli di nostro padre, Jose Urioste”, dice
Imanol che si è acceso una Marlboro e sorseggia
un gin con ghiaccio. “Dopo aver perso la guerra
scappò e venne qui, dove siamo nati noi ed è in
questa piccola Repubblica indipendente che ha
costruito, cresciuto ed educato i suoi figli secondo
la tradizione basca...”
“Siamo cinque fratelli e parliamo tutti basco”
aggiunge Arantxa.
Arantxa è la figlia maggiore di Jose Urioste.
Imanol, che continua a riempire la sala di fumo,
è il figlio più piccolo ed è lui a continuare la
conversazione.
“Abbiamo imparato il basco, ma in realtà
lo abbiamo sempre utilizzato come un idioma
ermetico. Sai cosa intendo dire con ermetico?
Ermetico è ciò che si chiude in modo tale da non
permettere a una sostanza solida o liquida di
fuoriuscire...”
Arantxa fa un cenno impercettibile a Imanol,
il quale per un momento tace, per poi riprendere:
80
L’amico congelato
“Nostro padre ha sempre vissuto con
l’intenzione di tornare, finché non è morto, due anni
fa.
“Noi accarezziamo ancora l’idea di tornare”,
conferma Arantxa.
“Dove, esattamente?” chiedo.
Imanol mi risponde indicando il ritratto di
Jose Urioste che ci guarda dalla parete:
“L’Itaca di nostro padre era Orozko, in
Bizkaia.”
Salendo sulla macchina di Imanol per
andare alla clinica, guardo con stupore la facciata
della casa, le due finestre del piano superiore mi
sembrano molto distanti una dall’altra, come gli
occhi di un animale domestico.
“Quelli che vengono da là dicono che, da
fuori, sembra un vecchio casolare della zona del
Gorbeia...” dice Arantxa.
“Soprattutto per la palma” ironizza Imanol.
81
La clinica si trova a tre chilometri verso
l’interno, sulle falde del monte, circondata da una
recinzione di pietra. Il portiere ha alzato la sbarra ed
entriamo nel parcheggio, c’è un bel giardino e una
strada lastricata che sale fino all’edificio principale.
Si vedono le macchie biancastre e fucsia delle
buganvillee, i cactus e altri fiori che si muovono con
il vento da una parte all’altra, qua e là alcune statue
classiche di marmo, appoggiate su dei piedistalli,
bianche, in posa meditativa.
La clinica è un luogo di riposo, pare si
occupino del trattamento di disturbi psichici. Imanol
ce la mostra sala per sala e, se fuori è bianca,
l’interno lo è ancora di più, corridoi bianchi, sale
d’attesa bianche, camere bianche. Ci lavorano
quattordici infermieri e sono ricoverati venti pazienti;
vediamo le infermiere con i loro camici bianchi e i
malati con gli occhi persi.
Arantxa la chiama sempre clinica. Imanol
dice un’altra cosa:
“Lungo tutta la costa atlantica della
Colombia, non c’è un manicomio migliore.”
Il Rosso ci segue in assoluto silenzio, lo
82
L’amico congelato
sguardo a terra, nella sua catalessi ambulante. Nei
lunghi corridoi tirati a lucido risuona il rumore dei
nostri passi e così procediamo lentamente, scriiih
scriiih scriiih, per non fare rumore.
“Questo corridoio, i pazienti lo chiamano
Galleria dei Passi Smarriti” ci informa Imanol.
Pranziamo tutti e quattro assieme. Imanol si
è seduto al mio fianco e, dopo pranzo, torna sul
tema dell’identità.
“Tu sei basca naturale, allora” inizia Imanol
quasi sottovoce, “dimmi cosa ne pensi di una
famiglia che utilizza una lingua ermetica particolare.
Nella nostra casa non si poteva parlare in spagnolo
perché nostro padre ce lo proibiva. Poi siamo usciti
da casa e ci siamo visti costretti a vivere in un altro
mondo. Anche agli indigeni succede la stessa cosa
nei quartieri di Medellín, Bogotà o di Cali, dove
nascondono le cicatrici e i tatuaggi sotto gli abiti...”
Mi ha lasciato di stucco dicendomi che io
sono basca naturale, come se lui si considerasse
un basco artificiale. L’aggettivo naturale mi ha
riportato alla mente bambini selvaggi, cresciuti
nella foresta senza una lingua e una cultura, come
83
quello di Aveyron. Penso che natura e cultura si
contrappongano.
“Tutti noi baschi siamo figli di una cultura” gli
dico.
Imanol rimane per un momento pensieroso
prima di rispondermi:
“Forse, ma nostro padre era evidentemente
anatopistico”.
Non capisco il significato della parola
anatopistico, a meno che non abbia a che vedere
con questi tremendi conti in sospeso che Imanol ha
con il suo defunto padre.
“Anatopistico è una parola simile ad
anacronistico” mi chiarisce cogliendo lo stupore
sul mio viso, “se anacronistico significa vivere
fuori dal tempo, anatopistico significa vivere fuori
da un luogo. Fisicamente sei qui, però vivi da
un’altra parte. Nostro padre era un buon esempio
di anatopismo...”
Dalla tasca del camice bianco prende una
bic a punta fine. È chiaro che ha esagerato con
il gin. Disegna un quadrato, lo divide con una
linea verticale e, tracciate due righe orizzontali, ne
84
L’amico congelato
risultano sei spazi.
Nella parte superiore a sinistra scrive Dove,
a destra Quando. Poi, sbarra Dove e Quando e
ci scrive sopra rispettivamente Spazio e Tempo,
scarabocchiando. Sulla seconda linea, a sinistra
scrive Eterotopia e, a destra, Eterocronia.
“Nostro padre non viveva qui, viveva allo
stesso tempo qui e in altri luoghi...”
E colloca la punta della penna nel secondo
riquadro a destra, indicando la parola eterocronia:
“E viveva anche in epoche diverse, nel
passato e nel futuro come nel presente, forse molto
più che nel presente...”
Adesso ha appoggiato la punta della penna
sulla terza linea e dice:
“Sai cos’è l’anacronismo?”
E nella parte inferiore, a sinistra, scrive
Anatopismo.
Gli dico di sì, che essere anacronistico
significa non corrispondere al proprio tempo, e mi
vengono in mente i giochi di parole e la passione
per i paradossi di Armando.
“Perché nostro padre, oltre a vivere sfasato
85
rispetto alla cronologia...”
E nel riquadro rimasto vuoto scrive
Anacronismo.
“Nostro padre viveva nell’anatopismo.
Viveva in un palese equivoco topologico, ha sempre
situato da un’altra parte l’asse della sua vita...”
Goio è un vegetale, con quella testa che
sembra un fiore rosso.
“Ha seminato in noi il desiderio di tornare alla
terra d’origine” continua Imanol, “questo bisogno
di ritornare alla Itaca di Orozko, e qualunque
psicoanalista ti spiegherebbe che si tratta del
desiderio di recuperare la vita intrauterina...”
“Ma, Imanol!” lo interrompe Arantxa seccata.
“Annoierai la nostra amica con la tua retorica!”
“No, no, è interessante” dico, un po’ in
imbarazzo.
“Non puoi ridurre tutto a questi semplici
schemi e a una mezza dozzina di tue trovate,” dice
una Arantxa infastidita da suo fratello, “con questa
tua mania di voler razionalizzare tutto, non capisci
nemmeno la metà delle cose che dici...”
Siamo tutti un po’ nervosi e Imanol abbassa
86
L’amico congelato
gli occhi sul tavolo alla ricerca di una Marlboro:
“Sempre con questa storia di nostro padre!”
continua Arantxa. “Mi fai uscire dai gangheri ogni
volta che nomini nostro padre! Quando è morto ho
pensato che questa tua ossessione sarebbe finita,
ma continui con la stessa storia. Basta! Lascia che
nostro padre riposi in pace, Jose Urioste è morto
in pace e ci ha lasciato con e senza radici, ti avrà
lasciato più o meno traumatizzato, ma adesso è
questo ragazzo a essere malato...”
“Sì, hai ragione” ammette Imanol senza
discutere, rispondendo alla sgridata di sua sorella
con un leggero sorriso. “Aiuteremo il nostro
amico...”
La discussione tra i due fratelli è stata
repentina e spiacevole.
Imanol prende Goio sottobraccio e se ne
va con il mio amico dai capelli rossi senza parola
né memoria né espressione alcuna, per la visita
medica e per compilare i documenti per il ricovero.
“Scusa” mi dice Arantxa quando rimaniamo
sole. “Anche nelle famiglie basche si discute, no?”
“Non ti immagini quanto!” dico mentre
87
camminiamo calpestando i fiori bianchi e fucsia
delle buganvillee.
Io e Arantxa usciamo a passeggiare in
giardino.
“Imanol ha sempre odiato nostro padre. Da
quando ha iniziato ad andare a scuola fino al giorno
in cui è morto. Forse perché lo amava troppo, lo ha
anche tremendamente odiato. Quando stavamo
aspettando tutti e cinque che gli facessero
l’autopsia, con nostro padre steso sul lettino, è
stato Imanol a scoppiare a piangere. Da allora ha
iniziato a bere fino quasi a diventare alcolizzato...
Immagino Jose Urioste nudo, il vecchio
corpo pelle e ossa steso sulla barella, abbandonato
dalla sua memoria e da tutte le idee, e i suoi cinque
figli seduti attorno in attesa. E adesso è Arantxa
che scoppia a piangere.
Camminiamo per un po’ in silenzio e poi
iniziamo a parlare dei fiori.
“Questo mio padre lo chiamava in basco
dantzalore, il fiore della danza” dice Arantxa mentre
me ne indica uno a me sconosciuto.
“Nel Paese Basco non ci sono questi fiori,
88
L’amico congelato
vero?”
“Non credo, è un fiore tropicale,” dice
Arantxa. “In spagnolo ha un altro nome ma nostro
padre lo chiamava dantzalore, sicuramente un
nome inventato da lui.”
“Un nome molto azzeccato, sembra proprio
che stiano ballando.”
Arantxa sorridendo guarda i dantzalore.
“Vado a prendere Maialen, fra poco esce da
scuola.”
Arantxa va a prendere sua figlia e io resto
sola in giardino. Continuo a passeggiare da una
parte all’altra con il ricordo del sorriso di Arantxa
e dei suoi occhi che sembrano irritati dalle ortiche,
mentre ammiro i fiori e le statue classiche.
Imanol compare all’improvviso, senza Goio:
“Non mi piace questo wagnerismo scultoreo”
mi dice.
Si zittisce un attimo come se aspettasse la
mia opinione, ma io non dico niente e lui prosegue:
“I piedistalli di marmo, questa verticalità che
si erge verso il cielo... un giorno o l’altro darò ordine
di abbassare le statue, farò togliere i blocchi di
89
marmo che le sostengono in modo che rimangano
all’altezza della gente che passeggia...”
Passiamo all’interno, allo studio di Imanol.
“E Goio?” gli chiedo.
“Il tuo amico si trova nel quarto girone
dell’inferno.”
“Dove, scusa?”
“Nel quarto girone dell’inferno” ripete Imanol.
Poi apre un grosso libro che ha sulla
scrivania e lo sfoglia finché trova qualcosa che mi
indica con il dito.
“Sono qui” dice.
“Chi?”
“E gridano nel fango...” dice Imanol.
Si siede sul tavolo, le gambe penzoloni e
inizia a recitare in italiano:
Tristi fummo
Ne l´aere dolce che dal sol s´allegra,
Portando dentro accidoso fummo:
Or ci attristiam nella belletta negra.
“E questo lo cantano quasi gorgheggiando”
90
L’amico congelato
dice Imanol nella sua peculiare lingua basca,
“perché non possono pronunciare la parola intera...”
È l’Inferno di Dante Alighieri e, quando lo
lascia sulla scrivania, gli chiedo:
“Non capisco. Perché non parla?”
“Come dicono i logopedisti in un caso
come questo”, mi spiega Imanol “è chiaro che
fisiologicamente non può, intellettualmente non sa
e psicologicamente non vuole. Ma se lo volesse, se
veramente lo volesse, potrebbe e saprebbe farlo...”
Seduto sulla scrivania, i suoi piedi si
muovono come un pendolo da una parte all’altra,
davanti a me.
“Cosa vuoi dire, che potrebbe parlare e ci
sta ingannando?”
“No, no. È chiaro che non può parlare, che
non sa cosa dire né come esprimerlo.”
“Perché?”
“Non sappiamo con esattezza come i
processi neurobiologici del cervello producano la
coscienza. Il cervello umano ha più di centomila
milioni di neuroni, ognuno dei quali è unito
sinotticamente con altri, sicuramente con molti altri.
91
E questa struttura estremamente complessa, si
trova in uno spazio che è più piccolo di un pallone
da calcio...”
“Però hai detto che, se volesse, parlerebbe.”
“Se volesse sì, ma tu non sai cos’è la
volontà. La volontà è un fenomeno estremamente
complesso...”
Dormirò in una grande stanza. Ci sono nove
letti, ma nessun altro passerà la notte in questa
camera riservata agli ospiti di sesso femminile. Così
come l’edificio è bianco all’esterno, bianchi sono
anche i corridoi e le stanze, bianche le lenzuola e i
cuscini. Mi sdraio e vedo che l’umidità ha scrostato
la pittura del soffitto, lasciando allo scoperto il grigio
del vecchio intonaco.
Poi si sentono gli altoparlanti:
“Si ricorda ai pazienti che è ora di spegnere
le luci...”
È un’affettuosa voce di donna, tipo quelle che
si sentono sugli aerei e negli aeroporti, Si avvisano
i signori passeggeri che il volo con destinazione...
92
L’amico congelato
Spengo la luce ma non riesco a dormire
per la salsedine e l’umidità che impregnano le
lenzuola. Esco in corridoio, con le ciabatte in mano,
cammino in punta di piedi per non fare rumore e mi
infilo in una stanza dell’ala anteriore della clinica.
È grande, intravedo i letti in fila e mi avvicino alla
finestra. Sotto si vede il giardino e, giù in fondo,
il portone d’entrata. Quando siamo arrivati non ho
visto l’insegna al neon, a forma di arco, collocata
sopra l’entrata.
È un’insegna collocata per essere letta
dall’esterno. Vedo anche per la prima volta l’alto
muro di pietra; prima, passeggiando in giardino,
non avevo notato che ci fosse un muro di tali
dimensioni attorno alla residenza. Inizio a bere
93
l’aria della mezzanotte come se fosse l’acqua di un
lago o di un ruscello.
Chi respira, prima introduce l’aria nei polmoni
e poi la espira, e dico di aver iniziato a bere l’aria
perché la maggior parte la tengo dentro, come se
fosse acqua, in modo che si espanda in tutto il mio
corpo.
Ma cosa ci faccio io qui? Benché sembri
solitaria e vuota come la mia, questa non è la mia
stanza e si direbbe che l’umanità dorma e che solo
io sia sveglia in questo segreto mattino, sveglia e al
posto di qualcuno, a contemplare la luna di sperma
dei pazzi e ad ascoltare la litania insonne dei grilli
durante la lunga notte.
All’alba si sente di nuovo l’altoparlante.
Mi alzo e mi rendo conto che anche gli specchi
riflettono il biancore di queste sale chiuse.
I pazienti hanno un orario preciso per alzarsi,
mangiare e prendere le medicine, e camminano da
una parte all’altra come se fossero dentro una bolla,
con la staticità di chi non vuole farla scoppiare.
94
L’amico congelato
Imanol mi accompagna attraverso la Galleria
dei Passi Smarriti.
“I pazienti sono tranquilli” commento.
“Certo che sono tranquilli! Ai più
agitati e fastidiosi applichiamo una terapia
elettroconvulsiva...”
Non so se scherza o se parla seriamente,
ma in entrambi i casi mi sembra di un estremo
cinismo.
Mi porta da un ragazzo giovane che sta
seduto. I suoi occhi sono sfuggenti e il suo viso non
mostra nessuna espressività.
“Jairo Jaramillo, soffre di anamnesia” mi
dice Imanol.
Subito Jairo ripete le stesse parole, Jairo
Jaramillo, soffre di anamnesia. Ha gli occhi scuri e
sembra che ricordi tutto.
“Faremo una prova” mi dice Imanol. “Digli
dei numeri, molti...”
E mi dà un pezzo di carta per prenderne
nota.
“27493728920257163927”, dico.
Imanol accende una Marlboro e la dà a
95
Jairo.
“Adesso fai quindici nomi di città”, mi
propone di nuovo Imanol.
“Valparaiso, Liverpool, Beirut, Los Angeles,
Maputo...” recito.
Adesso devo dire delle lettere e scrivo una
lunga lista sullo stesso foglietto. Le lettere, sedici o
diciassette in totale, le devo leggere.
Jairo si è portato la sigaretta alle labbra,
riempie i polmoni di fumo, lo soffia fuori dalle narici
e comincia a rispondere:
“27493728920257163927.”
Incredula, verifico la lista dei numeri scritta
sul foglietto. Ripete anche i nomi delle città senza
errori. E la lista di lettere senza senso, esattamente
uguale.
Mi rendo conto che Jairo Jaramillo registra
assolutamente tutto nella memoria ed è capace di
ripetere qualunque cosa.
“Ma racconta alla signora che cosa ti
succede con i visi” gli chiede Imanol.
Allora Jairo si toglie la sigaretta della bocca:
“Non riconosco la faccia delle persone, non
96
L’amico congelato
riesco a distinguere i visi. Domani ti vedrò di nuovo
e probabilmente non ti riconoscerò...”
Inquieto ha portato la sigaretta al posacenere,
dà un colpetto tac con l’anulare:
“Nemmeno il signor dottore, non pensare
che lo riconosca sempre.”
E, muovendo i suoi occhi lenti come due
lumaconi, dice con la più grande tristezza del
mondo:
“È molto difficile riconoscere le facce,
tremendamente difficile. Le caratteristiche dei
visi cambiano. È sufficiente sorridere perché
l’intero viso si deformi e mi confonda. La mente si
aggroviglia. L’altro giorno sono addirittura svenuto,
guardando delle facce...”
Lasciamo Jairo. Io e Imanol andiamo in
giardino passando dalla Galleria dei Passi Smarriti,
tra le buganvillee e i dantzalore, tra le statue
bianche.
“Non credere che una buona memoria, sia
come un bel palazzo. Alla fine Ireneo aveva ragione,
la memoria della maggior parte della gente non è
che un mucchio di rifiuti...”
97
Sta facendo buio e scendiamo lungo una
stradina selciata.
“Perché la vita abbia un senso,” continua
Imanol, “bisogna ricordare il più possibile e anche
dimenticare tutto quel che si può.”
E, pensando a Goio, mi passa la voglia di
continuare a parlare:
“In qualunque caso,” dice lo stesso Imanol,
“tutti abbiamo una memoria limitata, perché non
sappiamo cosa succederà domani...”
“Vediamo se indovini che lettera è questa...”
dice Imanol.
Mi ha offerto un metodo per imparare
l’alfabeto muto. Con Goio non è sufficiente la
relazione abituale tra amici, non sono sufficienti
gli strumenti linguistici, forse ho bisogno di una
comunicazione più semplice.
Guardando la sequenza di immagini del
libro mi rendo conto, immediatamente, che Imanol
sta facendo con la mano la lettera t.
I giochi di parole di Imanol mi ricordano
98
L’amico congelato
quelli di Josu. Ieri mi ha parlato di un tal Ireneo,
poi mi dice che siamo esseri dalla scarsa memoria,
che non ricordiamo né prevediamo il futuro, perché
non siamo in grado di sceglierlo né di costruirlo.
Ho deciso di andarmene da qui. Lascerò
Goio in clinica e continuerò da sola il viaggio fino a
casa di Andoni, e così lo comunico a Goio.
“Domani me ne vado, Goio, ti lascio solo ma
per poco tempo...”
È in compagnia di un’infermiera. Stanno
facendo degli esercizi in una sala bianca. Mi siedo
ma sono troppo lontana per poter sentire quello che
dicono, Goio e l’infermiera sono come due mimi e
posso solo immaginare gli ordini dell’infermiera...
Aprire gli occhi, sollevare il viso, puntare lo
sguardo di fronte, il più lontano possibile, senza
prestare attenzione alla prima impressione. Poi,
sollevare la mano davanti agli occhi, sfregarli con
i pugni, abbassare le braccia, guardare di nuovo,
ricordare le cose che sono rimaste fuori quando è
stata costruita la parete, e non credere nemmeno
a questa seconda impressione. Allora, guardare
attorno, analizzare bene tutto, cercare uscite,
99
e non accontentarsi nemmeno di questa terza
impressione.
Alzarsi, avvicinarsi alla porta, rendersi conto
che l’aria entra da sotto, sforzarsi di sentire i rumori
dell’esterno, afferrare la maniglia con la mano,
ma non accettare neanche la quarta impressione.
Allora, di nuovo sulla porta, girare la maniglia,
provarci di nuovo ma con più forza, per verificare
che non si apre, bussare alla porta toc toc e
aspettare, questa è la quinta impressione. La sesta
impressione consiste nello scuotere la porta fino a
scardinarla, rompere la serratura, perché bisogna
buttar giù la porta per poter passare. E l’ultima è
uscire, fare un passo e, la settima impressione,
ritrovarsi solo per strada.
Goio è ancora alla prima o alla seconda
impressione. Aprire gli occhi, sollevare il viso,
guardare dritto davanti a sé, alzare le mani
all’altezza degli occhi, strofinarsi gli occhi con i
pugni, abbassare le braccia, guardare di nuovo...
“Ti lascio qui” gli dico, “ma tornerò presto.”
Goio ha aperto le mani sopra la testa, poi
le guarda e una lacrima scivola a zigzag giù per la
100
L’amico congelato
guancia.
Mi aspetto una sua parola, una battuta,
una minima reazione, ma non dice niente. Nel suo
vuoto sacco di parole, tutta la sua retorica consiste
in alcuni gesti impossibili da decifrare. Sembra un
corpo su un molo, in attesa di partire per un lungo
viaggio, in attesa di una nave naufragata da tempo.
Sono sola nel dormitorio, una stanza con
nove letti vuoti. C’è odore di immondizia bruciata, di
libri umidi o di acqua putrida. Non riesco a dormire
e inizio a rendermi conto che, con il passare del
tempo, l’impossibilità di dormire diventa molto
onirica. Chiudo gli occhi e ricordo i visi, sbiaditi, con
sorrisi dubbiosi e senza risposta.
La tensione simmetrica delle guance di
Jairo, Josu corrucciato e sorridente, il viso di
Imanol che assomiglia al ritratto di Jose Urioste,
l’ospitalità degli occhi sofferenti di Arantxa, il viso
color terra del cipote di Bluefields, il baffo da corvo
del comandante, il gesso sotto i capelli di fuoco
di Goio e, così come mi appaiono, si cancellano
come se una mano sollecita li avesse fatti sparire
con un panno nero, di quelli che si usano per pulire
101
i vetri appannati della macchina.
Alla fine sempre lo stesso, nell’aprire gli
occhi e guardare la parete vedrai te stessa. Perché
la vita è una lunga insonnia.
La mattina successiva parto per Quito.
Lascerò qui Goio, come un vagone staccatosi dalla
vita.
Alle otto del mattino, prima di andarmene,
mi avvicino alla stanza di Goio per salutarlo.
“Come sta?” chiedo all’infermiera.
“Molto bene, adesso dorme.”
Nella stanza bianca, tra lenzuola bianche
e sul cuscino bianco, risaltano i suoi capelli rossi.
“Molto bene?”
Come se dormire equivalesse a star bene.
Qualcuno comincia a muoversi per i
corridoi: infermieri e qualche degente. I pazienti
sono tranquilli, come il loro stesso nome indica, per
i più nervosi e molesti esistono terapie d’urto nel
biancore austero del centro ospedaliero.
Così, dal mattino presto, tutti i pazienti si
svegliano, si alzano e iniziano a camminare, nella
solitudine, ognuno chiuso nella propria parentesi.
102
L’amico congelato
103
4
GIOCARE A BASCHI E GUARDIA CIVIL
Uscì da casa di corsa.
Nelle luminose mattine di agosto, i ragazzi di
Kalaportu lasciavano le loro case e, con la barca del
padre di Juan Bautista o di qualcun altro, uscivano
in mare, anche se non oltrepassavano mai l’ultimo
braccio del porto.
“Avanti tutta!” gridava Juan Bautista, in piedi
a poppa, afferrando forte il timone.
L’acqua faceva spla splaff contro la chiglia
della prua, un suono simile a quello di un foglio che
si accartoccia. Partivano dal molo e si dirigevano
verso l’uscita del porto, però non andavano a
Ondarru o a Bilbao ma solo fino all’angolo di
Harrizorrotzeta, oppure in direzione contraria e,
oltrepassato Kaioarri, arrivavano fino alla spiaggia,
sognando di raggiungere, un giorno, Getaria o
Hondarribia.
104
L’amico congelato
A volte si imbarcavano di nascosto, per
evitare l’umiliazione di dover obbedire alla voce
dei genitori che li richiamavano dalla terraferma.
Uscivano in mare con una scialuppa e navigavano
il più nascosti possibile. A volte si dedicavano a
pescare, lanciavano il filo con l’amo e passavano il
tempo a imparare il mestiere del padre e del nonno.
“Abboccano, abboccano” diceva Goio,
imitando i suoi amici e i pescatori quando sentiva il
bruciore del filo tra le dita.
E, quando vedeva gli occhi di un pesce
sopra la superficie dell’acqua, mormorava tra i
denti: Ti ho preso.
“Tiralo fuori!” gli gridavano.
Quando cercava di tirarlo fuori, il pesce
swishh si sfilava e, la maggior parte delle volte, gli
scappava.
“Con quella chioma rossa, tu i pesci li
spaventi!” diceva Juan Bautista a Goio. “Quando
cominci a tirare il filo, non vedi che gli occhi del
pesce ti stanno guardando?”
Poi, con sei o sette pesci nella cesta,
passavano remando vicino alla riva da una punta
105
all’altra della spiaggia, davanti ai bagnanti che
si abbronzavano, alle ragazze dai corpi ramati
sdraiate sulla sabbia con gli occhi chiusi a guardare
il sole ma che, al vedere la barca, alzavano lo
sguardo.
Una volta, raggiunta la spiaggia, Agustin
disse:
“Scommetto che non sapete l’ultima...”
“Racconta!”
“Dai, cosa aspetti?”
E dopo aver creato un po’ di suspense con il
suo silenzio, avrebbe detto:
“A quanto pare, il prossimo anno scolastico
avremo una professoressa che viene proprio dalla
Francia ad insegnarci il francese...”
Ad eccezione di Juan Bautista, tutti gli altri
andavano a scuola e stavano per iniziare l’ultimo
anno. Juan Bautista aveva un anno più di loro e
aveva lasciato gli studi perché l’avevano espulso
quando stava ripetendo la terza; aspettava di
compiere sedici anni per poter iniziare a lavorare
con suo padre sul peschereccio.
Juan Bautista sapeva una cosa che Goio
106
L’amico congelato
non avrebbe mai imparato a scuola, sapeva
fischiare come i filibustieri, così lo chiamava lui,
stile filibustiere, quattro dita in bocca, piegare la
lingua e soffiare con forza:
Fffhhiiu fffhhiiu...
Era un fischio che spaventava anche i
gabbiani. Juan Bautista, invece, sosteneva che
attirasse i pesci e tutti i ragazzi di Kalaportu volevano
imparare a fischiare in quel modo, cercavano
inutilmente di imitarlo ma, con le dita sopra o sotto
la lingua e torcendola in mille modi, ottenevano
solo dei lamentevoli soffi. Che comunque erano
sufficienti per allontanare i gabbiani.
Quell’estate Juan Bautista era ciecamente
innamorato. Si era preso una bella cotta per una
di quelle graziose villeggianti bionde e sciocche di
Bilbao e, con o senza barca, il suo obiettivo ultimo
era sempre la spiaggia.
“Sono già in spiaggia con la chiglia verso
l’alto”, diceva.
Le ragazze, sdraiate al sole sui loro
asciugamani, si abbronzavano cuocendosi con
sudore e creme.
107
I ragazzi della scialuppa, intanto, giocavano
anche “A prendere la schiuma” e, uno dopo l’altro,
si tuffavano a dritta.
“A prendere la schiuma” si gridavano l’un
l’altro.
Prima che svanisse la schiuma provocata
dal tuffo anteriore bisognava saltare, passare sotto
la chiglia della scialuppa, risalire il più rapidamente
possibile a babordo e tuffarsi di nuovo a dritta prima
che sparisse la schiuma dell’onda successiva, ciuf!
Qualcuno si tuffava a testa in giù, oppure facendo
capriole in aria, qualcun altro si prendeva una
spanciata tremenda, i più paurosi si tuffavano in
piedi tappandosi il naso con le dita.
Poi, seduti in barca per riprendere fiato,
bisognava pensare a come avvicinarsi alle ragazze
che parlottavano e ridevano con la chiglia verso
l’alto, mentre prendevano il sole in spiaggia.
Ma con la barca era più facile.
Allora, ragazzi, ci portate a fare un giro,
avrebbero chiesto loro le figlie dei villeggianti di
Bilbao e di Madrid, sedute sulla sabbia, con lo
splendore appena ricevuto in regalo dal sole e
108
L’amico congelato
dalla Nivea.
L’inverno, che sarebbe giunto dopo l’estate
che stava finendo, avrebbe cancellato quella
luminosità dai loro corpi, ma per il momento era
ancora estate, in spiaggia c’era afa e la sabbia era
disseminata di rifiuti lasciati dai bagnanti. Lattine
colorate, bottiglie vuote, bianchi piatti di plastica,
infilati nella sabbia come mezze lune.
E com’erano morbide e inavvicinabili le mani
di quelle ragazze!
Era bello il loro passeggiare sulla spiaggia,
perché la brezza incollava gli abiti ai loro corpi,
oppure sollevava loro le gonne. Camminavano
come fossero spinte dal vento e le loro cosce
abbronzate e nude erano stupende quando il vento
le lasciava allo scoperto. Benché sembrasse che
fosse il vento a sollevar loro le gonne seguendo
il ritmo dei loro passi, talvolta erano loro stesse a
farlo.
Mi applichi la lozione? Parlavano così.
E a volte la forte ma tremante mano di
qualche figlio di pescatore spalmava quella crema.
Tuttavia la maggioranza dei ragazzi tornava a
109
casa bruciata dal sole e con il cuore in tumulto,
innamorata, pensando a come avvicinarsi a una di
loro.
Era difficile passare dagli sguardi alle
parole, dalle parole al tenersi per mano, dal tenersi
per mano al baciarsi e dai baci al toccarsi. Le
faccende di sesso erano ancora proibite e quei
ragazzini di quattordici-quindici anni non potevano
fare molto i bulli con le ragazze, perché avevano
un corpo ancora acerbo e sgraziato. In spiaggia
c’erano ragazzi ben più grandi e più robusti di loro,
giovanotti che passeggiavano tra quelle villeggianti
con spavalderia, con il passo della domenica.
“E dove pensate di portarle, mocciosi, se
avete un’acciuga ancora piccola piccola...”
Dal porto nuovo si vedeva un pezzo di
spiaggia e Goio cercava di rimanere nascosto a
guardare le ragazze.
La madre di Goio si guadagnava da vivere
proprio su quel molo nuovo. Aveva lavorato anche
nella fabbrica di ghiaccio, ma adesso si dedicava
ad aggiustare le reti e rimaneva al porto dalle nove
del mattino fino all’una e dalle tre del pomeriggio
110
L’amico congelato
fino alle sei, con altre sei, sette donne, seduta su
una piccola sedia vicino alle grandi reti, con un ago
di plastica e dei fili grossi, a cucire le reti utilizzate
dai pescatori in mare.
Le cucitrici di reti avevano sempre la radio
accesa, in spagnolo, benché loro parlassero
in basco di questo e di quello; il notiziario le
informava di un terribile terremoto in Turchia che
aveva distrutto varie città e che nel Biafra la guerra
continuava. Il filo deve essere più lungo dell’ago,
e lascia che il ragazzo si diverta, si dicevano
l’un l’altra. Dopo dieci anni dalla morte di Marilyn
Monroe alcuni aspetti dell’accaduto non erano
ancora stati chiariti. Cose di questo tipo! Sembrava
che la Germania avesse una buona squadra per
i Mondiali di calcio. Com’è difficile dover sempre
combattere con il tempo. Si poteva ascoltare anche
la pubblicità dell’aspirina: Il dolore è passato di
moda. Poi il romanzo radiofonico, durante il quale
rimanevano in silenzio per non perdere nemmeno
una parola della scrittrice Corín Tellado.
Goio si avvicinò e si sedette vicino alle reti.
Ne osservò una: ad un estremo c’era il sughero e
111
all’altro il piombo. Di lì a poco sarebbero arrivati i
pescatori per ricaricarla, una volta aggiustata, sul
peschereccio.
Allora sua madre gli disse:
“Hanno ucciso un guardia civil a Bilbao e
non voglio vederti in giro per strada.”
“Perché?”
“Perché cosa?”
“Perché lo hanno ucciso?”
“E io che ne so! Perché sì!”
Con le prime luci del giorno dopo, sulla
parete del cantiere navale apparve una scritta a
grandi lettere rosse:
Agli angoli delle strade comparvero dei
volantini, fogli ciclostilati scritti da una parte in
112
L’amico congelato
basco e dall’altra in spagnolo, e le jeep verdi della
Guardia Civil iniziarono a pattugliare su e giù tutto
il paese.
Al pomeriggio quasi tutto il gruppo si riunì
ad Harriandi, otto amici arrivati lì con l’intenzione di
uscire in mare. Ma Juan Bautista non era riuscito
a farsi dare la barca e per nuotare c’erano onde
troppo alte.
“Giochiamo a guardia civil e baschi?”
propose qualcuno.
“E che gioco è?”
“Che gioco vuoi che sia! Come a guardie e
ladri.”
Juan Bautista e Agustin, a sorteggio per
chi iniziava, scelsero i gruppi. Una volta costituiti i
gruppi, si sorteggiarono i guardia civil e i baschi.
“Il capitano dei guardia civil!” si burlarono di
Juan Bautista.
“Che sfiga!” esclamò.
A Goio, scelto da Agustin, toccò fare il basco.
I guardia civil dovevano rimanere in caserma e
113
contare fino a venti, poi il capitano avrebbe ordinato:
“Adesso, prendeteli!”
E si sarebbero avviati alla caccia dei baschi.
Goio scese tra gli scogli fino a una stretta
grotta nascosta nel precipizio di fronte al mare e si
sedette in quel luogo che chiamavano Uradario.
Quando i guardia civil catturavano un basco,
lo portavano in caserma e il prigioniero non poteva
abbandonare l’angusto spazio di quella cella, ma
se un basco libero riusciva a toccare un basco
prigioniero, quest’ultimo riacquistava la sua libertà.
Il gioco finiva quando i guardia civil catturavano tutti
i baschi. Poi avrebbero potuto giocare al contrario: i
baschi davano la caccia ai guardia civil.
Goio rimase tranquillamente seduto nel
rifugio di Uradario. Accese una sigaretta e, dopo
una lunga boccata, guardando le onde del mare,
riempì i vuoti dell’aria, creando agnelli dal pelo
bianco che pascolavano in un prato scuro. I ruoli
erano già stati assegnati e i ragazzini, facendo il
guardia civil o il basco, si iniziavano alla vita; alcuni
di loro, ancora indecisi, interpretavano un ruolo o
l’altro e, da allora in poi, il gioco non sarebbe più
114
L’amico congelato
finito. I ragazzi non sapevano ancora che un giorno
gli spari sarebbero stati veri, gli arresti di una
crudeltà indescrivibile e le detenzioni terribilmente
lunghe e dure. E che chi muore, muore per sempre.
Non trovarono Goio da nessuna parte e
i guardia civil di Juan Bautista non riuscirono a
catturare tutti: a un certo punto si stufarono. Non
furono in grado di prendere nemmeno Agustin, che
però non era rimasto nascosto e aveva liberato i
prigionieri in diverse occasioni. Andarono avanti
così finché un acquazzone offrì loro la scusa per
abbandonare il gioco.
Quando Goio uscì dal suo nascondiglio, li
trovò tutti rifugiati e seduti dentro il vecchio bunker
di Harriandi.
“Sei veramente un figlio di puttana! Dove ti
eri nascosto?” disse Juan Bautista.
“Nelbucodovesiperselindiano!” disse uno
vedendo che Goio rimaneva zitto. “A Txepetxabi?”
chiese un altro.
Fumavano sigarette Celtas senza filtro e
il fumo intiepidiva l’aria in quello scuro spazio di
cemento.
115
“Sapete cos’è questo?” chiese Agustin.
“Un bunker, cosa vuoi che sia!” disse uno.
Juan Bautista spiegò che, durante la guerra,
quella era una postazione protetta per sparare
verso il mare, un bunker eretto nel luogo dove
prima c’era il vecchio osservatorio del mare.
“E quelli di casa tua da che parte stavano
durante la guerra?” chiese Agustin a Goio.
“Non lo so.”
La guerra era qualcosa che si vedeva al
cinema e, più o meno in un’ora, i buoni vincevano
e uccidevano tutti i nemici senza lasciarne vivo
nemmeno uno. Al cinema, i buoni li riconoscevi
subito, ancora prima che facessero qualcosa, ma
fuori dal cinema non era così facile distinguerli.
“Qualcosa saranno stati, no? Carlisti, o
falangisti, o nazionalisti, o repubblicani...”
“Mio padre era repubblicano ed è morto in
guerra” disse Goio, con l’incoscienza con cui a
quell’età si dicono alcune bugie, senza valutarne
l’importanza.
“Che bugiardo!” disse qualcuno e tutti
iniziarono a scherzarlo.
116
L’amico congelato
“Vent’anni dopo essere morto in guerra è
tornato per scoparsi tua madre!”
Tutti scoppiarono a ridere. Goio, rosso di
vergogna, fece il gesto di colpire Agustin.
Uno dei compagni fece segno di tacere:
“Ziiiiiiitti, arrivano i verdi...!” avvisò.
E subito dopo sulla porta del bunker
comparvero quattro guardia civil, mantelli verdi,
cappello di vernice e il fucile sottobraccio. Grondanti
di pioggia, si guardarono in giro e dissero:
“Cosa fate qui, ragazzi?”
I ragazzi si sentirono di colpo in trappola,
divennero molto nervosi, senza avere il tempo
nemmeno di spegnere le sigarette, come se li
avessero sorpresi a fare qualcosa di proibito. “Se
non dite niente, penseremo che state nascondendo
qualcosa”, ma nessuno osò rispondere.
Erano come frastornati, non potevano
parlare. I guardia civil erano appena sbarbati, le
loro teste di vernice bagnata brillavano, i fucili che
mostravano sotto il mantello erano molto lunghi e
gli anfibi che portavano ai piedi molto neri.
“Che non vi venga in mente di cospirare.”
117
Così dissero e proseguirono sotto la pioggia
lungo il vecchio sentiero della costa dei carabinieri.
“Te la sei fatta sotto dalla paura, eh?” disse
poi Juan Bautista.
“No” rispose Goio.
“Io invece sì...” aggiunse ridendo.
Agustin gli ordinò di tacere.
“Se ne sono andati i cappellistorti?”
“Sì.”
“Sicuro? Non saranno rimasti qui attorno a
vigilare?”
“No, guardali là sotto, tutti e quattro...”
“Allora dovremo fare un giuramento di
sangue.”
“Cosa?”
Agustin propose di fare un patto di sangue
come gli indiani nei film. “Uniamo il nostro sangue
e da questo momento in poi saremo amici per
sempre.”
“E dobbiamo di nuovo farci uscire il sangue?”
si lamentò Esteban.
Con il coltello di Juan Bautista si fecero un
taglietto e unirono le loro mani, rimasero in silenzio
118
L’amico congelato
perché a nessuno veniva in mente una di quelle
frasi solenni con cui nei film si sigilla il patto ma,
anche se gli avessero tagliato le dita delle mani una
ad una, non avrebbero mai tradito gli amici. Non
era la prima volta, anche in altre occasioni avevano
fatto giuramenti di sangue e sapevano che, come
prova di amicizia, a continuazione ognuno avrebbe
dovuto rivelare un segreto personale.
“Abbiamo fatto il giuramento e adesso
inizieremo con le domande e, se qualcuno mente,
che muoia fulminato!”
Furono le parole di Agustin e toccò a lui
rispondere alla prima domanda:
“Qual è l’ultima cosa strana che hai saputo?”
“Che, siccome Mesie Nomonsieur se n’è
andato, l’anno prossimo verrà una vera francese.”
“Questo lo sapevamo.”
“Anch’io lo sapevo.”
“Io invece no.”
“Nemmeno io.”
Poi chiesero a Juan Bautista:
“Hai scopato davvero qualche volta, o vai in
giro a fare lo sbruffone?”
119
Confessò che tutto quello che aveva detto,
ciò che aveva fatto o non fatto con la ragazza
bionda o con qualunque altra, nella maggior parte
dei casi erano balle: aveva visto alcune cose, a una
ragazza aveva toccato una tetta, a un’altra aveva
dato un bacio, ma tutto il resto era una gigantesca
palla.
“Scopare, scopare veramente, no...”
Juan Bautista non disse altro e, in
quell’oscurità, sembrava una statua di gesso non
ancora dipinta.
Poi, Agustin chiese a Goio, che nel cerchio
era il successivo:
“E tuo padre dov’è?”
“Mio padre vive in Inghilterra.”
Per un attimo tutti rimasero in silenzio
ma, poco convinti della risposta di Goio, gli
domandarono:
“E perché hai il cognome di tua madre?”
A Goio, pieno di vergogna e umiliato, sembrò
che la lingua gli facesse un nodo in gola: una statua
di gesso dai capelli rossi.
120
L’amico congelato
Quella notte si svegliò e, sentendo rumori e
sospiri, si avvicinò alla stanza di sua madre. Aprì
la porta, accese la luce e vide un uomo nudo a
letto sopra sua madre. Quasi accecato dalla luce,
intravide gli occhi sorpresi di lei:
“Cosa ti succede, mamma?” disse con voce
rotta.
“Spegni la luce e vai subito in camera tua!”
Goio ritornò a letto, nervoso.
Il mattino dopo, aprì la porta della sua
camera e vide sua madre in cucina che preparava
il caffè. Aveva le guance rosse e gli sembrò più
bella del solito. La tavola era apparecchiata, il latte
caldo nelle scodelle, lo zucchero; si avvicinò per
sedersi ma contò tre tazze, tre cucchiai e, invece di
sedersi, andò alla finestra senza dire niente.
Aspettò girandole la schiena. Seppe, senza
nemmeno guardare, che l’uomo si era seduto
davanti al suo piatto. E quando capì, sempre senza
guardare, che anche sua madre si era seduta a
tavola, allora Goio tornò in camera sua.
“Dove vai?” chiese sua madre.
Goio non rispose e si infilò in bagno.
121
“È ora di colazione, Goio. Vieni a tavola!”
Goio rimase a lungo in bagno. Uscì con un
asciugamano al collo.
“Non voglio fare colazione, non ho fame!”
disse, benché fosse affamato.
“Che tu faccia colazione o no, per lo meno
vieni a tavola.”
Si sedette, prese il cucchiaio in mano e con
la punta iniziò a ripassare il bordo dei fiori della
tovaglia. Ogni volta che l’uomo alzava la tazza
per avvicinarla alle labbra e beveva il caffelatte
sorseggiandolo, Goio premeva forte il cucchiaio
contro i fiori stampati sulla tela cerata.
L’uomo bevve tutto il contenuto della tazza
e poi ci introdusse il cucchiaio per raccogliere i
rimasugli di zucchero; lo leccò e, lasciatolo nella
tazza vuota, appoggiò le sue mani di pescatore
accanto al piatto e alla scodella.
Sua madre si alzò e andò in cucina a
prendere il pane che aveva dimenticato.Prese il
coltello e tagliò tre grosse fette di pane.
“Goio, quest’uomo è Andres,” disse mentre
le distribuiva.
122
L’amico congelato
Quando Goio vide la sua fetta di pane
vicino alla tazza, infilò il cucchiaio nel caffelatte.
Poi iniziò a soffiare, come se scottasse, ma era già
abbastanza freddo e non fece altro che schizzare
ovunque.
“Il muto non ha bisogno di sprecare saliva...”
disse Andres ridendo, pensando di attutire con una
battuta la rabbia del ragazzo.
Ma lui, lasciato il cucchiaio, si ritirò in camera
sua, si sdraiò sul letto a pancia in giù e scoppiò a
piangere.
Poco dopo, la madre socchiuse la porta e gli
disse:
“Sabato prossimo andrai dai nonni.”
Avrebbe preso l’autobus per Murelaga e
sarebbe andato al casolare dove vivevano i suoi
nonni.
123
5
L’AMICO CONGELATO
Ognuno si muove dentro la propria parentesi,
là ma anche qui.
“Como posso arrivare a Pupuna?” chiedo
in spagnolo a una donna che mi si avvicina sulla
strada.
La donna, senza fermarsi, mi risponde in
uno spagnolo con accento quechua:
“Con l’aiutino di Taita Diosito.”
Mi fermo e le chiedo:
“E chi è Taita Diosito?”
Questa donna, che porta un enorme quipe
sulla schiena e continua sulla sua strada senza
fermarsi, mi risponde girando il corpo da una parte
e alzando gli occhi al cielo:
“Io, ka, non lo conosco, solo per sentito dire,
però dicono che è uno di quelli che stanno lassù.”
La donna con il suo cappellino e il quipe sulla
124
L’amico congelato
schiena si allontana tip tip tip tip a passo leggero.
Arrivo a casa di Andoni di notte. Busso alla
porta, toc-toc, e intravedo subito un’ombra alla
finestra.
“C’è un posto per passare la notte?” chiedo
in basco.
“Ma certo!” mi rispondono dall’interno.
“Sono Maribel” gli dico.
“E Goio?” mi chiede mentre apre la porta e
le braccia allo stesso tempo.
“Non è potuto venire fin qua. Ti racconterò...”
Entro, l’emozione ci rende entrambi un po’
nervosi.
“E da queste parti come va, siete ancora
vivi?”
Così chiedo a quest’uomo di quarantadue
anni, sorridente e con un certo humor nero, che mi
risponde prontamente:
“Vivi no, sepolti male.”
Si siede ma si rialza subito:
“Un caffettino?”
“Sì.”
Così Andoni va in cucina, ha i capelli grigi.
125
Lo trovo invecchiato.
Ha detto “caffettino” e mi viene in mente la
donnina con il suo cappellino e il suo quipino, con
l’aiutino di Taita Diositino, che cammina a passettini.
Con il diminutivo sembra che tutto sia più facile, più
tollerabile, più lecito, più dolce.
“Sei sposato, vero?” gli chiedo quando torna
dopo aver messo il caffè sul fuoco.
“Sì, con una quechua. È andata alla comunità
della sua famiglia a passare una settimana. E tu,
avrai dei figli, no?”
“No. Perché pensi che dovrei averne?”
“Nel ventre di una donna c’è sempre una
culla.”
“Una culla e anticoncezionali colorati.”
Scoppiamo a ridere e chiedo di nuovo ad
Andoni come vanno le cose da queste parti, anche
se mi aveva già risposto prima con quel “sepolti
male” che la mia curiosità ha già dimenticato.
“Bene”, risponde stavolta. “E da quelle
parti?”
“Da quelle parti?” dico. “Quali?”
“Nel posto dove vivi.”
126
L’amico congelato
“Ah, bene, bene...”
“E Goio non viene?”
Gli dico che l’ho lasciato ricoverato nella
clinica di Rioquemado.
“Goio è stato mio compagno di scuola” dice,
“abbiamo fatto un anno assieme. Da allora non ci
siamo più visti. Quando vivevamo nel Paese Basco
francese, avevamo avuto notizie uno dell’altro,
avevo detto varie volte che lo conoscevo e pure
lui che conosceva me ma, siccome vivevamo
seminascosti, non ci siamo mai incontrati...”
La relazione fra di loro è stata più breve
di quanto pensassi. Ventisette anni fa, quando
avevano quattordici anni, erano stati assieme nella
stessa classe per nove mesi, da ottobre a giugno.
“Questo accadde molto tempo fa,” dice
Andoni, “da allora sono passate ventisette
devastanti ere geologiche...”
Sicuramente siamo tutti bambini del passato,
Goio e Andoni, e anch’io sono una bambina di quei
tempi; oggi persone mature, disperse, senza tracce
dell’infanzia.
“Sai una cosa, Maribel?”
127
“Cosa?”
“Mi ha fatto molto piacere che tu sia venuta
fin qua.”
Ha portato il caffè fumante e sembra che
voglia raccontarmi una storia.
“Ti racconterò una storia kiowa.”
“Kiowa?”
“Non siamo forse tribù sorelle?”
“Allora raccontamela...”, gli dico mentre
bevo il caffè caldo e dolce come un abbraccio.
“Quante uova hai mangiato?” dice Andoni.
Per iniziare ha bisogno di un ritornello, alla
nostra età è necessario, per poter raccontare favole
senza vergognarsi. “Così iniziavano i racconti di
mia nonna...” dice, “Quante uova hai mangiato?”
“Mezza dozzina...”
“C’era una volta” inizia a raccontare
sorridente, “una famiglia kiowa. Una notte, rimasti
soli in pianura, dentro la tenda di pelle di bisonte,
i genitori erano affaccendati mentre il bambino
dormiva. L’uomo, alla luce di un piccolo fuoco,
stava preparando le frecce. Affilava la punta con
una pietra, la raddrizzava schiacciandola tra i
128
L’amico congelato
denti, poi la collocava nell’arco e controllava che
fosse dritta. All’improvviso si rese conto che fuori
dalla tenda c’era un animale o forse una persona.
Senza smettere di lavorare disse a sua moglie,
C’è qualcuno lì fuori, occupati del bambino, ma
non avere paura, continueremo a parlare come
se niente fosse. E dopo aver stretto l’affilata punta
della freccia, la raddrizzò di nuovo schiacciandola
tra i denti, la collocò nell’arco, mirò a destra e a
sinistra, tranquillo e, come se si rivolgesse alla
moglie, disse, So che sei lì fuori, sento i tuoi passi,
sento i tuoi occhi sopra di me. Se sei kiowa, capirai
cosa sto dicendo e mi dirai il tuo nome.”
Andoni fa una breve pausa e poi continua:
“Da fuori nessuno rispose e l’uomo fermò la
freccia che stava provando da una parte e dall’altra.
Poi la puntò contro la persona che si trovava fuori
e la scagliò, l’affilata freccia si infilò diritta al centro
del cuore del nemico...”
“È una storia strana, no?” dico.
Non mi è venuto in mente nient’altro, solo
che è una storia strana, questo sì, e Andoni mi
guarda con gli occhi spalancati, in attesa che io
129
dica qualcos’altro.
“Non sono un’intellettuale capace di fare
interpretazioni filosofiche” gli dico.
“E vissero tutti felici e contenti.”
Si sono fatte le ore piccole parlando e,
quando inizio a sbadigliare, Andoni mi accompagna
nella soffitta basca.
Dormirò nella stanza che Andoni utilizza per
tenerci i libri in basco e altri segreti.
“Non è la mia camera” mi dice, “perché io
dormo nell’altra, ma di giorno ci passo molto tempo
ed è la stanza dove sogno.”
Sulla parete ci sono i due gernika, il
tempietto con l’albero e la distruzione illuminata
da una lanterna, qualche disegno di Oteiza e
di Ruiz Balerdi, lo scudo che rappresenta i sette
territori baschi, riproduzioni dei quadri di Ameztoi e
fotografie di Bilbao.
Questa stanza non ha finestre ma, se le
avesse, sarebbe sufficiente aprirle per vedere
Bilbao, il paesaggio urbano di Santutxu e, se
non fosse coperto dagli edifici, probabilmente si
vedrebbe anche Otxarkoaga o forse qualche altro
130
L’amico congelato
vivace quartiere periferico abitato e umano sulla
collina. Questo mostrerebbe una finestra in questa
stanza, chiusa o aperta.
Dallo scaffale prendo un grosso libro, Tristes
tropiques, Claude Lévi-Strauss, di L’Académie
Française: un giovane indigeno dai capelli neri,
con un pezzo di osso o di legno bianco al naso e
un bastoncino di legno dal labbro alla fronte, fissa
l’obiettivo, un indigeno che ci guarda intensamente.
Lo lascio e ne prendo un altro, appoggiato
orizzontalmente sopra gli altri volumi dello scaffale,
è un libro di poesie e trovo due versi sottolineati in
rosso:
Nessuno sa dove si trovi il mio paese, lo
cercano
intristendosi di miopia...
Al mattino mi alzo, mi vesto e, quando sto
per infilare il piede, dentro la scarpa trovo uno
scorpione nero.
“Mi sono dimenticato di avvisarti” mi dice
Andoni, “bisogna sempre controllare e svuotare
131
le scarpe, per togliere formiche, scarafaggi,
scorpioni...”
Andoni si occupa di ricerche di antropologia.
“Da due anni lavoro con la gente
dell’università di Quito. L’anno scorso siamo stati
tutto l’anno in Amazzonia.
“Cosa facevate?”
“Abbiamo vissuto con una comunità indigena
chiamata Shuar”.
“Non ho mai sentito il nome Shuar.”
“Sicuramente sono più conosciuti con il
nome di Jíbaros”.
“Sono cannibali?”
“No, sono famosi perché rimpiccioliscono il
cranio dei loro nemici”
“E tu hai visto quelle teste rimpicciolite?”
“Sì, alcune. Ma a noi interessava raccogliere
dati di tipo linguistico.”
“Raccogliere dati linguistici non deve essere
difficile.”
“È abbastanza complicato, invece. La
parola non è un’etichetta che si può appiccicare a
qualunque cosa, parlare significa utilizzare un’idea
132
L’amico congelato
condivisa per esprimere e capire qualcosa e non
credere sia facile arrivare alla stessa idea.”
“Con le idee astratte non sarà facile, ma il
nome degli oggetti non dev’essere così difficile da
registrare...”
“In alcuni casi sì. Per esempio, chiedi: come
si dice coltello, utilizzando il dito per indicarlo, ed
è probabile che non ti capiscano bene. Qualcuno
guarderà il tuo dito indice, e ti dirà indice, altri
forse capiranno che ti riferisci al metallo, altri
allo strumento, altri penseranno affilato o, forse,
pericoloso.”
“Oppure non ti diranno niente.”
“Succede anche questo,” ride Andoni.
“Il modo di essere degli indigeni, sicuramente,
assomiglia a quello del cinema slavo: il loro silenzio
è più espressivo delle loro parole.”
“Tornerai in Amazzonia?”
“Sì, ma stavolta devo andarci da solo.
Durante il viaggio precedente mi sono ammalato e
sono rimasto con una tribù chiamati Nantu. Voglio
tornare per verificare alcune cose che ho imparato
da loro.”
133
“Cosa hai imparato da loro?”
“Ti ho detto imparato, ma non so se davvero
ho imparato qualcosa. Se qualcosa ho capito nei
miei lavori di etnologia è quanto sia difficile in molti
casi vedere quello che guardi.”
“Mettiti gli occhiali!” gli dico.
“Pur nutrendo grande curiosità, di solito
impariamo solo quello che già sappiamo.
Organizziamo il materiale nuovo in base ai nostri
schemi, senza prendere in considerazione quel
che non rientra nelle nostre conoscenze. Durante il
tempo che sono rimasto con i Nantu, invece, alcuni
dei miei schemi mentali sono saltati.”
“Cos’è successo?”
“Non so se è successo qualcosa. Con i
Nantu non stavo lavorando e non avevo stabilito
nessuna metodologia di relazione. Tra l’altro ero
malato e avevo le allucinazioni. Anche adesso,
quando lo ricordo, non sono sicuro che tutto sia
davvero accaduto. Per questo voglio tornare, per
chiarire queste cose.”
Andoni, come se avesse trovato un altro
dossier perso nei vecchi archivi della memoria,
134
L’amico congelato
improvvisamente torna al tema di Goio:
“Ma questo accadde ventisette anni fa,
Maribel, agli inizi abissali del mondo. In questi anni
è successo di tutto: piegamenti tettonici, eruzioni
vulcaniche, glaciazioni. È successo di tutto da
allora a oggi. Anche la materia di allora sarà ormai
fossilizzata...”
A mezzogiorno, mentre pranziamo con una
scatoletta di tonno e del pane e beviamo una birra,
Andoni mi spiega le differenze fra società fredde e
calde.
Le società primitive sono fredde, paragonate
alle nostre calde società moderne. Funzionano
come degli orologi, generano poco disordine,
poco cambiamento e poca entropia, e la società si
mantiene inalterata di generazione in generazione,
praticamente senza storia. Le nostre società
storiche, al contrario, si fondano sullo sfruttamento
estremo come quello del sistema capitalista o
della schiavitù e, come delle macchine a vapore,
attivano pressione e forze terribili, ingiustizie e
135
ribellioni. L’ordine genera il disordine e il disordine
un nuovo ordine con sempre maggior cambiamento
ed entropia.
Dopo pranzo Andoni mi porta tre libri, per
mostrarmi il popolo Shuar. Li osservo, se è possibile
osservare qualcuno in fotografia.
“Ma vanno ancora in giro nudi?” gli faccio
una semplice domanda.
“Con un pezzo di tela sotto la pancia, finché
i missionari non li copriranno con un lenzuolo...”
Non vivono a lungo, la maggior parte di loro
muoiono ancora bambini o comunque giovani.
“Muoiono come le mosche” dice Andoni.
“Che frase stupida, vero? Le mosche non muoiono
come le persone, nei villaggi shuar le mosche si
moltiplicano...”
“E non hai fotografie dei Nantu?”
“No.”
“Qualcuno ha scritto qualcosa su di loro?”
“Non credo.”
“E tu vuoi scrivere qualcosa?”
“Non so” mi risponde Andoni. “Tanto per
cominciare vorrei sapere se davvero esistono. E
136
L’amico congelato
allo stesso tempo verificare se anch’io esisto...”
È il mio ultimo giorno a Pupuna. Domani
andremo a Quito, assieme, perché Andoni deve
passare dall’università, poi io proseguirò sola, in
aereo da Quito a Managua, per tornare a casa, se
la si può chiamare casa.
Passata la mezzanotte, mi ritiro di nuovo
nella soffitta basca, ma non ho voglia di andare a
letto. Guardando le fotografie di Bilbao, mi rendo
conto che sono ordinate nello spazio, Bilbao è
proprio lì.
Sullo scaffale c’è un altro mucchio di vecchie
fotografie, con la data e il nome del luogo scritti
a mano sul retro dallo stesso Andoni, le ordino
cronologicamente mentre le guardo. Bizkaia
durante il secolo XX, immagini della nostra calda
storia entropica.
L’aspetto della gente all’inizio del XX
secolo è molto variegato. Assieme a scene di vita
quotidiana di Bilbao, ci sono volti ritratti nelle zone
delle miniere poco distanti dalla città e della zona di
Arratia.
I nostri antenati erano veramente freak.
137
Non ci sono dubbi che anche noi, con il
nostro stile, saremo probabilmente molto strani, un
po’ mostruosi, per i nostri discendenti.
Cos’è quella cosa che cammina senza
fermarsi mai? Era uno degli indovinelli di mia nonna
e noi bambini dovevamo rispondere: il tempo.
L’eternità, pertanto, è adesso la strada di questo
viandante.
Come in un gioco di pazienza, il tempo ci
lascia abbondanti e piccole vestigia del passato, in
modo che per noi sia possibile imbastire qualcosa
con questo materiale, senza riuscire a completare
niente ma con la speranza che questo mucchio di
frammenti alla fine acquisisca un senso.
Questo poco di senso è l’unica ricompensa
o consolazione che ci lascia il passare del tempo.
Prendo Tristes Tropiques di Claude LéviStrauss e mi si apre alla pagina 435:
Surtout, on s´interroge; quest-on venu faire
içi? Dans quel espoir? Á quelle fin?
138
L’amico congelato
Al mattino successivo, all’aeroporto di Quito
c’è una bolgia. Valigie, borse, gente.
“È un peccato che Goio sia ammalato” mi dice
Andoni. “Un’associazione scientifica americana ha
bisogno di un infermiere diplomato per un viaggio.”
“Un viaggio dove?”
“All’Antartide.”
“All’Antartide? E perché mai Goio dovrebbe
andare al Polo Sud?”
“Per fare un lungo viaggio.”
All’aeroporto di Quito c’è tanta gente, che
si abbraccia, che manda saluti, che piange mentre
saluta, che ha occhi e orecchie impregnati di saluti.
Noi, fedeli alla tradizione antisentimentale dei
baschi, riempiamo di silenzi più che di parole le
nostre conversazioni.
“Perché chiamano questi luoghi Tristi
Tropici?” gli chiedo poi sorridente.
“Lo inventò un francese, per indicare che
siamo lontani dalla vecchia Europa stanca e grigia”
anche lui ride, mentre sulla pista si accende la
turbina di un aereo.
Il rumore del motore diventa assordante e,
139
anche se ho già iniziato ad allontanarmi, sento le
sue parole:
“Ed è vero. Qui, in questo vecchio e stanco
Ecuador siamo lontani dalla vecchia, grigia e stanca
Europa...”
Così si congeda Andoni.
Sull’aereo c’è uno schermo con la cartina
dell’America e un’icona mobile segnala la nostra
posizione.
“Andiamo molto piano” dice il passeggero
seduto accanto a me. “Quest’aereo ci metterà tre
mesi per andare da Quito a Managua!”
Arrivata a Managua, entro in casa senza
bussare. So che non è buona educazione entrare
in una casa senza bussare e, anche se è la tua, è
sempre meglio farlo e utilizzare la chiave solo dopo
aver verificato che in casa non ci sia nessuno. Entro
e Armando ed io rimaniamo a guardarci, Armando
è lì, la tenerezza della farina fine, mentre prepara il
pane con il suo grembiule bianco, in questa attività
di panificazione che a quanto pare è più importante
140
L’amico congelato
della nostra guerra, e qui ci sono io e il mio bisogno
di tornare a casa, con la borsa sulla spalla e la
chiave in mano.
Ma Armando è nervoso, ha iniziato a
stringere e stropicciare il grembiule nello stesso
istante in cui una ragazza nuda passa dalla camera
al bagno.
“Non so come spiegartelo” dice.
Armando, che ha spiegazioni, interpretazioni
e metafore per tutto, adesso non sa spiegare questa
situazione. È la bella vicina india, quella che in
cortile stendeva lenzuola bianche che sembravano
onde.
“Non devi spiegare niente, non c’è niente da
interpretare, è tutto abbastanza chiaro...”
Mi infilo nella stanza, raccolgo le scarpe e gli
abiti della ragazza buttati a terra e li appoggio sul
tavolo della cucina. Poi tolgo le lenzuola dal letto e
ne faccio un mucchio che pure lascio sul tavolo.
“Che lavi lei le lenzuola!” dico prima di
rifugiarmi in camera.
Una volta dentro mi sento ridicola come
una caricatura, come un satellite artificiale, come
141
un vecchio straccio, come una cartolina turistica. Il
libro è esattamente come l’avevo lasciato, aperto
all’ingiù, sembra il tetto di un vecchio casolare
basco. Lo prendo, lo sfoglio e, ovviamente, è ancora
aperto alla frase le néant est structure constitutive
de l´existant.
Sembra che la ragazza non sia una grande
lettrice.
Guardo la parete e leggo una nuova frase,
scritta con l’abituale calligrafia di Josu:
La nostra patria è il tempo
Cancellerei patria e scriverei condanna.
La nostra condanna. Sarebbe patria se la morte
non giungesse con la puntualità di un plotone
d’esecuzione.
Cerco un pennarello nero, ma alla fine non
cancello niente.
Scrivo accanto:
“Se fossi un pianista suonerei nell’armadio.”
J.D. Salinger
142
L’amico congelato
Mi aspettano le lettere e i pacchetti che sono
arrivati mentre io ero fuori, alcune le dovrò leggere,
altre dovrò recapitarle.
Notizie che arrivano dal nostro lontano e
piccolo Paese senza passare dalle dogane, con la
sorpresa e la tenerezza della clandestinità. Però
sempre tardi, con il francobollo del passato, come
un’immagine in differita di giorni ormai lontani.
Nel giornale, per esempio, la sezione del
tempo si chiama “Oggi”:
Per oggi sono previste nubi sulla costa
dalle prime ore del mattino e nebbia bassa nelle
valli dell’interno e nelle zone montuose. Piogge
intermittenti di scarsa entità, soprattutto nell’area
settentrionale e in montagna. Con il passare delle
ore, soprattutto nel pomeriggio, possibili schiarite e
nubi sparse. Nella maggior parte del territorio del
Paese Basco le temperature saranno in aumento.
Verso sera, rischio di precipitazioni a carattere
temporalesco, soprattutto nella zona pirenaica.
Oggi, questo “Oggi” è lontano e perso nel
tempo. E domani è stato molto prima dell’altro ieri.
143
Per domani si prevede una situazione
anticiclonica. Durante le prime ore del mattino
nebbia e foschie ma, a partire da mezzogiorno, ci
saranno ampie schiarite, nubi alte e sole su tutto il
territorio. In serata, nuvolosità in forte aumento.
Le notizie, le lettere e le fotografie arrivano
da un altro mondo e da un’altra epoca. Forse da
quello che è il mondo reale e i giorni reali, perché il
nostro mondo e il nostro oggi sono piuttosto irreali
e poco credibili.
Se accettiamo il confronto delle date, tutto
questo sta succedendo nel futuro. La lettera di mio
fratello minore, per esempio, porta la data di due
mesi fa:
Ciao sister,
mi hanno dato il diploma di padre, per questo
ti scrivo in ritardo. Tre settimane fa abbiamo avuto
una bellissima bambina. Dopo averti detto che è
bella, non mi crederai se ti dico che assomiglia a
me, ma è quello che sostengono tutti. È buona e
144
L’amico congelato
dorme molto e in questo non so se assomiglia a me
o alla madre, perché in questo siamo uguali. Non
mi sono ancora abituato al nuovo titolo e nemmeno
a uscire per strada con il passeggino. Ma pare che
si possa imparare di tutto.
Julen
Poi l’inconfondibile calligrafia di mia madre,
quelle lettere scritte e riscritte nello stile Scuola
Nazionale Spagnola del dopoguerra.
Cara figlia,
da tempo non ho tue notizie; l’ultima, una
bella cartolina che ho ricevuto un anno fa. Speriamo
che tu stia bene, ed è quello che noi ti auguriamo.
Noi tiriamo avanti come sempre. Tuo padre
è andato in pensione. Abbiamo passeggiato tutta
l’estate. Poi è arrivata Elorri, la figlia di Julian
e Idoia, una bambina bellissima, è nata il sette
settembre e stanno tutti bene. Anche Aitor e Ima
sono molto impegnati con i figli e non hanno tempo
per nient’altro. Xabier ha iniziato a fare i primi
145
passi, fra poco compirà un anno ed è molto vivace.
Quando vengono tutti a casa, ho il mio bel daffare.
Un’altra cosa: ti dicevo nell’ultima lettera
che avevamo iniziato a vedere qualche spiraglio di
luce nel cielo, ma è tornata la nebbia e dovremo
aspettare che sorga il sole. Speriamo che accada
presto.
Facci sapere se hai bisogno di qualcosa,
non so cosa mandarti perché non mi chiedi mai
niente. Vedrai che belle le foto dei bambini fatte
durante le feste. Bene, tesoro, abbi cura di te. Un
bacio grandissimo,
mamma e papà
Mentre leggo mi sembra di sentirla e di
vederla. Ma ricordare non è sentire, quando si
ricorda, tutto succede al passato.
Di nuovo il giornale, la bbk e i titoli a tasso
fisso. E non capisco cosa sia la bbk:
In base all’articolo 29-2 del Testo Unificato
della Legge Generale Finanziaria, con Decreto
Reale 88/1091 del 23 settembre, e conforme
146
L’amico congelato
alla Legge E.D. del 24 gennaio del 1928 e
all’Ordinanza del 8 giugno del 1968, si rende
pubblico e si comunica ai clienti titolari di Titoli di
Stato che, nel caso in cui negli ultimi 20 anni non
siano stati registrati movimenti, in conformità con la
legislazione vigente, i titoli decadono in presunzione
di abbandono e pertanto il loro importo passa ad
essere proprietà dello Stato...
La ragazza se n’è andata, ma Josu non
viene in camera. Nel suo ufficio clandestino è
ricominciato il ticchettio della macchina da scrivere
tip tip tap tip top.
Ormai è notte e lui è ancora lì, Josu,
Armando o come vogliamo chiamarlo, segretario
volontario della repubblica delle sue intenzioni,
viandante solitario del mondo dei suoi sogni. Nella
macchina da scrivere il foglio bianco sembra un
campo e lui, tac tac a piedi, come chi cammina di
fretta, è sempre più lontano.
Mi sdraio sul letto e leggo di nuovo la lettera
di mia madre. Poi prendo Les dissolutions de la
mémoire, ma lo trovo insopportabile e lo appoggio
147
ancora una volta a mo’ di tettuccio sul viso.
Mi tornano alla mente il pane e il riso con
uova dei nostri primi giorni a Managua. Josu
andava in cucina a togliere il pane dal forno e tun
tun tun tornava velocemente a letto. Venti minuti
più tardi, io lasciavo il riso con l’acqua sul fuoco e
tun tun tun tornavo a letto. Dovevamo controllare
l’orologio, perché il riso cuoce in quindici minuti, e
allora di corsa in cucina a spegnere il fuoco e tun
tun tun svelti di nuovo a letto. Poi ci alzavamo tutti
e due per friggere le uova, ne mettevamo uno per
uno sopra il riso bianco nel piatto, spezzavamo il
pane che dentro fumava ancora e, nudi ed eccitati
mangiavamo il riso con l’uovo, con il pane e una
birra.
E, se la memoria non mi inganna, finché
durarono quei pranzi-cena e il lavare i piatti
assieme il più velocemente possibile per tornare
tun tun tun a letto, eravamo noi gli unici abitanti
del nostro continente, anche se ogni tanto il vento
proveniente dai vulcani, dopo aver accarezzato la
superficie dei laghi, ci portava notizie e voci strane.
E ho l’impressione che, all’epoca, quell’animale
148
L’amico congelato
spaventato e schivo che chiamano felicità, si
aggirasse da queste parti, nascosto tra lenzuola e
pentole, mimetizzato tra piatti e libri.
Quei giorni ci riempirono di vita e di memoria,
e di una bellezza tale da sembrarmi irreale.
Presumo che la felicità sia leggera. La
tristezza, invece, è molto pesante, è complice della
legge della gravità e ti fa sentire il carico del tuo
peso fino a sfinirti e obbligarti a sdraiarti.
Nel mettermi a letto, mi vedo nello specchio.
I seni sono due emisferi separati e caduti. E il
viso, sì, la mia faccia, sparirebbe semplicemente
passando uno straccio.
Non posso dormire e non faccio che rigirarmi
nel letto, nuda sotto le lenzuola, sola, mentre
ascolto il rumore della sintassi tip tip tap tip. Sono
girata sul fianco sinistro, con il peso del corpo sul
cuore, giro la schiena alla schiena assente del mio
compagno, lo sguardo perso nell’oscurità.
Penso che guardiamo tutto con occhi
annebbiati, che la lucidità e la determinazione
che dimostriamo con il nostro stile di vita siano
superficiali, e che ognuno di noi sia un mondo
149
chiuso, che viviamo tra parentesi, perché anche il
mio compagno di tutta la vita improvvisamente è
diventato per me quasi uno sconosciuto. E provo
una sensazione di soffocamento, mi sembra di
non essere in casa e di essere invece in un porto,
siamo dei naufraghi.
Quando viene a letto, anche lui mi dà la
schiena, come ho fatto io finora con il vuoto della
sua assenza.
Al mattino mi alzo presto e decido di andare
dalla parrucchiera. Tornerò alle sofisticazioni e
ai capricci femminili abbandonati da tempo, e
così anch’io mi reco al salone di bellezza dove si
siedono le signore ricche ed eleganti di Managua.
Te l’assicuro, è fantastico.
Come il teatro tragico lo era per i greci
dell’Antichità, come attualmente lo è lo stadio per
la maggioranza degli uomini, il parrucchiere per
signore è il luogo della catarsi. Qui la rabbia, i
desideri, i capricci hanno un eco, perché ogni donna
troverà l’eco delle sue parole in quelle di un’altra,
150
L’amico congelato
fantastico, fantastico. Quando vedo le forbici e il
pettine davanti agli occhi, li chiudo e le ciocche mi
cadono zac zac sul collo e sul petto.
“Ultima notizia!” dice una con la testa sotto
il casco. “Sai che Jaqueline mette le corna a suo
marito?”
“E il marito lo sa?” dice quella del casco a
fianco.
“Lo sa tutta Managua ma, sai com’è, quando
c’è un colpo di stato, il presidente è l’ultimo a venirlo
a sapere...”
“Chi è il golpista?”
Zac zac zac. Un uomo dalle grandi risorse,
e inizieranno a ridere all’aggiungere interiori. E
continueranno a parlare degli eleganti tappeti che
vendono nei negozi di Nonsodove, della vacanza
in crociera e delle vergognose pretese, rispetto alle
condizioni di lavoro, della nuova cameriera.
“Una settimana fa sono entrata nella sua
stanza e l’ho trovata che piangeva. Mi ha detto che
non aveva nessun problema, che piangeva per la
felicità.”
Per quanto riguarda le due parti della
151
terapia, alla ginnastica segue lo psicodramma. Le
vaccinazioni che bisogna fare ai cagnolini. I corsi
estivi che hanno fatto i loro figli a New York-New
York, la Civiltà, tesoro! La Civiltà!
“Per fortuna il bambino è biondo e ha la pelle
bianca ma io, comunque, farei a tutti una prova
del sangue, perché in quella famiglia sono quasi
tutti indigeni e neri, e oggigiorno non ti puoi fidare
nemmeno delle cliniche.”
“Per lo meno ha dovuto lasciare la
passerella” dice una davanti al manifesto della
ormai ex modella Isabella Rossellini, “i ritocchi che
dovevano fare con il computer alle sue foto credo
equivalessero a tre o quattro interventi di chirurgia
estetica...”
“Por questo adesso dice” continua un’altra,
eh, eh, eh, “che l’imperfezione rende più bella una
donna perché i piccoli difetti la rendono unica.”
“E che le cose più interessanti in una donna
sono l’umore e la fantasia. Credo che anche questo
lo dica per consolare le bruttine.”
Poi si dilungheranno su una fantastica crema
per il collo e soprattutto per rassodare i glutei.
152
L’amico congelato
“Cambiando argomento: hai incontrato
quella donna, come si chiama, Marijose, l’hai vista
con la gonna rossa e quelle orribili scarpe verdi?”
Ipocrite e ciniche, ma la cosa più difficile da
imitare delle donne della borghesia di Managua
è quell’espressione di schifo e freddezza che
assumono quando guardano dall’alto in basso la
gente normale.
Arrivata a casa, prima di entrare busso,
non si sa mai, e mi appare Josu con una faccia da
autoritratto.
“Como ti senti?” dice.
Gli rispondo come mi risponderebbe lui, per
analogia.
“Con i capelli appena sistemati ma con
qualche ematoma affettivo...”
“Cosa ne pensi di quello che è successo
ieri?”
“Ieri? Se parli dell’imprevisto, credo che
dovresti farlo in modo autocritico.”
“E del nostro rapporto?”
153
“Siamo soli” dico.
“In che senso soli?”
“Prima pensavo che, anche quando eravamo
soli, eravamo insieme, adesso mi sono resa conto
che, quando siamo soli, siamo soli e che anche
quando siamo assieme siamo soli.”
Soprattutto questo: che quando siamo
insieme siamo praticamente soli.
“Mi sono resa conto che siamo due isole,
due lingue...” continuo.
L’antonimo dell’amore non è l’odio, ma
l’abbandono. “Autodeterminazione!” dico.
A Josu non piace per niente il mio modo di
parlare. Ha iniziato a muovere la mano e, preso dal
nervosismo, ha fatto la lettera b dell’alfabeto muto.
Sicuramente quello che meno gli piace è
che sia io a fare giochi di parole, anche se poi lui li
usa come vuole, quando gli interessa e con totale
impunità. Ha lasciato la mano in aria con la lettera
b.
Rimane in silenzio come una gru senza
carico.
“Come va il romanzo?” gli chiedo per
154
L’amico congelato
dimostrargli che intendo cambiare argomento,
senza rancore.
“Voglio scrivere un libro che trasmetta
l’impressione della realtà al lettore che, alzando
la testa dal libro e guardando la realtà, abbia
l’impressione di star leggendo un libro...”
Comincia a dare spiegazioni, proporre
schemi, tentativi.
“Allora: tesi, antitesi e sintassi” gli dico
quando smette di muovere le labbra.
“Tesi e antitesi sono quasi la stessa cosa.
La cosa più difficile è la sintassi...” ribatte lui,
come farebbe un ragno appeso alla sua ragnatela
grammaticale.
155
6
CERVI VOLANTI
Goio sapeva quali sarebbero state le prime
parole che avrebbe sentito nell’arrivare al casolare
dove vivevano i suoi nonni:
“Prima di entrare, vediamo quanto sei
cresciuto!” diceva sempre il nonno.
Dietro il portone d’ingresso del casolare
c’erano i segni della sua crescita, quelli che il
nonno, ogni volta che Goio andava a trovarli, faceva
con un coltello dopo averlo fatto appoggiare alla
porta. Com’è cresciuto il nostro ragazzo, diceva
guardando gli ultimi due segni.
Ma Goio arrivò un sabato a mezzogiorno e il
nonno era andato a raccogliere il fieno nel campo
che avevano a Luku e la nonna era sola in casa.
“Vieni qui, il mio pel di carota!”
Nella penombra della cucina, la nonna stava
preparando della sangria: nella brocca con l’acqua
156
L’amico congelato
e il vino si vedevano nuotare i pezzi di arancia e di
ghiaccio.
“Aspetta un attimo e gliela porti tu,” gli disse
e iniziò a mischiare lo zucchero.
Quando Goio arrivò a Luku, tutti si
rallegrarono.
“Ecco che arriva il nostro marinaio” disse
una vicina, Joakina.
Il nonno, invece del solito basco, aveva in
testa un fazzoletto con quattro nodi agli angoli.
“Com’è cresciuto il nostro ragazzo!” disse il nonno,
senza scendere dal mucchio di fieno sul carretto,
nel momento di riposo che si presero per salutare il
nuovo arrivato e bere la sangria.
Oltre al nonno, c’erano altre cinque persone,
tutti dello stesso quartiere, due di loro donne che,
finito con il loro lavoro, davano una mano al nonno.
C’era un sole impietoso, erano tutti sudati e finirono
in un batter d’occhio le quattro bottiglie di sangria
che Goio aveva portato.
Per Goio la falce era uno strumento
impressionante: la precisione del movimento,
l’eleganza delle file formate dall’erba tagliata,
157
la bellezza nella pausa del segatore e il suono
della pietra sulla lama prima di iniziare un nuovo
taglio. L’odore agrodolce dell’erba appena falciata
si imponeva su tutti gli altri, per poi espandersi e
permanere a lungo nell’aria. Adesso era il momento
di raccogliere il fieno e stavano lavorando tutti nei
campi più in alto: giravano l’erba non ancora secca,
ammucchiavano il resto e, con i buoi fermi sotto il
giogo, lo caricavano sui carretti. Lo portavano fino
al casolare cercando di stipare il più possibile il
pagliaio.
Escludevano Goio, perché non era un
contadino, o forse perché era un ragazzo di mare,
o perché era ancora troppo giovane, fatto sta che
non gli lasciavano mai fare nessun lavoro della
fattoria. Anche quel giorno rimase per un po’ in
disparte a guardare, poi raccolse le bottiglie vuote
e si avviò verso il limite del prato, dove iniziava la
pineta, in cerca d’ombra. All’improvviso, dalle felci
si alzò un corvo che si levò in volo al di sopra dei
pini. Goio scavalcò la lunga recinzione e, benché
attorno ci fossero felci e rovi, gli aghi dei pini gli
offrirono una specie di tappeto. Si sedette, con i
158
L’amico congelato
piedi appoggiati alla staccionata.
Goio rimase lì, a guardare i carretti, i buoi
con la testa sotto la pelle di pecora, il nonno con
il fazzoletto in testa, le vicine al lavoro con forche
e rastrelli. Si addormentò e sognò che gli avevano
portato un sacco con dentro il corpo fatto a pezzi
di una persona o di un animale, e lui non sapeva
cosa farne ma non poteva abbandonarlo, perché
pensava che un cane o un animale selvatico
l’avrebbero portato via. Quindi gli portavano un
altro sacco ma lui non aveva il coraggio di aprirlo,
temendo di trovarci il corpo di qualcuno, e poi un
altro ancora.
Si svegliò completamente madido di sudore.
Rimase lì seduto, si prese la testa fra le mani e
guardò verso il prato, dove vide il carretto stracarico
scendere lentamente dondolando lungo il pendio, i
buoi guidati dal nonno che al loro fianco li incitava
gridando e alzando il bastone.
Anche lui doveva tornare a casa. Rialzandosi
si impigliò nella recinzione e, guardando a terra, tra
159
le pietre scorse una pallottola. Non ne aveva mai
vista una vera, ma era uguale a quelle dei fumetti
e dei film. La osservò a lungo, la pulì per bene e se
la mise in tasca.
Cominciò a scendere e oltre la valle vide
le montagne. Il nonno lo correggeva sempre:
non sono montagne ma rupi, perché sono solo di
pietra, non c’è né terra né erba, solo roccia e dirupi.
Poteva citare i nomi di tutte le cime uno ad uno
e costruire così un paesaggio di nomi: Haitzurdin,
Elgoien, Ahuntzeta. In mezzo c’era Eibar e si
vedeva bene il fumo delle fabbriche. Nella verde
valle che si apriva a partire dalle falde delle rupi fin
lì, si potevano scorgere altri due o tre borghi e le tre
linee che attraversavano tutta la valle da un abitato
all’altro: il fiume, la strada principale e la ferrovia.
La più bella era la ferrovia e, in quel
momento, vide serpeggiare in lontananza il treno
sulle rotaie, poi, siccome la valle finiva a ovest, alle
pendici delle rupi, lo vide addentrarsi fischiando tra
le montagne...
“Quella è una delle gallerie ferroviarie più
lunghe del mondo...” aveva sentito dire una volta.
160
L’amico congelato
Lungo la strada da Luku al casolare c’era
uno stagno. Di giorno, ma soprattutto al tramonto,
quella zona paludosa era invasa dal gracidare
delle rane che propagavano per tutta la valle l’eco
verdastro del loro canto, cra cra cra, con il quale
rivendicavano la loro esistenza.
Quando arrivò al casolare, il carretto era
appoggiato alla parete e il nonno stava ancora
buttando il fieno nel pagliaio con la forca.
Dopo cena, Goio prese la pallottola che
teneva in tasca e la mostrò al nonno.
“Dove l’hai trovata, figliolo? Non è esplosa.”
Nella parte posteriore c’era ancora la polvere
da sparo, quella che quando si preme il grilletto del
fucile, esplode e provoca la fuoriuscita dalla canna
del piombo che uccide la gente.
Poi iniziò a parlare della guerra:
“All’inizio vedevamo il fuoco lontano, in cima
ai monti ad est, e pensavamo che la guerra fosse
distante. Il fronte è là, dicevamo, come se avesse
dovuto rimanerci per sempre, intanto i soldati
andavano da una parte all’altra ma soprattutto
verso est, mentre si vedeva molta gente passare in
161
direzione contraria. Tutti i giorni sentivamo rumore
di spari e di cannoni, vedevamo anche passare gli
aerei che seminavano esplosioni e fumo e, dove
durante il giorno si vedeva fumo, di notte appariva
il fuoco. A volte il rosso del tramonto si poteva
osservare ad est ma anche ad ovest, e così fino al
mattino...”
Il nonno, dopo aver tirato una boccata di
sigaro, indicò la pallottola che era rimasta sul
tavolo:
“L’hai trovata vicino alla staccionata della
pineta? Tutta quella zona è piena di trincee, dall’alto
di Barranku fin giù in fondo. Un giorno i soldati
cominciarono a passare in direzione contraria,
portavano decine di feriti e un repubblicano venne
da noi ad avvisarci che il fronte si avvicinava e
che dovevamo scappare, perché la nostra casa
sarebbe stata presa come base di guerra e non
avevamo altra scelta che lasciare tutto...
“E ve ne andaste tutti?”, chiese Goio.
Alla nonna non piaceva che si parlasse della
guerra e iniziò a brontolare.
“Nel nostro quartiere” proseguì il nonno, “non
162
L’amico congelato
rimase nessuno, eccetto la famiglia Zaldegipe, che
era carlista, e Sediatriste...”
“Perché era invalido!” disse Goio.
“Sì, certo! Allora non era paralitico, stava
benissimo ed era anche in carne. Quando
arrivarono si nascose nel pagliaio e lo trovarono nel
fieno qualche giorno dopo, paralizzato dalla paura.
Non lo arrestarono nemmeno, gli diedero qualche
calcio, risero di lui e lo lasciarono in pace. Ma sono
quarant’anni che non parla e che non si può alzare
da quella sedia...”
A quel punto la nonna prese la parola:
“Caricammo sul carretto quello che
riuscimmo a prendere e ce ne andammo, che altro
potevamo fare?”
Ma le sue parole equivalevano all’ordine
di mettere fine a quella conversazione e il nonno,
dicendo che aveva qualcosa da fare nella stalla,
uscì, barcollando e inciampando, a causa della
sangria ma soprattutto del troppo vino.
La nonna trattava Goio come se fosse
ancora un bambino e, per allontanarlo dal tema
della guerra, gli proponeva sempre gli stessi
163
indovinelli:
“Vediamo, ragazzo, Indovina indovinello...
sta sempre in piedi anche senza gambe.”
“Dra, la bottiglia!” disse Goio, perché
bisognava sempre dire Dra prima di rispondere.
In quel momento si sentì suonare la
campana della chiesa. E Goio, in un angolo buio
della sua memoria, con un terzo occhio intravvide
una mucca morta nel cortile del casolare vuoto, alla
quale mancavano dei pezzi di carne...
“Indovina indovinello...” disse la nonna, “un
prete con un dente solo che chiama la gente a
messa.”
Goio non aveva molta voglia di quei giochi
infantili ma, anche senza pensarci, indovinava le
risposte:
“Dra, la campana!”
“Indovina indovinello... nell’acqua non mi
bagno e nel fuoco non mi brucio.”
Goio conosceva le risposte da molto tempo:
“Dra!”
Salito in camera da letto, lasciò aperta la
finestra per vedere le stelle e per non perdersi il
164
L’amico congelato
passaggio dei pipistrelli.
E con quel terzo occhio, sempre nell’angolo
buio della sua memoria, vide tornare il carretto che
la nonna utilizzava per andare a vendere il latte in
paese, e poi l’asino che ragliava davanti al casolare
vuoto, perché nessuno lo liberava dal carretto e
dalle briglie.
Il giorno dopo era domenica. Quando Goio
si svegliò e scese, il nonno era di nuovo nella stalla
a governare il bestiame. Si diceva proprio così:
governare. Buio, odore di letame, muggiti, suolo
scivoloso. Goio entrò piano piano e trovò il nonno
seduto su uno sgabello e con la testa appoggiata
alla zampa di una mucca. Il nonno mungeva con
una sola mano, schiacciava le quattro mammelle
con le cinque dita e il getto di latte, cadendo nel
secchio, produceva un rumore metallico mentre
riempiva di biancore e di schiuma il mattino.
Goio dovette andare alla messa delle undici
ma, alle cinque del pomeriggio, mentre tutti gli
adulti andarono al rosario di Mikaela di Olabe a
165
pregare e a cantare le litanie, lui rimase a casa. In
cucina erano appese delle strisce di carta ricoperte
di mosche appiccicate e morte. Anche la luce
della lampadina era affievolita dagli escrementi di
mosca.
Tuttavia ce n’erano molte che volavano,
ignare del fatto che fosse domenica e per niente
impaurite dalle strisce appese; rumorose, si
scontravano l’una contro l’altra per poi separarsi
immediatamente, una verso l’alto in una folle
spirale mentre l’altra continuava a girare nello
stesso punto, come se fosse vertiginosamente
attratta da una calamita. Non si riusciva a capire
la ragione di quel girare incessante e nemmeno
se la mosca che si posava sulle sue ginocchia lo
facesse per cercare cibo o per giocare; se poi si
rialzava in volo, lui non sapeva se fosse dovuto a
una legge matematica segreta o a una necessità
sconosciuta.
Era solo, entrò nella camera da letto dei
nonni e rimase a guardare la fotografia dello zio,
uguale a quella che avevano anche loro in casa,
scattata quando lo zio aveva diciannove anni. Per
166
L’amico congelato
Goio quello era suo padre, o meglio, era l’aspetto
che lui attribuiva a un padre sconosciuto. Tra l’altro
quella fotografia sembrava viva e agli occhi di
Goio, che incrociava lo sguardo di quell’immagine,
sembrava che quel giovane avrebbe iniziato a
muoversi dentro la cornice e a parlargli.
All’imbrunire salì sul noce vicino al casolare,
come faceva fin da piccolo. Rimase a lungo seduto
sul suo trono di noce, a quattro metri da terra,
comodamente collocato sul ramo come se fosse
in groppa a un cavallo, controllando il paesaggio e
il tempo, cercando di trovare la ragione nascosta
dell’ordine del mondo. Ma non riusciva a trovare
un senso: le cose sono molto strane di per sé, per
esempio i cervi volanti; prese in mano uno di quegli
scarafaggi con le corna e gli parve assolutamente
senza senso. Sentì dei cani abbaiare in lontananza,
il gracidare delle rane, il canto dei grilli e più tardi,
verso le dieci o le undici, sulle travi della tettoia
sicuramente si sarebbe posata una civetta e
avrebbe sentito il suo inquietante canto.
Il casolare dei nonni si chiamava Mugertza,
ma lì accanto, vicino al noce, c’era anche il casolare
167
Etxeberritxo. Cosi, quella domenica sera, dal noce
vicinissimo alla camera da letto di quel casolare,
quando si accese la luce, Goio vide davanti a
sé come Joakina, appena tornata dal rosario, si
toglieva il vestito e rimaneva nuda. Poté osservare,
dai piedi fino alla testa, il corpo robusto e bianco di
quella zitella, i capezzoli scuri sui seni pieni, proprio
come le statue degli scultori greci nei libri di scuola.
Per poco, Goio non cadde dall’albero per lo
spavento e gli occhi gli uscirono dalle orbite come
biglie che rotolano. Non osò muoversi, per paura
di fare rumore, perché Joakina si era messa a letto
senza chiudere la finestra. Così rimase sull’albero,
pieno di vergogna. Ormai era notte fonda e lui
era ancora lì, a guardare l’altro triste rosario che i
pipistrelli tessevano nell’aria.
Mentre Goio passava i suoi ultimi giorni di
vacanza a casa dei nonni, io ero a Bilbao. Vivevamo
nel quartiere di Santutxu e cercavo di andare al
cinema Metropolitan più che potevo. Erano tempi
bui ma vedevamo già in technicolor la giungla, gli
168
L’amico congelato
oceani e l’Arizona.
Spalancavamo gli occhi al vedere Sofia
Loren, Claudia Cardinale e le attrici dell’epoca.
Ma indossavamo ancora i pantaloni corti e non
potevamo entrare a tutte le proiezioni. Sul viso
avevo solo pochi sottili peli color sabbia ed ero
impaziente che mi crescesse la barba.
“Andoni, hai usato il mio rasoio!” diceva
mio padre, davanti allo specchio e con le guance
coperte di schiuma, quando si rendeva conto che
la lama del rasoio era senza filo.
In casa nostra regnava un ambiente triste.
Mio padre era venditore, mia madre lavorava in
negozio e io restavo a casa da solo. Avevo un
canarino, ogni tanto infilavo una foglia di lattuga
nella gabbia e poi rimanevo a guardare come
l’uccellino la beccava svogliatamente.
Il più vicino era il cinema Metropolitan. Le proiezioni
erano alle quattro, alle sette e alle dieci. Ma la
sessione era continua, così a volte entravo alle
quattro del pomeriggio e ci rimanevo fino quasi a
mezzanotte.
La sala cinematografica sembrava un magazzino,
169
c’era di tutto in quell’oscurità: disoccupati,
giovani coppie di innamorati, anziani pensionati,
adolescenti come noi e anche gente comune.
Nei momenti di tensione era quasi impossibile non
immedesimarsi:
“Non andare, Geronimo, è una trappola!”
E, quando sparavano, sentivamo il ffiiu ffiiu ffiiu
delle pallottole di piombo dietro le nostre orecchie.
L’ultimo venerdì di agosto nella bacheca
del Metropolitan apparve Brigitte Bardot, poster in
dimensioni naturali e il bikini più ridotto che si fosse
mai visto.
“In questo film si vede BB completamente nuda” mi
disse un amico del quartiere quel pomeriggio.
La chiamava così, Bibì. Lui aveva già visto il film ma
mi disse che l’avrebbe rivisto per farmi un favore.
Quel pomeriggio, che altrimenti sarebbe stato
noioso, mi raccontò anche la storia di Biancaneve
e di Pinocchio. Biancaneve aveva portato in
camera sua Pinocchio, ma inaspettatamente
scoprì che “quello” di Pinocchio era molto piccolo.
Ma Biancaneve ebbe subito un’idea brillante. I
sette nani erano rimasti ad origliare dietro la porta e
170
L’amico congelato
sentivano Biancaneve chiedere sospirando: Dimmi
una bugia, Pinocchio, Adesso una verità, Adesso
una bugia, Adesso una verità, Adesso una bugia,
Adesso una verità, Adesso una bugia...
Un sabato pomeriggio, con i nostri calzoni corti,
ci avvicinammo alla biglietteria del Metropolitan
camminando in punta di piedi per sembrare più
alti. Comprammo i biglietti, ma la maschera non
ci lasciò entrare. Inflessibile, ci indicò un cartello,
agitando la torcia che teneva inutilmente accesa:
Vietato l’ingresso ai minori di 18 anni
“Anche ieri avete cercato di entrare, e oggi
vi tolgo pure il biglietto” e ci lasciò senza biglietto e
senza soldi.
Rimanemmo a lungo a guardare il cartellone,
abbattuti. Si vedevano quattordici fotogrammi e,
con un po’ di fantasia, si poteva immaginare il resto.
Il mio amico era rimasto fuori a immaginarsi
gli altri fotogrammi anche il giorno prima. “Bugiardo”
gli dissi. “Una verità, una bugia, Una verità, una
bugia...
171
Invece la domenica sì, vedemmo un film
western. Si spensero le luci, si accese lo schermo
in bianco e nero. Prima proiettarono il NODO, il
notiziario settimanale del regime, Il mondo alla
portata di tutti gli spagnoli: il generale Francisco
Franco che inaugura bacini artificiali, il generale
Francisco Franco che, circondato da vescovi
e arcivescovi, entra nella cattedrale sotto il
baldacchino, il generale Francisco Franco con la
sua guardia mora alla sfilata della Vittoria...
E quel vecchio ci salutava dai luoghi più
svariati muovendo la mano parkinsoniana mentre
noi mangiavamo frutti secchi, gomme da masticare
e liquirizia comprati alla bancarella. Poi finalmente
iniziava il film a colori e noi eravamo lì, ad ammirare
dal finestrino della diligenza le pianure impolverate
dell’ovest americano.
Una volta andai in bagno e, tatuata con un
rossetto rosso, sulla parete lessi una scritta:
Rivoluzione o morte
172
L’amico congelato
Allora non sapevo ancora cosa significasse
la parola rivoluzione, e la parola morte aveva un
significato solo cinematografico.
“Cacchio! Una ragazza che sa scrivere
in basco è entrata nel bagno dei maschi”, dissi
quando tornai al mio posto.
“Cos’ha scritto?” mi chiese Pinocchio.
Shhh Shhh... iniziò la gente nell’oscurità.
“Non lo so”, gli risposi sottovoce.
E continuammo a guardare il film,
appassionati, perché il cinema era il nostro
paesaggio preferito e scoprivamo cos’erano la
vita e la morte grazie ai Tucson e ai Mojabe. Fu
al cinema che imparammo che gli uomini, quando
muoiono, fanno aagggh, così come i bambini,
quando nascono, piangono facendo wueee wueee.
Quando uscimmo, su un cartello lessi
Exit. Avevano appena ristrutturato il Metropolitan
e c’erano cartelli nuovi ovunque. Pensai che le
persone che volevano aver successo dovevano
uscire passando sotto quel cartello, e così ce ne
andammo orgogliosi e ottimisti passando sotto
l’insegna Exit.
173
Era domenica sera e stavamo risalendo la
strada per tornare a Santutxu quando vedemmo
quegli incredibili insetti, degli enormi scarafaggi
con le corna. Volavano insicuri e si posavano in
modo goffo.
“Sono cervi volanti!” disse Pinocchio.
“Utilizzano le corna come fanno i cervi: lottano
contro gli altri maschi per la femmina...”
Pinocchio studiava al liceo, a Bilbao. Io,
invece, avrei iniziato il giorno dopo a frequentare la
scuola di Kalaportu.
174
L’amico congelato
7
COMPAGNI DI TRIBÙ
Andoni ti racconterà una storia kiowa e la
tua risposta sarà sorprendente:
“E quindi abbiamo cambiato il finale.” Glielo
dirai così.
“Perché?”
Digli che il racconto non finiva con una
freccia conficcata nel cuore dell’ospite. “Per fortuna
ieri sera ti ho risposto in basco, altrimenti...”
Andoni, imitando la sobrietà di un capo
indiano dei film, ti dirà:
“Se sei un kiowa, capirai l’oscura chiarezza e
la chiara oscurità della storia che ti ho raccontato...”
“In ogni caso, credo che noi siamo come
tutti gli altri.”
“Come chi?”
Come qualunque altro, vorresti dirgli,
stranieri, nomadi in una terra di nessuno, muti.
175
“Come quell’ombra sconosciuta che vaga
senza rifugio.”
Ma questo succederà dopo. Tu arriverai
il pomeriggio del giorno prima a Pupuna e al tuo
arrivo si sentirà l’abbaiare dei cani.
La sua donna sveglierà Andoni:
“Esteban, Esteban, svegliati...” gli dirà,
molto agitata, in ginocchio sul letto.
“Cosa succede?”
“I cani stanno abbaiando!”
“Hai fatto un brutto sogno?”
“I cani abbaiano sempre più forte!”
E si sentiranno i latrati dei cani, freddi e
terrificanti, amplificati dall’oscurità.
Andoni si alzerà per avvicinarsi a tentoni
alla finestra, senza accendere la luce. Non vedrà
niente nella notte, eccetto i punti delle stelle, una
rupe azzurrognola e una montagna che si erge
implacabilmente, proprio lì.
Nessuno nei dintorni, solo l’abbaiare e
l’ululare dei cani.
176
L’amico congelato
Invece di tornare a letto, accenderà la
televisione, quasi senza rendersene conto,
automaticamente, come se fosse un’abitudine
ancestrale, ereditata in modo naturale dagli
antenati. E in tv, invece del biancore immutabile
delle pareti a calce e dei fogli di carta, troverà gente
famosa, un ambiente elegante e conversazioni
interessanti.
Alla televisione anche le domande sono
colorate e luminose.
“Cosa le piacerebbe fare?”
E apparirà un vecchio dai capelli bianchi
che parla e, in basso a sinistra sullo schermo, si
leggerà Jeremiah Hightower essayist e si sentirà:
“Ascoltare un bambino, non dirgli niente,
semplicemente ascoltarlo, rimanere ad ascoltarlo,
nient’altro.
Il tal Jeremiah Hightower saprà cosa intende
dire. Poi si leggerà Hans Clash folksinger e apparirà
un giovane dai lunghi capelli biondi:
“Cosa ti piacerebbe fare?”
“Girare libero per nove mesi in una delle
dieci città più popolate del mondo, vagabondare
177
per la città dall’alba fino all’alba del giorno dopo,
per essere testimone dell’aurora e del tramonto.”
Andoni guarderà l’orologio, le undici meno
dieci, poi il suo sguardo si soffermerà sul gatto. Il
gatto, manuale di sapienza e di silenzio, rimarrà
immobile sopra una vecchia scatola di cartone,
vigile con i suoi occhi scuri.
Spegnerà la televisione e tornerà a letto.
“Allora?” gli chiederà la ragazza.
“Niente, sono lontani, dormi.”
“Quando i cani non riescono a spaventare
gli sconosciuti abbaiando, iniziano a ululare...”
“Ma figurati!” dirà Andoni. “Ci sarà qualche
cagna in calore.”
Si riaddormenterà e dopo un po’, dopo
qualche momento di sonno e di sogni, la ragazza
lo sveglierà di nuovo:
“Esteban, Esteban, svegliati!” gli dirà
nervosa.
Stavolta sì, bussano, e saranno dei colpi
secchi come quelli del martello del giudice.
Andoni si avvicinerà in silenzio alla finestra
e vedrai la sua ombra nella cornice dell’infisso.
178
L’amico congelato
“C’è posto per passare la notte...” dirai in
basco.
“Lo faremo!” risponderà Andoni.
E, nell’aprire la porta, ti riconoscerà subito,
quel ragazzo magro di un tempo, con i capelli rossi
e la pelle bianchissima.
“Vieni, entra...” ti dirà sorridendo.
Tu avanzerai qualche passo e rimarrai di
nuovo a guardarlo, lo stesso Andoni che indossava
un maglione come quelli di Unamuno3.
“Andoni, vero?”
Lo chiamerai così, Andoni, il vecchio nome
di battesimo, di casa, di scuola e dei documenti
ufficiali persi da tempo.
“Adesso sono Esteban, ma comunque...” ti
dirà.
A quel punto, dalla porta della camera, si
3
Miguel de Unamuno (1864-1936), poeta, filosofo,
drammaturgo e politico spagnolo, originario di Bilbao,
appartenente al movimento letterario chiamato Generazione del
‘98, eletto al Congresso dei Deputati dal 1931 al 1933. Originale
nell’abbigliamento, si è detto di lui che vestiva come un “sacerdote
protestante” perché non usava cravatta ed era solito indossare un
maglione blu di lana chiuso che lasciava intravvedere solo il colletto
della camicia. [N.d.T.].
179
affaccerà curiosa la sua compagna.
“Dulita, la mia compagna.”
E, rivolgendosi alla ragazza in spagnolo, le
dirà:
“Goio, un amico dell’infanzia.”
La ragazza rimarrà a bocca aperta e
chiuderà con entrambe le mani la vestaglia bianca.
“Il mio nome ufficiale è Esteban” ti ripeterà
Andoni in basco.
Rimarrete per un attimo tutti e tre lì, senza
riuscire a trovare le parole.
“Siccome bisognava fare un giretto da
queste parti...” dirai.
Il diminutivo farà uno strano effetto, troppo
tenero, imbarazzato.
“Breve non so, ma piacevole sicuramente!”
ti dirà Andoni. “Vieni nella mia stanza segreta.”
Ti aprirà la porta della soffitta segreta e tu
entrerai dietro di lui, con la valigia sulla spalla.
Appena entrato, noterai le immagini alle
pareti, parecchi quadri e fotografie, soprattutto della
zona di Bilbao, uno scudo con le sette provincie
basche, Zazpiak Bat, poi guarderai la parete
180
L’amico congelato
bianca.
“In questa stanza tengo tutte le cose in
basco...” ti dirà Andoni.
Guarderai lo scudo e di nuovo lo sguardo
tornerà sulla parete dei quadri, fino a fermarsi sulla
cartina geografica appesa a un’altra parete.
“Dove siamo?” chiederai indicando la cartina
dell’Ecuador.
Andoni si avvicinerà alla cartina e dirà:
“Nell’antichità questa regione aveva un
nome bellissimo, si chiamava Regno di Quito. Poi i
francesi tracciarono una linea nella metà esatta del
mondo e la regione prese il nome di quella linea,
Ecuador...”
Dopo appoggerà la punta del dito indice
sulla cartina:
“Siamo esattamente qui, potremmo dire che
ci troviamo sull’ombelico del mondo...”
Rimarrai a guardare la cartina, a leggere
nomi strani: Ambato, Quito, Pupuna, Guayaquil...
“Un caffè?” ti chiederà Andoni.
“Sì.”
Dopo poco tornerà dalla cucina con due
181
tazze di caffè caldo.
“Non ti aspettavo oggi” ti dirà.
Si ricorderà del racconto kiowa e vorrà
raccontartelo.
“Amaro?” ti chiederà.
“No, va bene.”
“Ti ricordi quando eravamo bambini?”
“A volte” dirai.
“Io ricordo quel tuo amore impossibile.”
“Impossibile?”
Hai perso molta della luminosità del
technicolor della memoria.
“A volte penso che i momenti migliori della
vita siano ormai persi per sempre” dirà Andoni.
Berrà un sorso di caffè e continuerà a
parlare:
“Ma la vita non era forse abbastanza strana
e complicata anche prima?”
Non gli risponderai e Andoni cambierà
argomento senza far mostra della sua buona
memoria.
“Quando te ne sei andato dal Paese Basco?”
“Molto tempo fa.”
182
L’amico congelato
Si farà il silenzio attorno al gradevole aroma
di caffè, non sei un gran parlatore, nemmeno
Andoni lo è, così rimarrete a lungo in silenzio,
come se steste ascoltando quella canzone di Bob
Dylan, I tempi sono molto cambiati, i tempi sono
molto cambiati, nella complicità silenziosa della
vicinanza, I tempi sono molto cambiati.
I tempi a volte cambiano completamente.
“Allora?” ti dirà all’improvviso. “Davvero vuoi
andare?”
“Sono venuto qui con l’intenzione di andarci.”
“Lo sai, vero, che l’Antartide è lontana?”
“Lo imparammo a scuola dove si trova,
allora la chiamavamo Antartida”.
“Le cose cambiano...” dirà Andoni. “Le cose
sono completamente cambiate, non credi?”
“Certo che sono cambiate!” gli risponderai.
Andrà a prendere una busta, te la darà in
mano e, mentre tu la starai aprendo, ti racconterà:
“Uno degli scienziati della spedizione è
malato e hanno bisogno di un infermiere che sappia
l’inglese e che lo assista.”
Andoni ti chiederà:
183
“Leggi Scientific American?”
“No” gli risponderai.
“Ecco, a volte scrive su quella rivista, per
parlare dell’acqua, si chiama Edwin Walsh, e pare
che stia morendo...”
Nel frattempo, dopo averlo estratto dalla
busta, terrai in mano un documento d’identità: un
passaporto color vino, nuovo.
“È ben fatto, vero?”
“Sembra di sì.”
Ne sfoglierai le pagine come si fa in libreria
con un libro che non si ha intenzione di acquistare.
“Che cosa strana!” dirai.
“Cos’è che è strano?”
“Un documento d’identità, il passaporto,
tutto questo...”
“Se avessimo una vera identità non avremmo
bisogno di tanti documenti d’identità, vero?” dirà
Andoni. “Volevi dire questo, no?”
“Che malattia ha?”
Leggerai il nome:
Javier Salgado Verdecia
184
L’amico congelato
“Credo sia in fin di vita. Tumore al fegato,
con metastasi, al quarto stadio...”
“Quando partiamo?”
“Salperanno fra una settimana e il viaggio
durerà circa nove mesi.”
“Fra una settimana?” chiederai.
A notte fonda Andoni ti lascerà solo in
camera, con la valigia aperta sopra il letto.
“Spegni la luce e sogni d’oro” e ti sorriderà
mentre fffiiiiu soffia sulla lampadina.
Quella prima notte non ti racconterà la storia
kiowa, come ha fatto con tutti i baschi che sono
passati da casa sua.
Sicuramente penserà che consideri i
racconti una cosa da bambini, come infantile e
assurdo è soffiare fffiiiiu sulla lampadina in nome di
uno sbiadito ricordo che lo ha portato a farlo, e non
oserà tornare nella tua stanza per dirti che ha una
storia da raccontarti...
185
Il giorno dopo sarà la vigilia del ventiquattro
giugno, San Giovanni. Per i quechua San Giovanni
e Inti Raimy sono la stessa cosa, e andrai con
Andoni alla festa in maschera. La gente uscirà per
strada con costumi incredibili.
“Vuoi bere?”
“Sì” dirai.
Non ti piace il sapore dell’alcool, tuttavia
berrai molto perché bisogna farlo per ubriacarsi,
come si deve passare dalla dogana per attraversare
una frontiera.
“Vedi quella là, quella testa di demone, è
l’immagine di Ayahuma” ti farà notare Andoni.
“Ayahuma? E chi è Ayahuma?”
Camminare per strada con le maschere,
entrare e uscire dai bar e dalle case, in questo
modo conoscerai da dentro le loro abitazioni, le
lampadine coperte di escrementi di mosca, i mobili
di legno sgangherati, la polvere e il fango.
Le bottiglie perderanno velocemente peso
e colore e rimarranno sul bordo dei fossi, una ad
una, inclinate e dimenticate.
186
L’amico congelato
Ormai mattino, per finire in bellezza la notte
di festa, uscirete dalla città in gruppo e, inoltrandovi
nella montagna, raggiungerete un freddo torrente.
“Adesso faremo il bagno nel fiume”, ti
informerà Andoni mentre camminerete con passo
da ubriachi appoggiandovi l’uno all’altro.
Rispettando il rituale della notte di San
Giovanni, all’alba gli uomini faranno il bagno e così
riceveranno un’energia speciale.
“L’umanità è veramente strana!” dirai
sorridendo e le parole in basco si perderanno
nell’eco incomprensibile del quechua.
Sul cammino che porta al torrente, le rocce
si faranno sempre più grandi e i precipizi pericolosi,
stretti passaggi sopra gole profonde tra pareti
altissime. Procederete tutti barcollando, con una
certa difficoltà a seguire il sentiero.
Raggiunto il torrente, tutti ubriachi, vi
spoglierete in fretta.
“Ascoltiamo la voce di Taita Diosito” dirà un
quechua in spagnolo.
E sentirete la voce di Taita Diosito:
“Aagggaaaalllllbbbbbb”...
187
“Senti la voce di Taita Diosito?” ti chiederà
Andoni.
“E tu, cosa dici tu?” dirai in basco al torrente.
Sentirai qualcosa.
“Sì, sì, ho capito” dirai.
“E cosa ha detto?”
“La stessa cosa: Aagggaaaalllllbbbbbb...”
“E cosa significa?”
“Cosa vuoi, che te lo ripeta lettera per
lettera?”
Scoppierete a ridere, entrambi, e finirete
per ammettere che non è necessario ripetere il
messaggio di Taita Diosito.
“Meglio così, senza traduzione, perché,
se dovesse parlare in modo comprensibile, cosa
direbbe Taita Diosito?”
“Ripeterebbe più o meno quello che dicono
tutti” dirà Andoni. “Libertà, denaro, onore, dignità
e si riempirebbe la bocca con retorica da quattro
soldi. Meglio se continua con questo mormorio...”
“Sì, certo.”
Di notte, la neve delle cime e le rocce grigie
brilleranno come specchi. Respirando si sentirà
188
L’amico congelato
l’aria limpida e fredda, tagliente come un pezzo
di vetro. Quattordici uomini nudi, i lunghi capelli
corvini raccolti in una coda, ognuno con la sua
ultima bottiglia, le sue foglie di coca.
Inizierai ad analizzare la loro nuda umanità.
“Quello si è tagliato i capelli perché aveva i
pidocchi!” sentirai e, subito dopo, risate da ubriachi.
Un indio passerà davanti a voi nudo, il
costume di Ayahuma attaccato dietro la schiena,
qualche difficoltà a tenere la testa alta.
“Perché fate questo?” chiederà Andoni.
“Perché è quello che si deve fare” risponderà
l’indigeno.
“Così mostriamo quello che siamo” dirà un
altro quasi nello stesso momento.
“Perché così siete più reali?” dirà Andoni
sicuro, con il tono di un antropologo ubriaco.
Inizierai a ridere, scivolerai sul muschio e
cadrai lungo disteso nel torrente. Poi, quando il tuo
viso bagnato e spaventato apparirà in superficie in
cerca d’aria e di qualcosa a cui afferrarsi, vedrai i
volti bronzei dei quechua che ridono a crepapelle
con la bocca spalancata mostrando i loro pochi e
189
marci denti.
Allora anche Andoni salterà nel torrente e
dietro di lui tutti gli indigeni. L’ acqua è molto fredda,
le nevi si sono appena sciolte. E quando Andoni
tirerà fuori la testa dall’acqua, ti vedrà uscire dal
torrente e salire tremante su un grande sasso: in
piedi sembri una candela, il tuo corpo è come la
cera sotto una fiamma tutta rossa.
“Fra poco apparirà Taita Inti” dirà un indigeno.
Anche Andoni uscirà dall’acqua tremando.
“Adesso masticherò la mia cochita” dirà un
altro, cercando qualcosa nella sua saccoccia.
Non sentirai nessuna nuova energia
speciale, né nell’acqua, né nell’aria gelida. Un
freddo terribile, questo sì, che ti farà passare la
sbronza o almeno l’alleggerirà, anche se ti farà
battere i denti fino quasi a romperli.
In quel momento sorgerà il sole, oro del
tempo, anzi, carbone del tempo in fiamme.
190
L’amico congelato
“È bello passare qualche giorno con uno
della tua tribù”, ti dirà Andoni il giorno dopo.
“E a che tribù apparterremmo noi?”, gli
chiederai sorridente.
“Kiowa!” risponderà lui. “Nella stanza dove
dormi tu, ci tengo le cose che voglio nascondere.
Una volta un amico, senza che io me ne accorgessi,
prese un foglio scritto in basco e mi chiese: E
questa che lingua è? Gli risposi che era kiowa. Lui
sospirò, Ah, come se volesse dirmi: certo, tu sei
amico degli indigeni.”
E ti racconterà la storia kiowa.
Dopo averlo ascoltato, penserai che
l’incontro del giorno prima aveva avuto un finale
migliore, perché la freccia non aveva colpito in
pieno cuore il nuovo arrivato, penetrando nel suo
petto con la facilità con cui si trafigge una pera
matura.
“Ieri notte mi hai risposto in basco, altrimenti...
fine!”
“Se sei kiowa” dirà Andoni, cercando di
imitare la sobrietà degli indiani dei film, “capirai
l’oscura chiarezza o la chiara oscurità della storia
191
che ti ho raccontato...”
“In ogni caso,” gli dirai “credo che noi siamo
come gli altri.”
Perché non siamo per forza kiowa, perché
forse apparteniamo alla stirpe delle persone o degli
animali muti che vanno in giro di notte.
“Come quali altri?”
“Come quell’ombra sconosciuta che vaga
senza rifugio” dirai.
“Ma allora siamo della tribù Nantu!” ribatterà
Andoni.
“Prima di imbarcarti, sarebbe meglio che
tu andassi a trovare questo tal Edwin Walsh”, ti
ripeterà in stazione.
La stazione è una costruzione di legno,
dipinta di verde e con il nome scritto a lettere rosse
sopra l’entrata: Pupuna. Un binario largo e lungo,
a partire dal quale, a destra e a sinistra, a nord
e a sud, c’è solo un’interminabile lontananza a
entrambi i lati della ferrovia.
Ci sarà una donna con due bambini che
192
L’amico congelato
sembra della capitale, borse e pacchetti per terra.
Ci sarà anche un quechua che sembra di bronzo,
abilmente scolpito e con lo sguardo perso in
lontananza.
Appoggerai la valigia a terra.
Guarderai verso l’alto e, sulla parete, ci sarà
un orologio, sporco di fumo e di ruggine, con le
lancette ferme, che segna un’ora morta, chissà di
quale giorno, di quale notte, di quale stagione, di
quale anno.
Prenderai la valigia in mano e farai un passo
avanti, benché non si senta il fischio del treno.
“Da qui a Guayaquil ci sono un sacco di
stazioni” ti dirà Andoni.
Rimarrai a guardare i lunghi binari di ferro
che non si uniscono mai, e apparirà un punto ciuf
ciuf, un punto nero, un giocattolo che butta fumo,
sempre più grande, finché, entrando in stazione,
non si trasformerà nell’enorme locomotiva del
treno.
Quando il treno si fermerà, salirai la
scaletta più vicina con la valigia sulla spalla. Il
vagone di prima classe sarà praticamente vuoto e,
193
attraversato il corridoio, passerai dalla prima alla
seconda e, oltrepassata anche quella, raggiungerai
i vagoni di terza classe, affollatissimi di indigeni,
bagagli e galline. Andoni ti accompagnerà da fuori,
sul binario, finché non troverai un posto che ti piace
in terza classe.
Sistemerai la valigia in alto, tra borse, galline
e angurie. Nonostante tutto troverai un posto a
sedere e, da dietro il vetro, sorriderai al tuo amico
che si trova dall’altra parte.
“È stata una visita breve” ti dirà Andoni.
“Breve e bellissima” gli dirai sorridendo.
All’improvviso il treno avrà un sussulto,
come un animale che si sgranchisce. Andrà avantiindietro per poi mettersi in moto lentamente.
“Tieni duro!” ti dirà.
“Addio Esteban, alla prossima!” gli dirai
quasi gridando.
Poi, non più così lento, il treno si avvierà e
vedrai Andoni, la stazione, i tralicci e l’ovest, fuggire
alle tue spalle.
“Ci vediamo, compagno di tribù!”
Il sole ti colpirà e, quando chiuderai gli occhi,
194
L’amico congelato
sentirai chiaramente il linguaggio del treno:
Tu-tum tu-tum tu-tum...
195
8
DUE PER BANCO
Iniziava l’anno scolastico nella scuola di
Kalaportu e, quel lunedì, la madre svegliò Goio al
mattino presto:
“Alzati, bisogna andare a scuola!”
“Comportati bene e dai retta a quel che ti
dicono i maestri!”
“Ti accompagno?”
,
Goio aprì gli occhi e rispose a sua madre:
“Ci vado da solo.”
Aveva gli scarponcini nuovi e anche i calzoni
lunghi erano nuovi. Non fu facile indossare gli
scarponcini, sembrava che i mignoli, imprigionati,
non potessero starci in quello stretto spazio.
Tuttavia le venti dita vi sarebbero rimaste prigioniere
a lungo.
La prima volta che Goio era andato a scuola,
avrà avuto quattro o cinque anni, sua madre
196
L’amico congelato
l’aveva accompagnato. Era presto ma c’erano
molti bambini davanti al portone, tutti con la loro
cartella, il viso pulito, i capelli pettinati e la riga
dritta, con le loro madri, nella loro serietà infantile.
Quando avevano aperto la porta della scuola, sua
madre l’aveva accompagnato fin dentro l’aula e,
dopo avergli dato un bacio, l’aveva lasciato seduto
in un banco di legno. Alcuni bambini piangevano
e le loro madri se ne andavano lasciandoli così, in
lacrime.
Ma, alle superiori, c’era da vergognarsi
ad arrivare a scuola con la mamma. Esisteva
addirittura una parola che era quasi un insulto per
definire chi stava sempre attaccato alle gonne della
madre: mammone.
“Quello dorme ancora con sua madre!”
dicevano.
Quando arrivarono a scuola, lei disse a
Padre Mendibe, in uno spagnolo che a Goio sembrò
impacciato: Buongiorno, sono la madre di Gregorio
Ugarte. E quel gesuita le rispose come aveva già
risposto prima ad altre tre o quatto madri: Alla fine
dell’anno sarà orgogliosa di suo figlio.
197
“Vai, mamma!” supplicò Goio.
Era arrabbiato con lei perché sentiva gli
sguardi burloni degli amici e allontanò la guancia
dal suo bacio di saluto.
Rimase solo in corridoio, non molto lontano
dalla porta della IV B.
Io arrivai alle otto meno venti, eravamo
partiti da Bilbao all’alba in macchina e mi aveva
accompagnato mio padre.
Lo ricordo al volante con la cravatta
annodata male e i capelli che gli ballavano sulla
fronte mentre io, accanto a lui, con la testa quasi
fuori dal finestrino, osservavo i verdi paesaggi
nebbiosi e assaporavo l’aria fresca del mattino.
“È un momento difficile”, erano state le
uniche parole che mio padre aveva pronunciato
durante tutto il viaggio, assieme a “Non ti farai
bocciare, vero?”
Benché a Bilbao ci fossero molte scuole
e convitti, i miei genitori mi avevano iscritto a
Kalaportu convinti che, dai gesuiti, avrei ricevuto
198
L’amico congelato
una buona educazione, e per di più mi misero in
collegio. E così scesi dalla macchina, pantaloni
lunghi nuovi e una altrettanto nuova cartella di
pelle.
Sceso dall’auto, rimasi a guardare
quell’enorme edificio di pietra. Davanti all’entrata
c’erano tantissimi ragazzi e anche molti genitori.
L’edificio era un blocco unico di pietra grigia,
illuminato dal sole del mattino, aveva quattro piani
ed era molto lungo, un centinaio di metri, le finestre
allineate e un’elegante chiesa gotica a un lato.
Mio padre chiese in basco:
“Dov’è l’aula di quarta liceo?”
Ci indicarono una delle porte, La quarta da
quella parte, gli risposero in spagnolo. Entrammo
in un atrio buio e pieno di gente, mio padre con la
valigia e io con la mia nuova cartella di pelle.
“Dov’è la quarta?” chiese di nuovo mio
padre.
“Proprio qui” gli rispose in basco un ragazzo
con i capelli rossi.
“Anche tu sei in quarta?” gli chiese mio
padre.
199
“Sì.”
“Allora ti presento un tuo nuovo compagno,
Andoni. Io vado...”
Mio padre non vedeva l’ora di andarsene e
anch’io stavo aspettando che mi lasciasse solo. Mi
fece una carezza sulla testa e se ne andò.
Il ragazzo dai capelli rossi era ancora lì, la
schiena appoggiata alla parete, in silenzio. Mi misi
accanto a lui e gli chiesi in basco:
“Sei di quarta?”
“Sì.”
“Sai in che sezione ti hanno messo?”
“Ci sono due sezioni, A e B. Qual è il tuo
cognome?”
“Martinez Anakabe” dissi.
“Allora la tua classe è questa.”
Sopra la porta vidi una grande lettera B.
“E la tua?” gli chiesi.
“La stessa.”
Rimanemmo in silenzio, la schiena
appoggiata alla parete, uno accanto all’altro.
C’era una folla di ragazzi che leggevano gli
elenchi, ammucchiati uno sull’altro, quelli dietro
200
L’amico congelato
si appoggiavano sulle spalle degli altri per poter
vedere meglio.
“Io sono nuovo, e tu?”
“Io no” disse Goio.
I corridoi erano affollatissimi, in cortile c’era
una gran quantità di gente, tutti si muovevano
rumorosamente da una parte all’altra.
“Quanti alunni ci sono in questa scuola?”
“Centomila.”
Lo disse tutto serio, tuttavia mi misi a
ridere quando pensai al significato della parola
“centomila”.
Suonò una campanella balbuziente per
avvisare che era ora di entrare in classe e si
formarono due file, io e Goio finimmo in due
diverse e io gli feci l’occhiolino. Non so se Goio se
ne ricorderà. C’era un ragazzo esageratamente
grasso che si era messo davanti alla porta per
entrare prima degli altri, si chiamava Zumalde ed
era quasi più facile scavalcarlo che girargli attorno.
Finalmente entrammo tutti. La maggior parte degli
orologi faceva le nove passate.
In classe eravamo una trentina, due per
201
banco e, quando apparve il vicedirettore, ci alzammo
in piedi. Si fermò sulla porta finché non fummo tutti
in silenzio e solo allora entrò sorridente e salì sulla
pedana avvicinandosi alla cattedra. Rimase lì in
piedi e ci guardò con espressione molto seria. Era
alto e magro, indossava un abito talare nero ed
era nero dalle scarpe fino al collo, il colletto bianco
sembrava di porcellana, aveva labbra molto sottili,
portava degli occhiali neri e anche i capelli erano
neri, pettinati all’indietro e lisciati con la brillantina.
Ci guardò tutti e trenta uno ad uno e, solo
dopo, serio e con la fronte corrugata, chiese:
“E voi perché siete qui?”
L’aula era grande, le pareti alte e verdi,
piuttosto scrostate a causa dell’umidità. Su quella
alle nostre spalle c’era un crocifisso, la prima
cosa che si vedeva entrando in classe. Di fronte
a noi la pedana e sopra, a sinistra, la cattedra e,
sopra di essa, un mappamondo. C’era anche una
lavagna molto grande, sulla quale non c’era scritto
ancora niente, nera e pulita e, sopra la lavagna, la
fotografia di Francisco Franco.
Dopo aver allungato quel freddo silenzio,
202
L’amico congelato
disse che Padre Solana avrebbe fatto l’appello.
Due alunni del gruppo dell’anno prima erano stati
bocciati, avrebbero ripetuto la terza e non avrebbe
fatto i loro nomi. Avrebbe invece fatto il nome, non
fosse altro che per renderlo noto a tutti, del ragazzo
che doveva ripetere la quarta.
“Emilio Mina Irasasi!” disse.
E, guardando da sopra gli occhiali quel
ragazzo dai capelli biondi e rosso in viso di vergogna
che si trovava a destra della classe, gli disse che
quest’anno avrebbe dovuto utilizzare meno il
pallone e di più i libri se voleva essere promosso.
Disse anche che avevamo un nuovo compagno,
Antonio Martinez Anakabe, di Bilbao, e mi indicò.
Iniziò a fare l’appello, quando sentivamo il
nostro nome dovevamo alzarci in piedi e rispondere:
presente. Tra gli altri, lesse questi nomi:
Francisco Javier Larrea Iparragirre, che in
cortile chiamavamo Beixama, non so perché.
Antonio Martínez Anacabe, mi alzai e dissi:
presente.
Ignacio Michelena López, il mio amico
Inazito.
203
Emilio Mina Irasasi, un ragazzo magro
che giocava bene a calcio, biondo e silenzioso,
che ripeteva la quarta e aveva le ginocchia piene
di croste. Qualche anno più tardi, questo Mina
sarebbe passato dall’Athletic Bilbao e poi avrebbe
giocato molti campionati nell’Osasuna in serie B.
Esteban Oiz Arrizabalaga, che poi avremmo
chiamato l’Annegato perché durante l’estate era
caduto dal molo e, quando tutti lo davano ormai
per morto, l’avevano tirato fuori dall’acqua in fin di
vita.
Cecilio Ramirez Saiz, figlio di un guardia
civil e che viveva in caserma.
Fu allora che seppi, con l’avanzare
dell’elenco, il nome del mio amico dai capelli rossi:
Gregorio Ugarte Etxeita.
Juan José Urtiaga Inchaurraga, che portava
occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia,
sempre il primo della classe; oggi è il proprietario
di un bordello a Maiorca.
Pedro Zumalde Ezpeleta, detto il Grasso.
Ripeté i trenta nomi uno ad uno e, quando
considerò concluso l’appello, Padre Solana, che
204
L’amico congelato
non si era presentato, rimase in silenzio, soffiò
come se volesse togliere la polvere dalla cattedra,
collocò alla sua destra i fogli che aveva appoggiato
a sinistra, li mise sotto il mappamondo, spostò il
calamaio e le penne da destra a sinistra, infine
prese dei gessi dal cassetto e li appoggiò sulla
cattedra.
Poi si fece scuro in volto e, con quelle labbra
sottili che muoveva nervosamente, chiese di nuovo
perché ci trovavamo lì.
“E voi, perché siete qui?”
Appena usciti in cortile iniziammo a giocare
a pallone. Il cortile mi sembrò incredibilmente
grande, paragonato a quelli delle scuole di Bilbao
che avevo conosciuto fino ad allora. Il campo di
calcio che chiamavano regolamentare occupava lo
spazio migliore, le porte erano di metallo e avevano
la rete. Vicino a quel campo grande ce n’era un
altro più piccolo, con delle vecchie porte di legno.
Dall’altra parte, per giocare alla pelota basca, uno
sferisterio coperto.
205
Il campo regolamentare fu occupato dai
ragazzi di quinta e noi ci accontentammo di quello
con le porte di legno. Mentre Emilio e gli altri si
organizzavano per formare le squadre, Inazito
imitò il tono e il modo di parlare del vicedirettore
per farci ridere tutti.
“E voi, perché cazzo siete qui?”
Avremmo giocato una partita di mezz’ora,
dalle dieci alle dieci e mezza, praticamente tutte
le mattine. C’era abbastanza spazio per correre e
dribblare ma non sempre era facile giocare a calcio.
Si giocavano contemporaneamente diverse partite,
una nel campo regolamentare, un’altra in quello
piccolo, a volte una partita per ogni porta. Inoltre
in cortile c’erano molti alunni che passeggiavano o
giocavano ad altro. Iniziavi a correre da un estremo
e non solo dovevi dribblare i difensori della squadra
avversaria ma anche un sacco di altra gente.
E se era uno della squadra avversaria
a toglierti il pallone, pazienza, ma a volte te lo
toglievano quelli di quinta o di sesta e allora non
c’era niente da fare. Per esempio, un tal Urruti ci
prendeva la palla e, con un tiro allo stile di Iribar, la
206
L’amico congelato
lanciava nella stratosfera. Quindi guardava prima
la sua scarpa, per controllare che non si fosse rotta
e, poi, osservava con ammirazione la traiettoria
del pallone, finché questo non cadeva a terra, nel
cortile se il tiro era stato verticale, o se la traiettoria
era parabolica, su uno dei tetti della scuola o in
qualche orto lontano.
“Fermo lì!” diceva allora Urruti, come se
desse ordini al pallone che aveva lanciato.
Non c’era modo di vendicarsi dei più grandi,
se non a bassa voce.
“Che imbecille!” diceva Goio.
Ma la ricreazione fu breve e poi ci aspettava
l’ora di “Formación del Espíritu Nacional”.
L’insegnante rimase sulla porta, ci guardò entrare
e, quando fummo tutti seduti ai nostri banchi e in
silenzio, entrò e salì sulla pedana.
Come prima cosa si presentò: Clemente
López.
Poi, dopo aver fatto di nuovo l’appello, ci
ordinò di aprire il libro alla pagina a colori.
207
Aprimmo il libro di FEN e i colori della bandiera
spagnola occupavano entrambe le pagine; il resto
del volume era in bianco e nero, con le immagini
grigie. Sotto la bandiera si potevano leggere le
parole che lui stava pronunciando lentamente con
tono retorico:
La bandiera spagnola è composta da
tre strisce orizzontali, quella superiore e quella
inferiore sono rosse e quella centrale è gialla, al
centro si trova lo scudo delle armi della nazione...
Era giovane e forte, i muscoli del suo corpo
sembravano scolpiti. Si muoveva lentamente
tra i banchi, avanti e indietro. Dalla parete alle
nostre spalle l’immagine di Gesù Cristo crocifisso
ci guardava dal suo martirio, mentre Francisco
Franco, con la divisa da generale, vigilava da
sopra la lavagna.
Siccome eravamo a coppie nei banchi, mi
toccò sedermi vicino a Goio fin dal primo giorno.
Durante le lezioni dovevamo stare attenti, con gli
occhi e le orecchie ben aperti e la bocca chiusa.
Terminammo alle dodici e, mentre i ragazzi
che vivevano a Kalaportu o nei dintorni andarono
208
L’amico congelato
a casa, noi del collegio fummo costretti a rimanere
lì. Prese le pesanti valigie che avevamo lasciato
appoggiate alla parete in fondo alla classe, salimmo
delle scale di legno e fummo accompagnati di
corridoio in corridoio fino alla nostra camera.
Entrammo nel dormitorio lentamente, come
se fosse un luogo dove si deve entrare facendo
attenzione. Guardai in alto e le travi del soffitto mi
apparvero come le dita di una gigantesca mano
pronta a stringerci nel suo pugno. La stanza era
grande e i letti erano disposti ai due lati, nove o
dieci in ogni fila. Ne scelsi uno vicino alla finestra e
ci appoggiai sopra la valigia.
Camminai lungo quella specie di corridoio
formato dalle due file di letti per prendere familiarità
con il posto. È grande, pensai dopo aver contato
ventisei passi in entrambe le direzioni. Vicino a ogni
letto c’era un armadio di legno e una lampadina
sopra la testiera. L’interruttore era appeso alla
parete, lo schiacciai e la luce si accese.
“Il bagno!” sentii.
Andai a vedere il bagno, era per lo meno
sette volte più grande di quello di casa. C’erano
209
sette lavabo in fila, ognuno con il proprio rubinetto,
ognuno con uno specchio ovale.
In uno degli specchi vidi un viso. Era il mio,
quello di un ragazzino pallido, spaventato e fuori
luogo.
Allora tornai al dormitorio. I miei compagni
avevano aperto le valigie e stavano riponendo gli
abiti nell’armadio. Mi avvicinai alla finestra, era
spalancata e si ammirava il mare, molto azzurro e
delimitato da una linea netta all’orizzonte.
A sinistra si vedeva Kalaportu. Presi il
fazzoletto dalla tasca e mi asciugai il sudore dalla
fronte.
Il suono della campana ci svegliava alla sei
in punto, dovevamo alzarci immediatamente, mezzi
addormentati, rattrappiti dal freddo, arrabbiati;
avevamo un quarto d’ora per andare in bagno e
vestirci, poi scendevamo in refettorio e recitavamo
un Padre Nostro prima di far colazione.
Io ero nuovo e i primi giorni dovetti subire
alcuni scherzi. Una volta, tolsi dall’armadio e
210
L’amico congelato
lasciai sul letto un paio di calzini che mia madre
aveva ripiegato a forma di palla, li presero e
iniziarono a lanciarseli tra loro mentre io correvo
da un letto all’altro, scalzo, finché non riuscii a
riappropriarmene.
Poi, quando stavamo facendo colazione e io
avevo appena preso la mia tazza di latte e cacao,
alcuni mi chiamarono e, mentre mi avvicinavo per
vedere cosa volessero, la mia tazza sparì. Non
potevo certo iniziare a chiedere, visto che quelli
seduti accanto a me sembrava non avessero visto
niente. Decisi di andarmene senza far colazione
e, uscendo dal refettorio, trovai la mia tazza sul
pavimento del corridoio.
Bevvi il mio latte e cacao e, quando tornai
dentro per restituire la tazza, mi ricevettero con
risate e battute. Quelle prove, abituali per i ragazzi
nuovi del collegio, suscitarono in me un’amara
tristezza che mi avrebbe accompagnato per tutto
l’anno che rimasi lì.
Il mattino successivo conoscemmo la nuova
professoressa di francese, era una ragazza giovane
che indossava dei sottili occhiali rotondi. Prima di
211
parlare, scrisse in alto a destra sulla lavagna, come
se stesse scrivendo sull’orlo di un precipizio:
Français – Deuxième Degré
Si diffuse odore di gesso nuovo. Poi si
presentò parlando in francese il più lentamente
possibile:
Je m’apelle Ariane Daguerre, je suis de
Saint Jean-de Luz...
Portava i capelli raccolti in una lunga treccia
che le scendeva sulla schiena. Era piuttosto magra
e quel giorno indossava una camicetta e una gonna
viola.
...pas loin d´ici, et je voudrais être votre
amie.
Sbocciarono sorrisi qua e là. Inazito fece
una pallina con la mollica del panino che aveva
portato per l’intervallo, la tirò avanti e colpì la nuca
del Grasso seduto in un banco della prima fila:
era impossibile sbagliare un bersaglio di quelle
dimensioni.
Quando la professoressa vide la pallina di
212
L’amico congelato
pane volare in aria, colpire la nuca di Zumalde e
cadere a terra, calcolò la traiettoria al contrario e,
sfilati gli occhiali, disse a Goio, con i suoi occhi
scuri, profondi e brillanti:
“Tu!”
“Io? disse Goio.
“Sì, tu!”
Adesso parlava in basco e ne eravamo tutti
sorpresi.
“Vieni qui davanti e tu vai là in fondo.”
Goio si spostò in prima fila, senza
protestare, mentre Inazito faceva una faccia da
“iononsonostato”.
Il viaggio del Grasso per raggiungere
l’ultima fila fu complicato, non passava nello stretto
corridoio formato dalle file di banchi e bisognava
spostarli. Tutto si fece nel modo più rumoroso e
impacciato possibile. Alla fine si sedette vicino a
me e la sua mole non mi lasciava spazio nemmeno
per muovermi.
Ariane, guardando Goio in faccia, disse ad
alta voce:
“Farò finta di niente perché è la prima volta
213
ma, d’ora in poi, le stupidate fuori!”
Da quel momento avrebbe avuto davanti
a sé sessanta occhi spalancati, tutti in silenzio a
guardare quella Mamuasel Mademoiselle. Ariane,
senza nessuna vergogna né alcun cenno di timore,
continuò la sua lezione, con la domanda principale
scritta alla lavagna:
Q’est-ce que c’est?
Non ci fu nessun altro incidente finché,
quando mancava poco alla fine della lezione,
Inazito le fece una domanda. Alzò la mano tutto
serio e, quando lei gli diede il permesso di parlare,
le chiese in spagnolo:
“Siccome Lei è francese, saprà se davvero i
bambini vengono da Parigi.4
Per un attimo in classe si fece un silenzio
tombale ma sul viso della professoressa si disegnò
un sorriso e rispose in basco:
“Voi non siete venuti da Parigi, questo è
chiaro, altrimenti sapreste il francese molto meglio.
Per oggi abbiamo finito, potete andare, fini.”
4
Nella tradizione popolare, l’equivalente della cicogna che
porta i bambini è che i neonati vengono da Parigi. [N.d.T.]
214
L’amico congelato
Uscimmo ridendo e facendo commenti
goliardici sulle gambe della nuova professoressa.
Uno che sedeva nel primo banco, proprio di fronte
a lei, disse che si vedeva tutto da sotto la cattedra.
“Tutto!” diceva.
Anche quel fini con cui aveva concluso la
lezione, ci sembrò divertente. Fini, simile alle ultime
parole dei film.
All’uscita volevo parlare con Goio della
pallina di pane e del cambio di banco, volevo
sapere cosa ne pensasse lui, ma Goio se ne andò
a casa senza dire una parola. Avevamo quattordici
anni e non parlavamo molto. A volte, anche per
lunghi periodi, ci comportavamo come se fossimo
muti.
215
9
VAPORINO
Tu-tum tu-tum tu-tum... il viaggio in treno
si allungherà di stazione in stazione finché non
sentirai qualcuno dire:
“Siamo arrivati.”
“Era ora” dirà un altro mentre prende i suoi
pacchetti.
Svegliandoti, la luminosità dell’alba ti
penetrerà gli occhi, come se qualcuno all’improvviso
avesse tirato le tende della finestra della camera
da letto.
Saranno le sette del mattino alla stazione
ferroviaria di Guayaquil, l’ora in cui la città si alza
e inizia a camminare scalza sulla terra fredda.
Netturbini con i camion dell’immondizia, operai
che vanno al lavoro, ubriachi che tornano a casa,
profumo di pane fresco, negozi che aprono,
l’ululare delle sirene delle fabbriche e delle navi.
216
L’amico congelato
La nebbia bassa diluirà i contorni degli oggetti
creando un ambiente irreale e anche la gente per
strada sembrerà fatta di un’altra sostanza.
Entrerai all’hotel e ti sdraierai sul letto a
leggere il giornale. Farà caldo, il ventilatore appeso
al soffitto sarà sufficiente solo a far volare le pagine
del giornale aperto.
“Guayaquil è un luogo paludoso, anfibio, dal
sottosuolo molle e argilloso. Per costruire la città,
dalle colline vicine dovettero portare materiale di
riempimento...”
Ti alzerai e con passo leggero attraverserai
la stanza, da una parte all’altra, come se fosse
un altro e non tu ad alzarsi, e vedrai i tuoi piedi
allontanarsi da soli.
Dopo aver verificato quanti soldi hai,
guarderai la pagina degli annunci erotici. E farai
una richiesta al telefono.
“Allora Lei vuole una studentessa?” chiederà
una voce suadente all’altro capo del filo.
“Sì, una studentessa” dirai e ti sentirai
ridicolo.
“Il suo indirizzo?”
217
Vorrai una prostituta che non lo sembri, una
studentessa, una sconosciuta che, benché si faccia
pagare, potrebbe essere disposta a stare con te
anche senza denaro.
“Il suo indirizzo, per favore?”
Allora riattaccherai.
Poi, mentre leggi il giornale, sarai vinto dal
sonno, la marcia degli indios a Quito proibita, gli
alti e bassi del valore dell’euro, le rivendicazioni dei
palestinesi, un bulldozer che ha abbattuto una parte
del quartiere schiacciando due vecchie sorelle che
vivevano in una baracca e che dovevano essere
sorde per non aver sentito il bulldozer; dormirai fino
alle tre del pomeriggio quando a svegliarti sarà il
suono di una sirena.
Allora ti stiracchierai e osserverai il paesaggio
dal balcone dell’hotel. Edifici nuovi, grattacieli che
sembrano squarciare le nuvole con la staticità
di enormi fantasmi sull’attenti. Ricorderai che
Guayaquil è una città anfibia e che le fondamenta
delle case sono di fango e sentirai di nuovo il suono
di una sirena, sarà quella di un transatlantico.
218
L’amico congelato
Andrai a trovare Edwin Walsh.
Le strade di Guayaquil saranno tranquille,
mandibole che masticano, nei negozi liquidazione
di pantaloni e scarpe, un bambino compra una
pannocchia di mais da un venditore ambulante.
Cartelli pubblicitari:
Vola a Honolulu con Pan America
Busserai alla porta e ti aprirà un signore
anziano incredibilmente alto, magro e pallido:
“Edwin Walsh?”
“Sì. E lei invece è l’infermiere mandato
dall’Università, no?” dirà in inglese, tossendo.
“Entri...”
Sarà una casa piena di libri e di ampolle di
vetro.
“È il luogo più bello e stupefacente che
conosco” dirà.
“Quale?” chiederai.
Tossirà e sul suo viso si disegnerà una
smorfia di dolore.
219
“Non mi interessano i calcoli di nessuno,
sia esso il Cattedratico di Medicina o il Capo degli
Stregoni...”
Ti renderai conto che è una di quelle
persone che pronunciano la parola scienza con la
maiuscola e che, per sottolineare la sua fede nella
conoscenza oggettiva e sistematica della natura e
dell’essere umano, articola un po’ più alto in inglese
le parole di origine greca o latina.
Farà la parola “Prognosi...” e ti ricorderai
delle metastasi.
Poi parlerà della morte:
“Vivrò fino alla morte” sentenzierà. “Questo
corpo individuale diventerà cadavere, il carcere di
ognuno di noi diventa la nostra tomba. Prima o poi
tutti moriremo, è solo questione di tempo. Tuttavia
la morte, quando arriverà, lo farà di sorpresa. Vivrò
fino alla morte e anche il medico vivrà finché non
morirà. Il medico crede di sapere quando morirò
ma quel povero diavolo non sa proprio niente,
nemmeno quando morirà lui...”
Ti parlerà della morte in un inglese quasi
accademico e, benché si rivolga a te guardandoti in
220
L’amico congelato
faccia, ti sentirai un impiccione e te ne vergognerai,
come se stessi mettendo il naso in qualcosa di
proibito.
In quel momento apparirà Edna, dicendo
Hai, con due tazze di tè in mano.
“Questa è Edna, mia moglie” dirà Edwin.
Meryl Streep, penserai, prendendo una
delle due tazze in mano.
“Quando mi dissero che avevo il cancro,
pensai di essere di fronte a un’invasione...”
Edna sparirà in silenzio.
“Allora riunii le forze per la guerra, perché
dovevo cacciare l’invasore dal territorio del mio
corpo. Assieme all’oncologo decidemmo per una
terapia aggressiva, chemioterapia e radioterapia
assieme...”
Avere a che fare con un corpo malato è duro,
ma l’abitudine e la vicinanza facilitano la cosa.
Nonostante ciò non potrai sopportare la narrazione
della malattia, ti produrrà malessere. Lì dove guardi
sorgerà una macchia grigia e, per paura di svenire,
volgerai lo sguardo verso le ampolle di cristallo
nelle vetrinette appese alle pareti, ma la macchia
221
grigia si farà sempre più grande.
“Edna è sempre stata accanto a me, mi
ha accompagnato a tutte le visite mediche. È
piacevole e divertente andare dal medico con lei,
prende sempre appunti, io l’ho conosciuta così,
quando era una studentessa, e adesso la vedo di
nuovo prendere appunti, fare domande precise e
difficili...”
Per uscire dalla nebbia che ti ricopre e ti
avvolge, penserai che Edna, Meryl Streep, forse
prenderà parte alla spedizione, ma ormai non
vedrai più niente.
“Come sa, la guerra contro il cancro è una
guerra difficile, si devono organizzare complicate
operazioni militari. Ecco, è lei che si è occupata di
mettere a punto la strategia...”
La voce di Edwin Walsh si allontanerà
sempre più, fino a diventare impercettibile e, anche
se ti sforzerai di rimanere in piedi, la nebbia grigia
ti vincerà.
Ti piegherai e perderai conoscenza finché
non inizierai di nuovo a recuperare i sensi.
“A poco a poco mi sono reso conto che
222
L’amico congelato
sono le mie cellule a provocare il cancro” sentirai
di nuovo la voce avvicinarsi e vedrai le bottigliette
nelle credenze, “alcune cellule vogliono vivere in
modo diverso, quindi per sconfiggere il cancro
devo uccidere alcune parti del mio corpo... Si sente
male? È diventato pallido come un lenzuolo...”
I capelli bianchi di Edwin ti sembreranno la
cima di una montagna innevata.
“No, non è niente, un piccolo capogiro...”
“Adesso direi che il mio nemico non è la
morte. Ho imparato ad accettare il cancro, non
so se si tratta di una forma di tolleranza o di
rassegnazione.”
Prenderai aria, guarderai le ampolle e gli
chiederai:
“Che farmaci prende per il dolore?”
“Brompton” ti risponderà. “Ma non si
preoccupi, se ne occuperà Edna.”
Perché è Edna che tiene i farmaci.
“Il Brompton è morfina, no?”
Non avrai il coraggio di dire che il Brompton è
morfina e che la morfina crea una forte dipendenza.
“Lei è la condizione che ci ha posto
223
l’Accademia delle Scienze. Lo sa, vero?”
All’inizio non capirai cosa vuole dirti.
“Quindi non le darò molto da fare. Porteremo
noi i farmaci ma, comunque, non ce ne sarà bisogno
di molti, ormai prendo solo il Brompton.”
Allora apparirà di nuovo Edna, con dei fogli
in mano. Saranno tre moduli che dovrai compilare
con i tuoi dati e capirai di non essere altro che
l’infermiere professionale di cui hanno bisogno
per ottenere il permesso sanitario. In questo
viaggio non sei altro che una formalità burocratica,
praticamente qualcosa di troppo, un parassita, in
fin dei conti.
“E queste ampolle?” chiederai.
“Faccio collezione dell’acqua dei luoghi in
cui sono stato...”
Una collezione di acque, hai sentito bene.
Ogni bottiglietta d’acqua avrà la sua etichetta:
Fiume Giallo, Mar Morto, Danubio, Capo Verde,
Amazzonia...
“Mari, fiumi, cascate, sorgenti...” dirà Edwin.
Chiedigli: Perché collezionare acqua, perché
ridurre l’immensità dei mari, dei fiumi, delle cascate
224
L’amico congelato
e delle sorgenti in bottigliette d’acqua. Chiedigli se
ha avuto successo il suo sforzo di catturare un
mondo che non è mai lo stesso.
“È stato in molti posti” gli dirai.
Edwin farà una smorfia di dolore e, aprendosi
un po’ la camicia, si alzerà e allora vedrai la sacca.
Una vescica gialla attaccata alla pancia,
come se la morte arrivasse colpendo con un
palloncino, come facevano i bambini di campagna
quando giocavano con una vescica di animale
gonfiata.
Edwin la sosterrà con la mano e siccome
rimarrà fermo, in piedi di fronte a te, penserai che è
arrivata l’ora di andartene e gli stringerai la mano.
Anche Edna verrà a salutarti:
“Allora ci vediamo domani mattina, alle
undici al porto.”
Scenderai le scale, turbato.
Più tardi, verso mezzanotte, passeggerai
per questa città che non conosci, con il segno
invisibile della solitudine inciso sul petto. Strade
225
buie, un cinema chiuso per lavori, un viale
illuminato ma senza gente, i bar chiusi. Cammini
guardando timoroso la tua ombra, che si allungherà
spaventosamente quando passerai sotto un
lampione e si dissolverà dietro di te mentre un’altra
prenderà forma avvicinandoti al successivo.
Ti incamminerai verso il porto all’ora in cui,
cessati il lavoro e l’attività, la riva del mare è più
triste. Le luci di alcune imbarcazioni sono ancora
accese, ma la baia è buia e lì, vicino al lungomare,
troverai un bar con i tavoli e le sedie rivolti al mare.
La porta sarà aperta e, dietro il bancone,
una donna starà lavando bicchieri.
“È chiuso” ti dirà.
Ma tu entrerai lo stesso.
All’interno del bar non ci sarà nessuno.
Avvitati a terra, alti sgabelli in fila uno accanto
all’altro davanti al bancone, come ubriachi che non
hanno nessuna intenzione di tornare a casa.
La donna continuerà a pulire bicchieri.
“Birra?”
“No, a quest’ora non si serve più niente di
alcolico.”
226
L’amico congelato
“Allora cosa si serve?”
“Niente, il bar è chiuso.”
“Avrai qualcosa per togliere la sete...”
“Ho detto che il bar è chiuso.”
“Questa città è un deserto, questa
Guayaquil!” dirai e allora la donna ti sorriderà.
“Sto preparando qualcosa in cucina, se
gradisci...”
Caffè, metà o doppio, con o senza schiuma,
in tazza o nel bicchiere. Non ti chiederà niente
ma poco dopo tornerà dalla cucina con due tazze
fumanti e te ne offrirà una.
Il caffelatte ti sembrerà troppo dolce e troppo
caldo.
Non avrete molto da dirvi e, gli occhi fissi
nelle tazze, rimarrete a lungo in silenzio.
“Quant’è?” dirai estraendo alcune monete
dalla tasca.
“Non è del bar” ti dirà la donna. “È della
cucina e non si paga.”
Le mostrerai i soldi nella mano e lei prenderà
due monete per il juke-box.
“Se vuoi, puoi pagare la musica.”
227
La donna è color zucchero caramellato e,
giratasi per uscire dal bancone, andrà prima al
juke-box.
“Vuoi ballare?” ti dirà allora, con un gesto
languido.
Inizierete a ballare al suono del bolero
appena iniziato. È lo stesso, domani mattina mi
sarò dimenticato di te, e berrò un lungo sorso, così
lungo come il tempo passato prima di incontrarti.
La vibrazione della voce che proviene dal
disco si estenderà nella penombra del bar come
schiuma, evidenziando il freddo, la ruggine e
l’umidità sprigionati dal juke-box, dalla puntina e
dalle pareti.
“E tu, a quale specie della fauna locale
appartieni?” ti chiederà parlandoti all’orecchio.
“Che fauna c’è da queste parti?”
“Cholos5, montubios6, marinai, pescatori,
contrabbandieri, stivatori, vaporinos7, conquistatori
5
In Ecuador, i meticci della costa sud. Usato anche in senso
dispregiativo per indicare una persona volgare, poco educata, di
bassa estrazione sociale.[N.d.T.]
6
Contadini della costa. [N.d.T.]
7
A Guayaquil, termine utilizzato per indicare i lavoratori
locali del porto.[N.d.T.]
228
L’amico congelato
di mogli dai mariti assenti...”
Tu cosa sei? Dille che sei un vaporino.
“Vaporino” dirai.
Sentirai le sue dita sulla nuca, tra i capelli.
“E tu, dove vai dopo?”
“Io dormo qui” ti risponderà.
E vicino alla porta della cucina se ne vedrà
un’altra, socchiusa, oltre la quale c’è il buio.
“È vero che chi ha i capelli rossi è cattivo?” ti
chiederà.
Sentirai il suo seno stretto contro il tuo
petto, la sua vita contro la tua, le cosce in mezzo
alle tue gambe, il suo respiro sul collo, il pube sulle
tue cosce. Il disco continuerà a girare al suono
caldo del bolero e una voce straziante canterà di
sentimenti svaniti nella distanza e di amori diventati
foschi tradimenti. Non importa, domani mattina ti
avrò dimenticata e ricomincerò da un altro estremo.
Allora vi scambierete nomi falsi e complimenti
tra i sorrisi, e avrai addirittura il coraggio di
accarezzarle i capelli e il collo.
Lei allontanerà leggermente il corpo e ti
sussurrerà:
229
“Scansati.”
Poi, portandoti verso la stanza dalla porta
socchiusa, ti chiederà:
“Mi aiuti a mettere a posto?”
Smetterete di ballare e vi metterete al lavoro.
Pulirai i tavoli con uno strofinaccio, metterai
le sedie capovolte sopra i tavoli e scoperai il
pavimento. Ogni tanto guarderai la donna, anche
lei al lavoro, ma non ti fermerai, pulirai anche i
mozziconi appiccicati ai tavoli, ansioso di andare a
letto con lei prima possibile.
“Potresti pulire anche all’entrata?”
“All’entrata?”
Uscirai e, sul marciapiede, alla luce che filtra
dalla porta di vetro, inizierai a raccogliere lattine di
coca-cola, bottiglie vuote, fogli di giornale, pezzi di
vetro.
Vedrai la donna sulla porta, dietro la porta.
La vedrai chiudere a chiave e schiacciare il naso
contro il vetro, senza altri gesti, gli occhi languidi
dalla noia o dal sonno.
Penserai che finito di pulire l’entrata ti aprirà
e, senza dire altro, ti inviterà nel letto della stanza
230
L’amico congelato
socchiusa; con la scopa sulle spalle ti avvicinerai
alla porta sorridendo.
La
donna
chiuderà
il
catenaccio,
schiacciando di nuovo il naso contro il vetro e ti
saluterà con la mano, come chi parte per un lungo
viaggio saluta dal treno o dalla nave quelli che
restano sul binario o sul molo.
“Aprimi,” dirai.
La ragazza, con il naso sempre schiacciato
contro il vetro, continuerà a salutarti con la mano.
Addio, vaporino, escapero, buonanotte e sogni
d’oro. Prenderà la chiave dalla tasca del grembiule
e te la mostrerà. La infilerà di nuovo in tasca prima
di ritirarsi nella sua stanza.
“Che cazzo di storia è questa!” dirai in basco,
con la scopa ancora in mano, davanti all’entrata
appena pulita di un bar sconosciuto di un’altrettanto
sconosciuta città.
Il vetro risucchierà e ti restituirà la tua
immagine con sorprendente abilità di prestigiatore.
Sarai proprio tu ma all’inizio non riconoscerai la tua
figura. Alto, magro, capelli rossi, maglione verde e
pantaloni blu, più pallido che mai, farai fatica ad
231
accettare subito di essere tu. Perché sembrerai il
cadavere di un annegato nelle acque solidificate
del grande vetro.
Ti guarderai attorno e non ci sarà nessuno,
sarai completamente solo sul marciapiede,
appoggiato al vetro. Ti spaventerai al sentire
inaspettatamente qualcosa sulla mano, ma non
sarà altro che un cagnolino che te la sta bagnando
di bava. Il cagnolino si metterà al tuo fianco e,
dopo averti dato qualche leccata se non proprio di
familiarità almeno di amicizia, con la lunga lingua
penzoloni anche lui rimarrà a guardare il vetro.
Andrai verso il porto e il cagnolino ti seguirà.
Si potranno ascoltare ancora alcune voci provenienti
dalle imbarcazioni, incomprensibili sussurri.
Dal molo piscerai nel mare, a lungo e
ridendo. Le voci nascoste della baia e il movimento
delle imbarcazioni saranno come quelle del
contrabbando e le fioche luci delle lampadine
brilleranno come pesci rossi nell’oscurità del mare.
232
L’amico congelato
10
GEOGRAFIA E IL QUARTIERE DI KAIONDO
Avevamo quattordici anni e non parlavamo
molto. A volte, anche per lunghi periodi, ci
comportavamo come se fossimo muti.
Inoltre, per quelli che come me stavano
in collegio, il mondo era assai limitato. Era
praticamente proibito uscire per strada, ma anche
i meandri di quell’enorme vecchio edificio ci erano
vietati.
Le nostre conversazioni erano piuttosto
stupide, soprattutto quando iniziavamo a
competere per stabilire chi di noi avesse un’origine
o appartenesse alla classe sociale più alta.
“Mio padre è pescatore.”
“Il mio, invece, è capitano di nave.”
“Mio padre è l’uomo più ricco della provincia
di Bizkaia” diceva un altro esibendo il suo orologio
come si mostra una bicicletta nuova.
233
“Mio padre ha un camion.”
“Il mio invece ha una Seat 1500 e mia madre
una Seat 800 per andare a fare la spesa.”
Allora Inazito disse:
“Mia madre, invece, ha un asino”
“E va per strada con l’asino?”
“Ma certo, tutti i giorni scende a Gernika a
vendere il latte.”
“E quando passano le macchine?”
“Quando arriva una macchina, si sposta un
po’.”
C’erano anche delle missioni di esplorazione
del collegio, perché la clausura era piena di
misteri e segreti, così il terzo giorno a mezzanotte
presi parte a una spedizione per il sopralluogo
di quegli antri bui. Avevamo Inazito come guida
e avanzammo in quattro, facendo scriiih scriiih
scriiih sul legno lucidato a cera delle scale e degli
interminabili corridoi, aprendo gniii gniii porte
chiuse. Camminavamo in silenzio e ogni tanto
venivamo illuminati da raggi di luce che entravano
dai finestroni come fossero spade. Ci addentrammo
nella sala appartata degli animali imbalsamati e
234
L’amico congelato
in altri anfratti proibiti, facendo molta attenzione
perché dietro ogni angolo poteva esserci un gesuita
in agguato. E allora sì, che saremmo scappati di
corsa lungo i rimbombanti corridoi della clausura.
Nonostante quelle passeggiate clandestine,
l’ambiente del collegio era triste e deprimente. Al
tramonto ero solito guardare dalla finestra verso
Kalaportu, quel paesino lì in basso che mi era
piaciuto fin dal primo momento in cui avevo messo
piede in quella scuola. Aveva un odore speciale, si
diceva che era per la salsedine, ma si diffondeva
chissà da dove, quando e perché, dal mare, dai
magazzini del pesce, dalle vecchie soffitte o dai
letti.
Ben presto iniziai a sentire storie di vita del
paese e di fughe dal collegio. Sembrava che ne
fossero successe di ogni genere, per le strade
di Kalaportu, nei casolari dei dintorni o sulla
costa. Molte storie d’amore, ma anche di ragazzi
del collegio morti durante quelle uscite senza
permesso.
235
Il professore di Geografia si chiamava
Patricio, era un uomo sulla cinquantina, dalla
pelle scura quasi verdastra, indossava sempre un
abito elegante. Quando entrammo in classe, stava
disegnando una cartina alla lavagna con gessi di
colori diversi.
Ci sedemmo ai nostri banchi e aprimmo il libro
di geografia. In una pagina c’era una tigre a strisce
che ci guardava, in un’altra invece una famiglia
eschimese che ci osservava dalla porta dell’igloo.
Goio osservava meravigliato la cartina del mondo
prendere forma dal gesso che il professore teneva
nella mano nervosa cercando di rappresentare i sei
continenti e riempiendo completamente la lavagna
scura.
All’improvviso, dando per concluso il
disegno, il professor Patricio disse:
“Voi siete qui!”
Lo disse alto e chiaro, Voi siete qui, indicando
la costa di Biscaglia sulla cartina alla lavagna, come
se volesse sottolineare Voi, io forse no.
Scese dalla pedana, mostrò il libro aperto e,
236
L’amico congelato
indicando l’immagine di un elefante, chiese dove
l’avremmo collocato, in che punto della cartina
poteva vivere quell’animale.
Inazito alzò la mano. Con il permesso del
professor Patricio, salì sulla pedana e, avvicinatosi
estasiato alla cartina del mondo, con l’indice toccò
l’Inghilterra. Il professor Patricio gli ordinò di tornare
al suo posto:
“Gli elefanti vivono in Africa e nel sud
dell’Asia” e ce le indicò sulla cartina. “Questa è
l’Africa e questo è il sud dell’Asia.”
Poi citò gli eschimesi, la figura a pagina
settantasei, e io sapevo che gli eschimesi vivevano
al Polo.
“Dove vive questa famiglia?” chiese.
“Al Polo!” disse qualcuno.
Si avvicinò al mappamondo sopra la cattedra
e ci disse che ci sono due poli, quello sopra, il Polo
Nord e, sotto, il Polo Sud e che il nostro pianeta
è sempre in movimento rotatorio e tac diede una
spinta al mappamondo, aggiungendo che l’asse di
rotazione è una linea immaginaria tra i due poli.
Nelle mani del professor Patricio io vedevo
237
solo la base di marmo del mappamondo e il
semicerchio di metallo, perché i confini e i colori
scomparivano con la velocità della rotazione.
“Gli eschimesi vivono al Polo Nord o al Polo
Sud?” chiese il professor Patricio.
“In tutti e due!” rispose qualcuno.
Il professor Patricio disse che non era così,
che gli eschimesi vivono al Polo Nord e che al Polo
Sud non vive nessun essere umano.
Il professor Patricio era un uomo maturo e
serio, sembrava una brava persona, anche se era
sempre un po’ triste. A volte sorrideva, ma era come
se una parte di lui, per lo meno la metà, fosse in un
altro luogo. Poi seppi che viveva a Kalaportu, nella
Casa dei Filippini. Quella dei Filippini era una casa
straordinaria, un palazzo barocco con gli angoli
e le colonne decorati con immagini della ricca
flora e fauna orientali. C’era un giardino frondoso,
un’esuberante oasi di piante tropicali all’interno dal
sobrio paesaggio basco, con innumerevoli stagni
e un ponticello con una statua. Porte di ferro e un
muro tutt’attorno proteggevano, solidi e invalicabili,
il senso di proprietà dei padroni o il loro desiderio di
238
L’amico congelato
vivere appartati.
Il professor Patricio parlava in spagnolo con
uno strano accento. Non svelò mai perché fosse
fuggito dalle lontane Filippine, ammesso che fosse
veramente fuggito da lì, per finire in quel buco di
Kalaportu, ma il sospetto e le malelingue dicevano
che era giunto in esilio o in fuga da qualche
tenebrosa disgrazia. Però la casa era vecchia,
come dimostravano l’edera che si arrampicava
sulle pareti e i maestosi alberi esotici del giardino.
Quando il professor Patricio era nato, la casa dei
Filippini doveva esserci già da tempo. Non eravamo
nemmeno sicuri che fosse davvero filippino, perché
non c’erano altre prove eccetto il nome della casa
in cui viveva, e forse l’atmosfera malinconica delle
sue lezioni, era dovuta alla misteriosa origine di
quel professore di Geografia.
Quell’uomo ci portava ad immaginare la
leggenda di un passato familiare agiato e felice,
ricchezza e felicità che il nero vento della disgrazia
sembrava avesse distrutto e disperso, per portarne
fin qui alcuni resti di cui in realtà ignoravamo la
provenienza, così come non sapevamo per quanto
239
tempo si sarebbero conservati.
Il calcio era l’unico modo per sfogare le
energie in quella vita opprimente del collegio. Mi
chiamavano Arieta Secondo, per i gol che facevo,
e cominciai presto a formare la mia squadra contro
quella di Emilio Mina. Quando sceglievo i giocatori,
prendevo sempre Goio per primo:
“Goio” dicevo.
Emilio sceglieva sempre Zumalde come
portiere, perché i palloni rimbalzavano sull’ampio
corpo del Grasso. Era come mettere un elefante
seduto in porta, ci lasciava solo degli stretti angoli
per riuscire a infilare un gol.
Goio non era così utile ma era coraggioso,
si lanciava in aria e si allungava tutto, per cadere
poi sul pavimento del cortile come si fa sulla sabbia
della spiaggia o sull’erba di un prato.
Anche quel giorno stavamo giocando nel
campo piccolo ed Emilio, preso il pallone dalla
sua porta, dribblò tutti fino ad arrivare di fronte alla
nostra, calciò con forza e Inazito, che era avanti a
240
L’amico congelato
Goio, alzò mano.
“Mano!” disse Emilio.
“Mano! Rigore!” iniziarono tutti a gridare.
“Rigore!”
Noi dicevamo di no ma senza molta
convinzione. Emilio contò undici passi dalla porta
e collocò lentamente il pallone a terra.
Goio era al centro della porta, dritto come una
candela, e in quell’istante arrivò la professoressa
di francese. Emilio rimase fermo due secondi a
guardare Goio, quel giorno la professoressa di
francese aveva i capelli sciolti che le cadevano sul
collo e sulle spalle come una pioggia nera, Emilio
si avvicinò lentamente al pallone, Ariane entrò
nell’oscurità della scuola senza guardare nessuno
e... gol.
“Il rigore” gli dissi, “te l’hanno segnato perché
stavi guardando la professoressa di francese...”
Un pomeriggio, verso le sei, indossai i
pantaloni lunghi e scavalcato il muro del cortile,
uscii dal collegio.
241
Mi fermai sul ponte di Zubieta e per me
quell’avventura aveva il fascino di tutto ciò che
è sconosciuto. Il ponte sopra il fiume era alto e
stretto, sembrava un arco teso al massimo per
lanciare la freccia; in realtà era fermo e tranquillo e
serviva solo per unire le due sponde. Il fiumiciattolo
sfociava nel porto, a destra c’era il cantiere navale
e le case nuove di Zubieta e dietro, già abbastanza
lontano, il collegio. Sulla riva sinistra del fiume,
Kalaportu.
Le strade erano strette e umide, sinuose
e buie come le viscere di un animale vecchio
e grande. Nel porto c’erano una decina di
pescherecci e qualche battello. Le onde del mare
oltrepassavano il muro di protezione del molo,
ma all’interno l’acqua era ricoperta da uno strato
oleoso, apparentemente calma, pezzi di legno e
bucce d’arancia galleggiavano. Si sentiva odore di
petrolio, di sardine marce, di mare.
C’era un vagone che veniva utilizzato
sui binari che percorrevano il molo da una parte
all’altra. Un pescatore con la barba rossiccia che
stava sistemando le corde sulla barca, mi guardò
242
L’amico congelato
ma non mi disse niente. Anche un uomo scuro che
lavorava sulla gru, mi osservò dall’alto quando
passai sotto di lui.
Mi sedetti su una catena di ferro che si
allungava fino alla prua di una barca da pesca
che, benché legata, si muoveva lentamente con
l’acqua. Ogni tanto si avvicinavano un piccione,
un gabbiano o un uccello più grande, per mostrare
con il loro volo maestoso l’azzurro del cielo.
Il peschereccio attaccato alla catena su
cui ero seduto, all’improvviso fece un movimento
brusco, quasi un salto, come un omone
addormentato che sta per svegliarsi a causa di un
brutto sogno. Per paura di cadere, mi aggrappai
alla catena.
Poi il sole illuminò i pendii ad ovest e,
dall’altra parte, con il tramonto, una grande ala
d’ombra si distese sul porto. Avrei scoperto più
avanti che le scoscese pareti rocciose a ponente si
chiamavano Harriandi.8
Pensavo di incontrare Goio, che viveva nel
quartiere di Kaiondo. In quel momento di pace e
8
Grande pietra. [N.d.T.]
243
tranquillità mi mancava solo il mio amico, ma non
lo trovai da nessuna parte.
Il sole sparì, attorno al porto si stagliarono i
contorni del paesaggio e i colori si fecero più vivi,
l’aria divenne più fredda e il mare più blu. Le onde,
adesso più nere e cieche, si infrangevano contro
le pietre verdastre del molo, della barriera e delle
chiglie generose delle navi a vapore.
Mi fermai davanti a un’enorme casa per
osservare lo stemma di pietra inciso sulla facciata:
era l’immagine di sei o sette pescatori che catturano
una balena, con l’arpioniere ancora in piedi sulla
barca dopo il lancio. Una balena aveva un arpione
conficcato nella schiena e accanto se ne vedeva
un’altra più grande. Per la poca luce, feci fatica a
leggere le parole incise sullo scudo:
Abbiamo catturato quelle grandi
La frase si trovava sotto l’immagine. In
alto, invece, delle lettere erano quasi illeggibili,
eccetto una C. Dedussi che, nello spazio di quelle
lettere a malapena visibili, poteva starci il nome di
244
L’amico congelato
“Calaportu”.9
Alcune porte più in là, si scorgeva una
lampadina accesa. Un sottile filamento rosso
all’interno di una pera di vetro.
Era la porta dell’osteria e ci entrai. L’interno
era abbastanza buio e in uno degli angoli scuri si
scorgeva un biliardino. C’era un forte odore di vino,
e avvicinatomi al bancone, mi resi conto che da lì si
poteva vedere tutto il porto e la miriade di luci che
si erano appena accese.
“Un calice di vino” ordinai.
Il grasso oste mi guardò dalla testa ai piedi,
come se con lo sguardo mi stesse chiedendo se
portavo i pantaloni lunghi.
“Sei del collegio? Te ne darò mezzo bicchiere
da assaggiare ma sarà l’unico, se non mi porti il
permesso di tua madre.”
Per fortuna lì non c’era nessuno che potesse
ridere. Così, con il mio bicchiere in mano, andai a
sedermi a un tavolo.
9
Durante il franchismo erano vietati nomi, cognomi e
toponomastica baschi, che dovevano essere tradotti o per lo meno
scritti con l’alfabeto spagnolo, nel quale non esiste, per esempio, la
K, sostituita con la C. [N.d.T.]
245
Indossavo i pantaloni lunghi della domenica,
la mia voce aveva iniziato a cambiare ed ero capace
di destreggiarmi con due aste del calcio balilla
contemporaneamente e anche con tutte e quattro
all’occorrenza. Il vino non scendeva facilmente
in gola ma dovevo berlo, se volevo diventare un
uomo.
Di lì a poco entrò un ometto con la barba
grigia e un sigaro stretto tra le labbra, ogni tanto
emetteva delle boccate di fumo. Appoggiò un
gomito sul bancone e chiese un caffè.
“Non penserai di darmi un caffè vedovo,
eh?” disse l’anziano signore quando l’oste gli servì
un caffè fumante in un bicchiere di vetro. “Mettici
almeno una lacrima...”
L’oste tornò con una bottiglia di rum e ne
versò un goccio nel caffè.
Poi il vecchio si avvicinò barcollando
all’angolo buio dove mi ero seduto io.
“Cosa ci fai qui, ragazzo?”
E, sedendosi vicino a me, aggiunse:
“In effetti, non si può stare tutta la vita
attaccati alle gonne della mamma. Oggi è un bel
246
L’amico congelato
giorno per iniziare a muoverti da solo...”
Io rimasi in silenzio a guardare il porto e lui
iniziò a parlare del Mare del Nord.
Avrei saputo più avanti che era un ex
comandante della marina mercantile, capitano
durante un solo viaggio, da Santurtzi a Gdansk.
“Nel Mare del Nord l’inverno è duro” disse,
“il maltempo colpisce senza pietà le imbarcazioni.
Ma non è solo il maltempo, in quel mare ci sono
correnti d’acqua pericolose e banchi di sabbia e
mine dell’ultima guerra...”
Nel Mar del Nord e nel Mar Baltico, anche
questo lo scoprii più tardi, il mare non è del tutto
mare, né la terraferma totalmente terra. Nel
mare verde ci sono isole di sabbia che affiorano
o vengono sommerse a seconda della marea, e
ci sono prati sommersi. E i campi e i boschi della
terraferma sono pieni di laghi grigi e di pantani, e i
gabbiani volteggiano nel cielo grigio.
“Per questo ci sono tante boe e bisogna
navigare lungo i canali segnalati dalle file di boe.
Ci sono il maltempo, le correnti marine, i banchi di
sabbia e gli esplosivi, ma la cosa più pericolosa è
247
la nebbia...”
Durante quel viaggio da Santurtzi a Gdansk
una fitta nebbia nascose il cielo, cancellò le boe
e sfigurò il mare. Quel fantasma che sembrava di
sperma inghiottì la nave, Fermate le macchine! In
quella bianca cecità, il radar era l’aiutante cieco
del capitano. Ordinò di procedere lentamente,
Macchine al minimo! E così, agli ordini del capitano,
la nave avanzava lentamente. In cima all’albero
maestro l’antenna parabolica girava, Visibilità
zero, il capitano guardava i circoli concentrici sullo
schermo mentre il sottile ago luminoso continuava
a girare.
“Si sentiva girare anche l’antenna
parabolica. Passammo ore e giorni nella nebbia,
la nave procedeva lentamente, dovevo fare
molta attenzione e guidavo nervoso, finché il
vicecomandante mi disse: Sono ventidue ore che
sei sul ponte, scendi in coperta e vai a dormire.”
Il vecchio bevve un sorso del caffè sposato
con rum. Ma la nostra mente era ancora nella
fredda e fitta nebbia.
“Premetti il pulsante dell’allarme e cominciai
248
L’amico congelato
a gridare, Indietro tutta!”
Scese, appoggiò la divisa sulla sedia e
si mise a letto. Non poteva dormire e non riuscì
a stare sdraiato più di un quarto d’ora. Decise di
tornare sul ponte di comando. Appena arrivato,
vide sullo schermo che una gigantesca nave gli
stava venendo addosso. Allora suonò l’allarme e
iniziò a gridare:
“Indietro tutta!”
In quell’istante entrò nell’osteria un gruppo
di pescatori:
“Ciao Hamaika!” salutarono il vecchio. “Hai
un buon sigaro in bocca!”
“Allora?” disse lui, “avete lasciato le barche
ben ormeggiate?”
I pescatori, una volta legate le barche e
cambiatisi gli abiti, andavano all’osteria a giocare
a carte attorno a una bottiglia. Parlavano ad alta
voce, dicevano di aver preso centinaia di casse in
una sola battuta...
“E cosa è successo?”
“Mi offri una lacrima di rum?”
“Non ho soldi.”
249
Non potevo pagargli un rum, le sette o otto
pesetas che avevo in tasca non sarebbero state
sufficienti.
“Cos’è successo dopo?”
Il vecchio girò di colpo il suo bicchiere vuoto
e catturò una mosca, che continuò il suo volo
impazzito e senza meta sotto il vetro. A quel punto
scoppiò un temporale e rimanemmo entrambi a
guardare fuori:
“Lascia che la pioggia cada e che il vento
soffi” disse il vecchio. “Che scenda la pioggia e
che il livello del mare si alzi finché i pesciolini non
arrivino a mordere il culo di Dio.
250
L’amico congelato
11
UN PEZZO DI CARNE E LA STORIA DEL
MONDO
L’illuminarsi del giorno spegnerà le luci che
brillano come pesciolini rossi nell’oscurità del mare
e troverai il porto pieno di imbarcazioni di ogni tipo:
Chimborazo, Esmerald Islands, Santo Domingo,
Estrella de Portoviejo, Bachelor´s Delight...
Alla dogana, all’ingresso del porto, ti
chiederanno i documenti. Un poliziotto dalla pelle
color rame controllerà il tuo passaporto color vino
e non ti farà problemi. È incredibile come nessuno
abbia niente da dire sul tuo documento d’identità,
nemmeno tu stesso.
Ci sono molte navi nel porto. Conosci il
nome e lo troverai scritto su una di esse:
IRON WILL
251
Lettere rosse sulla chiglia bianca.
Capirai subito che all’interno della nave ci
sono dei problemi, perché non sarai accolto molto
cordialmente appena salito a bordo. Edwin non è
ancora arrivato e stanno discutendo di lui. Alcuni,
che hanno appena saputo come stanno le cose,
non sono d’accordo sul portare a bordo un uomo
che sta per morire.
“Questo non è un carro funebre” dirà
qualcuno.
Ci saranno opinioni diverse e si deciderà
per votazione. Nessuno ti chiederà di parteciparvi
e, vicino al gruppo, sarai un testimone silenzioso
della riunione; quattro mani si alzeranno a favore,
in onore allo scienziato e al vecchio amico, tre
contro e, presa la decisione, nessuno protesterà
né farà brutte facce.
Appena finita la votazione arriveranno Edwin
Walsh ed Edna, lei sorridente lo sostiene per un
braccio quasi fossero arrivati perché hanno vinto la
votazione, ma sicuramente non immaginano nulla
della riunione né della discussione.
Un ragazzo nero ti farà un gesto dal molo
252
L’amico congelato
per dirti di scendere a prendere i bagagli. Scenderai
e, per portare in coperta le tre valigie e la sedia a
rotelle pieghevole, dovrai fare due viaggi e poi altri
due, percorrendo tutta la nave, fino alla cabina.
Sarà previsto cielo coperto e, dopo una notte
tranquilla e serena, avendo ammirato al chiarore
dell’alba le cime delle montagne seminascoste
dalla nebbia, si leverà un fresco vento del sud.
La tua cabina sarà la stessa di Edwin, come
ha ordinato il capitano:
“Il malato con l’infermiere”, dirà qualcosa del
genere.
Forse non sarà il capitano ma il
vicecomandante. In ogni caso, lo chiameranno tutti
il nostromo, anzi, quasi fosse un nome proprio:
Nostromo.
Dovrai portare i tuoi bagagli nella cabina
di Edwin e le valigie di Edna in quella che verrà
occupata solo da lei. Quando entrerai nella cabina
di Edwin con le valigie, proverai vergogna a dirgli
che Edna deve stare in un’altra stanza, e anche un
po’ di paura perché, se è difficile avere a che fare
cinque minuti con la morte, temi che sarà terribile
253
doverlo fare per lunghe ore.
Edwin, invece, accetterà la decisione con
rassegnazione.
“Manca qualcuno?” griderà il nostromo.
“No, siamo tutti a bordo!” gli risponderà
un’altra forte voce.
Le acque del fiume Guayas saranno torbide.
Il motore comincerà a sbuffare, l’elica a girare e
l’imbarcazione, vinta la pigrizia, trrr trrr trrrtrrr,
si muoverà e in quell’istante capirai che ti stai
avviando verso la più irreale delle terre possibili.
Mentre la nave si allontana dal porto,
guarderai la gente lì riunita per salutare chi
parte. E ti sembrerà che i visi delle persone si
appiattiscano, il naso e la bocca si cancellino,
gli occhi e le sopracciglia si uniscano, le teste
diventino delle uova. Nell’allontanarti, le persone
si andranno rimpicciolendo, lì, sulle pietre asciutte
della banchina.
L’acqua sarà torbida e melmosa finché
il fiume non inizierà a mischiarsi con il mare e le
acque diventeranno più blu, più pulite e più scure.
Ormai nell’estuario, guarderai verso l’imboccatura
254
L’amico congelato
del porto e il mare ti si aprirà davanti come un
ventaglio, blu scuro e quasi senza increspature, in
calma piatta e con alcune macchie verdi alla deriva
in superficie.
In quel momento, un giovane biondo ti si
avvicinerà.
“Guardi quelle macchie verdi?” ti chiederà in
inglese, e ti renderai conto che è uno di quelli che
nella votazione hanno alzato la mano a favore.
“Sì.”
“Sono giacinti. Il fiume Guayas li porta al
mare ma, a volte, l’alta marea li restituisce al fiume.”
L’imbarcazione colpirà e fenderà in due
l’acqua con la prua, alzando una schiuma arricciata
che, dopo aver accarezzato i fianchi della nave,
lascerà una scia biancastra.
“Scusa, sono Axel Fountaine” ti dirà dandoti
la mano. “Il topografo.”
“Javier” dirai tu.
“La gente del posto le chiama lattughe” dirà
Axel.
“Il fiume le trascina ma, a volte, l’alta marea
le restituisce al fiume” ripeterà, come se non avesse
255
un altro tema di conversazione.
Innumerevoli macchie verdi, lattughe, che
galleggiano sulla superficie dell’acqua.
La cabina sarà piccola, dipinta di bianco, due
armadi a muro, un frigorifero e un letto a castello
per due.
“Mi porterebbe del Brompton?” sentirai
mentre starai sistemando nell’armadio il contenuto
della valigia.
“Io?” risponderai.
Edwin è sulla sedia a rotelle, Edna in piedi
alle sue spalle. Sarai l’infermiere che deve fare il
proprio lavoro, non devi dimenticartene.
Vedrai molte confezioni di Brompton sul letto.
Dovrai misurare quattordici-quindici milligrammi,
che è la dose che il paziente prende ogni sei ore, e
scioglierli nell’acqua o nel latte,
“Grazie” ti dirà Edna.
E anche Edwin ti ringrazierà, nervoso e
con il corpo rotto dal dolore, finché non prenderà il
Brompton.
“Fa freddo” dirà Edwin.
E non sarà vero, ogni tanto soffia un vento
256
L’amico congelato
tiepido in coperta e tra i lunghi capelli di una Edna
silenziosa.
“Questa è proprio una bella casa, no?”
dirà subito dopo lo stesso Edwin, respirando
profondamente, This is just a gorgeous home, isn´t
it?
Qualche ora più tardi ci sarà un fantastico
crepuscolo, prima di far buio il cielo diventerà rosso,
un tramonto spaventosamente rosso all’orizzonte,
come se, nella lotta fra il giorno e la notte, il primo
morisse dissanguato.
Sarà una battaglia breve.
E così finirà il primo giorno e adesso ti dirò
una cosa: ti sei imbarcato e la nave avanza in alto
mare e ormai non puoi più annullare il viaggio e non
è possibile tuffarsi dal ponte per tornare a nuoto
al punto di partenza. All’interno della nave potrai
andare avanti e indietro, mentre l’imbarcazione
solca i giorni e le notti. Ma dove vai? È la nave che
va.
Questa è la riflessione e questa sarà la tua
257
prima verità, la prima alba della tua coscienza,
l’unica cosa che sai è che ti sei imbarcato, perché
stai navigando. E le radici? Non avrai altre radici
che le maniglie e gli appigli di acciaio e di plastica
dell’imbarcazione. Avrai radici come queste foglie
che si vedono di tanto in tanto sulla superficie
dell’acqua, come i giacinti trascinati dal fiume
Guayas, non in profondità ma sulla superficie
dell’acqua, quasi sopra il vuoto.
Quando ti sveglierai, prima di aprire gli
occhi, una voce prefabbricata ti dirà in inglese:
“Per favore, alzati. Oggi è un giorno felice...”
Poi inizierà a cantare:
Jingle bells, jingle bells,
Jingle all the way…
Ti renderai conto che stai dondolando come
in una culla e, spaventato, ti siederai di scatto sul
letto per vedere di chi è la mano.
Nel letto sotto il tuo vedrai Edwin con la
sveglia in mano. Leggerai dei numeri verdi: 6:30.
L’imbarcazione si muoverà su e giù e si inclinerà
258
L’amico congelato
sui fianchi a causa delle onde.
Il nostromo convocherà una riunione in
coperta, l’uniforme bianca lo renderà simile a un
manichino, il collo grosso e i baffi da tricheco, e
farà alcune raccomandazioni con una potente voce
autoritaria:
“Una mano attaccata alla barca!” dirà. “Sia
dentro che in coperta, bisogna sempre dare una
mano alla nave. Puntualità con i pasti. Gli indumenti
bagnati o umidi vanno portati in lavanderia. Niente
scarpe sporche né nei corridoi né nelle cabine.
Quando sbarcheremo, nessuno deve allontanarsi
dalla vista dei suoi compagni. Quando si scende o
si risale sull’imbarcazione bisogna sempre tenersi
per mano come fanno i marinai, afferrandosi per il
polso...”
Poi indosserete i giubbotti salvagente e
farete le prove per raggiungere le scialuppe di
salvataggio. Ci porterai anche Edwin, con addosso
un giubbotto salvagente arancione, in sedia a
rotelle fin sul ponte.
Un uomo nero grasso ti aiuterà, un nero che
sembra uscito dal gruppo New Kids on the Block:
259
“Bobbi Endicott” si presenterà, Bi ou doblbi
ai.
“Vi avviso” aggiungerà il nostromo, “questo
oceano non è per niente pacifico né tranquillo, il
suo nome è un inganno, potrete verificare presto
come ci sballotterà...”
All’orizzonte non si distinguerà il cielo dal
mare, perché il vento di sudovest e le strisce di
nebbia, il mare increspato e la bruma si uniranno
rendendo indistinguibili il sopra dal sotto. Da
bordo, tutte le direzioni ti sembreranno tenebrose
e tortuose.
Il sole, di colore azzurro verdastro, si
sforzerà di apparire ogni tanto, a fatica, come una
lanterna senza olio.
Anche
la
settimana
successiva
l’imbarcazione bianca proseguirà il suo viaggio
verso sud attraverso l’Oceano Pacifico, in nome
della scienza.
“Mi può portare del Brompton?” sarà la frase
più comune durante i primi giorni.
260
L’amico congelato
Poi diventerà più semplice: “È ora!” oppure
un gesto senza parole.
E il tuo lavoro sarà contare quindici o sedici
milligrammi e preparare un bicchiere di acqua o di
latte.
Edwin, che dopo cinque o sei ore inizia a
soffrire e a tremare, prenderà la medicina e starà
subito meglio.
“Grazie” ti dirà il malato, dalla sedia a rotelle
o dal letto.
La vita a bordo sarà lenta, interrotta e
scandita da quelle chiamate per il Brompton.
Durante il giorno sarai testimone di strane
discussioni scientifiche, soprattutto in sala da
pranzo e in coperta.
“Come ha detto lo storico francese Fernand
Braudel, la storia si mangia il presente...” dirà un tal
John Masefield.
Un altro lo interromperà quasi arrabbiato:
“Non capisco bene cosa significhi questa
frase, che la storia si mangia il presente, ma a
livello scientifico io direi che succede il contrario, è
il presente a mangiarsi la storia...”
261
E ci saranno conversazioni e discussioni di
questo tipo in coperta, a volte, come esempio degli
impegni della navigazione.
John Masefield, incaricato dalla rivista
The Wanderer di Filadelfia di realizzare alcuni
reportage della spedizione, si rivelerà un amante
della retorica.
“Io non ho nessuna ideologia” dirà, “mi baso
sull’ampio e semplice schema dell’onniscenza
umana che fa riferimento alla pansofia di Jan Amos
Comenius”...
“È uno scrittore?” chiederai allora ad Axel.
“Sì, è diventato famoso quest’anno con la
pubblicazione di un bestseller, The Worst-Case
Scenario Survival Handbook.”
“È interessante?”
“È uno di quei libri da portarsi nella tasca
della giacca! È un manuale di soluzioni per le
situazioni difficili della vita!”
“Allora è un libro pratico.”
“Imprescindibile”
dirà
Axel
ridendo.
“Facciamo un esempio. Sei in macchina e
all’improvviso alcuni mafiosi mettono tre auto di
262
L’amico congelato
traverso sulla strada davanti a te, perché hanno
l’ordine di ucciderti. A sinistra c’è un esteso pantano
di sabbie mobili. A destra il mare pieno di squali...”
“Allora bisogna tornare indietro!”
“Dietro di te, ci sono il marito e il padre della
ragazza che hai in macchina, ognuno spara con il
proprio fucile...”
“Allora entrerei in macchina, per pensare.”
“Ma la ragazza che si trova all’interno
dell’auto ha iniziato a partorire, è il tuo primo figlio,
ed è proprio per questo che suo marito vuole
ucciderti. E nello steso momento ti rendi conto
anche che, sul sedile posteriore, c’è una bomba
che esploderà fra pochi secondi.
“Cosa posso fare, allora?”
“E lo chiedi a me? Devi comprare il libro per
saperlo.”
“Ma, se il libro non esistesse, cosa faresti
tu?”
“Ecco, quello che faceva Tarzan. Non
perdere la speranza che presto verrà Cita a
salvarmi...”
263
Una volta che Edwin sarà uscito sul ponte
con la sedia ergonomica e tu sarai rimasto solo in
cabina, prenderai uno dei suoi libri, una guida della
Lonely Planet, e troverai un pezzo di carta a fare da
segnalibro fra le pagine 32 e 33. Gli appunti presi
durante un viaggio in Ecuador, datati 4.11.1981,
in realtà una lista di domande. Prima di partire,
chiediti se...
Perché sto facendo questo viaggio? Cosa
mi lascio alle spalle? Mi sono informato abbastanza
su questa terra prima di partire? Il mio viaggio sarà
un beneficio o un danno per la zona che vado a
visitare? Sono disposto a integrarmi in questa
regione e nel suo modo di vivere? Al ritorno, se
tornassi, cosa farei?
“Mi dia un po’ di Brompton!” ti griderà Edwin
da sopra.
Non hai fretta. Ripasserai le domande,
inventando possibili risposte. Perché sto facendo
questo viaggio? Cosa mi lascio alle spalle? Mi
sono informato abbastanza su questa terra prima
di partire?
264
L’amico congelato
All’improvviso in cabina apparirà Edna, ti
guarderà con disprezzo e quello sguardo sarà per
te come una sassata sulla guancia. Prenderà la
medicina, senza dire niente e, sbattendo la porta,
se ne andrà di corsa.
Uscirai dietro di lei e troverai entrambi sul
ponte. Edwin che grida appoggiato al parapetto
di dritta, Fuck you cancer! Tossisce e Fuck you
cancer! Vomita al mare ed Edna accanto a lui gli
dà il Brompton.
Fuck you cancer! Fuck you cancer! Ti
avvicinerai ma non saprai cosa fare, solo sorreggere
un Edwin che, ad ogni conato, sembra stia per
cadere in mare dalla sua sedia a rotelle, sostenere
la sacca di plastica che dondola e guardare il pianto
di Edna.
Starà subito meglio. John Masefield ti aiuterà
a portarlo giù in cabina, mentre Edna vi segue con
la sedia a rotelle ripiegata.
Edwin si addormenterà mentre tu prepari
il latte in polvere. Stai mischiando il latte con il
cucchiaio in mano.
“Mi scusi, ero in ritardo...” gli dirai al renderti
265
conto che ha gli occhi aperti.
“Sono io che dovrei scusarmi per tutto il
disturbo che le do...”
“È il mio lavoro.”
“So che questo lavoro non si può pagare.”
Gli porgerai il bicchiere di latte e ti dirà di no.
Digli la tua opinione.
“Credo che ne prenda troppo.”
Lui ti risponderà amichevolmente:
“No, no, ma glielo spiegherò un’altra volta,
quando avrò trovato le forze per dare spiegazioni.”
“Il Brompton è troppo forte, in Europa è
proibito, negli Stati Uniti ne sono consentiti solo
pochi milligrammi.”
“Il dolore, per l’umanità è più duro della
morte stessa” dirà. “Andarsene da questo mondo
è più doloroso che venirci.”
E quando arriverà Edna starete ridendo.
Edna, Hai hani, non ti degnerà di uno
sguardo all’entrare e tu rimarrai in un angolo, il
bicchiere di latte in mano, te lo berrai, latte tiepido,
come farebbe un bambino o un gatto.
Salirai in coperta pieno di vergogna.
266
L’amico congelato
Afferrandoti al parapetto andrai da babordo a prua
e lì, all’improvviso, l’oscurità ti bloccherà, come
il muro di una strada chiusa ferma il passante
smarrito. Soffierà un vento fastidioso e violento e
il mare alzerà con forza grandi onde e schiuma
polverizzata.
Ricorderai quello che ha detto, che per
l’umanità il dolore è più duro della morte. Perché
Edwin ha detto per l’umanità. Facendo riferimento
all’umanità, sebbene sia lui a sopportare
personalmente il dolore.
“Glielo spiegherò un’altra volta...” ti ha detto
anche.
Ogni tanto nel cielo notturno appariranno
alcune stelle che, come fiammiferi umidi, scintillano
senza accendersi.
Alle soglie della morte la vita si
individualizzerà, nella vita di ognuno si riassumerà
quella di tutta l’umanità e in questo pezzo di carne
si deciderà tutta la storia del mondo.
267
12
EN ÉTRANGE PAYS DANS NOTRE PAYS
“…e che il livello del mare si alzi finché i
pesciolini non arrivino a mordere il culo di Dio.”
Gli raccontai del detto del vecchio ed io e
Goio scoppiammo a ridere.
“Questa te l’ha detta Hamaika” disse. “Beve
sempre senza controllo, un bicchiere dopo l’altro...”
Goio venne di nuovo a sedersi vicino a me,
dopo due giorni in cui avevo dovuto accontentarmi
dell’angolo che mi lasciava il Grasso nel banco da
due.
Eravamo in classe con l’atleta che ci ordinò di
aprire il libro di FEN, il mattone grigio di quattrocento
pagine sui diritti e i doveri degli spagnoli.
Clemente López iniziò a fare domande sui
nostri padri. E tuo padre cosa fa? Passeggiava
lentamente avanti e indietro nell’aula e chi veniva da
lui indicato doveva rispondere che il padre faceva
268
L’amico congelato
il pescatore, o il commerciante, il mio il commesso
viaggiatore, quello di un altro il falegname.
Francisco Javier Larrea, invece, iniziò a
balbettare e non fu in grado di definire il lavoro di
suo padre, o forse non voleva dire che faceva il
contadino e, quando López gli chiese di spiegare
cosa facesse, scoppiammo tutti a ridere perché,
tra le altre faccende, disse che governava animali,
traducendo letteralmente dal basco.
Clemente López, dopo averci lasciato ridere
un po’, ci ordinò di tacere. E umilmente decretò:
“Voi qui dovete imparare a governare esseri
umani e a governare voi stessi come esseri umani.”
Clemente López, dopo aver chiesto ad altri
tre o quattro, parlò dell’esempio datoci dai nostri
padri, ognuno nel proprio lavoro, ci disse che più
avanti saremmo stati noi a occupare il loro posto
per mantenere la società e sviluppare la civiltà,
che ognuno di noi sarebbe diventato il successore
di suo padre e che, pertanto, dovevamo prendere
nostro padre come esempio di dignità.
“Che cos’è per te la patria?” chiese subito
dopo.
269
Tutti noi invidiavamo i muscoli delle sue
braccia che diventavano ancora più gonfi quando
reggeva il pesante libro di testo di Formazione dello
Spirito Nazionale. Aveva un corpo bellissimo e, per
metterlo in evidenza, indossava magliette attillate.
Fece qualche altro passo tra i banchi e,
tenendo il libro aperto tra le mani, iniziò a leggere:
...parola greca che significa discendenza e
che deriva da pater, padre. Sapere chi è il padre
significa avere un’identità chiara, sapere chi sono
e da dove vengo.
Era un culturista ed era il direttore della
palestra di Kalaportu. Non era nato a Kalaportu,
era venuto dalla provincia di Leon per organizzare
la struttura giovanile della Falange, la OJE, facendo
della sua palestra la sede di quell’organizzazione.
“Da noi non si possono vedere film di questo
tipo” dissi a bassa voce a Goio. “Tu non sai chi è
BB, un’attrice che si spoglia tutta, io l’ho vista...”
“Bugiardo” mi disse Goio.
“È vero” dissi io.
270
L’amico congelato
Era quasi vero, infatti ero arrivato fino alla
porta del cinema e non ero riuscito a entrare per
poco, per colpa della maschera con la torcia.
“Ecco, io ho un’imbarcazione” disse allora
Goio.
Feci una faccia incredula, anche la sua
poteva non essere una verità completa.
“Dove?”
“E dove vuoi che sia, in riva al mare.”
“Insomma non ci credo, se non me la fai
vedere.”
“Non mi importa se non ci credi!”
Il giorno dopo al mattino avevamo lezione di
francese.
Goio aveva serie difficoltà nella pronuncia
del francese. Il professore dell’anno prima, quello
che chiamavano Mesie Nomonsieur, l’aveva
promosso per non fargli del male o forse per non
lasciarsi niente in sospeso alle spalle, visto che se
ne andava. Durante le prime lezioni, davanti a tutti,
Ariane gli ripeté molte volte come si pronunciavano
271
i dittonghi au o, oi ua...
Scrivemmo il dettato:
Tous les malheurs des hommes viennent
de ce qu´ils ne peuvent rester en repos dans leur
chambre.
Quando Ariane gli chiese di ripetere, Goio si
innervosì e gli si fece un nodo alla lingua.
Ariane chiese a Juanjo di leggere e lui lo
fece bene.
“Bre, bre!” diceva Inazito.
Poi Goio dovette leggere di nuovo.
Pronunciava le erre molto arrotate e come sonore
le lettere mute alla fine delle parole.
Quando Ariane lo correggeva, diventava
rosso dalla vergogna.
“Hai la faccia dello stesso colore dei capelli”
gli dissi.
Al pomeriggio ci fu la lezione di Scienze
Naturali. Il professore era un giovane di nome
272
L’amico congelato
Pablo Esparza, gli occhiali e i capelli biondi
sempre spettinati gli conferivano un’aria da pazzo.
Indossava abiti vecchi e logori che lo facevano
assomigliare allo stendardo di una nazione
sconfitta.
Si arrotolava le sigarette, era abile
nell’avvolgere il tabacco trinciato nella cartina
e, una volta pronta, la lasciava in un angolo del
tavolo e iniziava a parlare di questo e quello fino a
dimenticarsene.
Disse che l’umore di una persona è la
conseguenza del suo equilibrio bioelettrico. Il vento
del sud paralizza la danza delle particelle di sodio e
di potassio all’interno del sistema nervoso e questa
è la ragione del malessere che avvertono alcune
persone quando esso soffia. Dimenticatosi della
sigaretta già pronta, prendeva di nuovo il tabacco e
una cartina e ne arrotolava un’altra, con destrezza,
poi l’appoggiava in un angolo per infilare la mano in
tasca alla ricerca dei fiammiferi.
“E da dove viene il vento del sud?” gli chiese
Inazito.
Rimanemmo tutti a guardarci.
273
“Alcuni dicono che viene dal deserto del
Sahara” disse Pablo, “ma io credo che venga da
Lisbona.”
“Perché? Parla portoghese?” disse qualcuno
e scoppiammo tutti a ridere.
“Perché dice che è bioelettrico?” chiese
Juanjo.
“L’aria si ionizza e gli elementi positivi e
negativi si separano.”
Invece di estrarre dalla tasca i fiammiferi,
prese di nuovo il tabacco e le cartine e disse:
“Il vento del sud è buono per far maturare il
mais e i fagioli, le nespole e le castagne.”
Volevamo tutti molto bene a Pablo che
si sforzava di mettere in relazione quello che ci
insegnava alla nostra vita, mentre in quasi tutte
le altre materie i professori sembrava volessero
allontanare la scienza dal nostro mondo.
Ma le nostre scienze naturali erano altre.
Più che sui libri illustrati, imparammo molto con gli
animali che catturavamo nel nostro circolo crudele
di risate e giochi. Al pipistrello facevamo fumare
delle sigarette di contrabbando. Con un tubicino
274
L’amico congelato
sodomita nel quale soffiavamo, gonfiavamo il rospo
fino a trasformarlo in una palla verde con quattro
zampe. E anche il grillo cedeva al nostro solletico
e abbandonava, per sua disgrazia, il buco in cui
viveva.
Io volevo vedere l’imbarcazione di Goio.
Lui la chiamava proprio così. Imbarcazione, e non
barca, battello, scialuppa o qualche altro nome, lui
la chiamava imbarcazione e io volevo conoscere la
sua imbarcazione.
Un pomeriggio, andai a Kalaportu perché
avevo appuntamento con lui nella zona di Zubieta.
“Allora, oggi mi porti a vedere l’imbarcazione?”
“No.”
“Mi avevi detto che me l’avresti fatta vedere.”
“Non è vero, io ti ho solo detto che ho
un’imbarcazione.”
Ci arrabbiammo subito e continuammo la
nostra passeggiata uno accanto all’altro ma senza
rivolgerci parola.
Quando passammo sotto lo scudo dei
275
balenieri, Abbiamo catturato quelle grandi, vidi di
nuovo l’arpioniere in piedi sulla barca, una balena
con un arpione conficcato nella schiena e un’altra
più grande accanto.
Dentro l’osteria vidi il vecchio.
“È il vecchio dell’altro giorno.”
“Salve, Hamaika!” lo salutò Goio.
“Avete già fatto i compiti?” disse, il basco
ben calato sulla fronte e barcollando.
“Ci hanno cacciato dalla scuola!” gli rispose
Goio.
Ordinammo due bicchierini di vino. Felipe
cedette, facendoci capire con un gesto che ce ne
avrebbe servito uno solo.
“Il vino va bene per svezzarli!” disse
Hamaika.
Lui beveva rum, se poteva. Ma Felipe gli
dava solo caffè, caffè corretto con un goccio di rum.
“Ah, il rum di Curaçao, quello sì che era
un buon rum!” disse. “ A dire il vero anche questo
Negrita non è male. È forte, anche se Felipe oggi
me l’ha servito piuttosto leggero...”
Bevve un altro sorso e guardò l’orologio da
276
L’amico congelato
taschino.
“E cosa successe nel Mare del Nord?” gli
chiesi.
Non poteva dormire ed era rimasto un quarto
d’ora sdraiato prima di tornare sul ponte dove
aveva visto sullo schermo una nave gigantesca
che si abbatteva su di loro: aveva suonato l’allarme
e aveva iniziato a gridare “Indietro tutta!”
“Ormai ci era addosso, che altro poteva
succedere?”
In quel momento, davanti all’osteria passò
una donna diretta al molo. Goio si coprì il viso
automaticamente, con la mano aperta, ma la donna
si fermò: era sua madre.
Inchiodò gli occhi sul figlio e rimase ad
aspettare, senza dire nulla. Goio dovette uscire
dall’osteria.
Quella sera, a casa, avrebbero avuto da
discutere:
“Che ci fai tu all’osteria?” gli disse la madre.
“Lì sto meglio che a casa.”
Dopo un’ora li si poteva sentire di nuovo,
nella sala al secondo piano:
277
“Devi voler bene ad Andres.”
“Non gli vorrò mai bene.”
“E invece devi volergliene, perché adesso
sarà tuo padre.”
Goio rimase in silenzio a guardare quella
stupida donna che pensava che lui avrebbe potuto
prendere come padre uno sconosciuto.
“Lo so che non è tuo padre, ma sarà come
se lo fosse” disse.
A Goio rimase in testa il suono di quel come
come come.
Una volta aveva sentito dire che suo padre
era un buono a nulla, che per fortuna era lontano e
che, se fosse tornato, sarebbe stato meglio buttarlo
in mare, come si butta la spazzatura.
All’alba mi alzavo e guardavo dalla finestra
della mia stanza in collegio. Vedevo i miei compagni
avvicinarsi alla scuola, ancora mezzi addormentati,
alcuni soli, altri in coppia, pochissimi in gruppi di
tre o quattro, alcuni con le mani in tasca, altri con
le braccia ciondoloni. Venivano a imparare, certo,
278
L’amico congelato
pur sapendo che al massimo si può apprendere
assai poco. Dietro di loro si vedevano gli operai del
cantiere navale che entravano al lavoro in tuta blu.
Terminata la terza ora, Ariane si avvicinò a
noi:
“Vieni a casa mia domani alle sei del
pomeriggio” gli disse. “Sai dove abito, vero?”
Glielo disse così, in basco. Figurati se non
lo sapeva! Sapevamo tutti che Ariane viveva a
Zubieta, in una casa in affitto e, soprattutto, che
viveva sola.
“Sai dov’è?” chiesi a Goio.
“Sì” mi rispose.
“Altrimenti ti accompagno.”
Ma Goio non aveva bisogno di compagnia,
non della mia, per lo meno.
Finita la lezione, quando noi tornammo nelle
nostre stanze e Goio si avviava a Zubieta, gli dissi,
facendogli l’occhiolino:
“Lo sai che vive sola, vero?”
Ma Goio non mi sorrise.
279
Un giorno scappai dal collegio. Ero stufo di
annoiarmi con lo studio, la cena e le altre attività.
Chiesi ad Inazito di inventarsi una scusa se
qualcuno se ne fosse accorto.
“Perché vai da solo?” mi chiese Inazito.
“Così vado dove voglio.”
Nel porto, la maggior parte delle imbarcazioni
erano di gente del paese, di pescatori, ma c’erano
anche un paio di yacht di ricchi villeggianti che li
utilizzavano soprattutto d’estate e, ogni tanto,
attraccava una nave di provenienza remota.
Volevo assistere all’entrata nel porto e allo scarico
delle navi, di quelle che arrivavano profondamente
immerse nell’acqua per via del carico, ma i
movimenti di gru, container e stivatori sarebbe
iniziato più tardi, forse il giorno dopo.
Le navi di fuori erano le più attraenti per
Goio e per gli altri ragazzi, perché erano più
grandi e avevano qualcosa di misterioso, forse
perché non sapevano da dove venissero e cosa
trasportassero, e nemmeno dove fossero dirette,
perché andavano sempre lontano. Inoltre, i marinai
280
L’amico congelato
che rimanevano nel porto un paio di giorni erano
biondi con gli occhi chiari, oppure neri con gli
occhi verdi, parlavano molto velocemente in lingue
strane, probabilmente erano persone normali,
come quelle che passeggiano per strada o lavorano
in fabbrica ma venivano da un mare immenso,
profondo e interminabile, avevano visitato, di porto
in porto, l’intero mappamondo della scuola e,
come dimostravano i suoni strani di quelle lingue,
conoscevano luoghi segreti ed eventi straordinari
ai quali la gente di terra non poteva accedere.
Saltai il muro di recinzione, attraversai i
corridoi bui e riuscii a salire fino alla mia stanza.
Goio invece fece un altro viaggio, quasi
contemporaneamente,
quello
stesso
tardo
pomeriggio. Era un edificio nuovo, lesse i nomi
sulle cassette della posta perché su ognuno c’era
un cartoncino colorato con un nome o due scritti a
mano: Pedro González Aller, Juan Arrizabalaga &
Maria Alberdi, Ariane Daguerre...
Per Goio quel nome, scritto con calligrafia
281
sottile su un cartoncino giallo, era un nome bello
e importante, e salì le scale nervoso. Era ancora
presto e rimase ad aspettare sul pianerottolo.
Bussò alla porta all’ora che Ariane gli aveva
detto. Lei si presentò con addosso una vestaglia
quasi trasparente che lasciava intravedere i seni.
Goio era nervoso.
“Siediti. Vado a vestirmi,” gli disse Ariane in
basco e con naturalezza.
Tornò con una gonna rossa, ben pettinata
e profumata di colonia. Gli disse di accomodarsi,
perché Goio era ancora in piedi.
Ariane si sedette vicino a lui e iniziò a parlare
in francese.
Il suono delle erre, senza vibrazione sonora,
si deve pronunciare più arretrato nel palato, le lettere
finali delle parole in francese non si devono sentire,
eccetera. Rimasero mezz’ora a fare esercizi.
La mano di Ariane toccò quella di Goio,
Jeune fille plus perdue que toute la neige, ripeté
Goio. Il ginocchio di Goio, sotto il tavolo, toccò
quello di Ariane, Mon amour plus loin que toute
la neige e, nel toccare quel ginocchio, provò una
282
L’amico congelato
sensazione meravigliosa.
Poi dovette scrivere alcune frasi di Arthur
Rimbaud, dettate dalla dolce voce di Ariane:
Esclaves, ne maudissons pas la vie...
Nervoso, premeva tanto la penna sul foglio
che a volte la punta rompeva la carta. Chiunque,
con la punta del dito, avrebbe potuto scoprire, come
se fosse braille, cosa c’era scritto su quel foglio.
Alla fine, Ariane gli disse in basco:
“Vedi che non è così difficile?”
Il basco di Ariane era diverso, aveva
un’inflessione francese e a Goio sembrava più
dolce di quello di Kalaportu.
“Ho imparato il basco in casa” diceva Ariane,
“ma per le strade di Donibane non si parla molto.
Poi ho imparato anche lo spagnolo, all’università di
Bordeaux.”
Fino ad allora Goio non sapeva che si
potesse parlare il basco in posti così lontani come
la Francia.
“Con te ne ho il coraggio” disse Ariane, “ma
283
qui in paese con molti devo parlare in spagnolo
perché, se lo faccio in basco, mi guardano come
se fossi una bestia rara, come se non capissero...”
Goio pensava che si parlasse basco solo
sulla costa attorno a Kalaportu - aveva sentito
parlare in basco la gente di Bermeo, Ondarrroa,
Orio, Hondarribia...- e nelle valli che si vedevano
dal casolare di suo nonno.
“L’altro giorno, in un negozio, mi hanno
chiesto di dove sono, della zona nord, gli ho risposto.
Della zona nord? Ah, della zona nord, ha detto il
negoziante guardando il mare, e sembrava che il
mio basco gli risultasse strano come l’islandese...”
En étrange pays dans notre pays lui-même,
intercalò in francese, n’est-ce pas? E quando
Ariane si tolse gli occhiali rotondi, Goio rimase
ad ammirare l’arco perfetto delle sopracciglia
disegnate con la matita, con l’attenzione di chi
ormai non teme più un fantasma.
“Verrai anche domani?” chiese Ariane
mentre chiudeva la porta.
284
L’amico congelato
Durante la lezione di Geografia, mentre il
professor Patricio indicava sulla cartina la Gran
Bretagna, che assomigliava a un’elegante signora
di altri tempi, dissi sottovoce a Goio, mio compagno
di banco:
“Allora, ci sei andato ieri?”
Mi rispose svogliato:
“Sì.”
Guardai il quaderno di Goio e, al margine
del foglio a quadretti, lessi:
Kaioarri
Kalaportu
Euskalerria
Europa
Terra
Universo
“L’Universo, con le stelle e il resto...” gli dissi.
Lui si arrabbiò e mi strappò il quaderno dalle
mani come se avessi violato uno dei suoi segreti.
Pensai che Kaioarri fosse il nome della via
285
dove viveva Goio. In realtà la via di Goio si chiamava
Barrenkale, ma questo lo scoprii più tardi.
Kalaportu era un minuscolo punto nel
mondo, ma noi eravamo lì.
Il vento del sud aveva portato il bel tempo,
non si poteva giocare a calcio perché deviava il
pallone ma era una splendida giornata d’ottobre.
286
L’amico congelato
13
RIFLESSI
In quel pezzo di carne si deciderà tutta la
storia del mondo e aver compassione significa
capire esattamente questo.
Il mattino successivo Edwin ti chiamerà con
tono amichevole:
“Vorrei proporle una nuova strategia contro
il dolore” ti dirà con carta e penna in mano.
Come prima cosa ti illustrerà la composizione
del Brompton:
“Morfina, cocaina, cloroformio liquido, alcool
e aromatizzante, tutto assieme e ben shakerato”.
Digli che con queste dosi scoppierà.
“Così scoppierà” gli dirai.
Edwin comincerà a ridere. Scriverà tre
lettere PRN e le pronuncerà una a una:
“Pro re nata,” poi lo tradurrà in inglese. “Dal
latino: solo in caso necessario.”
287
Disegnerà una tabella con tre spazi. E,
come se stesse dando una lezione universitaria di
biochimica, di filologia o di storia, continuerà con
tono da cattedratico:
“Lei è europeo. Nel XVI secolo esisteva
il commercio di oppio tra l’Asia e l’Europa e si
pensava che l’oppio potesse curare qualunque
malattia. La gente lo fumava con il tabacco finché,
nel XVIII secolo, uno speziale tedesco estrasse
dall’oppio la morfina. Siccome gli analgesici creano
dipendenza, furono messi al bando dai governi...”
E traccerà una linea dalle curve accentuate
da sinistra a destra.
“Guardi, con il metodo PRN si somministra
il farmaco quando si sente dolore. La dose per
calmarlo sarà alta e la morfina annebbierà la
mente fino a quando ricomparirà di nuovo il dolore.
Graficamente sarebbe una cosa di questo tipo...”
288
L’amico congelato
“Durante le crisi di dolore, dovrà
somministrare di nuovo una forte dose. Le iniezioni,
vede le siringhe?”
Vedrai delle piccole siringhe disegnate per
indicare il momento dell’iniezione. Arriverà Edna,
sentirai Hai hani.
“È meglio in quest’altro modo” dirà Edwin,
e disegnerà un altro grafico, simile al primo, e la
curva del dolore adesso rimarrà ondeggiante nella
fascia centrale...
“Capisce?” ti chiederà.
Gli alti e bassi della linea sono crudeli, quasi
letterari.
“Certo che capisce” risponderà Edna con
un sorriso per metà triste e per metà scherzoso,
nell’istante in cui tu dovresti dire che non hai capito.
289
“Quattordici milligrammi di Brompton ogni
quattro ore, prima che torni il dolore” dirà Edwin,
come se avesse trovato la formula.
Edwin ed Edna rimarranno entrambi a
guardarti, con i loro strani togetherness, come se
aspettassero il tuo permesso. Ma non c’è niente
da dire, cosa si può dire della sofferenza a chi
soffre, o della morte a colui che sta morendo.
L’unica cosa che dovrai fare sarà somministrargli
il farmaco prescritto, come un cameriere serve una
limonata. D’ora in poi, il cameriere dovrà lavorare
ogni quattro ore, sei volte al giorno: 8, 12, 16, 20,
24, 4. Ed essendo ore esatte non ci sarà bisogno
di chiamarvi l’un l’altro. Sarà sufficiente, dopo ogni
servizio, mettere la sveglia di Edwin all’ora della
dose successiva.
E una voce prefabbricata, ribadirà ogni
quattro ore:
“Per favore, si alzi. Oggi è un giorno felice...”
E ripeterà la canzone:
Jingle bells, jingle bells,
Jingle all the way…
290
L’amico congelato
“Uso l’orologio” dirà la voce di Edwin, “non
per essere sottomesso al tempo ma per potermi
dimenticare del tempo tra una dose e l’altra.”
Navigherete
con
poca
visibilità
nell’avvicinarvi alle isole, l’imbarcazione pal pal pal
avanzerà nella nebbia. Apparirà un’isola che poi
scomparirà quando l’imbarcazione si approssimerà
e poi si vedranno altre isole. Il mare sembrerà solido
e la nebbia sarà la padrona, una nebbia che sorge
da lì, non portata dal vento, creando un’atmosfera
lattiginosa e umida attorno a quelle isole.
“Chiloé!” dirà uno.
“Llatehué!” un altro.
I gabbiani ti sembreranno fiocchi di neve
che risaltano sui contorni scuri delle isole.
“Grae, grae, grae” dicono, disegnando strani
squarci nell’aria.
Farà freddo e sembrerà che quella nebbia
sottile, muta e persistente, sciolga l’aria. Farete
una sosta nell’isola dei gabbiani.
291
Attraccherete da dritta e sul vecchio pontile
di legno troverete quattro persone. Un uomo, una
donna e due bambini, un ragazzino di una decina
d’anni e una bambina di sei o sette, seduti su pacchi
o valigie. All’apparenza, una famiglia del posto che
sta traslocando.
Uccelli simili a gabbiani, bianchi e
starnazzanti, voleranno sopra la testa di tutti.
“Grae, grae, grae.”
E arriverà una chiatta nera e malmessa cruh
cruh cruh carica di carbone. La chiatta si avvicinerà
al molo senza spegnere il suo vecchio motore e vi
collocheranno un’asse scura. Passerà il ragazzo,
passerà la madre e, quando toccherà alla bambina,
scivolerà perdendo l’equilibrio e la valigia le cadrà
nell’acqua. Cruh cruh cruh continuerà la chiatta,
il padre lascerà i suoi bagagli a terra e si tufferà
nell’acqua fredda. Afferrerà la valigia che galleggia
in superficie e raggiungerà l’imbarcazione a nuoto,
tenendola alzata con una mano. La donna prenderà
la valigia gocciolante e il ragazzo aiuterà il padre a
uscire dall’acqua.
Il pilota della chiatta guarderà con
292
L’amico congelato
indifferenza quanto accade. Il ragazzo tornerà
sul molo per prendere i pacchetti rimasti lì. Poi il
comandante ritirerà la tavola e tornerà al timone
per continuare il viaggio. Il motore ansimerà come
un asmatico cruhh cruhh cruhh lentamente e senza
fiato.
Viaggeranno tutti e quattro seduti sopra una
montagna di carbone, con i loro bagagli.
E l’allontanarsi di quella montagna di
carbone, circondata da stormi di gabbiani, ti
sembrerà estremamente triste.
“Grae grae grae” sentirai.
La montagna di carbone scomparirà nella
nebbia, pietra nera che illuminerà e riscalderà le
notti di tante case.
“Vedi quel castello?” ti chiederà Edna. “Pare
che sia stato un carcere.”
Sulla costa, al di sopra della verdeggiante
acqua grigia, in alto sulle rocce nude, vedrai un
castello diroccato.
“Ci andiamo assieme?”
“Ed Edwin?”
“Ha appena preso la medicina e sta
293
discutendo con il geografo. È stato lui a suggerirmi
l’idea di visitare il castello, se avessi trovato
qualcuno che mi accompagnasse...”
“Allora andiamo” dirai.
Le case dell’isola sono di legno, un tempo
erano colorate ma l’umidità le ha rese scure. La
gente, spaventata, si nasconderà e non avrete la
possibilità di parlare con nessuno. Percorrerete
il sentiero avvolti dalla nebbia e, senza fermarvi,
seguendo una muraglia coperta da muschio ed
edera, arriverete alla porta del carcere.
“Fa paura trovare la porta di un carcere
aperta, non ti sembra?” chiederai scherzosamente.
“Vuoi dire che fa paura il fatto che possa
chiudersi.”
“Entriamo” dirà Edna. “Non fa poi così paura,
se non c’è la porta, come in questo caso.”
Mancano la porta e lo stipite, nella parete di
pietra c’è solo un arco di ferro come entrata.
Vi inoltrerete attraversando corridoi umidi,
al buio, camminerete a lungo fino a raggiungere
un rotondo cortile interno. Lì troverete tre porte che
danno a tre bracci.
294
L’amico congelato
“Non è certo un bel posto per viverci, chi
vorrebbe stare qui?” dirà Edna.
“Nemmeno le guardie.”
Entrati in uno dei bracci di tre piani, vedrete
ad ogni piano due file di celle allineate ai lati del
corridoio. Immaginerete i prigionieri là sopra, al
terzo piano, fuori dalle loro celle e appoggiati alla
ringhiera che guardano giù.
Ti avvicinerai alle scale dicendo:
“Andiamo al terzo piano” e il corridoio ti
rimanderà un eco terrificante: ... iano, iano.
Sul primo scalino il piede affonderà e per
poco non cadrai.
“Questa scala non ha gli scalini” dirai
spaventato.
La maggior parte degli scalini sono rotti e
gli altri sono tavole marce, fragili come cartone
bagnato, coperte di funghi.
“Anche gli scalini se ne sono andati...” dirai.
Si vedranno alcuni uccelli, pochi rispetto a
quelli che volano all’esterno.
Le porte di ferro delle celle del primo piano
si apriranno facilmente.
295
Sono celle silenziose, strette, umide. Le
sbarre delle finestre coperte e assottigliate dalla
ruggine.
Sulle pareti, non si sa ad opera di chi, delle
scritte:
Non calpestare l’erba: fumala.
Nomi, date, disegni, la maggior parte fallici,
di diverso stile, romantici, naif o futuristi.
“Non mi prenderanno”
Erdosain
“Cosa significa questa?” ti chiederà Edna,
indicandotene un’altra.
“Sono un uccello solitario che vuole volare”
le tradurrai.
“E quest’altra?”
“È vietato morire” le dirai.
Non gliel’hai tradotto bene o forse non ha
capito bene, e rimarrà a guardare un’altra scritta:
“Trema borghesia,
296
L’amico congelato
ti restano solo alcuni millenni di vita”
E poi un’altra:
“E tu, di notte, cosa sei, il gatto o il
tetto?”
Edna inizierà a ridere ascoltando la
traduzione.
“Javier, devo chiederti scusa” ti dirà. “L’altro
giorno sono stata scortese.”
“Non importa.”
“Anche oggi gli ho detto di non perdere la
speranza e di essere positivo.”
“Bisogna andarsene, vecchio”
“E allora?”
“È assurdo dare consigli a chi sopporta il
dolore.”
Anche l’inizio della vita è stato una bella
catena di sofferenze. Dillo ad Edna, che la vita
senza dolore è una sfrontatezza.
297
“Bisogna trovare il modo di morire bene...”
le dirai, pronunciando parole che giungono alla tua
mente come arcani.
“Ma non esiste nessun modo per morire
bene...” ti dirà Edna.
Scenderete dal castello alla spiaggia e, di
pietra in pietra, tornerete al molo lungo la costa.
Vedrete gli arbusti e le piante del litorale inclinati
a nordest dal vento implacabile che soffia da
sudovest.
Su questi arbusti ricurvi avranno i loro nidi
gli innumerevoli uccelli che volteggiano sopra le
isole.
“Ti sei mai innamorato?” ti chiederà Edna
raggiunta la spiaggia.
Hai sentito il gracchiare del gabbiano che
sembra quello di un gringo? E le risponderai
assieme al verso degli uccelli:
“Sì.”
“Quando?”
In quel momento ti accorgerai che ha un tic
298
L’amico congelato
nervoso. Ogni tanto muove la testa e alza la mano
destra come se una mosca o una zanzara le si
fosse appoggiata sulla guancia...
“Quando? Cerca di ricordarlo.” E ripeterà
“Ma ti sei mai innamorato davvero?”
I gabbiani continueranno a volteggiare e a
gridare sopra l’isola.
“Credo di sì. Per lo meno tre o quattro volte.”
“Quando?”
Dovrai raccontargliele una a una.
“Ma veramente innamorato?” insisterà.
Cosa vorrà dire con questo veramente
innamorato?
“Non lo so” le risponderai, come se decidessi
di arrenderti di fronte alla sua insistenza.
“Allora non ti sei mai innamorato.”
“Sì, mi sono innamorato.”
“No, non ti sei mai innamorato.”
“No?”
“Ne sono sicura.”
“Perché?”
“Perché sì.”
La nebbia lattiginosa ridurrà la visibilità
299
e, anche da vicino, la vostra imbarcazione si
intravvederà appena.
“Perché ti sei imbarcato con noi?” ti chiederà
Edna.
Hai bisogno di una parola che possa
dissimulare il più possibile, così le risponderai
Downshifting, per riposare. E penserai che ti parlerà
di Edwin, del perché è venuto Edwin, perché Edna
è venuta ad accompagnare la risposta di Edwin a
questa domanda, invece Edna non lo nominerà:
“Ci sono strade che bisogna percorrere
obbligatoriamente, per sapere che non portano da
nessuna parte.”
Troverete Edwin sul ponte. Sarà in piedi,
appoggiato al parapetto, con quegli occhi pazzi e
tristi sembra uno scheletro vestito che canticchia
una canzone o un lamento:
For whatever we lose,
like a you or a me,
it’s always ourselves
we find in the sea…
300
L’amico congelato
Grae grae grae si sentirà. Ed Edwin rimarrà
a guardare dal parapetto, osservando i gabbiani
che esplorano le radici della nebbia nel loro mondo
etereo.
Sarà una sosta lunga ma non parlerete con
nessuno dell’isola, la gente è timorosa e nessuno vi
racconterà la leggenda del gringo e della scialuppa
bianca che si avvicina all’isola alla ricerca di anime.
“Barcaiolo! Barcaiolo!” chiama l’anima che
si incammina.
E una barchetta bianca che sembra un
graffio nella nebbia pare che si avvicini per prendere
l’anima del morto. L’anima abbandona la tomba del
corpo e vola verso il mare gridando:
“Barcaiolo! Barcaiolo!”
La barca si avvicina con la prua fin quasi alla
sabbia. È bianca, con i remi bianchi e porta gente
vestita di bianco.
Una volta, un gruppo di gringos alla ricerca
dell’oro arrivò alle spiagge dell’isola e uno di loro,
lui sì, ascoltò la storia della scialuppa bianca.
301
Il pomeriggio successivo, il gringo si ubriacò
e iniziò a gridare verso il mare:
“Barcaiolo! Barcaiolo!”
E apparve l’imbarcazione bianca. Si avvicinò
fino a entrare con la prua nella spiaggia, fino a
raggiungere il gringo ubriaco e chiassoso, per poi
perdersi immediatamente nella nebbia.
Al mattino del giorno seguente, il gringo
venne trovato morto sulla spiaggia.
E l’anima del gringo morto, una volta
liberatasi dal corpo, sarebbe stata raccolta da
quella barca bianca? La gente di Chiloé dirà di no.
Che la barca bianca non aveva raccolto l’anima del
gringo.
E dove si trova allora l’anima del gringo?
Diranno che vaga da qualche parte, nascosta nella
pancia di qualche gabbiano.
Non senti quel gabbiano che fa grae come
un gringo?
Ma saranno migliaia i gabbiani che sorvolano
le isole di Chiloé.
Grae grae grae.
302
L’amico congelato
303
14
LA PUNTA DI HARRIZORROTZETA
Il vento del sud portò un piacevole tepore
e credo che fosse quel vento a spingerci verso
l’imboccatura del porto e verso il mare aperto.
“Questa non è la mia imbarcazione, ma
domenica mattina andremo alla ricerca di una nave
affondata, se vuoi venire” mi disse Goio.
La maggior parte dei ragazzi del collegio
trascorreva il fine settimana a casa.
Un sabato mattina uscii presto dal collegio,
perché alle nove dovevamo trovarci sotto il portico
della chiesa. Arrivai in anticipo, alle nove meno
venti, così rimasi lì ad aspettare, circondato da
strane statue.
Per i bambini del paese quei mostri di pietra
del campanile erano una minaccia. Non vuoi
mangiare tutto? Bene, allora chiamerò i mostri di
Goienkale, così dicevano le mamme di Kalaportu ai
304
L’amico congelato
bambini piccoli, ricorrendo a quelle figure terrificanti
che provenivano dal Medioevo o chissà da quale
epoca oscura.
In ogni caso, era veramente inquietante
quel corpo deformato e nudo che mostrava un
enorme pene in erezione e un sorriso storto e
triste, o la donna con un enorme naso ma senza
bocca, o la faccia che spuntava da una botte, quasi
nascondendosi, con una smorfia tra lo stupore e la
burla. O quell’altro appeso al soffitto con le mani
strette strette alla parete e lo sguardo terrorizzato
di chi sta per cadere, cosa che pensavo avrebbe
fatto proprio su di me.
“Lui è Juan Bautista. Lui è Andoni” ci
presentò Goio.
“Allora, usciamo in mare o no?” disse Juan
Bautista.
Da lì, lungo una strada che scendeva fino al
mare serpeggiando, raggiungemmo il porto, diretti
alla barca del padre di Juan Bautista.
“Dammi la cima!” mi disse Juan Bautista,
mentre saltava dentro la barca.
Non sapevo cosa fosse la cima e rimasi
305
titubante.
“Tu, quella è la cima! E passamela, dai!”
Gli passai la corda e salii anch’io. Juan
Bautista e Goio si occuparono della barca, presero
entrambi un paio di remi e, mentre io mi sedevo a
poppa, iniziarono a remare.
Procedevamo lentamente. La barca
era verniciata di verde all’esterno e di azzurro
all’interno. Non si vedeva nessun nome.
Non dissi a nessuno che era la prima volta
che salivo su una barca e uscivo in mare. Ormai
eravamo in acqua.
In quel momento, sul molo apparve una
ragazza che gridava:
“Juan Bautista, aspetta, voglio venire anch’io
con voi...”
Juan Bautista remò con più forza. La ragazza
correva sul molo, parallela alla barca:
“E così non mi volete con voi, teste di rapa?”
Ma Juan Bautista non aveva intenzione di
fermarsi, remavano più forte possibile.
“Vi auguro di annegare dentro quella bara
bagnata!”
306
L’amico congelato
“Avanti tutta, più forte!” disse Juan Bautista
tutto sudato.
Avevo i due rematori di fronte a me. Le pale
dei remi affondavano nell’acqua come scope per
pulire i fondali. Portavano le impugnature del remo
in basso e indietro, poi alzavano la pala del remo
al di sopra della superficie e la spostavano senza
toccare l’acqua, lasciando cadere solo qualche
goccia. Allora la pala dei remi si immergeva e,
stringendo forte l’impugnatura, facevano tutta la
forza possibile di braccia e schiena per passare la
scopa sott’acqua.
La barca si allontanava lasciando dietro di
sé un piccolo solco di acqua. Tra un colpo e l’altro
sembrava che si fermasse, immobile, ma un nuovo
colpo di remi le dava un’altra spinta.
Oltrepassammo
rapidamente
l’ultimo
braccio e uscimmo in mare aperto.
“Chi è quella ragazza?” chiesi.
“Maite” disse Juan Bautista.
Prendemmo a dritta e ci avvicinammo ad
Harriandi. Gli schizzi delle onde ci bagnavano le
guance, senza incontrare ostacoli, respiravamo il
307
vento e leccavamo il sale che si accumulava sulle
labbra.
“Cos’è il sopravento?” chiesi, avevo sentito
quella parola in un film di pirati.
“Il sopravento è il lato della barca colpito per
primo dal vento” mi disse Juan Bautista. “Alzati in
piedi e guarda là.”
Mi alzai e rimasi a guardare dove mi avevano
indicato. Il vento mi soffiava di fronte.
“Adesso prepara uno sputo di saliva spessa!”
Preparai la saliva e la raccolsi dentro la
bocca.
“Adesso sputa più forte che puoi!”
Raccolsi sulla lingua la saliva più spessa
che potei e la sputai con tutte le mie forze, il vento
ruppe lo sputo che ricadde sulla mia faccia.
Goio e Juan Bautista alzarono i remi e le
gambe e scoppiarono a ridere, mentre anche loro
si ripulivano i viso.
“Così non ti dimenticherai cos’è il sopravento,
moccioso!”.
Sopravento è il lato da cui spira il vento.
La parte opposta, il fianco opposto a quello da cui
308
L’amico congelato
soffia il vento, si chiama sottovento.
“Ci inoltreremo un po’ in alto mare.”
Fu allora che imparai, tra l’altro, cosa significa
navigare in direzione alto mare e in direzione costa.
E cosa sono la scalmiera, lo stroppo e la bancaccia.
“Siamo arrivati, ma questo è un segreto,
d’accordo?” disse Juan Bautista.
“Io non dirò niente” risposi.
Allora, maneggiando un solo remo, rimase a
guardare la terraferma dalla prua e ci disse:
“Cosa vedete?”
Aprimmo bene gli occhi, ma non vedevamo
niente nei dintorni.
“Guardate in acqua, sul fondo.”
Io non sapevo come si potesse arrivare in
un posto così, che non era segnalato da nulla.
“Questa è la punta di Harrizorrotzeta e quella
è Harriandi, si vede l’ufficio delle guardie.”
Era sufficiente fare attenzione a quello
che si vedeva e a quello che non si vedeva sulla
terraferma, disse Juan Bautista, per sapere in che
punto del mare ci trovavamo.
Poi mise un bicchiere di vetro in acqua e ci
309
disse:
“Guardate cosa si vede, c’è gente lì dentro.”
Io non vedevo niente, ma Juan Bautista
diceva che sul fondo c’era una nave.
“Una nave naufragata?” chiesi.
“Il Bou Nabarra” rispose.
Juan Bautista disse che il Bou Navarra era
affondato durante la guerra. Quell’imbarcazione,
un peschereccio che solcava le acque di Terranova
per la pesca del baccalà, era stata preparata per
la guerra e pare svolgesse lavori di protezione
dei mercantili. Nel marzo del 1937, quando
stava accompagnando una nave da Baiona a
Bilbao, vennero attaccati dal cacciatorpediniere
franchista Ferrol. Il mercantile riuscì ad attraccare
a Kalaportu, ma il Nabarra lo affrontò e sostenne
la battaglia per una mezz’ora, benché non avesse
nessuna speranza di poter vincere, perché il
cacciatorpediniere era quindici volte più grande.
Su quel fondale buio non si riusciva a vedere
niente.
“Io non vedo niente” dissi.
I cannoni franchisti colpirono le macchine
310
L’amico congelato
del Nabarra e, quando l’imbarcazione stava per
affondare, dodici uomini si buttarono in mare e si
misero in salvo a nuoto ma subito dopo finirono
in mano ai franchisti. Alcuni di loro sarebbero
stati successivamente condannati a morte. Il
comandante e altri sette, invece, piuttosto di
consegnarsi decisero di affondare con la nave e lì
rimasero, assieme agli altri otto compagni morti in
battaglia.
“Come fai a sapere tutte queste cose?” gli
chiesi.
“Mio padre fu uno di quelli a cui venne
concessa la grazia, ma suo fratello è lì.”
Si tuffò di testa ciuf e rimase sott’acqua
un bel momento. Riemerse dopo uno, due, tre
interminabili minuti.
“Allooora?” gli chiedemmo.
“È tutto lì!”
Juan Bautista tornò ad immergersi alcune
volte.
“Fredda?” gli chiesi.
“Calda!” rispose Juan Bautista e dovette
fare delle energiche bracciate per non congelarsi.
311
“Là l’acqua è più bassa di te!” mi disse
ridendo. “Non annegherai!”
Ma io vedevo tutto troppo scuro e troppo
sconosciuto.
Goio si tuffò. Anche lui rimase a lungo
sott’acqua e riemerse senza fiato a fianco della
barca, per riposare senza dire nulla. Poi rimase
sdraiato in acqua, facendo il morto, pancia in su, a
guardare un cielo limpido senza tracce di nuvole.
Juan Bautista sembrava Johnny Weissmuller,
dentro e fuori, e rimase lunghi momenti sott’acqua.
A un certo punto ritornò con una vecchia
pistola e, allungando il braccio, la lasciò cadere
dentro la barca. La pistola era arrugginita e coperta
di patelle, io e Goio guardammo quel vecchio ferro
con gli occhi spalancati.
“La nasconderemo, non si sa mai” disse
Juan Bautista, “perché le guardie controllano con il
binocolo...”
Poi dissero:
“Bisognerà tornare al porto, no?”
Quando arrivammo, fui io ad avvolgere la
cima alla bitta del porto.
312
L’amico congelato
La domenica pomeriggio, quando rientrai in
collegio, alcuni ragazzi stavano tornando dalle loro
case.
Siccome sapevo che Goio sarebbe dovuto
andare a Zubieta, decisi che lunedì sarei andato a
Kaioarri.
Passai dal cantiere navale di Zubieta,
attraversando una zona piena si pozzanghere e di
pezzi di ferro arrugginiti. Vedevo il porto alla mia
sinistra, finché non ebbi oltrepassato il molo. Le
onde saltavano al di sopra della barriera. Quello
che chiamavano Kaioarri non era altro che la punta
di uno sperone di roccia che ad ovest delimitava
la bocca del porto e ad est lasciava spazio alla
spiaggia.
All’entrata del porto giaceva una nave
incagliata tra le rocce, il cui corpo di ferro si stava
inesorabilmente e invano ossidando.
E c’erano anche i gabbiani, numerosi attorno
a Kaioarri.
313
Goio, da parte sua, andò a casa di Ariane.
“Scusa, sto facendo il bucato” disse Ariane
aprendo la porta, con quel suo sorriso rouge.
Aveva le mani piene di schiuma.
“Vuoi del caffè?” chiese Ariane.
Poi, dalla cucina, ordinò a Goio:
“Prendi il libro che c’è sul tavolo e leggi una
poesia, mentre io preparo il caffè.”
Goio iniziò a leggere la copertina del libro:
Jacques Prevert, La pluie et le beau temps.
“Ma in modo che io possa sentirlo!”
Goio aprì il libro alla pagina quindici e iniziò
a leggere una poesia intitolata; Étranges étrangers:
Étranges étrangers, Vous êtes de la ville...
Quando Ariane tornò con il caffè, stava
leggendo le ultime righe:
vous êtes de sa vie
même si mal en vivez
même si vous en mourez.
dovette
Goio
ripetere
parecchie
volte
314
L’amico congelato
étrange, étranger, ville, vie, vivez. Le erre, il finale
delle parole, le vi...
Ariane parlava dolcemente. La gente di
Kalaportu si esprimeva in modo più duro, forse
per impedire al mare di portarsi via le parole tanto
facilmente. Vous êtes de sa vie, a volte quasi non si
sentiva, même si mal en vivez, e con il caffè portò
anche il “gatò”. Goio non sapeva che fare con quel
gâteau, se mangiarlo o no, se l’avesse mangiato
avrebbe potuto pensare che era affamato...
Mancava solo un dolce sottofondo musicale
perché quella sembrasse una scena fra Alain Delon
e la sua ragazza. Le braccia e le gambe erano
vicine, c’erano anche alcune parole magnetiche,
assieme alla paura e al desiderio.
Goio mischiò il caffè con il cucchiaino:
“Scotta” disse.
“Hai già cominciato a parlare francese...” gli
disse Ariane con una voce che si avvicinava e si
allontanava.
Sul tavolo c’era una fotografia di Ariane, di
quando avrà avuto quattordici anni. Per Goio il suo
sorriso era dolce e le sue parole gli accarezzavano
315
la pelle.
“Credo che tu abbia fatto dei progressi”
gli disse Ariane. “Sei allo stesso livello dei tuoi
compagni o forse anche meglio, non c’è più bisogno
che tu venga qui.”
Quando stavo rientrando in collegio da
Kaioarri, Padre Solana mi beccò.
Avevo salito gli scalini di due in due,
guardando verso l’alto, e camminato piano lungo il
corridoio perché il pavimento con la cera amplificava
il suono dei passi. Girato l’angolo, Padre Solana
apparve dall’oscurità.
“Fermo lì!” disse all’improvviso e quasi
caddi nel vedere il suo viso bianco e i neri capelli
schiacciati e brillanti.
Mi chiese da dove venissi e non gli risposi
nulla.
Mi disse che mi aveva visto scavalcare il
muro. Proprio da qui, dal mio osservatorio, disse
indicando la finestra, come un ragno indicherebbe
la sua ragnatela, con una mano più bianca di un
316
L’amico congelato
fantasma.
La finestra sembrava un quadro strano, con
la luna piena nell’angolo superiore destro.
Lì mi fece l’elenco di tutte le volte che ero
uscito di nascosto o rientrato tardi. Teneva tutto
scritto in un quaderno e me lo lesse alla luce
della luna: il 5 ottobre alle dieci meno cinque, il
13 ottobre alle dieci, il 23 ottobre alle undici meno
dieci, il 3 novembre alle undici e venti. Elogiò la mia
progressione nell’arrivare sempre più tardi.
Mi chiese perché ero sempre da solo e
perché ero sempre in posti in cui non dovevo
essere.
“Domani ti aspetta il Direttore.”
317
15
IL FIUME CON UNA SOLA RIVA
Grae grae grae.
Andrai in cucina e Bobbi ti mostrerà la
bacheca del menù:
Chili dog & fries
Milk shake
“Edwin non vuole pranzare” gli dirai.
“Tutti gli esseri viventi rischiano di morire
prima di mangiare e anche dopo aver mangiato”
Bobbi ricorre al suo umore nero, “quindi, sarà
meglio mangiare tranquilli...”
Durante il pranzo John Masefield si siederà
vicino a te:
“Ti piace il cinema?” ti chiederà.
“Piacermi, sì.”
“Ti ricordi la canzone dell’agonia del
318
L’amico congelato
computer Hal 9000?”
Devi ricordarla: 2001 Odissea nello spazio di
Stanley Kubrick, un film di fantascienza che avevi
visto al cineclub universitario di Bilbao. Sarà stato
l’anno 1978 o il 1979 e in quel momento l’anno
2000 era assai più lontano dell’orizzonte.
“L’ho visto molto tempo fa e non me la
ricordo.”
Cerca di ricordare la sequenza del primate
che prende un osso in mano e lo trasforma in uno
strumento, poi in un’arma mortale che, quando
viene lanciata volteggiando in aria, diventa una
nave spaziale.
“Il computer rotto, rimuovendo la memoria
a breve termine, dal futuro all’indietro, ripristinerà i
ricordi iniziali. Anche il nostro vecchio è così, come
quel computer guasto, alla fine della sua vita canta
ninnananne...”
Sentirai Jingle bells, jingle all the way e
capirai che John Masefield si riferisce a quella
canzone.
“Per lo meno questo è quel che succede
alle reti di neuroni artificiali: mentre muoiono poco
319
a poco, rivedono al contrario tutto quanto è stato
appreso, come se disimparassero la loro vita di
silicio, non si perdono in incoerenze e tornano ai
primi momenti di vita...”
Crederà che sia Edwin a cantare Jingle
bells.
“L’essere umano inizia a morire giovane,
dai venticinque anni in poi ogni giorno perdiamo
25.000 neuroni...”
“È il suono della mia sveglia” lo interromperai.
E te ne andrai in cabina. Lì ci troverai
Edwin, sdraiato sulla sua tomba. Dopo avergli
somministrato il Brompton, dovrai medicargli le
piaghe che ha sulla schiena e sulle natiche.
Appena preso il Brompton si addormenterà,
a pancia in su, consumato e rinsecchito dalla
febbre, come gli astronauti dei film di fantascienza
immersi in un sonno infinito.
Continuerete la navigazione vicino alla
costa, la massa scura delle pendici di pietra si
estenderà a dritta fin sopra il mare grigio. Ogni
320
L’amico congelato
tanto si vedranno rocce che alzano la linea del
mare verso il cielo e appariranno gli estuari dei
fiumi che, scendendo dalle montagne, riversano
nel mare le loro acque. Dietro, le pendici oscure e
le cime imbiancate di gigantesche montagne che
definiscono l’orizzonte.
“E quella cima?”
In lontananza si vedrà una montagna
impressionante, sarà alta sei-sette mila metri,
calcolerai.
“Qui iniziano i canali del sud” dirà Axel.
“E quella cima rocciosa?” chiederai di nuovo.
“Non ricordo il nome” dirà Axel, troppo
affascinato dal paesaggio che ha davanti agli occhi
per iniziare a consultare dei libri.
Il mare sarà abbastanza tranquillo ma farà
freddo. Dalla larga cintura di schiuma che circonda
la costa è chiaro che le onde battono con forza,
sbam, contro la pietra nera degli scogli. E si
moltiplicherà il numero di uccelli che volano attorno
alla barca. Gabbiani, procellarie, cormorani...
Grae grae grae.
Si avvicineranno anche alcuni albatro dal
321
volo lento, allarmati e nervosi. Disegneranno spirali
nell’aria, volteggiando dalle rocce scure della
terraferma fino al mare.
“Sembra che questo mare calmo preannunci
tormenta” dirà Axel.
“Vive gente su questa costa?”
“Sì, da molti secoli, nei canali, nelle baie e
nelle isole dei dintorni ci vivono le tribù Alakaluf.
“E quella montagna?” chiederai di nuovo.
I nomadi del mare, gli Alakaluf, raccontano
che la Felicità si trova proprio sulla cima di quella
montagna. Lì, su quella vetta imbiancata, non
dovrai preoccuparti di niente. Avrai il vino migliore,
tè caldo e biscottini, e cozze fritte, molto calde,
pronte per essere mangiate.
Si dice che sulla lontana cima di quella
gigantesca montagna ci siano balene arenate e
branchi di lontre di mare. E foche barbute che si
tolgono la pelle e la offrono in mano agli indigeni
che ci arrivano, anche se là in cima non c’è bisogno
di abiti di pelle perché il clima non è rigido come il
duro inverno dei canali, ma è un mite inverno...
“Peccato che non possiamo rimanere a
322
L’amico congelato
lungo a contemplarlo!”
E guarderai verso la cima della montagna
e non si vedrà più, così come non si vedranno più
le rocce scure della costa, nascoste dalla fosca
nebbia. Perché quando qualcuno lo osserva, a
quanto pare, il paradiso degli Alakaluf si nasconde.
“Viene la tormenta” sentirai dire a un uomo
dell’equipaggio.
E il vento, soffiando, solleverà la cresta
schiumosa delle onde e le raffiche alzeranno
l’acqua al di sopra della barca, come se fosse
nebbia.
“Sarà meglio entrare” dirai.
A dritta vedrai il mare battere gli scogli scuri.
“Le tormente, da queste parti, sono
spaventose!” dirà Axel.
Sentirai l’ululato del vento di sudovest che
investe ogni angolo, e il tamburellare della pioggia,
e le onde innalzarsi come colline e ripiombare, e
la furia del mare rompersi contro le rocce e alzarsi
imbiancando di schiuma gli scogli, e di nuovo
scendere e alzarsi...
Siccome nella cuccetta di sotto Edwin
323
dorme, tu ed Edna rimarrete sul tuo letto.
“Raccontami qualcosa di te...” ti chiederà.
Quasi balbettando, le dirai che ti chiami
Javier Salgado e che hai studiato da infermiere.
“E questa è tutta la tua vita?”
A quel punto, inaspettatamente, sarà lei a
raccontarti la sua. L’interesse nei tuoi confronti non
era altro che un warming verso l’interlocutore, ed
era proprio questo che voleva fare fin dall’inizio,
raccontare la sua vita, come si racconta la storia di
uno Stato:
“Il paese è grigio e triste. Una strada
principale lunga circa duecento metri, una chiesa
con vetrate colorate, una fabbrica di cotone e le
case degli operai della fabbrica. Il sabato è giorno
di mercato e i contadini dei dintorni giungono per
fare acquisti e quattro chiacchiere...
Non ti dirà il nome del paese, forse perché
tu lo possa chiamare Oldandnasty Deep South. La
via principale si potrebbe chiamare The White Way,
se si meritasse un nome.
“Non c’è una stazione del treno nel raggio
di tre miglia. A dodici miglia c’è Savannah, un
324
L’amico congelato
altro piccolo paese ma più popolato. È come se il
paese fosse perso nel mondo e anche la polvere fa
male...”
Letture bibliche, il camion bianco del
venditore di latte e, alle tre del pomeriggio, con
una temperatura di 102 gradi Fahrenheit, Robert
Redford potrebbe iniziare a sparare non si sa a chi.
“Di sera, in una strada buia e polverosa
c’era il cinema e la gente ci andava in macchina.
Si sentiva il ronzio della luce in ebollizione lanciata
dal proiettore attraverso un buco della parete e i
colori si estendevano brillando sullo schermo, e
noi eravamo lì, a guardare la luce dall’oscurità,
gente solitaria, in silenzio, tutti assieme ma ognuno
immerso nel proprio isolamento...”
Le mancherà solo aggiungere che la storia e
la geografia stringono il collo alla gente...
“Sai cosa mi regalò il mio primo marito il
giorno di San Valentino? Un cuore di mucca.”
“Di mucca?”
“Sì, un cuore vero, che gocciolava ancora
sangue. Lui apparteneva a una famiglia di allevatori
e me lo portò in una scatola delle scarpe...”
325
“Ma è come regalare una prostata!” dirai.
No, la prostata di un anziano no, un cuore di
bue che sanguina in piena notte. Dovresti capire il
suo significato simbolico.
“Poi, in viaggio di nozze, andammo all’hotel
Niagara Falls. La maggior parte dei novelli sposi
del mio paese va alle cascate del Niagara in viaggio
di nozze. In realtà le cascate d’acqua sono molto
erotiche, il frastuono, la schiuma e tutto il resto...”
Dopo un po’ di tempo si erano separati, lei
era rimasta libera e, senti questa, era entrata nel
movimento per i diritti civili:
“Noi donne bianche lo chiamavamo test
sessuale, se ti negavi di fronte a una proposta
sessuale di un uomo nero, ti etichettavano come
razzista. Se accettavi, invece, ti chiamavano donna
facile, oltre a guadagnarci anche l’odio delle donne
nere. Fu un’epoca piena di allegria e delusioni,
usavamo la Coca Cola come anticoncezionale,
credevamo che l’acido carbonico fosse uno
spermicida, ma la Coca Cola provocava peritoniti
e gravi embolie...”
Poi era diventata hippy e disegnava tre P
326
L’amico congelato
sulle pareti bianche: Peace, Pussy, Pot.
“Chiedevamo Pace, Vagina, Erba. Anche
noi potevamo dire vagina come i nostri compagni
dicevano pene, loro che ci trattavano come coniglie,
dentro e fuori, dentro e fuori, dentro e fuori...”
In out, in out, in out.
“Com’era noioso!” dirà Edna.
Ti sveglierai al suono di Jingle bells e sarai a
letto abbracciato a Edna. 8:00 leggerai nei numeri
verdi dell’orologio. Ricorderai che devi preparare la
dose di Brompton e, scendendo dal letto, nervoso,
starai quasi per cadere.
Lì ci sarà Edwin, con un corpo che non è
altro che pelle e ossa, gli darai il Brompton e uscirai
fuori.
“Oggi, gallo con patate” annuncerà il cuoco.
E si siederà su un sedia a pelare patate,
accanto a un’altra sedia su cui ha appoggiato un
coltello.
“Da qui in poi, non ci sono più posti per i
galli” dirà Bobbi.
327
Prenderai il coltello e ti siederai per aiutarlo
e per ascoltare le parole del cuoco:
“Durante i viaggi verso sud, i galli iniziano
subito ad ammalarsi. Perché le giornate sono o
troppo lunghe o troppo corte, confusi, dubitano,
non sanno quando fare chicchiricchì, obbligati a
cantare fuori tempo, impazziscono, i poveretti.”
Le bucce di patate si accumuleranno nel
secchio e, tolto l’ultimo pezzo di pelle all’ultima
patata, dirà:
“Allora, se sei una persona di cuore, porterai
il triste gallo sulla strada della padella.”
E con loro arriveranno anche molti uccelli.
Passeranno davanti alla prua, da dritta a babordo
e in senso contrario, disegneranno linee rette e
curve, iperboli e improbabili angoli, ingarbugliando
tutti i postulati della geometria euclidea.
Anche tu voleresti volentieri come gli uccelli,
per prendere un’onda di vento e per scivolare con
essa, scendere fin quasi a toccare l’acqua per
risalire di nuovo in alto nell’aria.
Il cuoco svuoterà in mare il secchio pieno
di bucce di patate e il frastuono degli uccelli
328
L’amico congelato
immediatamente aumenterà, abbandoneranno i
volteggi in altezza e scenderanno velocemente
verso l’acqua. Mentre i gabbiani si rubano
rumorosamente le pelature dai becchi, scenderà
una gran procellaria nera che caccerà i gabbiani a
colpi d’ali restando la padrona assoluta.
Rimarrai sul ponte, solo. Zoccoli di vento,
nuvole disordinate, onde a pecorelle, nebbia.
L’imbarcazione procederà a salti e dondolando.
All’improvviso una grande onda ti colpirà e ti
sembrerà di ricevere uno schiaffo in faccia. Ti
porterai la mano alla guancia e toccherai un’erba
viscida, appiccicaticcia come una biscia.
“Che razza di animale è questo?”
“Non è un animale, è un’alga” ti dirà Bobbi.
Terrai in mano l’erba viscida che sembra di
gomma.
“Pare che siano così lunghe che arrivano
fino in fondo al mare” ti dirà ridendo il cuoco nero.
Viscida e lunga.
329
16
MOSTRI
Sapevo che il Direttore mi avrebbe chiamato
e stavo aspettando il momento.
Mi avvisarono in refettorio, quando stavamo
pranzando, che dovevo andare da lui.
“Proprio adesso?”
“Padre Solana ha ordinato di andarci subito”
mi disse Beixama.
“E io no?” chiese Inazito.
“No, tu no.”
Inazito ci rimase male, perché Padre
Testalucida, così lo chiamava lui, non l’aveva
convocato. Lasciai lì il piatto di riso e mi alzai. Feci
tutto molto lentamente in modo da arrivare il più
tardi possibile all’ufficio del Direttore.
Avanti, mi dissero dall’interno quando bussai
alla porta.
Era seduto dietro la scrivania e con il capo
330
L’amico congelato
mi fece cenno di sedermi. Indossava l’abito talare
ed era completamente calvo.
Sulla scrivania c’erano alcuni fogli, delle
grandi tabelle con numeri nei riquadri. Ma in mano
aveva un biglietto che teneva in un angolo.
“Nome?” mi chiese.
“Andoni Martinez.”
Andoni sarà Antonio, mi disse lui. Antonio e
poi?
“Antonio Martinez” gli dissi.
Di che classe ero, e dissi di quarta. Di IV
B precisò lui, categorico, perché faceva domande
e affermazioni senza bisogno delle risposte di
nessuno.
Appoggiò il foglietto sul tavolo e lo schiacciò
un paio di volte con il palmo della mano, come se
volesse stirare una piega.
“Tu sei uscito dal collegio, hai preso
l’abitudine di andare in giro” mi disse. “Ma con il
permesso di chi?”
“Senza permesso” gli dissi.
“Con chi esci e dove vai?” mi chiese.
Rimasi in silenzio. La cattolica pelata del
331
Direttore brillava come marmo bagnato.
E il silenzio si prolungò.
Allora estrasse un foglio bianco da sotto
un plico di fogli. Mi disse di prenderlo e, quando
l’avevo in mano, che avrei dovuto riempire le due
facciate.
“Domani dovrai riconsegnare questo foglio
scritto e spiegare con chi e cosa hai fatto in giro per
il paese...”
Uscii con il foglio bianco in mano.
Durante le lezioni del pomeriggio tenni quel
foglio davanti a me, bianco, bianchissimo. Avevamo
Lingua spagnola, piuccheperfetto del congiuntivo
ed eravamo tutti lì, di pomeriggio, seduti ai nostri
banchi di legno, scarabocchiati, vecchi, quasi
biblici, Se io fossi stato.
“A cosa ti serve quel foglio?” mi chiese Goio.
Di solito utilizzavamo quaderni a quadretti
e, Se tu fossi stato, quel foglio bianco doveva
sembrargli una cosa strana.
“Per matematica” gli dissi.
Era completamente bianco, Se egli fosse
stato, se ella fosse stata. In quasi tutte le materie
332
L’amico congelato
ci facevano scrivere la data in alto a destra nel
foglio, eccetto matematica. I fogli di matematica si
consegnavano senza data.
Per quello gli dissi che era per matematica,
per quello era così bianco. Studiavamo Geografia,
Matematica, Lingua spagnola, Scienze naturali,
Formazione dello Spirito Nazionale, Francese,
Religione, Latino, Ginnastica, e avevamo un
quaderno a quadretti per ognuna della materie. Se
noi fossimo stati.
In classe avevamo una foto di Francisco
Franco, più giovane di quello che vedevamo in
televisione o sui giornali, che vigilava da sopra la
lavagna.
Alle spalle ci guardava un Gesù Cristo
crocefisso, sempre nel momento peggiore del
martirio, osservava la nostra indifferenza come se
dicesse: Io sì, credo in voi.
Siccome, al recuperare la gomma che era
passata di banco in banco, lo sorpresero a dire
grazie, Eskerrik asko, in basco, Inazito dovette
333
scrivere cento volte sul quaderno a quadretti di
Lingua spagnola:
Non parlerò in basco durante le lezioni di
spagnolo.
Il castigo consisteva nello scrivere, che
veniva considerato alla stregua di una condanna ai
lavori forzati.
Per copiare quella frase, Inazito organizzò
un lavoro di gruppo con i compagni di collegio. Lui
scrisse dall’alto in basso la parola Non Non Non
Non Non cento volte come sostegno per le altre che
lasciò una ciascuno a noi. Esteban copiò parlerò,
parlerò, parlerò, parlerò, Beixama in, in, in. Io
copiai la mia alla destra di cinque colonne irregolari
e storte, lezioni, lezioni, lezioni, cento volte.
Poi, dalla finestra del dormitorio, guardai
Kalaportu, e ricordai i mostri della chiesa.
Soprattutto quello che, appeso e attaccato alla
parete, sembrava avesse paura di cadere. E quello
strano essere dal naso enorme e senza bocca,
che non sarebbe mai stato in grado di parlare. Alla
finestra, anch’io ero un mostro.
Dai camini delle case saliva fumo e, a
334
L’amico congelato
quell’ora, si vedeva tutto grigiastro. Avevo sentito,
durante la lezione di Scienze, che l’autunno stimola
tre sensi: la vista, l’udito e l’olfatto.
“Per gli altri due sensi devi possedere la
materia” disse Pablo Esparza, “il sapore e il tatto non
si possono sperimentare senza appropriarsi della
materia, per lo meno senza entrare in contatto con
essa. La vista, l’udito e l’olfatto, invece, possono
lavorare anche lontano dalla materia...”
Ne trasse una conseguenza stupefacente,
per questo, disse, e lo ripeté due volte, per questo
l’autunno è la stagione che più assomiglia ai sogni.
E io ero lì alla finestra, a riflettere sulla
strana logica che ci mostravano le Scienze naturali
e pensai al fumo che saliva dalle sigarette che
accendeva e poi non fumava, simile a quello che
saliva dai camini dei dintorni. Perché il fumo aveva
un modo proprio di salire, prima si adagiava sui
tetti, poi si impennava per cercare le cime degli
alberi o le pendici della montagna dove svaniva.
Nato dal fuoco chiaro del caminetto o del forno che
abbandonava, il fumo se ne andava, portandosi via
nell’aria su per il camino il tepore e la pulizia della
335
casa per lasciare il suo odore acre sulle tegole,
sugli alberi, sui tralicci dell’elettricità.
Soffiava un forte vento.
“Vediamo se fa cadere prima le foglie o i
nidi” si diceva.
Ricordai i mostri di Goienkale e, alla finestra,
anch’io ero un mostro. Testimone di quanto
accadeva attorno a me, come quel triste uomo
dal pene gigantesco o quell’altro che tirava fuori la
testa dalla botte per guardare il mondo con fare tra
l’ammirato e il burlesco.
E più in là, nel quartiere di Kaiondo, Goio
sarà stato a casa sua. Presto sarebbe arrivato
anche Andres. E la madre avrebbe infilato l’ago per
rammendare calzini, pantaloni e magliette bucate.
Il maglione di Goio aveva dei buchi su un gomito e
la madre doveva cucirgli delle toppe di pelle, Devi
voler bene ad Andres, Non gli vorrò mai bene, Devi
volergli bene perché sarà il tuo patrigno, come se
fosse tuo padre. E gli mostrò una manica, con la
toppa di pelle già cucita, ma lui nemmeno la guardò.
Goio accese la vecchia radio e non aveva in
mente altro che come, come, come... Alla radio si
336
L’amico congelato
sentivano interferenze, fischi e rumore di pioggia, la
maggior parte erano voci in lingue sconosciute che
si sovrapponevano confusamente. Parigi, Praga,
Budapest lesse mentre muoveva la sintonia, Ici
Radio France Internationale...
“Vuoi venire?” mi disse Inazito.
“Non voglio uscire.”
“Non usciremo dal collegio, andiamo a
perlustrare l’interno.”
Non fui capace di dire di no.
Inazito conosceva bene alcuni angoli proibiti
del collegio, soprattutto due, il museo degli animali
imbalsamati e la soffitta dei vecchi pianoforti. Così,
un pomeriggio, Inazito, Esteban e io percorremmo
tutto il lungo corridoio, il pavimento con la cera
faceva scriiih scriiih.
Inazito apriva con destrezza, cric cric, le
porte chiuse.
L’esplorazione alla fine ci portò alla stanza
di Padre Solana. Sapendo che si trovava nel suo
punto di osservazione, entrammo tranquillamente
337
come si entra in una postazione non vigilata.
Appena accesa la lampada da tavolo,
la sagoma della statua di legno che c’era sulla
scrivania iniziò a cambiare espressione.
“Inazito, andiamocene, ci scoprirà.”
“Guarda questa polvere.”
“E questa è la brillantina che usa per lisciarsi
i capelli, e con questa polvere si schiarisce la
pelle...”
Inazito saltò sul letto e, infilata la mano
sotto il materasso, come se fosse in camera sua,
estrasse una grossa rivista.
“Guardate queste, delle sante!” disse
indicando le immagini.
La rivista si chiamava Playboy e dalla
copertina ci sorrideva una donna bionda con delle
grandi tette.
“Andiamo, Inazito!”
“Con questa rivista, tengo per le palle
quel prete!” disse Inazito, tranquillamente steso
sul letto a sfogliare, con lunghe pause, pagine
piene di incredibili donne nude, bionde e con seni
prosperosi..
338
L’amico congelato
In quel momento si sentì un rumore. Esteban
avvisò:
“Arriva qualcuno!”
Tum tum tum si sentì rumore di passi
provenire dal corridoio buio come nei film di paura.
“Padre Solana!” disse Inazito muovendosi,
adesso sì, a tutta velocità.
Percorremmo di corsa come pazzi i corridoi
e arrivammo in camerata senza fiato.
Ci infilammo a letto e rimanemmo immobili.
Dopo una mezz’ora, mi avvicinai al letto di
Inazito e gli dissi a bassa voce:
“Non è venuto.”
“Meno male!”
“Peccato non aver preso la rivista!”
“L’ho lasciata sul letto!” disse Inazito.
“Sopra il letto? Allora sa che siamo stati
nella sua stanza.”
“No, no, credo di averla lasciata sotto il letto”
disse Inazito.
“La leggeremo la prossima volta” dissi con
complicità.
Allora, allungò la mano sotto il letto accanto
339
e prese una rivista.
“Se vuoi leggerla, eccola qua, come ti avevo
detto, sotto il letto...”
E lì avevamo la rivista Playboy.
“Gliel’hai rubata!”
“Ma va! Lui avrebbe commesso peccati
ben più gravi del nostro furto, di notte, con questa
rivista.
340
L’amico congelato
17
L’AMICO CONGELATO
Sospeso. Quando mi sono svegliata, all’alba,
mi è sembrato che l’orologio fosse sospeso in aria.
I vecchi ingranaggi continuano con il loro
incessante tic tac tic tac, antico, molto antico, dello
stesso genere di quello spiacevole tic tac che ci
ordinava di alzarci per andare a scuola. Quando
mi rendo conto delle lenzuola bianche, le pareti
bianche, il letto bianco, sento l’inquietudine e il
disorientamento di chi si sveglia in un luogo insolito.
Un’infermiera entra senza bussare.
“Mi scusi, Maribel” l’infermiera mi conosce,
“non sapevo che qui ci fosse qualcuno.”
“Sono arrivata a mezzanotte, e Goio come
sta?”
“Migliora.”
Mi alzo per andare a vedere del Rosso,
cammino lungo la Galleria dei Passi Smarriti, scriiih
341
scriiih scriiih, finché incontro Imanol Urioste.
“Com’è andato il viaggio?” mi dice in basco,
dandomi un bacio.
“Bene, e Goio?”
“Meglio, credo che abbia iniziato a rompere
le corde” dice Imanol.
Aggiunge che ha iniziato a parlare, che sta
recuperando la memoria, che fa alcune cose e
quindi potrebbe anche immaginare e pensare.
“Perdere la capacità di dimenticare,” dice
Imanol, “è più grave che perdere la facoltà di
ricordare... Ti ricordi Jario Jaramillo?”
“Sì” rispondo e ricordo Jairo Jaramillo,
il paziente che soffriva di anamnesia e non
riconosceva i visi e, quando guardava un volto,
sveniva.
“Ecco, ieri l’abbiamo dimesso” dice Imanol.
“Nell’andarsene mi ha detto che ricordava migliaia
di porte che si chiudono rumorosamente.”
Anch’io mi sono ricordata di porte chiuse
all’improvviso o con più rumore di quanto pensassi.
“Goio adesso è in terapia” dice Imanol. “Poi
ci riuniremo con lui.” Saluto Imanol e, mentre il
342
L’amico congelato
Rosso continua con la terapia, vado a far colazione.
Mi siedo a un tavolo dove ci sono un paziente con
la sua anziana madre.
Hanno del caffè e guayabas per colazione.
“Caffè, figliolo?” gli dice la madre.
“Sì, senza zucchero” le risponde il paziente
che è un uomo robusto.
Sul tavolo la zuccheriera, con una fila di
formiche. Le guayabas sono rosse dentro, proprio
come piacciono a me.
“Il caffè è già zuccherato, figliolo, una volta
messo lo zucchero non si può togliere.”
Il figliolo è un omone di una cinquantina
d’anni. Si alza e inizia a passeggiare avanti e
indietro per la sala.
“Non puoi star fermo? Calmati, figliolo, oggi
stesso ti porterà le lettere...”
“È un mese che non viene quel figlio di
puttana del postino.”
“Sarebbe venuto, se ci avessero mandato
qualcosa.”
“Cosa vuoi dire, che non ci hanno mandato
niente?”
343
“Si sono dimenticati di noi. Ognuno ha la
sua vita, i suoi problemi, le sue preoccupazioni.”
“No, no e no!” dice l’omaccione, e sembra
un bambino arrabbiato.
“Fuori nevica, ecco cosa succede!” dice la
madre. “Per questo il postino non è venuto!”
Guardo fuori stupita mentre sento i semi
di guayaba tra i denti, e vedo un afoso giorno
soleggiato.
L’omaccione cammina avanti e indietro:
“E così nevica!” dice avvicinandosi alla
finestra e, quando la apre, entra una calda
luminosità.
“Le strade, le sedie, i piedistalli sono coperti”
dice l’omone. “La neve copre i piedi delle statue.”
“Per questo non viene.”
“Per questo.”
“Ma la prossima volta ti porterà qualcosa.”
Lascio la sala da pranzo e, per raggiungere
il giardino, devo percorrere di nuovo il lungo e
solitario corridoio della Galleria dei Passi Smarriti.
E lì trovo il Rosso, in piedi nella sua
solitudine, ed è doloroso trovare un amico nel
344
L’amico congelato
giardino di una clinica, ma per lo meno è in piedi,
come gli alberi quando stanno crescendo, come
quando una persona inizia a camminare. Le sedie
e i letti sono legati alla stanchezza, al sonno, alla
malattia e alla morte, anche se a letto si può far
l’amore. Per lo meno è in piedi.
“Hai iniziato a parlare?
Immobile e in silenzio, sembra una statua di
ghiaccio con la testa di fuoco. Quando alza il viso,
nei suoi occhi vedo le colline che bruciano sotto il
sole.
“Mi hanno detto che hai iniziato a parlare!”
ripeto. “Come stai, Goio?”
Dice qualcosa ma sono suoni incomprensibili.
Inizia a ripetere l’ultima sillaba dell’ultima parola
sentita:
“Oio...”
“Come va...” dico.
E forse inizierà a cercare una parola ma
sarà un frammento privo di senso, spezzettata
come i cubetti di ghiaccio che cadono nel bicchiere
di plastica dalla macchina della Coca Cola.
“Non hai voglia di parlare?”
345
“Parlare...” dice lui, come farebbe un
bambino perso nel buio. “Dove siamo?”
Di che colore sono le sue parole? Di un
colore indefinito, sterile, simile ai residui che lascia
l’acqua del fiume.
Poi Goio resta lì, come un animale che ha
trovato secco, il ruscello dove era solito bere.
Sono andata a cercare Imanol Urioste e l’ho
trovato nel suo studio che guarda la televisione: i
giochi olimpici, un atleta che mostra la medaglia
d’oro. E la bandiera si sta alzando sull’asta, in
mezzo ad altre due bandiere, si sente un unico
inno che ha qualcosa della marcia militare e sullo
schermo si legge Sydney 2000, in sovrimpressione
sul viso dell’atleta commosso che si asciuga le
lacrime.
“Come va ?”chiedo sedendomi vicino a lui.
“Muscolatura, denaro, nazionalismo, record,
pubblicità, fama, pastiglie, come spettacolo è di
infima categoria...”
L’atleta campione ha alzato le braccia con
346
L’amico congelato
orgoglio, sotto gli anelli olimpici e, tirando fuori il
petto, taglia il traguardo.
“Lì ci sono i migliori corpi del mondo” dice
Imanol sorseggiando del gin. “Paragonati ai corpi
degli atleti, nella distribuzione generale a noi sono
toccati solo gli avanzi. Però è stata inventata anche
la vendetta...”
E si vede di nuovo la medaglia d’oro
dell’atleta, e la bandiera si alza un’altra volta
sull’asta, in mezzo ad altre due, un po’ più alta delle
altre due e di nuovo il viso emozionato e le lacrime
dell’atleta.
“Che vendetta?” gli chiedo.
“Quel poveraccio ha passato otto anni a fare
ginnastica, sacrificandosi, preparandosi per esibire
adesso il suo corpo perfetto. Guardalo, è vero che
è perfetto, paragonato a noi, che siamo fatti male...”
Mentre mostra la medaglia d’oro, in
sovrimpressione appare la torcia olimpica, fumante,
e centinaia di colombe in volo.
“Sono venuta a parlare di Goio” dico io.
“Guardalo
adesso,
sudato,
sfinito,
spaventato, distrutto, con lo sguardo perso...”
347
“Di chi stai parlando?” dico.
Nelle immagini che si ripetono, l’atleta taglia
il traguardo portando avanti il petto con un ultimo
sforzo. E Imanol inizia a ridere:
“Invece, noi che siamo fatti male siamo qui,
tranquilli e beati!”
Quando faccio per andarmene, Imanol mi
presta attenzione:
“Se vuoi, ti faccio vedere la cartella clinica di
Goio.”
Torno in camera e, quando inizio a leggere
la cartella clinica, dall’altoparlante sento chiamare
il mio nome con una voce da aeroporto:
“Maribel Lima, per favore, c’è una chiamata
per lei in portineria.”
È Arantxa. Vuole sapere quando penso
di tornate al baserri, l’ha chiamato proprio così,
casolare.
“Anche Maialen vuole conoscerti” mi dice.
“Sono arrivata oggi e adesso vorrei leggere
la cartella clinica di Goio.”
“Quando vuoi” mi dice Arantxa. “Però vieni,
348
L’amico congelato
vero, che devi insegnarmi a fare il talo10.”
“Cosa?”
“Qui abbiamo una talaburdina.”
“E che cos’è una talaburdina?”
“Come! La pala di ferro che si utilizza per
mettere l’impasto a cuocere! Abbiamo comprato
farina di mais e anche Maialen vuole assaggiare il
talo con il latte.”
Arantxa ha detto urune ed esnegaz, come si
dice in Bizkaia, talo con latte e mi sono ricordata di
quella focaccia schiacciata e rotonda che, quando
ero piccola, ogni tanto ci preparava la nonna in
inverno. Talo caldo, e ho notato in bocca l’assenza
di un sapore.
“Ci vuole della labadurea per preparare il
talo?”
“Cos’è la labadurea?”
“Labadurea? Quello che si usa per far
lievitare l’impasto.”
Non capivo perché Josu il lievito lo chiama
legamia o bentzagia. Ho imparato a Managua che,
per fare il pane, ci vuole il lievito. L’unica cosa che
10
Pane di farina di mais, rotondo e schiacciato, cotto sul
fuoco. [N.d.T.]
349
sapevo del pane era andare a comprarlo, pane
normale o pane bianco, filone o ciabatta, e pagare.
“Verrò, ma non credere che io abbia mai
fatto il talo.”
“Ahi, che pigra!” mi dice Arantxa ridendo.
La prima parte della cartella clinica di Goio
è quasi vuota. Mancano anche molti dati generali:
il nome, solo Juan, l’età, 42 anni; da lì in poi, sono
in bianco gli spazi relativi a professione, indirizzo,
amici, altre attività oltre a quella lavorativa. La
sezione successiva si riferisce all’infanzia, dove
pare che vada indicata soprattutto la patologia del
padre, ma anche questo è in bianco.
I nomi delle altre sezioni: dominio e passività,
studi, adolescenza, sessualità, lavoro, motivazioni,
profilo psicologico, correlazioni cronologiche tra la
biografia e la patologia...
La seconda parte della cartella clinica è
composta dagli appunti quotidiani. Si tratta di
impressioni scollegate scritte da Imanol, con penne
di diversi colori, ognuna con una data diversa. Sono
scritte in basco: oggi ha fatto questo, o ha detto
quest’altro, o ha ricordato la tal cosa. La maggior
350
L’amico congelato
parte delle note sono di questo tipo:
Ha trascorso la mattina seduto in giardino,
tutto solo. bbk.
Ma ci sono anche osservazioni originali, per
esempio:
“Rimanere in silenzio è un comportamento
umano legittimo e molto logico” frase che mi
sembra perfetta da pronunciare ad alta voce.
Le lettere bbk si ripetono diverse volte.
La maggior parte delle note sono state
scritte da Imanol, penso.
Scendo dal Rosso, nelle ore diafane e lente,
lunghe e vuote dell’ospedale. Sto seduta su una
sedia o cammino avanti e indietro lungo la Galleria
dei Passi Smarriti o sui sentieri di pietra di questo
giardino che sembra francese.
Arriva l’infermiera con un pacco di lettere.
“Dammi la mia!” si avvicina l’omaccione.
“Cosa vuoi che ti dia? Aspetta!”
Inizia a leggere i nomi. L’infermiera, fatto il
nome, allunga le lettere alle mani impazienti dei
351
degenti.
Il pacco si va assottigliando.
E finisce.
Chi non ha ricevuto niente se ne va
indifferente, sputando per terra, asciugandosi il
sudore dalla fronte con il palmo della mano.
“Non c’è niente per me!” dice l’omaccione,
facendo con il dito la lettera d dell’alfabeto muto.
“E cosa doveva arrivare?” gli dice uno.
Al pomeriggio vado in camera e appoggio la
testa sul cuscino dei sogni. Sono sola in una stanza
con dodici letti, e nell’oscurità ho l’impressione che
le bianche pareti si potrebbero muovere come si
muovono le bianche lenzuola.
Guardo i muri e sembra che vogliano
insegnarmi lingue dimenticate e filosofie morte.
Qui saranno rimaste intrappolate grida disperate
assieme alle eco di impacciate dichiarazioni
d’amore, ormai incomprensibili come antichi disegni
sulla parete. E guardo la parete alla ricerca di un
simbolo, in cerca di un’uscita, pensando che, nel
punto esatto in cui adesso si è posata una zanzara,
si aprirà il tunnel spazio-temporale.
352
L’amico congelato
Al mattino sento la porta aprirsi e, alla luce
della luna che filtra dalle alte finestre, vedo entrare
nella mia stanza un uomo nudo. Pelato, grasso,
sembra un fantasma e, quando si avvicina alla
finestra, la luna conferisce sfumature azzurre,
rossicce e violacee al suo corpo invecchiato
e pesante. Sembra il modello del quadro che
Armando ha sulla parete della casa di Managua.
In una nota avevo letto che il modello
aveva la meningite, la polmonite e l’AIDS, a cui
Armando aggiungeva la Nudità imponente. Resto
a guardarlo spaventata, le ombre sul suo grosso
corpo, la camminata stanca, l’oscuro dondolare del
suo sesso, il profondo abbattimento che rivelano
i suoi gesti. Rimane due o tre minuti a guardare
dalla finestra, poi si gira e lentamente se ne va,
chiudendo la porta con attenzione, facendo rumore
di zoccoli di bue lungo la Galleria dei Passi Smarriti.
E poi niente, solo un mormorio: l’acqua che
cerca un’uscita nel rubinetto, come se scendesse
lungo una gola dalla sete inesauribile; o come
l’elettricità che vuole fuggire dai cavi o un rumoroso
fuco alla ricerca della luce.
353
E resto sveglia finché i galli iniziano a
cantare.
“Ieri ho letto la storia clinica di Goio” dico a
Imanol.
“E?”
“Mi piacerebbe sapere cosa gli succede.
L’ho letta e riletta fino a farmi dolere gli occhi e
quella storia clinica è un romanzo.”
“E tu come stai?”
“Non dormo ma, per il resto, bene.”
Imanol mi dà qualche consiglio, è
evidentemente ubriaco, sebbene io non riesca a
vedere la bottiglia di gin.
“Non devi dormire il pomeriggio, non devi
bere caffè dopo pranzo, niente cioccolato, né tè
nero o Coca Cola, non fare attività fisica prima di
andare a dormire, alzati e vai a letto tutti i giorni alla
stessa ora.”
“L’ultimo mi sembra il consiglio più sensato”
gli dico. “Vorrei sapere cos’è successo a Goio.
Dovrebbe spiegarlo uno psicologo, no?”
354
L’amico congelato
“Non credo che questo sia il compito di
uno psicologo, non può spiegarti quello che non
capisce” dice Imanol, mentre prende la cartella
clinica e la ripone nell’archivio. “Cosa vuoi, che
faccia finta di capire quello che non capisco? Solo
i ciarlatani e gli idioti capiscono tutto.”
Fa qualche passo da ubriaco di qua e di là.
Ritorna, si ferma barcollando davanti a me e dice:
“O forse vuoi dare un nome alla malattia,
pensando che con un nome controllerai meglio gli
eventi?”
Rimane un attimo ad aspettare la mia
risposta prima di rispondersi lui stesso:
“Allora immaginati che l’uomo si sia
congelato, non nell’inverno della cima del Gorbeia
e nemmeno sugli scogli dell’Antartico, ma proprio
qui, in questo angolo dei Caraibi...”
“E che cos’è il bbk?”
“Bihotz Bakartien Kluba, il Club dei Cuori
Solitari” mi risponde. “È una sigla di riferimento,
scusa, le note di solito le leggiamo solo noi...
“E così si tratta del Club dei Cuori Solitari...”
dico io sorridendo.
355
“Ma non ci appartiene solo Goio” e Imanol
mi guarda con espressione dolce. “Anch’io sono
socio di questo club. Tu no?”
Accende il televisore e, Sydney 2000, resta
a guardare i giochi olimpici. Ho ricordato una per
una le parole scelte da lui: muscolatura, denaro,
nazionalismo, record, pubblicità, fama, pastiglie,
spettacolo.
“Maribel, temo che tu mi consideri un
alcolizzato senza giudizio” dice, quando in tv
interrompono le immagini sportive e inizia a cantare
Shakira.
Prende un libro dalla scrivania e me lo
porge:
“Ecco, dovresti sapere che l’alcool è molto
spirituale. Anch’esso evapora, come le credenze e
i pensieri e si deve bere il più rapidamente possibile
in modo che non svanisca...”
In tv appaiono immagini di spiagge. Su quella
di Rio de Janeiro presentano le scultore di ghiaccio
di Nelson Oliveira. Pare che faccia sculture solo di
ghiaccio, per esempio A garota de Ipanema, e le
opere vengono esposte sulla spiaggia.
356
L’amico congelato
“Non è un peccato che l’opera vada persa?”
chiede il presentatore, accanto alla scultura che si
sta sciogliendo sotto il sole.
Nella clinica è ricoverata un’altra persona
che parla basco ed è uno degli ospiti più anziani.
Sta sempre seduto davanti a una scacchiera ma
senza scacchi.
“Lei è basco?” gli chiedo in euskara.
“Manuel Loidi” mi risponde, alzando due
occhi grigi che sono due pozzi gemelli.
Sembra abbia più di cent’anni e passa il
tempo seduto davanti alla scacchiera. Mi avvicino
e vedo una formica che si muove sulla scacchiera e
lui che, ogni tanto, mette il suo vecchio dito davanti
alla formica, come se fosse un bastoncino.
“Come va?” gli chiedo.
Questo vecchio sembra un’immagine da
dagherrotipo.
“Non ha famiglia?” gli chiedo.
“Non ho nemmeno un’ombra al mio fianco.”
Conosco questi occhi? Dove ho già visto
357
questi occhi vecchi come due pozzi?
“È qui da molto tempo?”
“Abbastanza. Qui nessuno sa che anche noi
un giorno siamo stati bambini...”
“Cosa fa?”
“Con i miei reumatismi” dice con una voce
senza denti, “prevedo il tempo che farà, come i
meteorologi.”
“Ma cosa ci fa qui, con la scacchiera e quella
formica?”
“Il re, la regina, le torri, gli alfieri, i cavalli e i
pedoni sono andati persi. Adesso abbiamo solo una
scacchiera di sessantaquattro caselle. E guarda
questa formica, la vedi? Si sposta in continuazione
e quando cammina sulla casella bianca pensa che
sia giorno e quando passa a quella nera crede che
sia scesa la notte...”
Oggi ho passeggiato con il Rosso per il
giardino e nei dintorni della residenza. Un Rosso
pallido, apatico, con lo sguardo basso, che osserva
il sole che diventa cenere sulla terra secca.
358
L’amico congelato
C’è un uccello in giardino che canta in
modo diverso a seconda dell’albero su cui si posa,
quando cambia d’albero il suo cinguettio varia.
Ci sono delle formiche, risalgono il tronco
dell’albero in fila indiana fino al cuore dei frutti.
“Come ti senti?”
Ogni tanto rumore di macchine, rare. Il
profumo delle bouganvillee e il movimento dei
dantzalore, invece, è inarrestabile in un’atmosfera
che sembra eterna.
“Ti trovo meglio”, gli dico, ed è la verità.
Alcuni cactus e, erette sui loro piedistalli, le
malinconiche statue di marmo, bianche ma scurite
da un muschio sottile.
Poi siamo andati fino alla riva del fiume.
Un’anziana donna ci avvisa:
“Fate attenzione lì! Attorno a quell’albero si
aggira la Gritona.”11
La Gritona. La chiamano così e immagino i
suoi capelli simili a foglie perenni e le unghie come
quelle del cane da guardia di una regina.
“Ai tempi della violenza ci furono diversi
11
Personaggio popolare della cultura latinoamericana, usato
per spaventare i bambini. [N.d.T.]
359
omicidi in questa zona e lì, sotto quell’albero,
ammazzarono una donna incinta aprendole il
ventre con la baionetta. lanciava urla spaventose e
le sue grida rimasero aggrovigliate e legate nell’aria
e per questo tutte le sere si possono riascoltare.”
“Le vuoi sentire?” ho chiesto a Goio.
“No” mi ha risposto con un sorriso.
E siamo tornati subito alla clinica.
“Cos’è successo ai tuoi ricordi?” gli ho
chiesto.
Ci siamo seduti, si è passato una mano sulla
fronte, come se volesse cacciare un pensiero e,
raccolta tutta la retorica del suo sacco di parole, mi
ha detto:
“Mi guardo le mani, le strofino una contro
l’altra per sapere che sono entrambe mie...”
E i nostri visi sono tesi, come le nostre mani.
“Poi mi porto le mani al viso,” dice Goio, “sul
mio viso, e non sono le mie mani...”
360
L’amico congelato
“Come ti trovi?” mi chiede una ragazza.
“Cosa?”
“Se ti trovi bene qui?”
È giovane, indossa abiti neri e ha dei lunghi
capelli corvini.
“Io? Perché?”
“Tu non sei di qui” mi ha detto, “ti muovi come
se fossi fuori luogo, sembri un soprammobile...”
“Non esageriamo” le ho risposto ridendo.
“Che donna dura!”
Subito dopo ha una crisi di epilessia. Inizia
a tremare e a buttar per terra tutto ciò che trova
attorno a sé.
Alla fine rimane immobile, un rivolo di saliva
secca le esce dalla bocca come cotone, stesa a
terra a faccia in giù, come una manta.
L’abbiamo portata in infermeria su una
barella e le sue parole sono rimaste come un’eco
nella mia mente, “ti muovi come se fossi fuori luogo,
sembri un soprammobile”.
È vero che il nostro passato deve essere
opaco per le persone che ci circondano, come lo è
per noi stessi, ma io non conosco questa ragazza
361
e lei, invece, mi conosce abbastanza da capire che
mi muovo come se fossi un soprammobile.
Sono stanca e sto guardando la televisione.
Il presentatore parla della breve vita delle libellule,
nelle immagini al rallentatore si vede una libellula in
volo che occupa tutto lo schermo:
“Una vita da fiammifero, una morte da
fiammifero...” dice il presentatore.
Il giorno prima ho tracciato nella mia mente
un percorso immaginario e oggi sono andata in
città, sola, anch’io come un membro del bbk club.
Ho passeggiato per le strade di Barranquilla
e ho visto negozi, ristoranti, agenzie di viaggio,
pasticcerie, negozi di scarpe, ho bevuto un caffè.
Mi sono fermata davanti ai chioschi colorati per
leggere annunci di alimenti afrodisiaci. Proseguo
sul mio percorso immaginario ma è impossibile
perché la linea finisce, perché la linea mi conduce
a luoghi intransitabili, perché la linea si divide in
due.
Mi perdo nella moltitudine di un milione
362
L’amico congelato
di abitanti, sapendo o credendo che nessuno mi
conosce.
Quando vedo le coppie che si baciano provo
una certa invidia. I miei piedi sono due cani randagi
che deambulano per la città senza sapere dove
andare.
E al tramonto ritorno.
“Quando si fa buio, la gente viene uccisa per
strada” mi hanno avvisata.
“Non è un falso allarme” mi ha detto un altro.
Sulla strada che mi porta da Barranquilla alla
clinica, avverto degli sguardi strani. Sotto il cartello
della United Fruit Company c’è una macchina,
appena il mio taxi la oltrepassa, parte e ci segue
spudoratamente.
Arrivo inquieta, pensando che probabilmente
si tratta di un sospetto infondato, perché, in un
angolo del nostro cuore, portiamo sempre con
noi un piccolo poliziotto spagnolo grande come
una mosca. E, a volte, questo presentimento
assume un moto browniano, di qua, di là, dritto,
improvvisamente gira, ritorna, va su e giù, come
l’incessante movimento senza senso di una mosca.
363
Quando entro dal cancello di ferro, vedo la
figlia di Arantxa su in alto, che gioca con un grande
pallone colorato.
L’ho riconosciuta perché ha gridato in basco
“La palla!” quando il pallone colorato ha iniziato a
scendere pamp pump pamp giù per la collina.
Le statue grecolatine non scendono dai loro
piedistalli per fermarlo.
La palla finisce nelle mie mani.
La bambina scende correndo dalla collina.
“Tu devi essere Maialen!” le dico dandole la
palla.
“Sì” mi risponde e, presa la palla, scappa
correndo verso la macchina verde parcheggiata
poco più in là.
La bambina sale in macchina sul sedile
posteriore e i vetri scuri non permettono di vedere
all’interno, ma al volante c’è il comandante. Il
comandante dai baffi neri che sembrano un corvo.
364
L’amico congelato
18
REPUBBLICA BIANCA
Sarà lunga e viscida.
“Ho sognato che stavo sognando” ti dirà più
tardi Edna.
Chi sogna che sta sognando si sveglia subito,
scrisse Giulio Verne, anzi, Giulio Verne scrisse
che l’aveva scritto Edgar Allan Poe. Tuttavia Edna
si consumerà a lungo nei sogni, senza riuscire a
svegliarsi.
“Cosa sognavi?” le chiederai dal letto
superiore del castello.
E ti racconterà un sogno:
“Sono arrivata in una città che non
conoscevo.”
“Che città?”
“Non lo so, forse non era nemmeno una città
reale...”
“E sei arrivata sola?”
365
“Sola soletta.”
“Come si chiama questa città?”
“Non lo so.”
“Ma non ci viveva nessuno in quella città?”
“Sì, ma c’era una strana atmosfera per
iniziare a fare domande.”
“Così non hai chiesto niente?”
“No.”
“E cosa hai fatto in città?”
“Sono andata alla ricerca di una piantina o
di una cartina ma, siccome non avevo una cartina
per sapere dove trovare una piantina mi risultava
impossibile. Allora mi sono resa conto che stavo
sognando ma, quando mi sono svegliata, ho capito
che ero dentro un altro sogno. E allora mi sono
svegliata...”
Chiedile se stavolta è sicura di aver toccato
terra.
Non glielo dirai. Salirai in coperta.
L’imbarcazione avanzerà pal pal sempre dritta.
Avrai l’impressione che tutto quello che galleggia
lo fa perché è contro natura. Pezzi di sughero,
bottiglie vuote, scialuppe, perché ciò che è naturale
366
L’amico congelato
va a fondo.
Quel giorno vedrai l’isola degli Ona. Lì ci
sarà ancora lo scheletro rinsecchito di ciò che
sarebbe potuto essere una città, il molo puntellato,
costruzioni di pietra e di ferro diroccate, vagoni
merci rovesciati...
Ti racconterà la storia degli Ona, iniziando
dall’epoca in cui indossavano solo un pezzo di
pelle di guanaco. Scoprirono il fuoco e gli bastava
coprirsi il corpo con grasso di foca. Così protetti, non
avevano bisogno di indumenti e, sebbene fossero
nudi, non sapevano cosa fossero il raffreddore, la
tosse o l’influenza.
Allora arrivarono gli scopritori che stavano
ampliando il mondo, e i religiosi, gli scienziati,
i militari e i colonizzatori. I missionari anglicani
giunsero su questa costa australe con l’intenzione
di fare qualcosa per gli indigeni e li concentrarono
tutti su quest’isola. Se, fino ad allora, gli ona
avevano lavorato per piacere o per necessità
biologica, da quel momento in poi dovettero farlo
367
obbligatoriamente e con la forza, nell’industria del
carbone a loro sconosciuta.
Erano abituati a dormire nudi vicino al
fuoco ma i missionari anglicani gli portarono letti
e coperte. E fu così che iniziarono ad ammalarsi.
Quando li obbligarono a vestirsi, la loro salute
iniziò a peggiorare, ma il vero disastro arrivò con il
sapone.
Ai missionari anglicani non piaceva l’odore
degli Ona e benché nemmeno agli Ona piacesse
quello dei missionari, questi ultimi li obbligarono
a usare il sapone per strofinarsi e lavarsi il
corpo. Con il sapone persero la protezione del
grasso di foca e iniziarono a morire. Gli Ona non
avevano conosciuto fino a quel momento il virus
del raffreddore portato dai bianchi, i batteri della
polmonite, la sifilide. Senza cure per tutto questo,
iniziarono a tirare le cuoia uno dopo l’altro.
La rivoluzione industriale sull’isola degli
Ona fu breve perché, una volta morti i lavoratori, i
padroni se ne andarono. E perché, alla fine, se ne
andarono anche i missionari anglicani. E, passato il
tempo, troverete una chiesa distrutta costruita con
368
L’amico congelato
pietra di antracite, le miniere di carbone, i vagoni
rovesciati sui binari abbandonati, gli scheletri di
ferro, il vecchio molo.
Un mattino avrete anche una sorpresa.
Quando, avvisato da Edna, salirai in coperta,
vedrete una nave da guerra che vi aspetta. Non
molto grande, ma il cannone a prua vi spaventerà.
“Sono cileni” dirà John.
Pensando che ispezioneranno la barca,
il nostromo darà l’ordine di spegnere i motori.
Rimarrete ad aspettare:
“Hanno problemi di acque territoriali...”dirà
Axel.
Farà freddo e il cielo sarà limpido. Migliaia
di uccelli bianchi volteggeranno sopra le vostre
imbarcazioni e ti sembreranno ancora più bianchi
alla luce obliqua del sole.
La bandiera del Cile ondeggerà al vento
sull’albero maestro. I militari cileni, una volta fatta
esibizione della loro bandiera, se ne andranno.
Anche voi riaccenderete i motori e
369
proseguirete il vostro viaggio sulle acque piatte del
mare. L’acqua sarà color indaco, come quello che
utilizzava tua madre per sbiancare i panni. Ogni
tanto, qualche gabbiano scenderà in picchiata, con
le ali raccolte, come fosse una zavorra persa, per
poi rialzarsi di nuovo in volo, a volte con un piccolo
pesce, altre con il becco vuoto.
Di notte, il vento di libeccio inizierà a soffiare
con forza e porterà una bufera di neve.
“È il benvenuto dell’Antartide”, così dirà,
dalla sua sedia a rotelle, un Edwin più pallido che
mai.
Il mare si infurierà. Le onde inizieranno
a sommergere l’imbarcazione, l’acqua invaderà
paurosamente il ponte annegando tutto ciò trova.
Il giorno successivo, invece, salirai in coperta
e il mare sarà un regno in quiete. Temperatura di
zero gradi, tempo freddo e limpido.
Il giorno dopo, si vedranno due cime di
ghiaccio su una mare molto scuro, i primi due
iceberg.
370
L’amico congelato
“Le prime sentinelle della Repubblica
bianca...” dirà qualcuno.
Non saranno gli unici. Presto inizieranno ad
apparirne altri all’orizzonte, con uno spaventoso
realismo, la testa alta e maestosa nel loro lento
viaggio. E osservare con i tuoi occhi quello che
tante volte avevi visto in fotografia, al cinema o in
televisione, ti sembrerà onirico, quasi irreale.
Axel farà i calcoli con il sestante, come si
calcola la declinazione del sole: si innalzano di
venti metri sulla superficie dell’acqua.
“La parte nascosta dell’iceberg, cioè la parte
che rimane sott’acqua, è l’altezza che vediamo
moltiplicata per nove.”
Per non urtare con quello che vi si avvicina,
dovrete girare il timone, ma non di molto, siete di
fronte all’architettura più sorprendente e allo stesso
tempo più priva di valore.
Ancora sulla via dell’Antartide, guardando
quelle montagne di ghiaccio, ti pervaderà la
sensazione di essere già arrivato.
Qualcuno spiegherà che sono pezzi
staccatisi dalla banchisa dell’Antartide, che
371
possono essere enormi e che si spostano alla
deriva spinti dalle correnti marine più che dai venti.
Il tempo sarà bello e lo spettacolo meraviglioso.
L’Antartide sorriderà e, sotto un cielo azzurro terso,
sulle bianche cime di ghiaccio i raggi del sole
mostreranno i colori dell’arcobaleno.
Nel tramonto senza fine dal cielo
scenderanno sorprendenti tende di luce.
“Com’è il mare?” chiederà Edwin.
“Meraviglioso.”
Assieme a un’incredibile bellezza, questo
paesaggio e una luce perenne anche di notte,
daranno vita a un ambiente fantasmagorico.
Succederà all’alba.
“Uomo in mare!” si sentirà gridare.
“Uomo in mare!” ripeterà qualcuno ancora
più alto.
Guarderai il letto sotto il tuo e, vedendo che
è vuoto, ti alzerai e uscirai correndo.
“L’ho visto cadere” ti dirà il timoniere che
guarda l’acqua da poppa, “ma non ho potuto far
372
L’amico congelato
niente.”
Edna arriverà nervosa e con il foulard sulla
bocca, andrà da dritta fino a poppa e da babordo
a prua, facendo tutto il giro dell’imbarcazione e poi
ripeterà il percorso al contrario.
“Ha dato la sua vita all’acqua” dirà il
timoniere.
Il nostromo darà ordine di fermare le
macchine e di tornare indietro. L’acqua sarà
silenziosa e scura come inchiostro pesante.
“Ho parlato con lui” racconterà il timoniere.
“Gli ho detto che faceva freddo e lui mi ha risposto
No, non fa molto freddo. Ho visto che stava
armeggiando con una delle ancore ausiliari, ma non
ho dato importanza alla cosa, non mi sono accorto
che stava togliendo la catena. Poi l’ho visto sul
ponte laterale, che cercava di sollevare l’ancora.
Quando mi sono reso conto che aveva una corda
legata alla vita, sono corso verso di lui ma è riuscito
a lanciare l’ancora ed è caduto in mare trascinato
dal peso...”
Anche gli scienziati si riuniranno in coperta
per verificare la debolezza della scienza di fronte
373
alla morte.
“Sono acque profonde, sicuramente sta
ancora andando a fondo...” dirà Axel.
Le facce saranno serie ma sul viso di Edna
sarà visibile solo il dolore, anzi, la paura.
“Cosa facciamo?” chiederà qualcuno.
“Cosa vuoi fare, bere qualcosa e...” dirà il
nostromo. “Poi proseguiremo il viaggio.”
Tutt’attorno, l’acqua sarà una lastra grande
e scura. Let´s have a wake dirà Bobbi.
“Cosa significa wake?” gli chiederai.
“Riunirci tutti e” dirà il cuoco, “restare fino a
domani mattina a parlare del morto, a divertirci, a
raccontare storie e a ridere.”
Scenderai in cabina con Edna. Prenderai
le medicine, il Brompton e le pomate e le riporrai
nell’armadio.
“Senti cos’ha sottolineato nel libro” ti dirà
Edna.
Leggerà un passo di Heart of Darkness di
Joseph Conrad:
374
L’amico congelato
“Ho lottato con la morte. È il combattimento
meno eccitante che si possa immaginare. Si svolge
in un grigiore impalpabile, con niente sotto i piedi,
niente attorno, senza testimoni, senza clamore,
senza gloria, senza il gran desiderio di vincere,
senza il gran timore della sconfitta, in un’insalubre
atmosfera di tiepido scetticismo, senza una ferma
convinzione nel proprio diritto e meno ancora
in quello dell’avversario. Se è questa la forma
suprema della saggezza, allora la vita è un enigma
più grande di quanto alcuni di noi pensano che sia.”
La festa che deve durare fino al mattino
inizierà già nel pomeriggio quando, tutti riuniti sul
ponte, il nostromo ci farà un discorso.
Soffierà un vento freddo.
“Non so cosa sia la morte” dirà il nostromo
nella sua preghiera scientifica. “Ma so che non siamo
sempre stati il corpo che siamo adesso. Siamo
formati da particelle che hanno vagato a lungo e
da cellule che si uniscono in noi. Con la morte,
gli elementi di cui siamo costituiti scioglieranno i
375
loro legami e torneranno all’oceano dell’esistenza.
Si dissolverà l’essere umano che siamo stati e i
nostri frammenti si integreranno di nuovo, ognuno
a modo suo, nella massa dell’esistente. Non è
vero che quando finisce la vita di un essere umano
inizia la morte, quando la vita finisce, ha fine anche
la morte...”
“Affabulatore”! Dirai sottovoce, per la
capacità oratoria e le conoscenze che dimostra.
“Adesso, cinque minuti di silenzio!” ordinerà
il nostromo.
E quel silenzio verrà spezzato solo
dall’indifferenza del mare e dal verso grae grae di
alcuni uccelli bianchi.
Poi tin-tin, la gente in coperta comincerà ad
alzare il bicchiere e a parlare. Absolut Vodka, un
sorso dopo l’altro, e le discussioni accademiche si
mischieranno a storie divertenti, il tono delle voci si
farà più alto, risate per qualsiasi battuta e, absolut
sadist, gli occhi annebbiati.
Edna guarderà il mare con occhi di vetro e
l’acqua sarà di uralite.
A te si annebbierà subito la vista, sarai così
376
L’amico congelato
ubriaco da iniziare a parlare in basco:
“Bere izenean eta gure gizenean,12”
sussurrerai, così come la lingua antica e lontana ti
riporterà alla mente.
John Masefield, ormai sbronzo, ti dirà che
vuole raccontarti una barzelletta macabra:
“Me l’ha raccontata Edwin, quando eravamo
a Chiloé, un monaco buddista l’aveva raccontata a
Billy Burroughs” ti dirà barcollando. “Billy Burroughs
la raccontò ad Allan Ginsberg, e Allan Ginsberg
a Edwin. Questo Billy Burroughs non è il famoso
William Burroughs, ma suo figlio. Billy Burroughs
non godeva di buona salute e i medici gli avevano
consigliato un difficile intervento. Pare che si fosse
recato da un monaco buddista a chiedere consiglio
e pare che il monaco gli avesse detto, Dopo
l’operazione sarai vivo o sarai morto, entrambe
sono una buona opzione...”
Poi andrete in gruppo nella cabina del
timoniere.
“Allora, ci lasci guidare?”
12
Formula tradizionale per brindare: A lui e alla nostra
fortuna! [N.d.T.]
377
E il timoniere ti lascerà il comando
dell’imbarcazione.
“Attento, Javier, non siamo altro che una
banda di disperati!” dirà uno.
“Io ero marinaio già da piccolo!” risponderai.
Prenderai il timone e gli altri se ne andranno:
“Andiamocene da qui, prima che questo tipo
ci faccia naufragare!”
ll timoniere rimarrà al tuo fianco un momento,
come se non si fidasse di te. Ma, alla fine, anche
lui se ne andrà e finalmente rimarrai solo, ubriaco,
padrone del timone, che era quello che volevi.
Thanks God, dirai in inglese, imitando un
politicante repubblicano di Deep South, I’m free
and he’s an asshole...
E nel lontano orizzonte senza nome di questo
mare, scorgerai il cammino di casa e là in fondo il
pane e il caffelatte, e il silenzio di candeggina delle
scale, e il tuo popolo sarà ancora lì e andrà avanti
nella sua tenace lotta di resistenza.
Il tuo Paese sarà là, come una vecchia
barca, staccato dalla terraferma e sforzandosi
inutilmente di riprendere la navigazione.
378
L’amico congelato
E con lo sguardo cercherai un albero, una
donna, un lembo di terraferma ma non vedrai altro
che l’acqua di questo mare che, mentre ti lascia
aperte tutte le strade, allo stesso tempo ti impedisce
di raggiungere terra.
E con il sapore di sale sulle labbra inizierai a
cantare una melodia che hai imparato da Edwin:
For wathever we lose,
like a you or a me,
it´s always ourselves,
we find in the sea…
E adesso sei tu la tua dinastia, i tuoi genitori,
tu sei i tuoi figli e il ricordo che non ti trova. Sei la
mano che fa male e allo stesso tempo la mano che
cura, avanti libero e al posto di comando, ice will, ti
sentirai il timoniere di un iceberg.
La notte sarà breve e buia, tuttavia si
vedranno le stelle. Polvere di stelle.
“Notte di stelle, mattina di guai” ricorderai il
proverbio dei pescatori di Kalaportu, e dirai ad alta
voce, “domani fottuto.”
379
Il giorno dopo sarà quello successivo alla
vigilia.
Ti sveglierai con bruciore di stomaco. Vedrai
Edna che si alza dalla cuccetta sotto la tua.
“Guarda lì!” sentirai dire dal ponte.
A un quarto di miglia dalla prua si potranno
vedere due enormi schiene nere che si immergono
e riappaiono a intervalli regolari disegnando il mare.
Si avvicineranno e diventeranno più grandi
e ogni tanto lanceranno in aria spruzzi d’acqua.
Una delle due balene sarà molto grande, al
suo fianco una più piccola. Forse saranno madre e
figlio. Passeranno lentamente a babordo, ogni tanto
daranno un rumoroso colpo di coda per immergersi
come se non avessero motivo di temere nessuno.
Spariranno a poppa nel mare lungo, vasto,
profondo.
380
L’amico congelato
19
LA NAVE DI KAIOARRI
Al mattino, la maggior parte della gente
dormiva e l’alba arrivò troppo puntuale.
“Svegliati!” disse la madre a Goio.
E Goio si svegliò. Vide i vetri appannati della
finestra e decise di continuare a dormire. Pensando
al freddo che doveva fare fuori, rimase ancora
un po’ al tepore delle coperte e si addormentò di
nuovo.
Dopo essersi alzato, aver preso l’acqua nel
palmo delle mani ed essersi lavato il viso, indossò
gli abiti che sua madre gli aveva lasciato sulla
sedia, bevve il caffelatte che gli aveva preparato e
rimase a guardarla. Poi scesero assieme le scale,
lei andava al porto a cucire reti e Goio a scuola.
All’angolo di Kaiondo si separarono e Goio
continuò a guardare indietro, benché ci fosse la
nebbia, seguiva sua madre con lo sguardo e poi
381
lo posò su un gatto, perché all’angolo della strada
c’era un gatto morto, schiacciato dalla ruota di
un camion, e nessuno si era preso la briga di
raccogliere o buttar via quel cadavere lacerato e
bagnato, steso pancia in su, le zampe anteriori
aperte, come il Cristo sul crocifisso della scuola, le
zampe posteriori inerti, allungate come se stesse
saltando.
Faceva freddo e c’era la nebbia. In quel
periodo che precedeva l’inverno, la nebbia arrivava
frequentemente, soprattutto dalla terraferma.
Quella che scendeva dalla valle si chiamava
“nebbia di latte”, si diceva che venisse da Eibar
e che fosse il fumo del latte bollito nelle case che
arrivava fino al mare, più lento e disperso del fiume
che proveniva da quella cittadina industriale.
Quando il professore di latino faceva
l’appello, invece di rispondere Presente, bisognava
dire adsum.
“Emilio Mina.”
“Adsum!”
“Ignacio Michelena.”
“Adsum!”
382
L’amico congelato
“Antonio Martinez.”
“Adsum!”
A Padre Mendive piaceva così. A volte,
invece di fare latino, dovevamo leggere la vita di
qualche santo. Dava il libro a un alunno e ognuno
di noi leggeva un passo e poi doveva passare il
libro a un altro. A pagina 67, e questo lo sapevamo
tutti, c’era una banconota da cento pesetas di cui si
vedeva un angolo fuoriuscire dal bordo del libro.
Alla fine della lezione verificava a pagina
67, per vedere se avevamo superato la prova della
banconota e in questo modo rendevamo felici lui e
anche Dio. E poi iniziavamo a salire la difficile scala
delle declinazioni, nominativo qui genitivo cuius,
dativo cui, accusativo quem, o a scendere verso
il basso con i verbi irregolari, volo, nolo, malo, o
attraverso le orazioni subordinate da ordinare
con la consecutio temporum, scio quid feceris, so
cosa hai fatto, sciebam quid fecisses, sapevo cosa
avevi fatto, scio quid facias, so cosa stai facendo,
sciebam quid faceres, sapevo cosa facevi, scio quid
facturus sis, so cosa farai, sciebam quid facturus
esses, sapevo cosa avresti fatto.
383
A volte tra di noi scoppiavano le guerre
puniche, da una parte i romani e dall’altra i difensori
di Cartagine, quando in classe iniziavano le
manovre e il fragore bellico, le nostre armi principali
erano le cerbottane per lanciare palline di carta e
chicchi di riso.
Una volta ci diede per compito una frase
in latino per la lezione successiva. Io e Goio
scegliemmo assieme.
Dopo aver letto Catullo, io scelsi questa:
Quem basiabis? Cui labella mordebis?
Padre Mendive ascoltò e non fece commenti.
Sulle sue sante labbra apparve un’espressione di
schifo, di allegria e di rabbia, tutto assieme mentre
diceva Un altro, un altro, un altro.
Allora Goio disse: Mollior cuniculi capillo.
E Padre Mendive iniziò di nuovo Un altro, un
altro, mentre ci guardava infuriato, prima uno, poi
l’altro.
“Ci sono molti demoni mascherati da angeli”
disse. “Ma io ho un detector di demoni!”
Inazito, finita la lezione, chiese a Goio cosa
significassero quelle frasi.
384
L’amico congelato
Quel giorno a ricreazione non giocammo
a pallone in cortile. Quando pioveva andavamo
al coperto e giocavamo lì, come se giocassimo
a pelota a mano, con il pallone che ormai era
bagnato.
Iniziavamo in una quarantina, tutti assieme,
e chi commetteva un fallo veniva espulso.
E Inazito utilizzava sempre, per qualsiasi
situazione, le frasi:
“Chi hai baciato? A chi hai morso le labbra?”
chiedeva a tutti.
In altre occasioni rimaneva a pensare e
ripeteva come uno stupido:
“Più morbido del pelo del coniglio...”
Poi entrammo alla lezione di FEN e,
siccome non c’era l’insegnante, iniziammo a tirarci
pezzi di gesso presi dalla lavagna e la battaglia
infuriò. All’inizio i lanci erano abbastanza deboli,
poi più forti e alla fine dei tiri da professionisti.
Quando Clemente entrò in classe, la guerra ebbe
immediatamente fine, lui si diresse corrucciato alla
385
pedana della cattedra da dove poteva osservare
la situazione dopo la battaglia. Zumalde, come
sempre, fu l’ultimo a sedersi, per via delle sue
dimensioni: ad ogni passo schiacciava un pezzo
di gesso scrich scrich e non poteva nascondere le
grasse dita imbiancate.
Clemente López iniziò a illustrare i risultati
sociali del regime, ci disse che all’operaio
corrispondeva il nome di produttore, che la parola
operaio era stata manipolata per ingannare i
lavoratori, mentre noi continuavamo con il nostro
gioco, lanciando pezzi di gesso o minacciando di
farlo, finché l’insegnante, con il viso rosso, quasi
paonazzo, alzò il braccio da culturista e picchiò
il pungo sulla cattedra, sbam, poi gridò con uno
sguardo da domatore da circo:
“Qui, chi comanda sono io! Nessun altro ha
il diritto di parlare in classe!”
Il silenzio fu breve. Inazito mi passò un
foglio con la caricatura del professore, in posizione
da culturista, mostrando i suoi poderosi muscoli.
Alle cinque del pomeriggio, uscendo, io e
Goio appendemmo quella caricatura al portone
386
L’amico congelato
con una puntina da disegno.
A quell’ora la scuola sembrava un drago
gigantesco che vomitava i ragazzi ingoiati alle otto
del mattino, che uscivano in gregge, urlando come
capretti appena liberati dalla bocca del drago.
Quel giorno, sulla porta, incontrammo
Ariane:
“Anch’io vado verso Zubieta” disse Goio.
“Allora andiamo assieme” disse Ariane
sorridendo e incamminandosi.
E Goio la seguì con una gran allegria e assai
nervoso.
“Cosa te ne pare delle lezioni?” gli chiese la
professoressa.
“Interessanti” rispose lui balbettando.
Continuò in silenzio. Ma poi avrebbe colpito
un sasso con la punta della scarpa e calpestato
con forza le foglie secche per fare un po’ di rumore.
A quei tempi, Ariane occupava già la
maggior parte dei pensieri di Goio. Dov’era, quando
sarebbe apparsa, dove l’avrebbe incontrata. Era
387
innamorato, ma l’amore non era il sentimento
tenero e dolce che si poteva immaginare, gli incontri
e le passeggiate con Ariane erano caratterizzati da
un pesante silenzio più che dalla melodia dei film
francesi di Alain Delon e BB.
Da quando erano finite le lezioni private,
qualunque scusa era buona per avvicinarsi a
Zubieta. Da scuola a casa, aveva una buona ragione
per passare da lì, ma anche la sera, quando usciva
di casa, si incamminava verso Zubieta e passava
sotto il balcone dell’appartamento di Ariane senza
avere il coraggio di chiamare. Ariane sarà stata
dentro, a leggere un libro o ad ascoltare musica e
Goio si sarebbe seduto in un qualunque angolo a
guardare quella casa, un étrange pays dans notre
pays lui-même, nel silenzio del suo idillio.
Un pomeriggio, seduto in un angolo del
cantiere navale, Goio vide Ariane avvicinarsi,
non veniva dalle case di Zubieta ma dalla zona di
Kaioarri, ed era con Felipe, l’oste del porto. Uno
accanto all’altra, chiacchieravano, camminavano
al buio sulla riva, come se venissero dal fondo del
mare.
388
L’amico congelato
Goio ne fu molto sorpreso, gli venne un
nodo in gola e non fu capace di salutare né di
pronunciare una sola parola.
Come se fosse una delle mostruose statue
portata da Goienkale al cantiere, rimase lì ad
aspettarli, con la staticità di una pietra, cercando di
nascondere con l’indifferenza il dolore al cuore.
“Buonasera!” disse Felipe.
“Buonasera!” disse Goio.
“A domani!” disse Ariane.
Anche loro erano nervosi e a disagio come
Goio.
La Bella e il Grasso, Ah merde alors! Goio
rimase lì con espressione stupita, rabbia e odio,
a guardare l’oscurità di Zubieta verso la quale si
allontanava la coppia.
Venivano da Kaioarri. E Goio andava
proprio lì, non riusciva a togliersi dalla mente quella
ragazza, come se l’ombra di Ariane avesse smesso
di seguire il suo corpo e volesse accompagnare
Goio.
389
In ogni caso, non sarebbe andato a
controllare dove passeggiava la coppia. Sarebbe
andato all’imbarcazione.
Kaioarri si trovava all’entrata del porto, e
dall’alto degli scogli si vedeva tutto: le barche da
pesca e le scialuppe semiaddormentate, cullate
dalla marea, ogni tanto sembravano emettere un
sospiro.
Il mare era calmo, le onde si frangevano
contro le pietra della riva e l’acqua aveva mutato
il colore verdeazzurro del giorno in quello della
pece. All’estremo del molo si trovava la nave,
quell’imbarcazione che Goio chiamava sua, legata
da tempo in un angolo, con la chiglia sul fondo,
inclinata con la bassa marea e abbandonata.
Goio era sceso molte volte nella stiva e nella
sala macchine, aveva preso la ruota del timone tra
le mani e aveva fatto muovere, a destra e a sinistra,
il pesante corpo di quell’animale, senza paura di
rompere le gomene legate al molo.
Goio conosceva molto bene la sua
imbarcazione. Lo scafo di prua era completamente
arrugginito, ma lui aveva letto, o forse immaginato,
390
L’amico congelato
il nome della nave, Esmirna, nome che,
sicuramente, aveva ostentato attraversando i mari
per anni. Tuttavia lui l’aveva sempre vista lì, come
un elemento del paesaggio di Kaioarri e di nessun
altro luogo.
Aveva sentito dire da qualche vecchio o da
un amico che la Esmirna si trovava a Kaioarri da una
decina d’anni, che i marinai l’avevano volutamente
fatta incagliare nei fondi rocciosi, con tutto il carico,
perché l’armatore greco proprietario della nave
preferiva ricevere i soldi dell’assicurazione piuttosto
che mantenere quella vecchia carcassa di ferro.
L’armatore avrebbe incassato i soldi, l’avevano
rimorchiata e portata al piccolo molo di Kaioarri per
smantellarla e portarne i pezzi a una fonderia, ma
era ancora lì, arrugginita, come un elefante giallo,
senza che nessuno sapesse fino a quando, come
se fosse sempre stata lì, legata a quel molo tra
pietre e onde instancabili.
I ragazzi vi si avvicinavano tutti i giorni, per
giocare, soprattutto d’estate. La sera, le coppie di
innamorati che non avevano una stanza entravano
in una delle sue cabine sgangherate a fare l’amore.
391
Forse, a notte fonda, qualche ubriaco vi
cercava rifugio, pensando che a quell’ora la moglie
non gli avrebbe aperto la porta di casa.
392
L’amico congelato
20
IL DESTINO DEI CORMORANI
Mentre starete navigando nel mare esteso,
lungo e profondo, apparirà un’isola. O sarà forse
un altro iceberg? No, sarà la terraferma e avrà un
nome Deception island.
Prima di attraccare sull’isola, il nostromo
riunirà l’equipaggio per informare dei pericoli che
bisognerà evitare, fornire un elenco dei possibili
incidenti e farvi firmare un documento.
“Sono l’unico responsabile di tutto ciò che
farò a terra e delle conseguenze delle mie azioni...”
leggerà.
Dopo aver firmato, il nostromo dirà che
ognuno sarà responsabile della propria vita. E,
solennemente, firmerete con nome e cognome la
dichiarazione.
“Questa è la burocrazia australe...” dirà Axel
ridendo.
393
L’isola Deception un tempo è stata un
vulcano, prima di spegnersi ed essere sommerso
dalle fredde pianure di acqua dei mari australi...
“I viaggiatori di molto tempo fa trovarono
delle acque termali” dirà Axel. Eric Sorensen, per
esempio, trovò dell’acqua a 69 gradi centigradi.”
“Sembra un bel posto” dirai.
“Chissà chi e perché l’ha battezzata così”
dirà Axel.
La parola Deception in inglese non significa
solo delusione ma anche inganno.
“È sempre stata un buon porto e un buon
rifugio” dirà un marinaio, “quando il vento bianco
rompe gli alberi dei velieri o quando il mare
ghiacciato si stringe come una morsa attorno alla
chiglia della nave...”
Raggiunta l’isola, vedrete che è di pietra
nerissima, nelle zone libere dal biancore della neve
e dall’azzurro dei ghiacciai. Entrerete in una baia
a forma di ferro di cavallo quasi chiuso, passerete
in mezzo a impressionanti rocce a strapiombo che
chiudono l’entrata e, all’interno del cratere, troverete
la quiete e, se non fosse un’esagerazione, un po’
394
L’amico congelato
di tepore. Anche il colore e l’odore cambieranno
completamente nell’addentrarvi dopo lo stretto
accesso, le acque della baia saranno rossicce e il
cattivo odore sempre più forte.
Vedrete subito due velieri che stanno
arrivando. Uno porta a rimorchio una grande
balena, l’altro, che batte bandiera norvegese, vi si
avvicinerà. E non sarà come incontrare la gente
per strada a Bluefields o a Barranquilla: ti sentirai
emozionato e preoccupato.
Il capitano, con un inglese regale, vi inviterà a
entrare e così vi inoltrerete nella baia incredibilmente
bella, circondata quasi completamente da alte
pareti di roccia nera. In questa bocca interna del
vulcano distrutto, prima di arrivare alla fabbrica, ti
renderai conto che il rosso dell’acqua è sangue.
“Cosa c’è in acqua?”
“Che schifo!”
Sulla superficie galleggeranno ovunque
pezzi di balena morta. Ci sono anche balene
intere, vicino alle barche, che aspettano di essere
squartate. Sopra la porta di una baracca di legno si
leggerà il nome della compagnia:
395
JACOBSEN & BROTHERS CO.
Ci saranno un veliero a tre alberi, due navi
a vapore attraccate e altre due in arrivo. Sull’acqua
sangue, grasso e petrolio. Un fetore nauseante in
tutta la baia.
Il nostromo ti chiamerà. Axel, tu e lui
scenderete e andrete a casa del responsabile della
compagnia.
Si tratterà di un uomo raffinato in giacca e
cravatta:
“Swen Foyn” si presenterà stringendovi la
mano.
Un salotto elegante, il caminetto acceso,
tepore. Indosserà il cappotto e verrà con voi al
veliero.
“Il nostro strumento” dirà.
A volte ti sembrerà ironico, altre arrogante.
“È la nostra arma” continuerà. “Se siete degli
scienziati, saprete che noi milionari lo siamo grazie
alle armi che inventiamo.”
396
L’amico congelato
A prua vedrete un minaccioso cannone di
ferro:
“È un lancia arpioni” dirà Swen Foyn.
“L’arpione è attaccato ad una alzaia. Quando si
conficca nel corpo della balena, la punta si apre ed
esplode un piccolo artefatto. Così la balena muore
subito.”
Swen Foyn sorriderà accanto al suo
cannone.
“Prima, anche con l’arpione infilzato, la
balena riusciva a scappare e trascinava con sé
le barche. La balena ferita si immergeva in acqua
profonde oppure attaccava e sollevava la barca
sulla sua schiena e spesso era capace di strappare
le funi degli arponi portandoseli via con sé.”
Indicando la zona industriale dirà:
“Abbiamo un chiatta di tremila tonnellate e
sessanta lavoratori.”
Il signor Swen Foyn si mostrerà orgoglioso
delle sue imprese.
“Ci sono troppe balene e abbiamo poco
tempo. Perché l’industria sia competitiva, bisogna
usare il quaranta per cento del corpo di una balena
397
e l’altro sessanta per cento, che vale meno,
dobbiamo lasciarlo lì, buttarlo.
Pare che abbiano iniziato a lavorare nella
fabbrica a novembre e che andranno avanti fino a
febbraio:
“A fine febbraio finisce l’estate australe e
inizia il brutto tempo. Allora ci spostiamo a nord,
verso i canali magellanici a Ushuaia...”
Swen Foyn sembrerà molto arrabbiato a
causa delle tasse che devono pagare a tre o quattro
governi diversi:
“Dobbiamo pagare le tasse all’Inghilterra,
perché le isole Falkland sono loro, ma dobbiamo
pagarle anche all’Argentina, che chiama Malvinas
le isole e le considera sue...”
Ed elencherà gli svariati problemi di proprietà
di quelle isole praticamente disabitate.
“E tu, sei infermiere?” ti chiederà più tardi.
“Sì.”
“Allora ti presenterò il nostro nuovo medico.”
Terminata la visita alle navi conoscerai il
medico, Harald Uppdal.
“È la prima volta che mi imbarco e sono
398
L’amico congelato
stupito, non capisco questa nostra industria del
sangue...” dirà in inglese.
È norvegese, si tratta di un medico appena
laureato e non ti sembrerà molto contento. Con
una tristezza infinita, guardando con i suoi occhi
verdi la baia rossa, dirà:
“Sono venuto sul pianeta sbagliato...”
I punti migliori per attraccare sono occupati e,
siccome la puzza di balena morta è insopportabile,
deciderete di uscire dalla baia alla ricerca di un
altro rifugio dove poter gettare l’ancora.
Un altro stretto, a sud-ovest dell’isola,
che si aprirà come un lago, conseguenza di un
altro cratere vulcanico. In base ai calcoli di Axel,
l’entrata della baia misurerà una ventina di metri
di larghezza, con sei o sette metri di profondità
all’inizio e più di centoventi in mezzo.
“Questo posto è abbastanza stretto e poco
profondo, e questa è una bella cosa se possiamo
entrare senza problemi, perché non possono farlo i
grandi blocchi di ghiaccio” decreterà il nostromo.
Si rivelerà un buon porto perché, una volta
attraccato, sarete al riparo da tutti i venti, ma anche
399
lì ci saranno resti di balene morte, macchie di nebbia
di sangue rossiccio sulle acque azzurre; prede
recenti che esalano una fetore forte e ripugnante.
Vicino alla cala troverete una spiaggia nera,
senza neve fin dove arriva l’alta marea. Tra le pietre
scure vedrete salire del fumo.
Il nostromo vorrà dare un nome alla baia.
“Ma sicuramente ce l’ha già, anche se noi
non lo conosciamo” dirà qualcuno.
In alcuni punti si vedrà del fumo. Quando
Axel ti dirà che deve indagare quelle fumarole,
gli risponderai che lo accompagni. Troverete
molte bocche di vapore e di acqua calda. Axel ne
misurerà la temperatura, una esce nel paesaggio
gelato a 67 gradi. L’altra a 63...
Poi inizierete a cercare il muschio su per le
rupi, anche se verrete attaccati dai cormorani. Vi si
avvicineranno e dovrete difendervi con i sacchi che
avete con voi.
“Crederanno che vogliamo togliergli il nido,
penseranno che, se stiamo cercando il muschio,
finiremo per prenderci anche i loro nidi che sono
fatti di muschio...”
400
L’amico congelato
I cormorani sono uccelli intrepidi e non sarà
facile cacciarli.
Poi ti siederai sopra le rocce e, con la baia
e la nave lì sotto, rimarrai a guardare i cormorani.
Hanno il corpo rotondo e il collo lungo, la schiena
nera e il petto bianco, sono pescatori straordinari.
Hanno un volo lento e molto basso e, quando
vedono un pesce, si buttano immediatamente a
caccia, si immergono in profondità e poi escono
dall’acqua in volo con il pesce stretto nel becco.
Mentre osservi il paesaggio e i cormorani,
arriverà il cuoco.
“Cosa pensi di fare?” gli chiederai vedendolo
salire con il fucile in mano.
Bobbi Endicott rimarrà in silenzio fino ad
aver recuperato fiato. Allora inizierà a preparare il
fucile.
“Mi piace lo stile di vita semplice e
comunitario dei cormorani. Sono un bersaglio
facile” dirà ridendo.
Scenderete scivolando sul ghiaccio.
Quel giorno cenerete cormorano. Ma la
battuta di caccia sarà prima della cena e assai più
401
crudele.
“Il fegato di cormorano è molto saporito” vi
avviserà in anticipo il cuoco.
Ma non ti piacerà sentire gli spari bang bang
e vedere come cade a terra il cormorano morto.
Axel ti racconterà delle cose sui cormorani:
“I cinesi li allevano per sfruttare la loro
capacità di pescare. Gli mettono un anello di
metallo al collo in modo che non possano inghiottire
il pesce che catturano. I pescatori cinesi, sulle loro
imbarcazioni di bambù, portano due o tre cormorani
addestrati. I cormorani tornano alla barca con un
pesce nel becco. Solo ogni tanto, i pescatori cinesi
gli tolgono l’anello al collo e danno al cormorano un
pezzo di pesce.
“Se il cormorano scappasse, con quell’anello
al collo non potrebbe mangiare niente, no?”
“Ovviamente no, ai cormorani non resta
altro da fare che accettare questo lavoro.”
Pensa. E allora rifletterai sul destino dei
cormorani.
402
L’amico congelato
21
NON È LA FINE DEL MONDO
Mi sembrava che fosse sempre lo stesso
viso. A scuola Goio passava il tempo a disegnare
volti ai margini delle pagine del libro e trovava
spazio anche sulla tatuata superficie di legno del
banco e al mattino, quando i vetri delle finestre
erano appannati, li disegnava anche lì: mi sembrò
che tutti quei visi fossero quello di Ariane.
Quando bisognava formare le squadre
di calcio, Goio aveva sempre qualche scusa per
non giocare. Non avevamo più il portiere alto con i
capelli rossi che si lanciava come Iribar o Yazhin per
prendere i palloni. A Goio il calcio non interessava
affatto.
“Cosa ti succede, Goio?” gli chiesi durante
l’ora di latino.
“Niente.”
“E la ragazza?”
403
Stavamo facendo dei commenti al De bellum
gallicum, i soggetti del verbo appellantur pareva
fossero Celtae e Galli. Nostra lingua, la nostra
lingua, ipsorum lingua, la loro lingua...
“Che ragazza?”
“Non so, una qualunque.”
“Non ho ragazze.”
“E Ipse?” gli dissi, e capì subito lo scherzoso
gioco di parole in latino.
“Lei, quale?” chiese.
“Quale vuoi che sia!” gli risposi io.
E Goio divenne rosso come un pomodoro
schiacciato.
Rimaneva sulla porta della scuola, sembrava
confuso, leggermente impaurito, come se stesse
guardando le foglie dell’autunno che, con i primi
venti dell’inverno, cadevano dagli alberi di fronte.
Rimaneva ad aspettare Ariane, con la
speranza di poterla incontrare come per caso:
“Vai a casa?” le avrebbe chiesto Goio.
E l’avrebbe accompagnata fino a Zubieta.
A volte Ariane arrivava chiacchierando
con qualcun altro, una volta la vide andarsene
404
L’amico congelato
con l’odioso Clemente López. Altre volte, invece,
usciva di fretta, quasi correndo, senza dare a Goio
il tempo nemmeno di avvicinarsi. Così la seguiva,
camminandole dietro e seguendo le tracce dei suoi
passi come un bandito dei film western.
Un giorno, nella nebbia, perse le tracce di
Ariane. Non si vedeva niente a un palmo di naso.
Oltrepassò Zubieta e anche al porto c’era nebbia
attorno alle barche, sempre più spessa e pesante,
sempre più fantasmagorica. I passanti a terra si
muovevano come ciechi, così come le barche in
acqua, e solo il rumore e le voci dimostravano la
loro presenza.
Goio trovò sua madre al molo, da tempo
non andava a trovarla sul lavoro, lei stava cucendo
le reti, con altre sei donne, afferrando l’ago con il
guanto.
“San Simone e San Giuda, è arrivato
l’inverno” disse una di loro.
Il giorno era grigio e il freddo entrava anche
dal naso.
“E le barche non rimarranno ancorate” le
rispose un’altra.
405
Stavano per arrivare le corte e funebri
giornate d’inverno, preannunciate dalla nebbia.
Quel giorno Goio decise che l’indomani sarebbe
andato a casa di Ariane.
Come tutti i giovedì, Ariane aveva un giorno
libero e sarebbe stata a casa. Alle dieci del mattino,
quando uscimmo a ricreazione, benché gli amici
l’avessero chiamato per giocare a calcio, Goio se
ne andò.
Fino a quell’ora avevamo avuto lezione di
FEN.
“Tu sei innamorato!”, gli dissi, mentre
Clemente López spiegava la democrazia organica.
Goio spalancò i suoi occhi di ghiaccio.
“Ma figurati!” disse.
Poi, mentre noi ci infangavamo giocando a
pallone, lui andò a Zubieta. Si sarebbe fermato un
instante davanti a casa di Ariane, con l’inquietudine
di un mare in piena e avrebbe pensato che ormai
era tardi per tornare indietro. Avrebbe sentito il
rumore stridente della sega del cantiere navale e
406
L’amico congelato
avrebbe guardato il porto come se fosse l’ultima
volta che lo vedeva, nel momento in cui una nave a
vapore salpava dal molo.
Salì le scale dell’edificio e, agitato, suonò il
campanello. Dopo pochi secondi apparve Ariane,
in camicia da notte e con i capelli spettinati.
“E tu cosa ci fai qui? Perché non sei a
scuola?”
Goio aveva l’espressione di chi non avrebbe
voluto essere lì.
“Entra” disse Ariane.
Era completamente buio, dalle finestre
socchiuse non entrava la luce, o per lo meno così
sembrò a Goio. Fu sul punto di chiederle perché
non le aprisse, ma non ne ebbe il coraggio...
“Ti piace questa musica? È Georges
Brassens” disse Ariane.
Il giradischi stava funzionando, girava, ma
Goio non si rendeva conto di nient’altro che della
presenza di Ariane.
Quando si sedette, Ariane lasciò scoperte le
cosce e Goio divenne sempre più nervoso. I seni
di Ariane erano perfettamente disegnati sotto la
407
camicia da notte leggera, proprio come nei film.
“E cosa vorresti?” chiese Ariane.
Ariane si era appena messa il rossetto rosso
e Goio si sarebbe sentito più a suo agio a guardare
le gambe, i seni e il viso di Ariane, se Ariane fosse
stata la fotografia di Ariane, ma averla di fronte era
terribile.
“Sei scappato da scuola?”
“Sì, dovevo venire qua.”
“Cos’è successo? Ti aiuterò, se posso. Cosa
succede?”
Goio aveva le guance in fiamme e un nodo
alla gola. Ariane si alzò dal divano e tolse il disco.
“Sono innamorato di te” disse Goio.
La frase cadde come un sasso nell’acqua
immobile, espandendo onde silenziose in tutta la
sala.
Ariane rise, una risata leggera e triste, e con
la mano si strinse la camicia da notte sul petto.
“Ollalà!” disse. “Preparerò un caffè.”
Goio rimase solo nel silenzio della sala,
confuso. Si sentiva il bambino più stupido del
mondo.
408
L’amico congelato
Ariane tornò con il caffè fumante. Anche lei
era nervosa. Guardò Goio negli occhi, una dolce
sensazione di paura si era impossessata di lui.
“Ahi, ragazzino” disse Ariane con la sua
voce dolce, “tu hai appena iniziato a vivere e hai
imparato a dire “ti amo”, ma quando diciamo “ti
amo” non sempre è il paradiso e nemmeno la fine
del mondo.”
On dit je t´aime mais ça n´est pas toujours le
paradis et ça n´est pas la fin du monde.
Goio era accanto ad Ariane e avrebbe dato
la vita per rimanere così a lungo.
“Fra noi due non è possibile quella cosa
che si chiama amore. Ho ventiquattro anni e sono
troppo vecchia per te. Sei ancora un bambino,
forse per questo sei così curioso...”
Gli prese la mano e lo accompagnò fino alla
porta. Nell’aprirla Ariane gli dette un bacio sulle
labbra, stringendogli forte la mano nella sua e lui
appoggiò le gambe contro le rotonde cosce di lei,
Goio sentì le sue morbide labbra sulle sue e, con
gli occhi chiusi, le socchiuse alla ricerca della sua
lingua bagnata e tiepida. Come un cieco che tocca
409
una parete che non conosce, Goio cercava un
ignoto umido, morbido e senza ostacoli.
“Torna a scuola!” gli ordinò allora Ariane.
Allontanò da sé il ragazzo che scese le scale
come un automa.
“Non tornare mai più!” gli disse Ariane sulla
porta.
Goio uscì e, dopo la catastrofe, tornò a
scuola.
Quando vedemmo arrivare Goio, la
ricreazione era finita ed era già iniziata la lezione
successiva. Chiese il permesso di entrare e si
sedette corrucciato vicino a me.
“Dove sei stato?” gli chiesi.
Eravamo con il professor Patricio, lezione
di Geografia, con i nostri atlanti e quaderni aperti,
cercando di distinguere la geologia dalla geografia
fisica, la geografia botanica, la geografia umana, la
geografia economica.
Inazito fu il primo a rendersene conto,
quando guardò indietro dal suo banco:
410
L’amico congelato
“Hai mangiato caramelle rosse!” disse.
Goio aveva dei segni rossi agli angoli della
bocca.
La geografia umana studia la popolazione,
in senso ampio, comprende la geografia storica,
economica, politica eccetera.
Ma Inazito aveva un altro tema:
“Chi hai baciato, di chi hai mordicchiato le
labbra?”
Inazito era molto più attento alla realtà
umana.
“Più morbide del pelo di coniglio...” disse
Inazito.
“Figlio di puttana!” lo insultò Goio preso da
un gran nervosismo.
“Racconta, racconta!” insistevo io al suo
fianco.
E, senza dire niente, Goio mi assestò un
pugno nelle costole che mi lasciò senza fiato.
Allora gli detti un calcio:
“Ti ho chiesto solo di raccontarmelo!”
Il professor Patricio si accorse del nostro
litigio e, con la parola geodinamica appesa alle
411
labbra, ci cacciò fuori dall’aula. Uscimmo senza
rivolgerci la parola e ce ne andammo in direzioni
contrarie, io verso il dormitorio e Goio fuori.
Era iniziato l’inverno e presto sarebbe
arrivato il Natale.
Io avrei trascorso le vacanze a Bilbao. Goio
e sua madre sarebbero andati al casolare dai
nonni.
Mio padre venne a prendermi in macchina.
Sulla strada c’era poca neve. Credevo che
avremmo messo le catene, ma mio padre non lo
fece.
“Perché vai così piano?” gli chiesi.
“Perché ci sono stati molti incidenti!” mi
rispose.
Il viso appoggiato al finestrino, il naso
schiacciato contro di esso, speravo di vedere
macchine accartocciate come fisarmoniche dopo
l’incidente.
Arrivai a Bilbao triste, perché non avevamo
messo le catene.
Fu un Natale come tanti altri. Quando arrivai
a casa, il presepio era già pronto in corridoio.
412
L’amico congelato
Lampadine colorate, muschio, il fiume fatto con la
carta argentata del cioccolato Zahor o Elgorriaga,
casette di gesso, il pastore con le pecore, Gesù
bambino nella culla e Maria e Giuseppe, il bue e
l’asinello e, ad un angolo del paesaggio, ancora
lontani, i Re Magi, e poi la neve di ovatta.
Le melodie tradizionali, gli annunci natalizi e
gli auguri.
Le statuine a volte cadevano e dovevo
rimetterle in piedi, soprattutto le pecore e i Re.
I Re, quell’anno, mi portarono un montgomery
verde.
“Come cresce questo ragazzo!” disse il
nonno a Goio appena lo vide, la vigilia di Natale.
Goio, vergognandosi un po’, guardava le tacche,
la sua al di sopra di tutte quelle dei suoi cugini e
al di sopra di tutte le sue anteriori. La prima tacca
rimaneva adesso all’altezza delle cosce.
L’agnello era legato sotto la scala, un
bell’agnellino bianco che beee beee non la
smetteva di belare, come se intuisse il destino che
413
lo aspettava. Goio rimase a giocare con l’agnello,
anzi a fargli compagnia, perché l’animale era troppo
spaventato per capire il gioco.
Poi vide come lo uccidevano e gli toglievano
la pelle. Quando il coltello affilato fu pronto, l’agnello
si mise a belare violentemente. Lo sguardo
dell’animale era affranto, gli occhi annebbiati, il suo
sangue tiepido schizzò ovunque prima di essere
raccolto nel catino. Lo appesero a un gancio a
testa in giù e senza fatica tolsero la pelle a un corpo
rossiccio.
Il nonno si sedette a capotavola per la cena,
c’erano anche la madre, gli zii e le zie, i cugini
piccoli. Goio avrebbe mangiato la sua porzione di
carne, tra gli assassini, e avrebbe messo via gli
astragali13 per giocarci. Mangiarono anche fagioli e
noci. Dopo cena, il nonno si sarebbe arrotolato una
sigaretta, l’avrebbe accesa e fumata lentamente.
La nonna non era a tavola perché era
ammalata. Goio avrebbe passato molte ore di
quelle vacanze accanto al suo letto, mentre lei
prendeva il rosario tra le mani rugose come tralci di
13
Piccole ossa delle zampe dell’agnello. [N.d.T.]
414
L’amico congelato
vite e faceva scivolare i grani ad uno a uno tra le su
dita.
La notte di capodanno, con i bambini e le
bambine del quartiere, andò in giro a cantare e a
chiedere un’offerta di casolare in casolare. L’ascia
è fuori dalla porta, è il cantare che qui ci porta, qui
abbiamo cantato tanto, adesso andiamo in quello
accanto.
Nel casolare vicino, l’edera cresceva sulle
vecchie pareti, approfittando delle crepe e degli
spazi fra le pietre. Faceva freddo e vicino alla porta
della stalla fermentava il letame fumante.
Quando fece buio, si accesero le lanterne.
“Porta la balena!” disse una ragazza.
“Cos’è la balena?” chiese Goio, perché così
aveva capito, balena.
“Balena è l’olio per le lampade.” disse la
ragazza.
Altri casolari erano semiabbandonati.
Parti del tetto erano crollate e i rovi e le ortiche
crescevano libere fino alle stanze del primo piano.
Si cantò anche a casa, dopo cena, sebbene
la nonna fosse a letto. Forse cantarono proprio
415
perché a lei piaceva quella melodia natalizia
intonata dal nonno, sua madre, la vicina Joakina
e Goio, Vieni, vieni a casa ragazzo, a mangiare le
castagne. Quando, ormai notte, guardò fuori dalla
finestra, nevicava copiosamente. In quel lungo
dopocena si cantò anche Voga voga marinaio, che
lontan dobbiamo andar. Fu una grande nevicata,
la neve continuò a cadere incessantemente come
se volesse coprire tutto per l’eternità e gli tornò alla
mente uno dei sei o sette versi che avevano cantato
sulla porta del casolare di Mugertza, in quel giro
pomeridiano di casa in casa: Bianca orlata di scuro
la sottoveste, di un bel rosso la gonna, non c’è
niente che possa onorare come te questa piazza,
o donna. Anche lui era tra i cantori, anche se stava
zitto, ed erano tutti lì, all’entrata della casa, eccetto
la nonna.
Al mattino successivo, con l’anno nuovo,
prima di scendere a Murelaga a prendere la
corriera per Kalaportu, trovò il nonno nella stalla.
Goio guardò dalla porta e, nell’oscurità, lo scorse
seduto sullo sgabello sotto la zampa della mucca
e, quando si avvicinò, sentì i colpi dello zoccolo
416
L’amico congelato
dell’animale sul pavimento e lo sciiff sciiff del latte
caldo che cadeva nel secchio di metallo.
Un’altra mucca iniziò all’improvviso a
pisciare, accanto a Goio che sentì gli schizzi caldi
di quella cascata gialla. Quando andò a salutare la
nonna, l’anziana e magra donna dai capelli bianchi
gli disse dal letto:
“Prendi quella scatola dall’armadio, figliolo.”
Goio le porse la scatola e la nonna, tra
medaglie e monete vecchie e ammuffite, estrasse
una piccola fotografia.
La nonna appoggiò la vecchia foto sul palmo
della mano di Goio, la chiuse con le sue dita deboli
e deformate, in modo che la tenesse stretta e disse
alcune parole che gli fecero sentire un brivido che
nemmeno il più rigido degli inverni gli aveva mai
provocato:
“Tu vivi lontano e non mi vedrai morire,
prendi la mia fotografia, così potrai vedermi anche
quando me ne sarò andata.”
Gli occhi della nonna brillavano in modo
strano, per via della febbre. La paura attanagliò
tutto il corpo di Goio, come la più fredda delle
417
morse. Anche lo zio Gregorio lo stava guardando,
da quella fotografia appesa alla parete, con uno
sguardo senza età e senza preoccupazioni.
418
L’amico congelato
22
IL DOLORE DELLA MANO AMPUTATA
Rifletterai sul destino dei cormorani e,
il giorno dopo, uscendo dalla baia, avrete un
incidente. Sulla superficie dell’acqua viscere di
balena si impiglieranno nell’elica e nell’ancora
e Malcom, che ha iniziato a ripulire la catena
dell’ancora, scivolerà e cadrà contro la cubia. Si
ferirà gravemente a una mano.
Uscirete in mare aperto con un tempo grigio
industriale e le acque saranno calme, soffierà
un vento costante di libeccio e vi appariranno
numerose cime di ghiaccio che dovrete schivare.
Poi scorgerete un’isola meravigliosa, simile a
una piramide bianca costruita e poi dimenticata
da qualche antica civiltà. Il nostromo la chiamerà
Casablanca e vi fermerete per vedere cosa
contiene una cassetta che sembra fatta per
lasciarci messaggi. Getterete delle ancore speciali
419
per il ghiaccio, due a dritta e una a poppa, un’altra
a babordo e un’altra a prua.
Il giorno dopo andrete a vedere cosa c’è
in quella scatola, perché chiamarla cassetta della
posta è esagerato. Un vecchio pezzo di legno
incastrato tra le pietre, alcune lettere scritte chissà
quando e ormai cancellate. Una bottiglia rotta e, al
suo interno, un messaggio illeggibile su un foglio
bagnato quasi distrutto, si vedrà solo qualche resto
d’inchiostro slavato sulla data.
Sopra, una specie di coperchio biancastro.
Penserai che è muschio grigio, oppure muffa:
“Non è muffa, sono piume d’uccello” ti dirà
Axel.
Sarà il nostromo ad aprire la bottiglia.
“L’unica cosa che si può leggere è l’anno,
questo è un 12, credo sia una lettera del 1912...”
Il paesaggio sarà fantastico. Si capirà che
le rocce sono di un colore grigio scuro, perché in
alcune zone sono visibili sotto il manto di neve e
di ghiaccio. Non ci saranno colori, non ci sarà il
verde dell’erba e nemmeno toni che ricordino la
terra. Solo il bianco e il grigio che appariranno in
420
L’amico congelato
centinaia di sfumature diverse.
Così deciderete di lasciare anche voi
una lettera. Discuterete su cosa scriverci. Alla
fine scriverete solo la data, che venite dall’isola
Deception e siete diretti al continente dei ghiacci.
“Speriamo che i prossimi riescano per lo
meno a decifrare l’anno” dirà qualcuno.
Ma con il tempo anche l’anno svanirà.
Chiuderete la bottiglia-cassetta e andrete
agli scogli dei pinguini. Vi arrampicherete legati
con la corda, perché la neve sarà dura e scivolosa.
Arrivati sulla cima della collina, sentirete il vento
sferzante ma lo sforzo per risalire il pendio
sarà ripagato, perché potrete ammirare un vero
spettacolo: dalla cima fino al mare, rocce ricoperte
di animaletti bianchi e neri.
Edna, stanca e allegra, dirà:
“Guarda che uccelli, hanno addirittura il
frac.”
Vedendoli camminare sulla neve ti
ricorderanno i vecchi film comici, soprattutto per
il modo di incedere e di cadere: Charles Chaplin,
Buster Keaton, Stanlio e Ollio, e una lunga lista di
421
attori. Si muovono, inciampano, perdono l’equilibrio
e prendono un forte colpo per poi fermarsi qualche
metro più in là. Allora, seri e dignitosi, guardano
dove sono caduti quasi a individuarne la causa.
Poi proseguono il loro cammino, con indiscutibile
perseveranza, per inciampare di nuovo subito dopo
e ricadere muso a terra.
Saranno tantissimi. Axel farà ricorso alla
sua attitudine matematica, quanti pinguini ci sono
per metro quadrato, moltiplicato per tanti ettari,
calcolerà a occhio e croce che ce ne saranno circa
sessantamila.
Scenderete fino a raggiungerli e non sarà
facile muoversi sulle rocce, perché spesso sono a
strapiombo sul mare, e là sotto le onde colpiscono
con prepotenza e tenacia. Dovrete scendere senza
aver dato un’occhiata tecnica verso il basso.
I piccoli dei pinguini e i pinguini adulti,
questi goffi e impacciati uccelli che non possono
volare, camminano a passi corti, con la loro
simpatica andatura, dondolandosi, le piccole teste
chine, per scendere uniscono i piedi e fanno dei
saltelli aprendo le loro ali che sono come braccia
422
L’amico congelato
atrofizzate. Nelle zone dove c’è la neve ed è difficile
mantenersi in piedi, si sdraiano in fila a testa in giù
come se si lanciassero da uno scivolo. Anche in
acqua ci saranno molti pinguini, tra onde altissime,
e avranno il loro daffare per tornare a terra. Spinti
da una di esse, forse riusciranno ad aggrapparsi
a uno scoglio, ma l’onda successiva li coprirà
trascinandoli di nuovo in mare.
“Devo esaminare i nidi dei pinguini” dirà lo
scrittore John Masefield.
Vi chiederà di aiutarlo, dirà che deve
conoscerli per poterli descrivere.
“Siamo in epoca di cova delle uova, vuoi
rovinare la famiglia?” dirà Axel.
Nonostante ciò, vi avvicinerete tutti alla zona
dove ci sono i nidi. Sono strutture semplici: con il
becco portano alcuni sassi e formano delle profonde
cavità protette dalle pietre. Quando proverete a
guardare le uova, i pinguini si arrabbieranno. Ma
John vorrà osservarle a tutti i costi e, infilatisi dei
grossi guanti, senza temere le beccate, prenderà i
pinguini per la coda e li allontanerà dal nido. Farà
così di nido in nido, seguito dal gruppo formato dagli
423
altri, cacciando le famiglie ed esaminando le uova.
Si sentiranno i versi, i richiami e la rabbia delle
madri dei pinguini, mentre i maschi rimarranno lì
vicino, seri e buffi.
Appena ve ne andrete, le coppie torneranno
ai loro nidi. Il maschio, stirando e torcendo il
collo, mostrerà il suo amore alla femmina, la
madre, appollaiata sopra l’uovo, ricambierà con
un atteggiamento altrettanto affettuoso, entrambi
gracchiando.
“Guarda che amore!” dirà Edna.
“Le meraviglie del matrimonio, senza
dubbio...” dirà Axel.
Benché indossino un abito elegante e
sembrino puliti, nell’aria ci sarà una puzza intensa,
per via delle uova rotte.
“Cosa hai scoperto sulle uova?” chiederai a
John.
“La maggior parte sono intatte ma, quando
un uovo si rompe, quello che i genitori covano non
è che una specie di massa grigia...”
John vorrà fare una fotografia, lui ed Edna
tra i pinguini. Si metteranno in posa per essere
424
L’amico congelato
immortalati nel futuro, perché questa immagine
sarà futuro quando il passato sarà passato, e sarà
passato quando il futuro passerà.
“Cheese...” dirai, ma siccome il guanto è
troppo grosso non riuscirai a fare lo scatto.
Ti sfilerai il guanto e le punte delle dita ti si
appiccicheranno alla parte metallica della macchina
fotografica e, nel breve tempo necessario a
infuocare l’immagine, calcolare la luce e staccare il
dito, il vento e il freddo ti provocheranno un terribile
dolore alle unghie.
Risalirete con difficoltà fino alla cima della
montagna, poi scenderete dall’altra parte perché
sarà più facile. Tornerete giù come su uno scivolo,
sdraiati a pancia in su e scivolando verso il basso;
sarà come una caduta libera senza direzione né
possibilità di frenare e a gran velocità. Quando
arriverete in fondo, chiuderete gli occhi per via
della polvere di neve alzata con i piedi e avrete le
giacche a vento rotte sulla schiena.
425
Dopo qualche giorno, un pomeriggio, ti
daranno una notizia inaspettata: è la vigilia di
Natale, un annuncio clamoroso. In un angolo della
sala da pranzo ci sarà l’albero di Natale, verde, con
le lampadine colorate, coperto di piccole candele e
addobbi.
“Oggi, per cena, pinguino” annuncerà Bobbi.
“Da dove hai tirato fuori questo pino?”
chiederà qualcuno e il cuoco risponderà con un
sorriso.
Si apriranno scatolette, si stapperanno
bottiglie.
Ooman beans, dirà Axel, it´s shameful.
La carne di pinguino non ti piacerà, ti
sembrerà amara come un tradimento. Nemmeno
ad Axel piacerà.
“Ovunque vada, l’essere umano ha sempre
un coltello in tasca...”
A terra non è facile che si crei questa
atmosfera. Nella cena di festeggiamento dentro
426
L’amico congelato
l’imbarcazione non c’è tavolata né tovaglia bianca.
Non passerai al tuo vicino il vassoio con il cibo,
non ballerai. Ognuno si metterà dove può e come
vorrà. Su una sedia, sopra il tavolo o il bidone della
spazzatura. Si prende una bottiglia e si offre, ma da
lì in poi sarete tutti invitati e padroni di casa.
Per il dopocena, il nostromo avrà preparato
un discorso:
“Questo inizio di millennio per noi è stato
generoso, felice e di successo. Quest’anno
abbiamo realizzato il nostro sogno, siamo venuti
all’Antartide e, in questo momento, molta gente
si ricorderà di noi. Siamo un po’ tristi, perché non
siamo a casa nostra, anche se, nella nostra patria,
c’è un sacco di gente che vorrebbe essere qui. In
futuro festeggeremo ancora questo giorno, però
questo non lo dimenticheremo mai...”
Come ricordo, vi regalerà una cartolina
eccessivamente kitsch. Campane dorate, fiocchi di
neve, angioletti con la sciarpa:
Merry Christmas
and a happy new year!
427
E, per concludere il discorso non finito,
proporrà un brindisi:
“Come ho detto, il nostro primo sogno si
è realizzato, venire all’Antartide. Preghiamo che
anche il secondo si realizzi. Il nostro secondo
sogno, per completare il primo, sarà tornare a
casa...”
Si suoneranno la fisarmonica e la chitarra,
se qualcuno saprà farlo, e si ascolteranno
conversazioni sempre più esilaranti.
“Sai che Giuseppe sta piangendo vicino alla
culla?”
“Perché?”
“Perché voleva una femmina.”
Risate e alcol. E quella notte apparirà la
nostalgia. Se esiste la nostalgia, quella notte
apparirà.
In piena discussione, qualcuno tirerà
fuori una cartina e, appoggiandoci la punta del
dito, nominerà l’isola di Victor Hugo e la baia di
Pendleton, e l’isola di Casablanca e, tra altri vari
nomi, Beascoecheia Bay.
428
L’amico congelato
Ti avvicinerai alla cartina, perché quel
nome, in modo segreto, ti riporterà alla tua lontana
terra, al tuo piccolo e mite Paese che non ha un
colore proprio né linee di frontiera nel grande
mappamondo, e penserai che anche lì adesso è
inverno, ma molto più mite dell’estate australe, che
sarà buio, senza una luce obliqua che dura tutto il
giorno e che la gente, dopo cena, starà cantando
canti tradizionali e non avranno certo bisogno di
guardare una cartina.
Allora canterete fino a rimanere senza voce
e anche chi non conosce le parole si sgolerà fino a
coprire la voce del cantante:
How I missed her, how I missed her
How I missed my Clementine
But I kissed her littler sister…
I canti da ubriachi e le discussioni quasi
accademiche si prolungheranno fino al mattino,
what precisely, if, perhaps, but, e resti di
bestemmie. La notte di bagordi sarà chiara, perché
il sole si nasconderà solo un attimo sotto la linea
429
dell’orizzonte per sorgere di nuovo subito dopo.
Mentre starete facendo colazione, con una saporita
frittata di uova di pinguino, dall’isola Deception
arriverà un’imbarcazione.
Saranno i cacciatori di balene norvegesi:
“Un nostro compagno ha avuto un incidente
e veniamo a cercare l’infermiere.”
“Ma non avete un medico a bordo?”
“Harald, il nostro medico, ha rinunciato ed
è tornato in Norvegia una settimana fa, adesso
siamo senza medico.”
“Cos’è successo?”
“Uno dei nostri si è troncato le dita di una
mano.”
“Vengo con te” ti dirà Edna.
Ti renderai conto che non hai il diritto di
scegliere se andare o no. Partirete a mezzogiorno,
tu, lei e Axel.
Axel indicherà l’isola che si scorge dove
finisce l’acqua, quando sarà ancora solo un punto
smarrito in lontananza.
430
L’amico congelato
“Deception Island, 66º,56´ di latitudine sud,
60º,40´ di longitudine ovest, 19 chilometri da nord
a sud, 15 da est a ovest e 50 chilometri quadrati...”
ll punto bianco che si scorgeva in lontananza
si andrà avvicinando, diventando sempre più
grande, finché non entrerete nell’insanguinata baia
e vi troverete nella zona industriale norvegese. Di
nuovo quelle tristi acque rossastre, resti di balena
ovunque e l’insopportabile fetore.
Il marinaio ferito si troverà nella casa del
direttore e Swen Foyn vi darà il benvenuto mentre
vi spiegherà che non hanno più un medico e tutto il
resto. Il poveraccio, che si chiama Tarje, lo troverai
sdraiato a letto, con tre dita della mano sinistra
amputate.
“È arrivato il medico, Tarje!” gli diranno i suoi
compagni.
I moncherini delle dita mancanti saranno
in cancrena e la mano sinistra tremerà come un
ranocchio sottoposto a tortura.
“Bisogna amputare...” dirai.
Questo lo sanno, per quello sono venuti
a cercarti così lontano, sperando che tu sia
431
abbastanza generoso e in grado di amputare una
mano marcia. E adesso cosa farai, tu, che non hai
mai avuto il coraggio nemmeno di separare con un
coltello la carne dall’osso?
Digli che lo facciano loro, con la destrezza
con cui tagliano a pezzi il corpo di una balena.
“Gli strumenti chirurgici sono a sua
disposizione” ti dirà Swen Foyn.
Il profondo nervosismo ti farà sembrare un
chirurgo professionale:
“Aiutami a dargli il cloroformio” chiederai a
Edna.
L’operazione verrà preparata alla svelta.
Sapendo che non è facile l’asepsi in un ambiente
di carne e grasso marci, prenderai eccezionali
precauzioni igieniche. Ancor prima di iniziare
l’operazione, Tarje avrà perso conoscenza.
Avvertirai che Edna ti osserva, tappandosi il naso
e la bocca con un fazzoletto bianco. Nervoso,
prenderai il seghetto affilato tra le mani.
Poi la mano marcia finirà nel catino, come
un rospo squartato da un bambino cattivo.
Il giorno dopo il malato starà meglio. Avrà
432
L’amico congelato
la febbre, più di 38, ma gli dirai che è normale e
gli prescriverai degli antibiotici. Anche se pulirai e
benderai bene la ferita, in queste condizioni l’asepsi
sarà impossibile.
“Non muoverti” gli dirai, ormai notte.
Non può rimanere fermo, gli fa male la
punta delle dita, le dita, tutta la mano. E muovendo
la mano che non c’è più, il dolore sarà ancora più
intenso.
Il sole praticamente non tramonterà, a
mezzanotte declinerà sfiorando il pelo dell’acqua
e poi ricomincerà ad alzarsi. E, accanto al sole,
anche la luna sarà là in alto, come fossero fratello
e sorella. Ti sarà difficile prendere sonno.
Anche Edna si siederà con te, accanto a
Tarje. Ti assopirai e, in sogno, credendo che Edna ti
chiami, correrai verso di lei e, svegliandoti, troverai
Edna e Tarje addormentati.
Il quarto giorno la febbre salirà a 40 gradi e ti
spaventerai. Ma il giorno dopo inizierà a scendere
poco a poco.
433
23
FREDDO E GABBIANI
Quell’inverno,
privo
di
tempo
e
preoccupazioni, portò più neve del consueto.
Sulla costa, di solito la neve si scioglie subito
ma quell’anno, siccome nevicò diverse volte, si
mantenne per giorni e giorni e la gente temette che
i tetti delle case si potessero deformarsi e cedere
sotto il suo peso.
Anche quando non nevicava, di notte tutto
diventava bianco con le stelle più fredde e, in
quelle pallide mattine, trovavamo le pozzanghere
del cortile ghiacciate.
Saltavamo sul ghiaccio che cris cras si
rompeva come se fosse vetro, ne prendevamo un
pezzo affilato e lo succhiavamo.
“Ti ammalerai, con tutti i microbi che ci sono
nel ghiaccio!”
“I microbi muoiono quando l’acqua gela e
434
L’amico congelato
non possono nuotare” disse il Grasso.
Il freddo ci prendeva, ci avvolgeva e ci
attanagliava ma noi restavamo lì, a scivolare, a
spingerci e strattonarci l’un l’altro, i piedi bagnati,
le dita congelate, le orecchie paonazze, gli occhi
irritati, soffiando vapore dalle narici come cavalli
ansimanti.
Goio non giocava quasi mai a pallone né
prendeva parte alle altre attività. E in classe, benché
continuassimo ad essere compagni di banco, non
mi parlava.
Durante le lezioni, cercavamo il tepore della
stufa. Era una stufa a gas butano che si accendeva
sul davanti e diventava incandescente. C’erano
discussioni su dove collocarla e poi, facendo finta di
niente, ci avvicinavamo per ritrovare, con il calore,
la pace e l’intimità ormai perse della cucina di casa.
Una volta, durante l’ora di Latino, gli mandai
un biglietto. Quel giorno era in un altro banco, non
ricordo perché. Gli scrissi queste parole:
Mollior cuniculi capillo?
435
E, come se gli stessi passando la gomma, la
penna o il temperino, lo diedi a Inazito, lui a Emilio
ed Emilio a Goio. Ricevetti subito la risposta, scritta
sul retro del foglietto che gli avevo mandato:
di pelota.
Alla fine delle lezioni, dietro il campo
Prima che finisse la mattina, tutta la classe
sapeva la notizia, che ci saremmo azzuffati dietro il
campo, e ormai sembrava troppo tardi per spiegare
che si trattava solo di uno scherzo.
All’una in punto Goio uscì e, con i libri sotto
il braccio, attraversato il campo regolamentare, si
avviò solitario verso il luogo prefissato.
Dietro di lui, Inazito, l’Annegato e Beixama.
Con me c’erano Emilio e Juanjo, alle nostre spalle
altri tre ragazzi e, un po’ più indietro per via della
sua limitata mobilità, Zumalde.
Faceva ancora freddo e tutti esalavamo
nuvole di alito. Oltrepassammo la recinzione
passando da un buco che c’era in un angolo e, tra
macerie e rovi, si formò un piccolo circolo attorno a
436
L’amico congelato
Goio che era stato il primo ad arrivare.
Quando li raggiunsi e vidi Goio lì in mezzo,
i capelli rossi, pallido pallido, tra nuvole di alito,
perché faceva davvero freddo lì fuori, lo guardai
come per dirgli che non avevo paura ma che
azzuffarci non sarebbe servito a nulla, allora sentii
la sua voce:
“Non sei capace di venire solo?”
“Non li ho chiamati io!” risposi infastidito.
“Io sarò l’arbitro...” era la voce dell’Annegato.
Posai i libri su una pietra, pur sapendo che
si sarebbero bagnati, e dovetti entrare in mezzo al
circolo.
Goio si avventò su di me, iniziammo a darci
pugni, a volte a vuoto, e finimmo entrambi a terra.
Mi rialzai prima di lui e gli sferrai un forte
colpo in un occhio.
“Così, più forte!” sentii.
Mi spostavo a destra e a sinistra, muovendo
i pugni davanti al viso, come avevo visto fare in
televisione. Aggrottai la fronte, perché sembra che
con la fronte contratta i colpi facciano meno male,
e gli sferrai un destro, Goio spostò un po’ la testa e
437
la mia mano gli sfiorò un orecchio.
“Cassius Clay!” disse qualcuno.
Goio mi abbracciò e caddi bruscamente
all’indietro, il circolo di amici si aprì e finii tra i
calcinacci e le ortiche. Una volta a terra, con la
schiena dolorante, Goio si sedette sulla mia pancia
e iniziò a darmi pugni, mentre le altre facce attorno
lo incitavano.
Raccolsi le forze e riuscii a girarmi,
mettendolo sotto. Mi sedetti sulla sua schiena,
con un ginocchio gli immobilizzai un braccio e,
afferrandolo per i capelli rossi con le due mani,
iniziai a sbattere la sua testa a terra.
Il circolo di amici che continuava a gridare ci
era praticamente addosso.
Quando Goio riuscì a portarsi una mano alla
faccia, gli presi il braccio e glielo piegai indietro.
“Ahhh...” si lamentò, il viso sudato e
insanguinato, ogni respiro si concretizzava in una
bianca nuvola di vapore.
“Ne vuoi ancora?”
“No” disse.
“Allora ti arrendi? Dillo tre volte!”
438
L’amico congelato
Rimase in silenzio, allora gli presi la testa
per i capelli e lo trascinai tra le ortiche e i calcinacci.
“Basta!” disse Goio.
“Allora devi dire che ti sei messo il rossetto
in casa della professoressa di francese perché sei
un frocio.”
Era in trappola e non poteva fare forza, ma
non disse niente.
“Sarboa!” gli dissi, usando un insulto che
avevo imparato dagli amici di Kalaportu.
Lo lasciai libero e, mentre prendevo il
fazzoletto dalla tasca, vidi che si girava e si alzava,
aveva le labbra rotte e bagnate di saliva, da un
sopracciglio gli scendeva un rivolo di sangue fino
al collo.
Prese i suoi libri e i quaderni e se ne andò.
Io ero circondato dai compagni, sembrava
volessero prolungare la tensione dell’azzuffata con
i più stupidi commenti:
“L’hai fatto a pezzi, tu!”
Mi allontanai e pisciai contro la vecchia
parete del frontón. Gli schizzi fumanti mi caddero
sulle scarpe.
439
Me ne andai, quasi senza poter respirare,
con il fiatone, sentivo i battiti del cuore in tutto il
corpo e una gran voglia di piangere.
Non andai in mensa. Mi ritirai nel dormitorio
e per le scale incontrai Agustin:
“Hai del sangue sotto il naso” mi disse.
Oltre al sangue e a un forte dolore al naso,
mi facevano male la schiena e tutte le ossa, avevo
i pantaloni sporchi e la camicia strappata.
Un’ora più tardi saremmo dovuti tornare in
classe e dovevo lavarmi e cambiarmi i vestiti.
Il pomeriggio, alla prima ora, Goio rimase
seduto accanto a me, rannicchiato e immobile nel
banco, cercando di non farsi notare, con una mano
sul viso e il polso a coprire le labbra gonfie. Quando
iniziò la lezione era tutto un incrociarsi di sguardi,
Las entrañables provincias vascongadas, ma i
mormorii cessarono ed ascoltammo la spiegazione
di Clemente López più silenziosi che mai.
Sicuramente si rese conto dell’insolito
silenzio:
440
L’amico congelato
“E così oggi abbiamo dei feriti di guerra”
disse.
Qualcuno rise.
“Cosa ti è successo?” chiese a Goio.
“Sono caduto.”
“E dove saresti caduto, se si può sapere?”
”Ad Harriandi, dopo pranzo.”
“E cosa ci sei andato a fare ad Harriandi, se
si può sapere? A guardare il mare o a farti male di
proposito?”
“A guardare il mare.”
“Certo, certo, a guardare il mare, perché nel
mare ci sono molte cose da vedere!”
Quel pomeriggio i muscoli di Clemente
López erano più gonfi che mai.
“E tu, Antonio, anche tu sei caduto da
Harriandi o all’ora di pranzo fai da sparring a
Cassius Clay?”
“Sono caduto dalle scale.”
“Che io sappia, da queste parti non ci sono
abbastanza scale né gradini per procurarsi tanti
lividi, nemmeno cadendo dall’ultimo piano...”
Poi aggiunse, mentre guardava fuori dalla
441
finestra:
“Alla fine della lezione, voi due vi fermerete
qui.”
Pensammo che ci avrebbe mandato dal
Direttore e che anche lui avrebbe iniziato con le
domande, e alla fine ci avrebbe dato qualche
castigo.
Alla fine della lezione rimanemmo seduti al
banco. Clemente López mise in ordine un mucchio
di fogli che aveva sulla cattedra, mettendone uno
sopra, un altro sotto, altri inserendoli nel plico.
A un certo punto alzò la testa e, guardandoci
da sopra gli occhiali, disse:
“Andate a casa!”
Con gli occhi bassi, ci avvicinammo alla
porta e ce ne andammo assieme, correndo lungo il
corridoio vuoto.
Goio aveva un vantaggio rispetto a me, non
stava in collegio. Andò a casa e, prima che sua
madre tornasse, indossò il giaccone cerato e scese
a Kaioarri.
442
L’amico congelato
Incontrò Hamaika al cantiere navale, il
vecchio era in compagnia di una bottiglia verde
piena di rum, e si sedette accanto a lui a guardare
il porto.
“Torni da una guerra?” gli chiese Hamaika.
Goio rimase in silenzio.
“È stato per una donna?” disse Hamaika.
“Come fai a saperlo?” chiese Goio.
“Ah, le donne della costa!” disse Hamaika.
“Cosa hanno di speciale le donne della
costa?”
“Che sono di sabbia!” disse Hamaika ridendo.
“Ma comunque, a volte sono meravigliose!”
Poi scese la notte e una luna piena come
un piatto di latte illuminava ovunque. Si portò la
bottiglia alle labbra per verificare che davvero fosse
vuota.
“Tu vivi con Klara, no?” gli chiese Goio.
“Nella vita di un uomo ci sono due donne,
quella che ti dà la vita e quella che te la toglie...”
Ed iniziò a imprecare contro Klara:
“Quella donna fa pagare l’affitto anche ai
ragni!”
443
Rimase a lungo a guardare, con occhi da
pesce morto, la bottiglia verdastra sferzata dai
raggi della luna.
“Vado da Felipe” disse per concludere.
E si allontanò nell’oscurità curvo e
barcollante.
“Fa freddo!” disse Hamaika allontanandosi.
“Il freddo è come il sesso dei cani, una volta che
entra ci resta un bel po’!”
Goio andò a Kaioarri e, quando stava
per arrivare all’imbarcazione arenata, trovò
un gabbiano per terra. Ferito, malato o troppo
vecchio, era praticamente morto, perché gli uccelli
non diventano cadavere quando perdono l’ultimo
respiro ma quando perdono la voglia di volare. Tra
le pietre della riva, il gabbiano non aveva forze
nemmeno per muoversi.
L’aria era fredda e Goio portò il gabbiano
dentro la barca.
Juan Bautista, Goio e alcuni altri ragazzi di
Kalaportu conoscevano molti gabbiani appena nati.
444
L’amico congelato
Si erano presi cura e ne avevano salvato più d’uno
cascato dal nido. Le piume che avevano all’inizio
cadevano come i fiori di San Giuseppe per lasciar
crescere le piume più forti.
Era davvero bello lo sguardo di quegli occhi
neri e rotondi!
“Gli uccelli hanno gli occhi dove noi abbiamo
le orecchie” mi avrebbe detto una volta Goio.
“E le orecchie?”
“Le avranno sotto le ali, non so.”
Davano un nome ad ognuno di loro:
Zampasporca, Hongkong, Uccellogrigio, Peruloti,
Vedovanera, Pioggerellina …
Quando uno era in grado di volare e
sopravvivere da solo, lo lasciavano libero. All’inizio
non aveva molta fiducia nelle sue ali, le apriva
ma non osava alzarsi in volo. Le allargava e le
richiudeva demoralizzato. Poi si preparava per
spiccare il volo, sembrava dubitasse ma, una volta
staccatosi da terra, si sarebbe stupito nel vedersi in
aria ad ali spiegate.
445
24
MAPPING
Il giorno dopo, sentirai un rumore simile a
un tuono e salirai in coperta. Da lì vedrai la lunga
linea del continente ghiacciato brillare biancastra
a sudest. Quella gigantesca muraglia che vedi
davanti ai tuoi occhi ti ricorderà la catena montuosa
di Urbasa. Gli occhi interiori usciranno dall’abisso
dell’invisibile e, all’improvviso, ti mostreranno la
gigantesca parete rocciosa visibile da Urdiandi o
da Bakaiku sulla strada tra Gasteiz e Iruñea,
L’imbarcazione procederà parallela alla
costa e ai grandi blocchi di ghiaccio che vedrai
cadere dalle pareti al mare con il rumore di una
cannonata, minacciando chiunque voglia passarci
vicino.
Prima di sentire il tuono, vedrai un blocco
staccarsi dalla parete e precipitare nelle acque
che lo abbracceranno sollevando onde tutt’attorno.
446
L’amico congelato
Grandi onde come smarrite arriveranno fino a voi,
scuotendo la nave.
Il vento soffierà da sudovest. Il tempo
sarà stupendo e il mare calmo, splenderà il sole.
Ci saranno solo due colori, quello dell’acqua e
quello della neve, blu e bianco, con innumerevoli
combinazioni e sfumature impossibili da classificare.
I riflessi dei raggi del sole sul ghiaccio saranno
meravigliosi, alcuni pezzi di ghiaccio prenderanno
un colore violaceo sulla superficie del mare, altri
diventeranno rossi, come se fossero illuminati
all’interno.
Appariranno enormi blocchi di ghiaccio
ovunque, come esploratori mandati dal continente.
Alcuni inizieranno un viaggio verso luoghi lontani,
simili a fantasmi pellegrini. Non li vedrai mai fermi,
nemmeno con il mare calmo. Andranno di qua e di
là, cambiando velocità in base alle correnti o alla
direzione del vento.
L’imbarcazione procederà lentamente,
cercando di evitare i blocchi di ghiaccio.
“Quando da un iceberg si stacca un pezzo
grande, viene meno il centro di gravità ed è possibile
447
che si capovolga...” ti dirà Axel.
Nel lungo pomeriggio si formeranno banchi
di nebbia, nasconderanno il mare e le isole basse,
lasciando alla vista solo la cima dei monti, ma la
nebbia sparirà alla svelta e il paesaggio si aprirà di
nuovo. E sarà incredibilmente bello.
“La casa di zucchero” dirà Edna.
Sembreranno le grandi magioni di Deep
South. Maestose case aristocratiche, alcune
superbe, altre più semplici, ma tutte fredde.
Nemmeno se i blocchi fossero di zucchero
riuscirebbero a mitigare l’amarezza e il freddo del
luogo.
E un altro blocco di ghiaccio assomiglierà,
per continuare con i paragoni, a una gigantesca
campana bianca in assoluto silenzio sopra le
acque. Ma forse, penserai, si sentiranno i suoi
rintocchi nelle abissali profondità del mare.
Poi sarà la volta degli iceberg antropomorfi.
Guarda quello: sembra un corpo umano, ingrigito
e curvo, come un vecchio. Quel vecchio o
quell’anziana donna avranno dei grandi buchi
nel petto, nei quali il vento si insinuerà facendo
448
L’amico congelato
fiuuu per andarsene poi lentamente in un respiro
agonizzante.
Axel si metterà accanto a te con i suoi
strumenti nautici:
“74 metri” dirà, calcolando l’altezza del corpo
di ghiaccio.
Guarda quell’altro, un testone che sembra
quello di un gigante che dorme in piedi con gli occhi
chiusi. Mentre lo state osservando, all’improvviso,
si staccherà il pezzo che sembra la fronte e cadrà
in mare con un frastuono terribile, sollevando
onde impressionanti, e l’intera testa comincerà
a dondolare e i due grandi blocchi di ghiaccio
oscilleranno su e giù, come se i loro piedi stessero
saltando sul fondo del mare. E una gran quantità di
onde colpiranno e faranno dondolare la Iron Will.
Poi le onde si placheranno fino a calmarsi
del tutto, il testone recupererà il suo gigantesco
mutismo e accanto a lui apparirà un altro blocco di
ghiaccio, la testa di un gigante un po’ più piccolo.
“Una volta perso il centro di gravità possono
capovolgersi su se stessi...” sentirai di nuovo.
Ti renderai conto che è pericoloso
449
passare accanto a quei giganti, possono girarsi
all’improvviso, come un bambino che, dopo essere
stato a lungo in mare a tremare dal freddo, decide
di mettersi a nuotare.
Più avanti, vedrete un iceberg a forma di
arco.
“L’Arco di Trionfo di Parigi” dirà il nostromo.
Vi ritroverete tutti sul ponte ad ammirare
questo monumento naturale.
“Ci passeremo sotto...” dirà il nostromo.
Penserai che stia scherzando. Invece non
si tratta di uno scherzo e inizierà subito a discutere
con il timoniere. Alla fine sarà lo stesso nostromo
a prendere il timone. E condurrà l’imbarcazione
verso l’arco di trionfo di ghiaccio. Anche senza
passarci sotto, sarà comunque impressionante e
anche molto bello.
L’imbarcazione
procederà
lentamente
pal pal, di bolina, costretta a schivare i blocchi di
ghiaccio sempre più numerosi. Ghiaccio grande
e piccolo, blocchi che occuperanno sempre di
più la superficie dell’acqua, un pericolo continuo
per l’imbarcazione che neppure ferma sarebbe
450
L’amico congelato
comunque al sicuro. Ci sarà luce di giorno e di notte
e nemmeno guardando l’orologio saprai stabilire
che ore sono. Ti si irriteranno gli occhi, per via del
vento e del freddo.
Il sud diventerà scuro, prenderà un colore
grigio, si leverà il vento da sudest, molto forte anche
se non agiterà il mare. Poi inizierà a nevicare, fitto e
incessantemente. Non si vedrà più niente, eccetto
in un raggio di pochi metri.
“Spegnere i motori!” ordinerà il nostromo.
Senza visibilità non si potrà continuare
perché, avanzando con la prua come ciechi,
potreste andare a sbattere contro uno dei
blocchi di ghiaccio. Anche con il motore spento e
l’imbarcazione ferma, vi si avvicinerà da sinistra
una montagna che vedrete solo quando vi sarà
quasi addosso. Poi se ne approssimerà un’altra
da poppa e ve ne accorgerete solo quando colpirà
violentemente l’imbarcazione.
Ti toccherà il turno di guardia, in coperta e,
guardando la neve cadere sulla calma superficie
nera del mare, ti sentirai venir meno.
“Sembra che stiamo scalando il globo” ti dirà
451
Edna alle tue spalle.
State risalendo verso l’alto mentre sotto,
nelle oscure profondità, affondano il mare e i
blocchi di ghiaccio. Ti sentirai svenire e ti stringerai
a lei.
Nella tua cabina, grazie al tè caldo preparato
da Edna, recupererai conoscenza e forza.
Il tempo migliorerà e tutt’attorno si vedrà
ghiaccio ammucchiato come fossero calcinacci di
un cantiere. Qua e là svetteranno alcuni iceberg
ma la superficie del mare sarà coperta da piccoli
pezzi. Riacceso il motore, trrr trrr trrr riprenderete
la navigazione.
Qualcuno dovrà avvicinarsi alla prua per
avvisare il timoniere:
“Avanti tutta!”
E avanzerete.
“Virare!” e girerete a dritta lentamente.
Cozzerete sempre più frequentemente.
Utilizzerete lunghe pertiche e stanghe per spostare
il ghiaccio, allontanare i pezzi più piccoli ed evitare
452
L’amico congelato
che l’imbarcazione finisca contro quelli più grandi.
“Retromarcia!”
Vedrete molti uccelli sorvolare il ghiaccio,
gabbiani e procellarie volteggiare sopra di voi,
pronti a tuffarsi in acqua a gran velocità appena vi
si getta qualcosa.
Ci saranno anche foche amanti del sole
distese su blocchi di ghiaccio appiattiti, mostrando
la loro originale morfologia: lucide teste calve,
occhi rotondi e affettuosi, lunghi baffi, corpi pesanti
e puliti.
A un certo punto, Axel avvicinerà all’acqua
un lungo bastone con un termometro sulla punta.
All’improvviso sentirà un colpo, qualcosa tirerà il
termometro verso il basso.“Una foca mi vuole
portar via il termometro!” inizierà a gridare.
Lo aiuterai a far forza verso l’alto e apparirà il
muso della foca, con il termometro stretto in bocca,
e non aprirà il morso finché non avrà tutto il corpo
appeso in aria.
Poi rideranno di Axel:
“Povera foca, voleva provarsi la febbre e
tu non gliel’hai permesso, che poco cuore con la
453
fauna.”
L’imbarcazione bianca continuerà il suo
viaggio, tra difficoltà scoraggianti, con una triste
lentezza. La temperatura dell’acqua del mare sarà
di due gradi, sotto zero.
“C’è mai stata vita umana in Antartide?”
chiederà qualcuno.
Questo sarà uno degli argomenti di
discussione. Qualcuno dirà di sì, qualcun altro di
no e ci saranno spiegazioni di diverso tipo.
“Anticamente, la massa di terra era
concentrata in un unico continente” spiegherà
Axel. “Una delle basi di questa teoria, è la forma
complementare dei continenti. Avvicinando
l’America e l’Africa, per esempio, l’Africa equatoriale
si incastra perfettamente con le Antille, e anche il
promontorio brasiliano coincide perfettamente con
il Golfo di Guinea. Inoltre i continenti si allontano
l’un l’altro di quattro o cinque centimetri ogni anno.”
“Quindi, a quei tempi, dove si trovava
l’Antartide?”
E mentre tu ti troverai a dritta, un compagno
punterà l’indice verso la lontananza grigia:
454
L’amico congelato
“L’Antartide sarebbe dove attualmente si
trova l’Oceano Indiano.”
“Ma non ci sono prove di questo.”
“C’è il carbone, e il carbone proviene dalla
vita vegetale. E nell’ardesia sono stati trovati fossili
di tronco di felce. Anche questa terra è stata, un
tempo, una zona subtropicale e verde.”
“E i resti di vita a quando risalgono?”
“Antecedenti all’era degli ominidi, prima che
i dinosauri dominassero la terra.”
Ci saranno molte discussioni, sarà una delle
forme per intrattenersi a bordo, discutere. Molte di
queste diatribe verranno facilmente risolte grazie
all’enciclopedia di Oxford, la soluzione di altre
rimarrà in sospeso per giorni come un moscone
che gira, e ci sarà anche qualche partecipante
esasperato che negherà qualsiasi soluzione,
persone che dopo aver discusso rimarranno
mute come fossero poliedri, uno accanto all’altro,
trasformati uno in un cubo e un altro in un cilindro.
Il mare sarà quieto con onde di ponente. A
sudest si vedrà una bianchissima terrazza che si
allunga definendo l’orizzonte, la cui superficie sarà
455
coperta dalla nebbia.
“Uno spettacolo per la fine del mondo” dirà
Edna, indicando il sole che si moltiplicherà nei cani
solari.
“Qual è il sole vero?” le chiederai scherzando.
Sei soli, sei aloni di sabbia.
“Credevo fosse la luna” dirai ironicamente.
Poi inizierà a nevicare. E scenderai in cabina
a disegnare cormorani.
All’improvviso, sentirai un forte boato. Salirai
correndo in coperta e riuscirai a vedere un’enorme
montagna di ghiaccio che perde pezzi e si gira su
se stessa. Sarà a una distanza di circa duecento
metri e dalle acque sorgeranno muraglie erranti,
lanciate da una bomba subacquea, generando
grandi onde e mulinelli, e la superficie si popolerà
di resti di ghiaccio di tutte le dimensioni. Mentre
l’enorme montagna di ghiaccio, poco a poco,
tornerà alla sua posizione di equilibrio iniziale.
Nel mare increspato l’imbarcazione inizierà
a dare testate e a dondolare. Quando penserete
456
L’amico congelato
che è tutto finito, lo spettacolo si ripeterà, con la
caduta di un terzo del grande blocco.
Il timoniere, prudentemente, allontanerà
l’imbarcazione da quel luogo inadeguato e
contemplerete lo spettacolo in silenzio, da più
lontano.
“L’instabile equilibrio” dirà qualcuno.
“Lo stabile disequilibrio” dirà un altro.
Axel calcolerà l’inclinazione del sole. Se
la temperatura a mezzanotte era di circa –6º, a
mezzogiorno sarà di +6º approssimativamente.
Immergerà la sonda e così saprete che la profondità
dell’acqua è di 75 metri e che i fondali sono rocciosi.
Verrà anche dragato il fondale per raccogliere
campioni di frammenti di roccia e numerose specie
zoologiche.
“Ne vuoi una?” ti dirà Axel.
Così prenderai una pietra nera e piatta.
Il vento soffierà da nordest. Farà uuh
uhuuunh come se una moltitudine di labbri leporini
soffiassero, tutte assieme, dal nordest.
Grandi masse di ghiaccio si staccheranno
dalla fascia bianca del continente e inizieranno a
457
navigare. Davanti a voi, si vedrà una fila di cime
bianche che sembreranno sentinelle giganti poste
a chiudere il passo al continente o un treno di sedici
o diciassette vagoni bianchi.
“A babordo!” ordinerà il nostromo, pensando
che quel gelido treno fantasma si metta in moto.
La notte sarà chiara. Vedrete due balene in
lontananza, dirette a sud.
Axel Fountaine ti inviterà nella sua cabina e
rimarrai a guardare la grande cartina dell’Antartide
che ha sulla parete:
“L’Antartide, per convenzione, si colora di
bianco nella parte inferiore dei mappamondi. Ma
quello che si mostra nelle cartine è uno strato di
ghiaccio, non il continente. Si credeva che questa
cappa di ghiaccio ricoprisse la terra che si trova
sotto e che coincidesse con il continente, quindi,
che si trattasse di un sottile strato di ghiaccio che
ricopre la terra. Invece questa cappa di ghiaccio
non è per niente sottile...”
Axel inizierà a preparare il tè:
“In ogni caso, sappiamo meno della
topografia dell’Antartide che di quella della Luna...”
458
L’amico congelato
Allora gli chiederai:
“Le cartine sono oggettive?”
“L’autore delle cartine è soggettivo. Oggettivi
sono solo gli oggetti. Cosa vuoi dire con “oggettivo?”
“Se è possibile fare delle cartine vere.”
“Vere?” chiederà Axel. “Le cartine sono
allo stesso tempo soggettive e oggettive. Nella
storia della cartografia occidentale c’è stata una
graduale evoluzione, dalle antiche mappe piene di
immaginazione, a quelle contemporanee ottenute
con apparente precisione. Il Beato di Liebana per
costruire la cartina che illustrava i suoi Commentari
dell’Apocalisse, aveva preso come riferimento
le testimonianze dei viaggiatori e i libri religiosi,
e aveva collocato il paradiso a nordovest del
mappamondo e, oltre all’Europa, all’Asia e all’Africa,
una terra incognita dall’altra parte del mare, perché
gli apostoli erano stati inviati ai quattro estremi
della Terra. Mentre l’autore di una carta geografica
contemporanea si baserà su 39 milioni di pixel
ottenuti con un satellite, anche se utilizzerà questa
informazione a modo suo...”
Ti dirà che le carte geografiche del XIX
459
secolo erano molto eurocentriche, adattate agli
interessi commerciali, politici e scientifici dei governi
coloniali europei. Che avevano caratteristiche
convenzionali: il Nord in alto, il Sud in basso, la
longitudine zero fissata su Greenwich e l’Europa
al centro del mappamondo. E che le convenzioni
diventano abitudini, la loro natura arbitraria viene
dimenticata e vengono scartate le altre carte,
considerate primitive e soggettive.
Allora Axel aprirà una grande cartella e ne
estrarrà sei o sette carte. Sulla cartella si leggerà
Mapping.
“Questa è la carta del gruppo Geosphere
Project, messa a punto a Santa Monica e a
Pasadena e basata su 39 milioni di pixel inviati
dal satellite Ptolomeus-2. Sembrerebbe quindi
realizzata da un occhio elettronico imparziale e
obiettivo. Nonostante questo, renditi conto del
peso ideologico che porta con sé: il Nord è sopra,
l’equatore al centro, l’Oceano Atlantico in mezzo...
la manipolazione è evidente. Sono state eliminate
le nuvole, anche se chi osserva la Terra da lontano
vedrà una gran parte del pianeta coperta dalla
460
L’amico congelato
nuvole che sono una delle sue caratteristiche.
Quindi, gli scienziati di Santa Monica e di Pasadena
hanno eliminato, pixel dopo pixel, la maggior parte
dei resti di nubi. D’altra parte, sono stati tracciati i
fiumi, vedi? Inoltre il mappamondo è stato colorato,
come lo studiano i bambini i primi anni di scuola,
il verde per rendere più vivo il manto vegetale, il
bianco per rendere più candida la neve. Sono stati
attribuiti colori falsi, paradossalmente per rendere
più verosimile la cartina.”
Poi ti mostrerà un altro mappamondo,
realizzato sempre a Pasadena con l’informazione
inviata dal satellite Seasat-4. In questo non sono
presi in considerazione i continenti e il mare
sarà colorato in base alla profondità indicata
dalla misurazione dei cambi gravitazionali. Poi ti
mostrerà un’altra carta geografica scura:
“Questa è stata fatta da Joseph Stonehead,
all’università di San Francisco. Anche questa si
basa sulle informazioni del satellite, ma rilevate di
notte, con tutto il pianeta al buio e si evidenziano
solo le luci delle città. Che te ne pare?”
Sarà praticamente nera, con dei punti
461
bianchi. I continenti non saranno marcati ma i
punti bianchi, che sono l’immagine della luminosità
delle città, nella loro disomogenea distribuzione,
ricordano la geografia mondiale a cui siamo abituati.
“Il mondo di notte, no?”
“Ma è una notte imposta, perché non è mai
notte fonda su tutto il pianeta contemporaneamente.”
Saranno le tre del mattino e in cielo ci sarà
una luce rossastra.
“E che tipo di carta geografica farai al
ritorno?” gli chiederai.
“Il mio mappamondo avrà il Sud in alto e
l’Est a sinistra...”
Sorriderai e salirete in coperta. Le foche
dormono sui blocchi di ghiaccio, nere con la loro
copertura oleosa e macchie giallastre. Benché
l’imbarcazione si avvicini, non si sveglieranno finché
il rumore non diventerà assordante, allora apriranno
un occhietto, come se facessero l’occhiolino, senza
paura, senza stupore muoveranno leggermente
il corpo alla ricerca di una posizione migliore per
dormire, chiudendo gli occhi per il dolce riposo.
Il vento del sud porterà altri pezzi di ghiaccio
462
L’amico congelato
e cercherete di proteggere l’imbarcazione con le
pertiche.
La costa sarà in pieno disgelo e si sentiranno
numerosi boati, come se si stesse combattendo
una dura battaglia non molto lontano da lì.
Soffierà il vento e la baia sarà invasa dalla
nebbia. Il barometro sarà molto basso. Le nuvole
arriveranno da nordovest sotto forma di masse
nerissime. A nordest sarà più chiaro ma l’aria
sembrerà d’acciaio.
Poi l’imbarcazione si avvicinerà alla barriera
di ghiaccio. La muraglia è di un bianco implacabile,
verticale e inespugnabile. Bisogna trovare un luogo
più adatto per sbarcare. Avanzerete in direzione
sudest, alla ricerca di una baia.
Scenderai in cabina e inizierai a tracciare
un’altra cartina. Farai un mappamondo soggettivo.
Collocherai l’Antartide in mezzo e ingrandirai
il vermiciattolo di Cuba, così come l’arcipelago
di Capo Verde, e anche tutta l’Africa, se vuoi.
Disegnerai anche l’Europa, ma la frontiera
occidentale del continente sarà costituita dal Belgio,
dalla Svizzera e dall’Italia. Non dimenticare che la
463
Francia e la Spagna rimarranno sommerse dalle
acque e a sudest dell’Europa ci saranno due isole,
un Portogallo completato dalla Galizia e il Paese
Basco.
Dopo questa piccola vendetta, se così la
vogliamo chiamare, lascerai il tuo bozzetto sul letto
e tornerai in coperta. Ci sarà brutto tempo, un forte
vento di nordest, neve e grandine, nonostante ciò
rimarrai a dritta sotto i cristalli di neve taglienti come
coltelli.
Allora guarderai verso il basso e, davanti alle
tue scarpe, vedrai un topo che passeggia indeciso
da prua verso poppa.
464
L’amico congelato
25
LE ARMI E IL QUADERNO
Goio si sorprese del fatto che sua madre
fosse così arrabbiata.
“Non si è mai visto niente del genere in
questa casa!”
E così sua madre gli disse, molto risentita,
che non si era mai vergognata tanto come quel
giorno a scuola, dove madre e figlio erano stati
convocati alle sette da Padre Solana e dal Direttore
e, dato che Goio non si era fatto vedere, aveva
dovuto andarci da sola.
“Dove ti eri cacciato? Ti ho cercato
dappertutto!”
Avevano avvisato la donna che, la prossima
volta, avrebbero espulso il ragazzo dalla scuola.
“Non ho fatto niente di male” fu l’unica cosa
che disse Goio.
“Non hai fatto niente di male? L’hai combinata
465
bella!”
Il direttore aveva elencato alla madre tutte
le sue birichinate. Fare le caricature di alcuni
professori, le voci sulle sue relazioni con le ragazze,
le scazzottate nel cortile della scuola...
“Dobbiamo pagare l’affitto della casa e non
credere che la scuola sia gratis.”
Goio stava guardando fuori dalla finestra
girando le spalle alla madre, senza rispondere né
dire niente.
Anche la madre rimase senza parole e
scoppiò a piangere.
Aveva ragione, tutti i mesi dovevano pagare
l’affitto e la retta della scuola. E il salvadanaio di
Goio era sempre vuoto, perché praticamente tutti
i giorni svuotava abilmente quel grasso maialino
dalla fessura che aveva sulla schiena.
Dopo una serata del genere, il giorno dopo
Goio arrivò a scuola sapendo cosa lo aspettava.
466
L’amico congelato
Io, invece, mi svegliai senza sapere niente.
Alle otto del mattino, quando stavamo per entrare
in classe, Padre Solana ci chiamò, prima Goio e
poi me, dicendoci che il Direttore voleva parlare
con noi.
Ci andammo assieme ma senza rivolgerci la
parola.
Ci fermammo davanti alla porta della
Direzione, in corridoio, senza bussare. Da dietro
la porta socchiusa sentimmo la voce del Direttore,
Entrate. E vedemmo la sua testa pelata che
sembrava di marmo lucido, Sedetevi.
Alzò la testa, ci mostrò un foglio e sottolineò
la gravità della questione:
“Siete stati voi ad affiggere questa caricatura
di un professore...”
Quando il Direttore ci mostrò il vecchio
disegno, rimanemmo in silenzio, un uomo sorridente
che mostrava con ostentazione la sua forte
muscolatura. Un reato con connotazioni politiche
che, così lo qualificò il Direttore, se sottoposto alla
giustizia comune, potrebbe portarvi in carcere.
Allora mi disse: Lei, e lesse l’elenco delle
467
mie fughe che aveva annotato su un quadernetto,
mentre io mi ricordavo della notte di luna piena in
cui, salite le scale di due in due e mentre scriiih
scriiih percorrevo il corridoio incerato, era apparso
in un angolo Padre Solana. Il 5 ottobre alle dieci
meno cinque, il 13 ottobre alle dieci, il 23 ottobre
alle undici meno dieci, il 3 novembre alle undici e
venti...
All’improvviso, interruppe quella cronologia
e guardò Goio. Un tema ancora più grave e spinoso,
e fece l’elenco di tutte le volte che Goio era andato
a trovare la professoressa di francese a casa sua.
“Come vede, sappiamo tutto” disse Padre
Testapelata con una certa curiosità.
Goio era pallido e la corrente di parole del
Direttore muoveva appena quella testa rossa che
sembrava di ghiaccio.
Disse che, in fin dei conti, eravamo ancora
giovani e che, poco a poco, ci saremmo messi
sulla retta via. Ci avrebbe dato la possibilità di
dimostrarlo. Allora parlò della confessione e del
pentimento.
“La professoressa di francese ha cercato di
468
L’amico congelato
sedurla?” chiese.
“Mi ha dato qualche lezione di francese
perché ero indietro rispetto agli altri, nient’altro.”
“Ne è sicuro?”
“Sì” disse Goio.
Può andare, disse a Goio.
“Perché vi siete azzuffati, Lei e Goio?” mi
chiese il Direttore quando rimanemmo soli.
“Perché è uno che se ne approfitta.”
“Se ne approfitta?” chiese stupito. “E cosa
significa? Cosa fa? Di cosa si approfitta?”
“A calcio, Goio gioca da solo, invece di
passare la palla a un compagno che è in posizione
migliore della sua...”
“Ejem, ejem!” fece, come se volesse
schiarirsi la voce. “L’aiuterò a recuperare la
memoria. Un giorno Goio è arrivato a scuola con le
labbra sporche di rossetto...”
“Rossetto, rossetto, che cos’è?” dissi.
Mi disse che c’era in gioco qualcosa di assai
più grave delle semplici bravate di un ragazzino,
l’onore di tutti i ragazzi della scuola poteva essere
in pericolo.
469
E mi mise in mano un foglio bianco, che avrei
dovuto riempire su entrambe le facciate spiegando
cosa facevo e con chi andavo quando uscivo
dal collegio, un foglio come quelli di matematica,
senza data, bianchissimo, Darà un dispiacere ai
suoi genitori, se non lo scrive.
Aggiunse: Constatato il suo reiterato rifiuto
di collaborare, inoltreremo un ammonimento anche
contro di Lei, come se mi stesse dando il permesso
di ritirarmi. E uscii da lì con una sensazione di
libertà.
Entrai in classe quando la lezione di
Geografia era già iniziata da parecchio. Inazito
era sulla pedana accanto al mappamondo, con il
professor Patricio.
“I meridiani sono circoli che passano dai
poli della Terra,” stava spiegando il professore. “I
paralleli sono circoli sulla superficie della Terra,
paralleli all’equatore.”
Mi sedetti al mio banco vicino a Goio e,
senza dire niente, presi il mio quaderno pieno di
470
L’amico congelato
scarabocchi, la gomma e le penne.
Poi dissi a Goio sottovoce: “Dobbiamo
parlare.”
“Quando vuoi.”
“Credo che vogliano mandar via Ariane.”
“Sì” confermò Goio quasi senza aprire la
bocca.
“I paralleli e i meridiani inventati dai geografi
formano una rete attorno alla Terra,” disse il
professor Patricio e chiese, indicando Inazito, “ma
perché?”
Inazito, tac, fece girare il mappamondo come
faceva il professor Patricio, mentre rispondeva:
“I meridiani e i paralleli catturano la terra
nella rete, per legarla un po’. Proprio così, in modo
che non scappi...”
“Ti stai prendendo gioco di me?” disse il
professor Patricio molto serio.
“Io, no” disse Inazito, innocentemente.
Lo castigò immediatamente. Gli ordinò di
stendere il braccio e di aprire la mano. Prese la
riga di legno e lo colpi tac sul palmo della mano.
Inazito non tolse la mano.
471
“Uno, due, tre...” contava il professor
Patricio.
Se avesse chiesto scusa o se si fosse
messo a piangere forse si sarebbe fermato. Ma
Inazito non diede cenni di cedimento e il castigo
continuò fino a completare i dieci colpi.
Il risveglio, in quei dormitori tetri e gelidi
del collegio, era triste. Alle sei del mattino, senza
mai sgarrare un giorno e senza ritardi, Padre
Solana suonava la campanella. Dovevamo uscire
immediatamente dal letto, tremanti di freddo,
arrabbiati, in un quarto d’ora andare in bagno e
vestirci, scendevamo in refettorio e lì, come prima
cosa, dovevamo recitare un Padre Nostro. Io,
che mi ero dimenticato le preghiere, mi limitavo a
muovere le labbra.
Goio, invece, si sentiva soffocare come non
mai dall’ambiente di casa. Le parole di sua madre,
Devi voler bene ad Andres, sei mio figlio, il mio
amato figliolo, erano insopportabili, soprattutto se
pronunciate con affetto. Inoltre Andres passava da
472
L’amico congelato
casa loro tutti i giorni. I vecchi armadi, la voce della
radio, c’era qualcosa di intollerabile in quella casa,
la polvere che si posava su ogni cosa o l’odore di
candeggina, non li reggeva ed usciva per strada.
Ma anche fuori, se fino ad allora si era
trovato con gli amici per giocare a biglie, o a calcio,
per costruire una capanna segreta o per uscire in
barca e, fino ad allora, aveva pensato che gli amici
e la famiglia fossero per sempre, ultimamente
aveva perso queste certezze e si sentiva confuso.
Rimaneva a guardare il mare e una strana alchimia
si impossessava di lui, un’inquietudine che lo
spingeva a staccarsi dai legami che aveva con il
paese.
Vedeva Ariane in classe e aveva di nuovo
difficoltà a parlare in francese:
“Che cosa significa questo?” mi chiese una
volta dopo un dettato. Un pays que jamais ne rejoint
le soleil natal.
“Credo che rejoindre significhi unire o
trovare” le risposi. Nemmeno io capivo bene la
frase.
Dopo qualche giorno, vide Ariane fuori da
473
scuola, era sera e pioveva. Aveva iniziato a diluviare
e Goio, tornando verso casa, si era fermato al
cantiere navale a guardare il porto, mentre la
pioggia faceva venire la pelle d’oca al mare. Gli
scaricatori, protette le mercanzie, si erano rifugiati
al coperto e, inaspettatamente, vide Ariane sulla
strada per Kaioarri, il soprabito scuro, le mani in
tasca, i capelli bagnati, che saltava per schivare le
pozzanghere, sola.
Goio si nascose e Ariane passò, diretta a
casa sua.
Poi andò a Kaioarri, a cercare il gabbiano
che aveva nascosto nella nave. Non lo trovò
nell’angolo dove l’aveva lasciato. Uscì fuori e non
lo vide nei dintorni. C’erano altri gabbiani che
volavano attorno, volteggiando nella nebbia ma
con nessuna intenzione di dare informazioni sul
loro compagno.
Entrò di nuovo, per sedersi al coperto.
“Grae grae” sentì.
Si inoltrò all’interno dell’imbarcazione, la
perquisì nella penombra e trovò il gabbiano sopra
un’asse. L’uccello sbatté i suoi occhi laterali, aveva
474
L’amico congelato
le piume gonfie e sembrava grasso ma, quando lo
prese in mano, Goio sentì che era pelle e ossa.
Allora, in un angolo, vide le estremità di una
borsa, spostò l’asse e prese il sacchetto di plastica.
Pesava e, nell’aprirlo, vide tre pistole. Tre pistole
come quelle che vedeva nei film o che immaginava
nelle fondine dei guardia civil, ma queste erano
vere, nere, pesanti e fredde.
All’interno della borsa, avvolta da una
plastica gialla, c’era anche della plastilina o una
specie di pasta come quella che si usa per sigillare
i bordi dei vetri alle finestre, e un quaderno scritto a
mano. Iniziò a leggere quel quaderno che parlava
di esplosivi. Era scritto in basco, con una penna
blu, spiegava che tipo di materia è l’esplosivo,
come si preparano gli ordigni, qua e là c’erano
dei disegni che illustravano le quantità e come e
dove collocarli per far saltare un edificio, e sotto il
disegno dell’edificio c’era scritto caserma, e c’erano
anche delle annotazioni in spagnolo o in francese,
aggiunte in rosso, correzioni o integrazioni di
quanto scritto in blu.
Sul fianco di una pistola lesse Firebird, Goio
475
fino a quel momento aveva visto solo le pistole, le
mitragliatrici e i fucili dei guardia civil, e quelli non
parlavano basco.
Era bagnato, sentiva il freddo nelle ossa, e
rimase lì a guardare il gabbiano in quel pomeriggio
morto.
La pioggia cadeva sul mare e le onde che
si frangevano contro il braccio esterno del porto
erano altissime.
476
L’amico congelato
26
L’AMICO CONGELATO
Non ho potuto togliermi dalla mente
l’immagine del comandante con i baffi a forma di
corvo e ho deciso di parlarne con Arantxa.
Nell’aprire il cancello del casolare, con
la mano ancora sulla maniglia, vedo i due cani
pastore che si avvicinano correndo e abbaiando.
Quando mi blocco spaventata, iniziano a girarmi
attorno mostrando i denti da orecchia a orecchia e
ringhiando in stereofonia.
“Via da lì!” sento gridare in basco e vedo
Arantxa scendere verso di me dalla porta del
casolare.
“Maribel, vieni!” dice Arantxa. “I cani non ti
faranno niente...”
Adesso le bestie mi si avvicinano muovendo
477
la coda e annusandomi e mi accompagnano fino
all’entrata, saltellando fra i miei piedi.
“E Goio?” mi chiede Arantxa con le braccia
aperte e la faccia allegra quando la raggiungo.
“Mi sembra che stia sempre meglio.”
Se la casa, invece di una palma, avesse un
altro albero a fianco, potrebbe davvero essere un
casolare sulle falde di un qualsiasi monte basco. Sul
prato cammina un uomo con aspetto da cowboy,
pare uscito da un film western: cappello, camicia,
jeans e una pistola infilata nella fondina che porta
alla cintura.
“Dove non ci sono cani, la volpe la fa da
padrona” dice Arantxa, cacciando a calci le due
bestie.
Immagino che debba essere un detto di
Jose Urioste che avrà pensato alle volpi, ai tassi
e ai cinghiali che popolavano le pendici del monte
Gorbeia.
“Tra l’altro questi cani sono intelligenti”
dice Arantxa, “gli manca poco per essere come le
persone.”
Penso, ma non lo dico, che ad alcune
478
L’amico congelato
persone manca poco per essere come i cani.
Entro nel salotto timorosa di calpestare
il tappeto bianco, e cerco di calcolare quante
pecore, lama o guanaco saranno stati necessari
per confezionarlo.
“Quando inizierà a parlare, guarirà alla
svelta...” dice Arantxa.
“Arantxa, vorrei parlarti di una cosa
importante. L’altro giorno ho visto Maialen ed era
con un militare.”
“Era in divisa?”
“No. Era in borghese, su una macchina
verde.”
“Una Lancia Thelma Turbo.”
“Non so di che marca fosse, era un’elegante
auto verde.”
“Non è un militare” dice Arantxa.
“Era il comandante dei soldati che ci hanno
arrestato sul treno. È stato lui a interrogarci.”
“Non è un militare, è mio marito.”
Mi sorprende la naturalezza con cui Arantxa
me lo dice. Penso ai baffi del comandante, quel
corvo sopra le labbra.
479
“Tuo marito?”
“Sì, il padre di Maialen” dice Arantxa.
“Ci arresterà!” le dico mentre lo sto pensando.
“No, loro ci proteggono.”
“Ieri a Barranquilla mi hanno seguita in
macchina.”
“Non preoccuparti” dice, e io avrei voglia di
risponderle che è o un’ingenua o una stupida.
“E come faccio a non preoccuparmi, ci
uccideranno!”
“La questione è semplice” dice Arantxa.
“In questa fortunata repubblica hai bisogno della
protezione dei militari. Perché sequestrano
duecento persone al mese e perché ne ammazzano
migliaia. Noi paghiamo una quota mensile ai
paramilitari e loro ci proteggono. Tutti paghiamo
qualcuno e non è una spesa inutile.”
Da quando sono arrivata in Colombia ho
sentito una paura diffusa e costante, ma adesso
un improvviso terrore e uno strano tremore si sono
impossessati di me.
“Allora tuo marito è un paramilitare! Siamo
capitati bene!”
480
L’amico congelato
“Non siamo nati ieri, Maribel,” dice Arantxa.
“Qui le persone vivono nel terrore, si stupiscono di
essere ancora vive, come se esserlo fosse dovuto
a una distrazione della morte. E loro ci proteggono.”
“Ci proteggono? Ci controllano! E quando
si renderanno conto che siamo baschi, ci
uccideranno.”
Arantxa se n’è andata nervosa in cucina.
Io rimango qui, ad osservare questa grande sala
addobbata, pensando che potrebbe essere una
delle ultime cose che vedrò. Il caminetto, i lari, il
mantice, la testa di tigre imbalsamata, il televisore,
il videoregistratore e le videocassette:
Titanic, Todo sobre mi madre, American
Beauty, La guerra de las galaxias III, El beso del
látigo...
Questa vita è come un film che promette
colore, emozioni, fascino, saggezza ma, quando
la rivedi dopo un po’ di tempo, As good as it gets,
Pocahontas, Tirar a matar, non è che una brutta
versione di quello che sarebbe potuto essere, in
bianco e nero, mediocre, noiosa.
481
“Che lavoro faceva vostro padre?” chiedo ad
Arantxa quando ritorna dalla cucina con gli occhi
umidi.
“Era cercatore di smeraldi.”
“Lo smeraldo è quella pietra preziosa verde,
no?”
“Da queste parti il commercio di smeraldi
è uno dei settori dove si fanno affari, assieme al
caffè, al petrolio e alla cocaina...”
“Venne qui nel dopoguerra, vero?” chiedo
ad Arantxa.
“Mio padre era molto giovane, quando finì la
guerra aveva diciannove anni” inizia a raccontare
Arantxa. “Da Santander ritornò a piedi a Orozko,
nascondendosi nei boschi. Davanti alla porta chiusa
del casolare trovò il gregge, le pecore erano tutte
lì, davanti all’entrata, senza pastore, in silenzio e,
quando lo videro, iniziarono a belare. Il casolare
era chiuso e così, per entrare, ruppe una finestra,
ma non trovò né i suoi genitori né i suoi fratelli. Vide
l’aratro rotto in fondo al campo, un giogo spezzato
vicino all’abbeveratoio e una pelle di pecora nel
482
L’amico congelato
fango, tutta sporca. Il camino era spento e freddo,
prese della legna e accese il fuoco.”
Arantxa parla lentamente, con cautela,
facendo delle lunghe pause.
“Allora, mentre guardava il fuoco, si rese
conto che il fumo si sarebbe visto anche da
lontano. Aprì la finestra e vide le pecore che si
allontanavano, strette in gruppo su per il sentiero,
con quel modo di ammucchiarsi che le caratterizza
quando hanno paura. Capì che sarebbero venuti
a cercarlo e, salito di sopra, decise di nascondersi
sotto il fieno. Arrivarono dopo poco, mio padre
disse che forse erano guardia civil, ma non li vide,
iniziarono a perquisire minuziosamente la casa e,
per setacciare il pagliaio, presero le forche dalla
stalla. Iniziarono a infilzarle nel fieno, erano tre o
quattro, parlavano in spagnolo ed erano nervosi,
perché, nascosto sotto il fieno, mio padre sentì il
suono delle sicure delle armi e sentì anche il rumore
brazzz prodotto dagli affilati denti della forca che
perforavano il fieno: lo colpirono in pancia. Mio
padre non gridò. Finché rinunciarono a cercare
ancora e se ne andarono. Quando uscì dal suo
483
nascondiglio, accanto all’ombelico aveva altri tre
buchi da cui sgorgava sangue.”
Quando Arantxa smette di parlare si sente il
rumore tic tac dell’orologio e il suono di un rubinetto
aperto.
“Si legò un brandello di lenzuolo alla vita e
andò a piedi fino a Bilbao, dove raggiunse la casa
dei suoi cugini. Rimase molto tempo a letto, con
la febbre alta e in fin di vita, finché non si riprese.
Fu lì che conobbe mia madre, che era cugina dei
cugini, le promise che l’avrebbe sposata e decisero
di partire assieme.”
“Me ne vado, Arantxa” le dico.
“Ti accompagno all’uscita.”
Dal portico del casolare vediamo il cancello
aprirsi e una macchina verde entrare. A sinistra
scende la bambina e a destra il comandante e,
tenendosi per mano, risalgono attraversando il
giardino, mentre il cowboy porta al parcheggio la
Lancia Thelma Turbo.
La bambina si avvicina saltellando, tenuta
per mano dal padre, il comandante, scuro, in abito
elegante, con quei baffi che gli coprono la bocca
484
L’amico congelato
come un uccello nero.
Quando arrivano, sento un brivido. Arantxa
bacia la bambina. Il comandante sorride e io cerco
di evitare il suo sguardo.
“Vieni fino al cancello a salutare questa
amica” dice Arantxa a Maialen.
Con la sua mano da iguana accarezza i
capelli della figlia e io non sono in grado di dire
niente. Mi ha fulminata con gli occhi, prima di
continuare verso la casa.
“No, voglio vedere il video di Shakira!”
risponde la bambina, correndo dentro dietro a suo
padre.
Io e Arantxa scendiamo fino al cancello
senza parlare.
“Vuoi andare in macchina?”
“No, vado a piedi.”
E i pastori tedeschi ci accompagnano, senza
mordere, senza abbaiare, docili.
“Il fuoco acceso da nostro padre si
consumerà pezzo dopo pezzo e si spegnerà,” dice
Arantxa. “Noi non siamo il bosco.”
Da qui si intravede la clinica, una casa bianca
485
sulla collina: sembra una balena addormentata.
“Nemmeno a mio padre piacevano i baffi di
mio marito” dice Arantxa con il suo dolce sorriso.
“Sai cosa diceva? Se volete sposarvi, digli di
togliersi quella scopa vecchia che ha sopra le
labbra...”
“Maribel!” sento chiamare.
Cammino scriiih scriiih scriiih lungo la
Galleria dei Passi Smarriti.
“Maribel!”
È una gran gioia sentire la voce del Rosso.
“Cosa stai facendo, amico?”
“Sono qui a fare degli stupidi esercizi.”
Sento il desiderio di toccare i suoi capelli
rossi.
“Questo dev’essere Talete di Mileto, che
cade in un pozzo. Anche quest’altro dev’essere
Talete di Mileto, che passeggia, ti renderai
conto che sta guardando una ragazza, e anche
quest’altra immagine è di Talete di Mileto, tutto
bagnato. Adesso bisogna mettere le immagini in
486
L’amico congelato
ordine cronologico...”
“Fallo.”
“No, no, l’ospite sei tu.”
“Ma io non sono molto ferrata in logica.”
Allora, ridendo, mi dà la soluzione:
“Questa è la mia versione: Talete di Mileto è
caduto in un pozzo, ne esce tutto bagnato e pensa
che non potrà andare all’appuntamento che ha con
la ragazza ma alla fine è felice perché, quando la
ragazza appare, i vestiti sono già asciutti...”
Goio qui ha un amico pittore. Lo chiamano
Fernando Botero, pur non assomigliando affatto
all’elegante personaggio che appariva in quella
fotografia su El Heraldo.
“Togli ogni cosa, in modo che si possa
vedere tutto” dice questo personaggio che ha la
pelle olivastra, grosse lenti e che cammina a passi
lenti.
“Che cosa vuole togliere?”
“Tutto...”
Vuole togliere tutte le cose concrete perché
lui è un pittore astratto.
“Non sapete che sono astratto?” dice a Goio
487
e a me.
Siamo rimasti a guardare il suo quadro. Mi
sembra che abbia voluto dipingere il movimento
dei dantzalore.
“In ogni caso” dice Fernando Botero,
“Vincent Van Gogh, quello senza un orecchio,
aveva ragione: i fiori gialli sono più luminosi del
cielo!”
“Che titolo darai al quadro?” gli chiede il
Rosso.
“I dantzalore” dico io.
Il pittore ci guarda e poi cede:
“Sì, proprio quello!”
Il Rosso ride e continuiamo a camminare,
grazie alla sua risata non mi sento così bbk o, per
lo meno, sento che la solitudine potrebbe iniziare a
riempirsi di possibilità.
“Conosci questa ragazza?” mi chiede il
Rosso quando ci avviciniamo a una giovane che
sta scrivendo.
Ha i capelli lunghi e neri e anche gli abiti
sono neri. Si tratta della ragazza che, dopo aver
avuto una crisi epilettica, era rimasta immobile
488
L’amico congelato
come una manta sul fondo del mare.
“Passa le giornate a scrivere lettere a un tal
T.”
Sta scrivendo seriamente, con il tremore
delle labbra tipico della follia.
“L’essere umano è quello che nasconde
qualcosa” dice la ragazza con un tono notarile.
“L’essere umano è quello che fa qualcosa”
dice il Rosso con allegria.
“E anche quello che nasconde qualcosa”
dico io, “questa ragazza ha ragione.”
“E tu cosa nascondi?” mi chiede lui con
l’intenzione di prendermi in giro.
“Nove cose su dieci, come te.”
Ci sono momenti in cui vedo tutto con
un’amara lucidità, prima o poi ci troveremo circondati
da uniformi mimetiche o da poliziotti spagnoli con
aspetto da yuppie. Altre volte invece immagino
dei cowboy con un revolver che proteggono
un’inaspettata fuga mia e di Goio vestiti da indiani
kiowa.
489
Protezione, così la chiama Arantxa.
Nella Galleria dei Passi Smarriti c’è un
grande orologio rotondo a cui manca la lancetta
delle ore.
“Meno dieci” ti risponderanno se chiedi l’ora.
“Ma di che ora?”
“Manca una lancetta!” ti diranno indicando
l’orologio mutilato.
Passo le ore a leggere. Nel libro di Sigmund
Freud lasciatomi da Imanol ho letto che uno dei
bisogni fondamentali dell’essere umano è quello di
essere amato e ho fatto un’orecchietta alla pagina.
Che l’essere umano è sempre in pericolo e che
anche da un punto di vista biologico ha bisogno
dell’amore. E lì ho fatto il segno. E che questo
bisogno è dovuto al fatto che veniamo al mondo
così immaturi e indifesi, e che il bisogno d’amore
non scomparirà mai.
Mi viene voglia di andare dal Rosso e dirgli:
“Non c’è altra soluzione. Dobbiamo credere
nell’amore” e accarezzare i suoi capelli rossi.
L’amore è un comportamento imperfetto che
spinge l’essere umano dalla sofferenza al piacere,
490
L’amico congelato
dal piacere al dolore e di nuovo dalla sofferenza al
piacere. E chi aspira a sentimenti perfetti, raramente
vedrà l’onda del desiderio negli occhi dell’altro.
Noi baschi siamo piuttosto freddi quando
dobbiamo esprimere i nostri sentimenti, forse un
po’ di tenerezza migliorerebbe il nostro essere
baschi.
Ma non inizierò con le scuse stile Josu, con
riflessioni su concetti astratti, quando il desiderio
reale è accarezzare la chioma rossa di Goio.
Attraverso la Galleria dei Passi Smarriti, che
a volte mi sembra una giungla. Non una foresta ma
una giungla. So che sul pavimento è stata data la
cera, per questo i miei passi fanno scriiih scriiih, ma
ho l’impressione di calpestare le foglie secche della
giungla.
“Ti stavo cercando” dice Imanol quando ci
incontriamo. “Devo chiederti scusa, l’altro giorno,
ubriaco com’ero, forse sono stato impertinente.”
“No, non mi hai detto niente.”
“Rispetto a Goio, invece, devo dirti che sta
meglio.”
“Lo so, sta molto meglio.”
491
“Come medico, io lo dimetterei,” Imanol mi
riempie di gioia. “Ma, comunque, gli converrebbe
rimanere qui ancora un po’, non si sa mai...”
“Per la permanenza qui, sono piuttosto
preoccupata. Non so ancora come, ma credo che
dovremmo andarcene al più presto.”
“Me l’ha detto Arantxa, che è stato il nostro
sbirretto a farvi scendere dal treno e a interrogarvi.
Hai ragione ad aver paura. Comunque, mio cognato
non muoverà un dito contro di voi...”
Facendo con le dita la lettera p dell’alfabeto
muto, si porta una Marlboro alle labbra.
“Al contrario” continua, “se ci fosse qualche
pericolo ci avviserebbe. Non potete continuare a
scappare da una parte all’altra senza fermarvi,
Maribel, nelle guide Michelin o del Touring non sono
indicate caverne e nemmeno abissi, ma chi viaggia
trova buchi neri di ogni tipo e, per lo meno Goio,
ha bisogno di tranquillità, almeno per un periodo,
che sia in casa di mio padre o nella capanna di
Tirofijo...”
Parla come sua sorella, in modo fluido e
lento, buttando fuori ogni tanto nuvole di fumo.
492
L’amico congelato
“Puoi dire quello che vuoi, ma ho il sospetto
che nessun basco possa vivere senza frustrazioni,
senza questo profondo senso di rassegnazione.
Tutti i baschi che ho conosciuto sono così, mio
padre e i suoi amici, Manuel, voi. Dopo esservi
sentiti quasi stranieri nel vostro Paese, potete
andare in qualunque luogo e vi adattate al
paesaggio come animali che sanno mimetizzarsi,
ma non diventerete mai gente del posto. Perché
il vostro cuore fossilizzato prova vergogna per
essere scappati dalla vostra terra.
La lontananza dal luogo d’origine, il
mimetismo con il paesaggio, il cuore pietrificato.
Sarà anche così ma adesso devo fuggire dal
comandante con i baffi da corvo.
“Preferisco ascoltare” dico a Imanol, quando
rimane zitto come fosse in attesa di una risposta.
“E con questo non voglio dire che non mi
piacerebbe essere come voi. Nel nostro gruppo
di amici si parla solo di chi ha più soldi, chi ha la
macchina più nuova, chi ha più amanti, di chi ce
l’ha più lungo...”
Schiaccia nel posacenere il mozzicone di
493
sigaretta e fa una lunga pausa:
“Anch’io vorrei andarmene. Firmerei le
parole scritte da Simón Bolívar, proprio qui, a
Barranquilla, pochi giorni prima di morire. Scrisse
che la cosa migliore che si può fare in America è
andarsene. La cosa migliore che si può fare qui è
fuggire...”
Ho ricevuto una lettera e un pacchetto, la
lunga lettera è stata scritta a macchina da Andoni.
Il pacchetto l’ha mandato Armando da Managua.
Anche Armando mi ha scritto una lunga
lettera ma non la leggerò. Come diceva la segretaria
di Honorato Delaselva, Non l’aprirò.
Posso immaginare le sue parole, per
esempio, la vita è fatta per il rinnovamento di tutte
le cellule, tutto il corpo cambia continuamente,
l’amore non è eterno. O, ancora più stupidamente,
Ho messo da parte tutto il mio orgoglio, ritorna,
faremo quello che vuoi, assieme. Ma, in ogni caso,
cosa mi avrà scritto?
“E questo pacchetto?” mi chiede il Rosso.
494
L’amico congelato
“Non lo so, aprilo se vuoi...”
“L’amico congelato” dice lui, strappando la
carta marrone che lo avvolge.
“Cosa?” dico allarmata, ricordando la frase
di quel telegramma di tempo fa, Goio si è congelato.
Racchiuse all’interno di quella carta marrone
che si usa per avvolgere il pesce, la carne e cose
del genere, ci sono quasi quattrocento pagine
scritte a macchina.
“Credo si tratti del romanzo che ha scritto
Armando” dico, dopo aver controllato alcune
pagine.
“Chi è Armando?”
Ed ecco qui il romanzo, la ragione di quegli
interminabili tip tip tap tip tap top diventati un plico
di fogli.
“Quello che vive con me a Managua, Josu.
Non lo conosci?”
“No.”
“Credo che invece lui ti conosca. Vive
rinchiuso in casa a Managua, ed è un mezzo
scrittore.”
L’infermiera, una bionda tinta, arriva con la
495
scatola delle medicine e distribuisce ai pazienti le
pastiglie come fossero cioccolatini.
“Ti aiuto a distribuire le pastiglie” le dice il
Rosso e se ne vanno assieme.
Rimango sola e non leggerei la lettera di
Josu se non si fosse aperta quasi da sola, come
una colomba che apre un’ala:
Mi hai detto che scrivo con l’intenzione
di stare zitto, che vivo sempre più fuori luogo,
sempre più fuori dal tempo, che mi nascondo dietro
schizzi di bozze e che rinuncio alla vita attuale per
raccontare il passato o il futuro.
Abbiamo perso la comunicazione, ma scrivo
con l’intenzione di recuperarla, come quando ci
raccontavamo delle cose, in quella stanza senza
mobili del passato, senza sedie, seduti per terra
schiena contro schiena. Credo che anche scrivere
sia un modo di raccontare delle cose girando la
schiena all’altro, perché tutti abbiamo bisogno di
un po’ di conversazione. Però ognuno la ottiene
come può, qualcuno con un monologo, qualcuno
scrivendo e c’è addirittura chi partecipa alla
496
L’amico congelato
conversazione in silenzio.
Non mi dice che mi ama e nemmeno
di tornare, Josu sta parlando dei suoi scritti, il
ragno grammaticale appeso alla ragnatela della
letteratura in un angolo del mondo:
Ma forse hai ragione e, forse, scrivere non
è un altro modo di parlare, ma il surrogato della
parola, perché ci siamo dimenticati come si fa a
parlare. E questo linguaggio sarà di un altro mondo,
queste parole saranno intraducibili, questo idioletto
assomiglierà molto al silenzio...
Il Rosso ritorna ridendo con l’infermiera
bionda.
Il giorno che ho conosciuto Goio,
nell’appartamento di Hendaia, in quell’agosto
da spiaggia, e l’ho visto così pallido, ho pensato:
questo è uno di quelli che leggono molto.
“Vuoi leggerlo?”
“Sì, è tanto che non leggo niente in basco”
dice lui, con il dattiloscritto sotto il braccio. “Tu l’hai
497
letto?”
“No” rispondo.
“Non ti piace leggere?”
“Non voglio perdere tempo.”
“Se è solo per il tempo, lo perdiamo in molti
altri modi.”
“Il tempo e l’innocenza...” dico con un pizzico
di cattiveria.
“È proprio quello che io voglio perdere al più
presto,” dice il Rosso ridendo, “l’innocenza...”
E resto di nuovo sola.
Così, molto bbk, leggerò un altro frammento
della lettera, come se spiegassi l’altra ala della
colomba:
Dalla porta al letto, dalla sedia alla finestra,
vivo all’interno di misure dettate dall’universo della
quotidianità e ho solo due possibilità: ammettere
l’oggettività degli oggetti e adattarmi all’assenza di
desiderio delle nature morte, oppure posso provare
a cambiare posto a qualcosa, accendere amori,
catastrofi ed eclissi e provocare l’insurrezione delle
cose...
498
L’amico congelato
Poi racconta che era uscito di casa per
prendere un po’ d’aria e che aveva dimenticato la
chiave nella porta all’interno ed era rimasto chiuso
fuori, dall’esterno aveva visto i libri sul tavolo,
il caffè, i fogli scarabocchiati e la penna e aveva
dovuto rompere il vetro della finestra per rientrare.
Era entrato nell’isolamento del suo piccolo
studio e aveva continuato a scrivere.
Ma continuo a non capire in cosa consiste
l’insurrezione delle cose. È tipico degli scrittori
passare il tempo e spesso tutta la vita ad organizzare
la fila infinita delle formiche che sono le lettere,
rinchiusi in minuscole stanze, trasformare i giorni
in giornate domestiche e le giornate domestiche in
giorni di lavoro. La gente che inganna se stessa
con queste forme di resistenza è un’eccezione della
natura. Ma dov’è l’insurrezione delle cose? A parte
andare a letto con la bella vicina indigena, direi che
l’insurrezione è esclusivamente morfosintattica.
Nella solitudine one man´s band, mi invento
gli amici come un bambino che non vuol far altro
499
che giocare. Dramatis personae, i miei compagni
di dramma, i miei fantasmi, quelli come noi dispersi
per il mondo, persone senza appigli, tristi, in
guardia, legati alla catena delle assenze.
Ho provato a proporre alternative narrative,
benché sia impossibile evitare l’unica curva
necessaria del nostro destino.
Chi saranno i personaggi drammatici che si
è inventato per il suo romanzo, per cancellare se
stesso e la stanza del suo isolamento?
A volte, bisogna guardare le cose da un’altra
angolazione. Quando uno, oltre ad essere parziale,
diventa anche noioso. Intuisco il pericolo: rimanere
intrappolato nella sparatoria.
In
ogni
caso,
inevitabilmente
poi
sopraggiungerà la realtà con il suo vento, i lampi, i
tuoni, le inondazioni. Ma questa è un’altra storia...
500
L’amico congelato
27
CITTÀ
Non incontrerai nuovamente il topo che hai
visto passare indeciso da prua verso poppa.
Troverete un luogo da dove risalire la
muraglia di ghiaccio, attraccherete da dritta,
sebbene nemmeno da questa parte sia facile
scalarla. Bisognerà scavare una scala nel ghiaccio.
Dovrete muovervi in fila indiana e legati l’un l’altro
con la corda. I primi della cordata ricaveranno
gli scalini. A fianco ci sarà il precipizio e il rischio
di cadere. Quando raggiungerete la pianura di
ghiaccio, la visibilità ormai sarà scarsa. Il nostromo
sceglierà il luogo per la stazione scientifica e gli
darà un nome: Città Estiva. Ci metterà anche un
cartello:
Summer Town
501
“Estiva!” dirà il nero Bobbi con ironia.
“Città!” dirà un altro ridendo.
Axel dirà che il nostromo potrebbe iniziare a
mettere un nome con la penna blu a tutti gli angoli,
adesso che ha a disposizione una grande pianura
bianca.
La
principale
preoccupazione
della
giornata sarà individuare un percorso sicuro
dall’imbarcazione al campo. Camminando in linea
retta, troverete un precipizio verticale sul mare e,
dall’altra parte, nella pianura di neve si apriranno
qua e là profondi crepacci.
I crepacci non saranno stretti come sembra,
alcuni avranno una specie di copertura o ponte che
li nasconde ma, quando questi cadono, si vedranno
dei paurosi crateri viola in profondità.
“I crepacci si allargano e si stringono” dirà
Axel.
Penserai che si allarghino o si stringano in
base alle maree. Poi capirai meglio cosa succede:
i crepacci respirano.
E, guardando dal bordo, sentirai il soffio
glaciale che sale dalle profondità.
502
L’amico congelato
Il giorno dopo aver montato il campo
base, avrete molte cose da fare per costruire e
organizzare quella piccola città che tu, per conto
tuo, avrai chiamato Udairi. Il tempo non sarà dei
migliori, a volte ci saranno ululanti folate di vento
di nordest, una fitta nebbia e tormenta di neve. E
quella della fondazione sarà una battaglia dura ma
meravigliosa.
Se il tempo non lo impedisce, farete delle
escursioni attraverso questo continente infinito
e sconosciuto. Si citeranno le avventure dei
navigatori Arthur Gordon Pym e Dirk Peters che
giunsero a vedere la Sfinge dei ghiacci, così come
la leggenda degli esploratori Robert Falcon Scott e
Roald Amundsen che vollero piantare la bandiera in
quel punto immaginario del Sud che attrae tutte le
bussole. Ma, tecnicamente, lì non è mai successo
niente, perché la gomma bianca della neve ha
cancellato per sempre qualunque traccia delle loro
imprese.
Si registreranno numerosi video e si
scatteranno molte fotografie a Udairi, pensando
che il vostro vissuto si possa trasformare in
503
un avvenimento, come se la vita non fosse
sufficientemente reale di per sé e fosse necessario
mostrare delle prove alla memoria. Non parlerete
fra di voi ma guardando l’occhio meccanico delle
telecamere, come se steste facendo dichiarazioni
ad amici e famigliari seduti sul divano di casa, o a
voi stessi in un futuro.
E i vostri volti si macchieranno di sorrisi, nella
realizzazione del reportage sul passato dettato
dalla telecamera. John Masefield strapperà un
pesce dal becco di un pinguino che lo tiene stretto.
Il pinguino si arrabbierà e inseguirà lo scrittore fino
all’accampamento, protestando, molto seccato, e
rimarrà davanti alla base a lungo, a reclamare il
suo pesce.
L’imbarcazione resterà ancorata ma, prima
di sera, anche lì avrete da fare, perché ci sarà il
serio rischio di perderla. La assicurerete con ancore
da ghiaccio e con delle gomene, ma non sarà
sufficiente e nessuno potrà rimanere a guardare.
Nemmeno con l’imbarcazione ormai bloccata ci
sarà riposo per i marinai, che dovranno smontare
e aggiustare il motore. A poppa si apriranno le
504
L’amico congelato
coperture sopra una resistente struttura.
Ritornando
dall’imbarcazione
all’accampamento, tu ed Edna rimarrete indietro.
Farà freddo e camminerete a fatica e, quando
starete per arrivare alla base, Edna si stringerà
a te, appoggerà la testa sul tuo petto e cercherà
di passarti una mano attorno alla vita. Sentirai un
brivido nel corpo, al di sotto dei grossi abiti pesanti
noterai le gambe tremare e ti fermerai. I tuoi guanti
saranno troppo grossi per accarezzare il viso
pallido che ti guarda da sotto il cappello e che quasi
non vedi. Ed Edna, tremando, ti dirà qualcosa di
incomprensibile, tipo I love you, parole fittizie in quel
momento, e sentirete il vento freddo nelle ossa.
Proseguirete sulla strada verso l’accampamento e
tutto sarà molto irreale.
Verrà organizzata anche una battuta di
caccia, per catturare foche e pinguini.
“È un peccato, perché gli animali
dell’Antartico sono brava gente” dirà qualcuno. Il
secondo giorno porteranno una foca enorme, il
cadavere dell’animale è lungo quasi tre metri e ha
un buco di proiettile in testa.
505
I tuoi amici arriveranno orgogliosi con i fucili
in spalla.
“Un elefante marino!” dirà il cuoco
sorridendo, appoggiando lo scarpone sulla schiena
dell’animale morto, mostrando il fucile di traverso
davanti al corpo, come fosse in posa per una
fotografia.
Rimarrai a contemplare quella massa morta,
senza capire la vanità del cacciatore. La pelle grigio
scura, con macchie gialle e terrificanti denti.
“Abbiamo carne e grasso per un po’...”
Ti avvicinerai al mare e, dal bordo del
precipizio, l’acqua ti sembrerà spaventosa.
“La temperatura è di sette gradi sotto zero
ma l’acqua non gela grazie alla salsedine” sentirai
dire. Forse per la paura, camminare sarà molto
faticoso. Il vento soffierà con forza ostacolando
i tuoi passi, cadrai, ti rialzerai, barcollerai e
arriverai all’accampamento mezzo soffocato,
boccheggiante.
“Respira dal naso” ti consiglieranno.
La città dei pinguini sarà a poca distanza
dal campo base e andrete spesso a osservare i
506
L’amico congelato
vostri comici vicini. I piccoli ormai avranno perso
la peluria iniziale e sfoggeranno delle belle piume
nero azzurre ma senza ancora indossare il vestito
degli adulti. Sarà una città popolata, organizzata in
famiglie.
Alcune di esse si disperderanno sulle
colline di ghiaccio fuori dalla città, sono i pinguini
di campagna. E darete un nome anche a uno
che è sempre solo: Pinguino Solitario. In una di
quelle famiglie di campagna, ne troverete anche
uno impazzito che non farà altro che contorcersi e
gridare; gli altri pinguini guarderanno impietositi il
poveretto.
Passerai le ore a osservare le abitudini degli
animali, il loro deambulare umano, la loro stupidità
umana.
“Pensi davvero che assomigliamo ai
pinguini?”
“Sì, anche noi siamo abbastanza stupidi.”
“Stupidi sì, ma ridicoli... pensi che veramente
siamo così ridicoli?”
Un giorno, un enorme crepaccio vi impedirà
di fare il solito percorso, per evitarlo farete un altro
507
giro e troverete i brandelli di una bandiera sovietica.
Proprio lì sotto, a 80 o 90 metri di profondità, si
vedrà un vecchio rimorchiatore russo.
Sotto la scurita bandiera rossa, ci sarà una
tavola di legno con questo semplice epitaffio:
508
L’amico congelato
28
LA LEGGE DEL PIÙ FORTE
La pioggia cadeva sul mare e le onde contro
il braccio esterno del porto erano altissime.
Un forte vento la faceva da padrone e
non c’erano molti pesci in mare. Anche se, con il
maltempo, si catturavano più sgombri.
“A febbraio anche i gatti mendicano pesce”
dicevano i vecchi di Kalaportu.
Quel mese di febbraio ci furono due
cambiamenti: a quelli che, come me, erano in
collegio, diedero il permesso di andare in paese la
domenica mattina, a condizione che assistessimo
alla messa delle dieci; e la domenica pomeriggio,
iniziarono le proiezioni cinematografiche.
Così la domenica mattina, indossai il
montgomery nuovo e mi avviai per andare alla
Messa Grande della chiesa dei mostri. Passai sotto
quegli esseri spaventosi e ascoltai la predica del
509
prete.
Era in basco ed era rivolta ai pescatori:
“Si può dire che quello del pesce che viene
catturato sia un destino triste o sventurato? Ebbene
no. Il nostro destino, quello delle creature di questo
mondo, non è altro che compiere la volontà di Dio.
E i pesci, quando finiscono nelle reti...”
Mi sedevo in chiesa e osservavo le immagini
alle pareti. I santi mi sembravano personaggi
fantastici come quelli di Walt Disney, più arcaici ma
non più sacri. C’era anche una Via Crucis, che si
doveva leggere, immagine dopo immagine, come
le vignette di un fumetto.
“...prigionieri nelle ceste dei pescatori,
sfamando le persone, senza rendersene conto,
compiono il destino che Dio ha scelto per loro.
La stessa cosa succede con gli esseri umani:
dobbiamo rispettare il destino che Dio ha scelto per
noi.”
C’erano anche delle barche in miniatura,
appese alle pareti laterali della chiesa. A volte, con
il vento, sembrava che navigassero nell’aria.
“Dopo il Diluvio universale, il livello dell’acqua
510
L’amico congelato
non è più tornato alla situazione precedente e i due
terzi delle terre sono ancora sommersi nell’acqua...”
Non imparai le preghiere. Mi limitavo a
muovere le labbra come se qualcuno dovesse fare
il doppiaggio della mia voce.
Qualche volta, la domenica, invece di andare
in chiesa, andavo in giro. Un giorno, mi ricordai di
Hamaika e mi recai all’osteria.
“È un po’ che non si fa vedere da queste
parti” mi informò l’oste.
“Non sai dove vive?”
“Da un po’ di tempo vive alla pensione di
Klara.”
Mi dette un indirizzo della zona della Erribera
e mi disse che forse l’avrei trovato lì.
Non era una casa normale. Si trattava di
una pensione cadente e sporca. Guardando dalla
strada, vidi una donna grassa.
“È questa la casa di Klara?”
“Entra, ragazzo!” mi disse e mi indicò una
poltrona dove sedermi.
511
L’interno era pieno di mobili e tende antiche.
“Aspetta un momento” mi disse.
In sala c’era un acquario, all’interno si
vedeva un pesce rosso che nuotava, da una
parte all’altra chiuso dentro frontiere di cristallo, si
fermava davanti a me, apriva la bocca e gli occhi e,
boccheggiando, in silenzio, batteva contro il vetro.
Forse non sapeva che era un vetro, per lo meno
non come lo sappiamo noi.
“Allora, stai ammirando il pesce rosso?”
“Hamaika vive qui?”
Un gatto bianco con la coda tesa salì
miagolando sul tavolo pieno di piatti sporchi e
avanzi di cibo.
“Hamaika? Quello è sempre ubriaco ed è un
disgraziato.”
Da una parte c’era uno specchio di argento
lucido rivolto all’acquario.
La donna, che stava facendo un gomitolo
sulla sedia a dondolo, sfilatisi i piccoli occhiali
rotondi, lasciò la matassa da parte e, visibilmente
irritata, mi indicò la porta:
“E quello specchio a cosa serve?” gli chiesi
512
L’amico congelato
uscendo.
“Un pesce solo in un acquario fa una vita
molto triste” mi rispose, “con lo specchio è più
contento perché, vedendo un altro pesce, si sente
in compagnia.”
Allora mosse le pinne e si voltò, per fare
qualche giro dentro l’acquario.
“Se n’è andato, quel fannullone, miserabile
foca!”
La porta di legno era vecchia e triste.
“E se n’è andato senza pagare l’affitto di sei
mesi!”
La domenica tornavo in collegio a
mezzogiorno, perché dopo pranzo c’era il cinema,
una proiezione alle tre del pomeriggio che si ripeteva
alle cinque. Padre Alvarez scelse quattro ragazzi,
tra cui io, tra quelli che non andavano a casa il fine
settimana, per controllare la sala, diede ad ognuno
di noi una torcia e ci mise a fare le maschere.
Goio veniva quasi sempre alla proiezione
delle tre. Sua madre gli dava venticinque pesetas.
513
Sulla porta si formavano gruppi e file di ragazzi. Si
mangiavano frutti secchi e ci si scambiava figurine
di calciatori: sembrava un mercato. Scoprii che
erano semi di girasole e mi sembrò incredibile la
somiglianza di quei fiori con il sole stesso. A un
certo punto si spegnevano le luci.
E poi, nella sala buia, iniziava il NODO, il
notiziario del regime.
A volte, con quella fascia di polvere luminosa
sopra le teste, fra i gruppi di ragazzi iniziavano
delle scaramucce e noi, che controllavamo la sala,
dovevamo avvicinarci con le nostre torce e, con
sferzate di luce, ordinare loro di tacere.
“Tacere? Perché dovremmo tacere, abbiamo
pagato l’entrata e parliamo quanto vogliamo e,
se ne abbiamo voglia, portiamo la radio e magari
anche la televisione...”
Allora Padre Alvarez avrebbe messo fuori
la sua testa calva dalla finestrella della cabina di
proiezione, come se volesse fare un bilancio della
discussione o della battaglia e, se lo considerava
necessario, avrebbe acceso le luci della sala e
fermato la proiezione.
514
L’amico congelato
Per esempio, “Ci hanno circondato, Bonnie!”
diceva Clyde, e lo schermo diventava bianco.
Se Padre Alvarez accendeva le luci e
fermava il film, non si poteva far altro che alzarsi
e andarsene. L’avrebbero inutilmente pregato di
continuare la proiezione, dicendo che mancava
poco e di lasciarci vedere la fine, ma lui non
cambiava idea. Sistemava le bobine dei film nelle
scatole di metallo, se le metteva sotto il braccio e
spariva all’interno del chiostro, senza rivolgere la
parola né ascoltare nessuno.
E noi, i custodi della sala, rimanevamo lì, con
le torce in tasca, come lucciole, fino alla domenica
successiva.
Una domenica, quelli della prima fila in
galleria pisciarono di sotto. Sei o sette assieme,
perché cadde una bella pioggia tiepida su quelli
della fila 21. Si udirono terribili insulti, in spagnolo
quelli dei ragazzi e delle ragazze, in basco quelli
dei più vecchi. Da allora, gli amanti del cinema che
venivano tutte le domeniche non si sarebbero più
seduti nei posti della fila 21, per precauzione; dalla
17 alla 22 erano troppo vicini al bordo della platea
515
superiore. Padre Alvarez illuminò immediatamente
la sala, fermò la proiezione, rimise le pellicole nelle
scatole rotonde di latta e se ne andò. Il giorno della
pioggia dovemmo buttare della segatura nella sala.
Se non era per un motivo era per l’altro, o
per le scaramucce pubbliche o perché la pellicola
a metà si bruciava, sta di fatto che raramente
arrivavamo al lieto fine, alle grandi lettere del The
End che restituivano agli spettatori la tranquillità.
In ogni caso, con lieto fine o senza di esso, lì
vedemmo Spartaco, King Kong, Charlot, Tarzan,
BB e tutti gli altri in scene ancora oggi memorabili.
Quando in sala la luce si spegne e si accende
lo schermo, il sole si sta alzando sul deserto. La
carovana avanza in lontananza, verso Ovest,
rumorosamente e con le sue ruote cigolanti, tra la
polvere e le pietre di arenaria del deserto, il tutto
avvolto da colori giallastri e dalla musica dei violini.
Nella carovana non manca nessuno: il
medico ubriaco, il giocatore professionista, la
prostituta, il direttore di banca avido e ladro,
la donna elegante, lo stanco commerciante di
whisky, lo sceriffo rude, il prigioniero ammanettato
516
L’amico congelato
che impiccheranno appena arrivati in città. Non
mancherà molto, amico, per arrivare a Oklahoma.
Tutti procedono, ognuno assorto nei propri pensieri
e, all’improvviso, in cima alla collina ingiallita
si vedrà una penna, perché gli indiani ribelli che
portano una penna in testa sono sempre in agguato
sulla collina.
Poi gli indiani attaccheranno la carovana
e la donna elegante e il prigioniero riusciranno
a scappare. La donna è da vent’anni che cerca
sua figlia perché, quando aveva solo tre anni, era
stata rapita dagli indiani. E il ragazzo dal doloroso
passato per ora non desidera nient’altro che il collo
libero dalla corda. Così entrambi cammineranno
attraverso il deserto, la donna che si è lasciata
alle spalle tutta l’eleganza dell’Est e il ragazzo dal
doloroso passato, entrambi stanchi, e anche la
borraccia sarà assetata finché non arriveranno al
fiume.
Così si getteranno in acqua a faccia in
giù e poi si addormenteranno all’ombra per
risvegliarsi proprio quando un’indiana bionda sta
facendo il bagno nel fiume. La madre riconoscerà
517
immediatamente la sua amata figliola, ma la giovane
kiowa prenderà sua madre per una pazza, il ragazzo
dal doloroso passato guarderà, con la musica di un
violino in sottofondo, la ragazza bagnata che esce
dall’acqua che non assomiglia affatto alle coriste
francesi che ha velocemente amato nei saloon di
Yuma, Denver e Kansas City. Poi sequestreranno
la ragazza kiowa, lei perché vuole farne sua figlia e
lui perché la considera la sua moglie predestinata,
forse poco a poco si addolcirà e addomesticherà,
come se fosse dell’Est, e proseguiranno tutti e tre
assieme contro tutti, contro i kiowa che appaiono
all’improvviso tra le rosse colline, contro tutti quelli
che hanno inchiodato in tutte le città il ritratto
del ragazzo dal doloroso passato sotto la scritta
wanted.
Era la legge del più forte, ma noi, in quella
poetica della violenza, ci identificavamo con quegli
indiani necessariamente perdenti quando il cowboy
dal doloroso passato iniziava a sparare e i kiowa
cadevano morti come mosche:
“Incredibile! Con ogni pallottola uccide sei o
sette indiani!” a volte protestavamo.
518
L’amico congelato
Fiu fiu fiu le pallottole passavano vicino alle
nostre orecchie bucando l’aria.
Ma non erano gli indiani i perdenti, perché
gli indiani, sia vivi che morti, senza nome,
sarebbero rimasti indistintamente confusi nei
colori del deserto giallastro, abbandonati, come
noi, in quell’oscurità. I veri perdenti sarebbero stati
l’avido direttore di banca, il giocatore che faceva
indebitare gli avversari, il pistolero professionista,
come sarebbe stato evidente nel duello sotto il sole
nella via principale di Oklahoma, in quell’Oklahoma
che sembrava avere una sola strada.
Poi, il ragazzo dal doloroso passato se ne
sarebbe andato, montando a cavallo, con il suo
gilet nuovo e il cappello pulitogli dalla ragazza,
a inaugurare il nuovo ranch vicino a Oklahoma
con moglie e suocera e, all’ora del tramonto, si
sarebbe allontanato un po’ per ammirare quello
che era stato un deserto e adesso era tappezzato
d’erba con mandrie di vacche muggenti al pascolo,
e per ammirare le innumerevoli stelle e, con la
stessa musica di violino dell’inizio e delle scene
d’innamoramento, per ammirare anche le grandi
519
lettere bianche che apparivano all’orizzonte tra le
nuvole:
The End
E noi, le lucciole, quando la sala si
illuminava, rimanevamo al nostro posto finché
le folle di spettatori non erano uscite, muggendo
come bestiame.
“Questo sì, dicono che devono fare una
cosa e la fanno” decidemmo.
“Ma per sopravvivere bisogna imparare i
trucchi...”
Trucchi. Per esempio quelli del sangue.
Quel sangue che zampillava abbondante non era
reale.
“Si prepara in fabbrica, come la pittura o la
salsa di pomodoro. Si introduce in una borsa di
plastica con un piccolo esplosivo che si fa esplodere
a distanza...”
Così ce lo spiegò Urruti, quello che ci buttava
il pallone lontano.
“Nei film più vecchi non era così, quello che
520
L’amico congelato
riceveva lo sparo doveva portare la mano nel punto
colpito e rompere la sacca di sangue, ma si notava
e di solito era un movimento melodrammatico,
perché il sangue non usciva al momento dello
sparo ma quando la borsa veniva schiacciata con
la mano...”
Gli eroi dell’Ovest erano così, coraggiosi
ma crudeli, sicuri ma imbroglioni, responsabili ma
silenziosi, sempre pensierosi e di poche parole,
oggi direi cinici. E iniziammo così, con questa etica
del comportamento, per far colpo sulle ragazze
di dodici tredici anni, in mancanza di marlborooo
fumando le nostre celtas senza filtro con sguardo
da cowboy. La tecnica del gesto era questa: alzare
le sopracciglia incurvate e corrugare la fronte senza
dire niente.
Dopo il cinema, a volte rimanevamo a parlare
in cortile o, se pioveva, a fumare sotto la tettoia del
campo di pelota. Una volta si unì a noi anche Goio.
Quel giorno venni a sapere dell’esistenza della casa
che chiamavano Petit Maison. Alcuni pescatori
erano soliti andarci finito il lavoro, pareva ci fosse
un salone con poca luce, lampadine colorate di
521
bassa intensità. Sulla porta ci stava il Portoghese,
che si faceva pagare; credo che prendesse circa
duemila pesetas a scopata.
Quella era una parola strana, scopata,
strana come scopare, fare l’amore e tante altre.
Le scope sono fatte da un manico e una spazzola,
diventammo degli esploratori del dizionario,
benché non ci fossero vocabolari in basco e in
quelli spagnoli le spiegazioni delle parole legate al
sesso fossero minime. Vivevamo ossessionati dai
buchi e dalle rotondità.
E il racconto di Pinocchio riscosse un
grande successo. Raccontai che a Biancaneve
piaceva Pinocchio, ma la cosa di Pinocchio era
molto piccola e allora Biancaneve ebbe quell’idea,
di chiedere a Pinocchio Adesso dimmi una bugia e,
sospirando, Adesso una verità, Adesso una bugia,
Adesso una verità, Adesso una bugia, Adesso una
verità...
Le ragazze divennero per noi lussuria
ambulante.
Si apriva così un mondo segreto, che ci
attraeva in modo confuso e violento. Perché anche
522
L’amico congelato
noi sentivamo il bisogno d’amore e sognavamo
che in quel mondo sconosciuto avremmo amato
qualcuno, e che forse qualcuno ci avrebbe amato.
“Una volta che ci entri, puoi scegliere una
delle dieci o undici ragazze che ci sono lì” disse
qualcuno.
“E da dove vengono queste ragazze?”
“Da tutte le parti del mondo, una è svedese,
un’altra brasiliana, un’altra tailandese, un’altra
algerina...”
“Per quel che ne so io” disse Urruti, e
credevamo sapesse cosa diceva, “ce ne sono solo
due, una bionda e l’altra mora, entrambe puttane...”
Pareva che di notte indossassero vestiti da
sera luccicanti, grandi scollature, che fossero molto
attraenti e che fumassero sigarette dallo strano
odore, forse si trattava di oppio...
“Sì, forse!” dicevamo.
Da quel giorno, Urruti ci diceva con malizia:
“Fermi lì, eh!”
523
29
L’OPINIONE È COME IL CULO
Arthur Smolensk 1953-1989. Sotto i caratteri
cirillici c’erano i numeri arabi e un trattino tra di essi
per riassumere tutta una vita, come se quel trattino
fosse una rappresentazione sufficiente di un’intera
esistenza.
Visto il rimorchiatore e l’epitaffio, dedurrete
che siete vicini a una stazione sovietica.
“Maladiozhnaia...”
dirà
il
nostromo,
prendendo quel nome chissà da dove.
E attraverserete a piedi la pianura innevata
alla ricerca della base sovietica.
Il nostromo, dopo aver tracciato una linea
retta sulla cartina, calcolerà che vi troverete circa
a undici chilometri ma, a causa dei crepacci, sarà
necessario fare un giro di 29 chilometri, perché
quelle crepe sono capaci di inghiottirsi qualunque
cosa.
524
L’amico congelato
“Se il ghiaccio si rompe e ti senti cadere” ti
dirà Axel, “allarga le braccia e attaccati a qualunque
sporgenza...”
Andrete in sei e la marcia sarà faticosa. Non
sarà ancora passata mezz’ora da quando avete
lasciato la bandiera sgualcita che, all’improvviso,
vedrete sparire Axel davanti a voi. Guarderete giù
e lo vedrete in fondo a un buco di circa tre metri,
con gli occhi spalancati e un sorriso tra l’allegro e
lo spaventato.
“Perché non hai aperto le braccia?”
Ci metterete più di sette ore per arrivare
alla base sovietica abbandonata da tempo. E lì,
come se foste archeologi, inizierete a esaminare
quell’antica città. Sarà una città fantasma, che
un tempo fu davvero un quartiere, le fondamenta
delle case in acciaio, i pavimenti e le pareti interne
di legno protette con isolanti termici e lastre di
alluminio.
“Vodka” dirà uno entrando in una casa e
leggendo un’etichetta.
Ci sarà una finestrella aperta. Comincerà
a soffiare il vento e, quando ti avvicinerai per
525
chiuderla, entreranno raffiche di neve che
copriranno tutto di polvere bianca, e la casa stessa
inizierà a muoversi:
“Questo vento può sollevare la casa,
comprese le fondamenta di acciaio...”
Dormirete lì e, il giorno dopo, sistemerete la
sauna dei russi e la proverete. Sentirete il piacere
di sudare nel vapore caldo e la sferzata nell’uscire
nudi sulla neve fredda e, dopo esservi asciugati,
la sensazione di pulizia che avrete all’indossare i
vostri pesanti abiti sarà bellissima.
Axel
preparerà
i
suoi
apparecchi
sismoacustici e realizzerà le sue analisi. Calcolerà
che, in quel punto, l’altezza del ghiaccio è di 2.100
metri. Poco più in là, invece, sarà di 740. Pertanto
vi troverete sopra enormi precipizi nascosti sotto il
ghiaccio.
“Al Palo della Solidarietà abbiamo 2.100
metri di ghiaccio sotto i piedi.”
Nel mezzo della base sovietica troverete
il Palo della Solidarietà, questo è il nome che gli
avrete dato. Inchiodate sul palo, le assicelle a
forma di freccia con i nomi delle città e le distanze,
526
L’amico congelato
frecce di legno inchiodate sul cammino verso il
luogo d’origine. Girerai attorno al palo e leggerai:
Leningrado 15.780 km, Praga a tot chilometri e i
nomi di altre città che furono socialiste, con la
corrispondente distanza, ma ci saranno anche
Ottawa e Amburgo.
Allora anche tu preparerai una freccia.
Prenderai un’assicella caduta ai piedi del palo e,
con il pennarello di Axel, scriverai:
Utilizzerai lo stesso chiodo arrugginito per
fissare il cartello puntato verso Nordest. E lì rimarrà
il nome del tuo paese, a più di duemila metri di
ghiaccio sopra il mare, sul Palo della Solidarietà.
Quando arriverà l’ora di tornare alla vostra
base, sotto una sferzante tormenta di neve, senza
poter vedere niente a venti o quaranta metri,
girandovi indietro, l’ultima cosa che distinguerete a
Maladiozhnaia sarà il palo con le frecce:
527
Kalaportu e questa tua ingenua birichinata,
senza specificare i chilometri di distanza.
Camminerete per un’ora guidati dalla
bussola, lottando con la grigia nevicata di una
mattina bianca.
“Questa bussola non mi ha mai tradito”
sentirai dire al nostromo, che urla insieme alla
528
L’amico congelato
tormenta.
“Come fai a saperlo?” gli chiederà Axel,
anche lui gridando.
“Si vede l’ago della bussola.”
E immaginerai il sorriso di Axel sotto gli abiti
di pelle.
Il vento soffierà sempre più forte e il
nostromo, dopo essersi attardato, ordinerà di
montare l’accampamento proprio lì.
Vi sistemerete tutti in due tende. Al riparo
sotto la copertura della tenda, ascolterete lo
sfavillare della grandine e i bramiti del vento,
avvertirete che la neve si ammucchia e diventa
sempre più alta.
Rimarrai a lungo con gli occhi chiusi. Poi
sentirai dire in basco:
“Eccoci qua, tutti i vecchi amici di un tempo.”
Allora aprirai gli occhi e ti ritroverai nell’aula
della scuola, i banchi, la lavagna, ma ci sei solo tu
in classe. Chiuderai gli occhi e sentirai di nuovo,
Siamo tutti qui, i vecchi amici di un tempo.
Aprirai gli occhi e sarai solo, con i pantaloni
corti nell’aula vuota. Richiuderai gli occhi e si
529
ripeterà quella chiamata che è anche un inganno,
molte volte, finché ti sveglierai nello stretto spazio
della tenda, accanto ai tuoi quattro compagni che,
con te, si logorano nervosi per il freddo e la paura.
Quell’insopportabile prigionia dentro la
tenda si prolungherà anche al mattino successivo,
colpa del vento, della nebbia e della neve. Nel
rendervi conto che la tormenta non cesserà,
sarete scossi dal sospetto di una paura reciproca.
Sentendo le grida che provengono dall’altra tenda,
urlerete di riamando e le vostre urla, mischiandosi
e deformandosi con gli ululati del vento, saranno
spaventose, a volte molto flebili, indebolite,
sembreranno giungere da lontano, altre volte
molto amplificate, spaventosamente tremolanti o
sconsolatamente prolungate.
Ricorda la freccia, il cartello di Kalaportu.
In questo deserto bianco tante cose possono
guidarti ma non il tuo lontano paese d’origine, né
i remoti tempi dell’infanzia. Quando la tormenta si
attenuerà un po’, proseguirete, confidando nella
bussola, sempre immersi nel vento, nella nebbia e
nella neve.
530
L’amico congelato
E avrete anche una canzone, passato il
pericolo, passata la paura e ancora vivi, da cantare
con le labbra congelate, rimettendovi in marcia:
All well again! Ah, all well again!
All! All! Love and pain.
And world and dream…
Tuttavia, e non solo per la fatica, farete il
viaggio muti, perché quella neve fine come polvere
vi toglierà il fiato.
Arrivati, rimarrete a guardare la bussola
perché non ci saranno tracce della Città d’Estate,
completamente coperta dalla neve.
Finché da un buco apparirà Edna gridando
e alzando le braccia:
“Qui, qui, qui!”
Tornando all’imbarcazione vedrete la poppa
e la prua sbattacchiare. Alcune cime si saranno
rotte a causa della tensione provocata dal continuo
dondolare del rullo.
531
Ci sarà una lieve mareggiata e, nel punto
di attracco, le onde saranno abbastanza visibili.
Tirerete delle nuove funi legandole ai ghiacci della
cala.
Il vento sarà molto fastidioso. Soffierà da
una parte e dall’altra, senza sosta, instancabile,
nove nodi al secondo, tredici nodi al secondo,
innumerevoli nodi al secondo, e quel vento
incessante trasformerà la neve in piccoli cristalli di
ghiaccio, lanciandoli con impressionante forza.
“Ed è ancora estate” dirai.
“Con l’inverno australe la temperatura sarà
ancora più terribile, 37 gradi sottozero, o 45 gradi
sottozero...”
“Ma per ora è ancora la fine dell’estate...”
Le notti si faranno sempre più lunghe e
sempre più buie.
“Il brutto tempo che abbiamo visto fino ad ora
non è niente paragonato a quello che dovremmo
affrontare se ci fermassimo qui. Arriveranno
tormente che possono durare una settimana o
quindici giorni...”
I giorni successivi il tempo diventerà più
532
L’amico congelato
mite e festeggerete il Carnevale. Axel si presenterà
coperto di piume, mascherato da cormorano.
Anche John Masefield vorrà parteciparvi e
l’unica cosa che gli verrà in mente sarà abbassare
i pantaloni. Con i pantaloni alle caviglie, le mutande
alle ginocchia, mostrando il pene e i testicoli tristi e
scuri, inizierà a imitare i pinguini. Poi, costretto dal
freddo e dalla vergogna, continuerà a trascinare i
pantaloni ma si tirerà su le mutande.
Tu prenderai una pentola e un mestolo e
farai clanc clinc clanc e, con altri percussionisti,
formerete una buona banda musicale.
Il giorno di carnevale inizierete a discutere
della data della vostra partenza, con la disinibizione
propria di chi ha bevuto.
“Credo sia arrivato il momento di andarcene”
dirà Axel.
Il nostromo gli risponderà seccato:
“Come disse Clint Eastwood in un film,
l’opinione è come il culo: ognuno ha la sua...”
Scoppierete tutti a ridere e Axel si arrabbierà:
“A marzo l’acqua inizierà a gelare e anche il
mare si congelerà...”
533
È vero che la stagione sta cambiando e
al tramonto vedrete le stelle che annunciano il
prolungarsi della notte. E non si sentirà più la
rumorosa caduta dei ghiacci della costa. La neve
si farà sempre più dura. Sia in mare che nell’aria
la vita aumenterà e si moltiplicherà, e gli animali
inizieranno a muoversi.
Ve lo confermerà anche la zona superiore
di un precipizio di ghiaccio che dà sul mare
scuro: i gruppi di foche si sposteranno verso nord
e in lontananza vedrete passare anche molte
balene, nel cielo innumerevoli storni di cormorani
fuggiranno verso nord e i gabbiani sfoggeranno
nuove piume e faranno più rumore che mai volando
alla ricerca di cibo sopra la vostra base e attorno
all’imbarcazione.
“Quel nostromo è capace di scatenare
l’inferno!” sentirai, born to raise hell. “L’inverno ci
piomberà addosso come un orso bianco!”
Il nostromo non vorrà accettare la fine
dell’estate, quasi volesse approfittare al massimo
degli ultimi sprazzi.
534
L’amico congelato
Non solo gli ultimi sprazzi dell’estate ma
anche i canini dell’inverno si faranno vedere poco
a poco, anche se non tutti saranno minacciosi. Uno
di quei giorni, per esempio, si formerà uno strano
arcobaleno e in cielo si aprirà una tenda a spirale
rossa, verde, blu e di altri colori che scende fino al
mare. Ci saranno 19 gradi sottozero e non smetterà
di nevicare.
Tutti gli animali si dirigeranno verso nord,
alla ricerca di luoghi meno freddi.
“La neve copre tutto ma non è distruttiva,
quello che un giorno copre lo restituirà intatto più
avanti.”
Sarà il commento ironico di qualcuno. Alla
fine, il nostromo cederà e smantelleranno la base.
“Domani partiamo” ordinerà.
Così lascerete Summer Town, abbastanza
sporca. Alcuni oggetti che non avete più intenzione
di utilizzare, le ossa e le pelli degli animali che
avete ucciso, molta spazzatura.
“Non manca nessuno?”
Tutto verrà ben presto coperto dalla neve,
come se non fosse passata da lì anima viva,
535
tecnicamente tutto rimarrà come se non fosse
successo niente.
536
L’amico congelato
30
L’EPOCA DELLE ACCIUGHE
“Fermi lì, eh!” sento ancora adesso,
attraverso il tempo.
Ma chi poteva star fermo, a quattordici anni.
Goio non mostrò a nessuno la borsa
con le armi. Sentiva il bisogno di condividere
la sua scoperta con Ariane, pur sapendo che lei
apparteneva a un altro mondo.
La vide uscire da scuola e la seguì, la sua
coda di cavallo era davanti a lui e sentiva il cuore
battere forte per la sensazione di fare qualcosa di
male. Ariane non andò a casa, passò il ponte e
costeggiando la Erribera si diresse verso il porto.
Girò l’angolo del molo e rimase ad aspettare
Goio.
“Perché mi segui sempre?”
Faccia a faccia con lei, Goio non ebbe il
coraggio di negarlo. Non osò nemmeno dire che
537
andava al molo da sua madre.
“Ti ho visto più di una volta seguirmi come
un cagnolino.”
Lo guardò dritto negli occhi per un momento.
Poi se ne andò all’osteria del porto, sicuramente
per incontrarsi con Felipe, mentre Goio rimase
inchiodato all’angolo con una sensazione di
malessere. Ariane non avrebbe mai capito la
faccenda delle armi, né di quell’imbarcazione
abbandonata, né niente di niente. E con Felipe
avrebbe avuto dei figli grassi e brutti.
Così, nei giorni di marzo e aprile, a
Kalaporrtu arrivò la nuova stagione. Il freddo e la
nebbia diminuirono, le grandi onde si indebolirono,
arrivarono le rondini con l’odore delle alghe, la forza
delle maree giovani e la pioggia che i pescatori
chiamavano schiuma delle acciughe.
La primavera arrivava sulla terraferma con i
fiori. Nei campi si moltiplicavano i fiori di tarassaco
e puufff soffiavano i bambini, come fossero
giganti dell’aria, per disperdere le chiome bianche
538
L’amico congelato
dell’infruttescenza del fiore. Ma in mare il fiore più
bello era l’acciuga.
“Andiamo a pescare acciughe!” dicevano i
pescatori.
E quando arrivava la barca piena si casse,
buttavano le reti sul molo e chiamavano le donne
per togliere le acciughe dalle reti. Di questo si
occupavano la madre di Goio e le altre cucitrici di
reti, di togliere una a una le acciughe che vi erano
rimaste intrappolate.
Anche il portoghese a volte scendeva fino al
porto.
Aveva comprato la villetta Loramendi che
fino ad allora era appartenuta a una famiglia della
ricca Neguri, e le aveva cambiato il nome. Adesso
si chiamava Petit Maison e lui viveva lì con le sue
prostitute.
Il portoghese era un buon conversatore e
tutte le mattine passeggiava per il porto, avanti
e indietro per Goienkale e Barrenkale. A volte
rimaneva a guardare come scaricavano il pesce.
“Allora, pensi di rimanere a vivere qui?” gli
chiedevano.
539
“Ho degli affari qui.”
“Cos’hai da guardare?” gli chiedeva qualche
pescatore.
“Controllo che il merluzzo sia come quello
del mio paese!”
“E come vuoi che sia!” rispondevano
ridendo.
Il portoghese aveva due ragazze nella
villetta Petit Maison e pareva che non le lasciasse
mai uscire di casa.
Intanto noi vivevamo passando da una
lezione all’altra. Nelle ore di Scienze naturali
studiavamo che quando fiorisce la ginestra inizia
la primavera. In quelle di FEN ci annoiavamo con
le caratteristiche della democrazia organica. A
Francese confondevamo ufficio e boia. Quelle vie!
La vrai vie est absente. Nous ne sommes pas au
monde.
Arrivava l’ora di Matematica e dovevamo
fare la somma delle frazioni e il professore
colpiva la lavagna con la squadra sbang e così ci
540
L’amico congelato
svegliavamo tutti. Quando suonava la campanella
della ricreazione, correvamo in cortile, tutti assieme
e con gran fracasso, come se al mondo non ci
fossero altri ordini a cui obbedire né altro luogo
dove andare.
Il professore di Latino, Blas Mendive,
ci utilizzava per copiare le minute per la sua
congregazione:
“Oggi ne approfitteremo per migliorare la
calligrafia” diceva. “Io scriverò alla lavagna e voi
dovrete copiare su un foglio.”
Padre Mendive era il segretario di una
lugubre associazione religiosa, la Congregazione
della Buona Morte e aveva sempre molte
comunicazioni, richieste e lettere arretrate. Così,
come se estraesse delle colombe, tirava fuori dal
suo abito nero un plico di biglietti, ce li distribuiva
e, dopo aver verificato che tutti fossimo pronti,
iniziava a scrivere il testo alla lavagna.
Noi copiavamo parola per parola con
pennino e inchiostro di china.
Non si poteva scrivere a penna, perché il
giudizio di Dio sarebbe stato più sacro se scritto
541
con pennino e inchiostro, quell’inevitabile castigo
della morte che noi allora vedevamo molto lontano.
Il primo cerimoniale consisteva nel pulire a dovere il
pennino. Poi lo intingevamo nell’inchiostro e spesso
macchiavamo il foglio. Sul banco si moltiplicavano
cerchi e semicerchi lasciati dal fondo del calamaio.
La carta assorbente non bastava mai per pulire i
nostri pasticci.
A volte, mentre noi copiavamo, lui ci
raccontava una storia:
“C’era una volta un ragazzo italiano...”
Il giovane viveva con suo padre, il quale
doveva copiare interminabili elenchi di indirizzi e,
oberato di lavoro, rimaneva sveglio a lavorare fino
a tardi. Di notte, quando il padre andava a letto, il
ragazzo si alzava e, di nascosto, continuava il suo
lavoro e copiava indirizzi finché non gli si chiudevano
gli occhi. Il giorno dopo il padre gli diceva, Guarda,
figliolo, tuo padre non è un incapace come dicono,
ieri ho copiato duecento indirizzi più del solito. E
il ragazzo, la notte seguente, si alzava di nuovo
per aiutare il padre in segreto, anche se questo
significava non dormire, essere sempre stanco
542
L’amico congelato
durante il giorno e a scuola fare le cose male,
dando così un dispiacere a suo padre...
Durante una di quelle esercitazioni di
calligrafia, Inazito allungò un po’ la frase che
doveva copiare. Sei vuoi essere sicuro del tuo
cammino, chiudi gli occhi e vai avanti al buio, diceva
San Juan de la Cruz, finché non vai a sbattere,
aggiunse Inazito da parte sua, senza alzare la
testa, con lo stesso inchiostro e la calligrafia
elegante, asciugando le ultime parole con la carta
assorbente.
Se a qualcuno cadeva una goccia di
inchiostro, Padre Mendive, indicando con l’indice il
luogo dell’incidente, diceva, Castigo di Dio. Quella
frase divenne un ritornello per Inazito e per tutti gli
altri:
“Castigo di Dio!”
Qualunque cosa cadesse, si diceva ridendo:
Castigo di Dio!
Pareva che anche le stagioni fossero una
prova della magnanimità divina, immaginavamo
Dio inginocchiato che pregava se stesso. Ma la
giustizia di Dio non era così facile da capire: oltre alla
543
condanna generale della morte c’era, per esempio,
l’eccessiva crudeltà dei castighi inflitti all’Inferno.
Anche tua madre dovrà consumarsi negli infuocati
abissi infernali e, secondo Padre Mendive, avrebbe
bagnato la punta delle dita nell’acqua cercando
di portarsele alle labbra ardenti per l’eternità, ma
senza mai riuscirci.
Era un’evidente ingiustizia. E noi demmo
ragione a Inazito:
“Maria e Giuseppe erano due brave persone.
Non capisco perché Dio non gli abbia permesso
di avere un figlio loro, perché ha dovuto umiliare
Giuseppe con questa crudele invenzione della
colomba...”
“Ti vedo preoccupato” dissi a Goio un giorno
in cortile. “Ti è successo qualcosa?”
“Non so” mi rispose.
“A cosa pensi?”
“Quest’anno finiremo la quarta e l’anno
prossimo la quinta...”
“E allora?”
544
L’amico congelato
“E dopo cosa faremo?”
“Questo dopo è molto lontano.”
A quei tempi noi pensavamo solo alle ragazze
e non alla quinta o alla sesta classe, perché loro
erano la ragione nascosta e la soluzione proibita.
“Ragazze.”
“Cosa succede con le ragazze?” disse lui.
“Che le ragazze sono un problema” gli
risposi. “Ti piace una ragazza e sei sempre dietro
di lei e, anche se lei non ti guarda nemmeno, non
puoi togliertela dalla testa.”
Allora disse, come se lanciasse una pietra
nell’acqua:
“Quel che mi succede è che mi piace Ariane.”
Così mi disse.
“E allora?”
“Non posso stare con lei. È impossibile.”
“Anche le mie sono tutte impossibili” dissi io
ricordando le immagini del cinema, le bellissime e
inavvicinabili donne dei film.
E il forestiero, senza scendere da cavallo,
sulla porta dell’allegro saloon diceva Belle ragazze,
ma l’unica cosa che mi interessa è sapere se lo
545
sceriffo e i suoi uomini sono passati da qui.
“Anche tu senti il dolore di questa
mancanza?”
“Che mancanza?”
“Un dolore come se ti mancasse la metà del
corpo.”
Camminavamo su e giù per il cortile, lungo
la riga esterna del campo regolamentare.
“Manca sempre qualcosa” dissi io, come se
avessi le idee chiare rispetto alla segreta tristezza
di ognuno. “Il ricco non ha la salute, chi è sano
non è molto intelligente, chi è intelligente non ha
l’amore, chi ha l’amore non ha soldi...”
E iniziò a piovere.
“Andiamo” proposi, “ci bagneremo.”
“La pioggia è bella” disse.
Quelli che stavano giocando a calcio
interruppero la partita e si misero al riparo nei
corridoi della scuola. Noi iniziammo a bagnarci
sotto la pioggia.
“Quando inizia a piovere, bisogna cercare
un riparo” gli dissi.
Goio mi sorrise, la pioggia scendeva dai
546
L’amico congelato
capelli rossi sulle sue guance:
“Sei il mio miglior amico” mi disse.
Così percorremmo il cortile ancora due volte
sotto la pioggia e, quando entrammo a scuola,
eravamo bagnati fradici.
Quella nota scritta a mano in basco
conferiva un tocco di irrealtà ai proprietari delle
armi. Sebbene a Kalaportu la gente parlasse in
basco, come lo stesso Goio faceva sia a casa che
per strada, la lingua basca non si leggeva né si
scriveva. Il primo scritto che Goio aveva letto in
basco erano quegli appunti sull’uso delle armi e
tornò diverse volte all’imbarcazione per cercare di
capire cosa dicessero quei fogli a quadretti scritti a
mano.
Di notte quell’ufficio dei carabinieri è vuoto.
Se vedete che c’è qualcuno, rimandate a un altro
giorno. Siccome l’esplosivo è molto pericoloso, lo
sapete, non dovete collegare il detonatore con la
carica fino all’ultimo momento e fate attenzione
547
anche con l’orologio, togliete la lancetta grande e
lasciate quella piccola in modo che faccia contatto
con il polo elettrico ma, prima, provatelo tre volte...
Successivamente avrebbe visto ancora la
lingua basca in lettere stampate, un giorno che
entrò nella cartoleria di Artekale, dove si vendevano
anche i giornali che formavano tre pile alte come
torri, El Correo Español, La Gaceta del Norte e El
Diario Vasco. Goio voleva comperare due penne
ma, siccome il negoziante era molto occupato a
dare e farsi pagare i quotidiani, rimase a guardare
i libri esposti in vetrina:
Jaio nintzan iltzeco
Aldi-oro noa iltzen
Ildakoan erabat
Asiko naiz bizitzen.14
Rilesse tre o quattro volte i quattro versi
della poesia. Prese il libro tra le mani e lesse il
14
Sono nato per morire / Sto sempre morendo / Solo quando
sarò completamente morto / Inizierò a vivere [N.d.T.]
548
L’amico congelato
nome dell’autore: William A. Douglass.
Anche il titolo gli fece venire i brividi: Morte a
Murelaga.
Un giorno arrivò il fotografo che, come tutti gli
anni, doveva fare la foto di classe. Ci sistemammo
tutti davanti alla lavagna, prendendo posto come
potemmo. Scattò una fotografia e, quando ci disse
che ne avrebbe fatta anche un’altra di riserva, ci
sforzammo di rimetterci in una posa che meritasse
di durare per sempre.
Siamo tutti lì, tutta la classe, e quella
fotografia non mi permette di mentire. Lì c’è Ixidro
con il suo grande sorriso, Agustin che fa le corna al
compagno accanto, nell’ultima fila Emilio, il biondo,
che sporge la testa lateralmente, timoroso di non
apparire nel futuro anteriore, e si vede anche la
mia testa, in seconda fila, il sesto da sinistra...
Sulla lavagna in alto a destra si scorge la
data. Non si legge l’anno perché è coperto dalla
testa di Nikolas:
549
27 Marzo 197...
Mi sento sul bordo di un precipizio. Il tempo,
istante dopo istante, è arrivato fino ad ora. Chissà
dove saranno adesso i nostri compagni.
Emilio Mina sarebbe diventato calciatore
ma si arrese dopo qualche partita con l’Athletic di
Bilbao, e finì alla deriva in squadre di serie B e C
per poi concludere la sua carriera nell’Osasuna.
Ernesto, che da molto giovane stette un
periodo in carcere, oggi è deputato al Parlamento
di Gasteiz.
Esteban Oiz, l’Annegato, studiò Economia
ed è il dirigente di una fabbrica di pesce in scatola
di Bermeo.
Il seguente sono io e posso passare oltre
senza fare commenti.
Juanjo Urtiaga, le lenti degli occhiali come
fondi di bottiglia, era il più intelligente e il più furbo di
tutti, oggi è il proprietario di un bordello a Mallorca.
Jabi Larrea, Beixama, non ho dati su di lui.
Inazito Mitxelena, nemmeno di lui so niente.
Cecilio Ramírez, il figlio del guardia civil,
550
L’amico congelato
tornò in Spagna con la sua famiglia.
Goio, ecco il mio amico, che guarda la
nebbia.
Quello accanto, il quarto nella foto, Pedro
Zumalde, il Grasso.
Nella fila sotto, di nuovo da sinistra verso
destra, Isidro: a diciannove anni scappò quando
la polizia stava per arrestarlo e, da allora, non
abbiamo più saputo nulla di lui.
Poi Imanol, che sarebbe diventato pittore,
ha esposto le sue opere in molte gallerie tra cui
Arteleku.
Josemari sarebbe diventato pescatore,
come suo padre, come il padre di suo padre...
Facce serie, sorridenti, burlone, annoiate.
Eravamo il corteo funebre della bara dei giochi
ma comunque, da quel momento, in un modo o
nell’altro, in forma dolce o amara, avremmo dovuto
continuare a vivere.
E non so se tutti noi, che allora eravamo
quei ragazzi della foto, siamo arrivati fino ad ora,
ma so per certo che in qualche modo siamo rimasti
tutti lì.
551
“Questa è una fotografia che riguarderete
anche fra molti anni” ci disse il fotografo quando
ritornò per vendercela a quaranta pesetas la copia.
La guardiamo e ci rendiamo conto di com’è
estranea quell’immagine, di quanto sono diverse le
abitudini che avevamo in quel paese color seppia
del passato. Nella fotografia quasi tutti indossiamo
i pantaloni corti.
E così, in pantaloncini corti, aspettavamo
che arrivassero le feste del paese.
552
L’amico congelato
31
MARE GELATO
Nel continente bianco tutto rimarrà come se,
tecnicamente, non fosse successo nulla.
“Nave a babordo!” griderà il nostromo.
Preparerete le pertiche e le palanche, e
dovrete fare turni di guardia in coperta per spostare
o evitare i pezzi di ghiaccio che troverete sulla
vostra rotta.
A volte non potrete avanzare di prua e
bisognerà navigare di bolina.
“Retromarcia!”
Il giorno dell’imbarco il vento di nordest farà
alzare la temperatura da zero a cinque gradi, e il
ghiaccio inizierà di nuovo a sciogliersi.
Quando il tempo migliora si vedranno
animali in aria, sopra il ghiaccio, nell’acqua, diretti
verso nord. Arriveranno uccelli bianchissimi come
553
colombe, due punti nero corvino gli occhietti e due
linee di grafito le zampe, non sarà facile vederli
nel biancore dell’aria nebbiosa, ma si poseranno
sull’imbarcazione e inizieranno a cercare resti
di ogni genere, con la mansuetudine tipica degli
animali antartici, i quali credono biologicamente
che nessuno farà mai loro del male.
Nei dintorni ci saranno pochi pinguini. Si
vedranno alcune famiglie isolate, che ben presto
si tufferanno in acqua, dirette verso nord, come se
avessero fretta, come se fuggissero da qualcuno.
Ci saranno anche delle procellarie ma non si
avvicineranno all’imbarcazione, le si vedrà molto in
alto, con un volo bello e sfuggente.
Foche sì. Si scorgeranno anche degli
elefanti marini, tra i ghiacci, mostrare la lucentezza
delle loro teste e delle loro schiene. Vanno tutti
verso nord, come se si fossero dati appuntamento
in una terra o in un mare meno freddi.
“Mi fa piacere vedere che Sua Eccellenza
sia qui” dirai in basco all’elefante marino, perché
la tua lingua ti sembrerà il modo più adeguato di
rivolgerti a lui.
554
L’amico congelato
Lui muoverà la testa come se dicesse Sì,
anche a me.
“Allora, stiamo bene di salute?”
Sono io a rispondere per lui, Bene, senza
particolari complicazioni.
Il termometro scenderà a –7 gradi.
Vedrete delle orche in lontananza. Con
l’aiuto del binocolo ne osserverai un gruppo di
una decina, le grandi pinne dorsali, scure ma con
delle macchie gialle fra le pinne e il ventre. Quelle
piccole misurano otto dieci metri, calcolerà Axel,
quelle grandi sedici, diciotto. E, sotto le enormi e
solide teste quadrate, in pieno mento, la bocca
spaventosamente grande e piena di denti.
Poi nevicherà e grandinerà. Una tormenta
di ottantasette ore, incessante. Un lenzuolo bianco
coprirà il mare. Sarà il movimento delle acque,
con il suo ininterrotto su e giù, a spezzare quella
coltre bianca, anche se la neve non cesserà di
ammantarle.
Axel dedicherà tutta la giornata alle sue
misurazioni:
“La temperatura dell’acqua è di 2,1 gradi
555
sotto zero, ha iniziato a gelare.”
Axel utilizzerà anche la sonda marina: il
fondale di pietra si trova a 127 o a 750 metri di
profondità.
L’imbarcazione,
coperta
dalla
neve,
navigherà ancora più bianca di quanto realmente
sia. Lentamente, con attenzione, evitando le
montagne di ghiaccio, cercherete di allontanare i
blocchi più piccoli con pertiche e palanche.
Sarà evidente che i ghiacci sono sempre più
grossi e duri e che il mare si sta chiudendo.
“Il ghiaccio fangoso si sta solidificando,
assumendo quella consistenza gelatinosa che
preannuncia il congelamento totale...”
Così dirà Axel, rassegnato, non c’è altra
possibilità che uscire in mare aperto il più presto
possibile, ma raggiungerlo non sarà affatto facile.
L’imbarcazione andrà avanti, ma troppo
lentamente, e il timoniere si sfinirà per le continue
manovre.
Il nostromo non farà altro che gridare.
“A dritta! A babordo!” come se si stesse
contraddicendo.
556
L’amico congelato
Un percorso difficile, un folle corridoio tra
i ghiacci, non sempre sarà possibile evitare o
allontanare i blocchi che emergono dalla nebbia e,
tump, riceverete dei forti colpi.
“A babordo! Portate qui la palanca!
Attenzione con quell’iceberg!”
Sulla superficie dell’acqua si formeranno
lastre di ghiaccio o larghe placche, i compagni le
chiameranno pancake, torte di ghiaccio. E le torte
di ghiaccio si moltiplicheranno e si stringeranno
sempre più. Si alzerà un vento bianco che porterà
polvere di neve. E i fiocchi di neve saranno come
aghi di ghiaccio per quelli che devono rimanere sul
ponte, mentre i blocchi si uniranno per formare un
lenzuolo bianco che copre il mare.
“Virare a dritta! Ridurre la macchina!”
La situazione si farà sempre più pericolosa,
l’imbarcazione procederà pal pal con i motori
praticamente fermi, senza poter avanzare con la
prua e sbandando, circondata dal ghiaccio che,
inesorabilmente, si sta facendo sempre più solido
e stretto.
Inoltre, come si intravvederà nella nebbia,
557
una forte mareggiata agiterà i blocchi in una folle
danza. Anche la notte sarà terribile a causa della
violenza del vento e la povera imbarcazione inizierà
a tremare, come se stesse per scoppiare.
“Avanti!” ordinerà il nostromo. “Rallentare i
motori!”
E andrete avanti, sempre più a bolina e
inclinati a babordo. Sempre più alla deriva.
Poi, dei terrificanti daumb, e zart, e crac.
Il ghiaccio si stringerà e le placche si
salderanno una all’altra. L’imbarcazione si ritroverà
immobilizzata, sospesa sopra un molo di gelo.
Allora sì, sarà chiaro che non avete
calcolato bene i tempi, che avete rimandato troppo
la partenza e che il ghiaccio vi ha circondati e
intrappolati. Scomparirà il vivace campo scuro del
mare, si imbiancherà tutto lo spazio che gli occhi
possono raggiungere, come un morto avvolto in un
lenzuolo bianco e non ci saranno più battiti marini,
né sistoli né diastoli.
Il ghiaccio non romperà lo scafo come se
fosse un guscio di noce. È preparato per ogni
eventualità, grazie ai progressi della scienza e della
558
L’amico congelato
tecnica, la stessa pressione del ghiaccio alzerà lo
scafo arrotondato come se lo si dovesse carenare.
Così la vostra Iron Will rimarrà sulla pianura
ghiacciata, inclinata a babordo, come alcune
scialuppe sui moli dei paesini della costa. E, grazie
al lavoro del freddo, scenderete dall’imbarcazione
sul mare ghiacciato come se scendeste a terra.
“Sotto ci è cresciuta l’erba!” dirà il nostromo
indicando lo scafo, come se proponesse di
carenarlo.
Ma nessuno gli presterà attenzione.
Una foca romperà il ghiaccio colpendolo con
la testa e mostrerà il suo muso da un buco, burlona.
Il nostromo le lancerà una pertica che le sfiorerà la
testa e si perderà nell’acqua, all’interno del buco.
La foca, un po’ stupita, continuerà a guardare,
scherzosa e divertita.
Così devono fare gli animali per respirare
quando il mare si congela: aprire un buco nel
ghiaccio con la testa per poterla mettere fuori.
Fin dove la vista può arrivare, non si vedrà
559
altro che mare congelato. Potrete camminarci
sopra ma non navigare. Il ghiaccio sarà duro e
scivoloso ma, essendo formato da blocchi attaccati
tra loro, non sarà un campo liscio. Se si trascinasse
una slitta in linea retta su quell’immensa pianura,
andrebbe subito a pezzi.
Il nostromo darà l’ordine di chiedere aiuto.
Si metteranno subito in comunicazione via radio,
non si sa con chi.
Tu rimarrai a guardare il paesaggio. Sarà
molto difficile per una nave rompighiaccio infrangere
questa cappa di gelo e arrivare fino a voi.
Anche Axel la penserà così:
“Il ghiaccio non è liscio, la parte superiore
è molto irregolare anche per gli aerei, nemmeno
uno dotato di sci riuscirà ad atterrare. Forse un
elicottero...”
La neve formerà una cappa dura sull’acqua
tranquilla, il mare si nasconderà sotto un guscio
gelato.
Edna sarà accanto a te. Chiedile dove vanno
le anatre di Central Park quando il lago si congela.
No, non glielo chiederai.
560
L’amico congelato
“Si è ghiacciato, ma si nota il movimento del
mare” dirà lei.
Ed è vero, avvertirai l’incessante andirivieni
del mare. Sì, sistoli e diastoli. I battiti del mare
fanno male al ghiaccio, quando il mare si alza i
lamenti del gelo saranno tenui per farsi più acuti e
prolungati quando scende.
561
32
LA BANDIERA BRUCIATA
Fu nei giorni di festa del paese che successe
la cosa di Maite.
Ci avevano dato il permesso di uscire dal
collegio dopo cena. La sera, le strade di Kalaportu
erano addobbate con piccole bandiere spagnole e
lucine colorate. La gente, indossati gli abiti della
festa, si avvicinava al palchetto della musica, tra
ghirlande e nastri di carta, perché un’orchestra
venuta da lontano stava suonando pasodobles,
boleri e un ampio repertorio di danze...
I marziani sono arrivati già
ballando il cha cha cha...
Mi unii a Juan Bautista e a Goio e bevemmo
un mare di vino, andando su e giù per il paese.
L’orchestra non smetteva di suonare, passando dal
562
L’amico congelato
cha cha cha al più strappalacrime dei boleri:
Dov’è la donna immaginaria...?
Alcuni ragazzi più grandi di noi stavano
ballando, stretti stretti alle ragazze, in silenzio, il
viso rosso e sudando nella penombra.
Era quasi mezzanotte quando Juan Bautista
disse:
“Che ne dite se andiamo ad Harriandi?”
“Com’è il mare?”
Fatto sta che noi tre e Maite andammo al
bunker.
Maite era una ragazza molto bella, magra,
bruna, con i capelli lisci e lunghi. A me piaceva ma
a lei piaceva Juan Bautista. In realtà Juan Bautista
era già stufo di Maite e, pur di non incontrarla, ci
obbligava quasi a nasconderci.
Per andare ad Harriandi dal molo, passammo
vicino all’ufficio dei carabinieri e lì, sulla facciata,
vedemmo la bandiera spagnola, non ancora
ammainata, che ondeggiava al vento.
“Scommetto che non avete il coraggio di
563
bruciarla!” propose Juan Bautista.
“E invece sì!” rispose Goio.
La bandiera faceva flap flap flap.
“Ho proprio un accendino in tasca!” disse
Juan Bautista.
Ci passammo sotto e ci avviammo
imboccando la salita.
All’interno del bunker c’erano bottiglie vuote
di birra e di gazzosa. Accendemmo un resto di
candela trovata per terra e la collocammo in mezzo
a noi quattro.
Quando eravamo ormai sdraiati sui blocchi
di cemento, con le nostre bottiglie e la nostra
sbronza, Maite iniziò ad accarezzare Juan Bautista.
“Se vuoi me, dovrai farlo prima con i miei
amici!” disse Juan Bautista all’improvviso.
“Perché?” chiese Maite ad alta voce.
“Perché siamo amici” dissi io ridendo,
pensando ubriaco che Juan Bautista stesse
scherzando.
“O tutti o nessuno!” insistette Juan Bautista.
“Allora vieni!” disse Maite, alzandosi.
“Io?”
564
L’amico congelato
“Nella spiaggia lì sotto” disse Maite.
“No, io no.”
Maite era già sulla porta del bunker e i miei
due amici mi stavano guardando, allora mi alzai
e mi incamminai dietro la ragazza. Scendemmo
lungo il sentiero tra le rocce, giù per Uradario,
goffamente, la testa annebbiata dall’alcol, in fondo
si vedevano le onde infrangersi sulla riva.
Quando raggiunsi la piccola spiaggia, Maite
mi stava aspettando sdraiata sulla sabbia, a pancia
in su.
Mi inginocchiai accanto a lei.
“Togliti i pantaloni!” mi disse.
Provai una gran vergogna.
“Cosa vuoi?” mi chiese.
“No, non voglio niente.”
Eravamo circondati da gamberi in
movimento. Avevo sentito dire a Goio che i gamberi
da rete sono piccoli e tagliano le reti con le loro
chele che sono come delle pinze.
Ero preda della paura, del freddo e del
desiderio.
“Io ti amo” le dissi.
565
Appoggiando i gomiti sulla sabbia alzò le
spalle, la schiena e il viso. E mi disse:
“Non dire stupidate!”
Avvicinai il viso e le diedi un bacio, come al
cinema. Fu il primo bacio della mia vita, impacciato
e rapido, avevo la sensazione di essere in un
mondo di celluloide, ero spaventato e tremavo.
“È vero!” le dissi.
La sua lingua calda si mosse a lungo nella
mia bocca, come fosse un animale tiepido e
strisciante, e quel bacio mi lasciò senza fiato.
“Ma cosa aspetti!” mi disse mentre mi
slacciava il bottone della cintura dei pantaloni.
“Togliti i pantaloni!”
La mia reazione fu allontanarla un po’,
senza volere. Allora rimanemmo un bel momento in
silenzio, sulla sabbia umida, in un ambiente freddo.
“Se non vuoi fare niente, te ne puoi andare!”
mi disse subito dopo. Mi girai come se volessi
allacciarmi i pantaloni e me ne ritornai su.
Non c’erano uccelli che volteggiavano nel
cielo buio, solo le stelle punteggiavano il firmamento
notturno e poi apparve la luna tra le nuvole ferme,
566
L’amico congelato
perfettamente rotonda, come fosse un pallone
lanciato da Emilio Mina da colpire con la testa.
“Quante volte l’avete fatto?” mi chiese Juan
Bautista quando tornai al bunker.
“Tre volte senza tirar fuori lo sgombro!”
risposi, ripetendo una frase che avevo sentito
pronunciare proprio da Juan Bautista.
“È il tuo turno!” disse Juan Bautista a Goio.
“Il mio no, io sono innamorato di un’altra!”
rispose Goio.
“Anch’io passo!” disse Juan Bautista.
Decisi di tornare in collegio e, lasciati gli altri
tre ad Harriandi, me ne andai. Saranno state le
quattro o le cinque del mattino. Quando stavo per
arrivare al molo, scivolai e presi una bella botta.
Dolorante, nauseato, deluso da quella situazione,
pensai che i miei quattordici anni fossero già troppi
ed ero già stufo di vivere.
In paese la notte di festa stava finendo. Tutto
ciò che la sera prima era mirabilmente addobbato
sembrava adesso sporco e rotto. Tutte le bandierine
567
e le luci della notte, la gente elegante, i musicisti
venuti da fuori che interpretavano meravigliose
melodie con i loro strumenti d’oro e d’argento, e
adesso questo: bandierine di carta calpestate
attorno al chiosco e, nel paesaggio ormai deserto
di Kaiondo, sparuti gruppetti di ubriachi che ogni
tanto ancora gridavano o lanciavano maledizioni.
Sul finire della notte, vedevo il cantiere
navale, il ponte, le case di Zubieta e il collegio
come fossero radiografie di quelle che ti fanno in
ospedale. Arrivai in collegio sfinito e zoppicante.
Non incontrai nessuno, nemmeno Padre Solana
si trovava nel suo normale punto di osservazione.
Salii al dormitorio e, quando stavo per stendermi
sul letto, sentii il bisogno di vomitare: non avendo
tempo per andare in bagno, mi affacciai alla finestra.
Sembravo uno dei mostri della chiesa,
vomitando dalla finestra a quell’ora. Benché non
fossi in grado di mostrare un grande pene eretto,
assomigliavo a quel mostro dal corpo nudo e
deforme, la bocca storta, la testa che si affacciava
dalla botte, mentre vomitavo l’anima, lo stomaco in
rivolta, quasi appeso alla finestra.
568
L’amico congelato
Vidi Kalaportu là sotto e, sorpreso, mi resi
conto che qualcosa bruciava nella zona del molo.
Si vedeva una lanterna accesa, luminosa nella
notte ormai prossima alla fine.
La bandiera dell’ufficio dei carabinieri stava
ardendo e tremava sull’asta tra fiamme rosse e
gialle.
Accadde pochi giorni dopo.
Goio uscì da scuola alle cinque del
pomeriggio, cenò verso le sette e poi uscì a fare
un giro. Ogni tanto andava fino all’imbarcazione,
a controllare che la borsa delle armi fosse ancora
al suo posto. Verso le dieci era ancora a Kaioarri
e doveva sbrigarsi per non arrivare a casa troppo
tardi ma, quando uscì, si rese conto che i dintorni
pullulavano di agenti della Guardia Civil. Goio
rientrò dentro l’imbarcazione e, nascosto, rimase a
osservare quelle ombre verdastre nell’oscurità.
Nella zona del cantiere navale ne vide tre
o quattro, sul molo all’entrata del porto intravide
le punte dei fucili e in alcune barche sentì rumori
569
metallici e voci che impartivano ordini, e non
erano quelle dei pescatori. Cosa ci facevano a
quell’ora al porto, perché salivano sulle barche?
Forse cercavano merci di contrabbando? Cosa ci
facevano accovacciati sotto i camion del cantiere?
Passava il tempo ed erano ancora lì, con le
loro mitragliatrici e i cappelli di vernice, in attesa
di qualcosa. Forse stavano cercando quelli che
avevano bruciato la bandiera durante le feste,
e Goio tremava, come quando si era attaccato
con una mano all’asta della bandiera e con l’altra
aveva dovuto accendere quattro o cinque volte
l’accendino zip zip zip per dar fuoco a quel pezzo di
seta. Non sarebbe potuto uscire dall’imbarcazione
finché i guardia civil non fossero tornati in caserma.
Tra l’altro le armi erano lì ed era il caso di
nasconderle meglio. Si spostò strisciando, prese la
borsa e la trascinò via. Dentro c’erano centinaia di
granchi, sentiva il ticchettio dei loro denti e notò sulla
mano il ventre piatto e le zampe di alcuni di essi.
Conosceva un angolo migliore dove nascondere
quella borsa, nei motori, nelle sporche interiora
della barca. Lì dentro, il fetore dell’acqua marcia
570
L’amico congelato
e dell’immondizia era rivoltante. Aprì la borsa e ne
controllò il contenuto, toccando le tre pistole, anche
il quaderno era lì. Si rese conto che c’era un pezzo
di carta nuovo. Al buio non poteva leggerlo e se lo
infilò in tasca, senza pensarci, e sulla punta delle
dita sentì le lettere come formiche. Infilò la borsa di
plastica sotto alcune vecchie assi e ci ammucchiò
sopra dell’immondizia.
Poi tornò e mise fuori la testa da una
finestrella. C’era una nebbia fredda e, in quei bui
momenti di paura, anche le cose meno importanti
assumevano un’enorme rilevanza, il più banale
fruscio, la lanterna che si accese sull’acqua per
qualche secondo, il rumore degli scarponi neri nel
silenzio del molo bagnato, il clic metallico che era
sicuramente quello di un’arma...
Guardò il foglio che teneva in tasca, gli
sembrò che fosse scritto a mano, ma non c’era
abbastanza luce per leggerlo. E così rimase a
lungo, aspettando che i guardia civil, non sapeva
quando, se ne andassero. Siccome non aveva il
coraggio di mettere fuori del tutto la testa, la visuale
da quella stretta apertura era limitata e non poteva
571
sapere cosa stesse succedendo.
Improvvisamente iniziarono gli spari. Sentì
chiaramente pum pum pum, e vide il fuoco dei
fucili assieme al rumore degli spari, pum pum, e
tremando cadde all’indietro giù per le incancrenite
scale dell’imbarcazione. Fuori qualcuno gemette
come un gatto ferito e rata ta ta ta sentì le raffiche
a lungo. Poi gli spari cessarono, udì delle risate, il
rumore degli scarponi e il motore delle jeep.
Goio era nervoso e per un po’ non ebbe il
coraggio nemmeno di muoversi. Dopo un momento
salì le scale e, messa fuori la testa, vide che stava
albeggiando e vide anche coppie di guardia civil
che pattugliavano il molo. All’entrata del porto si
vedeva una piccola barca vuota alla deriva, cullata
dalle onde, e qualcosa di fianco, una camicia
blu sulla superficie dell’acqua. Gli sembrò che le
maniche di quella camicia si prolungassero e vide
due mani sull’acqua e anche i capelli bagnati di
una nuca che galleggiava guardando il fondo.
Con una barca a motore, lo legarono con
delle corde ed estrassero il cadavere di un ragazzo,
scalzo, pantaloni neri di velluto, la camicia bucata,
572
L’amico congelato
gli occhi inerti completamente aperti, un cadavere
da cui traboccava sangue e acqua alla luce incerta
dell’alba.
Lasciarono il cadavere sul molo vicino al
cantiere navale. Poi i sommozzatori iniziarono la
ricerca di un altro corpo e ci volle almeno un’ora
prima di trovarlo ed estrarlo dall’acqua. All’alba
coprirono i cadaveri con delle lenzuola e sulla
tela bianca le macchie di sangue si allargarono
rapidamente come scarabocchi di inchiostro.
L’ambulanza stava aspettando e si portò via i corpi
senza vita dei due giovani.
Se i guardia civil l’avessero visto uscire,
avrebbero perquisito l’imbarcazione e avrebbero
potuto trovare la borsa con le armi. D’altra parte, la
gente del paese si era sicuramente svegliata con il
rumore degli spari e sarebbe stata per strada. Sua
madre lo stava sicuramente cercando, guardando
in ogni angolo. Goio tremava tutto, nel liquido
amniotico della paura, alla deriva.
Non uscì dall’imbarcazione fino alle nove
del mattino. Vide tre jeep della Guardia Civil nel
porto, ma a quell’ora anche i pescatori erano al
573
molo. Stava camminando quando, all’altezza della
gru del cantiere, gli si avvicinarono due agenti con il
tricorno nero e luccicante, puntandolo con la canna
delle mitragliatrici.
E tu da dove vieni?
Goio rispose indicando la spiaggia di
Zubieta. Da lì. E il guardia civil lo guardò come se
volesse separare la risposta dal corpo del ragazzo,
con la durezza dell’entomologo che segmenta e
classifica le parti di un piccolo corpo per individuare
una specie sconosciuta. Lo perquisì e gli ordinò di
rimanere lì, sotto la gru.
Fermo lì, la schiena appoggiata alla base
della gru, si ricordò del foglio che aveva in tasca.
Tolse la mano dalla tasca e, portandola dietro la
schiena senza farsi notare, riuscì a lasciarlo in un
buco tra il ferro.
Dopo cinque minuti, sentì la voce dell’altro
gendarme. Lascialo andare, è solo un bambino.
Poi gli dissero: Non avere fretta di crescere, perché
ti può succedere quel che è successo a questi
due. Nervoso, se ne andò a casa correndo lungo il
molo. Trovò sua madre sulla porta, bagnata come
574
L’amico congelato
lui, che piangeva e con il viso del colore della calce
vecchia.
Pensava che l’avrebbe picchiato, invece lo
abbracciò.
“Figlio mio adorato” gli disse.
E, per la prima volta da molto tempo, Goio
accettò quell’abbraccio materno.
“Non tornavi e così Andres è andato alla
clinica a vedere se eri uno dei due ragazzi che
hanno ucciso...”
Il giorno dopo non si parlava d’altro. I camion
verdi e le jeep della Guardia Civil pattugliarono per
tutto il giorno il porto e nei dintorni. D’altra parte,
invece di permettere ai famigliari di portarsi via i
corpi dei due giovani, furono gli stessi guardia civil
a riportarli alle loro case, uno era di Vitoria e l’altro
di Gernika.
Per qualche giorno il porto rimase deserto
come non mai. I pescatori non uscirono in mare,
sospesero la campagna della pesca dell’acciuga e
anche del resto, i negozi rimasero chiusi, i bambini
575
non vennero a scuola e noi non potevamo uscire
dal collegio, a meno che non venissero a prenderci
i nostri genitori.
Benché ci fossero pattuglie della Guardia
Civil ovunque, sui marciapiedi di Kalaportu
apparvero volantini che, non so come, arrivarono
anche in collegio. Sotto la fotografia e il nome
dei due ragazzi - erano giovani, quattro o cinque
anni più grandi di noi, poi avrei sentito dire a Maite
che erano anche molto belli - si poteva leggere in
spagnolo e in basco:
Rivoluzione o morte
Sciopero generale
E fummo costretti a guardare la facciata in
spagnolo per sapere che greba orokorra significava
sciopero generale, perché quello era il basco che
si utilizzava in Iparralde, il Paese Basco francese.
E si diceva che i due ragazzi fossero venuti da
Iparralde, sbarcando lì per cercare di arrivare
poi a Eibar, a Bilbao o da qualche altra parte, e
che avevano intenzione di realizzare un attentato
576
L’amico congelato
contro il governo.
Si diceva anche che in paese dovevano
avere dei collaboratori, perché non erano state
trovate armi sui loro corpi e nemmeno nella barca,
e una volta sbarcati ognuno avrebbe avuto bisogno
di una pistola, perché avrebbero potuto imbattersi
in un controllo della Polizia in qualunque momento.
E che qualcuno li aveva denunciati, perché c’era
un’intera compagnia di agenti della Guardia
Civil ad aspettarli, venuti apposta da Burgos. Si
commentava che in paese avevano già arrestato
quattro o cinque giovani e che non lasciavano
passare i famigliari dei detenuti che si avvicinavano
alla caserma, e che dalle case vicine si sentivano le
urla di dolore degli arrestati, soprattutto alle prime
ore dell’alba.
Alla radio dissero che il Prefetto aveva
annunciato che nei giorni seguenti ci sarebbero
stati controlli e perquisizioni nelle provincie basche
per catturare i terroristi infiltratisi dalla Francia
perché, oltre ai due terroristi neutralizzati, potevano
esserne arrivati anche degli altri, alla radio dicevano
proprio così: “terroristi neutralizzati”. Si avvisavano
577
i cittadini baschi e la popolazione in generale di
non prestare attenzione a chi stava cercando di
propagare la sovversione e di distruggere l’ordine
sociale e la pace.
Il giorno dopo, al pomeriggio, non ci fu
scuola e noi in collegio ci annoiavamo a guardare
Kalaportu dalla finestra del dormitorio, come
fossimo fantasmi.
“Andiamo a vedere cosa succede” disse
Inazito. “Se no domani dovremo credere a quello
che ci raccontano gli altri...”
Uscimmo di nascosto dal collegio, non senza
correre dei rischi, perché superare la muraglia del
collegio era difficile come passare la frontiera tra la
Spagna e la Francia.
In paese c’era una strana atmosfera. I
guardia civil pattugliavano sulle loro jeep ma non ci
dissero niente. C’era poca gente per strada, qualche
ragazzo e qualche vecchio pescatore, anche noi
ci dirigemmo alla zona dove si trovavano i giovani
e, quando arrivammo a Zeharkale, ci rendemmo
conto che si stavano riunendo tutti all’angolo fra
Goienkale e Zeharkale.
578
L’amico congelato
Lì trovai Goio, Juan Bautista e Felipe. Un
ragazzo con la barba lanciò dei volantini in aria.
Non riuscii a prenderne nemmeno uno.
Iniziammo a gridare “Li-ber-tà! Li-ber-tà! Liber-tà!”
“Andoni, libero!” gridò quello con la barba.
Le nostre voci si univano, si mischiavano e
si moltiplicavano.
“Li-ber-tà! Li-ber-tà! Li-ber-tà!” ripetevamo.
Tre o quattro jeep della Guardia Civil
risalirono la via Goienkale per chiudere la strada
alla manifestazione e sottomettere quel ribelle
paese di mare. Continuammo la nostra marcia con
la pelle d’oca come se avessimo vinto la paura, con
le gambe che tremavano.
I guardia civil iniziarono a sparare sulla
gente. Pum pum pum si sentiva e si vedeva il fuoco
dei fucili. Goio, Inazito e io scendemmo al porto da
Artekale correndo in cerca di una via di fuga.
“Li-ber-tà! Li-ber-tà!“ si sentiva gridare
ovunque, tra il fragore degli spari.
Altre tre jeep arrivarono dalla Erribera fino
al molo, con le pistole e i fucili fuori dai finestrini e
579
dalle portiere posteriori semiaperte.
Nella nostra fuga arrivammo fino all’estremità
del molo.
580
L’amico congelato
33
IL PAESE DEGLI OGGETTI SMARRITI
Quando il mare si abbasserà i suoi lamenti
saranno più acuti e prolungati.
Vi avviseranno che arriverà una nave
rompighiaccio e rimarrete ad aspettare.
“Adesso, mentre aspettiamo, non ci resta
altro da fare che passeggiare sul mare” commenterà
qualcuno.
“Quando arriveranno?”
“Fra una settimana, più o meno.”
“Forse fra due, tre o quattro settimane...”
La notte si farà sempre più lunga e il sole a
fatica si alzerà sull’orizzonte. Verso le quattro del
pomeriggio, dopo aver illuminato la bianca rugiada
della neve, sparirà formando un arco. Di notte la
temperatura scenderà a 17 gradi sotto zero anche
se nella stiva, grazie a una stufa, raggiungerete
quasi i 14 gradi. Durante il giorno non farà così
581
freddo, attorno ai 7 gradi sotto zero.
Axel inizierà a scherzare:
“Non sarò tranquillo finché la temperatura
non sarà scesa fino a –45 gradi, così avrò qualcosa
da raccontare agli amici quando torneremo...”
Il nostromo scenderà sul ghiaccio con un
piccone e un’ascia, pensando di poter aprire la
strada all’imbarcazione.
“ll capomastro ha preso il ghiaccio come
un nemico personale,” dirà Edna, guardando
il nostromo che si affanna trizz trazz davanti
all’imbarcazione.
Con piccone, ascia, sega e palanca, dopo
aver combattuto, tornerà all’imbarcazione con la
dignità di un generale dopo la battaglia. Benché
l’abbia persa, benché sia stata assolutamente
inutile.
Gli altri, che non hanno voglia di fare un
lungo viaggio, difenderanno la casa. Nevicherà
quasi sempre e dovrete pulire ripetutamente
l’imbarcazione. Se non lo fate, la neve vi coprirà, si
ghiaccerà e allora non sarà più possibile andarsene
da lì.
582
L’amico congelato
Tutto sarà in silenzio, come se fosse fatto per
rimanere in silenzio eternamente, e nel silenzio la
rassegnazione aumenterà. La superficie ghiacciata
del mare sarà bianca. Anche il soffitto celeste
sarà bianco fino all’orizzonte e l’aria nebbiosa
sarà lattiginosa. Arriveranno degli uccelli bianchi
delle dimensioni dei gabbiani che volteggeranno
sull’imbarcazione paralizzata e inclinata.
Nei punti dove prima c’erano infiltrazioni
d’acqua si formeranno dei ghiaccioli. A volte li
romperete per ricavarne dell’acqua. Il sole apparirà
all’orizzonte a nord, biancastro, ma dorerà le cime
di ghiaccio.
Conterete le ore, aspettando che arrivino gli
aiuti. Passerete i giorni a letto, infilati nei sacchi a
pelo e, cercando di accorciare l’attesa con scherzi
e battute, il tempo vi sembrerà eterno.
Un marinaio costruirà modellini di navi
all’interno di bottiglie di vodka e whisky, dopo averle
svuotate. Rimarrai a osservare il suo lavoro, come
introduce i pezzi dallo stretto collo e, una volta
all’interno, li sistema con un lungo ago ad uncino
e grande abilità. Il giorno del tuo compleanno, ti
583
farà una sorpresa e te ne regalerà uno costruito
dentro una bottiglietta da farmacia, una miniatura
dei grandi velieri norvegesi che avete visto all’isola
di Deception con tanto di bandiera. Quando ormai
ti stavi dimenticando di essere un infermiere, ecco
che ti regalano una barca dentro una bottiglietta
da farmacia. Ma d’altra parte, anche il moltiplicarsi
degli ammalati ti ricorderà che sei un infermiere.
Axel ti si avvicinerà dicendo che ha un forte mal
di testa. A John verranno i geloni ai piedi. Il cuoco
avrà dolori reumatici. In generale, la salute di tutti
ne risentirà e peggiorerà.
Se ne andranno quasi tutti gli animali, non si
vedranno esseri vivi, eccetto qualche procellaria.
Nelle poche ore di sole, quando arriva
qualche raggio, sulla neve le vostre ombre saranno
molto lunghe.
All’ora di colazione, il cuoco ti darà una
grande gioia quando busserà alla porta con sei
o sette tazze fumanti di cioccolata calda su un
vassoio.
“L’ordine del signore...” dirà Bobbi
abbassando la testa come i camerieri neri degli
584
L’amico congelato
hotel per ricchi.
Tornando in cucina, lo si sentirà gridare:
“Un topo! Un topo!”
Sorprenderà il ratto mentre mangia i rifiuti.
Ma non lo catturerà, si limiterà a guardarlo. Bobbi
inizierà a seguirlo con una scopa in aria ma non
riuscirà a catturare quel compagno di viaggio,
sicuramente lo stesso che avevi visto in coperta
tempo fa.
“Maledetto topo d’acqua!” dirà.
Poi qualcun altro dirà di avere paura dei topi,
perché sono la miniatura di animali che potrebbero
essere dei giganti.
Anche quel giorno verrà abbellito sul finire
da un tramonto meraviglioso.
John comincerà a impallidire e non parlerà
più tanto.
“Mi fanno male le gambe” dirà con
sorprendente brevità.
Sospetterai che possa trattarsi di anemia,
scorbuto o qualcosa di simile. Avrà le gambe
585
gonfie. Inoltre ti sembrerà che anche un ragazzo
chiamato Franz abbia tutti i sintomi dello scorbuto.
Chiederai al cuoco di non preparare, per
qualche giorno, cibo inscatolato. E dovrai trovare
dell’acido citrico. Hai delle vitamine nella borsa,
dovrai distribuirle, soprattutto tra quelli che hanno
sintomi evidenti.
“Dobbiamo andare a cercare carne
animale...” dirà il cuoco.
Ma, eccetto gli uccelli che sotto le piume
non hanno altro che ossa sottili, praticamente non
si vedranno animali nei dintorni.
Inaspettatamente, in lontananza, con il
binocolo avvisterete una foca. Messe le ciaspole,
vi avvierete con il fucile, senza perdere di vista il
vostro bersaglio nero nella lontananza bianca, e la
troverete sdraiata sul suo soffice giaciglio. Uscita
alla luce dopo aver bucato la pelle gelata del mare,
si starà godendo un momento di meritato sole. Le
girerete attorno e l’animale alzerà la testa e aprirà
la bocca come fosse un libro, mostrando i denti e
ruggendo.
Non sarà sola, avrà accanto un cucciolo.
586
L’amico congelato
Penserai che è appena nato, perché ci sarà del
sangue sulla neve e la pesante foca avrà l’aspetto
di una madre sfinita. Il cucciolo sarà nervoso,
inquieto e molto bello, come tutte le creature che
giocano accanto alla madre.
Allora prenderai il cucciolo di foca in
braccio. Deciderete di far muovere la foca fino
all’imbarcazione invece di ucciderla così lontano,
anche perché non sarebbe facile trascinare il suo
cadavere. Se vi portate via il cucciolo, la madre vi
verrà dietro, con il suo stanco canto lamentoso,
trascinandosi, allungando la scia di sangue sul
ruvido ghiaccio rugoso.
La porterai in braccio, pur essendo un
cucciolo peserà parecchio e, prima di arrivare
all’imbarcazione, dovrai fermarti a prendere
fiato. Lascerai a terra il suo morbido corpo e ti si
avvicinerà tarra tarra, strofinerà la schiena sui tuoi
scarponi, alla ricerca di altre carezze.
La madre verrà a cercare il cucciolo,
lamentandosi minacciosa e si tranquillizzerà solo
quando avrà di nuovo attaccata a sé la creatura,
che succhia il latte che le esce dal naso. Dovrete
587
spararle accanto allo scafo dell’imbarcazione
intrappolata nel ghiaccio.
Ti daranno il fucile, fisserai l’animale nel
mirino, lo vedrai da vicino e, proprio quando si
sentirà il suo bramito acuto e terrificante, premerai
il grilletto. Dal cuore della foca sgorgherà un
abbondante zampillo di sangue. Agiterà il corpo nel
tremore dell’agonia e terrà aperti e puntati su di te
i suoi occhi belli e lontani, con l’espressione di chi
non ha capito cosa sia successo.
Il cuoco le toglierà la pelle e, nell’aprirla,
troverà lo stomaco pieno di pesci.
Si sentirà un canto di primavera al di sopra
di questo deserto marino gelato:
Oh, to be in England
Now that April´s there…
Sì, sarà aprile, ti sveglierai alle nove del
mattino, salirai in coperta e sarà ancora notte
fonda e il vento gelido soffierà con forza. Dopo
588
L’amico congelato
l’estate, l’autunno e l’inverno, è come se, oltre alla
primavera, ci fosse una quinta stagione molto più
dura dell’inverno.
Rimarrai sul ponte laterale per sentire il
risvegliarsi del giorno. Il sole ancora nascosto
inizialmente illuminerà le cime degli iceberg. Poi si
alzerà poco a poco, color arancione, e illuminerà
l’immacolata pianura creando ombre lunghissime
sul biancore accecante.
Quando sarà giorno, sbarcherai ed inizierai
a camminare. La polvere di neve ti farà male al
viso. Farai un passo e la neve sarà morbida come
le piume, non parlerà ma sentirai il suo lamento, la
voce della neve sarà come quella di un adolescente,
delle foglie secche, di un foglio che si accartoccia.
Non ci sarà niente attorno a te, solo il
vento glaciale e non saprai dove stai andando.
Gli aghi di neve ti faranno molto male, il vento
ti ruberà il respiro e il biancore ti impedirà di
vedere. Camminerai nella neve senza una meta e
all’improvviso ti renderai conto che ti sei perso. Il
biancore diventerà completamente scuro, alzerai
la mano all’altezza degli occhi e non vedrai né
589
il guanto, né la mano, né niente, eccetto questa
bianca oscurità. Ti renderai conto che sei cieco.
Allora cadrai faccia a terra.
Cercherai di alzarti e avrai la sensazione di
essere diviso a pezzi, come se ogni pezzo volesse
un modo di vita diverso e si perdesse in luoghi e
stagioni diverse. La tua mente si eleverà e guarderai
lo spettacolo del vento glaciale da una prospettiva
alta, mite e dolce, il vento scuote la neve dal suo
giaciglio, la raccoglie in mulinelli e la porta da una
parte all’altra. E lì sotto ci sei tu, il bambino, vestito
di pelli, e in questo strano chiaroscuro il tuo viso
sembra una maschera bianca di cartongesso.
Tuo padre sta cacciando foche, all’interno
tua madre sta cucendo abiti con pelli di foca e
tu sei il bambino che si trova davanti all’igloo. E
il sole, che non può alzarsi in cielo, allungherà in
modo smisurato la tua ombra.
“Mamma, dov’è il papà?” chiederai.
“Dove vuoi che sia!”
“Si è perso?”
“Dai, vai a fare un giro e lasciami un momento
tranquilla, ma non ti allontanare, altrimenti il Grande
590
L’amico congelato
Ladro ti catturerà.”
Guarderai la pianura infinita alla ricerca di
tuo padre e in lontananza scorgerai un puntino.
Ti avvierai in quella direzione, sempre più lontano
dall’igloo ma, quando ti fermerai e ti guarderai
attorno, non vedrai da nessuna parte né il punto,
né l’igloo, né nient’altro in quella pianura infinita.
In cielo vedrai passare le anatre in volo.
“Dove andate?” le chiamerai.
Senza interrompere il loro volo, le anatre ti
risponderanno:
“Fuggiamo, perché arriva la lunga notte.”
Sai che con la lunga notte il Grande Ladro
raccoglie tutto quello che si è perso e lo porta
nel Paese degli Oggetti Smarriti. Al tramonto
camminerai e camminerai nella neve, ma non
troverai la strada per tornare a casa e la lunga
notte ti catturerà.
Incontrerai uno strano personaggio e vedrai
nell’oscurità le sue grandi corna di renna.
“E tu chi sei?” gli chiederai.
“Sono il Maestro dei Sogni” ti dirà. “Finché
dura la lunga notte cerco compagni di gioco e ne
591
conosco molti di divertenti. Vuoi rimanere a giocare
con me?”
“Non posso fermarmi a giocare, devo tornare
subito a casa.”
“Verrei con te, ma non posso uscire dalla
notte,” ti dirà con tristezza il Maestro dei Sogni.
“Ma, se ti sei perso, vai da quella parte dove si
vede un po’ di luce all’orizzonte...”
Proseguirai sulla neve e arriverai esausto in
riva del mare. Lì è l’alba ma l’acqua ti sembrerà
scura e minacciosa. Vicino alla costa c’è un’isola
libera dal ghiaccio ma, quando ci salterai sopra con
un salto, inizierà a muoversi.
Te ne renderai conto tardi, quando sentirai
gli schizzi d’acqua: sei sopra una balena.
“E tu?” dirà la balena. “Che ci fai, tu, sulla
mia schiena?”
“Credevo che tu fossi un’isola.”
“Un’isola! Tu saresti capace di costruire un
igloo sulla mia schiena.”
“No, no, no... Non ho intenzione di rimanere
a vivere qui.”
“Dove stai andando?”
592
L’amico congelato
“A casa.”
“E dov’è la tua casa?”
“Non lo so.”
“Allora ti sei perso!”
Le risponderai di sì e la balena muoverà la
testa in mezzo alla baia nera. Cadrai in acqua e
affonderai fino a ritrovarti intrappolato in una fitta
rete, nelle profondità degli abissi marini.
Così vedrai molti altri oggetti intrappolati nella
rete come te. Slitte, racchette, guanti, strumenti da
caccia, giochi di bambini, cani da slitta e molte altre
cose.
“Papà!” dirai vedendo anche tuo padre nella
rete.
Sei prigioniero nel Paese degli Oggetti
Smarriti. E quel gigante che vedi lì come un polipo
è il Grande Ladro, che vigila la sua grande rete di
cattura.
“Non è più perso, l’ho trovato...” dirà il
bambino al Grande Ladro, indicando suo padre:
“È vero, hai ragione!” ammetterà il Grande
Ladro. E solleverà un estremo della rete per liberare
il padre.
593
Esci subito anche tu, prima che la rete si
richiuda. Scapperete sotto di essa e nuoterete
rapidamente verso la superficie e poi fino alla
terraferma, portandovi a rimorchio la rete piena di
oggetti smarriti.
Raggiunta la costa, proseguirete veloci sulla
neve trascinando la rete fino all’igloo. Nell’aprirla,
libererete animali, amici e oggetti d’ogni tipo.
“Grazie” dirà un’anziana inuit, libera dalla
rete e prima di avviarsi verso casa.
Quell’altro è Tarje, per lo meno ha il viso
di Tarje, quello sconosciuto che, toltosi la rete da
dosso, vi ringrazierà:
“Non è un brutto lavoro!” ti dirà mostrando la
mano monca.
La gente che ha perso qualcosa verrà
a controllare la rete e tutti se ne andranno con
l’oggetto non più smarrito. Da sotto la rete usciranno
animali di molte specie, lupi bianchi, foche, renne,
lepri delle nevi, gufi.
Facendo grae grae, i gabbiani bianchi
voleranno via dalla rete...
Nell’aprire gli occhi vedrai Edna.
594
L’amico congelato
“Ti abbiamo trovato privo di conoscenza a
duecento metri da qui” sentirai.
E la nonna è vicino al fuoco:
“Non uscire con questa neve!” dice la
nonna dal letto, la nonna del casolare Mugertza di
Murelaga.
Poi sentirai di nuovo la voce di Edna:
“Ti ha trovato Axel praticamente sepolto
sotto la neve.”
“Ti abbiamo cercato come dei matti” ti dirà
Axel, “avevamo paura che si ammalasse la persona
che ci deve curare...”
Tremerai molto e il brodo caldo portato da
Bobbi ti scalderà un po’, mentre senti i mulinelli del
vento, la neve accecante e la nebbia della lunga
notte lì fuori.
La nave rompighiaccio non è ancora arrivata.
595
34
KAPUT
Da quando erano iniziati gli esami di fine
anno, capitava che alla punta del molo potevamo
andarci solo con l’immaginazione. Avevamo molto
da studiare, ma non era facile concentrarsi sui
libri, sulla concordanza di genere e numero del
pronome relativo con i suoi antecedenti, o sul
lontano palazzo di Nankin, o sulle caratteristiche
del congiuntivo, o rispetto all’etimologia soumis à, il
en indique la possibilité, le caractére souhaité, e un
intenso desiderio di conoscere ci portava ad alzare
gli occhi dal libro e ci spingeva per strada fino alla
punta del molo, dandoci addirittura il coraggio e la
forza per superare la recinzione di pietra.
“Anche noi siamo un po’ congiuntivi...” disse
Inazito a bassa voce.
Quando alzammo gli occhi dal libro, ci
596
L’amico congelato
rendemmo conto che la professoressa di francese
stava piangendo e, nel bel mezzo della lezione,
fummo scossi da un brivido.
I
giornali
dicevano
che
l’esercito
nordamericano aveva realizzato quell’anno
ventimila operazioni belliche in Vietnam e che, alla
fine, i vietnamiti si sarebbero dovuti arrendere. E
che il mondo viveva con il timore di un’altra guerra,
che la bomba atomica avrebbe potuto distruggere
completamente la vita sulla superficie terrestre,
che l’intero pianeta poteva sparire senza lasciare
tracce e che forse sarebbero sopravvissuti solo
gli scarafaggi sulla superficie desertica della
Terra. Nonostante tutto c’erano delle speranze,
l’automatizzazione e la cibernetica facevano
grandi progressi, ben presto sarebbero state le
macchine a fare tutto il lavoro. L’Athletic di Bilbao
andava bene, aveva vinto le ultime tre partite del
campionato, la Real Sociedad aveva pareggiato
uno a uno in trasferta, l’Osasuna aveva perso la
partita in casa tre a due...
Non arrivavano navi cariche di bauli. Alle sei
del mattino iniziava l’asta delle casse e delle ceste
597
di pesce.
“C’è sempre meno pesce in mare” si diceva.
I pescatori erano preoccupati, perché la
pesca era scarsa, tutto era caro e dovevano andare
sempre più lontano per pescare. A scuola quando si
citava l’Africa era per riferirsi ai bambini del Biafra e
alle campagne della Croce Rossa, alle elemosine e
ai missionari. Ma i pescatori di Kalaportu dovevano
raggiungere l’Africa per pescare e così noi,
mezzi addormentati, in Africa cercavamo Dakar,
Freetown, Monrovia, e li trovavamo sottolineati con
una penna rossa non si sa da chi.
Intanto a casa di Goio si mangiavano ancora
pesciolini che sapevano di fango, la parte che
toccava alla madre nella divisione al porto. Pagelli
con patate, sgombri e riso, gattuccio e ceci, melù
e zuppa d’aglio, quello che i pescatori di merluzzo
scartavano per la vendita.
Sui muri si vedevano ancora le fotografie
dei giovani uccisi dalla Guardia Civil al porto e
noi raccoglievamo confuse idee rivoluzionarie e
598
L’amico congelato
di classe, perché leggevamo e mischiavamo con
passione, oltre a quelli di scuola, anche libri proibiti.
Quel Karl Marx della copertina del Manifesto
Comunista ci sembrava simile a quel Sabino Arana
con le tradizionali espadrillas che aveva detto che
Euskadi era la patria dei baschi e che ci guardava
da dietro le sbarre del carcere. Entrambi avevano
la barba, come Pierre Joseph Proudhon che aveva
detto che La propriété c´est le vol, come il Che
Guevara degli adesivi e come quel giovane che
durante la manifestazione aveva lanciato in aria
volantini all’angolo tra Goienkale e Zeharkale.
E, una volta, proprio a Kalaportu, quando
sentii dire Quello è Gabriel Aresti, mi sembrò il
poeta più clandestino del mondo.
“Guarda, è Gabriel Aresti, quello che ha
scritto Egun da Santimamina”.
Perché si cantava Euskadi libre ikusi arte ez
dut moztuko bizarra.15
“È di Bilbao, come te” mi disse Goio. “È
malato e vive qui vicino, nel porto di Ea”.
15
Finché non vedrò Euskadi libera non mi taglierò la barba.
[N.d.T.]
599
Ci sembravano simili e complementari
la canzone che Josemaria Iparragirre aveva
composto per l’Albero di Gernika e il quadro di
Pablo Picasso sul bombardamento della cittadina.
Cercavamo delle confluenze e, quando Padre
Alvarez proiettò il film dei fratelli Marx, noi eravamo
lì, le lucciole, per prendere come maestri segreti
Charles Chaplin, Buster Keaton, Sigmund Freud e
i fratelli Marx.
Confondevamo la parola Repubblica con la
parola Indipendenza e ammiravamo solo le scuole
clandestine in basco: per noi, che in collegio ci
sentivamo dei sequestrati, tutto ciò che era proibito
e marginale era apprezzabile.
Quando andammo alla Petit Maison? Era
una mite notte di maggio quella in cui noi tre, uno
ancora con i pantaloni corti, ci recammo al bordello.
Ci avevano detto che sotto il vestito non
indossavano biancheria intima, che erano di un
posto o di un altro, che erano delle donne bellissime
e dovevamo andarci subito, perché prima o poi
600
L’amico congelato
l’avrebbero chiuso: il sindaco, il prete e affini si
stavano dando da fare per cacciare le prostitute dal
paese.
“Dove andate?” ci chiese Juanjo al
pomeriggio, quando vide me e Inazito puliti ed
eleganti.
“A mettere l’uccello nel nido” disse Inazito.
Camminammo al buio seguendo la strada,
finché non trovammo un’insegna luminosa su ci si
poteva leggere:
Petit Maison
Avvicinandoci alla casa, scorgemmo una
sigaretta accesa, capimmo che c’era un portiere
seduto all’entrata e riconoscemmo il Portoghese. Ci
abbagliò dalla testa ai piedi con una torcia elettrica:
“Cosa cercate da queste parti?”
“Venire a trovarvi e bere una birra, se è
possibile” rispondemmo.
“Questi non sono posti per bambini!” disse
puntando la luce della torcia sui pantaloni corti. “È
troppo caro per voi.”
601
“Abbiamo i soldi” gli rispondemmo.
“Soldi, ma certo! Avrete bisogno di mille
pesetas ciascuno.”
“Allora, guarderemo soltanto” disse Inazito.
Il Portoghese scoppiò in una risata:
“Guardare, nemmeno per sogno!” disse.
“Guardare!” ripeté mentre continuava a ridere.
Ancora lì sulla porta ci guardammo e
decidemmo di unire il denaro di tutti e usarlo per
uno solo.
“Quanto abbiamo?”
“Io 200” disse Inazito.
“Io 150” disse Goio.
Io avevo 300 pesetas.
Al Portoghese dovevamo far pena, o forse
era stufo di tenere la porta chiusa e ci disse di
passare. Entrammo dietro di lui, all’interno tutto
era di color rosso intenso e nella rossa oscurità si
intravvedevano le tappezzerie e la decorazione.
Avevamo per lo meno i soldi per berci una birra
ciascuno e ci sedemmo sugli alti sgabelli vicino al
bancone.
C’erano tre candele, infilate nella bocca di
602
L’amico congelato
bottiglie vuote di patxaran Zoko.
Il portoghese apparve dietro il banco e ci
servì tre birre. Poi andò a parlare con due donne
che chiacchieravano in un angolo, mentre noi ci
giocavamo a sorte a chi sarebbe toccato.
“Non l’abbiamo fatto bene, dobbiamo rifare”
dissi quando mi toccò il bastoncino più lungo.
Le due donne ci osservavano dall’angolo
della sala. Una era bionda, i capelli tinti e il viso
truccato, l’altra era nera e con i capelli ricci.
Anche la seconda volta presi il bastoncino
più lungo.
“Chi ti piace di più, io o l’altra?” mi chiese la
bionda in basco.
“È lo stesso” dissi, pieno di vergogna e
facendo finta di essere più interessato alla birra e
all’intimità tra amici che a quella faccenda.
“Come, lo stesso?” la bionda mi si avvicinò.
Odore di fumo, di colonia, di disinfettante, di
vacca.
“Cosa succede, ragazzo, non vuoi guardare
dalla finestra?” mi chiese aprendo ancora di più la
scollatura.
603
Gli occhi di Inazito cadevano come fossero
biglie sul petto prosperoso della donna.
“Ma chi ha vinto?”
“Lui, lui!” disse Inazito.
E la bionda mi trascinò su per le scale con
la forza di un partecipante a una gara di tiro con i
buoi.
Inazito e Goio rimasero di sotto con la
bottiglia di birra in mano ma, dopo poco, si avvicinò
la ragazza nera:
“Bevete!” gli disse in francese. “A cosa vi
serve la bottiglia, come microfono?”
Senza aggiungere altro, slacciò uno a uno
i bottoni dei pantaloni di Goio, si inginocchiò, lo
annusò e dette un bacio a quel pezzo di carne
senza nome.
Poi lo prese per mano e, senza dire
nemmeno una parola, lo portò su per le scale.
Goio fece alcuni gradini dietro di lei finché non
entrò in una stanza. In mezzo c’era un grande letto,
coperto da un lenzuolo rosso, e Goio si sedette in
un angolo, con la bottiglia di birra ancora in mano.
“Lascia giù la bottiglia!” gli disse la donna,
604
L’amico congelato
di nuovo in francese, e gliela tolse dalla mano. Gli
diede un asciugamano e gli indicò il bagno.
Goio ci andò, si lavò, si asciugò e tornò al
letto. La donna era nuda, Goio le tocco il pube
con l’intenzione di esplorare i luoghi così spesso
menzionati e immaginati nelle conversazioni tra
ragazzi, ma la ragazza gli allontanò la mano.
Poi spogliò Goio come una madre
spoglierebbe il suo bambino piccolo e gli toccò il
petto con le sue lunghe unghie scure, come se gli
ordinasse di sdraiarsi sul letto.
Goio fece per abbracciarla ma lei gli fece
cenno di rimanere fermo.
“Faccio io” disse. “Ecco qua l’amico!”
Chiamò amico in francese il senza nome e
se lo mise in bocca.
Goio non aveva mai provato una sensazione
così morbida e tiepida. La ragazza muoveva la
testa su e giù e, quando Goio iniziava a tremare
di piacere, rallentava un po’ il movimento per poi
intensificarlo di nuovo. Goio infilò una mano nei
suoi capelli ricci.
Allora la ragazza si tolse il pene di Goio dalla
605
bocca e si mise sopra di lui a quattro zampe e,
quando ebbe il sedere proprio sopra il pene teso e
sembrava che si sarebbe inginocchiata, si sedette
sopra di lui e lo introdusse in quell’altro rifugio
umido, morbido, caldo. I seni scuri della ragazza
profumavamo di latte bollito, iniziò a emettere dei
gemiti e a muoversi come se stesse cavalcando
un cavallo. Goio andava alla deriva in un mare
di piacere, finché sentì un dolce colpo interno, il
corpo venne scosso da un breve attacco epilettico
e sospirò.
“Kaput!” disse la ragazza, scendendo dal
corpo di Goio come si smonta da cavallo.
Mentre lei si lavava in bagno, Goio si rivestì.
Sapeva che la ragazza si aspettava una
maggiore abilità e conoscenza da parte sua, si
vergognava, era sudato e aveva di nuovo il pene in
erezione.
Goio cercò di baciarla ma la ragazza non
glielo permise.
606
L’amico congelato
Io scesi alla svelta al piano terra.
“Ma se non ci sei stato nemmeno cinque
minuti” mi disse Inazito indicandomi l’orologio,
“così non vale.”
Io gli dissi che avevo fatto quel che dovevo
fare, benché anch’io avessi la sensazione che non
fosse successo niente.
Anche Goio ridiscese subito.
“Anche questo non ha concluso niente!”
protestò Inazito.
Goio invece diceva che l’aveva fatto.
Scendendo in paese lungo la strada dalla
Petit Maison, Inazito ci disse che aveva avuto
un’interessante conversazione con il portoghese.
“Sa molte cose” disse.
“Cosa ti ha detto?”
“Sono diventato triste quando mi ha
raccontato la storia delle balene. Un’ottantina
si erano arenate su una spiaggia del Portogallo,
come se avessero deciso di andarci a morire. Il
Portoghese dice che è per colpa del buco che si è
fatto nell’ozono del cielo...”
607
“Che buco?” gli chiesi io.
“Gli scienziati hanno trovato un buco nel
cielo, anche se è quasi proibito parlarne. Pare che
nel cielo ci sia un buco e che i raggi del sole entrino
da quel buco senza essere filtrati e provochino il
cancro.”
Camminavamo guardando il cielo nero.
“Scommetto che non sapete di chi è la
colpa” continuò Inazito, “delle donne eleganti, della
loro lacca in bombolette. A loro non piace che il
vento gli spettini i capelli e le bombolette di lacca
che usano per fissarli sono ciò che provoca i buchi
nell’ozono, dice il Portoghese.”
“Non riesco a capire come una bomboletta
di lacca possa fare un buco nel cielo...” gli dissi.
“La bomboletta contiene del gas ed è quel
gas che buca il cielo.”
“E cosa c’entrano le balene con la lacca e le
donne e il cielo?”
“Era quello che gli stavo per chiedere
quando siete ritornati” disse Inazito. “Dovrò tornarci
un’altra volta per farmi raccontare come va avanti
la storia...”
608
L’amico congelato
Io e Goio camminavamo in silenzio. Nella
notte non si scorgeva nessun buco speciale, era
tutto un unico buco nero.
“E a te cosa ha detto?” chiese Inazito a Goio.
“Chi?”
“La ragazza, dopo la scopata.”
“Kaput!” disse Goio.
“Che cosa ti ha detto?”
“Quando abbiamo finito mi ha detto: kaput.”
“E cosa diamine significa kaput?” chiese
Inazito.
“Non lo so” disse Goio.
“Io sì lo so” dissi, perché durante le vacanze
estive avevo letto il romanzo di Julio Verne e Curzio
Malaparte. “Sarà il titolo del romanzo di Curzio
Malaparte.”
E accettarono quella spiegazione.
“E a te cosa ha detto alla fine?” chiese
Inazito.
“Mi ha detto di tutto!” risposi.
E lo dissi con forte accento di Gipuzkoa, in
modo che i miei due amici ridessero, “quella di oggi
è quasi gratis, maledetti ragazzini, ma la prossima
609
volta portate i soldi, d’accordo?”
Scoppiammo a ridere e continuammo a
camminare in silenzio, ognuno perso nel pallone
dei propri pensieri.
All’improvviso, Inazito disse:
“Anche gli elefanti vivono così in Tanzania.”
610
L’amico congelato
35
TORNARE A CASA
“La nave rompighiaccio non può arrivare fin
qui e dovranno recuperarci dal cielo” avviserà più
tardi qualcuno.
Passerete le ore dei giorni seguenti alla
luce di un bianco circolo astrale che nella nebbia è
difficile capire se è il sole o la luna, aspettando di
vedere arrivare qualcosa dal cielo. Ma non vedrete
altro che i chiari segnali di una tempesta di neve
che si avvicina soffiando da ponente.
A un certo punto, si sentirà il rumoroso
girare di un’elica, un metallico pal pal pal che turba
la quiete della neve.
Prima di scendere, si metteranno in
comunicazione via radio:
“Sì, siamo qui!”
“Scenderemo subito, vi cerchiamo da molto
tempo e ci resta poco carburante.”
611
“Siamo qui!” dirà di nuovo il nostromo.
“State tranquilli, sappiamo dove vi trovate...”
Uscirete tutti fuori e guarderete l’elicottero di
color verde chiaro che solleva polvere di neve.
Il nostromo lancerà, senza molto senso, dei
bengala rossi e bianchi.
Appena
toccato
terra,
dall’elicottero
scenderanno con un salto sulla neve dei militari
americani con uniformi bianche e i fucili in mano.
Vi spaventerete tutti un po’ per questa
logistica militare, perché prenderanno posizione
come se si trattasse di una manovra o di
un’operazione di guerra. Su un fianco dell’elicottero
leggerete Dakota P9R.
“Sono il tenente March” vi dirà uno dei
militari. “Abbiamo provato a venire con una nave,
rompendo il ghiaccio, ma è stato impossibile...”
Porteranno tutti alla nave in elicottero.
“Non conviene spegnere il motore
dell’elicottero. Dobbiamo andarcene il più presto
possibile...”
E tutto succederà in pochi meteoritici minuti.
Raccoglierete le cose imprescindibili e
612
L’amico congelato
salirete sull’elicottero che muove l’aria producendo
un forte pal pal pal.
“Ci siamo tutti?”
All’interno il ruggito del motore sarà ancora
più roboante e l’elicottero si alzerà di colpo come
se cadesse verso l’alto. Vedrai Edna vicino a Bobbi,
e anche il nostromo accanto a John, e sentirai un
forte solletico allo stomaco.
Guardando l’imbarcazione dall’alto, ti
sentirai come un arbusto strappato alle radici. Una
volta raggiunta una certa altezza, l’elicottero volerà
orizzontalmente tra la nuvole. Siete seduti rivolti
all’indietro e, guardando la nebbia e la neve che vi
lasciate alle spalle, avrai la sensazione di andare
contro il tempo. L’elicottero si inclinerà da una parte
e dall’altra, dondolerà facendo un forte rumore,
come un uccello ubriaco.
Presto sarà buio e si vedrà una luna strana.
Passerete sopra le cime di ghiaccio, più erette delle
sentinelle sotto di voi.
Rimarrà tutto indietro, sotto.
613
La rompighiaccio vi starà aspettando come
un cigno bianco. Avvicinandovi alla prua leggerai il
suo nome su un fianco:
Iceblink
Quando l’elicottero atterrerà sul ponte,
vedrai i cannoni e le apparecchiature e capirai che
si tratta di una nave militare.
Allora guarderai la borsa che hai con te e ti
renderai conto che non hai preso i documenti, che
hai perso il passaporto in quel pezzo congelato di
mare.
La rompighiaccio ha già la poppa rivolta
verso sud e, appena arrivati voi, si dirigerà verso
nord, come se avesse davanti una strada di
acqua nera, con bianchi campi di ghiaccio ai lati,
oltrepassando ogni tanto queste gigantesche
costruzioni che sono gli iceberg.
“Ho una voglia immensa di mangiare frutta”
dirà Edna.
Menzioneranno la parola Homeland che
614
L’amico congelato
tradurrai con casa.
“Io vorrei essere su una spiaggia della
Florida” dirà Axel.
“E io in un bordello di Amsterdam” dirà
Franz.
Ti accorgerai dello sfasamento tra il
movimento delle labbra dei tuoi compagni e il
suono delle loro frasi.
“Qualcuno crede che quando il sole si
spegnerà, non so fra quanti milioni di secoli, tutta
la Terra avrà l’aspetto dell’Antartico. Quando il sole
si spegnerà, il mondo si congelerà, il ghiaccio si
estenderà su tutto il pianeta e cadrà nello spazio
infinito come una palla da baseball ricoperta di
ghiaccio bianco. Non vedete la somiglianza di
questo Antartico con quella città globale in cui si
sarà trasformato il mondo?”
Axel muoverà le labbra e a volte le frasi
corrisponderanno al movimento, altre volte ci sarà
una certa dissonanza.
“In ogni caso, non tutto è morto. Gli animali e
le piante si sono estinti, ma c’è ancora un resto di vita:
il corethron. Il corethron è una pianta microscopica,
615
parente delle alghe delle acque ferme, ma mentre
le alghe muoiono con il freddo, il corethron ha
un guscio di vetro per sopravvivere. Il corethron
si muove nell’acqua sfruttando la propulsione di
ogni minimo movimento della stessa, è un ottimo
nuotatore. Quando resta intrappolato nel ghiaccio
non può muoversi ma si riproduce, dividendosi in
due...”
Nei tratti dove il varco nero si è chiuso, la
nave rompighiaccio deve fare delle manovre per
aprirsi un altro cammino.
“Fra qualche milione di anni, il corethron
probabilmente sarà l’essere vivo del futuro, quando
la vita dipenderà dal silicio e non dal carbonio
come adesso. Allora le persone dovranno essere
di vetro...”
Uscendo in mare aperto proverai una
forte sensazione di libertà. Il vento soffierà da
nordovest, con pioggia e nebbia. Le temperature
aumenteranno di giorno in giorno: -9, -7, -6, -4.
Però sai, border crosser, che senza
616
L’amico congelato
documenti falsi non ti si aprirà nessuna frontiera.
Finalmente al sole, anche se non si può dire
che siate proprio sotto il sole, che è molto debole,
ma piuttosto accanto a un sole basso.
Pur essendoci una forte mareggiata,
rimarrete fuori a chiacchierare. Nessuno può
costruirsi un nido o una casa con fondamenta
nell’acqua perché questo è lo spazio della fuga e
del ritorno. E vedrete una balena.
“Il mare è diventato un pericoloso labirinto
per le balene” dirà qualcuno. “Si lasciano le reti
aperte, a volte anche di venti chilometri; l’acqua
viene inquinata in tutti i mari, mentre si moltiplicano
le piattaforme petrolifere; anche l’inquinamento
acustico turba il loro senso dell’orientamento e,
senza avere una meta, si incagliano ovunque...”
La vedrete da vicino, sentirete il bramito e
gli schizzi d’acqua quasi vi raggiungeranno. Sarete
testimoni del getto e del violento colpo di coda, la
balena si sommergerà nell’acqua per riapparire
poco dopo...
Quell’oscuro corpo che si muove molto
lentamente potrebbe essere della stirpe di
617
Moby Dick. Un corpo gigantesco che vive senza
presunzione.
“I norvegesi e i giapponesi le stermineranno
e, quando il mare sarà un deserto, dovremo
gonfiare e mettere in acqua balene di plastica...”
sentirai dire.
“Le balene hanno memoria” dirà un altro.
Ricordare, e perché? Nel futuro non esisterà
più la memoria.
Allora riconoscerai la voce di Axel e ti fisserai
sul movimento delle sue labbra:
“Inoltre, siccome sono poche, per loro è
sempre più difficile incontrarsi in mare. I maschi e
le femmine, benché si cerchino reciprocamente,
non si incontreranno mai e moriranno in solitudine
in questo mare infinito...”
E la balena si perderà a babordo.
“Forse andrà a morire su una spiaggia della
Florida...” dirà qualcuno.
“Sicuramente non andranno a un bordello di
Amsterdam...” dirà Franz, provocando una risata
generale.
Mangerete insalata, uova di gallina,
618
L’amico congelato
prosciutto e frutta. Per la prima volta in tutto il
viaggio in veste di invitato, il cuoco mangerà seduto
vicino a te, ritmando con il cucchiaio sul piatto la
musica del gruppo New Kids on the Block.
Poi potrete vedere un video e ti siederai
vicino a Edna.
“Sono cortometraggi di Buster Keaton” ti
dirà.
In quel One Week, Buster Keaton ha
ricevuto come regalo di nozze le parti di una
casa prefabbricata, sistemate in una dozzina di
casse. Ma siccome un suo nemico ha cambiato
la numerazione delle casse, quando cercherà
di assemblare i diversi pezzi si produrranno
un’incredibile successione di disgrazie ed equivoci.
Il vento rovescerà come fosse un guanto la struttura
assemblata a fatica, e un treno dividerà in due la
casa...
È quasi impossibile montarla e, inoltre,
quando riuscirà a costruire qualcosa lo farà nel
posto sbagliato, sul terreno del vicino.
“E tu, dove andrai?” sentirai, e le labbra di
Edna si muoveranno.
619
Il cortometraggio successivo ha come titolo
Cops. Si vedrà Buster Keaton che corre da solo
lungo una strada deserta e, dietro di lui, appariranno
migliaia di poliziotti che rincorrono il fuggitivo.
“Cosa?”
“Questa nave adesso va a Ushuaia. Da lì
ci porterà alle isole Falkland. Passeremo la notte
nel porto di Stanley e poi prenderemo una nave
mercantile che va a New Orleans”...
Sentirai la frase e vedrai le labbra di Edna
muoversi, ma non potrai sovrapporre le due cose.
“Cosa farai?”
Non saprai cosa fare e rimarrai a guardare
Buster Keaton che è un disastro e va avanti
come un pazzo, moltiplicando le catastrofi al suo
passaggio, con il viso gelato, finché non si renderà
conto che le catastrofi non sono la fine del mondo.
“Non lo so” risponderai.
Se continui il viaggio, forse avrai la possibilità
di fermarti in Brasile o in Venezuela, o di ritornare
sulla costa atlantica del Nicaragua. Ma, senza
passaporto, sarai sempre in pericolo, perché in
qualunque momento possono chiederti i documenti
620
L’amico congelato
e, finché rimarrai su una nave militare, non avrai
nessuna possibilità di controllare come possono
gestire via radio la faccenda dei tuoi documenti
andati persi.
Prima sbarchi, meglio è.
“Nemmeno io voglio tornare a casa” ti dirà
Edna piano, unendo molto lentamente il tremore
delle labbra con il suono della sua voce.
“E chi ti ha detto che io non voglio tornare a
casa?”
Edna rimarrà a guardarti nella pancia della
nave, senza sapere cosa le hai detto e cosa non le
hai detto, mentre la nave procederà con i motori al
massimo.
621
36
LA SPIAGGIA VUOTA
“Anche gli elefanti vivono così in Tanzania.”
A volte Inazito pronunciava frasi senza
senso come questa.
Pensavamo che a quell’ora tarda della
notte Padre Solana avesse già abbandonato la
sua postazione ma, quando iniziammo a scalare il
muro di recinzione del collegio, ci rendemmo conto
di essere caduti nella ragnatela.
“Ecco lì la spia internazionale!” disse Inazito.
Così lo vedemmo affacciato alla finestra del
piano di sopra mentre, con un binocolo, controllava
la strada che portava a casa di Goio. La Petit
Maison era proprio di fronte al suo osservatorio
e deducemmo che la vedetta sapesse da dove
venivamo e che ci avesse visto entrare in quel
luogo.
Era inutile nascondersi e così, senza
622
L’amico congelato
preoccuparci troppo, entrammo in collegio con una
sensazione strana.
“Non dorme!” disse Inazito. “Abbiamo
sbagliato a portargli via quel Play Boy!”
“Domani glielo restituiremo!” ribattei io
ridendo.
Il giorno dopo, a ricreazione, giocammo una
partita e Goio era il nostro portiere. Scendemmo in
cortile passandoci il pallone l’un l’altro, toccò a me
e ad Emilio scegliere i giocatori. Emilio volle prima
Zumalde, io Goio, lui Beixama, io Agustin...
Appena iniziato a giocare ci fu il primo gol:
“Rigore!” gridarono tutti assieme quando
Emilio cadde a terra a causa dello sgambetto
fattogli da Inazito.
“Fallo! Fallo!” dicemmo noi.
Emilio tirò la punizione con lo stile di Rivelino
e, benché Goio saltasse più di una tigre, fece gol.
Il pallone andava da una parte all’altra del
campo regolamentare, allora guardammo verso
l’osservatorio e Padre Solana era immancabilmente
lì. La finestra era chiusa ma dietro i vetri lui stava
sempre vigilando.
623
E, mentre stavo guardando quella finestra,
Emilio, quasi da centrocampo, tirò e fece gol.
“Fuorigioco!” chiesi.
Ma tra Emilio e Goio ce n’erano tre o quattro
della nostra squadra. E Agustín, la nostra punta, si
arrabbiò con me:
“A cosa stiamo giocando, a calcio o a che
cosa?”
Sapevamo che sarebbe successo qualcosa
ed eravamo nervosi.
Quando sentimmo il battito delle mani che
annunciava la fine della ricreazione, tornammo in
classe in silenzio.
Temevamo che non ci avrebbero nemmeno
lasciato sedere e così fu. Quando stava per iniziare
l’ora di Geografia, avvisarono: Antonio Martinez,
Ignacio Michelena, Gregorio Ugarte, in direzione! Il
Direttore, questa volta, ci ricevette uno a uno. Alzò
la testa di marmo umido e fece lo stesso discorso
a tutti e tre: avevano avuto anche troppa pazienza
con noi che non rispettavamo le norme religiose,
né quelle politiche, né quelle morali.
Era sordo, ci faceva delle domande ma
624
L’amico congelato
lo scopo dell’interrogatorio non era ascoltare le
nostre risposte bensì trarre le sue conclusioni
ed aggiungere i castighi corrispondenti. Ci disse
che la scuola doveva occuparsi dell’educazione
dei suoi alunni e non del recupero di elementi
completamente degenerati. Per quelli esistevano i
riformatori o le scuole speciali.
Io fui il primo e rimasi in corridoio ad aspettare
Goio, che uscì a testa bassa:
“Qua non abbiamo più niente da fare!” disse.
Lo disse con molta tranquillità. Non avremmo
dovuto fare gli stressanti esami che stavano per
iniziare. Ma io immaginavo mio padre, addirittura lo
vedevo già, fra qualche giorno, come un cieco vede
suo padre di fronte a sé. Immaginavo la sua faccia
al sentire che mi avevano espulso dal collegio, si
sarebbe slacciato la cravatta come un impiccato
allenterebbe il cappio.
“Non dovremmo più sopportare l’anidride
pretesca!” disse Inazito, benché anche lui fosse
molto spaventato.
Nel frattempo non sapevamo se tornare in
classe o no. C’era Geografia e il professor Patricio
625
stava parlando del colore del mare, parlava del mar
rosso e del mar nero.
Inazito decise di entrare in classe, perché
voleva sapere del colore del mare, mentre Goio ed
io ci avviammo verso Kalaportu.
Quando arrivammo al molo, vedemmo le
jeep della Guardia Civil davanti all’osteria di Felipe
e l’ambiente ci sembrò strano.
“Io vado a Zubieta” mi disse Goio.
Sembrava che stessero arrestando delle
persone.
“Tu sei ancora innamorato, vero?” gli dissi.
Non mi rispose e se ne andò, lasciandomi al
molo.
Così rimasi lì, a guardare le macchine e
i camion che passavano sulla strada o, più in
lontananza, le barche che uscivano o entravano in
porto, i gabbiani, i passeri e le rondini che volavano
irrequiete sopra i tetti.
Vidi di nuovo lo scudo del Municipio, nel
quale si vedeva una barca sopra un’onda, sei
626
L’amico congelato
uomini remando e l’arponiere ancora in piedi dopo
aver lanciato e conficcato l’arpione nella schiena
della balena e se ne vedeva un’altra più grande
accanto. Sotto, la frase:
Abbiamo preso quelle grandi
L’arpioniere prima aveva attaccato quella
piccola che, una volta morta, avrebbero rimorchiato
fino a una baia dove la balena madre, incapace di
abbandonale la figlia, li avrebbe seguiti e sarebbe
stata a sua volta catturata.
Al pomeriggio andai a scuola. Avevamo
Lingua spagnola e Matematica. Il passatempo di
quel giorno fu masticare dei pezzi di carta e tirarli
sul soffitto dell’aula. Le palline di carta con saliva
si attaccavano e rimanevano lì e il soffitto era già
abbastanza decorato.
Io non ne feci nemmeno una, come se non
avessi bisogno di lasciare tracce del mio passaggio
in quel luogo.
627
Nel frattempo Goio era andato a casa di
Ariane. Suonò il campanello ma la porta non si aprì.
Una bambina di sette anni stava giocando con una
corda davanti alla casa.
“Stai cercando la ragazza francese?”
“Sì, cerco Ariane” disse Goio.
“È andata verso la spiaggia proprio adesso”
gli disse la bambina.
Così prese il sentiero che portava alla
spiaggia. Lì avrebbe incontrato Ariane e si
immaginava già i suoi capelli che le cadevano
sulla schiena come pioggia libera e scura e il suo
sguardo pulito e franco.
Non era la prima volta che seguiva Ariane,
l’aveva vista molte volte da lontano, senza avere il
coraggio di avvicinarsi a lei, ma questa volta sì, le
si sarebbe avvicinato, Ariane si sarebbe girata con
i suoi occhi trasparenti e la sua rabbia. Perché mi
segui, cosa vuoi da me? E Goio le avrebbe detto C’è
bisogno di un motivo per vederti? Così le avrebbe
risposto lui, con uno sguardo cinematografico da
628
L’amico congelato
cowboy, alzando le sopracciglia e corrugando la
fronte. Io non voglio niente. Allora Ariane se ne
sarebbe andata e Goio sarebbe rimasto lì, al sole,
con il sole negli occhi.
Però Ariane sarebbe tornata subito e gli
avrebbe detto Andiamo e, tenendosi per mano,
sarebbero andati in spiaggia. Perché mi segui
sempre come un cagnolino? Gli avrebbe chiesto
Ariane, Perché sento una dolorosa mancanza che
ha a che fare con te, le avrebbe risposto Goio e
Ariane gli avrebbe regalato un allegro sorriso.
Poi Ariane si sarebbe spogliata e tuffata in mare,
scomparendo per un po’ sott’acqua per riemergere
poi con i capelli aperti sull’acqua attorno alla testa
e si sarebbe seduta vicino a Goio con il corpo
bagnato, tremante, avrebbe raccolto i capelli a
spirale sopra la testa, con la pelle d’oca, e poi gli
avrebbe offerto le sue labbra paonazze per dargli
un bacio.
Ma Goio non incontrò Ariane sul sentiero
che portava alla spiaggia di Zubieta. La spiaggia
era vuota, con la bassa marea la sabbia era liscia
e bagnata. Le onde morivano nella schiuma bianca
629
e c’erano alcuni gabbiani in aria.
Con le scarpe in mano, iniziò a camminare
sulla riva. A un certo punto, trovò un mucchietto
di abiti che le onde prendevano per abbandonarli
nuovamente sulla sabbia. Erano gli abiti e le scarpe
di Ariane. Tutt’attorno era deserto, nessuno stava
nuotando.
Pensò che Ariane fosse annegata.
I gabbiani volavano. Vide anche uno strano
stormo di uccelli, di quelli che passano all’inizio
dell’estate diretti a nordovest e che spariscono
subito allontanandosi sul mare.
E vide anche un peschereccio. Non era di
Kalaportu, navigava senza bandiera e forse era
una nave da pesca d’alto mare.
“Dovrai andare alla scuola nazionale” gli
disse sua madre.
Quando tornò a casa, lei sapeva già che
l’avevano espulso dalla scuola e stava piangendo.
“Oppure dovrai iniziare a lavorare per
mantenerti” aggiunse.
630
L’amico congelato
Vedendo
sua
madre
piangere
sconsolatamente e non sapendo cosa fare, Goio si
ritirò nella sua stanza.
Si portò la radio in camera e si sdraiò sul
letto con la radio appoggiata sulla pancia. Spostò
la sintonia da una parte all’altra finché non trovò
notizie di pugilato. Cassius Clay, Mohammed Ali,
il pugile di Louisville sarebbe tornato a combattere
sul ring.
“Poi devo dirti qualcosa che non sai” gli
disse sua madre dalla sala.
Qualcosa che non sapeva, aveva detto
sua madre, ma Goio sapeva già che, come Juan
Bautista, anche lui avrebbe dovuto indossare la
tuta da lavoro e iniziare a guadagnarsi il pane.
Io non ci sarò per sempre, sua madre gliel’aveva
già detto altre volte anche prima, Dovrai iniziare a
lavorare per mantenerti.
E perché no, sarebbe andato a lavorare e
basta.
Nel 1967, Cassius Clay, quando era
campione del mondo, aveva fatto a pezzi la
cartolina della chiamata alla leva per la guerra
631
del Vietnam ed era rimasto diversi anni in carcere
e fuori dalla competizione sportiva. Quando gli
restituirono il permesso di combattere, il campione
del mondo era Joe Frazier. Così Cassius Clay,
dopo aver sconfitto Oscar Bonavena, adesso
affrontava il detentore del titolo ufficiale. Si presentò
in pantaloncini rossi, Joe Frazier con pantaloncini
verdi, così disse il commentatore. Classius Clay,
prima di iniziare il combattimento, percorse quasi
ballando il ring illuminato di quel magnifico Madison
Square Garden e rise passando accanto a un serio
Joe Frazier.
L’arbitro parlò con entrambi e si sentì la
campana che dava inizio al primo round. Cassius
Clay si muoveva di più, ma Joe Frazier era come un
carrarmato. Cassius Clay ha iniziato ad attaccare,
si allontana un po’, poi si avvicina, balla attorno a
Joe Frazier, non potendo attaccare come vorrebbe.
“Vieni a cena!” gli gridò sua madre dalla
cucina.
Cassius Clay sferrava più colpi ma il
commentatore, nervoso, diceva che quelli di
Joe Frazier erano più efficaci. E via via che si
632
L’amico congelato
succedevano gli attacchi, Cassius Clay sembrava
si stancasse di più.
“Goio, vieni a cena!”
Al decimo round Cassius Clay recuperare.
Ma all’undicesimo Joe Frazier azzecca quattro
o cinque ganci e Cassius Clay inizia a traballare
perdendo forza. Il dodicesimo round è duro, non
può far altro che abbracciare Joe Frazier, come un
naufrago abbraccia una tavola scura in alto mare,
e Joe Frazier continua a colpire con una forza
spaventosa.
“Diventerà tutto freddo!” sentì dire a sua
madre. “Sempre la stessa storia!”
Tra un round e l’altro l’allenatore gli strofinò
il torso, le cosce e la schiena con un asciugamano,
e, al tredicesimo round, Cassius Clay si alzò
quasi ballando e sferrò una raffica di ganci, finché
non dovette rifugiarsi di nuovo contro le corde. Il
quattordicesimo round venne vinto senza dubbi
da Cassius Clay. Si alzò pronto a far suo anche
il quindicesimo, ma Joe Frazier pensò la stessa
cosa e, all’improvviso, mentre fermava un colpo
di Cassius Clay, gli assestò un pugno fortissimo,
633
come una cannonata e il nero di Lousville cadde
come morto.
In quel momento sua madre entrò nella
stanza, con gli occhi rossi e mordendosi le labbra,
aveva delle lettere in mano:
“Ti dirò la verità!” disse nervosa.
Goio si sentì male all’udire la parola verità,
mentre Cassius Clay si stava rialzando a fatica, le
gambe tremanti e lo sguardo perso.
“Questo è tuo padre!” disse, mostrando a
Goio una fotografia ingiallita.
Riuscì ad alzarsi ma a malapena si tenne
in piedi, durante il minuto e pochi secondi che
mancavano alla fine, debole, ormai sconfitto,
mentre uno sfinito Joe Frazier continuava a colpirlo.
Goio, in quella fotografia all’imperfetto, vide
un viso stupido, completamente sconosciuto, che
gli sorrideva.
“Cosa?” chiese.
Anche Joe Frazier era distrutto, diceva il
radiocronista, ma la stanchezza e il dolore del
vincitore sono assai diversi.
“Queste sono le lettere che mi ha scritto,
634
L’amico congelato
quattro in quindici anni. L’ultima è arrivata ieri.”
Stupito,
Goio
rimase
a
guardare
quell’estraneo e poco a poco quel viso gli si fece
più conosciuto.
“Ha i capelli rossi?”
“Ha i capelli come i tuoi...” disse sua madre.
“E se è mio padre, perché non porto il suo
nome?”
“Perché se ne andò!”
Lesse il mittente: John Rhys.
L’uomo della fotografia ingiallita viveva in
una città chiamata Swansea, e voleva conoscere
suo figlio.
“Fra dieci giorni andrai a Southampton in
traghetto da Bilbao e lui ti aspetterà lì, così potrai
passare con lui una ventina di giorni.”
Goio guardò le lettere una per una, erano
in inglese e non capiva. Nemmeno sua madre le
avrebbe capite.
In una cartolina si vedeva un’enorme roccia
in mezzo al mare, completamente coperta di
gabbiani.
635
636
L’amico congelato
37
USHUAIA
Mentre l’imbarcazione procederà avanti
tutta, non potrai rispondere alle domande dei
militari, Permanent Address, per esempio, quando
alzeranno la testa e ti chiederanno Permanent
address.
“Sbarcherò a Ushuaia” gli dirai.
“Non vuoi venire negli Stati Uniti?” chiederà
l’ufficiale togliendosi gli occhiali dalla montatura
dorata. “È strano, tutti i latinoamericani vogliono
venire negli Stati Uniti...”
“E gli indigeni?” gli chiederai.
“Ah, sei un indigeno?” dirà sorridendo, come
se le tue parole gli sembrassero divertenti.
Gli altri andranno con la Iceblink fino alle
Falkland e da lì negli Stati Uniti.
“Se hai intenzione di fermarti a Ushuaia
potrò pagarti solo la metà...” ti dirà il nostromo.
637
E ti pagherà la metà del tuo compenso come
infermiere.
“Così siamo a posto” ti dirà dandoti in mano
6.000 dollari, “senza guadagnarci né perderci
niente...”
Non calcolerai se ci guadagni o ci perdi e
cercherai a Ushuaia l’hotel o la pensione più calda.
Ushuaia è costruita su un pendio, al limite
delle acque grigio-azzurre che penetrano tra le
rocce nere della bocca del canale di Beagle. Le
case sulla collina sono di legno, di cemento o di
plastica e, per quanto riguarda i colori, sembrano
dipinte da bambini con toni pastello, il tutto sotto
nubi pesanti.
Sceglierai un bungalow di legno che
assomiglia ai vecchi rifugi di montagna del Gorbea
o di Irati, ma con le comodità dei moderni holiday
inn. Il sistema di riscaldamento sarà così buono
che dovrai addirittura aprire la finestra per non
soffocare.
Dal tepore della stanza si vedranno le
638
L’amico congelato
montagne rocciose e una grande cima in lontananza
ti sembrerà simile a un’altra vista tempo fa e ti
ricorderà il racconto degli indigeni Alakaluf. Lassù,
un tipo anonimo, povero e senza patria come te
non dovrebbe preoccuparsi di niente. Avresti a
disposizione il miglior vino e del tè caldo, biscotti e
ogni sorta di cibo desiderato e le foche barbute si
toglierebbero la pelle per offrirtela.
Accenderai la televisione e vedrai il
notiziario della CNN. Il governo dello Sri Lanka
chiede alla popolazione dell’isola di rimanere
tre ore senza bere, in omaggio ai soldati morti
di sete al Passo degli Elefanti, È il minimo che
possiamo fare in ricordo dei nostri eroi, dirà il
generale Sarath Munasinghe, perché domani si
celebrerà l’anniversario dell’assedio al quale le
Tigri tamil sottoposero i soldati dello Sri Lanka. I
massacri in Algeria sono diventati fatti quotidiani
e, viste le ultime notizie, dirà l’informatore, Non è
possibile e, quasi contemporaneamente, la gente
risponderà È normale. Così ci ordinavano di fare
gli ufficiali, dirà un ex soldato, di non perdere il
tempo inutilmente per portare il cadavere fino alla
639
postazione di comando, è sufficiente la testa, e
così noi consegnavamo solo la testa dei terroristi
morti.
Spegnerai il televisore e ti metterai a
disegnate cormorani. E ricorderai quella canzone
di Bluefields:
contry
Red, yuh surprise me
assin far a love poem.
Ah sing a song a love poem fa me
small contry, big lite…
E ci proverai anche in basco:
Amodio kanta bat ene aberriarentzat
Aberri txiki, argi handi...16
Poi andrai verso la zona del porto, come se
cercassi la chiave.
Maya ya-ya lost his key, Maya ya-ya-oh!
16
Una canzone d’amore per il mio paese / Una piccola patria,
una grande luce... [N.d.T.]
640
L’amico congelato
Maya-ya-ya, rub an go down, Maya ya-ya-oh! Give
the key for open the door...
Al molo ci sono molte imbarcazioni, c’è
anche una nave di lusso da crociera, con turisti a
bordo, accanto a tre o quattro pescherecci piccoli e
vecchi.
Sul molo incontrerai Axel e ti stringerà in un
abbraccio che non sai se è di addio o di arrivederci,
dicendo:
“Partiamo domani mattina alle sette.”
Poi arriverà Edna, dicendo Hai hani.
“Partite domani mattina alle sette, no?” le
chiederai.
“Posso rimanere a Ushuaia.”
E hai voglia di chiederle perché mai dovrebbe
fermarsi lì.
Dille che Ushuaia è un punto invisibile al
sud del mondo, che il sud è un luogo insignificante
della Terra, che la Terra non è altro che uno tra i
corpi celesti che il sole guarda e che il sole, come
la Terra, non è che una particella nella polvere di
stelle dell’universo.
“Perché?”
641
Allora girerà la testa e penserai che forse si
è messa a piangere.
“Non hai la minima intelligenza emozionale”
ti dirà.
Si alzerà la nebbia e gocce di pioggia
scivoleranno sulle sue guance come lacrime. Edna
si girerà e salirà sull’imbarcazione, l’Iceblink, e tu
rimarrai a riflettere sull’intelligenza emozionale. In
che organo del corpo si sviluppa questa capacità,
nel cervello, sulla lingua, nel cuore o più in basso.
E rimarrai ad aspettare, per sapere cosa ha
voluto dire Edna quando ha detto Potrei rimanere a
Ushuaia, se ha detto Me ne vado, oppure Resto qui
con te. Hai dei problemi di comunicazione, com’è
risultato chiaro quando hai detto Perché.
Farà buio e il vento sarà freddo, ed Edna
non scenderà da quel cigno bianco che è l’Iceblink.
Deciderai di andartene e, mentre vai dal porto al
paese, un enorme nulla si aprirà davanti a te come
delle fauci.
642
L’amico congelato
Entrerai nell’unica strada che attraversa il
paese e vedrai l’insegna blu al neon di un locale
che si chiama Ozono.
Il cameriere, dall’interno, ti dirà che è molto
tardi e che sta già mettendo le sedie sopra i tavoli.
“C’è birra?”
“Forse è rimasto qualche resto...” ti
risponderà in spagnolo.
“Certo che l’ambiente è proprio blu, eh?”
“È un’imitazione dell’ozono, sai com’è,
abbiamo pensato che potevamo ricreare qui una
falsa concentrazione di ozono, invece del buco che
c’è là sopra, a qualche migliaio di chilometri...”
“Cos’è l’ozono?” chiederai.
“L’allotropico dell’ossigeno.”
“E cos’è un allotropico?”
“Non so cosa significhi, lo uso per fare colpo
sugli amici... Ozono, l’ho cercato su un dizionario,
perché gli ultimi ubriachi chiedono sempre cos’è
l’ozono. Non ho ancora avuto tempo di cercare cosa
significa allotropico. Ed è meglio così, vedo un tipo
e, zas, penso, questo è un allotropico di Mafalda, o
643
quest’altro è l’allotropico di Robert Falcon, o quello
là è l’allotropico del pinguino...”
Leggerai un annuncio sulla parete Exotic
Cruise Vacations.
“Sei venuto in vacanza?” ti chiederà il
barista.
“Sì.”
“Sei stato in Antartide?”
“Sì.”
“E come ti è sembrata?”
Discover the awe-inspiring vistas and
remarkable wildlife of the White Continent on a
luxury cruise to the bottom of the world.
“L’allotropico di qualunque altro luogo” dirai.
“Possono dire quello che vogliono, ma i Poli
sono agli antipodi del paradiso.”
Così rimarrai per ore nel locale vuoto a
chiacchierare con l’annoiato barista, come due
ubriachi da romanzo che fabbricano storie.
“Per molto tempo, durante tutta la prima
metà del XX secolo, Ushuaia è stata una colonia
644
L’amico congelato
penitenziaria. Questo pendio era ancora bosco, gli
alberi sarebbero poi stati tagliati dai prigionieri fino
a lasciare la montagna completamente spoglia.
In seguito divenne una città normale, per la gloria
dell’Argentina, soprattutto da quando chiamarono
la via principale Calle San Martín, perché tutte le vie
principali dell’Argentina si chiamano San Martín...”
“Un’altra birra?” chiederai al barista.
“Però la storia di questo porto è più antica.
Charles Darwin passò da qui nel suo famoso viaggio.
Robert Fitz-Roy, il capitano della nave da guerra
Beagle, era venuto prima e, in quell’occasione,
aveva portato molti indigeni in Inghilterra. In un
altro viaggio del Beagle, portò con sé diversi
indigeni cresciuti ed educati nella cultura e nelle
abitudini inglesi, tra loro Jemmy Button che, ancora
bambino, era stato portato in Inghilterra e, avendo
imparato bene l’inglese, aveva quasi dimenticato lo
yaman. Appena toccata terra, gli indigeni si tolsero
i loro eleganti abiti inglesi, si strofinarono il corpo
con grasso di foca, indossarono pelli di guanaco e
vollero tornare subito alla vita della loro tribù. Per
lo stupore degli scienziati e dei militari del Beagle,
645
non vollero più ritornare in Inghilterra.
E ti mostrerà un libro, il viaggio di un
naturalista attraverso il mondo.
“E in questo libro appare la storia di questo
indigeno?”
No, questo libro prova che, due milioni di
anni fa, tutti eravamo antropoidi africani e che, 300
milioni di anni fa, eravamo anfibi, quando uscimmo
sulla terraferma sconosciuta come anatre bagnate
dalle acque...
“No” ti dirà senza aggiungere altro il barista.
All’epoca di Charles Darwin si pensava che
il mondo avesse 6.000 anni da quando Dio l’aveva
creato, perché tutte le generazioni successive ad
Adamo ed Eva erano registrate. Charles Darwin
allungò quel tempo a 300 mila anni. Attualmente si
prolunga la storia del mondo fino a 5.000 milioni di
anni.
Vedrai un telefono azzurro sulla parete, ti
avvicinerai e farai sette numeri e, stupidamente,
rimarrai ad aspettare la risposta. Una voce
automatica di donna ti dirà, in spagnolo e in inglese,
Il numero selezionato è inesistente, forse non è
646
L’amico congelato
stato composto correttamente.
Oppure, quando una voce di ragazza ti
risponderà Hello, hello, hello, rimarrai in silenzio
con lo stupore di aver potuto stabilire una
comunicazione.
Sai che non hai fatto il numero correttamente.
Inoltre non conosci i prefissi internazionali né quelli
regionali.
“Ti regalerò il libro” ti dirà poi il barista.
“Dimmi come ti chiami, così te lo dedico...”
“Ho perso il passaporto” gli dirai, come
se fosse uno scherzo, “adesso sto aspettando i
documenti, non ho voglia nemmeno di ricordare il
mio nome.”
“Capisco il problema” dirà il barista. “In
questo mondo, se non hai documenti, sei morto.”
E, dopo aver scritto la dedica sulla prima
pagina del libro, ti racconterà la barzelletta
dell’alcolista anonimo.
“Arriva un ubriaco dicendo: anch’io sono un
alcolista anonimo. Hai smesso di bere? E l’ubriaco:
No, no, bevo ma senza dire come mi chiamo...”
“Cos’è, un messaggio indiretto?” dirai al
647
cameriere.
“No, no, no” il barista inizierà a ridere.
“Probabilmente io bevo più di te...”
“Non c’è bisogno di dirlo!” risponderai.
“Ma è piuttosto tardi, non ti pare?”
Guarderai l’orologio e ti sembrerà molle.
“Gli orologi sono superflui...” dirai.
“La tua casa non sarà lontana.”
“Che casa?”
“La tua casa!”
“Io non ho una casa...”
“Non avere una casa in questa stagione...”
ti dirà il barista, “significa avere troppa fiducia nel
mondo.”
In quel momento, il rompighiaccio Iceblink
starà navigando verso le isole Falkland.
648
L’amico congelato
649
38
SE QUEI TEMPI FOSSERO DURATI PER
SEMPRE
Si vedeva un’enorme roccia in mezzo al
mare, completamente coperta di gabbiani. Era
palpabile la forza del vento e delle onde e sul retro
della cartolina si poteva leggere, in piccolo, Welsh
e Swansea.
Fui io a portare a Goio l’altra cartolina.
“Ieri, tornando da scuola, ho incontrato
Ariane, era venuta a cercarti e mi ha dato questa
per te...”
Goio rimase a guardare la cartolina e io
aggiunsi:
“Dicono che i guardia civil hanno perquisito
la sua casa stamattina presto...”
Ma questo lo sapeva già. E anche che
avevano arrestato Felipe.
“Credo che sia venuto un peschereccio del
650
L’amico congelato
Paese Basco francese a prenderla” mi disse. “L’ho
visto vicino alla spiaggia e credo che lei l’abbia
raggiunto a nuoto.”
Goio mi disse che aveva visto i vestiti di
Ariane sulla sabbia.
La cartolina era un fotogramma di un
film, Charly Chaplin e un bambino povero che si
affacciano preoccupati da dietro un muro all’angolo
di una strada. Noi sapevamo che, dopo essere
scappati da un poliziotto che li inseguiva, si
erano fermati lì pensando di essere in salvo. Ma,
nell’immagine, si vedeva quel poliziotto, proprio
dietro di loro, con le mani sui fianchi e i suoi grandi
baffi.
Goio lesse il testo della cartolina, quella
calligrafia piccola, arrotondata e un po’ inclinata:
Non volevo andarmene senza salutarti. Mi
piacciono le persone che sono capaci di amare e
perdonami se non ti ho corrisposto. Il tempo gira
come un mulino e non è detto che in futuro non ci
si incontri di nuovo.
651
Ariane
“La settimana prossima conoscerò mio
padre” mi disse Goio.
“E dove vive tuo padre?”
“In un paese che si chiama Swansea.”
“E dov’è?”
“Ho già il biglietto per il traghetto BilbaoSouthampton” mi disse.
“Swansea!” dissi io. “C’è una squadra di
calcio che si chiama così, e dovrai parlare in
inglese.”
“Non so cosa ci farò lì.”
Quell’anno non avremmo portato a casa voti
belli, né brutti. Non avremmo portato a casa nessuna
pagella. Avremmo lasciato da parte le Scienze
naturali e anche quelle artificiali, l’ombra della
solitudine si stese accanto a noi e, con la tristezza
che ci provocavano parole come concordanza,
credo, genitivo, rossogialla, equazione... il nostro
sapere si sarebbe inacidito.
652
L’amico congelato
Era finita e sarei dovuto tornare a Bilbao,
ma a Bilbao non avevo molte cose da fare, per lo
meno così dovevano pensarla i miei genitori, infatti
vennero a prendermi quindici giorni dopo. Meglio
così, perché temevo quel gesto che mio padre
avrebbe fatto per slacciare la cravatta, tenendo il
nodo con la mano e muovendo la testa come un
impiccato che vuole togliersi il cappio dal collo.
Siccome non andavamo a scuola, io e Goio
ci trovavamo al porto, con la nostra piacevole
ignoranza.
Una volta, quando arrivai, Goio si trovava
in compagnia di un sommozzatore e di un suo
amico. Il sommozzatore doveva cercare qualcosa
che si era perso nelle acque del porto. Indossò lo
scafandro, le pinne e quell’incredibile palla sulla
testa e, scendendo lentamente dalla scala del
molo, si immerse nel mare.
Rimanemmo a guardare l’acqua scura del
porto e lui rimase a lungo sott’acqua.
“Come sarebbe il paesaggio marino se
sparisse l’acqua?” chiesi.
“Simile a quello della terraferma!” disse
653
Goio. “Forse un po’ più strano.”
“È tutto buio e pieno di fango!” disse l’amico
del sommozzatore.
“Niente! Non ho trovato niente!” disse più
tardi il sommozzatore quando uscì dall’acqua e gli
tolsero quel marchingegno dalla testa.
“Niente! Niente!” diceva lamentandosi e
tossendo.
Allora rimanemmo tutti e tre a guardarlo.
Aveva gli occhi spalancati, mentre si toglieva
lo scafandro, come se non avesse capito bene:
“Come sarebbe il paesaggio del mare se
sparisse l’acqua?” chiesi di nuovo.
“Se non ci fosse l’acqua?” rispose ridendo.
“Ma guarda questo di Bilbao! Se non ci fosse
acqua, senti questa!” disse, ridendo a crepapelle.
E quando finalmente riuscì a liberarsi
completamente dello scafandro, stava ancora
ridendo. I pescatori erano molto impegnati e c’era
un gran via vai di barche nel porto. Le cucitrici di
reti erano al lavoro nella solita zona del molo, e
anche la madre di Goio si trovava lì.
“Ci vediamo, Senoncifosseacqua!” mi disse
654
L’amico congelato
il sommozzatore quando ce ne andammo.
Ci avviammo verso Kaioarri.
“Andiamo, ti farò vedere l’imbarcazione” mi
disse Goio.
Uno dei giorni successivi ci dedicammo
a calafatare la barca di Juan Bautista. Faceva
caldo, un caldo che allontanava anche gli uccelli.
Stava a testa in giù sul molo, portammo dei rovi e
accendemmo un fuoco per fare asciugare le assi
prima di raschiare lo scafo.
Goio portò una latta di pece calda e Juan
Bautista, seduto a gambe aperte sulla chiglia, iniziò
a riempire le crepe e i piccoli buchi, aiutandosi con
una spatola.
Goio segò un’asse su misura per fare un
banco nuovo, perché una delle panche della barca
era marcia.
“Vai a casa di Goio a scaldare questa latta!”
mi disse Juan Bautista quando la pece si indurì.
Bussai alla porta e mi aprì la madre di Goio.
“Sono venuto a scaldare questa...”
655
Lei la prese e andammo in cucina. Era
piuttosto buia. Mise la latta sul fuoco e rimasi ad
aspettare seduto su una sedia.
“Tu sei Andoni, vero?”
“Sì” le dissi.
C’era un mucchio di panni da stirare, erano
indumenti da pescatore. Mi resi conto che, oltre
a cucire le reti, lavava e stirava vestiti a casa per
guadagnare qualche soldo.
Quando la pece fu calda la rimescolò con un
pezzo di legno per verificare che fosse abbastanza
liquida. Afferrando la latta con un foglio ripiegato
me la diede:
“L’avete combinata proprio bella, mocciosi.”
L’ultimo giorno, Goio doveva trovarsi al molo
per le cinque del pomeriggio per imbarcarsi per
Portugalete, ma non voleva perdersi il tour di Francia
ed accese la radio. Stanno salendo il Mont Ventoux,
il traguardo è in vetta alla montagna. Quattro ciclisti
sono in fuga: Danguillaume, Guimard, Labourdette
e Polidori. A quaranta secondi c’è Heddy Merckx
656
L’amico congelato
con la sua maglia gialla. Heddy Merckx, veloce,
sicuro, recupera poco a poco fino a prendere il
comando della corsa e si lascia alle spalle gli altri
quattro. Qualche metro dietro a Heddy Merckx,
Poulidor e Van Impe si danno il cambio.
Arrivò Andres e si sedette vicino a lui per
ascoltare la radio.
“Come va la corsa?”
“Heddy Merckx è in testa!” gli rispose Goio.
“E Gabika?”
“Non si vede.”
“E Gandarias?”
“Nessuna traccia nemmeno di Gandarias.”
“Hai preparato tutto?” gli chiese sua madre
dalla camera.
Zoetemelk e Peterson si sono avvicinati ai
primi due, Agostinho tutto solo ha raggiunto Heddy
Merckx ma, alla fine, non riesce a mantenere il suo
ritmo. Heddy Merckx pedala da solo percorrendo
gli ultimi metri della salita, sempre più stanco, per
un attimo sembra che non riesca a raggiungere
il traguardo, ma non si arrende e, superando se
stesso, lo taglia per primo.
657
Stavo aspettando sul molo, sapevo qual
era la nave che Goio avrebbe preso per andare a
Portugalete e, poco dopo l’ora prevista, arrivarono
tutti e tre.
“Aspetta un attimo” disse Goio e, dando la
valigia a sua madre, corse lungo il molo fino alla
gru del cantiere navale.
Trovò il pezzo di carta nella stessa fessura
dove l’aveva lasciato tempo prima e ritornò.
Abbracciò sua madre, Andres e anche me
e salì sulla nave che andava a Portugalete, che
aveva già i motori al massimo come dimostravano
i ruggiti che provenivano dal suo ventre di acciaio.
Il sole cadeva dietro Harriandi come se
avesse intenzione di annegare in mare.
Goio ci salutò dalla ringhiera della banda
destra della nave.
Gli saremo sembrati come i mostri di
Goienkale, fermi lì, impietriti, sul molo. E pareva
che tutto ciò stesse succedendo ad altri, in un
altro mondo sconosciuto e sfuggente. Tuttavia noi
658
L’amico congelato
eravamo i testimoni di quel chiarore freddo, di un
vuoto stupefacente.
Così doveva vederci Goio quando iniziammo
a camminare dalla nave verso la punta del molo.
In un’altra imbarcazione stavano levando l’ancora
sulla quale erano ben visibili le patelle e le alghe
attaccate alla grossa catena e altri piccoli animali
acquatici che, sentendosi sollevati in aria, si
lanciavano all’acqua.
All’entrata del porto onde cieche rompevano
contro la barriera, vidi le lacrime della madre del
mio amico come frammenti di cristallo confondersi
con gli schizzi delle onde.
Stava per cadere la notte sui vecchi tetti del
paese, presto si sarebbero levati in volo i pipistrelli.
Il silenzio ruggiva, la paura si impossessava di
tutto. Quando la nave si allontanò, i gabbiani posati
sulle boe si alzarono in volo.
Solo allora Goio spiegò e lesse il pezzo di
carta che aveva trovato nella borsa delle armi e
che aveva tenuto nascosto così a lungo tra i ferri
della gru:
659
In questi giorni hanno arrestato alcuni
compagni e temo che la Guardia Civil sappia
qualcosa, anche se non so esattamente cosa.
Credo che la cosa migliore sia, in ogni caso, che
ve ne andiate immediatamente.
L’amico.
Poi guardò la cartolina, il messaggio d’addio
di Ariane, la stessa calligrafia arrotondata, piccola,
inclinata in avanti, forse scritta con la stessa penna,
formiche sulla carta, una scrittura peculiare data da
quella penna che aveva sempre con sé:
Non volevo andarmene senza salutarti. Mi
piacciono le persone che sono capaci di amare e
perdonami se non ti ho corrisposto. Il tempo gira
come un mulino e non è detto che in futuro non ci
si incontri di nuovo..
Il poliziotto, con le mani sui fianchi, era alle
loro spalle, ma Charlot e il bambino guardavano
impauriti davanti a loro, senza sapere chi c’era
660
L’amico congelato
alle loro spalle e, nei loro occhi, come negli occhi
di tanta gente, si potevano leggere la tristezza, la
solitudine, l’impotenza. Non capivano la ragione di
quello che stavano vivendo. O forse la capivano e
questo gli provocava un intenso dolore.
Lasciò Kaioarri a dritta, con i gabbiani e
l’imbarcazione. Guardò di nuovo indietro, verso
Kalaportu. L’osteria di Felipe sul molo, chiusa.
Si era lasciato a dritta lo scheletro metallico del
cantiere navale e un cagnolino peloso sulla prua di
una barca. Ormai fuori dal porto, il braccio esterno.
Goio andò a poppa, in fondo si dissipava il
solco bianco dell’acqua schiumosa come se fosse
la veste funebre della schiuma del passato. Con
l’ufficio dei carabinieri apparve anche Barrenkale,
nello stesso istante in cui scompariva la sua casa.
Poi sparì la fabbrica di ghiaccio, e poi il quartiere
di Kaiondo. Le cose iniziarono ad allontanarsi e
a sparire e gli tornò alla mente un dettato, Rien
n´est jamais fini, tout commence quand la plupart
pensent que c´est fini, e sugli scogli di Harriandi
c’erano dei bambini che facevano pipì nell’acqua
dall’alto delle rocce.
661
Vedeva i mostri di Goienkale, era sparita
l’osteria del porto. Si riconosceva la scuola. In
vista di Harrizorrotz virarono un po’ a babordo,
il verdeazzurro si faceva scuro e la notte si
impossessava dei colori della materia, mentre a
terra si accendevano, sempre più lontane, alcune
lampadine. E anche la Erribera, e il cantiere
navale, e la Petit Maison, e la scuola e le case
nuove di Zubieta scomparvero dietro lo scoglio
di quei bambini piscioni e restò alla vista solo
Kaioarri, l’imbarcazione arrugginita e i gabbiani che
volteggiavano sopra di essa, e adesso sì, si lasciò
alle spalle Kalaportu e a dritta osservò l’oscurità in
alto mare.
I
gabbiani
accompagnavano
Goio
volteggiando grae grae grae sopra di lui.
Il suo paese, in un angolo del mare grande
e buio, nel grembo di enormi scogli che mostrano
il petto a un mare sempre aggressivo, al bordo di
onde continue, non era altro che un momento di
luce intermittente, che si nascondeva là dietro, dove
le onde piegandosi di sdraiano sulla superficie del
mondo ormai lontana.
662
L’amico congelato
E, mentre Goio guardava la terra, io
osservavo il mare, con la mia paura, le mie
preoccupazioni, il mio viso da stupido. Lo sto ancora
guardando e vedo quella triste nave nascondersi,
anche se continua a navigare nel paesaggio dei
miei ricordi.
Nonostante tutto, non dirò che quei tempi
sarebbero dovuti durare per sempre. Lì rimarranno
le cose, lontane, nel passato, al loro posto, nei
paesaggi deserti dell’oblio.
Su quella riva del mare abbiamo vissuto
questo, quello e quell’altro. In quel paesino isolato
siamo cresciuti molto o poco, di colpo o lentamente,
bene o male, e a volte abbiamo creduto che il
futuro sarebbe stato come il nostro passato, senza
sospettare minimamente che, con il passare del
tempo, ci saremmo trovati così lontani e così fuori
dal tempo come lo siamo adesso.
Ma con questo non voglio dire che quei
tempi sarebbero dovuti durare per sempre.
663
39
L’AMICO CONGELATO
La realtà si imporrà inesorabilmente con
il suo vento, i suoi fulmini, tuoni e inondazioni.
Questo è quanto.
Arantxa e Imanol arrivano correndo in
camera mia.
“Vieni, non preoccuparti, ma fai alla svelta!”
dice Imanol.
“Poliziotti spagnoli” dice Arantxa nervosa,
“ci hanno avvisati che vi stanno cercando.”
“Chi ve l’ha detto?”
“Mio marito” dice Arantxa.
“Ma cosa ha detto esattamente?”
“Che i loro amici spagnoli vi hanno localizzato
e che hanno chiesto la loro collaborazione per farvi
sparire.”
“Allora dobbiamo andarcene subito” dico io.
Il passato e il futuro si confondono in questo
664
L’amico congelato
presente incontrollabile e inarrestabile, in questo
presente inquietante.
“Immediatamente” dice Arantxa.
“Arantxa, vai a prendere Goio!” dice Imanol
mentre guarda fuori dalla finestra. “Salteremo da
qua.”
Infilo in una borsa tutto quello che ho a
portata di mano mentre Imanol lega due lenzuola
fra di loro.
“Non credo che si rompa” dice stringendo il
nodo.
Mentre Imanol lega un estremo del lenzuolo
alla gamba del letto, si sentono passi veloci
provenire dalla Galleria dei Passi Smarriti.
Arantxa torna con Goio.
Abbiamo lasciato cadere dalla finestra le
due lenzuola legate, come una corda; per primo
scende Imanol, poi Goio e alla fine io.
Quando raggiungo Imanol, lui sta guardando
in alto e ride.
“Cosa succede?” chiedo.
“È l’immagine di un fumetto, non vedi?” dice
Imanol già ebbro. “Una corda fatta con le lenzuola e
665
attaccata alla finestra del carcere. Credo di essere
diventato il personaggio di un fumetto, ah, ah, ah...”
Arantxa è rimasta su, nervosa, e ci saluta,
facendo la lettera b dell’alfabeto muto.
Abbiamo saltato il muro, attraversato il bosco
e alla fine siamo sbucati in una discarica, si vedono
rifiuti di ogni tipo e anche qualche punto fumante.
Bottiglie vuote, cartoni, lattine, plastica incenerita,
pelli rinsecchite di gatti e topi, montagne e pianure
di rifiuti, quasi un universo di immondizia, e noi
corriamo con l’abilità che è solo degli ubriachi e dei
fuggitivi, attraverso questo paesaggio che sembra
seguire all’annichilimento atomico.
Poi di nuovo il bosco, rovi e acacie.
Siamo arrivati in città stanchi e infangati.
“Sono morto di paura, ma la paura non ci
sottometterà” dice Imanol barcollando, con la sua
ironia da ubriaco.
Andiamo a un appartamento situato in alto,
su per le scale.
“Questa è la mia tana segreta!” dice, mente
infila la chiave nella serratura. “Finora ho portato
qui solo personaggi con nome di donna.”
666
L’amico congelato
Una volta dentro, inizia a ridere allegramente.
Dopo il batticuore, un respiro:
“Con questa azione epica a favore della
patria credo di aver pagato per sempre il debito
che avevo con mio padre...”
Ci mostra l’appartamento e, in camera da
letto, inizia a parlare delle sue amanti:
“Se Celia è in casa, quando ti svegli te la
trovi sempre accanto, addormentata con i capelli
che le coprono il viso e ti abbraccia nel suo lungo
sonno. Invece Lourdes non c’è sempre: appena
la tocchi sparisce e ti lascia lì con il desiderio, e
resti solo, pensando che non la vedrai per due o tre
secoli..,”
E indicando la bandiera basca alla parete
inizia a ridere:
“Il vecchio straccio del nostro popolo.”
“C’è acqua per fare la doccia?” gli chiedo.
“Certo che c’è! Qui ci sono anche dei
vestiti” dice Imanol aprendo la porta dell’armadio.
“Mettetevi quello che volete!”
667
Mi sono fatta la doccia, lavata i capelli e
pettinata con cura. Indosso un’ampia maglietta
bianca e, guardandomi allo specchio, ripasso
gli angoli degli occhi con una matita nera. Infilo i
pantaloni e mi guardo di nuovo allo specchio. Le
labbra rosse e gli occhi spaventati da una strana
inquietudine. In bagno ci sono dei profumi, essenze,
essenza di eliotropo, La nuit bleue.
Mi porto le mani alla vita e mi guardo di
profilo, chiedendomi stupidamente se posso
piacere a qualcuno, per esempio, se posso essere
il tipo di Goio. Giro la testa da una parte e i capelli mi
coprono mezzo viso, sorrido e percorro la silhouette
del mio corpo dall’alto in basso, controllandone le
forme.
“Ceneremo qualcosa, adeguato all’urgenza
della situazione” dice Imanol, mostrandomi il riso
bianco che ha preparato mentre mi facevo la
doccia.
Il Rosso è sotto la doccia, Imanol ha riempito
il suo bicchiere di gin e si ricorda di nuovo di suo
padre. Mi mostra una cartina dell’Europa che c’è in
sala, facendo con l’indice la lettera d dell’alfabeto
668
L’amico congelato
muto.
“È piccolo il nostro Paese, no?”
“Come i profumi di qualità” aggiunge e
mi rendo conto che ha sentito il mio profumo di
eliotropo. “E come i migliori veleni.”
Si avvicina barcollando alla parete, dicendo:
“La sorpresa più grande della mia vita è stata
rendermi conto, da piccolo, che quella Euzkadi che
per mio padre era così grande si poteva coprire con
un’unghia...”
E Imanol appoggia la punta del dito sulla
cartina e copre il Paese Basco.
All’improvviso le luci si spengono e il buio
ricopre tutto come si coprono i mobili con le
lenzuola.
“Ma papà, il nostro paese si può coprire
con un’unghia,” continua Imanol, “così dissi a
mio padre. Anche le cose piccole hanno un gran
valore, mi rispose lui. Ma quello che mi rimase in
mente fu che il Paese Basco si poteva coprire con
un’unghia.”
“Dovremo cenare al buio o aspettare che
torni la luce” dico, mentre accendo un fiammifero
669
per poter vedere l’uovo che sto friggendo.
“Accenderemo delle candele” dice Imanol.
Il Rosso, finita la doccia, ci raggiunge al buio.
Accendiamo due candele e la luce delle fiamme
comincia a volare sulla tavola, rischiarando il riso
bianco e mostrando le uova fritte.
“Sui giornali e in televisione non c’erano
notizie del nostro piccolo Paese. E, quando
c’erano, bisognava immaginarsi il fantasma della
nostra geografia nelle notizie degli assassinati nel
nord della Spagna o nel Sudovest della Francia...
A Imanol l’idea viene quando sta per iniziare
a mangiare il riso con le uova:
“Volete che vi rappresenti una conversazione
fra me e mio padre?”
Così porta un’altra sedia che sistema vicino
alla sua. Alla luce delle candele, le grandi ombre
formatesi sulla parete stanno tremando.
“Hai un’idea sbagliata della patria, padre”
dice Imanol guardando la sedia vuota.
Poi cambia sedia e, seduto a sinistra, dice,
facendo la voce grossa:
“Cosa ne sai tu della patria!”
670
L’amico congelato
“In ogni caso” di nuovo sulla sedia di destra,
“so che non bisogna confondere la patria con la
distanza.”
“La distanza? Che distanza?”
“Tu vivi in un Paese Basco che si trova
lontano da questa Colombia, e il Paese Basco
nel quale tu vivi è quello di cinquant’anni fa” dice
Imanol interpretando se stesso. “Franco è morto
nel suo letto, i franchisti continuano ai loro posti,
signori e padroni della Spagna e tu stai sempre a
guardare al passato, sperando che i fucilati della
guerra civile si rialzino uno ad uno. In mezzo secolo
non hai imparato niente.”
“Io sono ancora disposto a versare il mio
sangue.”
“Questa è la cosa peggiore!” continua Imanol
con il suo melodramma. “Che sei disposto a morire
per la patria, ma non ti avvicini al paese reale e
non sei disposto a vivere tutti i giorni per essa. La
patria è la gente che saluti tutte le mattine quando
esci di casa, non quel ritaglio che hai in testa, con
quell’assurdo racconto epico di dare la propria vita
per la patria.”
671
Imanol si è seduto sulla sedia a sinistra:
“Quello che dici mi ferisce, figliolo,
maledizione!” e la voce di Imanol adesso è grossa
e arrabbiata.
“Lo so, padre.”
Imanol resta seduto solo un attimo sulla
sedia del figlio. Adesso continua su quella del
padre, come una patetica marionetta:
“Cosa ne volete sapere voi, maledetti
mocciosi! Siete nati qui, in un’altra epoca, io ho
dedicato la mia vita a crescervi sani ed educarvi
secondo le tradizioni basche. Quando eri piccolo,
tutti dicevano che mi assomigliavi molto e non ho
mai dubitato che avresti portato avanti i miei ideali.
Poi ho capito che non era così, che il sangue non
basta e che la comunicazione tra di noi diminuiva e
si perdeva...”
Sembra che dia per conclusa la messa in
scena. Imanol ha iniziato a bere gin, mentre il suo
riso e le uova fritte sono ancora nel piatto alla luce
della candela.
Una luce sempre più debole e tremolante
accentua il triste ambiente da the end.
672
L’amico congelato
“Mio padre non tornò mai a Orozko. Parlava
sempre del suo paese, ma non ebbe mai il coraggio
di tornarci. In fondo aveva paura, perché sapeva
che l’Orozko della sua gioventù e dei suoi sogni
non esisteva più. Se fosse tornato nel Paese Basco,
avrebbe trovato le grandi montagne distrutte, i fiumi
puliti inquinati, le strade deviate, qualcosa di molto
diverso dalla patria dei suoi ricordi. E si sarebbe
sentito più lontano che mai dal Paese Basco.
Aveva una paura inconscia di trovarsi fisicamente
e metafisicamente fuori luogo in questo ritorno
archeologico.”
Immagino Jose Urioste, come un albero
sradicato, trapiantato in un altro luogo e caduto
nel fondo della Storia. Anche noi siamo così, come
un tronco tagliato alla radice e abbandonato sulla
cunetta al bordo della strada, che guarda il mondo
da fuori.
“La patria è una mancanza” dice Imanol,
“e a Orozko questa mancanza sarebbe stata più
evidente che in qualunque altro luogo. Il tempo
non era passato invano. Così rimase nel casolare
con la palma, né qui né là, senza venire del tutto
673
qui e senza mai andarsene veramente là, finché
il tempo non ha dato al padrone della casa la
stanza più stretta: due metri di lunghezza per uno
di larghezza e mezzo metro di profondità, la tomba
dove l’abbiamo sepolto, con la bandiera basca e
un pugno di smeraldi.”
Imanol si porta una marlboro alle labbra e,
guardando la sigaretta, mi vengono in mente cavalli
e cappelli da cowboy:
“Dopo la morte di nostro padre, nell’armadio
della sua camera trovammo una scatola piena
di lettere che non erano mai state aperte, tutte
provenienti dal Paese Basco. Nostro padre, negli
ultimi quarant’anni, non aveva letto nessuna delle
lettere che gli avevano scritto dal Paese Basco.”
Gli occhi mezzo baschi mezzo colombiani
e completamente ubriachi di Imanol, iniziano
improvvisamente a piangere:
“Abbiamo assistito all’autopsia e, vi faccio
una domanda, avete mai visto vostro padre
dentro?”
Al sentire la domanda di Imanol, Avete mai
visto vostro padre dentro? mi ricordo delle parole
674
L’amico congelato
di Arantxa, che Imanol aveva pianto davanti al
cadavere del padre, e credo di capirne il significato.
“Adesso” dice Imanol, portandosi il bicchiere
alla bocca e facendo con l’altra mano la lettera a
dell’alfabeto muto, “vi farò una proposta, rivolta
a tutti i baschi, con la parolaccia che usava mio
padre, dopo aver detto che in basco non c’erano
parolacce: porcadiquellaputtana!”
È in piedi, le candele sono quasi consumate
e la sua ombra, molto bbk, è un fantasma grande,
impazzito e tremolate sulla parete.
“Voglio proporre il ritorno nel Paese Basco,
porcadiquellaputtana! Con gli emigrati e gli esiliati
degli ultimi duecento anni si possono fare sette
nazioni e dovremmo tornare, e se non possiamo
costruire sette nazioni, vediamo se siamo capaci di
organizzarne almeno una...”
Imanol mi saluta, i suoi occhi sono due
pozzi.
“Questa è la chiave” e me la consegna. “Io
non tornerò prima di quindici giorni ma comunque
ne ho una copia...”
Si sentono rumori di passi insicuri nella
675
totale oscurità, giù per le scale, “quando ve ne
andate, buttate via la chiave.”
“E adesso, cosa facciamo?” dico, quando io
e il Rosso rimaniamo soli.
“Cosa intendi dire?”
“Niente.”
“E perché me l’hai chiesto?”
“Non era una domanda, era un pensiero, e
adesso cosa facciamo, una domanda senza punto
interrogativo, mi è venuta ad alta voce...”
Le due candele sul tavolo sono ormai
consumate e, nell’oscurità, c’è un ambiente
notturno, quell’atmosfera da sogno che crea
l’insonnia.
“Dobbiamo scappare, vero?” dice il Rosso.
E non solo scappare. Dobbiamo cancellare
ogni traccia. Dalle sedie, dai cucchiai, dai manubri
delle biciclette, dai letti, dalle lettere, dalle strade,
dalle scarpe.
“Dove?” dico. “Lo so che dobbiamo sparire.”
“In Irlanda, in Brasile, o in Mozambico” dice
676
L’amico congelato
il Rosso scherzando.
“Andresti in Mozambico?”
“Sì, il Mozambico è un bel posto, perché è
lontano.”
“Lontano
da
dove?”
desiderando
accarezzare i capelli del Rosso che è a un metro
da me.
“Lontano da qualsiasi luogo” dice.
“Non vuoi tornare a Bluefields?”
“Non si può tornare indietro nel tempo, no?”
dice il Rosso.
“Dove vorresti andare?”
“In un posto dove potessimo starci tutti e
due.”
“Adesso abbiamo un solo biglietto aereo
e io devo andare in un altro posto. Andoni mi ha
proposto una strana avventura per te. Hanno
bisogno di una persona come te per andare
dall’Ecuador all’Antartide.”
“All’Antartide? Ma se lì si congela anche il
fuoco!”
“Adesso che parli del fuoco... dobbiamo
bruciare le carte.”
677
Raccogliamo tutti i fogli che abbiamo nelle
borse, i vecchi giornali e le lettere, e iniziamo a
bruciarli nella tazza del water.
Seduta per terra, alla luce del fuoco di un
giornale, vedo la lettera di Josu:
Viviamo divisi tra realtà e memoria. La realtà
con il suo stile, il suo pragmatismo, la viviamo
adesso in modo immediato. La memoria, invece, è
piena di modi segreti di vivere, di ricordi e di rumori
interni, quel che può essere o quello che potrebbe
essere o sarebbe potuto essere, colma di desideri
e di dolori. E viviamo sempre in dubbio tra la realtà
e la memoria, con il bisogno di fermare quello che
ci spinge a scappare in qualunque posto, e con
un’impellente necessità di fuggire che ci porta a
rimanere fermi nel luogo dove ci troviamo.
Perché siamo i frammenti dispersi di un
popolo che sta costruendo la propria preistoria
nazionale, noi e i nostri fantasmi. Sempre
resistendo per sopravvivere, moltiplicando amori e
morte. Sapendo che, anche senza di noi, il mondo
sarebbe pieno di gente.
678
L’amico congelato
La lettera di Josu, una volta aperta, è lunga.
Ci si potrebbero fare tre o quattro colombe di carta.
Perché la vita abbia un senso, bisognerebbe
commettere dei crimini inconfessabili.
Ma l’immaginazione non è irreale. Nemmeno
la realtà è reale. Sono l’immaginazione e la memoria
a dare senso alla realtà.
Rispetto al libro, non ci sarà bisogno
nemmeno di leggerlo. Perché leggere un romanzo
congelato sarebbe come mangiare ghiaccio,
mangerai ma non ti sazierai.
Quando mi rendo conto che anche Goio sta
bruciando dei fogli, ormai tutta la lettera di Andoni
è praticamente cenere. Si può leggere solo l’ultima
parte dell’ultimo foglio:
“Non troverai in questo fiume un cranio più
economico” ha ripetuto il venditore.
E me ne sono andato giù lungo il fiume, nella
barca a motore, ricordando la canzone di Tatanka
679
Yotanka:
Se hai perso qualcosa
torna indietro e, se lo cerchi con
attenzione,
lo troverai.
Non so se i nantu, El Dorado, la foresta,
El Porvenir, lo stesso fiume, la mia barca sono
reali. Non so se sono pezzi di una realtà che si sta
perdendo per mancanza di nomi o di riferimenti
o, al contrario, sono le parti della realtà che si sta
materializzando e rafforzando dal nulla con parole
e con nomi.
Però parlare della realtà oggigiorno è fare
filosofia, così come è filosofia nominare l’amore
romantico o proporre una società migliore.
Ma dobbiamo fare un po’ di filosofia, anche
se solo per iscritto, vediamo se anche questo ci
dà un po’ di fuoco, un po’ di senso. Tuttavia non
sappiamo ancora se il mondo, dopo questo, sarà
la casa di tutti o il luogo dell’esilio collettivo.
Ho dato fuoco anche all’ultimo foglio. Tutto
680
L’amico congelato
confluisce nel fuoco. Le notizie, la pubblicità, le
fotografie, i messaggi, le opinioni e i ricordi, il fuoco
li ha distrutti uno a uno, la carta si è accartocciata,
stropicciata, annerita fino a diventare cenere. Poi
l’acqua se li porta via.
Siamo tornati in sala con una sensazione di
stanchezza e ci siamo seduti uno vicino all’altro.
Una candela si è spenta e dell’altra ne resta solo
un moccolo che crea una penombra.
“Non ho letto la lettera di Josu”, mento.
“È quello che succede alle coppie. Sai com’è.
Un corpo inizia ad allontanarsi dall’altro, prima si
allontanano le carezze, poi i sorrisi e poi i gesti. A
quel punto ormai i due corpi sono separati...”
Ho voluto accarezzargli i capelli e lui,
girando un po’ la testa, mi ha preso il dito indice
tra i denti. Ho sentito le sue labbra morbide, la sua
lingua umida, e la dolcezza tra i denti.
“Ma condividono il letto” dico aprendo la
mano in aria, “condividono il bagno, la cucina, in fin
dei conti le abitudini del vivere assieme. Alla fine
è più comodo. Tra l’altro non bisogna cambiare le
lenzuola tutti i giorni, come all’inizio.”
681
Mi tira per la mano e mi fa stendere a terra
e vorrei vedere i suoi occhi, li tiene socchiusi ma,
quando li apre, non vedo tristezza e sono appesa
al suo collo, e me ne vergogno, di essere appesa
al collo di qualcuno, ma ormai siamo sotto il tavolo
della sala.
“Alcune coppie sanno parlare” dico e ho
paura, “vogliono capire questo allontanamento, ma
la maggioranza non ha bisogno di capire...”
Mi toglie le scarpe e io gli slaccio i bottoni
dei pantaloni di due in due, prendo il suo pene già
bagnato in mano, e lo metto in bocca, è salato, lui
mi spoglia.
Nel girarci resto sotto e all’improvviso sento
il suo sesso entrare dentro di me. Sollevo i fianchi,
appoggiandomi sui talloni, per resistere alle spinte
e in tutto il corpo avverto il tremore che mi produce
il movimento del suo.
Con una mano afferro i capelli rossi di Goio
e li pettino, con l’altra ho afferrato qualcos’altro e
un dolce tremore si impossessa di me, con delle
convulsioni cloniche e toniche simili all’epilessia.
La mia mente resta completamente in bianco
682
L’amico congelato
e, quando tiro con una mano, sento la sua testa
sul mio petto, e che quello che afferro con l’altra
mano è la tovaglia e, tirando, cadono sopra di noi
alcune foto polaroid, il vaso di fiori, il gufo di gesso,
il barattolo di Nescafé, la chiave di casa e diverse
altre cose, una rovinosa caduta accompagnata dal
fragore di oggetti che si rompono.
Così rimaniamo sdraiati, ho una testa rossa
sul petto, come se io fossi una baia. Ho la mano del
Rosso su un fianco come se fosse un’ancora, non
c’è bisogno della parola futuro e non ci preoccupa
l’instancabile orbita ellittica e quasi perfetta che
percorrono i pianeti, i meteoriti e gli altri asteroidi.
Mi sveglio all’alba, siamo vicini e nudi in
mezzo alla confusione delle cose cadute a terra,
come un soldato che si sveglia dal sonno senza
ferite ma ancora sul campo di battaglia. Il mio
amico russa ancora. Perché svegliarlo se non
abbiamo niente. Né casa, né paese, né soldi,
né vestiti. Senza niente e nudi, ci troviamo nella
precisa condizione a cui può arrivare la penuria,
683
circondati dai cocci di un vaso di fiori, foto polaroid,
resti di caffè.
Ieri abbiamo bruciato i giornali e le lettere
e siamo in un quartiere che non conosciamo.
Adesso sì, abbiamo toccato il fondo. Ripasso la
catena degli eventi e arrivo fino all’anno 1975. È
un sera d’inverno a Zornotza, ho sedici anni, sono
innamorata e siamo passati davanti alla caserma
della Guardia Civil:
“Guarda bene tutto questo” dice il ragazzo
e io lo ascolto a bocca aperta. “Tutto questo è
archeologia, presto qui non ci saranno bandiere
spagnole, né guardia civil, né oligarchi...”
Nella catena degli eventi, siamo nell’anno
1985, nel bar Hendayais guardiamo la televisione
spagnola e il mio ex compagno appare in abito
elegante per fare dichiarazioni a favore della
costituzione spagnola.
“Ci saranno sempre dei settori radicali” dice
in spagnolo, “ma bisogna fare le cose come se non
esistessero...”
La catena dei ricordi mi porta fino a Parigi,
a Praga, a Managua. E ancora più indietro: siamo
684
L’amico congelato
bambini che scuotono il noce con un lungo bastone
e raccolgono le noci cadute a terra.
Pare che succeda così anche a chi sta per
morire: sullo schermo della memoria passano
velocemente le immagini di mille situazioni di
vita, il movimento brownoideo dei ricordi, là, qui,
dritto, girando all’improvviso, indietro, su, pausa, di
nuovo giù, girando, come le mosche. Però, con le
scene del passato arrivo al presente e, invece di
fermarmici, cerco di immaginare il futuro e la catena
dei miei pensieri va avanti e la lanterna magica
proietta situazioni che non ho ancora vissuto.
Sono a Managua, di nuovo con Josu. Sto
cuocendo del riso, un sottile filo di vapore sale dalla
pentola verso l’alto, e la voce di Josu dietro:
“Fra poco, se non chiudo gli occhi, non ti
vedrò più, se non mi tappo le orecchie non ti sentirò,
non mi sentirò al tuo fianco se non mi sommergerò
nelle acque torbide della memoria.”
Il vapore che esce dalla pentola, fumo, si
trasforma poco a poco in un drago.
E sono su una nave mercantile, si chiama
Southern Star, vedo le scogliere della terraferma,
685
sempre a dritta. Chiuderò gli occhi per non vedere
la bruma e le nebbie dell’orizzonte del futuro.
Dalla prua sento giungere le imprecazioni di un
passeggero ubriaco:
“La vita è una veliero pieno di merda, spinta
dal vento delle scoregge di un mare di piscia!”
“Mondiale!” gli rispondo, guardandomi
attorno e muovendo il mento.
“Come stai?” mi chiede il Rosso quando si
sveglia.
E alla tenue luce dell’alba che entra nella
stanza, osservo il paesaggio da dopoguerra e
iniziamo a ridere, e a baciarci.
“Una guerra mondiale, sì” dice il Rosso.
Mi alzo e, dalla finestra, vedo altri edifici, la
maggior parte non terminati, e anche le gru che
hanno già iniziato a trasportare materiale.
In cucina preparo del caffè per la colazione
e ritorno alla finestra, per ricordare il paesaggio
e la gente lontana, per rendermi conto che non è
possibile prevedere il futuro, mentre guardo dalla
686
L’amico congelato
finestra e faccio colazione in piedi con caffè e
biscotti. Le gru e le scavatrici hanno iniziato la loro
attività molto presto, tra la nebbiolina, come animali
preistorici.
Sistemiamo i piccoli disastri provocati
dall’amore, cancelliamo le tracce del nostro
passaggio, ci vestiamo, Goio con gli abiti di Imanol
e io con quelli delle sue amanti, e usciamo per
strada. Buttiamo in un cestino la chiave di casa,
come ci ha detto di fare Imanol.
“La casa rimarrà senza chiave” mi dice il
Rosso.
“No, la chiave rimarrà senza casa...” dico io
scherzando. “Non abbiamo niente, vero?”
Bisogna controllare tutto, qualcosa che
potrebbe metterci in pericolo, che ci tradisca,
dobbiamo essere sicuri soprattutto di non avere
con noi niente scritto in basco.
“Dov’è rimasto il romanzo che ti ho dato
l’altro giorno?” gli chiedo.
“Ieri è rimasto là.”
Lo prenderà Arantxa, o forse lo troverà
Imanol e lo lascerà sullo scaffale dei libri che non
687
si leggono. E quel testo rimarrà nell’ospedale come
un’anonima conseguenza della schizoafasia.
Forse, in un lontano futuro, quando i
paleografi indagheranno su Rioquemado, lo
troveranno, tra abbondanti segni grafici e fossili
dell’antichità, e non riusciranno a identificare la
lingua basca di quel testo, né che il basco fosse
uno dei disturbi del linguaggio del passato.
Che effetto farà questo idioletto a una
persona normale? Per esempio:
Gazuk jta grtarak ze dra erandik, zeku tae
zeitz pe irizakatu dtu. jrialderk ialdie jaanga dra
garpozten, zegfn, azen. Geteka madukaak bldain
birad, itadzita grakaut dra, bela plate abt egnda
zamaant jaanga irda pepraak...
I paleografi, e qualunque lettore sano di
mente, dichiareranno che si tratta di un testo antico,
remoto, scritto in una lingua sconosciuta.
“Hai avuto tempo di leggerlo?”
“L’ho letto subito.”
“E allora?”
688
L’amico congelato
“Non so se ho perso l’innocenza, ma ho
trovato alcune onde...”
“Che onde?”
“Non hai mai tirato un sasso piatto nell’acqua
in modo che salti? Si lancia e fa ft,,, ft,,ft, .. plof...
Gli dico di sì.
“Ft,,, ft,, ft, plof.” dice di nuovo il Rosso.
“Conosco il suono che fa una pietra appiattita
quando salta sull’acqua!” dico, sospettando che
Goio mi stia prendendo in giro ogni volta che ripete
ft,,, ft,, ft, plof.
“E sai che a ogni salto si formano dei circoli
di onde nell’acqua...”
“Certo che lo so,” gli dico “e anche una
grossa pietra buttata in acqua forma dei circoli di
onde!”
“Mi sono buttato in acqua” dice il Rosso,”e
ho preso qualche circolo...”
In questa città tutti vanno di fretta, operai,
negozianti, senatori, studenti, venditori di giornali,
disoccupati. Ognuno con la propria vita, ognuno
689
chiuso dentro la propria parentesi, ognuno
con qualcosa di segreto, con il proprio volume
sommerso. Perché rispondere a chi ti ha chiesto
che ore sono, perché aiutare un signore anziano
che è caduto a rialzarsi, perché spiegare a qualcuno
come si arriva alla stazione, può essere una frode,
una trappola. Beva Coca Cola.
Fra mezz’ora ognuno di noi andrà per la
sua strada. Il Rosso prenderà un aereo per Quito
e poi chissà dove andrà e io tornerò in nave e poi
in autobus al rifugio di Armando e poi chissà dove
andrò. Per ora siamo ancora assieme, ma la vita
ha imbastito i fili del destino in modo che proprio
oggi ci separi e ci invii in direzioni diverse.
Il tempo è passato velocemente. Un’ora
impossibile come le tredici del mattino è arrivata
subito in tutti gli orologi. Il tempo passa sempre e
si può presumere, essendo ostinatamente ottimisti,
che così sarà ancora per un periodo.
Arriva un’ambulanza lentamente, ed è triste,
con il nome al contrario:
690
L’amico congelato
La sirena è spenta, procede senza fretta.
Gli zoppi camminano lentamente, quelli che la
settimana scorsa o qualche anno fa hanno lasciato
indietro o hanno dimenticato una gamba o un
piede.
Temo che domani o dopodomani mi
mancherà la metà del pianeta, come mi mancava
ieri.
E, dimenticando le trazioni antisentimentali
dei baschi, ci abbracciamo con un po’ di
antropofagia, ci baciamo sulla bocca, le nostre
lingue cercano di occupare il luogo dell’altra, come
se una volta in passato la lingua fosse rimasta nella
bocca sbagliata e adesso volesse tornare al suo
posto.
Il volo delle colombe. Alcuni innamorati
mattutini si scambiano segreti sulle sedie. Anziani
pensionati chiacchierano, nella loro terza età, nel
loro terzo mondo. Vietato sputare. I bambini corrono
dietro ai piccioni. Le mamme e le bambinaie corrono
dietro i bambini. Un poliziotto con degli anfibi neri,
in piedi, sull’attenti, solo, con la sua pesante arma
691
appesa alla cintola scura, il cappellino gli fa ombra
sugli occhi rendendo il suo viso illeggibile. Legga
Selecciones.
Prima di separarci, ci abbracciamo come se
fossimo un animale con due schiene.
Ragazzi solitari fermi davanti al vecchio
fotografo per la fotografia che manderanno alla
fidanzata lasciata al paese. Passa una bella
ragazza in minigonna e tacchi alti, come una
cartolina senza indirizzo.
Ricordo cosa mi ha detto il Rosso e vorrei
capire quest’idea di prendere gli anelli delle onde.
Tuttavia non sono anelli bensì circoli di onde che
si formano quando si getta una pietra in acqua. Mi
sono buttato in acqua, ha detto il Rosso, e ho preso
qualche circolo...
Adesso vedo il viso di Goio incorniciato dal
finestrino dell’aereo mentre, da dietro il vetro, mi fa
la lettera a dell’alfabeto muto.
L’aereo si muove e dopo poco si alza in volo.
Inizia a cadere verso l’alto per poi scomparire nel
cielo che cadrà sopra di me.
“Alla prossima!” dico a bassa voce.
692
L’amico congelato
Abbiamo poca memoria perché non
possiamo prevedere cosa ci riserverà il mondo.
693
40
SE NON ORA, QUANDO
Il rompighiaccio Iceblink sarà ancora in
viaggio verso le isole Falkland.
Ti sveglierai a letto accanto a un libro ma
non riuscirai a leggere. Con sforzo e attenzione,
fisserai l’inchiostro disseminato sul foglio e non
crederai che quel materiale inerte possa dirti
qualcosa di importante. Formiche, proprio così,
sul foglio vedrai delle formiche che si muovono, in
laboriose file, senza fermarsi, come se stessero
cambiando significato.
Si tratta del quaderno di viaggio di Charles
Darwin, Viaggio di un naturalista attraverso il
mondo. Lo aprirai e leggerai la dedica:
“All’allotropico Jemmy Button.”
Il ghiaccio e il vento gelido la faranno
da padroni come se fossero un’epidemia ma,
nonostante ciò, deciderai di rimanere lì, anche
694
L’amico congelato
se sta arrivando l’inverno, in attesa di una quinta
stagione che inizierà dopo di esso.
E ricorderai che hai un vago impegno, un
incarico, benché tu non possa dire con precisione
cosa, per quale ragione e con che finalità.
“L’esule, colui che vive lontano dal proprio
Paese, deve essere ambasciatore del suo Paese
in qualunque luogo” ricorderai che disse non sai
chi.
Questo accadde tempo fa, il giorno che
ricevesti un passaporto falso.
Non si tratta dell’allotropico di Jemmy
Button. Sarai l’allotropico ambasciatore basco in
qualunque luogo, l’allotropico ambasciatore basco
all’orizzonte.
Pur avendo solo documenti falsi.
E anche lì sarai l’ambasciatore del tuo
Paese, senza potere e nella nebbia, in quell’ultimo
porto straniero, perché ormai il tuo Paese ti
avrà dimenticato e forse perché anche tu avrai
dimenticato cos’è.
695
Scendendo lungo la via San Martin noterai
la civilizzazione, evidente nel traffico e nei negozi
ed entrerai in un duty free che si chiama Jemmy
Button. Un locale stretto, pieno di souvenir per
turisti, cianfrusaglie e bigiotteria. Magliette con
pinguini sul petto, animali imbalsamati, armi
degli indigeni. Ti fermerai davanti all’espositore
di cartoline. Sono quasi tutte delle splendide
fotografie della spedizione di Ernest Shackleton,
scattate durante il viaggio della Endurance che
rimase intrappolata nei ghiacci dell’Antartico
mentre l’Europa si dissanguava nelle trincee della
prima guerra mondiale.
Accanto a queste suggestive fotografie,
un’altra attirerà la tua attenzione. Quattro uomini
che alzano un Winchester ciascuno, come fossero
i personaggi di un western in ambiente invernale,
in posa dietro tre corpi nudi stesi a terra a pancia in
giù.
La prenderai in mano e, sul retro della
cartolina, leggerai che sono cercatori d’oro.
“Cos’è questo?” chiederai al negoziante.
696
L’amico congelato
“Cercatori d’oro” ti risponderà. “Siccome qui
non se ne trovava quasi, molti di quelli che erano
venuti a cercare oro si dedicarono a cacciare
indigeni. Gli Ona erano abituati a cacciare guanaco
e quando i grandi guanaco rossi scomparvero,
iniziarono a cacciare guanaco bianchi. I residenti
consideravano gli Ona dei ladri di pecore e per il
cadavere di ognuno di essi pagavano due libbre
sterline.”
Gli indigeni nudi sono a terra, i loro archi e le
frecce vicino alle mani inerti.
“Poi”, aggiungerà il negoziante sorridendo,
e si sentirà ancora il rumore degli spari, “i crani
venivano acquistati dal British Museum per
realizzare misure antropologiche, pagavano tre
libbre sterline per ogni teschio.”
“E questa?” chiederai indicando un’altra
cartolina, anche quella una fotografia di inizio
secolo, molto seria, molto belle époque, come se i tre
uomini stesi sulla neve non fossero evidentemente
assiderati.
“Quelli sono prigionieri. Portavano qui gli
anarchici e i comunisti arrestati durante gli scioperi
697
operai di Buenos Aires o della Patagonia. Perché
Ushuaia era un penitenziario per i lavori forzati, ed
era famosa perché nessuno riusciva a scappare, la
maggior parte degli evasi venivano intrappolati dal
freddo, tra il mare del sud e le montagne del nord, e
tornavano in carcere in cerca di riparo. I tre uomini
della fotografia morirono assiderati, erano fuggiti e
avevano preferito morire congelati sul ghiacciaio
piuttosto che tornare in prigione.”
Tornerai alla via principale e per un po’
camminerai senza una meta.
Incontrerai Swen Foyn, il direttore della
fabbrica dell’isola di Deception.
“Il marinaio che hai operato sta bene” ti dirà.
“Ma non abbastanza da iniziare a suonare il
piano, vero?” gli risponderai con freddezza.
Non capirà e glielo ripeterai:
“Non suonerà più il pianoforte!”
Non se la prenderà e risponderà alla tua
battuta con un sorriso. Poi estrarrà una fotografia
dalla tasca.
“Guarda!” ti dirà.
Un gruppo di pescatori sopra il corpo di una
698
L’amico congelato
balena.
“La più grande che abbiamo catturato
quest’anno... ti rendi conto di quanto è grande? Per
farcela stare tutta, la foto è stata scattata da molto
lontano...”
Ridendo aggiungerà:
“Da così lontano che non mi riconoscerai.”
Riderà perché è difficile riconoscerlo,
indicando le piccole figure umane sulla schiena
della balena.
“Non si possono riconoscere perché la
balena era molto grande!”
È arrabbiato perché deve pagare le tasse al
Cile, all’Argentina e alla Gran Bretagna.
“Presto dovremo pagarle anche agli
americani e agli ecologisti, perché no...”
Allora ti offrirà un lavoro nella compagnia
Jacobsen & Brothers, come infermiere dei cacciatori
di balene.
“Abbiamo bisogno di una persona come te,
ti pagheremo più di quanto guadagna uno yuppie
di New York...”
E ricordando il colore sanguinolento e il
699
fetore asfissiante delle acque della baia Deception
fino a sentirlo, gli risponderai di no.
“Pensaci e mi dai una risposta la prossima
volta” aggiungerà lui.
Farai una doccia e andrai in discoteca. Sotto
l’acqua calda della doccia, avrai la sensazione
di lasciare lì tutta la stanchezza e la confusione,
uscirai pulito e con la testa più leggera.
All’entrata della discoteca leggerai:
TIERRA DEL FUEGO
After-hours
Un nome che suona come se fosse un
concetto filosofico, ma sai che la chiamano così
perché, quando chiudono le altre discoteche e i
bar, questa rimane aperta, e non chiude finché non
sorge il sole.
Ti avvicinerai al bancone.
“Una birra”, ordinerai.
L’interno della discoteca, a uno che è
700
L’amico congelato
appena arrivato dal continente bianco e dall’estesa
solitudine del mare, sembrerà caotico.
“Ballando al buio!” dirai al cameriere quando
ti porta la birra.
“Ballando con i lupi!” ti risponderà lui.
Dentro non farà freddo. Un ambiente
elettrico, stracolmo di carica positiva e negativa,
luci psichedeliche e un rumore assordante.
Comincerai a muoverti fra la gente e,
inaspettatamente, incontrerai di nuovo Swen
Foyn. Ti abbraccerà e ti dirà qualcosa ridendo a
crepapelle, gli si sbiancheranno i denti e la lingua
sembrerà viola ma, eccetto la parola “proposta”,
non capirai cosa ti dice.
“Cosa?” gli chiederai.
A voce alta, quasi gridando, ti dirà:
“Forse ci hai pensato meglio!”
“No!” gli risponderai.
Il locale buio si illuminerà con la luce
irregolare e intermittente dei neon, per quello i
denti brilleranno, risalteranno i bottoni, le labbra
assumeranno un tono violaceo e i corpi si
muoveranno come nei primi film muti del secolo
701
scorso.
“No, davvero!” griderai sorridendo.
Si porterà il bicchiere alla bocca con
l’indifferenza di un beduino e, dopo aver ingerito il
liquore, ti griderà in un orecchio:
“Conosco bene la gente che, come te,
vagabonda senza una meta, presto ti tenterò di
nuovo.”
La musica sarà altissima e ossessiva.
La gente ballerà con movimenti impazziti e
disarticolati, come lo farebbero gli Ona, gli
Alakaluf o gli Yaman attorno al fuoco, o come i
giovani afroamericani sballati di Bluefields o di
New York vicino a un economico però potente
player.
“Arrivederci!” saluterai il baleniere.
Andrai su e giù per le scale. Agli angoli
imitazioni di grotte, in un ambiente dominato dalla
più confusa fantascienza. Swen sparirà. E penserai
che forse Edna, all’ultimo momento, sia scesa dalla
Iceblink. Niente sarà fermo, tutto sarà in movimento,
convulso e non sarà difficile ballare con la luminosa
spensieratezza imposta dal frastuono della musica.
702
L’amico congelato
Ti sentirai libero in questa marea di braccia, gambe
e piedi inarrestabili, il corpo sciolto dai legami della
volontà e vibrante come un anfibio.
Scenderai le scale, poi risalirai di nuovo, la
discoteca ha almeno tre piani. Cercherai di farti
spazio fra la gente, spingendo e scostando le
persone come si allontanano i rami e le liane in
una foresta.
Improvvisamente incontrerai Maribel.
Rimarrai affascinato dal suo viso da
caleidoscopio. A quattrocchi con quel viso che
pronuncia parole inintelligibili.
La vedrai muovere le labbra illuminata dalla
luce psichedelica, ma ovviamente non sentirai
niente per via del frastuono.
È Maribel, anche se il suo viso è un quadro
surrealista trasformato da fulmini colorati. Non può
essere vero e non crederai che sia reale, penserai
che non è altro che l’aurora boreale.
Vi muoverete tra la gente tenendovi per
mano. Nervoso, allontanerai la gente con una
mano, con l’altra stringerai con forza la sua, come
il bambino che porta la rete degli oggetti smarriti.
703
Leggerai a lettere rosse: Chill-out. E ti ci
avvierai.
Scavalcando coppie di innamorati troverete
un posto libero.
Si sentirà la voce chiara di Tracy Chapman:
If no now, then when...
L’ambiente sarà accogliente, in penombra,
tranquillo, ideale per parlare, ma in quel momento
né tu né Maribel saprete cosa dire. Come se,
improvvisamente, nel ridotto spazio fra voi due si
fosse posato tutto il tempo passato, le parti del
giorno, i frammenti dell’anno, le briciole del secolo,
le distanze, tutto.
“Come hai fatto a sapere che ero qui?”
“Me l’ha detto Andoni, è rimasto praticamente
sempre in contatto con l’università di Quito.”
E le parole, pigre e inadeguate, saranno
molto più piccole dell’emozione che sentirete.
“Meno male che sei venuta, perché nel
704
L’amico congelato
viaggio ho perso il passaporto...”
“E meno male che tu sei rimasto qui” ti dirà
Maribel. “Al pomeriggio, quando sono arrivata, non
ho trovato la vostra imbarcazione al porto e ho
pensato che anche tu fossi andato alle Malvinas.”
Il posto sembra vero, ma non ne sei sicuro,
per via dell’atmosfera tempestosa e irreale creata
dalla musica e dai giochi di luce.
“Però al porto mi hanno detto che uno era
rimasto qui ed ho pensato che fossi tu.”
Allora arriverà Swen e interromperete
immediatamente la conversazione in modo che
non si accorga che parlate in basco:
“Cosa succede?” chiederà.
“Niente” risponderai.
“Davvero?”
“Sì, davvero.”
“Questa è una bugia, no?”
Rimarrai in silenzio.
“Allora succede qualcosa e sarà meglio che
io me ne vada da qui” dirà lui.
E andrà alla zona Chill-in, borbottando
qualcosa come Love stream. E rimarrete di nuovo
705
soli:
“Ho portato un passaporto che potrebbe
andar bene per te.”
“E cosa faremo?”
“Cosa vuoi fare...”
“Possiamo fare qualcosa assieme?”
“Sì.”
Non sei ancora sicuro, nonostante tu l’abbia
davanti agli occhi, che tu e Maribel vi troviate
nello stesso spazio. Allungherai il braccio, con la
tua mano toccherai la sua e, nonostante ciò, sarà
impossibile verificare se questa vicinanza sia reale
o no.
“Non devi tornare da qualche parte?”
“No. E tu?”
“Nemmeno io ho dei programmi particolari.”
“Allora abbiamo tempo” dirà Maribel.
“Finalmente abbiamo tempo.”
Uscirete alla luce incerta del mattino. Le
strade saranno quasi deserte, il vento soffierà con
forza dal canale Beagle che gli indigeni Yamana
706
L’amico congelato
chiamavano Onashaga. E sarete testimoni del
primo segnale di civiltà e del lavoro per la collettività
quando, alle prime ore del mattino, camminerete
per strada dietro ai netturbini.
Il camion della spazzatura avanzerà
lentamente davanti a voi brrum brrum. Un
lavoratore immerso nei rifiuti fino alle ginocchia
svuoterà i bidoni nel rimorchio, sotto, altri due suoi
compagni, camminando ai due lati, gli sollevano i
bidoni sul camion e, una volta svuotati, li lanciano
verso i portoni.
Il sole sorgerà rosso, come carbone
incandescente. E, tenendovi per mano, come foste
in viaggio di nozze, darete un finale da favola per
lo meno a questo giorno che giunge incatenato a
quello successivo.
I netturbini saranno, senza rendersene
conto, il corteo nuziale.
Io non sarò invitato a nozze da nessuno e
continuerò a dedicarmi a questa ridicola archeologia
del futuro.
Farà freddo e il vento porterà l’aria di altri
dolori immemorabili, le eco della vita passata
707
e futura e in mare si vedranno imbarcazioni che
vanno e vengono circondate da stormi di gabbiani.
E, mentre vai verso il futuro, avrai la
sensazione di camminare verso il passato. Hai
perso tutto quello che avevi, perché veramente
avevi più di quello che si può avere, tuttavia saprai
che ancora possiedi la cosa più importante che può
esserci: il tempo.
Sì, il tempo.
E la tua avventura, ovunque tu vada, sarà
più bella di quella di Ulisse, perché tornerai al luogo
dove non sei mai stato.
Scarica

joseba sarrionandia l`amico congelato