Libe Edizioni www.libedizioni.it JOSEBA SARRIONANDIA L’AMICO CONGELATO Traduzione di Roberta Gozzi Titolo originale: Lagun izoztua © 2001 - Elkarlanean S.L. Donostia © 2014 - Associazione Culturale Libe Edizioni ISBN 978-88-909457-7-9 La traduzione di quest’opera è stata realizzata con il contributo di Instituto basco Etxepare - Etxepare Euskal Institutua copertina di Roberto Clemente 6 L’amico congelato L’AMICO CONGELATO joseba sarrionandia 7 8 L’amico congelato 9 10 L’amico congelato 11 Devi sapere che, se vuoi entrare a Kalaportu, costeggerai la rocca che chiamano Pietra-dei-gabbiani a mezzo tiro di fune di distanza e che non dovrai avvicinarti troppo perché lì ci son delle rocce, e andrai il più possibile verso la riva e attraccherai a tredici braccia e dovrai fare molta attenzione alle distanze perché ci sono rocce ovunque. Martin Garaizar, Ixasoco nabigazioa Tutti noi, esseri viventi ma anche oggetti, più o meno non siamo nient’altro che residui raccolti e organizzati del calore del sole. Siamo vestigia del sole, resti di fiammiferi accesi sulla superficie fredda del mondo. Paulo Zetzan, Inpresioak Voi sapete, amici miei, che ci sono dei viaggi immaginati per essere un’illustrazione della vita, che possono essere presi come simbolo dell’esistenza. Hai iniziato a lottare, hai lavorato e ti sei sforzato, ti sei bagnato di sudore, ti sei quasi ammazzato, a volte sei addirittura morto nel tentativo di fare qualcosa, e alla fine... Joseph Conrad, Giovinezza 12 L’amico congelato 13 1 L’AMICO CONGELATO L’amico si è congelato. Così c’è scritto in uno dei messaggi che ho ricevuto oggi: Goio si è congelato. Cerca di andare a trovarlo appena puoi. Josean Un’altra nota diceva: Senti, Maribel, tu sei il postino, no? La nostra cassetta delle lettere è arrugginita ed è diventata un nido per gli uccelli. Tomas 14 L’amico congelato È da tempo ormai che le nostre cassette della posta sono arrugginite e che gli uccelli ci fanno il nido, depongono le uova e ci allevano i piccoli. Mi incarico di ritirare e consegnare le lettere e i pacchetti il più rapidamente possibile ai vari amici dispersi qua e là e, come gli altri, anch’io sono sempre in attesa di quel che giunge dal nostro lontano Paese. Manderò un telegramma a Tomas per dirgli che, se non arrivano lettere, la colpa non è del postino. Il congelamento, testualmente, è il processo di raffreddamento dell’acqua, o di un’altra sostanza contenuta in un corpo, fino alla solidificazione. Goio vive nella zona di Bluefields, Josean a Prinzapolka, sempre sulla costa atlantica ma più a nord. Josean mi dice che Goio si è congelato, ma chissà cosa intende dire con questa storia del congelamento! Goio vive solo, in esilio da quasi quattordici anni, con documenti falsi, su una delle isole che il vasto Río Escondido crea quando sfocia nel mare, in una casa umida con il tetto di uralite e le 15 pareti di legno. Qui tutto ammuffisce, si ammala e marcisce e, con il passare del tempo, un po’ tutti ammuffiremo, ci ammaleremo e marciremo, ma congelarsi? È impossibile che qualcuno si congeli in questo soffocante clima tropicale. Alle nove del mattino del giorno dopo sono alla stazione degli autobus: ho pagato 70 cordoba per il biglietto da Managua a El Rama e 120 cordoba per la panga che mi porterà da El Rama a Bluefields. Sulla cartina appesa a una parete della stazione riesco a leggere qualche altro nome: Pearl Lagoon, Corn Island, Sandy Bay, Gray Town, Bragman´s Bluff. Il viaggio in autobus si fa di notte e, sotto un cielo senza stelle che invita al sonno, ci lasciamo alle spalle i piccoli abitati. Mi sveglio all’alba, quando siamo ormai vicini a El Rama. Scendiamo dall’autobus e corriamo tutti verso le panga. “Bianca, bianca, bianca” dicono i facchini, “È troppo pesante per Voi, ve la porto io quella borsa.” Dal pontile di legno ci imbarchiamo sulla panga e scendiamo lungo il fiume. Il Río Escondido si snoda verso la costa dei Miskito, dei Sumo e 16 L’amico congelato dei Rama. L’acqua ha il colore del caffè, perché il fiume erode la terra e per l’inquinamento prodotto dall’industria dell’allevamento. La nostra panga procede carica di persone e di pacchi. Accanto a me, una cesta con tre galline, schiacciate l’una contro l’altra, un ammasso di piume tremolanti, la testa nascosta sotto l’ala, il sedere all’insù, l’ano stretto e rosa ben visibile. Ogni tanto ci imbattiamo in qualche tronco che galleggia sulla superficie dell’acqua e vediamo anche un guscio di tartaruga. Sugli alberi delle rive le anatre si asciugano al sole e, più a monte, lungo un sentiero, due bambini piccoli vanno a scuola, con la divisa bianca e blu, in ritardo e senza fretta. Ancora più in là, tra alberi e banani, umili capanne. Nel cielo azzurro volteggiano i condor. Siamo a Bluefields e anche al molo si sente musica reggae e si può comperare bon. “Che cos’è?” “Pane di cocco”, mi rispondono. Per raggiungere la casa di Goio dalla città, 17 bisogna camminare qualche chilometro su una strada praticamente di fango, cercando di evitare le buche. Lungo l’intero cammino, non trovo che pozzanghere che sembrano orme lasciate da un fantasma gigantesco passato da lì prima di me. Arrivo davanti a un’insegna: TROPICAL TIMBERS COMPANY Nella segheria stanno ancora lavorando, il lamento rotondo e continuo della sega risuona nel silenzio della riva del fiume. Qua e là, grossi tronchi di mogano sono in attesa del loro destino: da una parte della sega si ridurranno a un mucchio di segatura e dall’altra diventeranno ordinate torri di tavole color sangue. Per attraversare il fiume, prendo una vecchia barca che non ha padrone né corda che la tenga legata e, dopo aver cercato di buttar fuori l’acqua con una lattina, inizio a remare per raggiungere l’altra riva. Faccio impacciati sforzi con i due remi finché inizio a sudare, scoppia un temporale e la notte piomba sul pomeriggio, stendendo fino a terra 18 L’amico congelato una tenda scura sostenuta dai fili della pioggia. Cerco di legare la barchetta come posso e, quando arrivo a casa di Goio, sono bagnata fino alle ossa e lui è lì, che guarda dalla finestra, come potrebbe farlo un’iguana. “Allora, ce l’hai un riparo per la postina, vero?” Goio non mi risponde, la porta è aperta, così passo davanti alla finestra ed entro in casa, grondante. Nemmeno una volta entrata mi presta maggior attenzione di quanta ne presti alla pioggia. Dalla penombra grigiastra, in controluce alla finestra, si intravedono la sua testa rossa e il suo viso pallido. “Non mi riconosci?” gli chiedo. E lui non mi risponde, Goio sembra ghiaccio che guarda la pioggia tropicale. Dall’oscurità della cucina appare timidamente un ragazzino, nero e scalzo. “Il Rosso ha passato tutto il mese a guardare la pioggia”, dice in un inglese approssimativo. The Red, ha detto il ragazzino. Aggiunge che 19 ha perso la memoria, che non riconosce nessuno e non è per niente strano che non riconosca nemmeno me perché, da quando si è ammalato, il Rosso non riconosce nemmeno se stesso. “Ma che cosa ti è successo, Goio?” gli dico in basco, e lui mi guarda con gli occhi di un impiccato. Goio ha i capelli rossi e la gente del posto lo chiama The Red. Benché da tempo i suoi documenti portino il nome di Juan Zapata Ovalle, nessuno lo chiama Juan. E adesso il Rosso è qui, di fronte a me, sotto la sua capigliatura che sembra un cappello di fuoco, la pelle bianca e un oscuro nulla nello sguardo. “Sono Maribel, amico mio!” Né un ciao, né un abbraccio. Frammenti di secoli e di assenze, cristallizzati e sovrapposti. Il tempo, nel suo mestiere di vetraio, ha eretto fra di noi uno spesso muro di cristallo. “Ma cos’è successo?” La sua bocca è piena di silenzi e lui rimane lì, a guardare lo scrosciare dell’acqua, senza essere padrone di se stesso, senza altra relazione con il mondo che la contemplazione di un paesaggio 20 L’amico congelato delle dimensioni di una finestra. Vado alla porta e guardo lo zerbino, con l’ingenua speranza di chi, davanti a qualunque entrata, vuole leggere sotto i piedi: Non si legge nessun benvenuto. Tuttavia, in mancanza di quello, mi soffermo sulle linee e i colori e mi rendo conto che il tappetino all’entrata è una cartina del mondo. Chi avrà spiegato questo vecchio mappamondo per terra, sulla soglia di casa, perché raccolga il fango e la polvere dei visitatori? Forse lo stesso Goio e, nell’aprirlo e collocarlo all’entrata, avrà individuato il nostro lontano e piccolo Paese, disegnandolo con la punta dell’indice tra linee e 21 colori graffiati e scrostati. Poi l’avrà lasciato lì, per terra davanti alla porta, come uno zerbino, in modo che i piedi degli abitanti di questo remoto isolotto possano distruggere la cartografia del mondo. Il ragazzino che mi ha detto che il Rosso ha passato tutto il mese a guardare la pioggia si prende cura di lui. “Oggi abbiamo mangiato “rondown”, dice questo ragazzino con aria soddisfatta e tranquilla. Sono i vicini a occuparsi di lui, sono loro a preparargli i pasti. “E gli portiamo anche manghi, avocado, caimito e zapote, e arance e anche limoni.” Con il dito indica il Rosso: “Tutti lo aiutiamo, perché lui ha sempre aiutato tutti. Io ero dentro la pancia di mia madre ed è stato lui a tirarmi fuori”, dice mentre si stringe il collo come se volesse impiccarsi con le proprie mani. Goio fa l’infermiere di professione, aveva lavorato tre o quattro anni all’ospedale Cruces di Barakaldo prima di scappare nel Paese Basco francese. Lì era rimasto altri tre o quattro anni e, 22 L’amico congelato quando era venuto in esilio sulla costa atlantica del Nicaragua, non aveva fatto fatica a trovare lavoro nella zona di Bluefields, questa costa con tante malattie e così pochi medici. “Quando sei nato...?” gli chiedo. “Mi ha tirato fuori prendendomi per la testa ed è stato lui a portarmi a questo mondo, così sono nato io.” Quattro o cinque anni più tardi, quando i sandinisti persero il governo di Managua, quando altri rifugiati baschi lasciarono il Paese, Goio non sentì il bisogno di partire subito. Non era stato uno di quelli che andavano in giro a mostrare l’etichetta di rivoluzionario o di basco, e non se ne andò in quella ritirata. Nella zona di Bluefields era conosciuto, la gente del luogo lo stimava e lì nessuno gli avrebbe fatto domande sul suo titolo di infermiere. “Sa cosa gli succede adesso?” dice il cipote nel suo inglese elementare. “Non riconosce se stesso.” Rimaniamo a lungo in silenzio, al buio. “Le auguro la buona notte”, mi dice come se fosse un lord inglese e, tenendo con le due mani 23 una lunga foglia di palma sopra la testa, se ne va correndo sotto la pioggia. In un attimo è sparito tra le palme, schizzando scalzo nelle pozzanghere verso la sua capanna. Io e Goio rimaniamo seduti ognuno sulla sua sedia, ad ascoltare il suono della pioggia sul tetto di uralite, a guardare sullo schermo della finestra il film, senza senso e allo stesso tempo ineluttabile, che ha come argomento la parete di cenere formata dalla pioggia. “Non sai più chi sei?” gli dico. “E chi puoi essere? Goio, Goio Ugarte, il solito Goio Ugarte...” Ma la bocca del Rosso è una tomba. “Goio, Goio, Goio...” Provo in tutti i modi a parlare con lui, invano perché, fra tutti i dialetti possibili, ha scelto il silenzio, così mi siedo sul letto demoralizzata. Non posso dormire con questa sensazione di irrealtà che l’insonnia infonde all’ambiente che ti circonda. Quando smette di piovere, il Rosso si alza dalla sedia, si sdraia sul pagliericcio e, quando mi sembra che si sia addormentato come un animale stanco, mi alzo e mi avvicino alla finestra aperta. 24 L’amico congelato Da lì l’acqua del fiume mi appare all’improvviso totalmente sconosciuta ed estranea, come le piante della foresta e tutto il resto. Il Río Escondido è lì di fronte a me, una grande chiazza nera distesa sulla terra, che guarda le stelle e, in un angolo, gli aironi allungano il loro bianco collo verso una luna di sperma. Nella foresta si sentono versi di strani uccelli, forse c’è un tucano dal duro becco su un albero. Nell’acqua si sente un frullio e si vedono dei mulinelli: due caimani che combattono l’uno contro l’altro. E, sempre lì, legata al pontile di fronte alla casa, la barchetta dà testate contro i tronchi marci. Ce n’è anche un’altra legata, con la prua immersa nel fango e la poppa che va su e giù. Sull’ampia distesa del lago, verso il mare, mi è sembrato che la pinna di uno squalo tagliasse l’acqua per poi sparire nelle profondità lasciando alcune bolle sulla superficie calma. E anche le bolle spariranno velocemente dallo specchio d’acqua che sembra dominio della luna. 25 Mi sveglio vestita e, guardandomi attorno, mi rendo conto di essere ancora nella casa di legno, la mia borsa è sempre lì, come la fotografia della regina Vittoria un po’ più in alto. E, vicino a Queen Victoria, un altro poster, quasi fosse suo marito: il giocatore nero Duncan Campbell, che stringe con forza la mazza da baseball tra le mani, cappellino verde in testa, sorridente, i muscoli di tutto il corpo in tensione in attesa della palla. “Buongiorno, Goio!” Il Rosso è seduto su una sedia e guarda dalla finestra la luce del mattino. “Allora, nemmeno oggi abbiamo voglia di parlare?” Mi avvio verso l’abitato di Bluefields in cerca di un negozio, non so cos’altro potrei fare in questa situazione, l’intenzione di fare la spesa è l’unica certezza che mi resta. Nelle vetrine del quartiere di Beholden vedo riflessa la mia immagine, quella di una donna che fa sue le abitudini caratteristiche del genere a cui appartiene. El Cantonés. Sul banco c’è un drago di gesso e non si capisce se quello che esce dalla 26 L’amico congelato sua bocca sia del fuoco o una lingua. Forse è lì per proteggere questo esile commerciante cinese. Perché sulle mensole le bottiglie vuote sono allineate accanto a quelle piene? “Zucchero, caffè, pane, dentifricio, lamette da barba...” Il commerciante cinese di età indefinita si chiamerà Wang oppure Li e, alzando in alto la mano con la paletta, versa dello zucchero finissimo sopra la montagnola che ha formato sul piatto della bilancia, fino ad arrivare a due libbre esatte con un margine di un granello in più o in meno. Sulla parete vedo Chiang Kai-shek, che osserva il mondo dalla quiete del ritratto. Lo saluterei, se non trovassi la cosa estremamente fuori luogo. So chi è Chiang Kai-shek: in casa, sugli scaffali di Armando, c’è un libro di storia contemporanea e ogni tanto ne guardo le immagini. Per strada, gli abitanti di Bluefields: neri, meticci, bianchi, cinesi, arabi, indiani, sia dell’India che d’America. Alcuni neri portano un colorato cappello di lana in testa oppure le trecce all’aria e percorrono la lunga via Beholden fino alla riva 27 del mare, convinti che la profezia dei rastafari si compirà e, canticchiando reggae, evocano Babylon. Attraverserò le strade di Bluefields e tornerò all’isola del mio amico e, oltre la città, vedrò paesaggi dall’esuberante vegetazione, il sole nella salsedine della baia, le palme da cocco con la loro ombra a forma di stella, una tranquilla giornata dei tropici, con tutte le caratteristiche da rivista di viaggi. Mentre sto tornando all’isola fluviale, nella fessura di una parete semidistrutta scorgo un’iguana, mimetizzata con il muro e con la crepa, il collo gonfio come se avesse gli orecchioni. E si mimetizzerà altrettanto bene tra i rami degli alberi e anche con le foglie verdi, con il cielo trasparente e con il silenzio della spiaggia dove deporrà le uova. Non so che fare e la passeggiata non mi ha chiarito le idee, arrivando a casa mi ritrovo con la stessa reale e indiscutibile assurda situazione. Goio fermo, pallido, muto, che guarda dalla finestra, sembra un pezzo di ghiaccio a un angolo della spiaggia. Il ragazzino color terra è seduto sul pavimento come un indiano, con una rivista aperta 28 L’amico congelato sulle gambe incrociate e osserva la fotografia che occupa le due pagine centrali di Penthouse, un po’ curvo sui seni generosi di una bionda. “Torno a Managua” dico, e nessuno mi presta attenzione, né il mio vecchio amico, né il mio piccolo amico. Sono tornata dalla città con la spesa e il biglietto per il volo del giorno dopo. Domani mattina andrò a quel pezzo di terra calpestata che chiamano aeroporto e prenderò l’aereo per Managua. Sarà uno di quei velivoli che ogni tanto iniziano a starnutire e a tossire, farò tutto il viaggio terrorizzata e comunque riuscirò a vedere la terra dall’alto, che è bellissima, e il povero Rosso rimarrà quaggiù, in questo deserto della parola, in questa profonda giungla della dimenticanza. Arrivo nell’estesa e sparpagliata Managua alle dieci del mattino e per le undici sono a casa. Armando non c’è, ma non sarà lontano. Riconosco subito l’ambiente accogliente della nostra dimora quando, nell’aprire il frigorifero, vedo sul piatto di 29 legno la massa pronta per fare il pane, vicino ad alcune lattine di birra, disposte ordinatamente in fila e con l’etichetta in vista. Mi faccio una doccia, indosso abiti puliti, bevo una spremuta d’arancia ed esco. L’acqua mi ha lavata ma mi rendo subito conto che non mi ha scrollato di dosso l’inquietudine. La prima cosa che faccio è una telefonata, più che una domanda si tratta di una richiesta, per sapere se c’è qualche possibilità di avvicinare Goio al Paese Basco. Il mio contatto dice che Iparralde brulica di poliziotti francesi e spagnoli e che, da quando è stato sospeso il cessate il fuoco, i rifugiati si aspettano delle rappresaglie perché come dice il detto, per un basco il Paese Basco è il posto più rischioso del mondo. Mi ricordo che conosco un medico a Managua che fa lo psichiatra, Honorato Delaselva, e lo chiamo subito. È il telefono di casa e sua moglie mi dà l’indirizzo dello studio: Via “dove c’era La Racachaca”, due isolati verso il lago e poi un isolato più in giù. Avvicinandomi, vedo immediatamente le 30 L’amico congelato lettere viola di una targa: Honorato Delaselva DOTTORE IN PSICOLOGIA E PARAPSICOLOGIA Suono il campanello e una donna bionda mi apre la porta: “Vorrei parlare con Honorato Delaselva.” “Prego, entri...” dice, con voce da centralinista. Attraversiamo il corridoio e mi indica una poltrona, color limone, invitandomi a sedere. “Si accomodi, per favore”, dice mentre si asciuga le lacrime con un fazzoletto. “È successo qualcosa?” “Honorato se n’è andato con un’altra donna.” “Se n’è andato? E per quanto tempo?” “Non lo so. Se vuole aspettarlo...” “Ma Lei non sa quando posso vederlo?” “L’ha fatto anche a Lei?” “No, a me ancora no”, le dico, senza sapere 31 esattamente cosa faccia Honorato. Nello stesso istante in cui cerca di farmi un sorriso, le scappa una lacrima. “Mi ha lasciato una lettera ma non ho intenzione di aprirla”, mi dice mostrandomi la busta. “Guardi il nome dell’indirizzo, c’è scritto Maria Eugenia e Maria Eugenia sono io...” Ha gli occhi bagnati e comincia a singhiozzare: “È caduto di nuovo dal mondo del lavoro a quello delle emozioni...” Mi alzo, imbarazzata. “Non aprirò la lettera, non voglio sapere niente” dice, mentre una lacrima che non è riuscita a catturare con il fazzoletto le scivola sulla guancia. “Ha fatto la stessa cosa anche a Lei?” “No, a me no. Mi scusi!” “Non c’è di che” la sento dire mentre me ne vado. Quanto torno a casa, Armando è lì con il suo grembiule bianco e dalla cucina esce un gradevole 32 L’amico congelato profumo di farina e di pane. “Pane di Etxarri, oggi?” “L’ho appena messo nel forno” dice Armando strofinandosi le mani sul grembiule. Perché Armando fa pane di Etxarri anche a Managua. E dice sempre, prima o dopo pranzo, che fare bene il pane è importante come essere un buon militante. “E tu? Com’è andato il viaggio?” “Un disastro. Ho trovato Goio molto male, non c’è più con la testa. Non mi ha detto nemmeno una parola...” “Cosa gli succede?” “Non lo so. Forse soffre di amnesia, è come se si fosse congelato...” “E cosa hai fatto?” “L’ho lasciato lì, i vicini si occupano di lui, ma devo trovare un medico al più presto e dovremmo farlo ricoverare in un ospedale.” “Pensi di portarlo via da lì?” “Non credo che Mosquitia sia un posto adatto, soprattutto in queste condizioni. Quello è 33 un buco.” “Per noi qualunque posto è un buco!” dice Armando. A volte mi piace la sua ironia, i suoi cinici giochi di parole, ma non sempre. Non dico niente, nemmeno lui lo fa. Alla fine devo dire qualcosa: “Pensavo fosse ben radicato sulla Costa Atlantica.” “Radicato? La gente non mette radici in nessun posto...“ “Qualcuno sì.” “Gli alberi mettono radici, ma l’essere umano è per sua natura sradicato. Ha i piedi, per camminare...” “E le chiappe per sedersi!” dico seccata. Armando ha aperto il forno e dice che ci vuole ancora un momento. Armando è il nome che qui ha Josu, il mio uomo, il mio compagno, mio marito e tutto quello che è per me. Formiamo una bella coppia, pare. Invece di rimanere nel Paese Basco francese, andò a Parigi a studiare filosofia, ci incontrammo 34 L’amico congelato di nuovo nel ‘87 e decidemmo di venire assieme in America. “È la nostra maledizione...” Ha detto la nostra maledizione e ha continuato a parlare come se si trattasse di qualcosa a cui pensava da tempo e che finalmente ha l’occasione di esprimere: “È la maledizione di Ulisse. Viviamo qui e stiamo sempre pensando di ritornare là, ma più passa il tempo, più diventa difficile lasciare questo posto per l’altro e, anche se tornassimo nella nostra sognata terra, non sarebbe più il luogo che abbiamo lasciato ma un altro posto a noi quasi sconosciuto...” Josu e le sue citazioni, la sua bibliografia, sempre con una nota a piè di voce. E io penso allo zerbino davanti alla porta, quel tessuto sfilacciato messo lì per le scarpe bagnate dell’umida Bluefields. “Perché non fai una proposta più concreta?” Mi guarda sorpreso: “Più concreta?” E la fa: dobbiamo cercare la soluzione al problema in un ambiente famigliare e di fiducia e, 35 invece di portarlo via dalla costa atlantica e lasciarlo solo in un ospedale, bisogna portare Goio a casa di qualche amico. “Goio ha un amico di gioventù che vive come noi” dice, “è stato a casa nostra, a Hendaia, credo si chiami Andoni Martinez, ma non so dove si trovi adesso...” Apro la porta e resto a puntellare lo stipite, guardo fuori, osservo il lenzuolo steso dalla vicina di fronte: mosso dagli zoccoli del vento, sembra un’onda legata a due pali. “Lo conosci?” mi chiede Armando. La vicina, una bella indigena, è entrata in casa sua passandoci sotto. Le nostre lenzuola, invece, sono pulite e stese sul letto. “Chi?” “Chi vuoi che sia! Andoni!” “Forse sì, credo di averlo incontrato una volta, tempo fa, ma lo conosco solo di vista.” “Non hai il suo contatto?” “No.” Armando sforna il pane di Etxarri e lo appoggia sul tavolo. E il profumo, il colore e la 36 L’amico congelato tenerezza del pane appena sfornato iniziano a diffondersi per tutta la stanza. “È una buona abitudine mangiare del pane come si deve”, dice Armando. “Dovrai trovare questo Andoni...” Per cena preparo un’insalata con fagioli e riso. Faccio cuocere una tazza di riso, un’altra di fagioli neri, aggiungo pomodoro crudo a pezzettini e cipolla tagliata sottile, condisco con pepe, olio e sale. Poi, siccome Armando è una di quelle persone che quando c’è un problema ti dà un libro, mi porta un volume: Les dissolutions de la mémoire, lettere bianche su una copertina rossa. E inizia a battere sulla sua macchina da scrivere, tip tip tap tip tip... Appoggio il libro aperto sul viso come se fosse un tetto. Quando vado a letto, vedo il pane ancora tiepido sul tavolo. Da sotto la crosta il calore sprigiona un fumo sottile. 37 Mi sono svegliata con le prime luci del giorno, ho aperto gli occhi e, guardando la parete, ho dovuto pensare un po’, prima di capire dove mi trovavo. Inquieta, anche se non ricordavo cosa avevo sognato. Mi sono alzata, ho acceso la radio e sono stata quasi un’ora ad ascoltare un fiume di notizie. Mi uscivano dalle orecchie dati sull’inflazione, morti sulla strada, ministri, ordinanze, asteroidi, titoli, previsioni del tempo e altre novità, così l’ho spenta e ho ripreso in mano il libro. Ho passato la mattinata con il libro in mano, con le dissoluzioni della memoria, a volte girando le pagine in modo meccanico, a volte soffermandomi su qualche brano, abbastanza confusa e incapace di passare alla pagina successiva. Ho dimenticato il francese, ci sono parole che non capisco, per esempio, cos’è le néant? Perdo il filo del discorso e anche quello che capisco non mi suggerisce cosa fare nel caso di Goio. A mezzogiorno, le néant est structure constitutive de l´existant, esco a passeggiare per le strade della caotica Managua, piena di dubbi, come immersa in un liquido amniotico. 38 L’amico congelato Ho voglia di gridare: “Goio, devo parlarti!” Griderei tanto da farmi sentire fino a Mosquitia. E continuerei a camminare in silenzio per queste strade, fino a uscire dalla cartina e anche dal globo terrestre. Ho saputo che Andoni vive in Ecuador, in una valle perduta ai piedi delle Ande, è sposato con una ragazza quechua e lavora come antropologo, ma con documenti falsi, come noi. L’unico legame che abbiamo con il Goio di prima è questo Andoni Martinez. Quando torno a casa, nel pomeriggio, Armando è seduto alla macchina da scrivere: tip tip tap tip tip top tip tip. La nostra casa, oltre a essere un panificio clandestino, è anche un ufficio periferico. Qui Josu prepara delle bozze che non scriverà mai in bella. Sono sempre frammenti, progetti, prove, schemi che non verranno mai portati a termine. Josu ha la parete della stanza coperta di illustrazioni e scritti. C’è anche un’immagine nuova, strappata da una rivista e appesa con puntine da disegno, uno spaventoso uomo grasso, nudo e sicuramente malato. Leggo cosa ha scritto Josu al 39 margine: Leigh Freud, Nudità di massa. Il modello è morto di meningite, polmonite e AIDS. “E questo?” “Ha quarantadue anni, come noi.” “Non hai uno specchio migliore?” Vecchie fotografie, caricature e, cosa che non mi è mai piaciuta, di nuovo la parete sporca di pennarello. Ecco la nuova scritta: Il tempo passa e non succede niente Penso, con spirito materno, che non ha ancora superato l’abitudine che hanno i bambini di quattro o cinque anni di scrivere sulle pareti, è inutile arrabbiarsi. Tesi, antitesi e... “Voglio rivendicare le leggi della dialettica” dice Josu. 40 L’amico congelato “Questo sì che è un po’ anacronistico, non credi?” Il termine dialettica, una parola che non sentivo da tempo, riguardando la storia passata con una torcia mi riporta alla mente idee utopiche discusse da giovani nelle scuole del popolo e lette in tanti libri. “Tesi, antitesi e...” inizio a ripassare. Josu mi interrompe: “Tesi, antitesi e sintassi.” “Sintesi” lo correggo. “No, no. Sintassi!” ribatte scherzoso. Più che hegeliano Josu è rimbaudiano e, con quei suoi occhiali rotondi, più che leninista sembra lennonista. E tip tip tap tip top tip, batte sui tasti come se stesse suonando una melodia. La vita è assente, non viviamo in questo mondo, ma immagina che... “Passi tutto il tuo tempo a scrivere bozze e progetti che non diventeranno mai niente...” gli dico. “E alloooooraaaaa?” Abbiamo passato il tempo ad aspettare il 41 futuro, credendo che ci avrebbe portato qualcosa di nuovo, progetti e intenzioni congiunturali, legate alla situazione, abbiamo fatto colazione con titoli di giornali, pensando che non si trattasse di fatti attuali ma di cose che sarebbero accadute in futuro. Questo è quel che vorrei dire a Josu. E so che mi risponderebbe che il presente è mutevole, che il presente è sempre provvisorio. Tuttavia è un’aberrazione rendere permanente l’instabilità, ripetere continuamente la stessa provvisorietà, ammucchiare bozze invece di portare a termine un’opera, rimandare al futuro invece di vivere il presente. “Stiamo sempre aspettando come dei paralitici...” dico, senza aggiungere altro. “Certo che anche tu sei abbastanza criptica oggi, cara!” Il giorno dopo cominciamo a organizzare la cosa. In Colombia, vicino a Barranquilla, in un paesino chiamato Rioquemado pare che viva un 42 L’amico congelato basco, appartenente a una famiglia di esiliati dopo la guerra, che lavora in un centro psichiatrico. In ogni caso, sono convinta che prima dobbiamo andare a trovare il vecchio amico di Goio e, per fortuna, sono riuscita a contattare questo Andoni per telefono. “Maribel, che Maribel?” “Ecco, la postina...” “Ah, ciao, come stai?” “Bene, ma qui abbiamo un amico congelato.” “Un amico congelato?” chiede. “Sì, un tuo conoscente, Goio, di Kalaportu. Ha problemi di amnesia.” “È malato?” “Sì, sì, sta piuttosto male e sarebbe meglio se stesse con gente che può aiutarlo a recuperare la memoria. Abbiamo pensato che anche tu potresti aiutarlo.” “Mi piacerebbe provarci.” “Che te ne pare se veniamo entrambi per un periodo?” “Se potete fare il viaggio, a me va benissimo. E se volete fermarvi qui un po’ di tempo, non ci 43 sono problemi.” “Quindi possiamo venire?” “Sì, quando volete.” “Allora partiamo subito” gli dico. “Dovremmo arrivare il 22 giugno.” 44 L’amico congelato 2 RAGAZZI DI KALAPORTU La madre di Goio accese la radio alle sette in punto del mattino. Manuel Fraga Iribarne aveva inaugurato una diga e, sciolto il nodo della cravatta, aveva dichiarato che ci avrebbe fatto volentieri il bagno, le truppe nordamericane avevano occupato nuove zone del Vietnam disseminandole di esplosivi, nella città di Trelew diciotto prigionieri erano stati uccisi durante un tentativo di evasione, un atleta sovietico aveva corso i cento metri in dieci secondi ma le organizzazioni internazionali non riconoscevano il record, Pelé diceva che il Brasile avrebbe vinto i mondiali di calcio... Quel mattino d’agosto, Goio e sua madre andarono al cimitero a portare dei fiori. Benché fosse estate, era una mattina uggiosa e triste, e Goio raggiunse la loro tomba camminando tra le altre infreddolito e inquieto. La madre prese una 45 scopa che trovò lì vicino e pulì sopra e attorno alla lastra di marmo; poi tolse i fiori appassiti da un barattolo di latta appoggiato sulla tomba, li buttò in un angolo e andò a prendere dell’acqua fresca per le rose rosse che aveva portato. Goio conosceva le lettere dell’alfabeto e lesse il suo nome e cognome sulla lapide: Gregorio Ugarte 1937-1958 Con le mani in tasca, lesse di nuovo il suo nome, sorpreso, sotto la erre la i e la pi, poi calcolò l’età del defunto fra quelle due date ormai passate. La vita quindi era quel trattino collocato tra 1937 e 1958. Mentre sua madre preparava il barattolo con l’acqua e i fiori freschi, Goio guardava le tombe aperte e pensò che il lavoro del becchino era sì facile, ma piuttosto sgradevole. Mettere la bara nella fossa o introdurla in un loculo della parete e poi chiuderli per sempre. La madre appoggiò i fiori e, senza pregare, 46 L’amico congelato si allontanò tra le tombe. Goio la seguì, spaventato, timoroso di rimanere indietro e perdersi nella foschia, in quel labirinto di tombe. Lesse la parola PAX su una parete e poi Riposi in Pace su una lapide stesa a terra. Si sentiva solo il rumore dei suoi passi sulla ghiaia. In quel momento i becchini iniziarono a scavare. Goio voleva chiedere una cosa a sua madre, ormai sulla porta del cimitero, ma lei si mise a parlare con due vecchie vestite a lutto. “Questo è tuo figlio?” chiese una di loro. Lui vide sui capelli bianchi di quelle donne anziane la cenere che ricopre ogni cosa e nei loro visi gli parve di scorgere l’espressione di un Dio annoiato. Le fece la domanda quando arrivarono a casa. “Come è morto lo zio?” “È annegato in mare, tre mesi prima che tu nascessi” rispose sua madre. “Per questo porti il suo nome.” Dopo un momento, Goio uscì di casa con 47 la bicicletta. Prima di andarsene, sul portone, tolse i parafanghi e abbassò il manubrio in avanti. Voleva che fosse come una di quelle da corsa, ma la bicicletta in realtà sembrava lo scheletro di un vecchio asino, o così per lo meno la vide Goio stringendo le mani sul manubrio e avviandosi verso il porto. Prese il molo basso e arrivò fino alla punta di Harriandi, si girò e, ripercorso tutto il porto, imboccò il molo di levante e, passando dal cantiere navale, raggiunse il promontorio di Kaioarri. Da lì tornò a casa, come uno sconfitto Gabika.1 Dopo pranzo, dalla finestra di casa guardò la stazione ferroviaria e vide il professore di francese, Mesie Nonmonsieur che aspettava il treno per Bilbao, con il suo soprabito color gabardine e due valigie di pelle, una in ogni mano. In quel momento arrivò sua madre dalla 1 Francisco Gabikagogeaskoa (1937-2014), conosciuto come Patxi Gabika, ciclista basco , vinse la Vuelta spagnola nel 1966. [N.d.T.] 48 L’amico congelato cucina. “Goio, vai a fare un giro.” E vide un uomo giovane dietro di lei. Lo conosceva, era Andres, un pescatore, indossava ancora la tuta da lavoro. Sembrava che fosse venuto lì a cambiarsi. “Pioverà”, disse Goio. “E allora?” Rimase in silenzio, lì in soggiorno. Finché non smette di piovere non puoi uscire, stai in casa, gli aveva sempre ordinato sua madre prima di allora. Ma, da quando quell’uomo aveva iniziato a venire a casa loro, Goio era molto più libero di andare dove voleva e aveva iniziato a sentire frasi come Esci, se vuoi... Quando udì un suono metallico, seppe che sua madre aveva chiuso la porta a chiave e allora uscì. Sulle scale notò l’odore di candeggina e sbatté la porta. Come se non avesse sentito il forte rumore provocato, scese i due piani saltando gli scalini di legno di quattro in quattro. Davanti al portone contò le lastre di pietra tra un lato e l’altro della strada, tredici in tutto ma, 49 quando le ricontò iniziando all’altra parte, gliene risultarono solo undici. Poi si arrampicò su un vecchio palo della luce. Abbracciava il palo con forza, portava un po’ più su le gambe e poi, sostenendosi su di esse, allungava le braccia e il corpo e, afferrandosi forte, portava le gambe ancora più in alto. Si stava arrampicando sempre più in alto sul palo quando venne colto da una specie di panico che, dalla punta delle dita dei piedi, su per i polpacci, la vita, il petto fino alla testa, infilandosi in tutte le fessure, raggiunse la punta delle dita delle mani. Perché si era arrampicato su quel palo? Per fuggire da sua madre e da quell’uomo, perché tutte le volte che arrivava Andres lui doveva andarsene. Perché, quando appariva quell’uomo, gli occhi di sua madre evitavano lo sguardo di Goio. Sentì un brivido guardando in basso, abbracciò con forza il palo all’altezza della finestra verde di legno chiusa del primo piano, poi strinse forte le gambe e staccò le mani per risalire ancora un po’. In quel momento non c’era anima viva per strada e nessuno aprì una finestra per dirgli, con 50 L’amico congelato quel modo brusco che di solito hanno gli adulti quando sgridano i bambini, “Cosa fai lì, moccioso, scendi immediatamente”. Non si vedeva nessuno e Goio continuò a salire, mentre gocce di sudore gli scendevano sulla fronte fino agli occhi. Staccò una mano per sfregarsi un occhio con il pugno e fu sul punto di cadere: non riusciva a sostenere il peso del suo corpo, aveva bisogno di entrambe le braccia per rimanere attaccato al palo scuro. Guardò verso l’alto, con gli occhi irritati che non era riuscito a strofinare. I cavi della corrente elettrica erano ormai vicini, diede altre tre o quattro bracciate e li sentì vibrare sopra i suoi capelli rossi. Era quasi in cima, stretto con forza al ruvido palo, e da lassù avrebbe potuto vedere il mare e i gabbiani che volano con il vento tra la bruma e il sale. Invece guardò verso la camera di sua madre, le imposte di legno erano aperte e, all’interno, dietro il vetro, di fronte a lui, la vide nuda, in piedi vicino al letto, abbracciata all’uomo giovane, anche lui nudo e in piedi. Sua madre aprì le gambe e le strinse attorno alla vita di lui, le braccia serrate con forza al suo collo, come se volesse avvinghiarsi e unirsi 51 al corpo dell’uomo. La visione durò poco, un battito di palpebre, ma a Goio fu sufficiente per perdere la forza nelle braccia e nelle gambe: il palo scivolò verso l’alto. Cadde e, quando toccò terra, aveva la parte interna delle mani e delle braccia bruciata e le gambe graffiate da cima a fondo. Gli venne voglia di piangere. A malapena riuscì ad alzarsi, aggrappandosi dolorante al palo. Non vide nessuno nei dintorni e si avviò verso la riva del mare, doveva almeno ripulirsi del sangue prima di tornare a casa. In quel momento scoppiò un temporale e la pioggia diede un po’ di sollievo alle escoriazioni, soprattutto quando aprì le mani con i palmi rivolti verso l’alto. Poco dopo arrivò Juan Bautista. “Sei caduto?” Goio non gli rispose. “Hai fatto a botte con il palo?” gli chiese Juan Bautista. Goio, come se non l’avesse sentito, disse: “Andiamo al mare.” “Comincia a piovere.” “E allora?” 52 L’amico congelato Alla stazione videro Mesie Nonmonsieur con le sue valigie sotto la pioggia, gli occhiali bagnati, l’impermeabile sempre più scuro, in attesa del treno per Bilbao. Goio e Juan Bautista passarono dall’altra parte della strada e lui, con le lenti degli occhiali coperte dalle gocce di pioggia, sicuramente non li vide. “Va a vivere a Bilbao”, disse Goio. “Qua si sarebbe annoiato.” “E adesso chi ci farà lezione di francese?” I ragazzi trascorrevano così quei pomeriggi di agosto. In pantaloncini corti, su e giù per le strade di Kalaportu senza una meta precisa, lungo la serpeggiante frontiera tra l’acqua e la terra. Kalaportu non era grande, all’epoca il porto avrà avuto una quindicina di imbarcazioni, un piccolo cantiere navale per aggiustarle, la fabbrica di ghiaccio e molte altre cose. Le barche che attraccavano in quel porto non erano molte, ma al largo ne passavano parecchie e i ragazzi distinguevano le loro sirene, le bandiere e l’attività a cui si dedicavano. Da quelle imbarcazioni venivano buttati svariati oggetti e la marea portava 53 verso le rocce resti di cibo, calendari, scatole metalliche di biscotti con disegni di aerei che lanciavano scatole di biscotti, pagine di giornale, fatture di importazione-esportazione e salvagenti scoloriti, forse abbandonati da un naufrago o che forse avevano abbandonato un naufrago, con un numero di targa che, benché quasi illeggibile, i curiosi ragazzi della costa decifravano: Liverpool 35-12-32 Quel giorno andarono ad Harriandi. Si sedettero sugli scogli vicino al bunker e, al tramonto, mentre guardavano tremare il mare sotto di loro, Juan Bautista estrasse dalla tasca un pacchetto di Celtas e ne offrì una a Goio. Juan Bautista, quando fumava, rimaneva incantato a guardare il fumo che usciva dalla sua bocca. “Guarda, spazi vuoti che si riempiono di fumo”, diceva Juan Bautista. Diceva proprio così e gli piaceva che il vuoto si riempisse di fumo e, con la stessa cerimoniosità, soffiava un’altra boccata. 54 L’amico congelato Goio strinse la sigaretta tra le due dita. Tutti i ragazzi trattenevano il fumo in gola perché erano convinti che così la voce si facesse più roca, più virile, e che un giorno avrebbero avuto una voce abbastanza profonda e le tasche così piene di soldi da poter girare il mondo come se fosse sempre domenica. “Hai qualche donna in mente?” chiese Juan Bautista. “Sì, mia madre” disse Goio sputando i fili di tabacco che la sigaretta senza filtro gli aveva lascito sulle labbra. “Come, tua madre?” disse Juan Bautista ridendo: “Sei ancora attaccato alle gonne della mamma...” Juan Bautista aveva una voglia tremenda di baciare una ragazza sulla bocca. “In questa vita l’unica cosa che conta è scopare” disse. “E il calcio?” “Il calcio è un passatempo” rispose Juan Bautista, “e, a pensarci bene, un passatempo abbastanza stupido.” 55 Faceva delle pause, per espellere il fumo dalla bocca, per riempire i vuoti di rotonde boccate, per completare le idee: “Certo che correre come pazzi dietro a una palla che al suo interno contiene solo aria...” I gabbiani volavano facendo cra, cra, cra. “E a te, diventa duro l’uccello?” “Cosa?” disse Goio. “Se ti diventa duro?” disse Juan Bautista, tirando fuori il suo arrossato e gonfio. “Vaffanculo!” Goio si sentì a disagio e scese tra gli scogli quasi fino all’acqua. La ragione della sua inquietudine era quell’arnese senza nome, al quale non riusciva ad associare una parola esatta, perché tutte quelle che conosceva gli sembravano imprecise; pistolino era troppo infantile, uccello, asta, verga, bastoncello erano ridicoli e altri modi di chiamarlo erano assurdi o comici. In ogni caso, pensava che quel pezzo di carne dovesse avere un vero nome segreto. Cercò tre sassi piatti e, stringendoli in mano, verificò che fossero ben arrotondati. 56 L’amico congelato Ne lanciò uno: non rimbalzò sull’acqua e al primo plof andò a fondo. Il secondo rimbalzò due volte, goffamente e non emise quel sibilo di arco che deve fare sull’acqua una pietra piatta e liscia ben lanciata: Ft,,, ft,,ft, plof. Dopo il terzo rimbalzo affondò con la pesantezza del piombo. Goio rimase lì, da solo, a tirare pietre al mare. Dopo un po’, Juan Bautista lo raggiunse tra gli scogli e il suo sasso arrivò molto più lontano: Ft,,,, ft,,, ft,, ft, ft plof. Poi Juan Bautista disse: “Andiamo a giocare a behelaino!” Si tolsero i vestiti e, dagli scogli, si tuffarono nell’acqua fredda. Stare in behelaino significava rimanere in piedi sott’acqua, toccare la sabbia o le pietre del fondo con la punta di un piede, muovere le braccia come pinne per mantenersi sul fondo, uno di fronte all’altro, guardandosi, cerulei, i visi deformati, i polmoni sul punto di scoppiare. Alla fine riemergevano mezzi asfissiati. Goio risalì ansimante e con il naso che 57 sanguinava. Senza nemmeno asciugarsi, cominciò a rimettersi i vestiti. Benché fosse estate bisognava essere a casa per le sei. Quando suonava la sirena della fabbrica di ghiaccio e taceva il rumore delle seghe e dei martelli del cantiere navale, i ragazzi correvano a casa e le madri, già tornate dal lavoro, dicevano dalla finestra: “A casa!” Tornando a casa Goio avrebbe visto di nuovo il professore di francese, ancora in attesa del treno che sarebbe dovuto arrivare alle tre del pomeriggio ma che era spesso in ritardo, e delle volte non arrivava fino a sera. Una volta in stazione, si fermava pochissimo e ripartiva immediatamente per Bilbao. “A casa” gli disse sua madre. E, una volta a casa, cenarono del pesce che sapeva di gasolio. Quando sentì il fischio del treno si avvicinò alla finestra. Ormai era buio e vide il treno per Bilbao, 58 L’amico congelato così a lungo atteso dal professore di francese. Mesie Nonmonsieur non era più sui binari, ormai sarà stato seduto dentro. Dai finestrini quadrati del treno usciva una luce giallognola ma, con quelle fioche lampadine e con il dondolio dei vagoni, sicuramente dentro non si poteva leggere un libro, nemmeno asciugando e pulendo gli occhiali per bene. Da Kaiondo verso nord, il mare era sempre lì, una pianura insondabile, oscura, rumorosa, con il suo odore di salsedine, i pesci abissali, i suoi gabbiani, le barche locali e forestiere. Lì viveva Goio, in quel paese isolato, Kalaportu, e al tramonto vedeva le luci delle scialuppe in lontananza e ancora più in là: brillavano al ritmo delle onde formate dai battiti del cuore oscuro del mondo. La banda di luce del faro passava intermittente salutando la notte, con una frustata ogni cinque secondi. Goio sentiva alle sue spalle la presenza della madre, che stava lavando i piatti in cucina, il suono di coltelli, bicchieri, cucchiai e piatti sotto l’acqua. Sua madre era sempre dietro di lui, ed era una bella donna sua madre? Questo 59 si chiedeva Goio: quella donna che adesso sta lavando i piatti in cucina, che cuce le reti al molo, è una donna attraente? Una volta era entrato in bagno senza bussare e l’aveva sorpresa nuda, che si stava asciugando appena uscita dalla doccia. Era rimasto di sasso vedendo quel corpo umido e bianco, il seno generoso, i capezzoli rotondi e marroni, i peli scuri del pube e le gocce d’acqua che scivolavano sulla sua pelle. Si era reso conto che stava facendo qualcosa di proibito, guardare una donna nuda, soprattutto trattandosi di tua madre, e si era girato per andarsene. Ma lei gli aveva detto “Guarda qua” e Goio era rimasto sulla porta. Guardava sua madre evitando di portare gli occhi al seno e al ventre, finché lei gli disse: “Guarda, da qui sei nato tu.” E vide che sua madre aveva una mano sul basso ventre. Quando disse “Da qui sei nato tu”, indicava la sua pancia con l’indice e gli mostrò una terribile cicatrice, lunga e grossa come un dito, una cicatrice che partiva dall’ombelico e, scendendo, 60 L’amico congelato arrivava quasi fino a quel nero bosco di peli tra le gambe che lui non voleva guardare. “Tocca se vuoi, non avere paura” gli disse. Goio allungò il braccio, senza che i suoi occhi vedessero niente. Sua madre gli prese la mano e lo obbligò ad accarezzare le labbra cucite di quella ferita, la cicatrice gli sembrò morbida. Si spaventò e uscì correndo. 61 3 L’AMICO CONGELATO Ho detto ad Andoni “Dovremmo arrivare il 22.” Così stiamo per abbandonare questa palude che è Bluefields. Per andare al porto, passiamo davanti alla casa del cipote. Sulla porta della baracca circondata da banani ci sono cinque bambini quasi nudi, in fila uno acanto all’altro, magrissimi, la pelle color terra e lo sguardo sveglio. I banani sono storti: tronchi obliqui e lunghe foglie come pantaloni laceri stesi ad asciugare. Il nostro cipote è il più alto di tutti e, quando solleva il braccio e agita la mano sopra la testa, mostrando un sorriso che sembra polpa di cocco, i suoi fratelli lo imitano. Il Rosso, che non ha avuto il tempo di capire dove stiamo andando, e io, che non l’ho ancora capito, ci ritroviamo al molo di Bluefields, 62 L’amico congelato in attesa di una barca che viene da Printzapolka e Puerto Cabezas. Ci dirigiamo verso sud dove attraverseremo luoghi dai nomi improbabili: Monkey Point, Puerto Limón, Barranquilla. Dietro di noi ci sono anche dei turisti e Juan, con la sua pelle bianca e i capelli rossi, sembra un gringo in questo contesto, lì sul pontile puntellato e quasi marcio. In queste acque che sono per metà Mar Atlantico e per metà lago brodoso, navigano tranquille piccole barche e navi mercantili sotto la luce indifferente del sole. Un anziano sostiene una corda, che sparisce nell’acqua in mezzo a onde circolari, convinto che qualche pesce si imbatterà nella sua esca. L’acqua è tiepida e torbida, come un brodo che si sta raffreddando. La chiatta arriva tardi e troppo carica, l’acqua sfiora la linea di galleggiamento. Saliamo a bordo, usciamo in mare e avanziamo: di fronte a noi una striscia di terraferma, una lunga fila di mangrovie a destra, mentre a sinistra si vede il mare aperto. Il sole è forte e la maggior parte dei passeggeri cerca l’ombra per ripararsi e poter dormire. Noi 63 rimaniamo a guardare, alternativamente da una parte e dall’altra, appoggiati al parapetto. Arrivati a Puerto Limón non scendiamo dall’imbarcazione per non dover passare controlli e dogana. La sosta è interminabile e io e il Rosso rimaniamo a contemplare la città a mezzo miglio di distanza, appoggiati sui gomiti, come chi ha tutto il tempo del mondo. I bracci delle grandi gru oscillano piegati sui mercantili, mentre caricano o scaricano merci. Questo sole bruciante scurisce la pelle e annebbia gli occhi. Inoltre rinsecchisce il paesaggio, trasformandolo in qualcosa di strano e tremolante, come un dormiveglia. “Non hai nostalgia del freddo?” chiedo a Goio. L’acqua color muschio e caffè colpisce -ciaff ciaff- la chiglia e ci culla dolcemente all’interno del porto. Il Rosso non dice niente. È sempre lì, in piedi sulla sua ombra addormentata. Poi, senza dare tempo al tramonto di offrire lo spettacolo della sua bellezza, cala la notte 64 L’amico congelato tropicale, calda e appiccicaticcia, e le stelle iniziano a brillare come lucciole nel firmamento dell’oscura e vasta epidermide del mare. Attracchiamo a Barranquilla e non abbiamo problemi per passare la dogana. Il Rosso mi segue con la valigia in mano, la testa un po’ inclinata, quasi volesse essere testimone dei suoi passi. Nella stazione ferroviaria c’è una gran folla in movimento, valigie, scatole, borse da viaggio ovunque. Un bambino abbracciato alla gamba di suo padre gli chiede dove va. “Che caldo che fa!” dico. Però, che conoscenze meteorologiche possiede questa donna, penserà il mio amico congelato. E gli rispondo, come se lui davvero avesse detto quel che è stato solo un mio pensiero: “Scommetti che questo pomeriggio piove?” Ma la risposta arriva da un’altra parte. “Può piovere, tuonare o fare fulmini, ma io vado ad Antiochia.” 65 A parlare è stato Petre, il fisarmonicista, sorridente, che ci comunica le sue intenzioni e si presenta: “Sono Petre, il fisarmonicista.” Prima di salire sul treno compro due giornali, El Heraldo e El Universal, per avere qualcosa da leggere durante il viaggio. Sistemiamo la valigia nel portabagagli sopra le nostre teste e ci sediamo uno accanto all’altra. Di fronte a noi una grossa donna nera ha occupato due posti e tiene sulle ginocchia una bambina che avrà cinque anni. Questa nonna o mamma di un brillante color catrame, sembra un Budda Madre, con un fazzoletto multicolore in testa e due anelli dorati che le dondolano dalle orecchie. Il treno lascia la stazione e Goio ha chiuso gli occhi, indifferente all’interminabile andirivieni, ai colori, alle grida e ai rumorosi odori. Odore di ceste, di banane, di rane fritte, di camere da letto che sono per più di due persone. “Mi dici come ti chiami?”, mi chiede la bambina dalla comoda poltrona che è il grembo della nonna. 66 L’amico congelato “Io mi chiamo Maribel. E tu?” “Io Claudia.” “E il tuo fidanzato come si chiama?” dice, sollevando il piccolo dito per indicare il mio amico. “Juan.” Apro El Heraldo de Barranquilla per leggere almeno i titoli: Fernando Botero redimerà Medellín; in una fotografia abbastanza sfocata lo si vede mostrare un suo quadro a un gruppo di bambini. “Anch’io sono capace di leggere” dice la bambina mentre si infila sotto il mio braccio e mi copre un quarto della prima pagina de El Heraldo. Il presidente Alberto Fujimori presterà giuramento per la carica. Ritiratosi Alejandro Toledo dalla sfida elettorale, Alberto Fujimori ha facilmente vinto le elezioni e, nonostante i gravi incidenti scoppiati, inizierà il suo terzo mandato. “Di-cian-no-ve-giu-gno, du-e-mi-la”, ha letto la bambina trascinando le sillabe come tutti quelli che stanno imparando. Adesso guarda l’altro giornale che ho sulle ginocchia e, dopo la testata El Universal la bambina passa la punta dell’indice sotto de Cartagena e mi 67 indica la data: “Diciannove giugno duemila” ripete adesso senza indecisioni. La Segretaria di Stato degli Stati Uniti, Madeleine Albright, si riunirà oggi con... “Oggi è l’anno diciannove,” dice. Valderrama infortunato. “Davvero?” “Davvero, davvero” risponde l’affettuosa bambina. “C’è scritto qua, guarda, diciannove. E l’anno prossimo sarà il venti.” Il treno procede velocemente, oscillando e sbuffando, quasi senza fiato, mentre Valderrama è infortunato, e non è facile sapere cosa sia più irreale. Ma c’è qualcosa di irreale nell’ambiente, tutum tu-tum tu-tum, forse quando andavo in treno da Euba a Bilbao, all’età di questa bambina, bilbao, bil-bao, bil-bao, la memoria è irreale, l’edificio scuro della stazione di Atxuri e poi al ritorno Eu-ba, Eu-ba, Eu-ba. Questo tu-tum tu-tum mi riporta alla mente molte altre parole, per esempio, guar-da-te ri-cor-da 68 L’amico congelato er-bet-ta e anche questo rumore di voci suggerito dal girare delle ruote è un po’ irreale, sol-tan-to desi-de-ri, sol-tan-to de-si-de-ri. All’improvviso, il rumore del freno e lo stridere del ferro. Il convoglio si ferma, allarmato, e tutt’attorno si vedono divise militari che ci ordinano di scendere. “Controllo!” grida un soldato. “Scendete tutti in fila e mettetevi contro il treno!” grida un altro soldato. La Budda Madre con la bambina, dietro di loro scende il Rosso e io lo prendo per il braccio. Cammina in fila come un automa e dev’essere l’unico a non tremare. “Documenti in mano!” Ci hanno messo con la faccia contro il treno, le mani alzate, le gambe aperte e controllano i documenti uno a uno. “E tu chi sei?” chiede un militare a Goio. “Juan Zapata” dico io, accanto a lui. “Juan?” dice il soldato puntandolo con la canna del mitra. “Rispondimi o ti faccio un altro buco del culo!” 69 “È malato...” dico girandomi. Sento il forte colpo del calcio del fucile nelle costole e, quando cado in ginocchio senza fiato, i documenti di entrambi si spargono a terra. “No, no. Devi rispondere tu! Chi sei?” ripete il soldato al Rosso. Goio resta muto, con una faccia da nonsonojuanenonconosconessunjuan. “Juan Zapata Ovalle, ma è malato” insisto di nuovo e sento un tremendo colpo sulla fronte. Mi si annebbia la vista e riesco a sentire un lungo e distorto “L’ho chiesto a lui!” mentre precipito dolcemente nell’abisso. Quando riprendo conoscenza, vedo scarponi neri, divise verdi e le bocche delle armi. Anche il Rosso è steso al suolo vicino a me, la faccia contro il pavimento del rimorchio di un camion militare, abbiamo le mani legate dietro la schiena. Le costole fanno male, la testa gira e mi preoccupa non sapere dove siamo né quanto tempo è passato. Il treno è lì a fianco e si mette in movimento, si scuote prima di allontanarsi e se ne va senza di noi, 70 L’amico congelato tu-tum tu-tum tu-tum; nella cornice di un finestrino vedo, come se fosse un ritratto, lo sguardo di una bambina che vive nell’anno 19 e che ci osserva da sempre più lontano. “Faccia a terra!” mi ordina un soldato dandomi un calcio. La fronte contro il metallo, ci portano in camion fino a un accampamento militare. Lì ci fanno scendere dal rimorchio e, in fila con altri quattro detenuti, ci lasciano in cortile sotto il sole. È un cortile di terra, un piccolo campo da calcio, porte senza rete ai due lati e, in mezzo, sull’asta, ondeggia al vento la bandiera della Colombia. Così in alto, quella bandiera scolorita sembra la camicia di un impiccato lì da molto tempo. I soldati, schierati in file e imbracciando il fucile, iniziano a correre attorno al campo di calcio e cantano in coro al ritmo della marcia: Chi cade resta steso / chi vince ha sempre ragione / chi fugge ha perso per sempre / chi resta in piedi può ancora vincere...2 2 In spagnolo nell’originale. [N.d.T.] 71 Le mani legate dietro la schiena, ci portano nell’ufficio del comandante. Sfoggia dei grossi baffi neri, come se un corvo si fosse posato sopra le sue labbra. Seduto dietro una scrivania coperta da mucchi di fogli, il militare controlla i nostri passaporti e poi dice: “Juan Zapata Ovalle e Maribel Lima Arguedas, stranieri...” “Il mio amico è malato...” gli dico. “Dove state andando?” regge i nostri passaporti in una mano che sembra la zampa di un’iguana. “Stiamo andando da un medico, a un ospedale di Quito”. “E pensate di attraversate tutta la Colombia e poi l’Ecuador per arrivare fino a Quito?” “Sì, vogliamo fare il viaggio in treno.” Il comandante scoppia in una fragorosa risata. Sono sicura che non ci sia nessuno che desideri una carezza da quella mano. “Da nordest fino a sudovest, e in treno? Il suo amico non starà molto bene, ma anche Lei non 72 L’amico congelato scherza...” Mi restituisce i documenti e, arricciandosi il baffo da corvo con la punta delle dita, mi dice: “Se volete un consiglio, tornate a casa!” Poi ordina ai due soldati: “Oggi non passerà più nessun treno, portate questi due disgraziati fino alla strada.” Ci portano con una jeep americana nuova attraverso un paesaggio pieno di rovi e acacie. All’improvviso la jeep si ferma e ci ordinano di scendere. Mentre scendiamo, l’autista con il suo stivale nero dà un calcio nel petto al Rosso. “Non si sa mai” dice. E comincia a sparare con il mitra verso la foresta. Gli spari alterano la paziente esistenza vegetale di alberi, arbusti ed erba, e potrebbero aver eliminato qualche insetto e distrutto qualche nido d’uccello. Ci gettano la valigia praticamente addosso e se ne vanno, abbandonandoci in questo luogo dove fa un caldo soffocante. Dobbiamo trovare dell’acqua per lavarci o per lo meno ripulirci dal sangue. 73 Rimaniamo a lungo sul ciglio della strada, seduti sul nostro piccolo bagaglio, in attesa che passi un autobus o qualcosa che ci possa portar via da qui. In questo silenzio assoluto, sento un fischio continuo e strano, ma non è niente, è solo il silenzio, il silenzio trasformato in rumore dentro la mia testa. “Non senti questo suono?” chiedo a Goio. Il corpo dolorante, il fischio in testa e il Rosso che non dice una parola. La situazione è difficile ma, nonostante tutto, seduta all’ombra, penso a quanto è bella la vita, il paesaggio e l’aria stessa. Arriviamo a Barranquilla che ormai è buio e in un piccolo hotel per turisti troviamo una stanza dove passare la notte. Il nome dell’hotel, con la sua insegna al neon intermittente, ha un che di triste e strano: HAPPY DAYS 74 L’amico congelato Vicino a Barranquilla, a Rioquemado, vive la famiglia Urioste, di cui ho il telefono. Vennero in Colombia dopo la guerra e ci rimasero. Pare che il figlio maggiore sia medico e sia il direttore di una clinica. “Per favore, posso parlare con Jose Urioste?” dico al telefono. “È morto due anni fa. Ma se ha bisogno di qualcosa, io sono sua figlia Arantxa...” “In effetti, sì. Siamo a Barranquilla e abbiamo avuto qualche problema...” “Sei basca?” mi chiede in euskara. E, senza aspettare la mia conferma, mi propone: “Se vuoi puoi venire qui, a casa nostra. Ti do l’indirizzo...” Mostro al tassista l’indirizzo scritto su un foglietto. Il taxi percorre la spiaggia fino alla città di Barranquilla, poi prende una superstrada ed esce sei o sette chilometri più avanti. Barranquilla è situata su una collina tra il fiume Magdalena e l’Atlantico e, attraversata in taxi, sembra un caotico labirinto urbano, con strade in cui si incrociano 75 automobili moderne con carretti carichi di erba trascinati dagli asini. “Qua, a destra” dice il tassista. Adesso imbocchiamo altre strade, tra quartieri di povere baracche e case mai finite. “Adesso a sinistra” dice. Leggo un vecchio cartello della United Fruit Company che ci lasciamo alle spalle. Si sente il ticchettio del tassametro tictac tictac. “Adesso si chiama Chiquita Brands International” dice il tassista, guardando dallo specchietto retrovisore il Rosso seduto dietro. “Cosa?” chiedo io. “Dicevo che la vecchia United Fruit Company adesso ci chiama Chiquita Brands International”. E ci indica il cartello che ci siamo lasciati alle spalle. Acacie, rovi, edifici. Sulla parete, una grande scritta di lettere sgocciolanti per la troppa pittura: 76 L’amico congelato “Adesso di nuovo a sinistra” dice il tassista, consultando il foglietto che ha appoggiato sulla coscia. La strada asfaltata risale la collina fino a un arco di pietra con un grande cancello di ferro che chiude l’entrata. “Questo è Rioquemado” dice il tassista. Si apre il cancello e compaiono due persone. “Buon giorno, sono Arantxa e voi dovete essere i baschi...” dice la donna in una lingua basca con un marcato accento dialettale. “Io sono Imanol” si presenta l’uomo, con la stessa peculiare cadenza. “Entriamo, se volete” dice Arantxa. Prendo la valigia, pago il taxi e, oltrepassato l’arco, risaliamo lungo un sentiero in compagnia di Arantxa e Imanol. “Siamo fratelli” dice Imanol in spagnolo. “Anche se Arantxa è molto più bella di me, ci hanno fatto con lo stesso stampo.” Compaiono due pastori tedeschi che scendono correndo verso di noi. 77 “Come va nel Paese Basco?” chiede Arantxa. “Sono molti anni che ce ne siamo andati dal Pese Basco” le rispondo. “Il mio amico è malato e siamo in cerca d’aiuto.” “Se siete baschi, non vi faremo altre domande. Questa è casa vostra...” dice Arantxa, accentuando la sua inflessione dialettale. In cima alla collina c’è un grande casa che ricorda un casale basco, fiancheggiata da un’alta palma. È un ampio edificio a due piani, dalle grosse pareti di pietra e un tetto rosso a due spioventi. Entriamo da una grande porta e raggiungiamo una sala camminando su un tappeto bianco che sembra di pelle di agnello; ci saranno volute almeno una sessantina di pelli cucite l’una all’altra per realizzare un tappeto di queste dimensioni. Ci sediamo attorno a un tavolo rotondo di vetro, un po’ sorpresi dal posto, il caminetto, una tigre imbalsamata, i lari del fuoco, il pacchetto di Marlboro, il mantice, un videoregistratore Betamax, tutto confuso in un evidente disordine. Imanol mi mostra una bottiglia. 78 L’amico congelato “Gin colombiano, gradite?” Gli dico di no. “Nostro padre lo chiamava spirito” dice Imanol. “Mi piace berne un goccio...” E cominciamo a parlare di Goio, con Goio seduto accanto a noi, ma senza Goio. “La cosa migliore è ricoverarlo” decide Imanol. “Così potremo tenerlo sotto osservazione...” “E finché lui rimane in ospedale” aggiunge Arantxa che arriva con il caffè “tu, se vuoi, puoi rimanere qui”. “Preferirei restare vicino a lui.” E il caffè, preparato da Arantxa e servito fumante in tazzine sottili, è il miglior caffè che abbia mai bevuto. “Qui o là, avete una stanza e un rifugio dove stare finché vorrete” dice Arantxa. Sul tavolo vedo la foto di una bambina che ci guarda con un sorriso dolce. “È mia figlia” dice Arantxa con lo stesso sorriso della fotografia, “adesso è a scuola, fino al pomeriggio, ma vedrete come parla il basco.” “E voi, dove siete nati?” chiedo. 79 “Qui, in questa casa”, risponde Arantxa. “Ma anche se siamo nati in Colombia, siamo figli di nostro padre, Jose Urioste”, dice Imanol che si è acceso una Marlboro e sorseggia un gin con ghiaccio. “Dopo aver perso la guerra scappò e venne qui, dove siamo nati noi ed è in questa piccola Repubblica indipendente che ha costruito, cresciuto ed educato i suoi figli secondo la tradizione basca...” “Siamo cinque fratelli e parliamo tutti basco” aggiunge Arantxa. Arantxa è la figlia maggiore di Jose Urioste. Imanol, che continua a riempire la sala di fumo, è il figlio più piccolo ed è lui a continuare la conversazione. “Abbiamo imparato il basco, ma in realtà lo abbiamo sempre utilizzato come un idioma ermetico. Sai cosa intendo dire con ermetico? Ermetico è ciò che si chiude in modo tale da non permettere a una sostanza solida o liquida di fuoriuscire...” Arantxa fa un cenno impercettibile a Imanol, il quale per un momento tace, per poi riprendere: 80 L’amico congelato “Nostro padre ha sempre vissuto con l’intenzione di tornare, finché non è morto, due anni fa. “Noi accarezziamo ancora l’idea di tornare”, conferma Arantxa. “Dove, esattamente?” chiedo. Imanol mi risponde indicando il ritratto di Jose Urioste che ci guarda dalla parete: “L’Itaca di nostro padre era Orozko, in Bizkaia.” Salendo sulla macchina di Imanol per andare alla clinica, guardo con stupore la facciata della casa, le due finestre del piano superiore mi sembrano molto distanti una dall’altra, come gli occhi di un animale domestico. “Quelli che vengono da là dicono che, da fuori, sembra un vecchio casolare della zona del Gorbeia...” dice Arantxa. “Soprattutto per la palma” ironizza Imanol. 81 La clinica si trova a tre chilometri verso l’interno, sulle falde del monte, circondata da una recinzione di pietra. Il portiere ha alzato la sbarra ed entriamo nel parcheggio, c’è un bel giardino e una strada lastricata che sale fino all’edificio principale. Si vedono le macchie biancastre e fucsia delle buganvillee, i cactus e altri fiori che si muovono con il vento da una parte all’altra, qua e là alcune statue classiche di marmo, appoggiate su dei piedistalli, bianche, in posa meditativa. La clinica è un luogo di riposo, pare si occupino del trattamento di disturbi psichici. Imanol ce la mostra sala per sala e, se fuori è bianca, l’interno lo è ancora di più, corridoi bianchi, sale d’attesa bianche, camere bianche. Ci lavorano quattordici infermieri e sono ricoverati venti pazienti; vediamo le infermiere con i loro camici bianchi e i malati con gli occhi persi. Arantxa la chiama sempre clinica. Imanol dice un’altra cosa: “Lungo tutta la costa atlantica della Colombia, non c’è un manicomio migliore.” Il Rosso ci segue in assoluto silenzio, lo 82 L’amico congelato sguardo a terra, nella sua catalessi ambulante. Nei lunghi corridoi tirati a lucido risuona il rumore dei nostri passi e così procediamo lentamente, scriiih scriiih scriiih, per non fare rumore. “Questo corridoio, i pazienti lo chiamano Galleria dei Passi Smarriti” ci informa Imanol. Pranziamo tutti e quattro assieme. Imanol si è seduto al mio fianco e, dopo pranzo, torna sul tema dell’identità. “Tu sei basca naturale, allora” inizia Imanol quasi sottovoce, “dimmi cosa ne pensi di una famiglia che utilizza una lingua ermetica particolare. Nella nostra casa non si poteva parlare in spagnolo perché nostro padre ce lo proibiva. Poi siamo usciti da casa e ci siamo visti costretti a vivere in un altro mondo. Anche agli indigeni succede la stessa cosa nei quartieri di Medellín, Bogotà o di Cali, dove nascondono le cicatrici e i tatuaggi sotto gli abiti...” Mi ha lasciato di stucco dicendomi che io sono basca naturale, come se lui si considerasse un basco artificiale. L’aggettivo naturale mi ha riportato alla mente bambini selvaggi, cresciuti nella foresta senza una lingua e una cultura, come 83 quello di Aveyron. Penso che natura e cultura si contrappongano. “Tutti noi baschi siamo figli di una cultura” gli dico. Imanol rimane per un momento pensieroso prima di rispondermi: “Forse, ma nostro padre era evidentemente anatopistico”. Non capisco il significato della parola anatopistico, a meno che non abbia a che vedere con questi tremendi conti in sospeso che Imanol ha con il suo defunto padre. “Anatopistico è una parola simile ad anacronistico” mi chiarisce cogliendo lo stupore sul mio viso, “se anacronistico significa vivere fuori dal tempo, anatopistico significa vivere fuori da un luogo. Fisicamente sei qui, però vivi da un’altra parte. Nostro padre era un buon esempio di anatopismo...” Dalla tasca del camice bianco prende una bic a punta fine. È chiaro che ha esagerato con il gin. Disegna un quadrato, lo divide con una linea verticale e, tracciate due righe orizzontali, ne 84 L’amico congelato risultano sei spazi. Nella parte superiore a sinistra scrive Dove, a destra Quando. Poi, sbarra Dove e Quando e ci scrive sopra rispettivamente Spazio e Tempo, scarabocchiando. Sulla seconda linea, a sinistra scrive Eterotopia e, a destra, Eterocronia. “Nostro padre non viveva qui, viveva allo stesso tempo qui e in altri luoghi...” E colloca la punta della penna nel secondo riquadro a destra, indicando la parola eterocronia: “E viveva anche in epoche diverse, nel passato e nel futuro come nel presente, forse molto più che nel presente...” Adesso ha appoggiato la punta della penna sulla terza linea e dice: “Sai cos’è l’anacronismo?” E nella parte inferiore, a sinistra, scrive Anatopismo. Gli dico di sì, che essere anacronistico significa non corrispondere al proprio tempo, e mi vengono in mente i giochi di parole e la passione per i paradossi di Armando. “Perché nostro padre, oltre a vivere sfasato 85 rispetto alla cronologia...” E nel riquadro rimasto vuoto scrive Anacronismo. “Nostro padre viveva nell’anatopismo. Viveva in un palese equivoco topologico, ha sempre situato da un’altra parte l’asse della sua vita...” Goio è un vegetale, con quella testa che sembra un fiore rosso. “Ha seminato in noi il desiderio di tornare alla terra d’origine” continua Imanol, “questo bisogno di ritornare alla Itaca di Orozko, e qualunque psicoanalista ti spiegherebbe che si tratta del desiderio di recuperare la vita intrauterina...” “Ma, Imanol!” lo interrompe Arantxa seccata. “Annoierai la nostra amica con la tua retorica!” “No, no, è interessante” dico, un po’ in imbarazzo. “Non puoi ridurre tutto a questi semplici schemi e a una mezza dozzina di tue trovate,” dice una Arantxa infastidita da suo fratello, “con questa tua mania di voler razionalizzare tutto, non capisci nemmeno la metà delle cose che dici...” Siamo tutti un po’ nervosi e Imanol abbassa 86 L’amico congelato gli occhi sul tavolo alla ricerca di una Marlboro: “Sempre con questa storia di nostro padre!” continua Arantxa. “Mi fai uscire dai gangheri ogni volta che nomini nostro padre! Quando è morto ho pensato che questa tua ossessione sarebbe finita, ma continui con la stessa storia. Basta! Lascia che nostro padre riposi in pace, Jose Urioste è morto in pace e ci ha lasciato con e senza radici, ti avrà lasciato più o meno traumatizzato, ma adesso è questo ragazzo a essere malato...” “Sì, hai ragione” ammette Imanol senza discutere, rispondendo alla sgridata di sua sorella con un leggero sorriso. “Aiuteremo il nostro amico...” La discussione tra i due fratelli è stata repentina e spiacevole. Imanol prende Goio sottobraccio e se ne va con il mio amico dai capelli rossi senza parola né memoria né espressione alcuna, per la visita medica e per compilare i documenti per il ricovero. “Scusa” mi dice Arantxa quando rimaniamo sole. “Anche nelle famiglie basche si discute, no?” “Non ti immagini quanto!” dico mentre 87 camminiamo calpestando i fiori bianchi e fucsia delle buganvillee. Io e Arantxa usciamo a passeggiare in giardino. “Imanol ha sempre odiato nostro padre. Da quando ha iniziato ad andare a scuola fino al giorno in cui è morto. Forse perché lo amava troppo, lo ha anche tremendamente odiato. Quando stavamo aspettando tutti e cinque che gli facessero l’autopsia, con nostro padre steso sul lettino, è stato Imanol a scoppiare a piangere. Da allora ha iniziato a bere fino quasi a diventare alcolizzato... Immagino Jose Urioste nudo, il vecchio corpo pelle e ossa steso sulla barella, abbandonato dalla sua memoria e da tutte le idee, e i suoi cinque figli seduti attorno in attesa. E adesso è Arantxa che scoppia a piangere. Camminiamo per un po’ in silenzio e poi iniziamo a parlare dei fiori. “Questo mio padre lo chiamava in basco dantzalore, il fiore della danza” dice Arantxa mentre me ne indica uno a me sconosciuto. “Nel Paese Basco non ci sono questi fiori, 88 L’amico congelato vero?” “Non credo, è un fiore tropicale,” dice Arantxa. “In spagnolo ha un altro nome ma nostro padre lo chiamava dantzalore, sicuramente un nome inventato da lui.” “Un nome molto azzeccato, sembra proprio che stiano ballando.” Arantxa sorridendo guarda i dantzalore. “Vado a prendere Maialen, fra poco esce da scuola.” Arantxa va a prendere sua figlia e io resto sola in giardino. Continuo a passeggiare da una parte all’altra con il ricordo del sorriso di Arantxa e dei suoi occhi che sembrano irritati dalle ortiche, mentre ammiro i fiori e le statue classiche. Imanol compare all’improvviso, senza Goio: “Non mi piace questo wagnerismo scultoreo” mi dice. Si zittisce un attimo come se aspettasse la mia opinione, ma io non dico niente e lui prosegue: “I piedistalli di marmo, questa verticalità che si erge verso il cielo... un giorno o l’altro darò ordine di abbassare le statue, farò togliere i blocchi di 89 marmo che le sostengono in modo che rimangano all’altezza della gente che passeggia...” Passiamo all’interno, allo studio di Imanol. “E Goio?” gli chiedo. “Il tuo amico si trova nel quarto girone dell’inferno.” “Dove, scusa?” “Nel quarto girone dell’inferno” ripete Imanol. Poi apre un grosso libro che ha sulla scrivania e lo sfoglia finché trova qualcosa che mi indica con il dito. “Sono qui” dice. “Chi?” “E gridano nel fango...” dice Imanol. Si siede sul tavolo, le gambe penzoloni e inizia a recitare in italiano: Tristi fummo Ne l´aere dolce che dal sol s´allegra, Portando dentro accidoso fummo: Or ci attristiam nella belletta negra. “E questo lo cantano quasi gorgheggiando” 90 L’amico congelato dice Imanol nella sua peculiare lingua basca, “perché non possono pronunciare la parola intera...” È l’Inferno di Dante Alighieri e, quando lo lascia sulla scrivania, gli chiedo: “Non capisco. Perché non parla?” “Come dicono i logopedisti in un caso come questo”, mi spiega Imanol “è chiaro che fisiologicamente non può, intellettualmente non sa e psicologicamente non vuole. Ma se lo volesse, se veramente lo volesse, potrebbe e saprebbe farlo...” Seduto sulla scrivania, i suoi piedi si muovono come un pendolo da una parte all’altra, davanti a me. “Cosa vuoi dire, che potrebbe parlare e ci sta ingannando?” “No, no. È chiaro che non può parlare, che non sa cosa dire né come esprimerlo.” “Perché?” “Non sappiamo con esattezza come i processi neurobiologici del cervello producano la coscienza. Il cervello umano ha più di centomila milioni di neuroni, ognuno dei quali è unito sinotticamente con altri, sicuramente con molti altri. 91 E questa struttura estremamente complessa, si trova in uno spazio che è più piccolo di un pallone da calcio...” “Però hai detto che, se volesse, parlerebbe.” “Se volesse sì, ma tu non sai cos’è la volontà. La volontà è un fenomeno estremamente complesso...” Dormirò in una grande stanza. Ci sono nove letti, ma nessun altro passerà la notte in questa camera riservata agli ospiti di sesso femminile. Così come l’edificio è bianco all’esterno, bianchi sono anche i corridoi e le stanze, bianche le lenzuola e i cuscini. Mi sdraio e vedo che l’umidità ha scrostato la pittura del soffitto, lasciando allo scoperto il grigio del vecchio intonaco. Poi si sentono gli altoparlanti: “Si ricorda ai pazienti che è ora di spegnere le luci...” È un’affettuosa voce di donna, tipo quelle che si sentono sugli aerei e negli aeroporti, Si avvisano i signori passeggeri che il volo con destinazione... 92 L’amico congelato Spengo la luce ma non riesco a dormire per la salsedine e l’umidità che impregnano le lenzuola. Esco in corridoio, con le ciabatte in mano, cammino in punta di piedi per non fare rumore e mi infilo in una stanza dell’ala anteriore della clinica. È grande, intravedo i letti in fila e mi avvicino alla finestra. Sotto si vede il giardino e, giù in fondo, il portone d’entrata. Quando siamo arrivati non ho visto l’insegna al neon, a forma di arco, collocata sopra l’entrata. È un’insegna collocata per essere letta dall’esterno. Vedo anche per la prima volta l’alto muro di pietra; prima, passeggiando in giardino, non avevo notato che ci fosse un muro di tali dimensioni attorno alla residenza. Inizio a bere 93 l’aria della mezzanotte come se fosse l’acqua di un lago o di un ruscello. Chi respira, prima introduce l’aria nei polmoni e poi la espira, e dico di aver iniziato a bere l’aria perché la maggior parte la tengo dentro, come se fosse acqua, in modo che si espanda in tutto il mio corpo. Ma cosa ci faccio io qui? Benché sembri solitaria e vuota come la mia, questa non è la mia stanza e si direbbe che l’umanità dorma e che solo io sia sveglia in questo segreto mattino, sveglia e al posto di qualcuno, a contemplare la luna di sperma dei pazzi e ad ascoltare la litania insonne dei grilli durante la lunga notte. All’alba si sente di nuovo l’altoparlante. Mi alzo e mi rendo conto che anche gli specchi riflettono il biancore di queste sale chiuse. I pazienti hanno un orario preciso per alzarsi, mangiare e prendere le medicine, e camminano da una parte all’altra come se fossero dentro una bolla, con la staticità di chi non vuole farla scoppiare. 94 L’amico congelato Imanol mi accompagna attraverso la Galleria dei Passi Smarriti. “I pazienti sono tranquilli” commento. “Certo che sono tranquilli! Ai più agitati e fastidiosi applichiamo una terapia elettroconvulsiva...” Non so se scherza o se parla seriamente, ma in entrambi i casi mi sembra di un estremo cinismo. Mi porta da un ragazzo giovane che sta seduto. I suoi occhi sono sfuggenti e il suo viso non mostra nessuna espressività. “Jairo Jaramillo, soffre di anamnesia” mi dice Imanol. Subito Jairo ripete le stesse parole, Jairo Jaramillo, soffre di anamnesia. Ha gli occhi scuri e sembra che ricordi tutto. “Faremo una prova” mi dice Imanol. “Digli dei numeri, molti...” E mi dà un pezzo di carta per prenderne nota. “27493728920257163927”, dico. Imanol accende una Marlboro e la dà a 95 Jairo. “Adesso fai quindici nomi di città”, mi propone di nuovo Imanol. “Valparaiso, Liverpool, Beirut, Los Angeles, Maputo...” recito. Adesso devo dire delle lettere e scrivo una lunga lista sullo stesso foglietto. Le lettere, sedici o diciassette in totale, le devo leggere. Jairo si è portato la sigaretta alle labbra, riempie i polmoni di fumo, lo soffia fuori dalle narici e comincia a rispondere: “27493728920257163927.” Incredula, verifico la lista dei numeri scritta sul foglietto. Ripete anche i nomi delle città senza errori. E la lista di lettere senza senso, esattamente uguale. Mi rendo conto che Jairo Jaramillo registra assolutamente tutto nella memoria ed è capace di ripetere qualunque cosa. “Ma racconta alla signora che cosa ti succede con i visi” gli chiede Imanol. Allora Jairo si toglie la sigaretta della bocca: “Non riconosco la faccia delle persone, non 96 L’amico congelato riesco a distinguere i visi. Domani ti vedrò di nuovo e probabilmente non ti riconoscerò...” Inquieto ha portato la sigaretta al posacenere, dà un colpetto tac con l’anulare: “Nemmeno il signor dottore, non pensare che lo riconosca sempre.” E, muovendo i suoi occhi lenti come due lumaconi, dice con la più grande tristezza del mondo: “È molto difficile riconoscere le facce, tremendamente difficile. Le caratteristiche dei visi cambiano. È sufficiente sorridere perché l’intero viso si deformi e mi confonda. La mente si aggroviglia. L’altro giorno sono addirittura svenuto, guardando delle facce...” Lasciamo Jairo. Io e Imanol andiamo in giardino passando dalla Galleria dei Passi Smarriti, tra le buganvillee e i dantzalore, tra le statue bianche. “Non credere che una buona memoria, sia come un bel palazzo. Alla fine Ireneo aveva ragione, la memoria della maggior parte della gente non è che un mucchio di rifiuti...” 97 Sta facendo buio e scendiamo lungo una stradina selciata. “Perché la vita abbia un senso,” continua Imanol, “bisogna ricordare il più possibile e anche dimenticare tutto quel che si può.” E, pensando a Goio, mi passa la voglia di continuare a parlare: “In qualunque caso,” dice lo stesso Imanol, “tutti abbiamo una memoria limitata, perché non sappiamo cosa succederà domani...” “Vediamo se indovini che lettera è questa...” dice Imanol. Mi ha offerto un metodo per imparare l’alfabeto muto. Con Goio non è sufficiente la relazione abituale tra amici, non sono sufficienti gli strumenti linguistici, forse ho bisogno di una comunicazione più semplice. Guardando la sequenza di immagini del libro mi rendo conto, immediatamente, che Imanol sta facendo con la mano la lettera t. I giochi di parole di Imanol mi ricordano 98 L’amico congelato quelli di Josu. Ieri mi ha parlato di un tal Ireneo, poi mi dice che siamo esseri dalla scarsa memoria, che non ricordiamo né prevediamo il futuro, perché non siamo in grado di sceglierlo né di costruirlo. Ho deciso di andarmene da qui. Lascerò Goio in clinica e continuerò da sola il viaggio fino a casa di Andoni, e così lo comunico a Goio. “Domani me ne vado, Goio, ti lascio solo ma per poco tempo...” È in compagnia di un’infermiera. Stanno facendo degli esercizi in una sala bianca. Mi siedo ma sono troppo lontana per poter sentire quello che dicono, Goio e l’infermiera sono come due mimi e posso solo immaginare gli ordini dell’infermiera... Aprire gli occhi, sollevare il viso, puntare lo sguardo di fronte, il più lontano possibile, senza prestare attenzione alla prima impressione. Poi, sollevare la mano davanti agli occhi, sfregarli con i pugni, abbassare le braccia, guardare di nuovo, ricordare le cose che sono rimaste fuori quando è stata costruita la parete, e non credere nemmeno a questa seconda impressione. Allora, guardare attorno, analizzare bene tutto, cercare uscite, 99 e non accontentarsi nemmeno di questa terza impressione. Alzarsi, avvicinarsi alla porta, rendersi conto che l’aria entra da sotto, sforzarsi di sentire i rumori dell’esterno, afferrare la maniglia con la mano, ma non accettare neanche la quarta impressione. Allora, di nuovo sulla porta, girare la maniglia, provarci di nuovo ma con più forza, per verificare che non si apre, bussare alla porta toc toc e aspettare, questa è la quinta impressione. La sesta impressione consiste nello scuotere la porta fino a scardinarla, rompere la serratura, perché bisogna buttar giù la porta per poter passare. E l’ultima è uscire, fare un passo e, la settima impressione, ritrovarsi solo per strada. Goio è ancora alla prima o alla seconda impressione. Aprire gli occhi, sollevare il viso, guardare dritto davanti a sé, alzare le mani all’altezza degli occhi, strofinarsi gli occhi con i pugni, abbassare le braccia, guardare di nuovo... “Ti lascio qui” gli dico, “ma tornerò presto.” Goio ha aperto le mani sopra la testa, poi le guarda e una lacrima scivola a zigzag giù per la 100 L’amico congelato guancia. Mi aspetto una sua parola, una battuta, una minima reazione, ma non dice niente. Nel suo vuoto sacco di parole, tutta la sua retorica consiste in alcuni gesti impossibili da decifrare. Sembra un corpo su un molo, in attesa di partire per un lungo viaggio, in attesa di una nave naufragata da tempo. Sono sola nel dormitorio, una stanza con nove letti vuoti. C’è odore di immondizia bruciata, di libri umidi o di acqua putrida. Non riesco a dormire e inizio a rendermi conto che, con il passare del tempo, l’impossibilità di dormire diventa molto onirica. Chiudo gli occhi e ricordo i visi, sbiaditi, con sorrisi dubbiosi e senza risposta. La tensione simmetrica delle guance di Jairo, Josu corrucciato e sorridente, il viso di Imanol che assomiglia al ritratto di Jose Urioste, l’ospitalità degli occhi sofferenti di Arantxa, il viso color terra del cipote di Bluefields, il baffo da corvo del comandante, il gesso sotto i capelli di fuoco di Goio e, così come mi appaiono, si cancellano come se una mano sollecita li avesse fatti sparire con un panno nero, di quelli che si usano per pulire 101 i vetri appannati della macchina. Alla fine sempre lo stesso, nell’aprire gli occhi e guardare la parete vedrai te stessa. Perché la vita è una lunga insonnia. La mattina successiva parto per Quito. Lascerò qui Goio, come un vagone staccatosi dalla vita. Alle otto del mattino, prima di andarmene, mi avvicino alla stanza di Goio per salutarlo. “Come sta?” chiedo all’infermiera. “Molto bene, adesso dorme.” Nella stanza bianca, tra lenzuola bianche e sul cuscino bianco, risaltano i suoi capelli rossi. “Molto bene?” Come se dormire equivalesse a star bene. Qualcuno comincia a muoversi per i corridoi: infermieri e qualche degente. I pazienti sono tranquilli, come il loro stesso nome indica, per i più nervosi e molesti esistono terapie d’urto nel biancore austero del centro ospedaliero. Così, dal mattino presto, tutti i pazienti si svegliano, si alzano e iniziano a camminare, nella solitudine, ognuno chiuso nella propria parentesi. 102 L’amico congelato 103 4 GIOCARE A BASCHI E GUARDIA CIVIL Uscì da casa di corsa. Nelle luminose mattine di agosto, i ragazzi di Kalaportu lasciavano le loro case e, con la barca del padre di Juan Bautista o di qualcun altro, uscivano in mare, anche se non oltrepassavano mai l’ultimo braccio del porto. “Avanti tutta!” gridava Juan Bautista, in piedi a poppa, afferrando forte il timone. L’acqua faceva spla splaff contro la chiglia della prua, un suono simile a quello di un foglio che si accartoccia. Partivano dal molo e si dirigevano verso l’uscita del porto, però non andavano a Ondarru o a Bilbao ma solo fino all’angolo di Harrizorrotzeta, oppure in direzione contraria e, oltrepassato Kaioarri, arrivavano fino alla spiaggia, sognando di raggiungere, un giorno, Getaria o Hondarribia. 104 L’amico congelato A volte si imbarcavano di nascosto, per evitare l’umiliazione di dover obbedire alla voce dei genitori che li richiamavano dalla terraferma. Uscivano in mare con una scialuppa e navigavano il più nascosti possibile. A volte si dedicavano a pescare, lanciavano il filo con l’amo e passavano il tempo a imparare il mestiere del padre e del nonno. “Abboccano, abboccano” diceva Goio, imitando i suoi amici e i pescatori quando sentiva il bruciore del filo tra le dita. E, quando vedeva gli occhi di un pesce sopra la superficie dell’acqua, mormorava tra i denti: Ti ho preso. “Tiralo fuori!” gli gridavano. Quando cercava di tirarlo fuori, il pesce swishh si sfilava e, la maggior parte delle volte, gli scappava. “Con quella chioma rossa, tu i pesci li spaventi!” diceva Juan Bautista a Goio. “Quando cominci a tirare il filo, non vedi che gli occhi del pesce ti stanno guardando?” Poi, con sei o sette pesci nella cesta, passavano remando vicino alla riva da una punta 105 all’altra della spiaggia, davanti ai bagnanti che si abbronzavano, alle ragazze dai corpi ramati sdraiate sulla sabbia con gli occhi chiusi a guardare il sole ma che, al vedere la barca, alzavano lo sguardo. Una volta, raggiunta la spiaggia, Agustin disse: “Scommetto che non sapete l’ultima...” “Racconta!” “Dai, cosa aspetti?” E dopo aver creato un po’ di suspense con il suo silenzio, avrebbe detto: “A quanto pare, il prossimo anno scolastico avremo una professoressa che viene proprio dalla Francia ad insegnarci il francese...” Ad eccezione di Juan Bautista, tutti gli altri andavano a scuola e stavano per iniziare l’ultimo anno. Juan Bautista aveva un anno più di loro e aveva lasciato gli studi perché l’avevano espulso quando stava ripetendo la terza; aspettava di compiere sedici anni per poter iniziare a lavorare con suo padre sul peschereccio. Juan Bautista sapeva una cosa che Goio 106 L’amico congelato non avrebbe mai imparato a scuola, sapeva fischiare come i filibustieri, così lo chiamava lui, stile filibustiere, quattro dita in bocca, piegare la lingua e soffiare con forza: Fffhhiiu fffhhiiu... Era un fischio che spaventava anche i gabbiani. Juan Bautista, invece, sosteneva che attirasse i pesci e tutti i ragazzi di Kalaportu volevano imparare a fischiare in quel modo, cercavano inutilmente di imitarlo ma, con le dita sopra o sotto la lingua e torcendola in mille modi, ottenevano solo dei lamentevoli soffi. Che comunque erano sufficienti per allontanare i gabbiani. Quell’estate Juan Bautista era ciecamente innamorato. Si era preso una bella cotta per una di quelle graziose villeggianti bionde e sciocche di Bilbao e, con o senza barca, il suo obiettivo ultimo era sempre la spiaggia. “Sono già in spiaggia con la chiglia verso l’alto”, diceva. Le ragazze, sdraiate al sole sui loro asciugamani, si abbronzavano cuocendosi con sudore e creme. 107 I ragazzi della scialuppa, intanto, giocavano anche “A prendere la schiuma” e, uno dopo l’altro, si tuffavano a dritta. “A prendere la schiuma” si gridavano l’un l’altro. Prima che svanisse la schiuma provocata dal tuffo anteriore bisognava saltare, passare sotto la chiglia della scialuppa, risalire il più rapidamente possibile a babordo e tuffarsi di nuovo a dritta prima che sparisse la schiuma dell’onda successiva, ciuf! Qualcuno si tuffava a testa in giù, oppure facendo capriole in aria, qualcun altro si prendeva una spanciata tremenda, i più paurosi si tuffavano in piedi tappandosi il naso con le dita. Poi, seduti in barca per riprendere fiato, bisognava pensare a come avvicinarsi alle ragazze che parlottavano e ridevano con la chiglia verso l’alto, mentre prendevano il sole in spiaggia. Ma con la barca era più facile. Allora, ragazzi, ci portate a fare un giro, avrebbero chiesto loro le figlie dei villeggianti di Bilbao e di Madrid, sedute sulla sabbia, con lo splendore appena ricevuto in regalo dal sole e 108 L’amico congelato dalla Nivea. L’inverno, che sarebbe giunto dopo l’estate che stava finendo, avrebbe cancellato quella luminosità dai loro corpi, ma per il momento era ancora estate, in spiaggia c’era afa e la sabbia era disseminata di rifiuti lasciati dai bagnanti. Lattine colorate, bottiglie vuote, bianchi piatti di plastica, infilati nella sabbia come mezze lune. E com’erano morbide e inavvicinabili le mani di quelle ragazze! Era bello il loro passeggiare sulla spiaggia, perché la brezza incollava gli abiti ai loro corpi, oppure sollevava loro le gonne. Camminavano come fossero spinte dal vento e le loro cosce abbronzate e nude erano stupende quando il vento le lasciava allo scoperto. Benché sembrasse che fosse il vento a sollevar loro le gonne seguendo il ritmo dei loro passi, talvolta erano loro stesse a farlo. Mi applichi la lozione? Parlavano così. E a volte la forte ma tremante mano di qualche figlio di pescatore spalmava quella crema. Tuttavia la maggioranza dei ragazzi tornava a 109 casa bruciata dal sole e con il cuore in tumulto, innamorata, pensando a come avvicinarsi a una di loro. Era difficile passare dagli sguardi alle parole, dalle parole al tenersi per mano, dal tenersi per mano al baciarsi e dai baci al toccarsi. Le faccende di sesso erano ancora proibite e quei ragazzini di quattordici-quindici anni non potevano fare molto i bulli con le ragazze, perché avevano un corpo ancora acerbo e sgraziato. In spiaggia c’erano ragazzi ben più grandi e più robusti di loro, giovanotti che passeggiavano tra quelle villeggianti con spavalderia, con il passo della domenica. “E dove pensate di portarle, mocciosi, se avete un’acciuga ancora piccola piccola...” Dal porto nuovo si vedeva un pezzo di spiaggia e Goio cercava di rimanere nascosto a guardare le ragazze. La madre di Goio si guadagnava da vivere proprio su quel molo nuovo. Aveva lavorato anche nella fabbrica di ghiaccio, ma adesso si dedicava ad aggiustare le reti e rimaneva al porto dalle nove del mattino fino all’una e dalle tre del pomeriggio 110 L’amico congelato fino alle sei, con altre sei, sette donne, seduta su una piccola sedia vicino alle grandi reti, con un ago di plastica e dei fili grossi, a cucire le reti utilizzate dai pescatori in mare. Le cucitrici di reti avevano sempre la radio accesa, in spagnolo, benché loro parlassero in basco di questo e di quello; il notiziario le informava di un terribile terremoto in Turchia che aveva distrutto varie città e che nel Biafra la guerra continuava. Il filo deve essere più lungo dell’ago, e lascia che il ragazzo si diverta, si dicevano l’un l’altra. Dopo dieci anni dalla morte di Marilyn Monroe alcuni aspetti dell’accaduto non erano ancora stati chiariti. Cose di questo tipo! Sembrava che la Germania avesse una buona squadra per i Mondiali di calcio. Com’è difficile dover sempre combattere con il tempo. Si poteva ascoltare anche la pubblicità dell’aspirina: Il dolore è passato di moda. Poi il romanzo radiofonico, durante il quale rimanevano in silenzio per non perdere nemmeno una parola della scrittrice Corín Tellado. Goio si avvicinò e si sedette vicino alle reti. Ne osservò una: ad un estremo c’era il sughero e 111 all’altro il piombo. Di lì a poco sarebbero arrivati i pescatori per ricaricarla, una volta aggiustata, sul peschereccio. Allora sua madre gli disse: “Hanno ucciso un guardia civil a Bilbao e non voglio vederti in giro per strada.” “Perché?” “Perché cosa?” “Perché lo hanno ucciso?” “E io che ne so! Perché sì!” Con le prime luci del giorno dopo, sulla parete del cantiere navale apparve una scritta a grandi lettere rosse: Agli angoli delle strade comparvero dei volantini, fogli ciclostilati scritti da una parte in 112 L’amico congelato basco e dall’altra in spagnolo, e le jeep verdi della Guardia Civil iniziarono a pattugliare su e giù tutto il paese. Al pomeriggio quasi tutto il gruppo si riunì ad Harriandi, otto amici arrivati lì con l’intenzione di uscire in mare. Ma Juan Bautista non era riuscito a farsi dare la barca e per nuotare c’erano onde troppo alte. “Giochiamo a guardia civil e baschi?” propose qualcuno. “E che gioco è?” “Che gioco vuoi che sia! Come a guardie e ladri.” Juan Bautista e Agustin, a sorteggio per chi iniziava, scelsero i gruppi. Una volta costituiti i gruppi, si sorteggiarono i guardia civil e i baschi. “Il capitano dei guardia civil!” si burlarono di Juan Bautista. “Che sfiga!” esclamò. A Goio, scelto da Agustin, toccò fare il basco. I guardia civil dovevano rimanere in caserma e 113 contare fino a venti, poi il capitano avrebbe ordinato: “Adesso, prendeteli!” E si sarebbero avviati alla caccia dei baschi. Goio scese tra gli scogli fino a una stretta grotta nascosta nel precipizio di fronte al mare e si sedette in quel luogo che chiamavano Uradario. Quando i guardia civil catturavano un basco, lo portavano in caserma e il prigioniero non poteva abbandonare l’angusto spazio di quella cella, ma se un basco libero riusciva a toccare un basco prigioniero, quest’ultimo riacquistava la sua libertà. Il gioco finiva quando i guardia civil catturavano tutti i baschi. Poi avrebbero potuto giocare al contrario: i baschi davano la caccia ai guardia civil. Goio rimase tranquillamente seduto nel rifugio di Uradario. Accese una sigaretta e, dopo una lunga boccata, guardando le onde del mare, riempì i vuoti dell’aria, creando agnelli dal pelo bianco che pascolavano in un prato scuro. I ruoli erano già stati assegnati e i ragazzini, facendo il guardia civil o il basco, si iniziavano alla vita; alcuni di loro, ancora indecisi, interpretavano un ruolo o l’altro e, da allora in poi, il gioco non sarebbe più 114 L’amico congelato finito. I ragazzi non sapevano ancora che un giorno gli spari sarebbero stati veri, gli arresti di una crudeltà indescrivibile e le detenzioni terribilmente lunghe e dure. E che chi muore, muore per sempre. Non trovarono Goio da nessuna parte e i guardia civil di Juan Bautista non riuscirono a catturare tutti: a un certo punto si stufarono. Non furono in grado di prendere nemmeno Agustin, che però non era rimasto nascosto e aveva liberato i prigionieri in diverse occasioni. Andarono avanti così finché un acquazzone offrì loro la scusa per abbandonare il gioco. Quando Goio uscì dal suo nascondiglio, li trovò tutti rifugiati e seduti dentro il vecchio bunker di Harriandi. “Sei veramente un figlio di puttana! Dove ti eri nascosto?” disse Juan Bautista. “Nelbucodovesiperselindiano!” disse uno vedendo che Goio rimaneva zitto. “A Txepetxabi?” chiese un altro. Fumavano sigarette Celtas senza filtro e il fumo intiepidiva l’aria in quello scuro spazio di cemento. 115 “Sapete cos’è questo?” chiese Agustin. “Un bunker, cosa vuoi che sia!” disse uno. Juan Bautista spiegò che, durante la guerra, quella era una postazione protetta per sparare verso il mare, un bunker eretto nel luogo dove prima c’era il vecchio osservatorio del mare. “E quelli di casa tua da che parte stavano durante la guerra?” chiese Agustin a Goio. “Non lo so.” La guerra era qualcosa che si vedeva al cinema e, più o meno in un’ora, i buoni vincevano e uccidevano tutti i nemici senza lasciarne vivo nemmeno uno. Al cinema, i buoni li riconoscevi subito, ancora prima che facessero qualcosa, ma fuori dal cinema non era così facile distinguerli. “Qualcosa saranno stati, no? Carlisti, o falangisti, o nazionalisti, o repubblicani...” “Mio padre era repubblicano ed è morto in guerra” disse Goio, con l’incoscienza con cui a quell’età si dicono alcune bugie, senza valutarne l’importanza. “Che bugiardo!” disse qualcuno e tutti iniziarono a scherzarlo. 116 L’amico congelato “Vent’anni dopo essere morto in guerra è tornato per scoparsi tua madre!” Tutti scoppiarono a ridere. Goio, rosso di vergogna, fece il gesto di colpire Agustin. Uno dei compagni fece segno di tacere: “Ziiiiiiitti, arrivano i verdi...!” avvisò. E subito dopo sulla porta del bunker comparvero quattro guardia civil, mantelli verdi, cappello di vernice e il fucile sottobraccio. Grondanti di pioggia, si guardarono in giro e dissero: “Cosa fate qui, ragazzi?” I ragazzi si sentirono di colpo in trappola, divennero molto nervosi, senza avere il tempo nemmeno di spegnere le sigarette, come se li avessero sorpresi a fare qualcosa di proibito. “Se non dite niente, penseremo che state nascondendo qualcosa”, ma nessuno osò rispondere. Erano come frastornati, non potevano parlare. I guardia civil erano appena sbarbati, le loro teste di vernice bagnata brillavano, i fucili che mostravano sotto il mantello erano molto lunghi e gli anfibi che portavano ai piedi molto neri. “Che non vi venga in mente di cospirare.” 117 Così dissero e proseguirono sotto la pioggia lungo il vecchio sentiero della costa dei carabinieri. “Te la sei fatta sotto dalla paura, eh?” disse poi Juan Bautista. “No” rispose Goio. “Io invece sì...” aggiunse ridendo. Agustin gli ordinò di tacere. “Se ne sono andati i cappellistorti?” “Sì.” “Sicuro? Non saranno rimasti qui attorno a vigilare?” “No, guardali là sotto, tutti e quattro...” “Allora dovremo fare un giuramento di sangue.” “Cosa?” Agustin propose di fare un patto di sangue come gli indiani nei film. “Uniamo il nostro sangue e da questo momento in poi saremo amici per sempre.” “E dobbiamo di nuovo farci uscire il sangue?” si lamentò Esteban. Con il coltello di Juan Bautista si fecero un taglietto e unirono le loro mani, rimasero in silenzio 118 L’amico congelato perché a nessuno veniva in mente una di quelle frasi solenni con cui nei film si sigilla il patto ma, anche se gli avessero tagliato le dita delle mani una ad una, non avrebbero mai tradito gli amici. Non era la prima volta, anche in altre occasioni avevano fatto giuramenti di sangue e sapevano che, come prova di amicizia, a continuazione ognuno avrebbe dovuto rivelare un segreto personale. “Abbiamo fatto il giuramento e adesso inizieremo con le domande e, se qualcuno mente, che muoia fulminato!” Furono le parole di Agustin e toccò a lui rispondere alla prima domanda: “Qual è l’ultima cosa strana che hai saputo?” “Che, siccome Mesie Nomonsieur se n’è andato, l’anno prossimo verrà una vera francese.” “Questo lo sapevamo.” “Anch’io lo sapevo.” “Io invece no.” “Nemmeno io.” Poi chiesero a Juan Bautista: “Hai scopato davvero qualche volta, o vai in giro a fare lo sbruffone?” 119 Confessò che tutto quello che aveva detto, ciò che aveva fatto o non fatto con la ragazza bionda o con qualunque altra, nella maggior parte dei casi erano balle: aveva visto alcune cose, a una ragazza aveva toccato una tetta, a un’altra aveva dato un bacio, ma tutto il resto era una gigantesca palla. “Scopare, scopare veramente, no...” Juan Bautista non disse altro e, in quell’oscurità, sembrava una statua di gesso non ancora dipinta. Poi, Agustin chiese a Goio, che nel cerchio era il successivo: “E tuo padre dov’è?” “Mio padre vive in Inghilterra.” Per un attimo tutti rimasero in silenzio ma, poco convinti della risposta di Goio, gli domandarono: “E perché hai il cognome di tua madre?” A Goio, pieno di vergogna e umiliato, sembrò che la lingua gli facesse un nodo in gola: una statua di gesso dai capelli rossi. 120 L’amico congelato Quella notte si svegliò e, sentendo rumori e sospiri, si avvicinò alla stanza di sua madre. Aprì la porta, accese la luce e vide un uomo nudo a letto sopra sua madre. Quasi accecato dalla luce, intravide gli occhi sorpresi di lei: “Cosa ti succede, mamma?” disse con voce rotta. “Spegni la luce e vai subito in camera tua!” Goio ritornò a letto, nervoso. Il mattino dopo, aprì la porta della sua camera e vide sua madre in cucina che preparava il caffè. Aveva le guance rosse e gli sembrò più bella del solito. La tavola era apparecchiata, il latte caldo nelle scodelle, lo zucchero; si avvicinò per sedersi ma contò tre tazze, tre cucchiai e, invece di sedersi, andò alla finestra senza dire niente. Aspettò girandole la schiena. Seppe, senza nemmeno guardare, che l’uomo si era seduto davanti al suo piatto. E quando capì, sempre senza guardare, che anche sua madre si era seduta a tavola, allora Goio tornò in camera sua. “Dove vai?” chiese sua madre. Goio non rispose e si infilò in bagno. 121 “È ora di colazione, Goio. Vieni a tavola!” Goio rimase a lungo in bagno. Uscì con un asciugamano al collo. “Non voglio fare colazione, non ho fame!” disse, benché fosse affamato. “Che tu faccia colazione o no, per lo meno vieni a tavola.” Si sedette, prese il cucchiaio in mano e con la punta iniziò a ripassare il bordo dei fiori della tovaglia. Ogni volta che l’uomo alzava la tazza per avvicinarla alle labbra e beveva il caffelatte sorseggiandolo, Goio premeva forte il cucchiaio contro i fiori stampati sulla tela cerata. L’uomo bevve tutto il contenuto della tazza e poi ci introdusse il cucchiaio per raccogliere i rimasugli di zucchero; lo leccò e, lasciatolo nella tazza vuota, appoggiò le sue mani di pescatore accanto al piatto e alla scodella. Sua madre si alzò e andò in cucina a prendere il pane che aveva dimenticato.Prese il coltello e tagliò tre grosse fette di pane. “Goio, quest’uomo è Andres,” disse mentre le distribuiva. 122 L’amico congelato Quando Goio vide la sua fetta di pane vicino alla tazza, infilò il cucchiaio nel caffelatte. Poi iniziò a soffiare, come se scottasse, ma era già abbastanza freddo e non fece altro che schizzare ovunque. “Il muto non ha bisogno di sprecare saliva...” disse Andres ridendo, pensando di attutire con una battuta la rabbia del ragazzo. Ma lui, lasciato il cucchiaio, si ritirò in camera sua, si sdraiò sul letto a pancia in giù e scoppiò a piangere. Poco dopo, la madre socchiuse la porta e gli disse: “Sabato prossimo andrai dai nonni.” Avrebbe preso l’autobus per Murelaga e sarebbe andato al casolare dove vivevano i suoi nonni. 123 5 L’AMICO CONGELATO Ognuno si muove dentro la propria parentesi, là ma anche qui. “Como posso arrivare a Pupuna?” chiedo in spagnolo a una donna che mi si avvicina sulla strada. La donna, senza fermarsi, mi risponde in uno spagnolo con accento quechua: “Con l’aiutino di Taita Diosito.” Mi fermo e le chiedo: “E chi è Taita Diosito?” Questa donna, che porta un enorme quipe sulla schiena e continua sulla sua strada senza fermarsi, mi risponde girando il corpo da una parte e alzando gli occhi al cielo: “Io, ka, non lo conosco, solo per sentito dire, però dicono che è uno di quelli che stanno lassù.” La donna con il suo cappellino e il quipe sulla 124 L’amico congelato schiena si allontana tip tip tip tip a passo leggero. Arrivo a casa di Andoni di notte. Busso alla porta, toc-toc, e intravedo subito un’ombra alla finestra. “C’è un posto per passare la notte?” chiedo in basco. “Ma certo!” mi rispondono dall’interno. “Sono Maribel” gli dico. “E Goio?” mi chiede mentre apre la porta e le braccia allo stesso tempo. “Non è potuto venire fin qua. Ti racconterò...” Entro, l’emozione ci rende entrambi un po’ nervosi. “E da queste parti come va, siete ancora vivi?” Così chiedo a quest’uomo di quarantadue anni, sorridente e con un certo humor nero, che mi risponde prontamente: “Vivi no, sepolti male.” Si siede ma si rialza subito: “Un caffettino?” “Sì.” Così Andoni va in cucina, ha i capelli grigi. 125 Lo trovo invecchiato. Ha detto “caffettino” e mi viene in mente la donnina con il suo cappellino e il suo quipino, con l’aiutino di Taita Diositino, che cammina a passettini. Con il diminutivo sembra che tutto sia più facile, più tollerabile, più lecito, più dolce. “Sei sposato, vero?” gli chiedo quando torna dopo aver messo il caffè sul fuoco. “Sì, con una quechua. È andata alla comunità della sua famiglia a passare una settimana. E tu, avrai dei figli, no?” “No. Perché pensi che dovrei averne?” “Nel ventre di una donna c’è sempre una culla.” “Una culla e anticoncezionali colorati.” Scoppiamo a ridere e chiedo di nuovo ad Andoni come vanno le cose da queste parti, anche se mi aveva già risposto prima con quel “sepolti male” che la mia curiosità ha già dimenticato. “Bene”, risponde stavolta. “E da quelle parti?” “Da quelle parti?” dico. “Quali?” “Nel posto dove vivi.” 126 L’amico congelato “Ah, bene, bene...” “E Goio non viene?” Gli dico che l’ho lasciato ricoverato nella clinica di Rioquemado. “Goio è stato mio compagno di scuola” dice, “abbiamo fatto un anno assieme. Da allora non ci siamo più visti. Quando vivevamo nel Paese Basco francese, avevamo avuto notizie uno dell’altro, avevo detto varie volte che lo conoscevo e pure lui che conosceva me ma, siccome vivevamo seminascosti, non ci siamo mai incontrati...” La relazione fra di loro è stata più breve di quanto pensassi. Ventisette anni fa, quando avevano quattordici anni, erano stati assieme nella stessa classe per nove mesi, da ottobre a giugno. “Questo accadde molto tempo fa,” dice Andoni, “da allora sono passate ventisette devastanti ere geologiche...” Sicuramente siamo tutti bambini del passato, Goio e Andoni, e anch’io sono una bambina di quei tempi; oggi persone mature, disperse, senza tracce dell’infanzia. “Sai una cosa, Maribel?” 127 “Cosa?” “Mi ha fatto molto piacere che tu sia venuta fin qua.” Ha portato il caffè fumante e sembra che voglia raccontarmi una storia. “Ti racconterò una storia kiowa.” “Kiowa?” “Non siamo forse tribù sorelle?” “Allora raccontamela...”, gli dico mentre bevo il caffè caldo e dolce come un abbraccio. “Quante uova hai mangiato?” dice Andoni. Per iniziare ha bisogno di un ritornello, alla nostra età è necessario, per poter raccontare favole senza vergognarsi. “Così iniziavano i racconti di mia nonna...” dice, “Quante uova hai mangiato?” “Mezza dozzina...” “C’era una volta” inizia a raccontare sorridente, “una famiglia kiowa. Una notte, rimasti soli in pianura, dentro la tenda di pelle di bisonte, i genitori erano affaccendati mentre il bambino dormiva. L’uomo, alla luce di un piccolo fuoco, stava preparando le frecce. Affilava la punta con una pietra, la raddrizzava schiacciandola tra i 128 L’amico congelato denti, poi la collocava nell’arco e controllava che fosse dritta. All’improvviso si rese conto che fuori dalla tenda c’era un animale o forse una persona. Senza smettere di lavorare disse a sua moglie, C’è qualcuno lì fuori, occupati del bambino, ma non avere paura, continueremo a parlare come se niente fosse. E dopo aver stretto l’affilata punta della freccia, la raddrizzò di nuovo schiacciandola tra i denti, la collocò nell’arco, mirò a destra e a sinistra, tranquillo e, come se si rivolgesse alla moglie, disse, So che sei lì fuori, sento i tuoi passi, sento i tuoi occhi sopra di me. Se sei kiowa, capirai cosa sto dicendo e mi dirai il tuo nome.” Andoni fa una breve pausa e poi continua: “Da fuori nessuno rispose e l’uomo fermò la freccia che stava provando da una parte e dall’altra. Poi la puntò contro la persona che si trovava fuori e la scagliò, l’affilata freccia si infilò diritta al centro del cuore del nemico...” “È una storia strana, no?” dico. Non mi è venuto in mente nient’altro, solo che è una storia strana, questo sì, e Andoni mi guarda con gli occhi spalancati, in attesa che io 129 dica qualcos’altro. “Non sono un’intellettuale capace di fare interpretazioni filosofiche” gli dico. “E vissero tutti felici e contenti.” Si sono fatte le ore piccole parlando e, quando inizio a sbadigliare, Andoni mi accompagna nella soffitta basca. Dormirò nella stanza che Andoni utilizza per tenerci i libri in basco e altri segreti. “Non è la mia camera” mi dice, “perché io dormo nell’altra, ma di giorno ci passo molto tempo ed è la stanza dove sogno.” Sulla parete ci sono i due gernika, il tempietto con l’albero e la distruzione illuminata da una lanterna, qualche disegno di Oteiza e di Ruiz Balerdi, lo scudo che rappresenta i sette territori baschi, riproduzioni dei quadri di Ameztoi e fotografie di Bilbao. Questa stanza non ha finestre ma, se le avesse, sarebbe sufficiente aprirle per vedere Bilbao, il paesaggio urbano di Santutxu e, se non fosse coperto dagli edifici, probabilmente si vedrebbe anche Otxarkoaga o forse qualche altro 130 L’amico congelato vivace quartiere periferico abitato e umano sulla collina. Questo mostrerebbe una finestra in questa stanza, chiusa o aperta. Dallo scaffale prendo un grosso libro, Tristes tropiques, Claude Lévi-Strauss, di L’Académie Française: un giovane indigeno dai capelli neri, con un pezzo di osso o di legno bianco al naso e un bastoncino di legno dal labbro alla fronte, fissa l’obiettivo, un indigeno che ci guarda intensamente. Lo lascio e ne prendo un altro, appoggiato orizzontalmente sopra gli altri volumi dello scaffale, è un libro di poesie e trovo due versi sottolineati in rosso: Nessuno sa dove si trovi il mio paese, lo cercano intristendosi di miopia... Al mattino mi alzo, mi vesto e, quando sto per infilare il piede, dentro la scarpa trovo uno scorpione nero. “Mi sono dimenticato di avvisarti” mi dice Andoni, “bisogna sempre controllare e svuotare 131 le scarpe, per togliere formiche, scarafaggi, scorpioni...” Andoni si occupa di ricerche di antropologia. “Da due anni lavoro con la gente dell’università di Quito. L’anno scorso siamo stati tutto l’anno in Amazzonia. “Cosa facevate?” “Abbiamo vissuto con una comunità indigena chiamata Shuar”. “Non ho mai sentito il nome Shuar.” “Sicuramente sono più conosciuti con il nome di Jíbaros”. “Sono cannibali?” “No, sono famosi perché rimpiccioliscono il cranio dei loro nemici” “E tu hai visto quelle teste rimpicciolite?” “Sì, alcune. Ma a noi interessava raccogliere dati di tipo linguistico.” “Raccogliere dati linguistici non deve essere difficile.” “È abbastanza complicato, invece. La parola non è un’etichetta che si può appiccicare a qualunque cosa, parlare significa utilizzare un’idea 132 L’amico congelato condivisa per esprimere e capire qualcosa e non credere sia facile arrivare alla stessa idea.” “Con le idee astratte non sarà facile, ma il nome degli oggetti non dev’essere così difficile da registrare...” “In alcuni casi sì. Per esempio, chiedi: come si dice coltello, utilizzando il dito per indicarlo, ed è probabile che non ti capiscano bene. Qualcuno guarderà il tuo dito indice, e ti dirà indice, altri forse capiranno che ti riferisci al metallo, altri allo strumento, altri penseranno affilato o, forse, pericoloso.” “Oppure non ti diranno niente.” “Succede anche questo,” ride Andoni. “Il modo di essere degli indigeni, sicuramente, assomiglia a quello del cinema slavo: il loro silenzio è più espressivo delle loro parole.” “Tornerai in Amazzonia?” “Sì, ma stavolta devo andarci da solo. Durante il viaggio precedente mi sono ammalato e sono rimasto con una tribù chiamati Nantu. Voglio tornare per verificare alcune cose che ho imparato da loro.” 133 “Cosa hai imparato da loro?” “Ti ho detto imparato, ma non so se davvero ho imparato qualcosa. Se qualcosa ho capito nei miei lavori di etnologia è quanto sia difficile in molti casi vedere quello che guardi.” “Mettiti gli occhiali!” gli dico. “Pur nutrendo grande curiosità, di solito impariamo solo quello che già sappiamo. Organizziamo il materiale nuovo in base ai nostri schemi, senza prendere in considerazione quel che non rientra nelle nostre conoscenze. Durante il tempo che sono rimasto con i Nantu, invece, alcuni dei miei schemi mentali sono saltati.” “Cos’è successo?” “Non so se è successo qualcosa. Con i Nantu non stavo lavorando e non avevo stabilito nessuna metodologia di relazione. Tra l’altro ero malato e avevo le allucinazioni. Anche adesso, quando lo ricordo, non sono sicuro che tutto sia davvero accaduto. Per questo voglio tornare, per chiarire queste cose.” Andoni, come se avesse trovato un altro dossier perso nei vecchi archivi della memoria, 134 L’amico congelato improvvisamente torna al tema di Goio: “Ma questo accadde ventisette anni fa, Maribel, agli inizi abissali del mondo. In questi anni è successo di tutto: piegamenti tettonici, eruzioni vulcaniche, glaciazioni. È successo di tutto da allora a oggi. Anche la materia di allora sarà ormai fossilizzata...” A mezzogiorno, mentre pranziamo con una scatoletta di tonno e del pane e beviamo una birra, Andoni mi spiega le differenze fra società fredde e calde. Le società primitive sono fredde, paragonate alle nostre calde società moderne. Funzionano come degli orologi, generano poco disordine, poco cambiamento e poca entropia, e la società si mantiene inalterata di generazione in generazione, praticamente senza storia. Le nostre società storiche, al contrario, si fondano sullo sfruttamento estremo come quello del sistema capitalista o della schiavitù e, come delle macchine a vapore, attivano pressione e forze terribili, ingiustizie e 135 ribellioni. L’ordine genera il disordine e il disordine un nuovo ordine con sempre maggior cambiamento ed entropia. Dopo pranzo Andoni mi porta tre libri, per mostrarmi il popolo Shuar. Li osservo, se è possibile osservare qualcuno in fotografia. “Ma vanno ancora in giro nudi?” gli faccio una semplice domanda. “Con un pezzo di tela sotto la pancia, finché i missionari non li copriranno con un lenzuolo...” Non vivono a lungo, la maggior parte di loro muoiono ancora bambini o comunque giovani. “Muoiono come le mosche” dice Andoni. “Che frase stupida, vero? Le mosche non muoiono come le persone, nei villaggi shuar le mosche si moltiplicano...” “E non hai fotografie dei Nantu?” “No.” “Qualcuno ha scritto qualcosa su di loro?” “Non credo.” “E tu vuoi scrivere qualcosa?” “Non so” mi risponde Andoni. “Tanto per cominciare vorrei sapere se davvero esistono. E 136 L’amico congelato allo stesso tempo verificare se anch’io esisto...” È il mio ultimo giorno a Pupuna. Domani andremo a Quito, assieme, perché Andoni deve passare dall’università, poi io proseguirò sola, in aereo da Quito a Managua, per tornare a casa, se la si può chiamare casa. Passata la mezzanotte, mi ritiro di nuovo nella soffitta basca, ma non ho voglia di andare a letto. Guardando le fotografie di Bilbao, mi rendo conto che sono ordinate nello spazio, Bilbao è proprio lì. Sullo scaffale c’è un altro mucchio di vecchie fotografie, con la data e il nome del luogo scritti a mano sul retro dallo stesso Andoni, le ordino cronologicamente mentre le guardo. Bizkaia durante il secolo XX, immagini della nostra calda storia entropica. L’aspetto della gente all’inizio del XX secolo è molto variegato. Assieme a scene di vita quotidiana di Bilbao, ci sono volti ritratti nelle zone delle miniere poco distanti dalla città e della zona di Arratia. I nostri antenati erano veramente freak. 137 Non ci sono dubbi che anche noi, con il nostro stile, saremo probabilmente molto strani, un po’ mostruosi, per i nostri discendenti. Cos’è quella cosa che cammina senza fermarsi mai? Era uno degli indovinelli di mia nonna e noi bambini dovevamo rispondere: il tempo. L’eternità, pertanto, è adesso la strada di questo viandante. Come in un gioco di pazienza, il tempo ci lascia abbondanti e piccole vestigia del passato, in modo che per noi sia possibile imbastire qualcosa con questo materiale, senza riuscire a completare niente ma con la speranza che questo mucchio di frammenti alla fine acquisisca un senso. Questo poco di senso è l’unica ricompensa o consolazione che ci lascia il passare del tempo. Prendo Tristes Tropiques di Claude LéviStrauss e mi si apre alla pagina 435: Surtout, on s´interroge; quest-on venu faire içi? Dans quel espoir? Á quelle fin? 138 L’amico congelato Al mattino successivo, all’aeroporto di Quito c’è una bolgia. Valigie, borse, gente. “È un peccato che Goio sia ammalato” mi dice Andoni. “Un’associazione scientifica americana ha bisogno di un infermiere diplomato per un viaggio.” “Un viaggio dove?” “All’Antartide.” “All’Antartide? E perché mai Goio dovrebbe andare al Polo Sud?” “Per fare un lungo viaggio.” All’aeroporto di Quito c’è tanta gente, che si abbraccia, che manda saluti, che piange mentre saluta, che ha occhi e orecchie impregnati di saluti. Noi, fedeli alla tradizione antisentimentale dei baschi, riempiamo di silenzi più che di parole le nostre conversazioni. “Perché chiamano questi luoghi Tristi Tropici?” gli chiedo poi sorridente. “Lo inventò un francese, per indicare che siamo lontani dalla vecchia Europa stanca e grigia” anche lui ride, mentre sulla pista si accende la turbina di un aereo. Il rumore del motore diventa assordante e, 139 anche se ho già iniziato ad allontanarmi, sento le sue parole: “Ed è vero. Qui, in questo vecchio e stanco Ecuador siamo lontani dalla vecchia, grigia e stanca Europa...” Così si congeda Andoni. Sull’aereo c’è uno schermo con la cartina dell’America e un’icona mobile segnala la nostra posizione. “Andiamo molto piano” dice il passeggero seduto accanto a me. “Quest’aereo ci metterà tre mesi per andare da Quito a Managua!” Arrivata a Managua, entro in casa senza bussare. So che non è buona educazione entrare in una casa senza bussare e, anche se è la tua, è sempre meglio farlo e utilizzare la chiave solo dopo aver verificato che in casa non ci sia nessuno. Entro e Armando ed io rimaniamo a guardarci, Armando è lì, la tenerezza della farina fine, mentre prepara il pane con il suo grembiule bianco, in questa attività di panificazione che a quanto pare è più importante 140 L’amico congelato della nostra guerra, e qui ci sono io e il mio bisogno di tornare a casa, con la borsa sulla spalla e la chiave in mano. Ma Armando è nervoso, ha iniziato a stringere e stropicciare il grembiule nello stesso istante in cui una ragazza nuda passa dalla camera al bagno. “Non so come spiegartelo” dice. Armando, che ha spiegazioni, interpretazioni e metafore per tutto, adesso non sa spiegare questa situazione. È la bella vicina india, quella che in cortile stendeva lenzuola bianche che sembravano onde. “Non devi spiegare niente, non c’è niente da interpretare, è tutto abbastanza chiaro...” Mi infilo nella stanza, raccolgo le scarpe e gli abiti della ragazza buttati a terra e li appoggio sul tavolo della cucina. Poi tolgo le lenzuola dal letto e ne faccio un mucchio che pure lascio sul tavolo. “Che lavi lei le lenzuola!” dico prima di rifugiarmi in camera. Una volta dentro mi sento ridicola come una caricatura, come un satellite artificiale, come 141 un vecchio straccio, come una cartolina turistica. Il libro è esattamente come l’avevo lasciato, aperto all’ingiù, sembra il tetto di un vecchio casolare basco. Lo prendo, lo sfoglio e, ovviamente, è ancora aperto alla frase le néant est structure constitutive de l´existant. Sembra che la ragazza non sia una grande lettrice. Guardo la parete e leggo una nuova frase, scritta con l’abituale calligrafia di Josu: La nostra patria è il tempo Cancellerei patria e scriverei condanna. La nostra condanna. Sarebbe patria se la morte non giungesse con la puntualità di un plotone d’esecuzione. Cerco un pennarello nero, ma alla fine non cancello niente. Scrivo accanto: “Se fossi un pianista suonerei nell’armadio.” J.D. Salinger 142 L’amico congelato Mi aspettano le lettere e i pacchetti che sono arrivati mentre io ero fuori, alcune le dovrò leggere, altre dovrò recapitarle. Notizie che arrivano dal nostro lontano e piccolo Paese senza passare dalle dogane, con la sorpresa e la tenerezza della clandestinità. Però sempre tardi, con il francobollo del passato, come un’immagine in differita di giorni ormai lontani. Nel giornale, per esempio, la sezione del tempo si chiama “Oggi”: Per oggi sono previste nubi sulla costa dalle prime ore del mattino e nebbia bassa nelle valli dell’interno e nelle zone montuose. Piogge intermittenti di scarsa entità, soprattutto nell’area settentrionale e in montagna. Con il passare delle ore, soprattutto nel pomeriggio, possibili schiarite e nubi sparse. Nella maggior parte del territorio del Paese Basco le temperature saranno in aumento. Verso sera, rischio di precipitazioni a carattere temporalesco, soprattutto nella zona pirenaica. Oggi, questo “Oggi” è lontano e perso nel tempo. E domani è stato molto prima dell’altro ieri. 143 Per domani si prevede una situazione anticiclonica. Durante le prime ore del mattino nebbia e foschie ma, a partire da mezzogiorno, ci saranno ampie schiarite, nubi alte e sole su tutto il territorio. In serata, nuvolosità in forte aumento. Le notizie, le lettere e le fotografie arrivano da un altro mondo e da un’altra epoca. Forse da quello che è il mondo reale e i giorni reali, perché il nostro mondo e il nostro oggi sono piuttosto irreali e poco credibili. Se accettiamo il confronto delle date, tutto questo sta succedendo nel futuro. La lettera di mio fratello minore, per esempio, porta la data di due mesi fa: Ciao sister, mi hanno dato il diploma di padre, per questo ti scrivo in ritardo. Tre settimane fa abbiamo avuto una bellissima bambina. Dopo averti detto che è bella, non mi crederai se ti dico che assomiglia a me, ma è quello che sostengono tutti. È buona e 144 L’amico congelato dorme molto e in questo non so se assomiglia a me o alla madre, perché in questo siamo uguali. Non mi sono ancora abituato al nuovo titolo e nemmeno a uscire per strada con il passeggino. Ma pare che si possa imparare di tutto. Julen Poi l’inconfondibile calligrafia di mia madre, quelle lettere scritte e riscritte nello stile Scuola Nazionale Spagnola del dopoguerra. Cara figlia, da tempo non ho tue notizie; l’ultima, una bella cartolina che ho ricevuto un anno fa. Speriamo che tu stia bene, ed è quello che noi ti auguriamo. Noi tiriamo avanti come sempre. Tuo padre è andato in pensione. Abbiamo passeggiato tutta l’estate. Poi è arrivata Elorri, la figlia di Julian e Idoia, una bambina bellissima, è nata il sette settembre e stanno tutti bene. Anche Aitor e Ima sono molto impegnati con i figli e non hanno tempo per nient’altro. Xabier ha iniziato a fare i primi 145 passi, fra poco compirà un anno ed è molto vivace. Quando vengono tutti a casa, ho il mio bel daffare. Un’altra cosa: ti dicevo nell’ultima lettera che avevamo iniziato a vedere qualche spiraglio di luce nel cielo, ma è tornata la nebbia e dovremo aspettare che sorga il sole. Speriamo che accada presto. Facci sapere se hai bisogno di qualcosa, non so cosa mandarti perché non mi chiedi mai niente. Vedrai che belle le foto dei bambini fatte durante le feste. Bene, tesoro, abbi cura di te. Un bacio grandissimo, mamma e papà Mentre leggo mi sembra di sentirla e di vederla. Ma ricordare non è sentire, quando si ricorda, tutto succede al passato. Di nuovo il giornale, la bbk e i titoli a tasso fisso. E non capisco cosa sia la bbk: In base all’articolo 29-2 del Testo Unificato della Legge Generale Finanziaria, con Decreto Reale 88/1091 del 23 settembre, e conforme 146 L’amico congelato alla Legge E.D. del 24 gennaio del 1928 e all’Ordinanza del 8 giugno del 1968, si rende pubblico e si comunica ai clienti titolari di Titoli di Stato che, nel caso in cui negli ultimi 20 anni non siano stati registrati movimenti, in conformità con la legislazione vigente, i titoli decadono in presunzione di abbandono e pertanto il loro importo passa ad essere proprietà dello Stato... La ragazza se n’è andata, ma Josu non viene in camera. Nel suo ufficio clandestino è ricominciato il ticchettio della macchina da scrivere tip tip tap tip top. Ormai è notte e lui è ancora lì, Josu, Armando o come vogliamo chiamarlo, segretario volontario della repubblica delle sue intenzioni, viandante solitario del mondo dei suoi sogni. Nella macchina da scrivere il foglio bianco sembra un campo e lui, tac tac a piedi, come chi cammina di fretta, è sempre più lontano. Mi sdraio sul letto e leggo di nuovo la lettera di mia madre. Poi prendo Les dissolutions de la mémoire, ma lo trovo insopportabile e lo appoggio 147 ancora una volta a mo’ di tettuccio sul viso. Mi tornano alla mente il pane e il riso con uova dei nostri primi giorni a Managua. Josu andava in cucina a togliere il pane dal forno e tun tun tun tornava velocemente a letto. Venti minuti più tardi, io lasciavo il riso con l’acqua sul fuoco e tun tun tun tornavo a letto. Dovevamo controllare l’orologio, perché il riso cuoce in quindici minuti, e allora di corsa in cucina a spegnere il fuoco e tun tun tun svelti di nuovo a letto. Poi ci alzavamo tutti e due per friggere le uova, ne mettevamo uno per uno sopra il riso bianco nel piatto, spezzavamo il pane che dentro fumava ancora e, nudi ed eccitati mangiavamo il riso con l’uovo, con il pane e una birra. E, se la memoria non mi inganna, finché durarono quei pranzi-cena e il lavare i piatti assieme il più velocemente possibile per tornare tun tun tun a letto, eravamo noi gli unici abitanti del nostro continente, anche se ogni tanto il vento proveniente dai vulcani, dopo aver accarezzato la superficie dei laghi, ci portava notizie e voci strane. E ho l’impressione che, all’epoca, quell’animale 148 L’amico congelato spaventato e schivo che chiamano felicità, si aggirasse da queste parti, nascosto tra lenzuola e pentole, mimetizzato tra piatti e libri. Quei giorni ci riempirono di vita e di memoria, e di una bellezza tale da sembrarmi irreale. Presumo che la felicità sia leggera. La tristezza, invece, è molto pesante, è complice della legge della gravità e ti fa sentire il carico del tuo peso fino a sfinirti e obbligarti a sdraiarti. Nel mettermi a letto, mi vedo nello specchio. I seni sono due emisferi separati e caduti. E il viso, sì, la mia faccia, sparirebbe semplicemente passando uno straccio. Non posso dormire e non faccio che rigirarmi nel letto, nuda sotto le lenzuola, sola, mentre ascolto il rumore della sintassi tip tip tap tip. Sono girata sul fianco sinistro, con il peso del corpo sul cuore, giro la schiena alla schiena assente del mio compagno, lo sguardo perso nell’oscurità. Penso che guardiamo tutto con occhi annebbiati, che la lucidità e la determinazione che dimostriamo con il nostro stile di vita siano superficiali, e che ognuno di noi sia un mondo 149 chiuso, che viviamo tra parentesi, perché anche il mio compagno di tutta la vita improvvisamente è diventato per me quasi uno sconosciuto. E provo una sensazione di soffocamento, mi sembra di non essere in casa e di essere invece in un porto, siamo dei naufraghi. Quando viene a letto, anche lui mi dà la schiena, come ho fatto io finora con il vuoto della sua assenza. Al mattino mi alzo presto e decido di andare dalla parrucchiera. Tornerò alle sofisticazioni e ai capricci femminili abbandonati da tempo, e così anch’io mi reco al salone di bellezza dove si siedono le signore ricche ed eleganti di Managua. Te l’assicuro, è fantastico. Come il teatro tragico lo era per i greci dell’Antichità, come attualmente lo è lo stadio per la maggioranza degli uomini, il parrucchiere per signore è il luogo della catarsi. Qui la rabbia, i desideri, i capricci hanno un eco, perché ogni donna troverà l’eco delle sue parole in quelle di un’altra, 150 L’amico congelato fantastico, fantastico. Quando vedo le forbici e il pettine davanti agli occhi, li chiudo e le ciocche mi cadono zac zac sul collo e sul petto. “Ultima notizia!” dice una con la testa sotto il casco. “Sai che Jaqueline mette le corna a suo marito?” “E il marito lo sa?” dice quella del casco a fianco. “Lo sa tutta Managua ma, sai com’è, quando c’è un colpo di stato, il presidente è l’ultimo a venirlo a sapere...” “Chi è il golpista?” Zac zac zac. Un uomo dalle grandi risorse, e inizieranno a ridere all’aggiungere interiori. E continueranno a parlare degli eleganti tappeti che vendono nei negozi di Nonsodove, della vacanza in crociera e delle vergognose pretese, rispetto alle condizioni di lavoro, della nuova cameriera. “Una settimana fa sono entrata nella sua stanza e l’ho trovata che piangeva. Mi ha detto che non aveva nessun problema, che piangeva per la felicità.” Per quanto riguarda le due parti della 151 terapia, alla ginnastica segue lo psicodramma. Le vaccinazioni che bisogna fare ai cagnolini. I corsi estivi che hanno fatto i loro figli a New York-New York, la Civiltà, tesoro! La Civiltà! “Per fortuna il bambino è biondo e ha la pelle bianca ma io, comunque, farei a tutti una prova del sangue, perché in quella famiglia sono quasi tutti indigeni e neri, e oggigiorno non ti puoi fidare nemmeno delle cliniche.” “Per lo meno ha dovuto lasciare la passerella” dice una davanti al manifesto della ormai ex modella Isabella Rossellini, “i ritocchi che dovevano fare con il computer alle sue foto credo equivalessero a tre o quattro interventi di chirurgia estetica...” “Por questo adesso dice” continua un’altra, eh, eh, eh, “che l’imperfezione rende più bella una donna perché i piccoli difetti la rendono unica.” “E che le cose più interessanti in una donna sono l’umore e la fantasia. Credo che anche questo lo dica per consolare le bruttine.” Poi si dilungheranno su una fantastica crema per il collo e soprattutto per rassodare i glutei. 152 L’amico congelato “Cambiando argomento: hai incontrato quella donna, come si chiama, Marijose, l’hai vista con la gonna rossa e quelle orribili scarpe verdi?” Ipocrite e ciniche, ma la cosa più difficile da imitare delle donne della borghesia di Managua è quell’espressione di schifo e freddezza che assumono quando guardano dall’alto in basso la gente normale. Arrivata a casa, prima di entrare busso, non si sa mai, e mi appare Josu con una faccia da autoritratto. “Como ti senti?” dice. Gli rispondo come mi risponderebbe lui, per analogia. “Con i capelli appena sistemati ma con qualche ematoma affettivo...” “Cosa ne pensi di quello che è successo ieri?” “Ieri? Se parli dell’imprevisto, credo che dovresti farlo in modo autocritico.” “E del nostro rapporto?” 153 “Siamo soli” dico. “In che senso soli?” “Prima pensavo che, anche quando eravamo soli, eravamo insieme, adesso mi sono resa conto che, quando siamo soli, siamo soli e che anche quando siamo assieme siamo soli.” Soprattutto questo: che quando siamo insieme siamo praticamente soli. “Mi sono resa conto che siamo due isole, due lingue...” continuo. L’antonimo dell’amore non è l’odio, ma l’abbandono. “Autodeterminazione!” dico. A Josu non piace per niente il mio modo di parlare. Ha iniziato a muovere la mano e, preso dal nervosismo, ha fatto la lettera b dell’alfabeto muto. Sicuramente quello che meno gli piace è che sia io a fare giochi di parole, anche se poi lui li usa come vuole, quando gli interessa e con totale impunità. Ha lasciato la mano in aria con la lettera b. Rimane in silenzio come una gru senza carico. “Come va il romanzo?” gli chiedo per 154 L’amico congelato dimostrargli che intendo cambiare argomento, senza rancore. “Voglio scrivere un libro che trasmetta l’impressione della realtà al lettore che, alzando la testa dal libro e guardando la realtà, abbia l’impressione di star leggendo un libro...” Comincia a dare spiegazioni, proporre schemi, tentativi. “Allora: tesi, antitesi e sintassi” gli dico quando smette di muovere le labbra. “Tesi e antitesi sono quasi la stessa cosa. La cosa più difficile è la sintassi...” ribatte lui, come farebbe un ragno appeso alla sua ragnatela grammaticale. 155 6 CERVI VOLANTI Goio sapeva quali sarebbero state le prime parole che avrebbe sentito nell’arrivare al casolare dove vivevano i suoi nonni: “Prima di entrare, vediamo quanto sei cresciuto!” diceva sempre il nonno. Dietro il portone d’ingresso del casolare c’erano i segni della sua crescita, quelli che il nonno, ogni volta che Goio andava a trovarli, faceva con un coltello dopo averlo fatto appoggiare alla porta. Com’è cresciuto il nostro ragazzo, diceva guardando gli ultimi due segni. Ma Goio arrivò un sabato a mezzogiorno e il nonno era andato a raccogliere il fieno nel campo che avevano a Luku e la nonna era sola in casa. “Vieni qui, il mio pel di carota!” Nella penombra della cucina, la nonna stava preparando della sangria: nella brocca con l’acqua 156 L’amico congelato e il vino si vedevano nuotare i pezzi di arancia e di ghiaccio. “Aspetta un attimo e gliela porti tu,” gli disse e iniziò a mischiare lo zucchero. Quando Goio arrivò a Luku, tutti si rallegrarono. “Ecco che arriva il nostro marinaio” disse una vicina, Joakina. Il nonno, invece del solito basco, aveva in testa un fazzoletto con quattro nodi agli angoli. “Com’è cresciuto il nostro ragazzo!” disse il nonno, senza scendere dal mucchio di fieno sul carretto, nel momento di riposo che si presero per salutare il nuovo arrivato e bere la sangria. Oltre al nonno, c’erano altre cinque persone, tutti dello stesso quartiere, due di loro donne che, finito con il loro lavoro, davano una mano al nonno. C’era un sole impietoso, erano tutti sudati e finirono in un batter d’occhio le quattro bottiglie di sangria che Goio aveva portato. Per Goio la falce era uno strumento impressionante: la precisione del movimento, l’eleganza delle file formate dall’erba tagliata, 157 la bellezza nella pausa del segatore e il suono della pietra sulla lama prima di iniziare un nuovo taglio. L’odore agrodolce dell’erba appena falciata si imponeva su tutti gli altri, per poi espandersi e permanere a lungo nell’aria. Adesso era il momento di raccogliere il fieno e stavano lavorando tutti nei campi più in alto: giravano l’erba non ancora secca, ammucchiavano il resto e, con i buoi fermi sotto il giogo, lo caricavano sui carretti. Lo portavano fino al casolare cercando di stipare il più possibile il pagliaio. Escludevano Goio, perché non era un contadino, o forse perché era un ragazzo di mare, o perché era ancora troppo giovane, fatto sta che non gli lasciavano mai fare nessun lavoro della fattoria. Anche quel giorno rimase per un po’ in disparte a guardare, poi raccolse le bottiglie vuote e si avviò verso il limite del prato, dove iniziava la pineta, in cerca d’ombra. All’improvviso, dalle felci si alzò un corvo che si levò in volo al di sopra dei pini. Goio scavalcò la lunga recinzione e, benché attorno ci fossero felci e rovi, gli aghi dei pini gli offrirono una specie di tappeto. Si sedette, con i 158 L’amico congelato piedi appoggiati alla staccionata. Goio rimase lì, a guardare i carretti, i buoi con la testa sotto la pelle di pecora, il nonno con il fazzoletto in testa, le vicine al lavoro con forche e rastrelli. Si addormentò e sognò che gli avevano portato un sacco con dentro il corpo fatto a pezzi di una persona o di un animale, e lui non sapeva cosa farne ma non poteva abbandonarlo, perché pensava che un cane o un animale selvatico l’avrebbero portato via. Quindi gli portavano un altro sacco ma lui non aveva il coraggio di aprirlo, temendo di trovarci il corpo di qualcuno, e poi un altro ancora. Si svegliò completamente madido di sudore. Rimase lì seduto, si prese la testa fra le mani e guardò verso il prato, dove vide il carretto stracarico scendere lentamente dondolando lungo il pendio, i buoi guidati dal nonno che al loro fianco li incitava gridando e alzando il bastone. Anche lui doveva tornare a casa. Rialzandosi si impigliò nella recinzione e, guardando a terra, tra 159 le pietre scorse una pallottola. Non ne aveva mai vista una vera, ma era uguale a quelle dei fumetti e dei film. La osservò a lungo, la pulì per bene e se la mise in tasca. Cominciò a scendere e oltre la valle vide le montagne. Il nonno lo correggeva sempre: non sono montagne ma rupi, perché sono solo di pietra, non c’è né terra né erba, solo roccia e dirupi. Poteva citare i nomi di tutte le cime uno ad uno e costruire così un paesaggio di nomi: Haitzurdin, Elgoien, Ahuntzeta. In mezzo c’era Eibar e si vedeva bene il fumo delle fabbriche. Nella verde valle che si apriva a partire dalle falde delle rupi fin lì, si potevano scorgere altri due o tre borghi e le tre linee che attraversavano tutta la valle da un abitato all’altro: il fiume, la strada principale e la ferrovia. La più bella era la ferrovia e, in quel momento, vide serpeggiare in lontananza il treno sulle rotaie, poi, siccome la valle finiva a ovest, alle pendici delle rupi, lo vide addentrarsi fischiando tra le montagne... “Quella è una delle gallerie ferroviarie più lunghe del mondo...” aveva sentito dire una volta. 160 L’amico congelato Lungo la strada da Luku al casolare c’era uno stagno. Di giorno, ma soprattutto al tramonto, quella zona paludosa era invasa dal gracidare delle rane che propagavano per tutta la valle l’eco verdastro del loro canto, cra cra cra, con il quale rivendicavano la loro esistenza. Quando arrivò al casolare, il carretto era appoggiato alla parete e il nonno stava ancora buttando il fieno nel pagliaio con la forca. Dopo cena, Goio prese la pallottola che teneva in tasca e la mostrò al nonno. “Dove l’hai trovata, figliolo? Non è esplosa.” Nella parte posteriore c’era ancora la polvere da sparo, quella che quando si preme il grilletto del fucile, esplode e provoca la fuoriuscita dalla canna del piombo che uccide la gente. Poi iniziò a parlare della guerra: “All’inizio vedevamo il fuoco lontano, in cima ai monti ad est, e pensavamo che la guerra fosse distante. Il fronte è là, dicevamo, come se avesse dovuto rimanerci per sempre, intanto i soldati andavano da una parte all’altra ma soprattutto verso est, mentre si vedeva molta gente passare in 161 direzione contraria. Tutti i giorni sentivamo rumore di spari e di cannoni, vedevamo anche passare gli aerei che seminavano esplosioni e fumo e, dove durante il giorno si vedeva fumo, di notte appariva il fuoco. A volte il rosso del tramonto si poteva osservare ad est ma anche ad ovest, e così fino al mattino...” Il nonno, dopo aver tirato una boccata di sigaro, indicò la pallottola che era rimasta sul tavolo: “L’hai trovata vicino alla staccionata della pineta? Tutta quella zona è piena di trincee, dall’alto di Barranku fin giù in fondo. Un giorno i soldati cominciarono a passare in direzione contraria, portavano decine di feriti e un repubblicano venne da noi ad avvisarci che il fronte si avvicinava e che dovevamo scappare, perché la nostra casa sarebbe stata presa come base di guerra e non avevamo altra scelta che lasciare tutto... “E ve ne andaste tutti?”, chiese Goio. Alla nonna non piaceva che si parlasse della guerra e iniziò a brontolare. “Nel nostro quartiere” proseguì il nonno, “non 162 L’amico congelato rimase nessuno, eccetto la famiglia Zaldegipe, che era carlista, e Sediatriste...” “Perché era invalido!” disse Goio. “Sì, certo! Allora non era paralitico, stava benissimo ed era anche in carne. Quando arrivarono si nascose nel pagliaio e lo trovarono nel fieno qualche giorno dopo, paralizzato dalla paura. Non lo arrestarono nemmeno, gli diedero qualche calcio, risero di lui e lo lasciarono in pace. Ma sono quarant’anni che non parla e che non si può alzare da quella sedia...” A quel punto la nonna prese la parola: “Caricammo sul carretto quello che riuscimmo a prendere e ce ne andammo, che altro potevamo fare?” Ma le sue parole equivalevano all’ordine di mettere fine a quella conversazione e il nonno, dicendo che aveva qualcosa da fare nella stalla, uscì, barcollando e inciampando, a causa della sangria ma soprattutto del troppo vino. La nonna trattava Goio come se fosse ancora un bambino e, per allontanarlo dal tema della guerra, gli proponeva sempre gli stessi 163 indovinelli: “Vediamo, ragazzo, Indovina indovinello... sta sempre in piedi anche senza gambe.” “Dra, la bottiglia!” disse Goio, perché bisognava sempre dire Dra prima di rispondere. In quel momento si sentì suonare la campana della chiesa. E Goio, in un angolo buio della sua memoria, con un terzo occhio intravvide una mucca morta nel cortile del casolare vuoto, alla quale mancavano dei pezzi di carne... “Indovina indovinello...” disse la nonna, “un prete con un dente solo che chiama la gente a messa.” Goio non aveva molta voglia di quei giochi infantili ma, anche senza pensarci, indovinava le risposte: “Dra, la campana!” “Indovina indovinello... nell’acqua non mi bagno e nel fuoco non mi brucio.” Goio conosceva le risposte da molto tempo: “Dra!” Salito in camera da letto, lasciò aperta la finestra per vedere le stelle e per non perdersi il 164 L’amico congelato passaggio dei pipistrelli. E con quel terzo occhio, sempre nell’angolo buio della sua memoria, vide tornare il carretto che la nonna utilizzava per andare a vendere il latte in paese, e poi l’asino che ragliava davanti al casolare vuoto, perché nessuno lo liberava dal carretto e dalle briglie. Il giorno dopo era domenica. Quando Goio si svegliò e scese, il nonno era di nuovo nella stalla a governare il bestiame. Si diceva proprio così: governare. Buio, odore di letame, muggiti, suolo scivoloso. Goio entrò piano piano e trovò il nonno seduto su uno sgabello e con la testa appoggiata alla zampa di una mucca. Il nonno mungeva con una sola mano, schiacciava le quattro mammelle con le cinque dita e il getto di latte, cadendo nel secchio, produceva un rumore metallico mentre riempiva di biancore e di schiuma il mattino. Goio dovette andare alla messa delle undici ma, alle cinque del pomeriggio, mentre tutti gli adulti andarono al rosario di Mikaela di Olabe a 165 pregare e a cantare le litanie, lui rimase a casa. In cucina erano appese delle strisce di carta ricoperte di mosche appiccicate e morte. Anche la luce della lampadina era affievolita dagli escrementi di mosca. Tuttavia ce n’erano molte che volavano, ignare del fatto che fosse domenica e per niente impaurite dalle strisce appese; rumorose, si scontravano l’una contro l’altra per poi separarsi immediatamente, una verso l’alto in una folle spirale mentre l’altra continuava a girare nello stesso punto, come se fosse vertiginosamente attratta da una calamita. Non si riusciva a capire la ragione di quel girare incessante e nemmeno se la mosca che si posava sulle sue ginocchia lo facesse per cercare cibo o per giocare; se poi si rialzava in volo, lui non sapeva se fosse dovuto a una legge matematica segreta o a una necessità sconosciuta. Era solo, entrò nella camera da letto dei nonni e rimase a guardare la fotografia dello zio, uguale a quella che avevano anche loro in casa, scattata quando lo zio aveva diciannove anni. Per 166 L’amico congelato Goio quello era suo padre, o meglio, era l’aspetto che lui attribuiva a un padre sconosciuto. Tra l’altro quella fotografia sembrava viva e agli occhi di Goio, che incrociava lo sguardo di quell’immagine, sembrava che quel giovane avrebbe iniziato a muoversi dentro la cornice e a parlargli. All’imbrunire salì sul noce vicino al casolare, come faceva fin da piccolo. Rimase a lungo seduto sul suo trono di noce, a quattro metri da terra, comodamente collocato sul ramo come se fosse in groppa a un cavallo, controllando il paesaggio e il tempo, cercando di trovare la ragione nascosta dell’ordine del mondo. Ma non riusciva a trovare un senso: le cose sono molto strane di per sé, per esempio i cervi volanti; prese in mano uno di quegli scarafaggi con le corna e gli parve assolutamente senza senso. Sentì dei cani abbaiare in lontananza, il gracidare delle rane, il canto dei grilli e più tardi, verso le dieci o le undici, sulle travi della tettoia sicuramente si sarebbe posata una civetta e avrebbe sentito il suo inquietante canto. Il casolare dei nonni si chiamava Mugertza, ma lì accanto, vicino al noce, c’era anche il casolare 167 Etxeberritxo. Cosi, quella domenica sera, dal noce vicinissimo alla camera da letto di quel casolare, quando si accese la luce, Goio vide davanti a sé come Joakina, appena tornata dal rosario, si toglieva il vestito e rimaneva nuda. Poté osservare, dai piedi fino alla testa, il corpo robusto e bianco di quella zitella, i capezzoli scuri sui seni pieni, proprio come le statue degli scultori greci nei libri di scuola. Per poco, Goio non cadde dall’albero per lo spavento e gli occhi gli uscirono dalle orbite come biglie che rotolano. Non osò muoversi, per paura di fare rumore, perché Joakina si era messa a letto senza chiudere la finestra. Così rimase sull’albero, pieno di vergogna. Ormai era notte fonda e lui era ancora lì, a guardare l’altro triste rosario che i pipistrelli tessevano nell’aria. Mentre Goio passava i suoi ultimi giorni di vacanza a casa dei nonni, io ero a Bilbao. Vivevamo nel quartiere di Santutxu e cercavo di andare al cinema Metropolitan più che potevo. Erano tempi bui ma vedevamo già in technicolor la giungla, gli 168 L’amico congelato oceani e l’Arizona. Spalancavamo gli occhi al vedere Sofia Loren, Claudia Cardinale e le attrici dell’epoca. Ma indossavamo ancora i pantaloni corti e non potevamo entrare a tutte le proiezioni. Sul viso avevo solo pochi sottili peli color sabbia ed ero impaziente che mi crescesse la barba. “Andoni, hai usato il mio rasoio!” diceva mio padre, davanti allo specchio e con le guance coperte di schiuma, quando si rendeva conto che la lama del rasoio era senza filo. In casa nostra regnava un ambiente triste. Mio padre era venditore, mia madre lavorava in negozio e io restavo a casa da solo. Avevo un canarino, ogni tanto infilavo una foglia di lattuga nella gabbia e poi rimanevo a guardare come l’uccellino la beccava svogliatamente. Il più vicino era il cinema Metropolitan. Le proiezioni erano alle quattro, alle sette e alle dieci. Ma la sessione era continua, così a volte entravo alle quattro del pomeriggio e ci rimanevo fino quasi a mezzanotte. La sala cinematografica sembrava un magazzino, 169 c’era di tutto in quell’oscurità: disoccupati, giovani coppie di innamorati, anziani pensionati, adolescenti come noi e anche gente comune. Nei momenti di tensione era quasi impossibile non immedesimarsi: “Non andare, Geronimo, è una trappola!” E, quando sparavano, sentivamo il ffiiu ffiiu ffiiu delle pallottole di piombo dietro le nostre orecchie. L’ultimo venerdì di agosto nella bacheca del Metropolitan apparve Brigitte Bardot, poster in dimensioni naturali e il bikini più ridotto che si fosse mai visto. “In questo film si vede BB completamente nuda” mi disse un amico del quartiere quel pomeriggio. La chiamava così, Bibì. Lui aveva già visto il film ma mi disse che l’avrebbe rivisto per farmi un favore. Quel pomeriggio, che altrimenti sarebbe stato noioso, mi raccontò anche la storia di Biancaneve e di Pinocchio. Biancaneve aveva portato in camera sua Pinocchio, ma inaspettatamente scoprì che “quello” di Pinocchio era molto piccolo. Ma Biancaneve ebbe subito un’idea brillante. I sette nani erano rimasti ad origliare dietro la porta e 170 L’amico congelato sentivano Biancaneve chiedere sospirando: Dimmi una bugia, Pinocchio, Adesso una verità, Adesso una bugia, Adesso una verità, Adesso una bugia, Adesso una verità, Adesso una bugia... Un sabato pomeriggio, con i nostri calzoni corti, ci avvicinammo alla biglietteria del Metropolitan camminando in punta di piedi per sembrare più alti. Comprammo i biglietti, ma la maschera non ci lasciò entrare. Inflessibile, ci indicò un cartello, agitando la torcia che teneva inutilmente accesa: Vietato l’ingresso ai minori di 18 anni “Anche ieri avete cercato di entrare, e oggi vi tolgo pure il biglietto” e ci lasciò senza biglietto e senza soldi. Rimanemmo a lungo a guardare il cartellone, abbattuti. Si vedevano quattordici fotogrammi e, con un po’ di fantasia, si poteva immaginare il resto. Il mio amico era rimasto fuori a immaginarsi gli altri fotogrammi anche il giorno prima. “Bugiardo” gli dissi. “Una verità, una bugia, Una verità, una bugia... 171 Invece la domenica sì, vedemmo un film western. Si spensero le luci, si accese lo schermo in bianco e nero. Prima proiettarono il NODO, il notiziario settimanale del regime, Il mondo alla portata di tutti gli spagnoli: il generale Francisco Franco che inaugura bacini artificiali, il generale Francisco Franco che, circondato da vescovi e arcivescovi, entra nella cattedrale sotto il baldacchino, il generale Francisco Franco con la sua guardia mora alla sfilata della Vittoria... E quel vecchio ci salutava dai luoghi più svariati muovendo la mano parkinsoniana mentre noi mangiavamo frutti secchi, gomme da masticare e liquirizia comprati alla bancarella. Poi finalmente iniziava il film a colori e noi eravamo lì, ad ammirare dal finestrino della diligenza le pianure impolverate dell’ovest americano. Una volta andai in bagno e, tatuata con un rossetto rosso, sulla parete lessi una scritta: Rivoluzione o morte 172 L’amico congelato Allora non sapevo ancora cosa significasse la parola rivoluzione, e la parola morte aveva un significato solo cinematografico. “Cacchio! Una ragazza che sa scrivere in basco è entrata nel bagno dei maschi”, dissi quando tornai al mio posto. “Cos’ha scritto?” mi chiese Pinocchio. Shhh Shhh... iniziò la gente nell’oscurità. “Non lo so”, gli risposi sottovoce. E continuammo a guardare il film, appassionati, perché il cinema era il nostro paesaggio preferito e scoprivamo cos’erano la vita e la morte grazie ai Tucson e ai Mojabe. Fu al cinema che imparammo che gli uomini, quando muoiono, fanno aagggh, così come i bambini, quando nascono, piangono facendo wueee wueee. Quando uscimmo, su un cartello lessi Exit. Avevano appena ristrutturato il Metropolitan e c’erano cartelli nuovi ovunque. Pensai che le persone che volevano aver successo dovevano uscire passando sotto quel cartello, e così ce ne andammo orgogliosi e ottimisti passando sotto l’insegna Exit. 173 Era domenica sera e stavamo risalendo la strada per tornare a Santutxu quando vedemmo quegli incredibili insetti, degli enormi scarafaggi con le corna. Volavano insicuri e si posavano in modo goffo. “Sono cervi volanti!” disse Pinocchio. “Utilizzano le corna come fanno i cervi: lottano contro gli altri maschi per la femmina...” Pinocchio studiava al liceo, a Bilbao. Io, invece, avrei iniziato il giorno dopo a frequentare la scuola di Kalaportu. 174 L’amico congelato 7 COMPAGNI DI TRIBÙ Andoni ti racconterà una storia kiowa e la tua risposta sarà sorprendente: “E quindi abbiamo cambiato il finale.” Glielo dirai così. “Perché?” Digli che il racconto non finiva con una freccia conficcata nel cuore dell’ospite. “Per fortuna ieri sera ti ho risposto in basco, altrimenti...” Andoni, imitando la sobrietà di un capo indiano dei film, ti dirà: “Se sei un kiowa, capirai l’oscura chiarezza e la chiara oscurità della storia che ti ho raccontato...” “In ogni caso, credo che noi siamo come tutti gli altri.” “Come chi?” Come qualunque altro, vorresti dirgli, stranieri, nomadi in una terra di nessuno, muti. 175 “Come quell’ombra sconosciuta che vaga senza rifugio.” Ma questo succederà dopo. Tu arriverai il pomeriggio del giorno prima a Pupuna e al tuo arrivo si sentirà l’abbaiare dei cani. La sua donna sveglierà Andoni: “Esteban, Esteban, svegliati...” gli dirà, molto agitata, in ginocchio sul letto. “Cosa succede?” “I cani stanno abbaiando!” “Hai fatto un brutto sogno?” “I cani abbaiano sempre più forte!” E si sentiranno i latrati dei cani, freddi e terrificanti, amplificati dall’oscurità. Andoni si alzerà per avvicinarsi a tentoni alla finestra, senza accendere la luce. Non vedrà niente nella notte, eccetto i punti delle stelle, una rupe azzurrognola e una montagna che si erge implacabilmente, proprio lì. Nessuno nei dintorni, solo l’abbaiare e l’ululare dei cani. 176 L’amico congelato Invece di tornare a letto, accenderà la televisione, quasi senza rendersene conto, automaticamente, come se fosse un’abitudine ancestrale, ereditata in modo naturale dagli antenati. E in tv, invece del biancore immutabile delle pareti a calce e dei fogli di carta, troverà gente famosa, un ambiente elegante e conversazioni interessanti. Alla televisione anche le domande sono colorate e luminose. “Cosa le piacerebbe fare?” E apparirà un vecchio dai capelli bianchi che parla e, in basso a sinistra sullo schermo, si leggerà Jeremiah Hightower essayist e si sentirà: “Ascoltare un bambino, non dirgli niente, semplicemente ascoltarlo, rimanere ad ascoltarlo, nient’altro. Il tal Jeremiah Hightower saprà cosa intende dire. Poi si leggerà Hans Clash folksinger e apparirà un giovane dai lunghi capelli biondi: “Cosa ti piacerebbe fare?” “Girare libero per nove mesi in una delle dieci città più popolate del mondo, vagabondare 177 per la città dall’alba fino all’alba del giorno dopo, per essere testimone dell’aurora e del tramonto.” Andoni guarderà l’orologio, le undici meno dieci, poi il suo sguardo si soffermerà sul gatto. Il gatto, manuale di sapienza e di silenzio, rimarrà immobile sopra una vecchia scatola di cartone, vigile con i suoi occhi scuri. Spegnerà la televisione e tornerà a letto. “Allora?” gli chiederà la ragazza. “Niente, sono lontani, dormi.” “Quando i cani non riescono a spaventare gli sconosciuti abbaiando, iniziano a ululare...” “Ma figurati!” dirà Andoni. “Ci sarà qualche cagna in calore.” Si riaddormenterà e dopo un po’, dopo qualche momento di sonno e di sogni, la ragazza lo sveglierà di nuovo: “Esteban, Esteban, svegliati!” gli dirà nervosa. Stavolta sì, bussano, e saranno dei colpi secchi come quelli del martello del giudice. Andoni si avvicinerà in silenzio alla finestra e vedrai la sua ombra nella cornice dell’infisso. 178 L’amico congelato “C’è posto per passare la notte...” dirai in basco. “Lo faremo!” risponderà Andoni. E, nell’aprire la porta, ti riconoscerà subito, quel ragazzo magro di un tempo, con i capelli rossi e la pelle bianchissima. “Vieni, entra...” ti dirà sorridendo. Tu avanzerai qualche passo e rimarrai di nuovo a guardarlo, lo stesso Andoni che indossava un maglione come quelli di Unamuno3. “Andoni, vero?” Lo chiamerai così, Andoni, il vecchio nome di battesimo, di casa, di scuola e dei documenti ufficiali persi da tempo. “Adesso sono Esteban, ma comunque...” ti dirà. A quel punto, dalla porta della camera, si 3 Miguel de Unamuno (1864-1936), poeta, filosofo, drammaturgo e politico spagnolo, originario di Bilbao, appartenente al movimento letterario chiamato Generazione del ‘98, eletto al Congresso dei Deputati dal 1931 al 1933. Originale nell’abbigliamento, si è detto di lui che vestiva come un “sacerdote protestante” perché non usava cravatta ed era solito indossare un maglione blu di lana chiuso che lasciava intravvedere solo il colletto della camicia. [N.d.T.]. 179 affaccerà curiosa la sua compagna. “Dulita, la mia compagna.” E, rivolgendosi alla ragazza in spagnolo, le dirà: “Goio, un amico dell’infanzia.” La ragazza rimarrà a bocca aperta e chiuderà con entrambe le mani la vestaglia bianca. “Il mio nome ufficiale è Esteban” ti ripeterà Andoni in basco. Rimarrete per un attimo tutti e tre lì, senza riuscire a trovare le parole. “Siccome bisognava fare un giretto da queste parti...” dirai. Il diminutivo farà uno strano effetto, troppo tenero, imbarazzato. “Breve non so, ma piacevole sicuramente!” ti dirà Andoni. “Vieni nella mia stanza segreta.” Ti aprirà la porta della soffitta segreta e tu entrerai dietro di lui, con la valigia sulla spalla. Appena entrato, noterai le immagini alle pareti, parecchi quadri e fotografie, soprattutto della zona di Bilbao, uno scudo con le sette provincie basche, Zazpiak Bat, poi guarderai la parete 180 L’amico congelato bianca. “In questa stanza tengo tutte le cose in basco...” ti dirà Andoni. Guarderai lo scudo e di nuovo lo sguardo tornerà sulla parete dei quadri, fino a fermarsi sulla cartina geografica appesa a un’altra parete. “Dove siamo?” chiederai indicando la cartina dell’Ecuador. Andoni si avvicinerà alla cartina e dirà: “Nell’antichità questa regione aveva un nome bellissimo, si chiamava Regno di Quito. Poi i francesi tracciarono una linea nella metà esatta del mondo e la regione prese il nome di quella linea, Ecuador...” Dopo appoggerà la punta del dito indice sulla cartina: “Siamo esattamente qui, potremmo dire che ci troviamo sull’ombelico del mondo...” Rimarrai a guardare la cartina, a leggere nomi strani: Ambato, Quito, Pupuna, Guayaquil... “Un caffè?” ti chiederà Andoni. “Sì.” Dopo poco tornerà dalla cucina con due 181 tazze di caffè caldo. “Non ti aspettavo oggi” ti dirà. Si ricorderà del racconto kiowa e vorrà raccontartelo. “Amaro?” ti chiederà. “No, va bene.” “Ti ricordi quando eravamo bambini?” “A volte” dirai. “Io ricordo quel tuo amore impossibile.” “Impossibile?” Hai perso molta della luminosità del technicolor della memoria. “A volte penso che i momenti migliori della vita siano ormai persi per sempre” dirà Andoni. Berrà un sorso di caffè e continuerà a parlare: “Ma la vita non era forse abbastanza strana e complicata anche prima?” Non gli risponderai e Andoni cambierà argomento senza far mostra della sua buona memoria. “Quando te ne sei andato dal Paese Basco?” “Molto tempo fa.” 182 L’amico congelato Si farà il silenzio attorno al gradevole aroma di caffè, non sei un gran parlatore, nemmeno Andoni lo è, così rimarrete a lungo in silenzio, come se steste ascoltando quella canzone di Bob Dylan, I tempi sono molto cambiati, i tempi sono molto cambiati, nella complicità silenziosa della vicinanza, I tempi sono molto cambiati. I tempi a volte cambiano completamente. “Allora?” ti dirà all’improvviso. “Davvero vuoi andare?” “Sono venuto qui con l’intenzione di andarci.” “Lo sai, vero, che l’Antartide è lontana?” “Lo imparammo a scuola dove si trova, allora la chiamavamo Antartida”. “Le cose cambiano...” dirà Andoni. “Le cose sono completamente cambiate, non credi?” “Certo che sono cambiate!” gli risponderai. Andrà a prendere una busta, te la darà in mano e, mentre tu la starai aprendo, ti racconterà: “Uno degli scienziati della spedizione è malato e hanno bisogno di un infermiere che sappia l’inglese e che lo assista.” Andoni ti chiederà: 183 “Leggi Scientific American?” “No” gli risponderai. “Ecco, a volte scrive su quella rivista, per parlare dell’acqua, si chiama Edwin Walsh, e pare che stia morendo...” Nel frattempo, dopo averlo estratto dalla busta, terrai in mano un documento d’identità: un passaporto color vino, nuovo. “È ben fatto, vero?” “Sembra di sì.” Ne sfoglierai le pagine come si fa in libreria con un libro che non si ha intenzione di acquistare. “Che cosa strana!” dirai. “Cos’è che è strano?” “Un documento d’identità, il passaporto, tutto questo...” “Se avessimo una vera identità non avremmo bisogno di tanti documenti d’identità, vero?” dirà Andoni. “Volevi dire questo, no?” “Che malattia ha?” Leggerai il nome: Javier Salgado Verdecia 184 L’amico congelato “Credo sia in fin di vita. Tumore al fegato, con metastasi, al quarto stadio...” “Quando partiamo?” “Salperanno fra una settimana e il viaggio durerà circa nove mesi.” “Fra una settimana?” chiederai. A notte fonda Andoni ti lascerà solo in camera, con la valigia aperta sopra il letto. “Spegni la luce e sogni d’oro” e ti sorriderà mentre fffiiiiu soffia sulla lampadina. Quella prima notte non ti racconterà la storia kiowa, come ha fatto con tutti i baschi che sono passati da casa sua. Sicuramente penserà che consideri i racconti una cosa da bambini, come infantile e assurdo è soffiare fffiiiiu sulla lampadina in nome di uno sbiadito ricordo che lo ha portato a farlo, e non oserà tornare nella tua stanza per dirti che ha una storia da raccontarti... 185 Il giorno dopo sarà la vigilia del ventiquattro giugno, San Giovanni. Per i quechua San Giovanni e Inti Raimy sono la stessa cosa, e andrai con Andoni alla festa in maschera. La gente uscirà per strada con costumi incredibili. “Vuoi bere?” “Sì” dirai. Non ti piace il sapore dell’alcool, tuttavia berrai molto perché bisogna farlo per ubriacarsi, come si deve passare dalla dogana per attraversare una frontiera. “Vedi quella là, quella testa di demone, è l’immagine di Ayahuma” ti farà notare Andoni. “Ayahuma? E chi è Ayahuma?” Camminare per strada con le maschere, entrare e uscire dai bar e dalle case, in questo modo conoscerai da dentro le loro abitazioni, le lampadine coperte di escrementi di mosca, i mobili di legno sgangherati, la polvere e il fango. Le bottiglie perderanno velocemente peso e colore e rimarranno sul bordo dei fossi, una ad una, inclinate e dimenticate. 186 L’amico congelato Ormai mattino, per finire in bellezza la notte di festa, uscirete dalla città in gruppo e, inoltrandovi nella montagna, raggiungerete un freddo torrente. “Adesso faremo il bagno nel fiume”, ti informerà Andoni mentre camminerete con passo da ubriachi appoggiandovi l’uno all’altro. Rispettando il rituale della notte di San Giovanni, all’alba gli uomini faranno il bagno e così riceveranno un’energia speciale. “L’umanità è veramente strana!” dirai sorridendo e le parole in basco si perderanno nell’eco incomprensibile del quechua. Sul cammino che porta al torrente, le rocce si faranno sempre più grandi e i precipizi pericolosi, stretti passaggi sopra gole profonde tra pareti altissime. Procederete tutti barcollando, con una certa difficoltà a seguire il sentiero. Raggiunto il torrente, tutti ubriachi, vi spoglierete in fretta. “Ascoltiamo la voce di Taita Diosito” dirà un quechua in spagnolo. E sentirete la voce di Taita Diosito: “Aagggaaaalllllbbbbbb”... 187 “Senti la voce di Taita Diosito?” ti chiederà Andoni. “E tu, cosa dici tu?” dirai in basco al torrente. Sentirai qualcosa. “Sì, sì, ho capito” dirai. “E cosa ha detto?” “La stessa cosa: Aagggaaaalllllbbbbbb...” “E cosa significa?” “Cosa vuoi, che te lo ripeta lettera per lettera?” Scoppierete a ridere, entrambi, e finirete per ammettere che non è necessario ripetere il messaggio di Taita Diosito. “Meglio così, senza traduzione, perché, se dovesse parlare in modo comprensibile, cosa direbbe Taita Diosito?” “Ripeterebbe più o meno quello che dicono tutti” dirà Andoni. “Libertà, denaro, onore, dignità e si riempirebbe la bocca con retorica da quattro soldi. Meglio se continua con questo mormorio...” “Sì, certo.” Di notte, la neve delle cime e le rocce grigie brilleranno come specchi. Respirando si sentirà 188 L’amico congelato l’aria limpida e fredda, tagliente come un pezzo di vetro. Quattordici uomini nudi, i lunghi capelli corvini raccolti in una coda, ognuno con la sua ultima bottiglia, le sue foglie di coca. Inizierai ad analizzare la loro nuda umanità. “Quello si è tagliato i capelli perché aveva i pidocchi!” sentirai e, subito dopo, risate da ubriachi. Un indio passerà davanti a voi nudo, il costume di Ayahuma attaccato dietro la schiena, qualche difficoltà a tenere la testa alta. “Perché fate questo?” chiederà Andoni. “Perché è quello che si deve fare” risponderà l’indigeno. “Così mostriamo quello che siamo” dirà un altro quasi nello stesso momento. “Perché così siete più reali?” dirà Andoni sicuro, con il tono di un antropologo ubriaco. Inizierai a ridere, scivolerai sul muschio e cadrai lungo disteso nel torrente. Poi, quando il tuo viso bagnato e spaventato apparirà in superficie in cerca d’aria e di qualcosa a cui afferrarsi, vedrai i volti bronzei dei quechua che ridono a crepapelle con la bocca spalancata mostrando i loro pochi e 189 marci denti. Allora anche Andoni salterà nel torrente e dietro di lui tutti gli indigeni. L’ acqua è molto fredda, le nevi si sono appena sciolte. E quando Andoni tirerà fuori la testa dall’acqua, ti vedrà uscire dal torrente e salire tremante su un grande sasso: in piedi sembri una candela, il tuo corpo è come la cera sotto una fiamma tutta rossa. “Fra poco apparirà Taita Inti” dirà un indigeno. Anche Andoni uscirà dall’acqua tremando. “Adesso masticherò la mia cochita” dirà un altro, cercando qualcosa nella sua saccoccia. Non sentirai nessuna nuova energia speciale, né nell’acqua, né nell’aria gelida. Un freddo terribile, questo sì, che ti farà passare la sbronza o almeno l’alleggerirà, anche se ti farà battere i denti fino quasi a romperli. In quel momento sorgerà il sole, oro del tempo, anzi, carbone del tempo in fiamme. 190 L’amico congelato “È bello passare qualche giorno con uno della tua tribù”, ti dirà Andoni il giorno dopo. “E a che tribù apparterremmo noi?”, gli chiederai sorridente. “Kiowa!” risponderà lui. “Nella stanza dove dormi tu, ci tengo le cose che voglio nascondere. Una volta un amico, senza che io me ne accorgessi, prese un foglio scritto in basco e mi chiese: E questa che lingua è? Gli risposi che era kiowa. Lui sospirò, Ah, come se volesse dirmi: certo, tu sei amico degli indigeni.” E ti racconterà la storia kiowa. Dopo averlo ascoltato, penserai che l’incontro del giorno prima aveva avuto un finale migliore, perché la freccia non aveva colpito in pieno cuore il nuovo arrivato, penetrando nel suo petto con la facilità con cui si trafigge una pera matura. “Ieri notte mi hai risposto in basco, altrimenti... fine!” “Se sei kiowa” dirà Andoni, cercando di imitare la sobrietà degli indiani dei film, “capirai l’oscura chiarezza o la chiara oscurità della storia 191 che ti ho raccontato...” “In ogni caso,” gli dirai “credo che noi siamo come gli altri.” Perché non siamo per forza kiowa, perché forse apparteniamo alla stirpe delle persone o degli animali muti che vanno in giro di notte. “Come quali altri?” “Come quell’ombra sconosciuta che vaga senza rifugio” dirai. “Ma allora siamo della tribù Nantu!” ribatterà Andoni. “Prima di imbarcarti, sarebbe meglio che tu andassi a trovare questo tal Edwin Walsh”, ti ripeterà in stazione. La stazione è una costruzione di legno, dipinta di verde e con il nome scritto a lettere rosse sopra l’entrata: Pupuna. Un binario largo e lungo, a partire dal quale, a destra e a sinistra, a nord e a sud, c’è solo un’interminabile lontananza a entrambi i lati della ferrovia. Ci sarà una donna con due bambini che 192 L’amico congelato sembra della capitale, borse e pacchetti per terra. Ci sarà anche un quechua che sembra di bronzo, abilmente scolpito e con lo sguardo perso in lontananza. Appoggerai la valigia a terra. Guarderai verso l’alto e, sulla parete, ci sarà un orologio, sporco di fumo e di ruggine, con le lancette ferme, che segna un’ora morta, chissà di quale giorno, di quale notte, di quale stagione, di quale anno. Prenderai la valigia in mano e farai un passo avanti, benché non si senta il fischio del treno. “Da qui a Guayaquil ci sono un sacco di stazioni” ti dirà Andoni. Rimarrai a guardare i lunghi binari di ferro che non si uniscono mai, e apparirà un punto ciuf ciuf, un punto nero, un giocattolo che butta fumo, sempre più grande, finché, entrando in stazione, non si trasformerà nell’enorme locomotiva del treno. Quando il treno si fermerà, salirai la scaletta più vicina con la valigia sulla spalla. Il vagone di prima classe sarà praticamente vuoto e, 193 attraversato il corridoio, passerai dalla prima alla seconda e, oltrepassata anche quella, raggiungerai i vagoni di terza classe, affollatissimi di indigeni, bagagli e galline. Andoni ti accompagnerà da fuori, sul binario, finché non troverai un posto che ti piace in terza classe. Sistemerai la valigia in alto, tra borse, galline e angurie. Nonostante tutto troverai un posto a sedere e, da dietro il vetro, sorriderai al tuo amico che si trova dall’altra parte. “È stata una visita breve” ti dirà Andoni. “Breve e bellissima” gli dirai sorridendo. All’improvviso il treno avrà un sussulto, come un animale che si sgranchisce. Andrà avantiindietro per poi mettersi in moto lentamente. “Tieni duro!” ti dirà. “Addio Esteban, alla prossima!” gli dirai quasi gridando. Poi, non più così lento, il treno si avvierà e vedrai Andoni, la stazione, i tralicci e l’ovest, fuggire alle tue spalle. “Ci vediamo, compagno di tribù!” Il sole ti colpirà e, quando chiuderai gli occhi, 194 L’amico congelato sentirai chiaramente il linguaggio del treno: Tu-tum tu-tum tu-tum... 195 8 DUE PER BANCO Iniziava l’anno scolastico nella scuola di Kalaportu e, quel lunedì, la madre svegliò Goio al mattino presto: “Alzati, bisogna andare a scuola!” “Comportati bene e dai retta a quel che ti dicono i maestri!” “Ti accompagno?” , Goio aprì gli occhi e rispose a sua madre: “Ci vado da solo.” Aveva gli scarponcini nuovi e anche i calzoni lunghi erano nuovi. Non fu facile indossare gli scarponcini, sembrava che i mignoli, imprigionati, non potessero starci in quello stretto spazio. Tuttavia le venti dita vi sarebbero rimaste prigioniere a lungo. La prima volta che Goio era andato a scuola, avrà avuto quattro o cinque anni, sua madre 196 L’amico congelato l’aveva accompagnato. Era presto ma c’erano molti bambini davanti al portone, tutti con la loro cartella, il viso pulito, i capelli pettinati e la riga dritta, con le loro madri, nella loro serietà infantile. Quando avevano aperto la porta della scuola, sua madre l’aveva accompagnato fin dentro l’aula e, dopo avergli dato un bacio, l’aveva lasciato seduto in un banco di legno. Alcuni bambini piangevano e le loro madri se ne andavano lasciandoli così, in lacrime. Ma, alle superiori, c’era da vergognarsi ad arrivare a scuola con la mamma. Esisteva addirittura una parola che era quasi un insulto per definire chi stava sempre attaccato alle gonne della madre: mammone. “Quello dorme ancora con sua madre!” dicevano. Quando arrivarono a scuola, lei disse a Padre Mendibe, in uno spagnolo che a Goio sembrò impacciato: Buongiorno, sono la madre di Gregorio Ugarte. E quel gesuita le rispose come aveva già risposto prima ad altre tre o quatto madri: Alla fine dell’anno sarà orgogliosa di suo figlio. 197 “Vai, mamma!” supplicò Goio. Era arrabbiato con lei perché sentiva gli sguardi burloni degli amici e allontanò la guancia dal suo bacio di saluto. Rimase solo in corridoio, non molto lontano dalla porta della IV B. Io arrivai alle otto meno venti, eravamo partiti da Bilbao all’alba in macchina e mi aveva accompagnato mio padre. Lo ricordo al volante con la cravatta annodata male e i capelli che gli ballavano sulla fronte mentre io, accanto a lui, con la testa quasi fuori dal finestrino, osservavo i verdi paesaggi nebbiosi e assaporavo l’aria fresca del mattino. “È un momento difficile”, erano state le uniche parole che mio padre aveva pronunciato durante tutto il viaggio, assieme a “Non ti farai bocciare, vero?” Benché a Bilbao ci fossero molte scuole e convitti, i miei genitori mi avevano iscritto a Kalaportu convinti che, dai gesuiti, avrei ricevuto 198 L’amico congelato una buona educazione, e per di più mi misero in collegio. E così scesi dalla macchina, pantaloni lunghi nuovi e una altrettanto nuova cartella di pelle. Sceso dall’auto, rimasi a guardare quell’enorme edificio di pietra. Davanti all’entrata c’erano tantissimi ragazzi e anche molti genitori. L’edificio era un blocco unico di pietra grigia, illuminato dal sole del mattino, aveva quattro piani ed era molto lungo, un centinaio di metri, le finestre allineate e un’elegante chiesa gotica a un lato. Mio padre chiese in basco: “Dov’è l’aula di quarta liceo?” Ci indicarono una delle porte, La quarta da quella parte, gli risposero in spagnolo. Entrammo in un atrio buio e pieno di gente, mio padre con la valigia e io con la mia nuova cartella di pelle. “Dov’è la quarta?” chiese di nuovo mio padre. “Proprio qui” gli rispose in basco un ragazzo con i capelli rossi. “Anche tu sei in quarta?” gli chiese mio padre. 199 “Sì.” “Allora ti presento un tuo nuovo compagno, Andoni. Io vado...” Mio padre non vedeva l’ora di andarsene e anch’io stavo aspettando che mi lasciasse solo. Mi fece una carezza sulla testa e se ne andò. Il ragazzo dai capelli rossi era ancora lì, la schiena appoggiata alla parete, in silenzio. Mi misi accanto a lui e gli chiesi in basco: “Sei di quarta?” “Sì.” “Sai in che sezione ti hanno messo?” “Ci sono due sezioni, A e B. Qual è il tuo cognome?” “Martinez Anakabe” dissi. “Allora la tua classe è questa.” Sopra la porta vidi una grande lettera B. “E la tua?” gli chiesi. “La stessa.” Rimanemmo in silenzio, la schiena appoggiata alla parete, uno accanto all’altro. C’era una folla di ragazzi che leggevano gli elenchi, ammucchiati uno sull’altro, quelli dietro 200 L’amico congelato si appoggiavano sulle spalle degli altri per poter vedere meglio. “Io sono nuovo, e tu?” “Io no” disse Goio. I corridoi erano affollatissimi, in cortile c’era una gran quantità di gente, tutti si muovevano rumorosamente da una parte all’altra. “Quanti alunni ci sono in questa scuola?” “Centomila.” Lo disse tutto serio, tuttavia mi misi a ridere quando pensai al significato della parola “centomila”. Suonò una campanella balbuziente per avvisare che era ora di entrare in classe e si formarono due file, io e Goio finimmo in due diverse e io gli feci l’occhiolino. Non so se Goio se ne ricorderà. C’era un ragazzo esageratamente grasso che si era messo davanti alla porta per entrare prima degli altri, si chiamava Zumalde ed era quasi più facile scavalcarlo che girargli attorno. Finalmente entrammo tutti. La maggior parte degli orologi faceva le nove passate. In classe eravamo una trentina, due per 201 banco e, quando apparve il vicedirettore, ci alzammo in piedi. Si fermò sulla porta finché non fummo tutti in silenzio e solo allora entrò sorridente e salì sulla pedana avvicinandosi alla cattedra. Rimase lì in piedi e ci guardò con espressione molto seria. Era alto e magro, indossava un abito talare nero ed era nero dalle scarpe fino al collo, il colletto bianco sembrava di porcellana, aveva labbra molto sottili, portava degli occhiali neri e anche i capelli erano neri, pettinati all’indietro e lisciati con la brillantina. Ci guardò tutti e trenta uno ad uno e, solo dopo, serio e con la fronte corrugata, chiese: “E voi perché siete qui?” L’aula era grande, le pareti alte e verdi, piuttosto scrostate a causa dell’umidità. Su quella alle nostre spalle c’era un crocifisso, la prima cosa che si vedeva entrando in classe. Di fronte a noi la pedana e sopra, a sinistra, la cattedra e, sopra di essa, un mappamondo. C’era anche una lavagna molto grande, sulla quale non c’era scritto ancora niente, nera e pulita e, sopra la lavagna, la fotografia di Francisco Franco. Dopo aver allungato quel freddo silenzio, 202 L’amico congelato disse che Padre Solana avrebbe fatto l’appello. Due alunni del gruppo dell’anno prima erano stati bocciati, avrebbero ripetuto la terza e non avrebbe fatto i loro nomi. Avrebbe invece fatto il nome, non fosse altro che per renderlo noto a tutti, del ragazzo che doveva ripetere la quarta. “Emilio Mina Irasasi!” disse. E, guardando da sopra gli occhiali quel ragazzo dai capelli biondi e rosso in viso di vergogna che si trovava a destra della classe, gli disse che quest’anno avrebbe dovuto utilizzare meno il pallone e di più i libri se voleva essere promosso. Disse anche che avevamo un nuovo compagno, Antonio Martinez Anakabe, di Bilbao, e mi indicò. Iniziò a fare l’appello, quando sentivamo il nostro nome dovevamo alzarci in piedi e rispondere: presente. Tra gli altri, lesse questi nomi: Francisco Javier Larrea Iparragirre, che in cortile chiamavamo Beixama, non so perché. Antonio Martínez Anacabe, mi alzai e dissi: presente. Ignacio Michelena López, il mio amico Inazito. 203 Emilio Mina Irasasi, un ragazzo magro che giocava bene a calcio, biondo e silenzioso, che ripeteva la quarta e aveva le ginocchia piene di croste. Qualche anno più tardi, questo Mina sarebbe passato dall’Athletic Bilbao e poi avrebbe giocato molti campionati nell’Osasuna in serie B. Esteban Oiz Arrizabalaga, che poi avremmo chiamato l’Annegato perché durante l’estate era caduto dal molo e, quando tutti lo davano ormai per morto, l’avevano tirato fuori dall’acqua in fin di vita. Cecilio Ramirez Saiz, figlio di un guardia civil e che viveva in caserma. Fu allora che seppi, con l’avanzare dell’elenco, il nome del mio amico dai capelli rossi: Gregorio Ugarte Etxeita. Juan José Urtiaga Inchaurraga, che portava occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia, sempre il primo della classe; oggi è il proprietario di un bordello a Maiorca. Pedro Zumalde Ezpeleta, detto il Grasso. Ripeté i trenta nomi uno ad uno e, quando considerò concluso l’appello, Padre Solana, che 204 L’amico congelato non si era presentato, rimase in silenzio, soffiò come se volesse togliere la polvere dalla cattedra, collocò alla sua destra i fogli che aveva appoggiato a sinistra, li mise sotto il mappamondo, spostò il calamaio e le penne da destra a sinistra, infine prese dei gessi dal cassetto e li appoggiò sulla cattedra. Poi si fece scuro in volto e, con quelle labbra sottili che muoveva nervosamente, chiese di nuovo perché ci trovavamo lì. “E voi, perché siete qui?” Appena usciti in cortile iniziammo a giocare a pallone. Il cortile mi sembrò incredibilmente grande, paragonato a quelli delle scuole di Bilbao che avevo conosciuto fino ad allora. Il campo di calcio che chiamavano regolamentare occupava lo spazio migliore, le porte erano di metallo e avevano la rete. Vicino a quel campo grande ce n’era un altro più piccolo, con delle vecchie porte di legno. Dall’altra parte, per giocare alla pelota basca, uno sferisterio coperto. 205 Il campo regolamentare fu occupato dai ragazzi di quinta e noi ci accontentammo di quello con le porte di legno. Mentre Emilio e gli altri si organizzavano per formare le squadre, Inazito imitò il tono e il modo di parlare del vicedirettore per farci ridere tutti. “E voi, perché cazzo siete qui?” Avremmo giocato una partita di mezz’ora, dalle dieci alle dieci e mezza, praticamente tutte le mattine. C’era abbastanza spazio per correre e dribblare ma non sempre era facile giocare a calcio. Si giocavano contemporaneamente diverse partite, una nel campo regolamentare, un’altra in quello piccolo, a volte una partita per ogni porta. Inoltre in cortile c’erano molti alunni che passeggiavano o giocavano ad altro. Iniziavi a correre da un estremo e non solo dovevi dribblare i difensori della squadra avversaria ma anche un sacco di altra gente. E se era uno della squadra avversaria a toglierti il pallone, pazienza, ma a volte te lo toglievano quelli di quinta o di sesta e allora non c’era niente da fare. Per esempio, un tal Urruti ci prendeva la palla e, con un tiro allo stile di Iribar, la 206 L’amico congelato lanciava nella stratosfera. Quindi guardava prima la sua scarpa, per controllare che non si fosse rotta e, poi, osservava con ammirazione la traiettoria del pallone, finché questo non cadeva a terra, nel cortile se il tiro era stato verticale, o se la traiettoria era parabolica, su uno dei tetti della scuola o in qualche orto lontano. “Fermo lì!” diceva allora Urruti, come se desse ordini al pallone che aveva lanciato. Non c’era modo di vendicarsi dei più grandi, se non a bassa voce. “Che imbecille!” diceva Goio. Ma la ricreazione fu breve e poi ci aspettava l’ora di “Formación del Espíritu Nacional”. L’insegnante rimase sulla porta, ci guardò entrare e, quando fummo tutti seduti ai nostri banchi e in silenzio, entrò e salì sulla pedana. Come prima cosa si presentò: Clemente López. Poi, dopo aver fatto di nuovo l’appello, ci ordinò di aprire il libro alla pagina a colori. 207 Aprimmo il libro di FEN e i colori della bandiera spagnola occupavano entrambe le pagine; il resto del volume era in bianco e nero, con le immagini grigie. Sotto la bandiera si potevano leggere le parole che lui stava pronunciando lentamente con tono retorico: La bandiera spagnola è composta da tre strisce orizzontali, quella superiore e quella inferiore sono rosse e quella centrale è gialla, al centro si trova lo scudo delle armi della nazione... Era giovane e forte, i muscoli del suo corpo sembravano scolpiti. Si muoveva lentamente tra i banchi, avanti e indietro. Dalla parete alle nostre spalle l’immagine di Gesù Cristo crocifisso ci guardava dal suo martirio, mentre Francisco Franco, con la divisa da generale, vigilava da sopra la lavagna. Siccome eravamo a coppie nei banchi, mi toccò sedermi vicino a Goio fin dal primo giorno. Durante le lezioni dovevamo stare attenti, con gli occhi e le orecchie ben aperti e la bocca chiusa. Terminammo alle dodici e, mentre i ragazzi che vivevano a Kalaportu o nei dintorni andarono 208 L’amico congelato a casa, noi del collegio fummo costretti a rimanere lì. Prese le pesanti valigie che avevamo lasciato appoggiate alla parete in fondo alla classe, salimmo delle scale di legno e fummo accompagnati di corridoio in corridoio fino alla nostra camera. Entrammo nel dormitorio lentamente, come se fosse un luogo dove si deve entrare facendo attenzione. Guardai in alto e le travi del soffitto mi apparvero come le dita di una gigantesca mano pronta a stringerci nel suo pugno. La stanza era grande e i letti erano disposti ai due lati, nove o dieci in ogni fila. Ne scelsi uno vicino alla finestra e ci appoggiai sopra la valigia. Camminai lungo quella specie di corridoio formato dalle due file di letti per prendere familiarità con il posto. È grande, pensai dopo aver contato ventisei passi in entrambe le direzioni. Vicino a ogni letto c’era un armadio di legno e una lampadina sopra la testiera. L’interruttore era appeso alla parete, lo schiacciai e la luce si accese. “Il bagno!” sentii. Andai a vedere il bagno, era per lo meno sette volte più grande di quello di casa. C’erano 209 sette lavabo in fila, ognuno con il proprio rubinetto, ognuno con uno specchio ovale. In uno degli specchi vidi un viso. Era il mio, quello di un ragazzino pallido, spaventato e fuori luogo. Allora tornai al dormitorio. I miei compagni avevano aperto le valigie e stavano riponendo gli abiti nell’armadio. Mi avvicinai alla finestra, era spalancata e si ammirava il mare, molto azzurro e delimitato da una linea netta all’orizzonte. A sinistra si vedeva Kalaportu. Presi il fazzoletto dalla tasca e mi asciugai il sudore dalla fronte. Il suono della campana ci svegliava alla sei in punto, dovevamo alzarci immediatamente, mezzi addormentati, rattrappiti dal freddo, arrabbiati; avevamo un quarto d’ora per andare in bagno e vestirci, poi scendevamo in refettorio e recitavamo un Padre Nostro prima di far colazione. Io ero nuovo e i primi giorni dovetti subire alcuni scherzi. Una volta, tolsi dall’armadio e 210 L’amico congelato lasciai sul letto un paio di calzini che mia madre aveva ripiegato a forma di palla, li presero e iniziarono a lanciarseli tra loro mentre io correvo da un letto all’altro, scalzo, finché non riuscii a riappropriarmene. Poi, quando stavamo facendo colazione e io avevo appena preso la mia tazza di latte e cacao, alcuni mi chiamarono e, mentre mi avvicinavo per vedere cosa volessero, la mia tazza sparì. Non potevo certo iniziare a chiedere, visto che quelli seduti accanto a me sembrava non avessero visto niente. Decisi di andarmene senza far colazione e, uscendo dal refettorio, trovai la mia tazza sul pavimento del corridoio. Bevvi il mio latte e cacao e, quando tornai dentro per restituire la tazza, mi ricevettero con risate e battute. Quelle prove, abituali per i ragazzi nuovi del collegio, suscitarono in me un’amara tristezza che mi avrebbe accompagnato per tutto l’anno che rimasi lì. Il mattino successivo conoscemmo la nuova professoressa di francese, era una ragazza giovane che indossava dei sottili occhiali rotondi. Prima di 211 parlare, scrisse in alto a destra sulla lavagna, come se stesse scrivendo sull’orlo di un precipizio: Français – Deuxième Degré Si diffuse odore di gesso nuovo. Poi si presentò parlando in francese il più lentamente possibile: Je m’apelle Ariane Daguerre, je suis de Saint Jean-de Luz... Portava i capelli raccolti in una lunga treccia che le scendeva sulla schiena. Era piuttosto magra e quel giorno indossava una camicetta e una gonna viola. ...pas loin d´ici, et je voudrais être votre amie. Sbocciarono sorrisi qua e là. Inazito fece una pallina con la mollica del panino che aveva portato per l’intervallo, la tirò avanti e colpì la nuca del Grasso seduto in un banco della prima fila: era impossibile sbagliare un bersaglio di quelle dimensioni. Quando la professoressa vide la pallina di 212 L’amico congelato pane volare in aria, colpire la nuca di Zumalde e cadere a terra, calcolò la traiettoria al contrario e, sfilati gli occhiali, disse a Goio, con i suoi occhi scuri, profondi e brillanti: “Tu!” “Io? disse Goio. “Sì, tu!” Adesso parlava in basco e ne eravamo tutti sorpresi. “Vieni qui davanti e tu vai là in fondo.” Goio si spostò in prima fila, senza protestare, mentre Inazito faceva una faccia da “iononsonostato”. Il viaggio del Grasso per raggiungere l’ultima fila fu complicato, non passava nello stretto corridoio formato dalle file di banchi e bisognava spostarli. Tutto si fece nel modo più rumoroso e impacciato possibile. Alla fine si sedette vicino a me e la sua mole non mi lasciava spazio nemmeno per muovermi. Ariane, guardando Goio in faccia, disse ad alta voce: “Farò finta di niente perché è la prima volta 213 ma, d’ora in poi, le stupidate fuori!” Da quel momento avrebbe avuto davanti a sé sessanta occhi spalancati, tutti in silenzio a guardare quella Mamuasel Mademoiselle. Ariane, senza nessuna vergogna né alcun cenno di timore, continuò la sua lezione, con la domanda principale scritta alla lavagna: Q’est-ce que c’est? Non ci fu nessun altro incidente finché, quando mancava poco alla fine della lezione, Inazito le fece una domanda. Alzò la mano tutto serio e, quando lei gli diede il permesso di parlare, le chiese in spagnolo: “Siccome Lei è francese, saprà se davvero i bambini vengono da Parigi.4 Per un attimo in classe si fece un silenzio tombale ma sul viso della professoressa si disegnò un sorriso e rispose in basco: “Voi non siete venuti da Parigi, questo è chiaro, altrimenti sapreste il francese molto meglio. Per oggi abbiamo finito, potete andare, fini.” 4 Nella tradizione popolare, l’equivalente della cicogna che porta i bambini è che i neonati vengono da Parigi. [N.d.T.] 214 L’amico congelato Uscimmo ridendo e facendo commenti goliardici sulle gambe della nuova professoressa. Uno che sedeva nel primo banco, proprio di fronte a lei, disse che si vedeva tutto da sotto la cattedra. “Tutto!” diceva. Anche quel fini con cui aveva concluso la lezione, ci sembrò divertente. Fini, simile alle ultime parole dei film. All’uscita volevo parlare con Goio della pallina di pane e del cambio di banco, volevo sapere cosa ne pensasse lui, ma Goio se ne andò a casa senza dire una parola. Avevamo quattordici anni e non parlavamo molto. A volte, anche per lunghi periodi, ci comportavamo come se fossimo muti. 215 9 VAPORINO Tu-tum tu-tum tu-tum... il viaggio in treno si allungherà di stazione in stazione finché non sentirai qualcuno dire: “Siamo arrivati.” “Era ora” dirà un altro mentre prende i suoi pacchetti. Svegliandoti, la luminosità dell’alba ti penetrerà gli occhi, come se qualcuno all’improvviso avesse tirato le tende della finestra della camera da letto. Saranno le sette del mattino alla stazione ferroviaria di Guayaquil, l’ora in cui la città si alza e inizia a camminare scalza sulla terra fredda. Netturbini con i camion dell’immondizia, operai che vanno al lavoro, ubriachi che tornano a casa, profumo di pane fresco, negozi che aprono, l’ululare delle sirene delle fabbriche e delle navi. 216 L’amico congelato La nebbia bassa diluirà i contorni degli oggetti creando un ambiente irreale e anche la gente per strada sembrerà fatta di un’altra sostanza. Entrerai all’hotel e ti sdraierai sul letto a leggere il giornale. Farà caldo, il ventilatore appeso al soffitto sarà sufficiente solo a far volare le pagine del giornale aperto. “Guayaquil è un luogo paludoso, anfibio, dal sottosuolo molle e argilloso. Per costruire la città, dalle colline vicine dovettero portare materiale di riempimento...” Ti alzerai e con passo leggero attraverserai la stanza, da una parte all’altra, come se fosse un altro e non tu ad alzarsi, e vedrai i tuoi piedi allontanarsi da soli. Dopo aver verificato quanti soldi hai, guarderai la pagina degli annunci erotici. E farai una richiesta al telefono. “Allora Lei vuole una studentessa?” chiederà una voce suadente all’altro capo del filo. “Sì, una studentessa” dirai e ti sentirai ridicolo. “Il suo indirizzo?” 217 Vorrai una prostituta che non lo sembri, una studentessa, una sconosciuta che, benché si faccia pagare, potrebbe essere disposta a stare con te anche senza denaro. “Il suo indirizzo, per favore?” Allora riattaccherai. Poi, mentre leggi il giornale, sarai vinto dal sonno, la marcia degli indios a Quito proibita, gli alti e bassi del valore dell’euro, le rivendicazioni dei palestinesi, un bulldozer che ha abbattuto una parte del quartiere schiacciando due vecchie sorelle che vivevano in una baracca e che dovevano essere sorde per non aver sentito il bulldozer; dormirai fino alle tre del pomeriggio quando a svegliarti sarà il suono di una sirena. Allora ti stiracchierai e osserverai il paesaggio dal balcone dell’hotel. Edifici nuovi, grattacieli che sembrano squarciare le nuvole con la staticità di enormi fantasmi sull’attenti. Ricorderai che Guayaquil è una città anfibia e che le fondamenta delle case sono di fango e sentirai di nuovo il suono di una sirena, sarà quella di un transatlantico. 218 L’amico congelato Andrai a trovare Edwin Walsh. Le strade di Guayaquil saranno tranquille, mandibole che masticano, nei negozi liquidazione di pantaloni e scarpe, un bambino compra una pannocchia di mais da un venditore ambulante. Cartelli pubblicitari: Vola a Honolulu con Pan America Busserai alla porta e ti aprirà un signore anziano incredibilmente alto, magro e pallido: “Edwin Walsh?” “Sì. E lei invece è l’infermiere mandato dall’Università, no?” dirà in inglese, tossendo. “Entri...” Sarà una casa piena di libri e di ampolle di vetro. “È il luogo più bello e stupefacente che conosco” dirà. “Quale?” chiederai. Tossirà e sul suo viso si disegnerà una smorfia di dolore. 219 “Non mi interessano i calcoli di nessuno, sia esso il Cattedratico di Medicina o il Capo degli Stregoni...” Ti renderai conto che è una di quelle persone che pronunciano la parola scienza con la maiuscola e che, per sottolineare la sua fede nella conoscenza oggettiva e sistematica della natura e dell’essere umano, articola un po’ più alto in inglese le parole di origine greca o latina. Farà la parola “Prognosi...” e ti ricorderai delle metastasi. Poi parlerà della morte: “Vivrò fino alla morte” sentenzierà. “Questo corpo individuale diventerà cadavere, il carcere di ognuno di noi diventa la nostra tomba. Prima o poi tutti moriremo, è solo questione di tempo. Tuttavia la morte, quando arriverà, lo farà di sorpresa. Vivrò fino alla morte e anche il medico vivrà finché non morirà. Il medico crede di sapere quando morirò ma quel povero diavolo non sa proprio niente, nemmeno quando morirà lui...” Ti parlerà della morte in un inglese quasi accademico e, benché si rivolga a te guardandoti in 220 L’amico congelato faccia, ti sentirai un impiccione e te ne vergognerai, come se stessi mettendo il naso in qualcosa di proibito. In quel momento apparirà Edna, dicendo Hai, con due tazze di tè in mano. “Questa è Edna, mia moglie” dirà Edwin. Meryl Streep, penserai, prendendo una delle due tazze in mano. “Quando mi dissero che avevo il cancro, pensai di essere di fronte a un’invasione...” Edna sparirà in silenzio. “Allora riunii le forze per la guerra, perché dovevo cacciare l’invasore dal territorio del mio corpo. Assieme all’oncologo decidemmo per una terapia aggressiva, chemioterapia e radioterapia assieme...” Avere a che fare con un corpo malato è duro, ma l’abitudine e la vicinanza facilitano la cosa. Nonostante ciò non potrai sopportare la narrazione della malattia, ti produrrà malessere. Lì dove guardi sorgerà una macchia grigia e, per paura di svenire, volgerai lo sguardo verso le ampolle di cristallo nelle vetrinette appese alle pareti, ma la macchia 221 grigia si farà sempre più grande. “Edna è sempre stata accanto a me, mi ha accompagnato a tutte le visite mediche. È piacevole e divertente andare dal medico con lei, prende sempre appunti, io l’ho conosciuta così, quando era una studentessa, e adesso la vedo di nuovo prendere appunti, fare domande precise e difficili...” Per uscire dalla nebbia che ti ricopre e ti avvolge, penserai che Edna, Meryl Streep, forse prenderà parte alla spedizione, ma ormai non vedrai più niente. “Come sa, la guerra contro il cancro è una guerra difficile, si devono organizzare complicate operazioni militari. Ecco, è lei che si è occupata di mettere a punto la strategia...” La voce di Edwin Walsh si allontanerà sempre più, fino a diventare impercettibile e, anche se ti sforzerai di rimanere in piedi, la nebbia grigia ti vincerà. Ti piegherai e perderai conoscenza finché non inizierai di nuovo a recuperare i sensi. “A poco a poco mi sono reso conto che 222 L’amico congelato sono le mie cellule a provocare il cancro” sentirai di nuovo la voce avvicinarsi e vedrai le bottigliette nelle credenze, “alcune cellule vogliono vivere in modo diverso, quindi per sconfiggere il cancro devo uccidere alcune parti del mio corpo... Si sente male? È diventato pallido come un lenzuolo...” I capelli bianchi di Edwin ti sembreranno la cima di una montagna innevata. “No, non è niente, un piccolo capogiro...” “Adesso direi che il mio nemico non è la morte. Ho imparato ad accettare il cancro, non so se si tratta di una forma di tolleranza o di rassegnazione.” Prenderai aria, guarderai le ampolle e gli chiederai: “Che farmaci prende per il dolore?” “Brompton” ti risponderà. “Ma non si preoccupi, se ne occuperà Edna.” Perché è Edna che tiene i farmaci. “Il Brompton è morfina, no?” Non avrai il coraggio di dire che il Brompton è morfina e che la morfina crea una forte dipendenza. “Lei è la condizione che ci ha posto 223 l’Accademia delle Scienze. Lo sa, vero?” All’inizio non capirai cosa vuole dirti. “Quindi non le darò molto da fare. Porteremo noi i farmaci ma, comunque, non ce ne sarà bisogno di molti, ormai prendo solo il Brompton.” Allora apparirà di nuovo Edna, con dei fogli in mano. Saranno tre moduli che dovrai compilare con i tuoi dati e capirai di non essere altro che l’infermiere professionale di cui hanno bisogno per ottenere il permesso sanitario. In questo viaggio non sei altro che una formalità burocratica, praticamente qualcosa di troppo, un parassita, in fin dei conti. “E queste ampolle?” chiederai. “Faccio collezione dell’acqua dei luoghi in cui sono stato...” Una collezione di acque, hai sentito bene. Ogni bottiglietta d’acqua avrà la sua etichetta: Fiume Giallo, Mar Morto, Danubio, Capo Verde, Amazzonia... “Mari, fiumi, cascate, sorgenti...” dirà Edwin. Chiedigli: Perché collezionare acqua, perché ridurre l’immensità dei mari, dei fiumi, delle cascate 224 L’amico congelato e delle sorgenti in bottigliette d’acqua. Chiedigli se ha avuto successo il suo sforzo di catturare un mondo che non è mai lo stesso. “È stato in molti posti” gli dirai. Edwin farà una smorfia di dolore e, aprendosi un po’ la camicia, si alzerà e allora vedrai la sacca. Una vescica gialla attaccata alla pancia, come se la morte arrivasse colpendo con un palloncino, come facevano i bambini di campagna quando giocavano con una vescica di animale gonfiata. Edwin la sosterrà con la mano e siccome rimarrà fermo, in piedi di fronte a te, penserai che è arrivata l’ora di andartene e gli stringerai la mano. Anche Edna verrà a salutarti: “Allora ci vediamo domani mattina, alle undici al porto.” Scenderai le scale, turbato. Più tardi, verso mezzanotte, passeggerai per questa città che non conosci, con il segno invisibile della solitudine inciso sul petto. Strade 225 buie, un cinema chiuso per lavori, un viale illuminato ma senza gente, i bar chiusi. Cammini guardando timoroso la tua ombra, che si allungherà spaventosamente quando passerai sotto un lampione e si dissolverà dietro di te mentre un’altra prenderà forma avvicinandoti al successivo. Ti incamminerai verso il porto all’ora in cui, cessati il lavoro e l’attività, la riva del mare è più triste. Le luci di alcune imbarcazioni sono ancora accese, ma la baia è buia e lì, vicino al lungomare, troverai un bar con i tavoli e le sedie rivolti al mare. La porta sarà aperta e, dietro il bancone, una donna starà lavando bicchieri. “È chiuso” ti dirà. Ma tu entrerai lo stesso. All’interno del bar non ci sarà nessuno. Avvitati a terra, alti sgabelli in fila uno accanto all’altro davanti al bancone, come ubriachi che non hanno nessuna intenzione di tornare a casa. La donna continuerà a pulire bicchieri. “Birra?” “No, a quest’ora non si serve più niente di alcolico.” 226 L’amico congelato “Allora cosa si serve?” “Niente, il bar è chiuso.” “Avrai qualcosa per togliere la sete...” “Ho detto che il bar è chiuso.” “Questa città è un deserto, questa Guayaquil!” dirai e allora la donna ti sorriderà. “Sto preparando qualcosa in cucina, se gradisci...” Caffè, metà o doppio, con o senza schiuma, in tazza o nel bicchiere. Non ti chiederà niente ma poco dopo tornerà dalla cucina con due tazze fumanti e te ne offrirà una. Il caffelatte ti sembrerà troppo dolce e troppo caldo. Non avrete molto da dirvi e, gli occhi fissi nelle tazze, rimarrete a lungo in silenzio. “Quant’è?” dirai estraendo alcune monete dalla tasca. “Non è del bar” ti dirà la donna. “È della cucina e non si paga.” Le mostrerai i soldi nella mano e lei prenderà due monete per il juke-box. “Se vuoi, puoi pagare la musica.” 227 La donna è color zucchero caramellato e, giratasi per uscire dal bancone, andrà prima al juke-box. “Vuoi ballare?” ti dirà allora, con un gesto languido. Inizierete a ballare al suono del bolero appena iniziato. È lo stesso, domani mattina mi sarò dimenticato di te, e berrò un lungo sorso, così lungo come il tempo passato prima di incontrarti. La vibrazione della voce che proviene dal disco si estenderà nella penombra del bar come schiuma, evidenziando il freddo, la ruggine e l’umidità sprigionati dal juke-box, dalla puntina e dalle pareti. “E tu, a quale specie della fauna locale appartieni?” ti chiederà parlandoti all’orecchio. “Che fauna c’è da queste parti?” “Cholos5, montubios6, marinai, pescatori, contrabbandieri, stivatori, vaporinos7, conquistatori 5 In Ecuador, i meticci della costa sud. Usato anche in senso dispregiativo per indicare una persona volgare, poco educata, di bassa estrazione sociale.[N.d.T.] 6 Contadini della costa. [N.d.T.] 7 A Guayaquil, termine utilizzato per indicare i lavoratori locali del porto.[N.d.T.] 228 L’amico congelato di mogli dai mariti assenti...” Tu cosa sei? Dille che sei un vaporino. “Vaporino” dirai. Sentirai le sue dita sulla nuca, tra i capelli. “E tu, dove vai dopo?” “Io dormo qui” ti risponderà. E vicino alla porta della cucina se ne vedrà un’altra, socchiusa, oltre la quale c’è il buio. “È vero che chi ha i capelli rossi è cattivo?” ti chiederà. Sentirai il suo seno stretto contro il tuo petto, la sua vita contro la tua, le cosce in mezzo alle tue gambe, il suo respiro sul collo, il pube sulle tue cosce. Il disco continuerà a girare al suono caldo del bolero e una voce straziante canterà di sentimenti svaniti nella distanza e di amori diventati foschi tradimenti. Non importa, domani mattina ti avrò dimenticata e ricomincerò da un altro estremo. Allora vi scambierete nomi falsi e complimenti tra i sorrisi, e avrai addirittura il coraggio di accarezzarle i capelli e il collo. Lei allontanerà leggermente il corpo e ti sussurrerà: 229 “Scansati.” Poi, portandoti verso la stanza dalla porta socchiusa, ti chiederà: “Mi aiuti a mettere a posto?” Smetterete di ballare e vi metterete al lavoro. Pulirai i tavoli con uno strofinaccio, metterai le sedie capovolte sopra i tavoli e scoperai il pavimento. Ogni tanto guarderai la donna, anche lei al lavoro, ma non ti fermerai, pulirai anche i mozziconi appiccicati ai tavoli, ansioso di andare a letto con lei prima possibile. “Potresti pulire anche all’entrata?” “All’entrata?” Uscirai e, sul marciapiede, alla luce che filtra dalla porta di vetro, inizierai a raccogliere lattine di coca-cola, bottiglie vuote, fogli di giornale, pezzi di vetro. Vedrai la donna sulla porta, dietro la porta. La vedrai chiudere a chiave e schiacciare il naso contro il vetro, senza altri gesti, gli occhi languidi dalla noia o dal sonno. Penserai che finito di pulire l’entrata ti aprirà e, senza dire altro, ti inviterà nel letto della stanza 230 L’amico congelato socchiusa; con la scopa sulle spalle ti avvicinerai alla porta sorridendo. La donna chiuderà il catenaccio, schiacciando di nuovo il naso contro il vetro e ti saluterà con la mano, come chi parte per un lungo viaggio saluta dal treno o dalla nave quelli che restano sul binario o sul molo. “Aprimi,” dirai. La ragazza, con il naso sempre schiacciato contro il vetro, continuerà a salutarti con la mano. Addio, vaporino, escapero, buonanotte e sogni d’oro. Prenderà la chiave dalla tasca del grembiule e te la mostrerà. La infilerà di nuovo in tasca prima di ritirarsi nella sua stanza. “Che cazzo di storia è questa!” dirai in basco, con la scopa ancora in mano, davanti all’entrata appena pulita di un bar sconosciuto di un’altrettanto sconosciuta città. Il vetro risucchierà e ti restituirà la tua immagine con sorprendente abilità di prestigiatore. Sarai proprio tu ma all’inizio non riconoscerai la tua figura. Alto, magro, capelli rossi, maglione verde e pantaloni blu, più pallido che mai, farai fatica ad 231 accettare subito di essere tu. Perché sembrerai il cadavere di un annegato nelle acque solidificate del grande vetro. Ti guarderai attorno e non ci sarà nessuno, sarai completamente solo sul marciapiede, appoggiato al vetro. Ti spaventerai al sentire inaspettatamente qualcosa sulla mano, ma non sarà altro che un cagnolino che te la sta bagnando di bava. Il cagnolino si metterà al tuo fianco e, dopo averti dato qualche leccata se non proprio di familiarità almeno di amicizia, con la lunga lingua penzoloni anche lui rimarrà a guardare il vetro. Andrai verso il porto e il cagnolino ti seguirà. Si potranno ascoltare ancora alcune voci provenienti dalle imbarcazioni, incomprensibili sussurri. Dal molo piscerai nel mare, a lungo e ridendo. Le voci nascoste della baia e il movimento delle imbarcazioni saranno come quelle del contrabbando e le fioche luci delle lampadine brilleranno come pesci rossi nell’oscurità del mare. 232 L’amico congelato 10 GEOGRAFIA E IL QUARTIERE DI KAIONDO Avevamo quattordici anni e non parlavamo molto. A volte, anche per lunghi periodi, ci comportavamo come se fossimo muti. Inoltre, per quelli che come me stavano in collegio, il mondo era assai limitato. Era praticamente proibito uscire per strada, ma anche i meandri di quell’enorme vecchio edificio ci erano vietati. Le nostre conversazioni erano piuttosto stupide, soprattutto quando iniziavamo a competere per stabilire chi di noi avesse un’origine o appartenesse alla classe sociale più alta. “Mio padre è pescatore.” “Il mio, invece, è capitano di nave.” “Mio padre è l’uomo più ricco della provincia di Bizkaia” diceva un altro esibendo il suo orologio come si mostra una bicicletta nuova. 233 “Mio padre ha un camion.” “Il mio invece ha una Seat 1500 e mia madre una Seat 800 per andare a fare la spesa.” Allora Inazito disse: “Mia madre, invece, ha un asino” “E va per strada con l’asino?” “Ma certo, tutti i giorni scende a Gernika a vendere il latte.” “E quando passano le macchine?” “Quando arriva una macchina, si sposta un po’.” C’erano anche delle missioni di esplorazione del collegio, perché la clausura era piena di misteri e segreti, così il terzo giorno a mezzanotte presi parte a una spedizione per il sopralluogo di quegli antri bui. Avevamo Inazito come guida e avanzammo in quattro, facendo scriiih scriiih scriiih sul legno lucidato a cera delle scale e degli interminabili corridoi, aprendo gniii gniii porte chiuse. Camminavamo in silenzio e ogni tanto venivamo illuminati da raggi di luce che entravano dai finestroni come fossero spade. Ci addentrammo nella sala appartata degli animali imbalsamati e 234 L’amico congelato in altri anfratti proibiti, facendo molta attenzione perché dietro ogni angolo poteva esserci un gesuita in agguato. E allora sì, che saremmo scappati di corsa lungo i rimbombanti corridoi della clausura. Nonostante quelle passeggiate clandestine, l’ambiente del collegio era triste e deprimente. Al tramonto ero solito guardare dalla finestra verso Kalaportu, quel paesino lì in basso che mi era piaciuto fin dal primo momento in cui avevo messo piede in quella scuola. Aveva un odore speciale, si diceva che era per la salsedine, ma si diffondeva chissà da dove, quando e perché, dal mare, dai magazzini del pesce, dalle vecchie soffitte o dai letti. Ben presto iniziai a sentire storie di vita del paese e di fughe dal collegio. Sembrava che ne fossero successe di ogni genere, per le strade di Kalaportu, nei casolari dei dintorni o sulla costa. Molte storie d’amore, ma anche di ragazzi del collegio morti durante quelle uscite senza permesso. 235 Il professore di Geografia si chiamava Patricio, era un uomo sulla cinquantina, dalla pelle scura quasi verdastra, indossava sempre un abito elegante. Quando entrammo in classe, stava disegnando una cartina alla lavagna con gessi di colori diversi. Ci sedemmo ai nostri banchi e aprimmo il libro di geografia. In una pagina c’era una tigre a strisce che ci guardava, in un’altra invece una famiglia eschimese che ci osservava dalla porta dell’igloo. Goio osservava meravigliato la cartina del mondo prendere forma dal gesso che il professore teneva nella mano nervosa cercando di rappresentare i sei continenti e riempiendo completamente la lavagna scura. All’improvviso, dando per concluso il disegno, il professor Patricio disse: “Voi siete qui!” Lo disse alto e chiaro, Voi siete qui, indicando la costa di Biscaglia sulla cartina alla lavagna, come se volesse sottolineare Voi, io forse no. Scese dalla pedana, mostrò il libro aperto e, 236 L’amico congelato indicando l’immagine di un elefante, chiese dove l’avremmo collocato, in che punto della cartina poteva vivere quell’animale. Inazito alzò la mano. Con il permesso del professor Patricio, salì sulla pedana e, avvicinatosi estasiato alla cartina del mondo, con l’indice toccò l’Inghilterra. Il professor Patricio gli ordinò di tornare al suo posto: “Gli elefanti vivono in Africa e nel sud dell’Asia” e ce le indicò sulla cartina. “Questa è l’Africa e questo è il sud dell’Asia.” Poi citò gli eschimesi, la figura a pagina settantasei, e io sapevo che gli eschimesi vivevano al Polo. “Dove vive questa famiglia?” chiese. “Al Polo!” disse qualcuno. Si avvicinò al mappamondo sopra la cattedra e ci disse che ci sono due poli, quello sopra, il Polo Nord e, sotto, il Polo Sud e che il nostro pianeta è sempre in movimento rotatorio e tac diede una spinta al mappamondo, aggiungendo che l’asse di rotazione è una linea immaginaria tra i due poli. Nelle mani del professor Patricio io vedevo 237 solo la base di marmo del mappamondo e il semicerchio di metallo, perché i confini e i colori scomparivano con la velocità della rotazione. “Gli eschimesi vivono al Polo Nord o al Polo Sud?” chiese il professor Patricio. “In tutti e due!” rispose qualcuno. Il professor Patricio disse che non era così, che gli eschimesi vivono al Polo Nord e che al Polo Sud non vive nessun essere umano. Il professor Patricio era un uomo maturo e serio, sembrava una brava persona, anche se era sempre un po’ triste. A volte sorrideva, ma era come se una parte di lui, per lo meno la metà, fosse in un altro luogo. Poi seppi che viveva a Kalaportu, nella Casa dei Filippini. Quella dei Filippini era una casa straordinaria, un palazzo barocco con gli angoli e le colonne decorati con immagini della ricca flora e fauna orientali. C’era un giardino frondoso, un’esuberante oasi di piante tropicali all’interno dal sobrio paesaggio basco, con innumerevoli stagni e un ponticello con una statua. Porte di ferro e un muro tutt’attorno proteggevano, solidi e invalicabili, il senso di proprietà dei padroni o il loro desiderio di 238 L’amico congelato vivere appartati. Il professor Patricio parlava in spagnolo con uno strano accento. Non svelò mai perché fosse fuggito dalle lontane Filippine, ammesso che fosse veramente fuggito da lì, per finire in quel buco di Kalaportu, ma il sospetto e le malelingue dicevano che era giunto in esilio o in fuga da qualche tenebrosa disgrazia. Però la casa era vecchia, come dimostravano l’edera che si arrampicava sulle pareti e i maestosi alberi esotici del giardino. Quando il professor Patricio era nato, la casa dei Filippini doveva esserci già da tempo. Non eravamo nemmeno sicuri che fosse davvero filippino, perché non c’erano altre prove eccetto il nome della casa in cui viveva, e forse l’atmosfera malinconica delle sue lezioni, era dovuta alla misteriosa origine di quel professore di Geografia. Quell’uomo ci portava ad immaginare la leggenda di un passato familiare agiato e felice, ricchezza e felicità che il nero vento della disgrazia sembrava avesse distrutto e disperso, per portarne fin qui alcuni resti di cui in realtà ignoravamo la provenienza, così come non sapevamo per quanto 239 tempo si sarebbero conservati. Il calcio era l’unico modo per sfogare le energie in quella vita opprimente del collegio. Mi chiamavano Arieta Secondo, per i gol che facevo, e cominciai presto a formare la mia squadra contro quella di Emilio Mina. Quando sceglievo i giocatori, prendevo sempre Goio per primo: “Goio” dicevo. Emilio sceglieva sempre Zumalde come portiere, perché i palloni rimbalzavano sull’ampio corpo del Grasso. Era come mettere un elefante seduto in porta, ci lasciava solo degli stretti angoli per riuscire a infilare un gol. Goio non era così utile ma era coraggioso, si lanciava in aria e si allungava tutto, per cadere poi sul pavimento del cortile come si fa sulla sabbia della spiaggia o sull’erba di un prato. Anche quel giorno stavamo giocando nel campo piccolo ed Emilio, preso il pallone dalla sua porta, dribblò tutti fino ad arrivare di fronte alla nostra, calciò con forza e Inazito, che era avanti a 240 L’amico congelato Goio, alzò mano. “Mano!” disse Emilio. “Mano! Rigore!” iniziarono tutti a gridare. “Rigore!” Noi dicevamo di no ma senza molta convinzione. Emilio contò undici passi dalla porta e collocò lentamente il pallone a terra. Goio era al centro della porta, dritto come una candela, e in quell’istante arrivò la professoressa di francese. Emilio rimase fermo due secondi a guardare Goio, quel giorno la professoressa di francese aveva i capelli sciolti che le cadevano sul collo e sulle spalle come una pioggia nera, Emilio si avvicinò lentamente al pallone, Ariane entrò nell’oscurità della scuola senza guardare nessuno e... gol. “Il rigore” gli dissi, “te l’hanno segnato perché stavi guardando la professoressa di francese...” Un pomeriggio, verso le sei, indossai i pantaloni lunghi e scavalcato il muro del cortile, uscii dal collegio. 241 Mi fermai sul ponte di Zubieta e per me quell’avventura aveva il fascino di tutto ciò che è sconosciuto. Il ponte sopra il fiume era alto e stretto, sembrava un arco teso al massimo per lanciare la freccia; in realtà era fermo e tranquillo e serviva solo per unire le due sponde. Il fiumiciattolo sfociava nel porto, a destra c’era il cantiere navale e le case nuove di Zubieta e dietro, già abbastanza lontano, il collegio. Sulla riva sinistra del fiume, Kalaportu. Le strade erano strette e umide, sinuose e buie come le viscere di un animale vecchio e grande. Nel porto c’erano una decina di pescherecci e qualche battello. Le onde del mare oltrepassavano il muro di protezione del molo, ma all’interno l’acqua era ricoperta da uno strato oleoso, apparentemente calma, pezzi di legno e bucce d’arancia galleggiavano. Si sentiva odore di petrolio, di sardine marce, di mare. C’era un vagone che veniva utilizzato sui binari che percorrevano il molo da una parte all’altra. Un pescatore con la barba rossiccia che stava sistemando le corde sulla barca, mi guardò 242 L’amico congelato ma non mi disse niente. Anche un uomo scuro che lavorava sulla gru, mi osservò dall’alto quando passai sotto di lui. Mi sedetti su una catena di ferro che si allungava fino alla prua di una barca da pesca che, benché legata, si muoveva lentamente con l’acqua. Ogni tanto si avvicinavano un piccione, un gabbiano o un uccello più grande, per mostrare con il loro volo maestoso l’azzurro del cielo. Il peschereccio attaccato alla catena su cui ero seduto, all’improvviso fece un movimento brusco, quasi un salto, come un omone addormentato che sta per svegliarsi a causa di un brutto sogno. Per paura di cadere, mi aggrappai alla catena. Poi il sole illuminò i pendii ad ovest e, dall’altra parte, con il tramonto, una grande ala d’ombra si distese sul porto. Avrei scoperto più avanti che le scoscese pareti rocciose a ponente si chiamavano Harriandi.8 Pensavo di incontrare Goio, che viveva nel quartiere di Kaiondo. In quel momento di pace e 8 Grande pietra. [N.d.T.] 243 tranquillità mi mancava solo il mio amico, ma non lo trovai da nessuna parte. Il sole sparì, attorno al porto si stagliarono i contorni del paesaggio e i colori si fecero più vivi, l’aria divenne più fredda e il mare più blu. Le onde, adesso più nere e cieche, si infrangevano contro le pietre verdastre del molo, della barriera e delle chiglie generose delle navi a vapore. Mi fermai davanti a un’enorme casa per osservare lo stemma di pietra inciso sulla facciata: era l’immagine di sei o sette pescatori che catturano una balena, con l’arpioniere ancora in piedi sulla barca dopo il lancio. Una balena aveva un arpione conficcato nella schiena e accanto se ne vedeva un’altra più grande. Per la poca luce, feci fatica a leggere le parole incise sullo scudo: Abbiamo catturato quelle grandi La frase si trovava sotto l’immagine. In alto, invece, delle lettere erano quasi illeggibili, eccetto una C. Dedussi che, nello spazio di quelle lettere a malapena visibili, poteva starci il nome di 244 L’amico congelato “Calaportu”.9 Alcune porte più in là, si scorgeva una lampadina accesa. Un sottile filamento rosso all’interno di una pera di vetro. Era la porta dell’osteria e ci entrai. L’interno era abbastanza buio e in uno degli angoli scuri si scorgeva un biliardino. C’era un forte odore di vino, e avvicinatomi al bancone, mi resi conto che da lì si poteva vedere tutto il porto e la miriade di luci che si erano appena accese. “Un calice di vino” ordinai. Il grasso oste mi guardò dalla testa ai piedi, come se con lo sguardo mi stesse chiedendo se portavo i pantaloni lunghi. “Sei del collegio? Te ne darò mezzo bicchiere da assaggiare ma sarà l’unico, se non mi porti il permesso di tua madre.” Per fortuna lì non c’era nessuno che potesse ridere. Così, con il mio bicchiere in mano, andai a sedermi a un tavolo. 9 Durante il franchismo erano vietati nomi, cognomi e toponomastica baschi, che dovevano essere tradotti o per lo meno scritti con l’alfabeto spagnolo, nel quale non esiste, per esempio, la K, sostituita con la C. [N.d.T.] 245 Indossavo i pantaloni lunghi della domenica, la mia voce aveva iniziato a cambiare ed ero capace di destreggiarmi con due aste del calcio balilla contemporaneamente e anche con tutte e quattro all’occorrenza. Il vino non scendeva facilmente in gola ma dovevo berlo, se volevo diventare un uomo. Di lì a poco entrò un ometto con la barba grigia e un sigaro stretto tra le labbra, ogni tanto emetteva delle boccate di fumo. Appoggiò un gomito sul bancone e chiese un caffè. “Non penserai di darmi un caffè vedovo, eh?” disse l’anziano signore quando l’oste gli servì un caffè fumante in un bicchiere di vetro. “Mettici almeno una lacrima...” L’oste tornò con una bottiglia di rum e ne versò un goccio nel caffè. Poi il vecchio si avvicinò barcollando all’angolo buio dove mi ero seduto io. “Cosa ci fai qui, ragazzo?” E, sedendosi vicino a me, aggiunse: “In effetti, non si può stare tutta la vita attaccati alle gonne della mamma. Oggi è un bel 246 L’amico congelato giorno per iniziare a muoverti da solo...” Io rimasi in silenzio a guardare il porto e lui iniziò a parlare del Mare del Nord. Avrei saputo più avanti che era un ex comandante della marina mercantile, capitano durante un solo viaggio, da Santurtzi a Gdansk. “Nel Mare del Nord l’inverno è duro” disse, “il maltempo colpisce senza pietà le imbarcazioni. Ma non è solo il maltempo, in quel mare ci sono correnti d’acqua pericolose e banchi di sabbia e mine dell’ultima guerra...” Nel Mar del Nord e nel Mar Baltico, anche questo lo scoprii più tardi, il mare non è del tutto mare, né la terraferma totalmente terra. Nel mare verde ci sono isole di sabbia che affiorano o vengono sommerse a seconda della marea, e ci sono prati sommersi. E i campi e i boschi della terraferma sono pieni di laghi grigi e di pantani, e i gabbiani volteggiano nel cielo grigio. “Per questo ci sono tante boe e bisogna navigare lungo i canali segnalati dalle file di boe. Ci sono il maltempo, le correnti marine, i banchi di sabbia e gli esplosivi, ma la cosa più pericolosa è 247 la nebbia...” Durante quel viaggio da Santurtzi a Gdansk una fitta nebbia nascose il cielo, cancellò le boe e sfigurò il mare. Quel fantasma che sembrava di sperma inghiottì la nave, Fermate le macchine! In quella bianca cecità, il radar era l’aiutante cieco del capitano. Ordinò di procedere lentamente, Macchine al minimo! E così, agli ordini del capitano, la nave avanzava lentamente. In cima all’albero maestro l’antenna parabolica girava, Visibilità zero, il capitano guardava i circoli concentrici sullo schermo mentre il sottile ago luminoso continuava a girare. “Si sentiva girare anche l’antenna parabolica. Passammo ore e giorni nella nebbia, la nave procedeva lentamente, dovevo fare molta attenzione e guidavo nervoso, finché il vicecomandante mi disse: Sono ventidue ore che sei sul ponte, scendi in coperta e vai a dormire.” Il vecchio bevve un sorso del caffè sposato con rum. Ma la nostra mente era ancora nella fredda e fitta nebbia. “Premetti il pulsante dell’allarme e cominciai 248 L’amico congelato a gridare, Indietro tutta!” Scese, appoggiò la divisa sulla sedia e si mise a letto. Non poteva dormire e non riuscì a stare sdraiato più di un quarto d’ora. Decise di tornare sul ponte di comando. Appena arrivato, vide sullo schermo che una gigantesca nave gli stava venendo addosso. Allora suonò l’allarme e iniziò a gridare: “Indietro tutta!” In quell’istante entrò nell’osteria un gruppo di pescatori: “Ciao Hamaika!” salutarono il vecchio. “Hai un buon sigaro in bocca!” “Allora?” disse lui, “avete lasciato le barche ben ormeggiate?” I pescatori, una volta legate le barche e cambiatisi gli abiti, andavano all’osteria a giocare a carte attorno a una bottiglia. Parlavano ad alta voce, dicevano di aver preso centinaia di casse in una sola battuta... “E cosa è successo?” “Mi offri una lacrima di rum?” “Non ho soldi.” 249 Non potevo pagargli un rum, le sette o otto pesetas che avevo in tasca non sarebbero state sufficienti. “Cos’è successo dopo?” Il vecchio girò di colpo il suo bicchiere vuoto e catturò una mosca, che continuò il suo volo impazzito e senza meta sotto il vetro. A quel punto scoppiò un temporale e rimanemmo entrambi a guardare fuori: “Lascia che la pioggia cada e che il vento soffi” disse il vecchio. “Che scenda la pioggia e che il livello del mare si alzi finché i pesciolini non arrivino a mordere il culo di Dio. 250 L’amico congelato 11 UN PEZZO DI CARNE E LA STORIA DEL MONDO L’illuminarsi del giorno spegnerà le luci che brillano come pesciolini rossi nell’oscurità del mare e troverai il porto pieno di imbarcazioni di ogni tipo: Chimborazo, Esmerald Islands, Santo Domingo, Estrella de Portoviejo, Bachelor´s Delight... Alla dogana, all’ingresso del porto, ti chiederanno i documenti. Un poliziotto dalla pelle color rame controllerà il tuo passaporto color vino e non ti farà problemi. È incredibile come nessuno abbia niente da dire sul tuo documento d’identità, nemmeno tu stesso. Ci sono molte navi nel porto. Conosci il nome e lo troverai scritto su una di esse: IRON WILL 251 Lettere rosse sulla chiglia bianca. Capirai subito che all’interno della nave ci sono dei problemi, perché non sarai accolto molto cordialmente appena salito a bordo. Edwin non è ancora arrivato e stanno discutendo di lui. Alcuni, che hanno appena saputo come stanno le cose, non sono d’accordo sul portare a bordo un uomo che sta per morire. “Questo non è un carro funebre” dirà qualcuno. Ci saranno opinioni diverse e si deciderà per votazione. Nessuno ti chiederà di parteciparvi e, vicino al gruppo, sarai un testimone silenzioso della riunione; quattro mani si alzeranno a favore, in onore allo scienziato e al vecchio amico, tre contro e, presa la decisione, nessuno protesterà né farà brutte facce. Appena finita la votazione arriveranno Edwin Walsh ed Edna, lei sorridente lo sostiene per un braccio quasi fossero arrivati perché hanno vinto la votazione, ma sicuramente non immaginano nulla della riunione né della discussione. Un ragazzo nero ti farà un gesto dal molo 252 L’amico congelato per dirti di scendere a prendere i bagagli. Scenderai e, per portare in coperta le tre valigie e la sedia a rotelle pieghevole, dovrai fare due viaggi e poi altri due, percorrendo tutta la nave, fino alla cabina. Sarà previsto cielo coperto e, dopo una notte tranquilla e serena, avendo ammirato al chiarore dell’alba le cime delle montagne seminascoste dalla nebbia, si leverà un fresco vento del sud. La tua cabina sarà la stessa di Edwin, come ha ordinato il capitano: “Il malato con l’infermiere”, dirà qualcosa del genere. Forse non sarà il capitano ma il vicecomandante. In ogni caso, lo chiameranno tutti il nostromo, anzi, quasi fosse un nome proprio: Nostromo. Dovrai portare i tuoi bagagli nella cabina di Edwin e le valigie di Edna in quella che verrà occupata solo da lei. Quando entrerai nella cabina di Edwin con le valigie, proverai vergogna a dirgli che Edna deve stare in un’altra stanza, e anche un po’ di paura perché, se è difficile avere a che fare cinque minuti con la morte, temi che sarà terribile 253 doverlo fare per lunghe ore. Edwin, invece, accetterà la decisione con rassegnazione. “Manca qualcuno?” griderà il nostromo. “No, siamo tutti a bordo!” gli risponderà un’altra forte voce. Le acque del fiume Guayas saranno torbide. Il motore comincerà a sbuffare, l’elica a girare e l’imbarcazione, vinta la pigrizia, trrr trrr trrrtrrr, si muoverà e in quell’istante capirai che ti stai avviando verso la più irreale delle terre possibili. Mentre la nave si allontana dal porto, guarderai la gente lì riunita per salutare chi parte. E ti sembrerà che i visi delle persone si appiattiscano, il naso e la bocca si cancellino, gli occhi e le sopracciglia si uniscano, le teste diventino delle uova. Nell’allontanarti, le persone si andranno rimpicciolendo, lì, sulle pietre asciutte della banchina. L’acqua sarà torbida e melmosa finché il fiume non inizierà a mischiarsi con il mare e le acque diventeranno più blu, più pulite e più scure. Ormai nell’estuario, guarderai verso l’imboccatura 254 L’amico congelato del porto e il mare ti si aprirà davanti come un ventaglio, blu scuro e quasi senza increspature, in calma piatta e con alcune macchie verdi alla deriva in superficie. In quel momento, un giovane biondo ti si avvicinerà. “Guardi quelle macchie verdi?” ti chiederà in inglese, e ti renderai conto che è uno di quelli che nella votazione hanno alzato la mano a favore. “Sì.” “Sono giacinti. Il fiume Guayas li porta al mare ma, a volte, l’alta marea li restituisce al fiume.” L’imbarcazione colpirà e fenderà in due l’acqua con la prua, alzando una schiuma arricciata che, dopo aver accarezzato i fianchi della nave, lascerà una scia biancastra. “Scusa, sono Axel Fountaine” ti dirà dandoti la mano. “Il topografo.” “Javier” dirai tu. “La gente del posto le chiama lattughe” dirà Axel. “Il fiume le trascina ma, a volte, l’alta marea le restituisce al fiume” ripeterà, come se non avesse 255 un altro tema di conversazione. Innumerevoli macchie verdi, lattughe, che galleggiano sulla superficie dell’acqua. La cabina sarà piccola, dipinta di bianco, due armadi a muro, un frigorifero e un letto a castello per due. “Mi porterebbe del Brompton?” sentirai mentre starai sistemando nell’armadio il contenuto della valigia. “Io?” risponderai. Edwin è sulla sedia a rotelle, Edna in piedi alle sue spalle. Sarai l’infermiere che deve fare il proprio lavoro, non devi dimenticartene. Vedrai molte confezioni di Brompton sul letto. Dovrai misurare quattordici-quindici milligrammi, che è la dose che il paziente prende ogni sei ore, e scioglierli nell’acqua o nel latte, “Grazie” ti dirà Edna. E anche Edwin ti ringrazierà, nervoso e con il corpo rotto dal dolore, finché non prenderà il Brompton. “Fa freddo” dirà Edwin. E non sarà vero, ogni tanto soffia un vento 256 L’amico congelato tiepido in coperta e tra i lunghi capelli di una Edna silenziosa. “Questa è proprio una bella casa, no?” dirà subito dopo lo stesso Edwin, respirando profondamente, This is just a gorgeous home, isn´t it? Qualche ora più tardi ci sarà un fantastico crepuscolo, prima di far buio il cielo diventerà rosso, un tramonto spaventosamente rosso all’orizzonte, come se, nella lotta fra il giorno e la notte, il primo morisse dissanguato. Sarà una battaglia breve. E così finirà il primo giorno e adesso ti dirò una cosa: ti sei imbarcato e la nave avanza in alto mare e ormai non puoi più annullare il viaggio e non è possibile tuffarsi dal ponte per tornare a nuoto al punto di partenza. All’interno della nave potrai andare avanti e indietro, mentre l’imbarcazione solca i giorni e le notti. Ma dove vai? È la nave che va. Questa è la riflessione e questa sarà la tua 257 prima verità, la prima alba della tua coscienza, l’unica cosa che sai è che ti sei imbarcato, perché stai navigando. E le radici? Non avrai altre radici che le maniglie e gli appigli di acciaio e di plastica dell’imbarcazione. Avrai radici come queste foglie che si vedono di tanto in tanto sulla superficie dell’acqua, come i giacinti trascinati dal fiume Guayas, non in profondità ma sulla superficie dell’acqua, quasi sopra il vuoto. Quando ti sveglierai, prima di aprire gli occhi, una voce prefabbricata ti dirà in inglese: “Per favore, alzati. Oggi è un giorno felice...” Poi inizierà a cantare: Jingle bells, jingle bells, Jingle all the way… Ti renderai conto che stai dondolando come in una culla e, spaventato, ti siederai di scatto sul letto per vedere di chi è la mano. Nel letto sotto il tuo vedrai Edwin con la sveglia in mano. Leggerai dei numeri verdi: 6:30. L’imbarcazione si muoverà su e giù e si inclinerà 258 L’amico congelato sui fianchi a causa delle onde. Il nostromo convocherà una riunione in coperta, l’uniforme bianca lo renderà simile a un manichino, il collo grosso e i baffi da tricheco, e farà alcune raccomandazioni con una potente voce autoritaria: “Una mano attaccata alla barca!” dirà. “Sia dentro che in coperta, bisogna sempre dare una mano alla nave. Puntualità con i pasti. Gli indumenti bagnati o umidi vanno portati in lavanderia. Niente scarpe sporche né nei corridoi né nelle cabine. Quando sbarcheremo, nessuno deve allontanarsi dalla vista dei suoi compagni. Quando si scende o si risale sull’imbarcazione bisogna sempre tenersi per mano come fanno i marinai, afferrandosi per il polso...” Poi indosserete i giubbotti salvagente e farete le prove per raggiungere le scialuppe di salvataggio. Ci porterai anche Edwin, con addosso un giubbotto salvagente arancione, in sedia a rotelle fin sul ponte. Un uomo nero grasso ti aiuterà, un nero che sembra uscito dal gruppo New Kids on the Block: 259 “Bobbi Endicott” si presenterà, Bi ou doblbi ai. “Vi avviso” aggiungerà il nostromo, “questo oceano non è per niente pacifico né tranquillo, il suo nome è un inganno, potrete verificare presto come ci sballotterà...” All’orizzonte non si distinguerà il cielo dal mare, perché il vento di sudovest e le strisce di nebbia, il mare increspato e la bruma si uniranno rendendo indistinguibili il sopra dal sotto. Da bordo, tutte le direzioni ti sembreranno tenebrose e tortuose. Il sole, di colore azzurro verdastro, si sforzerà di apparire ogni tanto, a fatica, come una lanterna senza olio. Anche la settimana successiva l’imbarcazione bianca proseguirà il suo viaggio verso sud attraverso l’Oceano Pacifico, in nome della scienza. “Mi può portare del Brompton?” sarà la frase più comune durante i primi giorni. 260 L’amico congelato Poi diventerà più semplice: “È ora!” oppure un gesto senza parole. E il tuo lavoro sarà contare quindici o sedici milligrammi e preparare un bicchiere di acqua o di latte. Edwin, che dopo cinque o sei ore inizia a soffrire e a tremare, prenderà la medicina e starà subito meglio. “Grazie” ti dirà il malato, dalla sedia a rotelle o dal letto. La vita a bordo sarà lenta, interrotta e scandita da quelle chiamate per il Brompton. Durante il giorno sarai testimone di strane discussioni scientifiche, soprattutto in sala da pranzo e in coperta. “Come ha detto lo storico francese Fernand Braudel, la storia si mangia il presente...” dirà un tal John Masefield. Un altro lo interromperà quasi arrabbiato: “Non capisco bene cosa significhi questa frase, che la storia si mangia il presente, ma a livello scientifico io direi che succede il contrario, è il presente a mangiarsi la storia...” 261 E ci saranno conversazioni e discussioni di questo tipo in coperta, a volte, come esempio degli impegni della navigazione. John Masefield, incaricato dalla rivista The Wanderer di Filadelfia di realizzare alcuni reportage della spedizione, si rivelerà un amante della retorica. “Io non ho nessuna ideologia” dirà, “mi baso sull’ampio e semplice schema dell’onniscenza umana che fa riferimento alla pansofia di Jan Amos Comenius”... “È uno scrittore?” chiederai allora ad Axel. “Sì, è diventato famoso quest’anno con la pubblicazione di un bestseller, The Worst-Case Scenario Survival Handbook.” “È interessante?” “È uno di quei libri da portarsi nella tasca della giacca! È un manuale di soluzioni per le situazioni difficili della vita!” “Allora è un libro pratico.” “Imprescindibile” dirà Axel ridendo. “Facciamo un esempio. Sei in macchina e all’improvviso alcuni mafiosi mettono tre auto di 262 L’amico congelato traverso sulla strada davanti a te, perché hanno l’ordine di ucciderti. A sinistra c’è un esteso pantano di sabbie mobili. A destra il mare pieno di squali...” “Allora bisogna tornare indietro!” “Dietro di te, ci sono il marito e il padre della ragazza che hai in macchina, ognuno spara con il proprio fucile...” “Allora entrerei in macchina, per pensare.” “Ma la ragazza che si trova all’interno dell’auto ha iniziato a partorire, è il tuo primo figlio, ed è proprio per questo che suo marito vuole ucciderti. E nello steso momento ti rendi conto anche che, sul sedile posteriore, c’è una bomba che esploderà fra pochi secondi. “Cosa posso fare, allora?” “E lo chiedi a me? Devi comprare il libro per saperlo.” “Ma, se il libro non esistesse, cosa faresti tu?” “Ecco, quello che faceva Tarzan. Non perdere la speranza che presto verrà Cita a salvarmi...” 263 Una volta che Edwin sarà uscito sul ponte con la sedia ergonomica e tu sarai rimasto solo in cabina, prenderai uno dei suoi libri, una guida della Lonely Planet, e troverai un pezzo di carta a fare da segnalibro fra le pagine 32 e 33. Gli appunti presi durante un viaggio in Ecuador, datati 4.11.1981, in realtà una lista di domande. Prima di partire, chiediti se... Perché sto facendo questo viaggio? Cosa mi lascio alle spalle? Mi sono informato abbastanza su questa terra prima di partire? Il mio viaggio sarà un beneficio o un danno per la zona che vado a visitare? Sono disposto a integrarmi in questa regione e nel suo modo di vivere? Al ritorno, se tornassi, cosa farei? “Mi dia un po’ di Brompton!” ti griderà Edwin da sopra. Non hai fretta. Ripasserai le domande, inventando possibili risposte. Perché sto facendo questo viaggio? Cosa mi lascio alle spalle? Mi sono informato abbastanza su questa terra prima di partire? 264 L’amico congelato All’improvviso in cabina apparirà Edna, ti guarderà con disprezzo e quello sguardo sarà per te come una sassata sulla guancia. Prenderà la medicina, senza dire niente e, sbattendo la porta, se ne andrà di corsa. Uscirai dietro di lei e troverai entrambi sul ponte. Edwin che grida appoggiato al parapetto di dritta, Fuck you cancer! Tossisce e Fuck you cancer! Vomita al mare ed Edna accanto a lui gli dà il Brompton. Fuck you cancer! Fuck you cancer! Ti avvicinerai ma non saprai cosa fare, solo sorreggere un Edwin che, ad ogni conato, sembra stia per cadere in mare dalla sua sedia a rotelle, sostenere la sacca di plastica che dondola e guardare il pianto di Edna. Starà subito meglio. John Masefield ti aiuterà a portarlo giù in cabina, mentre Edna vi segue con la sedia a rotelle ripiegata. Edwin si addormenterà mentre tu prepari il latte in polvere. Stai mischiando il latte con il cucchiaio in mano. “Mi scusi, ero in ritardo...” gli dirai al renderti 265 conto che ha gli occhi aperti. “Sono io che dovrei scusarmi per tutto il disturbo che le do...” “È il mio lavoro.” “So che questo lavoro non si può pagare.” Gli porgerai il bicchiere di latte e ti dirà di no. Digli la tua opinione. “Credo che ne prenda troppo.” Lui ti risponderà amichevolmente: “No, no, ma glielo spiegherò un’altra volta, quando avrò trovato le forze per dare spiegazioni.” “Il Brompton è troppo forte, in Europa è proibito, negli Stati Uniti ne sono consentiti solo pochi milligrammi.” “Il dolore, per l’umanità è più duro della morte stessa” dirà. “Andarsene da questo mondo è più doloroso che venirci.” E quando arriverà Edna starete ridendo. Edna, Hai hani, non ti degnerà di uno sguardo all’entrare e tu rimarrai in un angolo, il bicchiere di latte in mano, te lo berrai, latte tiepido, come farebbe un bambino o un gatto. Salirai in coperta pieno di vergogna. 266 L’amico congelato Afferrandoti al parapetto andrai da babordo a prua e lì, all’improvviso, l’oscurità ti bloccherà, come il muro di una strada chiusa ferma il passante smarrito. Soffierà un vento fastidioso e violento e il mare alzerà con forza grandi onde e schiuma polverizzata. Ricorderai quello che ha detto, che per l’umanità il dolore è più duro della morte. Perché Edwin ha detto per l’umanità. Facendo riferimento all’umanità, sebbene sia lui a sopportare personalmente il dolore. “Glielo spiegherò un’altra volta...” ti ha detto anche. Ogni tanto nel cielo notturno appariranno alcune stelle che, come fiammiferi umidi, scintillano senza accendersi. Alle soglie della morte la vita si individualizzerà, nella vita di ognuno si riassumerà quella di tutta l’umanità e in questo pezzo di carne si deciderà tutta la storia del mondo. 267 12 EN ÉTRANGE PAYS DANS NOTRE PAYS “…e che il livello del mare si alzi finché i pesciolini non arrivino a mordere il culo di Dio.” Gli raccontai del detto del vecchio ed io e Goio scoppiammo a ridere. “Questa te l’ha detta Hamaika” disse. “Beve sempre senza controllo, un bicchiere dopo l’altro...” Goio venne di nuovo a sedersi vicino a me, dopo due giorni in cui avevo dovuto accontentarmi dell’angolo che mi lasciava il Grasso nel banco da due. Eravamo in classe con l’atleta che ci ordinò di aprire il libro di FEN, il mattone grigio di quattrocento pagine sui diritti e i doveri degli spagnoli. Clemente López iniziò a fare domande sui nostri padri. E tuo padre cosa fa? Passeggiava lentamente avanti e indietro nell’aula e chi veniva da lui indicato doveva rispondere che il padre faceva 268 L’amico congelato il pescatore, o il commerciante, il mio il commesso viaggiatore, quello di un altro il falegname. Francisco Javier Larrea, invece, iniziò a balbettare e non fu in grado di definire il lavoro di suo padre, o forse non voleva dire che faceva il contadino e, quando López gli chiese di spiegare cosa facesse, scoppiammo tutti a ridere perché, tra le altre faccende, disse che governava animali, traducendo letteralmente dal basco. Clemente López, dopo averci lasciato ridere un po’, ci ordinò di tacere. E umilmente decretò: “Voi qui dovete imparare a governare esseri umani e a governare voi stessi come esseri umani.” Clemente López, dopo aver chiesto ad altri tre o quattro, parlò dell’esempio datoci dai nostri padri, ognuno nel proprio lavoro, ci disse che più avanti saremmo stati noi a occupare il loro posto per mantenere la società e sviluppare la civiltà, che ognuno di noi sarebbe diventato il successore di suo padre e che, pertanto, dovevamo prendere nostro padre come esempio di dignità. “Che cos’è per te la patria?” chiese subito dopo. 269 Tutti noi invidiavamo i muscoli delle sue braccia che diventavano ancora più gonfi quando reggeva il pesante libro di testo di Formazione dello Spirito Nazionale. Aveva un corpo bellissimo e, per metterlo in evidenza, indossava magliette attillate. Fece qualche altro passo tra i banchi e, tenendo il libro aperto tra le mani, iniziò a leggere: ...parola greca che significa discendenza e che deriva da pater, padre. Sapere chi è il padre significa avere un’identità chiara, sapere chi sono e da dove vengo. Era un culturista ed era il direttore della palestra di Kalaportu. Non era nato a Kalaportu, era venuto dalla provincia di Leon per organizzare la struttura giovanile della Falange, la OJE, facendo della sua palestra la sede di quell’organizzazione. “Da noi non si possono vedere film di questo tipo” dissi a bassa voce a Goio. “Tu non sai chi è BB, un’attrice che si spoglia tutta, io l’ho vista...” “Bugiardo” mi disse Goio. “È vero” dissi io. 270 L’amico congelato Era quasi vero, infatti ero arrivato fino alla porta del cinema e non ero riuscito a entrare per poco, per colpa della maschera con la torcia. “Ecco, io ho un’imbarcazione” disse allora Goio. Feci una faccia incredula, anche la sua poteva non essere una verità completa. “Dove?” “E dove vuoi che sia, in riva al mare.” “Insomma non ci credo, se non me la fai vedere.” “Non mi importa se non ci credi!” Il giorno dopo al mattino avevamo lezione di francese. Goio aveva serie difficoltà nella pronuncia del francese. Il professore dell’anno prima, quello che chiamavano Mesie Nomonsieur, l’aveva promosso per non fargli del male o forse per non lasciarsi niente in sospeso alle spalle, visto che se ne andava. Durante le prime lezioni, davanti a tutti, Ariane gli ripeté molte volte come si pronunciavano 271 i dittonghi au o, oi ua... Scrivemmo il dettato: Tous les malheurs des hommes viennent de ce qu´ils ne peuvent rester en repos dans leur chambre. Quando Ariane gli chiese di ripetere, Goio si innervosì e gli si fece un nodo alla lingua. Ariane chiese a Juanjo di leggere e lui lo fece bene. “Bre, bre!” diceva Inazito. Poi Goio dovette leggere di nuovo. Pronunciava le erre molto arrotate e come sonore le lettere mute alla fine delle parole. Quando Ariane lo correggeva, diventava rosso dalla vergogna. “Hai la faccia dello stesso colore dei capelli” gli dissi. Al pomeriggio ci fu la lezione di Scienze Naturali. Il professore era un giovane di nome 272 L’amico congelato Pablo Esparza, gli occhiali e i capelli biondi sempre spettinati gli conferivano un’aria da pazzo. Indossava abiti vecchi e logori che lo facevano assomigliare allo stendardo di una nazione sconfitta. Si arrotolava le sigarette, era abile nell’avvolgere il tabacco trinciato nella cartina e, una volta pronta, la lasciava in un angolo del tavolo e iniziava a parlare di questo e quello fino a dimenticarsene. Disse che l’umore di una persona è la conseguenza del suo equilibrio bioelettrico. Il vento del sud paralizza la danza delle particelle di sodio e di potassio all’interno del sistema nervoso e questa è la ragione del malessere che avvertono alcune persone quando esso soffia. Dimenticatosi della sigaretta già pronta, prendeva di nuovo il tabacco e una cartina e ne arrotolava un’altra, con destrezza, poi l’appoggiava in un angolo per infilare la mano in tasca alla ricerca dei fiammiferi. “E da dove viene il vento del sud?” gli chiese Inazito. Rimanemmo tutti a guardarci. 273 “Alcuni dicono che viene dal deserto del Sahara” disse Pablo, “ma io credo che venga da Lisbona.” “Perché? Parla portoghese?” disse qualcuno e scoppiammo tutti a ridere. “Perché dice che è bioelettrico?” chiese Juanjo. “L’aria si ionizza e gli elementi positivi e negativi si separano.” Invece di estrarre dalla tasca i fiammiferi, prese di nuovo il tabacco e le cartine e disse: “Il vento del sud è buono per far maturare il mais e i fagioli, le nespole e le castagne.” Volevamo tutti molto bene a Pablo che si sforzava di mettere in relazione quello che ci insegnava alla nostra vita, mentre in quasi tutte le altre materie i professori sembrava volessero allontanare la scienza dal nostro mondo. Ma le nostre scienze naturali erano altre. Più che sui libri illustrati, imparammo molto con gli animali che catturavamo nel nostro circolo crudele di risate e giochi. Al pipistrello facevamo fumare delle sigarette di contrabbando. Con un tubicino 274 L’amico congelato sodomita nel quale soffiavamo, gonfiavamo il rospo fino a trasformarlo in una palla verde con quattro zampe. E anche il grillo cedeva al nostro solletico e abbandonava, per sua disgrazia, il buco in cui viveva. Io volevo vedere l’imbarcazione di Goio. Lui la chiamava proprio così. Imbarcazione, e non barca, battello, scialuppa o qualche altro nome, lui la chiamava imbarcazione e io volevo conoscere la sua imbarcazione. Un pomeriggio, andai a Kalaportu perché avevo appuntamento con lui nella zona di Zubieta. “Allora, oggi mi porti a vedere l’imbarcazione?” “No.” “Mi avevi detto che me l’avresti fatta vedere.” “Non è vero, io ti ho solo detto che ho un’imbarcazione.” Ci arrabbiammo subito e continuammo la nostra passeggiata uno accanto all’altro ma senza rivolgerci parola. Quando passammo sotto lo scudo dei 275 balenieri, Abbiamo catturato quelle grandi, vidi di nuovo l’arpioniere in piedi sulla barca, una balena con un arpione conficcato nella schiena e un’altra più grande accanto. Dentro l’osteria vidi il vecchio. “È il vecchio dell’altro giorno.” “Salve, Hamaika!” lo salutò Goio. “Avete già fatto i compiti?” disse, il basco ben calato sulla fronte e barcollando. “Ci hanno cacciato dalla scuola!” gli rispose Goio. Ordinammo due bicchierini di vino. Felipe cedette, facendoci capire con un gesto che ce ne avrebbe servito uno solo. “Il vino va bene per svezzarli!” disse Hamaika. Lui beveva rum, se poteva. Ma Felipe gli dava solo caffè, caffè corretto con un goccio di rum. “Ah, il rum di Curaçao, quello sì che era un buon rum!” disse. “ A dire il vero anche questo Negrita non è male. È forte, anche se Felipe oggi me l’ha servito piuttosto leggero...” Bevve un altro sorso e guardò l’orologio da 276 L’amico congelato taschino. “E cosa successe nel Mare del Nord?” gli chiesi. Non poteva dormire ed era rimasto un quarto d’ora sdraiato prima di tornare sul ponte dove aveva visto sullo schermo una nave gigantesca che si abbatteva su di loro: aveva suonato l’allarme e aveva iniziato a gridare “Indietro tutta!” “Ormai ci era addosso, che altro poteva succedere?” In quel momento, davanti all’osteria passò una donna diretta al molo. Goio si coprì il viso automaticamente, con la mano aperta, ma la donna si fermò: era sua madre. Inchiodò gli occhi sul figlio e rimase ad aspettare, senza dire nulla. Goio dovette uscire dall’osteria. Quella sera, a casa, avrebbero avuto da discutere: “Che ci fai tu all’osteria?” gli disse la madre. “Lì sto meglio che a casa.” Dopo un’ora li si poteva sentire di nuovo, nella sala al secondo piano: 277 “Devi voler bene ad Andres.” “Non gli vorrò mai bene.” “E invece devi volergliene, perché adesso sarà tuo padre.” Goio rimase in silenzio a guardare quella stupida donna che pensava che lui avrebbe potuto prendere come padre uno sconosciuto. “Lo so che non è tuo padre, ma sarà come se lo fosse” disse. A Goio rimase in testa il suono di quel come come come. Una volta aveva sentito dire che suo padre era un buono a nulla, che per fortuna era lontano e che, se fosse tornato, sarebbe stato meglio buttarlo in mare, come si butta la spazzatura. All’alba mi alzavo e guardavo dalla finestra della mia stanza in collegio. Vedevo i miei compagni avvicinarsi alla scuola, ancora mezzi addormentati, alcuni soli, altri in coppia, pochissimi in gruppi di tre o quattro, alcuni con le mani in tasca, altri con le braccia ciondoloni. Venivano a imparare, certo, 278 L’amico congelato pur sapendo che al massimo si può apprendere assai poco. Dietro di loro si vedevano gli operai del cantiere navale che entravano al lavoro in tuta blu. Terminata la terza ora, Ariane si avvicinò a noi: “Vieni a casa mia domani alle sei del pomeriggio” gli disse. “Sai dove abito, vero?” Glielo disse così, in basco. Figurati se non lo sapeva! Sapevamo tutti che Ariane viveva a Zubieta, in una casa in affitto e, soprattutto, che viveva sola. “Sai dov’è?” chiesi a Goio. “Sì” mi rispose. “Altrimenti ti accompagno.” Ma Goio non aveva bisogno di compagnia, non della mia, per lo meno. Finita la lezione, quando noi tornammo nelle nostre stanze e Goio si avviava a Zubieta, gli dissi, facendogli l’occhiolino: “Lo sai che vive sola, vero?” Ma Goio non mi sorrise. 279 Un giorno scappai dal collegio. Ero stufo di annoiarmi con lo studio, la cena e le altre attività. Chiesi ad Inazito di inventarsi una scusa se qualcuno se ne fosse accorto. “Perché vai da solo?” mi chiese Inazito. “Così vado dove voglio.” Nel porto, la maggior parte delle imbarcazioni erano di gente del paese, di pescatori, ma c’erano anche un paio di yacht di ricchi villeggianti che li utilizzavano soprattutto d’estate e, ogni tanto, attraccava una nave di provenienza remota. Volevo assistere all’entrata nel porto e allo scarico delle navi, di quelle che arrivavano profondamente immerse nell’acqua per via del carico, ma i movimenti di gru, container e stivatori sarebbe iniziato più tardi, forse il giorno dopo. Le navi di fuori erano le più attraenti per Goio e per gli altri ragazzi, perché erano più grandi e avevano qualcosa di misterioso, forse perché non sapevano da dove venissero e cosa trasportassero, e nemmeno dove fossero dirette, perché andavano sempre lontano. Inoltre, i marinai 280 L’amico congelato che rimanevano nel porto un paio di giorni erano biondi con gli occhi chiari, oppure neri con gli occhi verdi, parlavano molto velocemente in lingue strane, probabilmente erano persone normali, come quelle che passeggiano per strada o lavorano in fabbrica ma venivano da un mare immenso, profondo e interminabile, avevano visitato, di porto in porto, l’intero mappamondo della scuola e, come dimostravano i suoni strani di quelle lingue, conoscevano luoghi segreti ed eventi straordinari ai quali la gente di terra non poteva accedere. Saltai il muro di recinzione, attraversai i corridoi bui e riuscii a salire fino alla mia stanza. Goio invece fece un altro viaggio, quasi contemporaneamente, quello stesso tardo pomeriggio. Era un edificio nuovo, lesse i nomi sulle cassette della posta perché su ognuno c’era un cartoncino colorato con un nome o due scritti a mano: Pedro González Aller, Juan Arrizabalaga & Maria Alberdi, Ariane Daguerre... Per Goio quel nome, scritto con calligrafia 281 sottile su un cartoncino giallo, era un nome bello e importante, e salì le scale nervoso. Era ancora presto e rimase ad aspettare sul pianerottolo. Bussò alla porta all’ora che Ariane gli aveva detto. Lei si presentò con addosso una vestaglia quasi trasparente che lasciava intravedere i seni. Goio era nervoso. “Siediti. Vado a vestirmi,” gli disse Ariane in basco e con naturalezza. Tornò con una gonna rossa, ben pettinata e profumata di colonia. Gli disse di accomodarsi, perché Goio era ancora in piedi. Ariane si sedette vicino a lui e iniziò a parlare in francese. Il suono delle erre, senza vibrazione sonora, si deve pronunciare più arretrato nel palato, le lettere finali delle parole in francese non si devono sentire, eccetera. Rimasero mezz’ora a fare esercizi. La mano di Ariane toccò quella di Goio, Jeune fille plus perdue que toute la neige, ripeté Goio. Il ginocchio di Goio, sotto il tavolo, toccò quello di Ariane, Mon amour plus loin que toute la neige e, nel toccare quel ginocchio, provò una 282 L’amico congelato sensazione meravigliosa. Poi dovette scrivere alcune frasi di Arthur Rimbaud, dettate dalla dolce voce di Ariane: Esclaves, ne maudissons pas la vie... Nervoso, premeva tanto la penna sul foglio che a volte la punta rompeva la carta. Chiunque, con la punta del dito, avrebbe potuto scoprire, come se fosse braille, cosa c’era scritto su quel foglio. Alla fine, Ariane gli disse in basco: “Vedi che non è così difficile?” Il basco di Ariane era diverso, aveva un’inflessione francese e a Goio sembrava più dolce di quello di Kalaportu. “Ho imparato il basco in casa” diceva Ariane, “ma per le strade di Donibane non si parla molto. Poi ho imparato anche lo spagnolo, all’università di Bordeaux.” Fino ad allora Goio non sapeva che si potesse parlare il basco in posti così lontani come la Francia. “Con te ne ho il coraggio” disse Ariane, “ma 283 qui in paese con molti devo parlare in spagnolo perché, se lo faccio in basco, mi guardano come se fossi una bestia rara, come se non capissero...” Goio pensava che si parlasse basco solo sulla costa attorno a Kalaportu - aveva sentito parlare in basco la gente di Bermeo, Ondarrroa, Orio, Hondarribia...- e nelle valli che si vedevano dal casolare di suo nonno. “L’altro giorno, in un negozio, mi hanno chiesto di dove sono, della zona nord, gli ho risposto. Della zona nord? Ah, della zona nord, ha detto il negoziante guardando il mare, e sembrava che il mio basco gli risultasse strano come l’islandese...” En étrange pays dans notre pays lui-même, intercalò in francese, n’est-ce pas? E quando Ariane si tolse gli occhiali rotondi, Goio rimase ad ammirare l’arco perfetto delle sopracciglia disegnate con la matita, con l’attenzione di chi ormai non teme più un fantasma. “Verrai anche domani?” chiese Ariane mentre chiudeva la porta. 284 L’amico congelato Durante la lezione di Geografia, mentre il professor Patricio indicava sulla cartina la Gran Bretagna, che assomigliava a un’elegante signora di altri tempi, dissi sottovoce a Goio, mio compagno di banco: “Allora, ci sei andato ieri?” Mi rispose svogliato: “Sì.” Guardai il quaderno di Goio e, al margine del foglio a quadretti, lessi: Kaioarri Kalaportu Euskalerria Europa Terra Universo “L’Universo, con le stelle e il resto...” gli dissi. Lui si arrabbiò e mi strappò il quaderno dalle mani come se avessi violato uno dei suoi segreti. Pensai che Kaioarri fosse il nome della via 285 dove viveva Goio. In realtà la via di Goio si chiamava Barrenkale, ma questo lo scoprii più tardi. Kalaportu era un minuscolo punto nel mondo, ma noi eravamo lì. Il vento del sud aveva portato il bel tempo, non si poteva giocare a calcio perché deviava il pallone ma era una splendida giornata d’ottobre. 286 L’amico congelato 13 RIFLESSI In quel pezzo di carne si deciderà tutta la storia del mondo e aver compassione significa capire esattamente questo. Il mattino successivo Edwin ti chiamerà con tono amichevole: “Vorrei proporle una nuova strategia contro il dolore” ti dirà con carta e penna in mano. Come prima cosa ti illustrerà la composizione del Brompton: “Morfina, cocaina, cloroformio liquido, alcool e aromatizzante, tutto assieme e ben shakerato”. Digli che con queste dosi scoppierà. “Così scoppierà” gli dirai. Edwin comincerà a ridere. Scriverà tre lettere PRN e le pronuncerà una a una: “Pro re nata,” poi lo tradurrà in inglese. “Dal latino: solo in caso necessario.” 287 Disegnerà una tabella con tre spazi. E, come se stesse dando una lezione universitaria di biochimica, di filologia o di storia, continuerà con tono da cattedratico: “Lei è europeo. Nel XVI secolo esisteva il commercio di oppio tra l’Asia e l’Europa e si pensava che l’oppio potesse curare qualunque malattia. La gente lo fumava con il tabacco finché, nel XVIII secolo, uno speziale tedesco estrasse dall’oppio la morfina. Siccome gli analgesici creano dipendenza, furono messi al bando dai governi...” E traccerà una linea dalle curve accentuate da sinistra a destra. “Guardi, con il metodo PRN si somministra il farmaco quando si sente dolore. La dose per calmarlo sarà alta e la morfina annebbierà la mente fino a quando ricomparirà di nuovo il dolore. Graficamente sarebbe una cosa di questo tipo...” 288 L’amico congelato “Durante le crisi di dolore, dovrà somministrare di nuovo una forte dose. Le iniezioni, vede le siringhe?” Vedrai delle piccole siringhe disegnate per indicare il momento dell’iniezione. Arriverà Edna, sentirai Hai hani. “È meglio in quest’altro modo” dirà Edwin, e disegnerà un altro grafico, simile al primo, e la curva del dolore adesso rimarrà ondeggiante nella fascia centrale... “Capisce?” ti chiederà. Gli alti e bassi della linea sono crudeli, quasi letterari. “Certo che capisce” risponderà Edna con un sorriso per metà triste e per metà scherzoso, nell’istante in cui tu dovresti dire che non hai capito. 289 “Quattordici milligrammi di Brompton ogni quattro ore, prima che torni il dolore” dirà Edwin, come se avesse trovato la formula. Edwin ed Edna rimarranno entrambi a guardarti, con i loro strani togetherness, come se aspettassero il tuo permesso. Ma non c’è niente da dire, cosa si può dire della sofferenza a chi soffre, o della morte a colui che sta morendo. L’unica cosa che dovrai fare sarà somministrargli il farmaco prescritto, come un cameriere serve una limonata. D’ora in poi, il cameriere dovrà lavorare ogni quattro ore, sei volte al giorno: 8, 12, 16, 20, 24, 4. Ed essendo ore esatte non ci sarà bisogno di chiamarvi l’un l’altro. Sarà sufficiente, dopo ogni servizio, mettere la sveglia di Edwin all’ora della dose successiva. E una voce prefabbricata, ribadirà ogni quattro ore: “Per favore, si alzi. Oggi è un giorno felice...” E ripeterà la canzone: Jingle bells, jingle bells, Jingle all the way… 290 L’amico congelato “Uso l’orologio” dirà la voce di Edwin, “non per essere sottomesso al tempo ma per potermi dimenticare del tempo tra una dose e l’altra.” Navigherete con poca visibilità nell’avvicinarvi alle isole, l’imbarcazione pal pal pal avanzerà nella nebbia. Apparirà un’isola che poi scomparirà quando l’imbarcazione si approssimerà e poi si vedranno altre isole. Il mare sembrerà solido e la nebbia sarà la padrona, una nebbia che sorge da lì, non portata dal vento, creando un’atmosfera lattiginosa e umida attorno a quelle isole. “Chiloé!” dirà uno. “Llatehué!” un altro. I gabbiani ti sembreranno fiocchi di neve che risaltano sui contorni scuri delle isole. “Grae, grae, grae” dicono, disegnando strani squarci nell’aria. Farà freddo e sembrerà che quella nebbia sottile, muta e persistente, sciolga l’aria. Farete una sosta nell’isola dei gabbiani. 291 Attraccherete da dritta e sul vecchio pontile di legno troverete quattro persone. Un uomo, una donna e due bambini, un ragazzino di una decina d’anni e una bambina di sei o sette, seduti su pacchi o valigie. All’apparenza, una famiglia del posto che sta traslocando. Uccelli simili a gabbiani, bianchi e starnazzanti, voleranno sopra la testa di tutti. “Grae, grae, grae.” E arriverà una chiatta nera e malmessa cruh cruh cruh carica di carbone. La chiatta si avvicinerà al molo senza spegnere il suo vecchio motore e vi collocheranno un’asse scura. Passerà il ragazzo, passerà la madre e, quando toccherà alla bambina, scivolerà perdendo l’equilibrio e la valigia le cadrà nell’acqua. Cruh cruh cruh continuerà la chiatta, il padre lascerà i suoi bagagli a terra e si tufferà nell’acqua fredda. Afferrerà la valigia che galleggia in superficie e raggiungerà l’imbarcazione a nuoto, tenendola alzata con una mano. La donna prenderà la valigia gocciolante e il ragazzo aiuterà il padre a uscire dall’acqua. Il pilota della chiatta guarderà con 292 L’amico congelato indifferenza quanto accade. Il ragazzo tornerà sul molo per prendere i pacchetti rimasti lì. Poi il comandante ritirerà la tavola e tornerà al timone per continuare il viaggio. Il motore ansimerà come un asmatico cruhh cruhh cruhh lentamente e senza fiato. Viaggeranno tutti e quattro seduti sopra una montagna di carbone, con i loro bagagli. E l’allontanarsi di quella montagna di carbone, circondata da stormi di gabbiani, ti sembrerà estremamente triste. “Grae grae grae” sentirai. La montagna di carbone scomparirà nella nebbia, pietra nera che illuminerà e riscalderà le notti di tante case. “Vedi quel castello?” ti chiederà Edna. “Pare che sia stato un carcere.” Sulla costa, al di sopra della verdeggiante acqua grigia, in alto sulle rocce nude, vedrai un castello diroccato. “Ci andiamo assieme?” “Ed Edwin?” “Ha appena preso la medicina e sta 293 discutendo con il geografo. È stato lui a suggerirmi l’idea di visitare il castello, se avessi trovato qualcuno che mi accompagnasse...” “Allora andiamo” dirai. Le case dell’isola sono di legno, un tempo erano colorate ma l’umidità le ha rese scure. La gente, spaventata, si nasconderà e non avrete la possibilità di parlare con nessuno. Percorrerete il sentiero avvolti dalla nebbia e, senza fermarvi, seguendo una muraglia coperta da muschio ed edera, arriverete alla porta del carcere. “Fa paura trovare la porta di un carcere aperta, non ti sembra?” chiederai scherzosamente. “Vuoi dire che fa paura il fatto che possa chiudersi.” “Entriamo” dirà Edna. “Non fa poi così paura, se non c’è la porta, come in questo caso.” Mancano la porta e lo stipite, nella parete di pietra c’è solo un arco di ferro come entrata. Vi inoltrerete attraversando corridoi umidi, al buio, camminerete a lungo fino a raggiungere un rotondo cortile interno. Lì troverete tre porte che danno a tre bracci. 294 L’amico congelato “Non è certo un bel posto per viverci, chi vorrebbe stare qui?” dirà Edna. “Nemmeno le guardie.” Entrati in uno dei bracci di tre piani, vedrete ad ogni piano due file di celle allineate ai lati del corridoio. Immaginerete i prigionieri là sopra, al terzo piano, fuori dalle loro celle e appoggiati alla ringhiera che guardano giù. Ti avvicinerai alle scale dicendo: “Andiamo al terzo piano” e il corridoio ti rimanderà un eco terrificante: ... iano, iano. Sul primo scalino il piede affonderà e per poco non cadrai. “Questa scala non ha gli scalini” dirai spaventato. La maggior parte degli scalini sono rotti e gli altri sono tavole marce, fragili come cartone bagnato, coperte di funghi. “Anche gli scalini se ne sono andati...” dirai. Si vedranno alcuni uccelli, pochi rispetto a quelli che volano all’esterno. Le porte di ferro delle celle del primo piano si apriranno facilmente. 295 Sono celle silenziose, strette, umide. Le sbarre delle finestre coperte e assottigliate dalla ruggine. Sulle pareti, non si sa ad opera di chi, delle scritte: Non calpestare l’erba: fumala. Nomi, date, disegni, la maggior parte fallici, di diverso stile, romantici, naif o futuristi. “Non mi prenderanno” Erdosain “Cosa significa questa?” ti chiederà Edna, indicandotene un’altra. “Sono un uccello solitario che vuole volare” le tradurrai. “E quest’altra?” “È vietato morire” le dirai. Non gliel’hai tradotto bene o forse non ha capito bene, e rimarrà a guardare un’altra scritta: “Trema borghesia, 296 L’amico congelato ti restano solo alcuni millenni di vita” E poi un’altra: “E tu, di notte, cosa sei, il gatto o il tetto?” Edna inizierà a ridere ascoltando la traduzione. “Javier, devo chiederti scusa” ti dirà. “L’altro giorno sono stata scortese.” “Non importa.” “Anche oggi gli ho detto di non perdere la speranza e di essere positivo.” “Bisogna andarsene, vecchio” “E allora?” “È assurdo dare consigli a chi sopporta il dolore.” Anche l’inizio della vita è stato una bella catena di sofferenze. Dillo ad Edna, che la vita senza dolore è una sfrontatezza. 297 “Bisogna trovare il modo di morire bene...” le dirai, pronunciando parole che giungono alla tua mente come arcani. “Ma non esiste nessun modo per morire bene...” ti dirà Edna. Scenderete dal castello alla spiaggia e, di pietra in pietra, tornerete al molo lungo la costa. Vedrete gli arbusti e le piante del litorale inclinati a nordest dal vento implacabile che soffia da sudovest. Su questi arbusti ricurvi avranno i loro nidi gli innumerevoli uccelli che volteggiano sopra le isole. “Ti sei mai innamorato?” ti chiederà Edna raggiunta la spiaggia. Hai sentito il gracchiare del gabbiano che sembra quello di un gringo? E le risponderai assieme al verso degli uccelli: “Sì.” “Quando?” In quel momento ti accorgerai che ha un tic 298 L’amico congelato nervoso. Ogni tanto muove la testa e alza la mano destra come se una mosca o una zanzara le si fosse appoggiata sulla guancia... “Quando? Cerca di ricordarlo.” E ripeterà “Ma ti sei mai innamorato davvero?” I gabbiani continueranno a volteggiare e a gridare sopra l’isola. “Credo di sì. Per lo meno tre o quattro volte.” “Quando?” Dovrai raccontargliele una a una. “Ma veramente innamorato?” insisterà. Cosa vorrà dire con questo veramente innamorato? “Non lo so” le risponderai, come se decidessi di arrenderti di fronte alla sua insistenza. “Allora non ti sei mai innamorato.” “Sì, mi sono innamorato.” “No, non ti sei mai innamorato.” “No?” “Ne sono sicura.” “Perché?” “Perché sì.” La nebbia lattiginosa ridurrà la visibilità 299 e, anche da vicino, la vostra imbarcazione si intravvederà appena. “Perché ti sei imbarcato con noi?” ti chiederà Edna. Hai bisogno di una parola che possa dissimulare il più possibile, così le risponderai Downshifting, per riposare. E penserai che ti parlerà di Edwin, del perché è venuto Edwin, perché Edna è venuta ad accompagnare la risposta di Edwin a questa domanda, invece Edna non lo nominerà: “Ci sono strade che bisogna percorrere obbligatoriamente, per sapere che non portano da nessuna parte.” Troverete Edwin sul ponte. Sarà in piedi, appoggiato al parapetto, con quegli occhi pazzi e tristi sembra uno scheletro vestito che canticchia una canzone o un lamento: For whatever we lose, like a you or a me, it’s always ourselves we find in the sea… 300 L’amico congelato Grae grae grae si sentirà. Ed Edwin rimarrà a guardare dal parapetto, osservando i gabbiani che esplorano le radici della nebbia nel loro mondo etereo. Sarà una sosta lunga ma non parlerete con nessuno dell’isola, la gente è timorosa e nessuno vi racconterà la leggenda del gringo e della scialuppa bianca che si avvicina all’isola alla ricerca di anime. “Barcaiolo! Barcaiolo!” chiama l’anima che si incammina. E una barchetta bianca che sembra un graffio nella nebbia pare che si avvicini per prendere l’anima del morto. L’anima abbandona la tomba del corpo e vola verso il mare gridando: “Barcaiolo! Barcaiolo!” La barca si avvicina con la prua fin quasi alla sabbia. È bianca, con i remi bianchi e porta gente vestita di bianco. Una volta, un gruppo di gringos alla ricerca dell’oro arrivò alle spiagge dell’isola e uno di loro, lui sì, ascoltò la storia della scialuppa bianca. 301 Il pomeriggio successivo, il gringo si ubriacò e iniziò a gridare verso il mare: “Barcaiolo! Barcaiolo!” E apparve l’imbarcazione bianca. Si avvicinò fino a entrare con la prua nella spiaggia, fino a raggiungere il gringo ubriaco e chiassoso, per poi perdersi immediatamente nella nebbia. Al mattino del giorno seguente, il gringo venne trovato morto sulla spiaggia. E l’anima del gringo morto, una volta liberatasi dal corpo, sarebbe stata raccolta da quella barca bianca? La gente di Chiloé dirà di no. Che la barca bianca non aveva raccolto l’anima del gringo. E dove si trova allora l’anima del gringo? Diranno che vaga da qualche parte, nascosta nella pancia di qualche gabbiano. Non senti quel gabbiano che fa grae come un gringo? Ma saranno migliaia i gabbiani che sorvolano le isole di Chiloé. Grae grae grae. 302 L’amico congelato 303 14 LA PUNTA DI HARRIZORROTZETA Il vento del sud portò un piacevole tepore e credo che fosse quel vento a spingerci verso l’imboccatura del porto e verso il mare aperto. “Questa non è la mia imbarcazione, ma domenica mattina andremo alla ricerca di una nave affondata, se vuoi venire” mi disse Goio. La maggior parte dei ragazzi del collegio trascorreva il fine settimana a casa. Un sabato mattina uscii presto dal collegio, perché alle nove dovevamo trovarci sotto il portico della chiesa. Arrivai in anticipo, alle nove meno venti, così rimasi lì ad aspettare, circondato da strane statue. Per i bambini del paese quei mostri di pietra del campanile erano una minaccia. Non vuoi mangiare tutto? Bene, allora chiamerò i mostri di Goienkale, così dicevano le mamme di Kalaportu ai 304 L’amico congelato bambini piccoli, ricorrendo a quelle figure terrificanti che provenivano dal Medioevo o chissà da quale epoca oscura. In ogni caso, era veramente inquietante quel corpo deformato e nudo che mostrava un enorme pene in erezione e un sorriso storto e triste, o la donna con un enorme naso ma senza bocca, o la faccia che spuntava da una botte, quasi nascondendosi, con una smorfia tra lo stupore e la burla. O quell’altro appeso al soffitto con le mani strette strette alla parete e lo sguardo terrorizzato di chi sta per cadere, cosa che pensavo avrebbe fatto proprio su di me. “Lui è Juan Bautista. Lui è Andoni” ci presentò Goio. “Allora, usciamo in mare o no?” disse Juan Bautista. Da lì, lungo una strada che scendeva fino al mare serpeggiando, raggiungemmo il porto, diretti alla barca del padre di Juan Bautista. “Dammi la cima!” mi disse Juan Bautista, mentre saltava dentro la barca. Non sapevo cosa fosse la cima e rimasi 305 titubante. “Tu, quella è la cima! E passamela, dai!” Gli passai la corda e salii anch’io. Juan Bautista e Goio si occuparono della barca, presero entrambi un paio di remi e, mentre io mi sedevo a poppa, iniziarono a remare. Procedevamo lentamente. La barca era verniciata di verde all’esterno e di azzurro all’interno. Non si vedeva nessun nome. Non dissi a nessuno che era la prima volta che salivo su una barca e uscivo in mare. Ormai eravamo in acqua. In quel momento, sul molo apparve una ragazza che gridava: “Juan Bautista, aspetta, voglio venire anch’io con voi...” Juan Bautista remò con più forza. La ragazza correva sul molo, parallela alla barca: “E così non mi volete con voi, teste di rapa?” Ma Juan Bautista non aveva intenzione di fermarsi, remavano più forte possibile. “Vi auguro di annegare dentro quella bara bagnata!” 306 L’amico congelato “Avanti tutta, più forte!” disse Juan Bautista tutto sudato. Avevo i due rematori di fronte a me. Le pale dei remi affondavano nell’acqua come scope per pulire i fondali. Portavano le impugnature del remo in basso e indietro, poi alzavano la pala del remo al di sopra della superficie e la spostavano senza toccare l’acqua, lasciando cadere solo qualche goccia. Allora la pala dei remi si immergeva e, stringendo forte l’impugnatura, facevano tutta la forza possibile di braccia e schiena per passare la scopa sott’acqua. La barca si allontanava lasciando dietro di sé un piccolo solco di acqua. Tra un colpo e l’altro sembrava che si fermasse, immobile, ma un nuovo colpo di remi le dava un’altra spinta. Oltrepassammo rapidamente l’ultimo braccio e uscimmo in mare aperto. “Chi è quella ragazza?” chiesi. “Maite” disse Juan Bautista. Prendemmo a dritta e ci avvicinammo ad Harriandi. Gli schizzi delle onde ci bagnavano le guance, senza incontrare ostacoli, respiravamo il 307 vento e leccavamo il sale che si accumulava sulle labbra. “Cos’è il sopravento?” chiesi, avevo sentito quella parola in un film di pirati. “Il sopravento è il lato della barca colpito per primo dal vento” mi disse Juan Bautista. “Alzati in piedi e guarda là.” Mi alzai e rimasi a guardare dove mi avevano indicato. Il vento mi soffiava di fronte. “Adesso prepara uno sputo di saliva spessa!” Preparai la saliva e la raccolsi dentro la bocca. “Adesso sputa più forte che puoi!” Raccolsi sulla lingua la saliva più spessa che potei e la sputai con tutte le mie forze, il vento ruppe lo sputo che ricadde sulla mia faccia. Goio e Juan Bautista alzarono i remi e le gambe e scoppiarono a ridere, mentre anche loro si ripulivano i viso. “Così non ti dimenticherai cos’è il sopravento, moccioso!”. Sopravento è il lato da cui spira il vento. La parte opposta, il fianco opposto a quello da cui 308 L’amico congelato soffia il vento, si chiama sottovento. “Ci inoltreremo un po’ in alto mare.” Fu allora che imparai, tra l’altro, cosa significa navigare in direzione alto mare e in direzione costa. E cosa sono la scalmiera, lo stroppo e la bancaccia. “Siamo arrivati, ma questo è un segreto, d’accordo?” disse Juan Bautista. “Io non dirò niente” risposi. Allora, maneggiando un solo remo, rimase a guardare la terraferma dalla prua e ci disse: “Cosa vedete?” Aprimmo bene gli occhi, ma non vedevamo niente nei dintorni. “Guardate in acqua, sul fondo.” Io non sapevo come si potesse arrivare in un posto così, che non era segnalato da nulla. “Questa è la punta di Harrizorrotzeta e quella è Harriandi, si vede l’ufficio delle guardie.” Era sufficiente fare attenzione a quello che si vedeva e a quello che non si vedeva sulla terraferma, disse Juan Bautista, per sapere in che punto del mare ci trovavamo. Poi mise un bicchiere di vetro in acqua e ci 309 disse: “Guardate cosa si vede, c’è gente lì dentro.” Io non vedevo niente, ma Juan Bautista diceva che sul fondo c’era una nave. “Una nave naufragata?” chiesi. “Il Bou Nabarra” rispose. Juan Bautista disse che il Bou Navarra era affondato durante la guerra. Quell’imbarcazione, un peschereccio che solcava le acque di Terranova per la pesca del baccalà, era stata preparata per la guerra e pare svolgesse lavori di protezione dei mercantili. Nel marzo del 1937, quando stava accompagnando una nave da Baiona a Bilbao, vennero attaccati dal cacciatorpediniere franchista Ferrol. Il mercantile riuscì ad attraccare a Kalaportu, ma il Nabarra lo affrontò e sostenne la battaglia per una mezz’ora, benché non avesse nessuna speranza di poter vincere, perché il cacciatorpediniere era quindici volte più grande. Su quel fondale buio non si riusciva a vedere niente. “Io non vedo niente” dissi. I cannoni franchisti colpirono le macchine 310 L’amico congelato del Nabarra e, quando l’imbarcazione stava per affondare, dodici uomini si buttarono in mare e si misero in salvo a nuoto ma subito dopo finirono in mano ai franchisti. Alcuni di loro sarebbero stati successivamente condannati a morte. Il comandante e altri sette, invece, piuttosto di consegnarsi decisero di affondare con la nave e lì rimasero, assieme agli altri otto compagni morti in battaglia. “Come fai a sapere tutte queste cose?” gli chiesi. “Mio padre fu uno di quelli a cui venne concessa la grazia, ma suo fratello è lì.” Si tuffò di testa ciuf e rimase sott’acqua un bel momento. Riemerse dopo uno, due, tre interminabili minuti. “Allooora?” gli chiedemmo. “È tutto lì!” Juan Bautista tornò ad immergersi alcune volte. “Fredda?” gli chiesi. “Calda!” rispose Juan Bautista e dovette fare delle energiche bracciate per non congelarsi. 311 “Là l’acqua è più bassa di te!” mi disse ridendo. “Non annegherai!” Ma io vedevo tutto troppo scuro e troppo sconosciuto. Goio si tuffò. Anche lui rimase a lungo sott’acqua e riemerse senza fiato a fianco della barca, per riposare senza dire nulla. Poi rimase sdraiato in acqua, facendo il morto, pancia in su, a guardare un cielo limpido senza tracce di nuvole. Juan Bautista sembrava Johnny Weissmuller, dentro e fuori, e rimase lunghi momenti sott’acqua. A un certo punto ritornò con una vecchia pistola e, allungando il braccio, la lasciò cadere dentro la barca. La pistola era arrugginita e coperta di patelle, io e Goio guardammo quel vecchio ferro con gli occhi spalancati. “La nasconderemo, non si sa mai” disse Juan Bautista, “perché le guardie controllano con il binocolo...” Poi dissero: “Bisognerà tornare al porto, no?” Quando arrivammo, fui io ad avvolgere la cima alla bitta del porto. 312 L’amico congelato La domenica pomeriggio, quando rientrai in collegio, alcuni ragazzi stavano tornando dalle loro case. Siccome sapevo che Goio sarebbe dovuto andare a Zubieta, decisi che lunedì sarei andato a Kaioarri. Passai dal cantiere navale di Zubieta, attraversando una zona piena si pozzanghere e di pezzi di ferro arrugginiti. Vedevo il porto alla mia sinistra, finché non ebbi oltrepassato il molo. Le onde saltavano al di sopra della barriera. Quello che chiamavano Kaioarri non era altro che la punta di uno sperone di roccia che ad ovest delimitava la bocca del porto e ad est lasciava spazio alla spiaggia. All’entrata del porto giaceva una nave incagliata tra le rocce, il cui corpo di ferro si stava inesorabilmente e invano ossidando. E c’erano anche i gabbiani, numerosi attorno a Kaioarri. 313 Goio, da parte sua, andò a casa di Ariane. “Scusa, sto facendo il bucato” disse Ariane aprendo la porta, con quel suo sorriso rouge. Aveva le mani piene di schiuma. “Vuoi del caffè?” chiese Ariane. Poi, dalla cucina, ordinò a Goio: “Prendi il libro che c’è sul tavolo e leggi una poesia, mentre io preparo il caffè.” Goio iniziò a leggere la copertina del libro: Jacques Prevert, La pluie et le beau temps. “Ma in modo che io possa sentirlo!” Goio aprì il libro alla pagina quindici e iniziò a leggere una poesia intitolata; Étranges étrangers: Étranges étrangers, Vous êtes de la ville... Quando Ariane tornò con il caffè, stava leggendo le ultime righe: vous êtes de sa vie même si mal en vivez même si vous en mourez. dovette Goio ripetere parecchie volte 314 L’amico congelato étrange, étranger, ville, vie, vivez. Le erre, il finale delle parole, le vi... Ariane parlava dolcemente. La gente di Kalaportu si esprimeva in modo più duro, forse per impedire al mare di portarsi via le parole tanto facilmente. Vous êtes de sa vie, a volte quasi non si sentiva, même si mal en vivez, e con il caffè portò anche il “gatò”. Goio non sapeva che fare con quel gâteau, se mangiarlo o no, se l’avesse mangiato avrebbe potuto pensare che era affamato... Mancava solo un dolce sottofondo musicale perché quella sembrasse una scena fra Alain Delon e la sua ragazza. Le braccia e le gambe erano vicine, c’erano anche alcune parole magnetiche, assieme alla paura e al desiderio. Goio mischiò il caffè con il cucchiaino: “Scotta” disse. “Hai già cominciato a parlare francese...” gli disse Ariane con una voce che si avvicinava e si allontanava. Sul tavolo c’era una fotografia di Ariane, di quando avrà avuto quattordici anni. Per Goio il suo sorriso era dolce e le sue parole gli accarezzavano 315 la pelle. “Credo che tu abbia fatto dei progressi” gli disse Ariane. “Sei allo stesso livello dei tuoi compagni o forse anche meglio, non c’è più bisogno che tu venga qui.” Quando stavo rientrando in collegio da Kaioarri, Padre Solana mi beccò. Avevo salito gli scalini di due in due, guardando verso l’alto, e camminato piano lungo il corridoio perché il pavimento con la cera amplificava il suono dei passi. Girato l’angolo, Padre Solana apparve dall’oscurità. “Fermo lì!” disse all’improvviso e quasi caddi nel vedere il suo viso bianco e i neri capelli schiacciati e brillanti. Mi chiese da dove venissi e non gli risposi nulla. Mi disse che mi aveva visto scavalcare il muro. Proprio da qui, dal mio osservatorio, disse indicando la finestra, come un ragno indicherebbe la sua ragnatela, con una mano più bianca di un 316 L’amico congelato fantasma. La finestra sembrava un quadro strano, con la luna piena nell’angolo superiore destro. Lì mi fece l’elenco di tutte le volte che ero uscito di nascosto o rientrato tardi. Teneva tutto scritto in un quaderno e me lo lesse alla luce della luna: il 5 ottobre alle dieci meno cinque, il 13 ottobre alle dieci, il 23 ottobre alle undici meno dieci, il 3 novembre alle undici e venti. Elogiò la mia progressione nell’arrivare sempre più tardi. Mi chiese perché ero sempre da solo e perché ero sempre in posti in cui non dovevo essere. “Domani ti aspetta il Direttore.” 317 15 IL FIUME CON UNA SOLA RIVA Grae grae grae. Andrai in cucina e Bobbi ti mostrerà la bacheca del menù: Chili dog & fries Milk shake “Edwin non vuole pranzare” gli dirai. “Tutti gli esseri viventi rischiano di morire prima di mangiare e anche dopo aver mangiato” Bobbi ricorre al suo umore nero, “quindi, sarà meglio mangiare tranquilli...” Durante il pranzo John Masefield si siederà vicino a te: “Ti piace il cinema?” ti chiederà. “Piacermi, sì.” “Ti ricordi la canzone dell’agonia del 318 L’amico congelato computer Hal 9000?” Devi ricordarla: 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, un film di fantascienza che avevi visto al cineclub universitario di Bilbao. Sarà stato l’anno 1978 o il 1979 e in quel momento l’anno 2000 era assai più lontano dell’orizzonte. “L’ho visto molto tempo fa e non me la ricordo.” Cerca di ricordare la sequenza del primate che prende un osso in mano e lo trasforma in uno strumento, poi in un’arma mortale che, quando viene lanciata volteggiando in aria, diventa una nave spaziale. “Il computer rotto, rimuovendo la memoria a breve termine, dal futuro all’indietro, ripristinerà i ricordi iniziali. Anche il nostro vecchio è così, come quel computer guasto, alla fine della sua vita canta ninnananne...” Sentirai Jingle bells, jingle all the way e capirai che John Masefield si riferisce a quella canzone. “Per lo meno questo è quel che succede alle reti di neuroni artificiali: mentre muoiono poco 319 a poco, rivedono al contrario tutto quanto è stato appreso, come se disimparassero la loro vita di silicio, non si perdono in incoerenze e tornano ai primi momenti di vita...” Crederà che sia Edwin a cantare Jingle bells. “L’essere umano inizia a morire giovane, dai venticinque anni in poi ogni giorno perdiamo 25.000 neuroni...” “È il suono della mia sveglia” lo interromperai. E te ne andrai in cabina. Lì ci troverai Edwin, sdraiato sulla sua tomba. Dopo avergli somministrato il Brompton, dovrai medicargli le piaghe che ha sulla schiena e sulle natiche. Appena preso il Brompton si addormenterà, a pancia in su, consumato e rinsecchito dalla febbre, come gli astronauti dei film di fantascienza immersi in un sonno infinito. Continuerete la navigazione vicino alla costa, la massa scura delle pendici di pietra si estenderà a dritta fin sopra il mare grigio. Ogni 320 L’amico congelato tanto si vedranno rocce che alzano la linea del mare verso il cielo e appariranno gli estuari dei fiumi che, scendendo dalle montagne, riversano nel mare le loro acque. Dietro, le pendici oscure e le cime imbiancate di gigantesche montagne che definiscono l’orizzonte. “E quella cima?” In lontananza si vedrà una montagna impressionante, sarà alta sei-sette mila metri, calcolerai. “Qui iniziano i canali del sud” dirà Axel. “E quella cima rocciosa?” chiederai di nuovo. “Non ricordo il nome” dirà Axel, troppo affascinato dal paesaggio che ha davanti agli occhi per iniziare a consultare dei libri. Il mare sarà abbastanza tranquillo ma farà freddo. Dalla larga cintura di schiuma che circonda la costa è chiaro che le onde battono con forza, sbam, contro la pietra nera degli scogli. E si moltiplicherà il numero di uccelli che volano attorno alla barca. Gabbiani, procellarie, cormorani... Grae grae grae. Si avvicineranno anche alcuni albatro dal 321 volo lento, allarmati e nervosi. Disegneranno spirali nell’aria, volteggiando dalle rocce scure della terraferma fino al mare. “Sembra che questo mare calmo preannunci tormenta” dirà Axel. “Vive gente su questa costa?” “Sì, da molti secoli, nei canali, nelle baie e nelle isole dei dintorni ci vivono le tribù Alakaluf. “E quella montagna?” chiederai di nuovo. I nomadi del mare, gli Alakaluf, raccontano che la Felicità si trova proprio sulla cima di quella montagna. Lì, su quella vetta imbiancata, non dovrai preoccuparti di niente. Avrai il vino migliore, tè caldo e biscottini, e cozze fritte, molto calde, pronte per essere mangiate. Si dice che sulla lontana cima di quella gigantesca montagna ci siano balene arenate e branchi di lontre di mare. E foche barbute che si tolgono la pelle e la offrono in mano agli indigeni che ci arrivano, anche se là in cima non c’è bisogno di abiti di pelle perché il clima non è rigido come il duro inverno dei canali, ma è un mite inverno... “Peccato che non possiamo rimanere a 322 L’amico congelato lungo a contemplarlo!” E guarderai verso la cima della montagna e non si vedrà più, così come non si vedranno più le rocce scure della costa, nascoste dalla fosca nebbia. Perché quando qualcuno lo osserva, a quanto pare, il paradiso degli Alakaluf si nasconde. “Viene la tormenta” sentirai dire a un uomo dell’equipaggio. E il vento, soffiando, solleverà la cresta schiumosa delle onde e le raffiche alzeranno l’acqua al di sopra della barca, come se fosse nebbia. “Sarà meglio entrare” dirai. A dritta vedrai il mare battere gli scogli scuri. “Le tormente, da queste parti, sono spaventose!” dirà Axel. Sentirai l’ululato del vento di sudovest che investe ogni angolo, e il tamburellare della pioggia, e le onde innalzarsi come colline e ripiombare, e la furia del mare rompersi contro le rocce e alzarsi imbiancando di schiuma gli scogli, e di nuovo scendere e alzarsi... Siccome nella cuccetta di sotto Edwin 323 dorme, tu ed Edna rimarrete sul tuo letto. “Raccontami qualcosa di te...” ti chiederà. Quasi balbettando, le dirai che ti chiami Javier Salgado e che hai studiato da infermiere. “E questa è tutta la tua vita?” A quel punto, inaspettatamente, sarà lei a raccontarti la sua. L’interesse nei tuoi confronti non era altro che un warming verso l’interlocutore, ed era proprio questo che voleva fare fin dall’inizio, raccontare la sua vita, come si racconta la storia di uno Stato: “Il paese è grigio e triste. Una strada principale lunga circa duecento metri, una chiesa con vetrate colorate, una fabbrica di cotone e le case degli operai della fabbrica. Il sabato è giorno di mercato e i contadini dei dintorni giungono per fare acquisti e quattro chiacchiere... Non ti dirà il nome del paese, forse perché tu lo possa chiamare Oldandnasty Deep South. La via principale si potrebbe chiamare The White Way, se si meritasse un nome. “Non c’è una stazione del treno nel raggio di tre miglia. A dodici miglia c’è Savannah, un 324 L’amico congelato altro piccolo paese ma più popolato. È come se il paese fosse perso nel mondo e anche la polvere fa male...” Letture bibliche, il camion bianco del venditore di latte e, alle tre del pomeriggio, con una temperatura di 102 gradi Fahrenheit, Robert Redford potrebbe iniziare a sparare non si sa a chi. “Di sera, in una strada buia e polverosa c’era il cinema e la gente ci andava in macchina. Si sentiva il ronzio della luce in ebollizione lanciata dal proiettore attraverso un buco della parete e i colori si estendevano brillando sullo schermo, e noi eravamo lì, a guardare la luce dall’oscurità, gente solitaria, in silenzio, tutti assieme ma ognuno immerso nel proprio isolamento...” Le mancherà solo aggiungere che la storia e la geografia stringono il collo alla gente... “Sai cosa mi regalò il mio primo marito il giorno di San Valentino? Un cuore di mucca.” “Di mucca?” “Sì, un cuore vero, che gocciolava ancora sangue. Lui apparteneva a una famiglia di allevatori e me lo portò in una scatola delle scarpe...” 325 “Ma è come regalare una prostata!” dirai. No, la prostata di un anziano no, un cuore di bue che sanguina in piena notte. Dovresti capire il suo significato simbolico. “Poi, in viaggio di nozze, andammo all’hotel Niagara Falls. La maggior parte dei novelli sposi del mio paese va alle cascate del Niagara in viaggio di nozze. In realtà le cascate d’acqua sono molto erotiche, il frastuono, la schiuma e tutto il resto...” Dopo un po’ di tempo si erano separati, lei era rimasta libera e, senti questa, era entrata nel movimento per i diritti civili: “Noi donne bianche lo chiamavamo test sessuale, se ti negavi di fronte a una proposta sessuale di un uomo nero, ti etichettavano come razzista. Se accettavi, invece, ti chiamavano donna facile, oltre a guadagnarci anche l’odio delle donne nere. Fu un’epoca piena di allegria e delusioni, usavamo la Coca Cola come anticoncezionale, credevamo che l’acido carbonico fosse uno spermicida, ma la Coca Cola provocava peritoniti e gravi embolie...” Poi era diventata hippy e disegnava tre P 326 L’amico congelato sulle pareti bianche: Peace, Pussy, Pot. “Chiedevamo Pace, Vagina, Erba. Anche noi potevamo dire vagina come i nostri compagni dicevano pene, loro che ci trattavano come coniglie, dentro e fuori, dentro e fuori, dentro e fuori...” In out, in out, in out. “Com’era noioso!” dirà Edna. Ti sveglierai al suono di Jingle bells e sarai a letto abbracciato a Edna. 8:00 leggerai nei numeri verdi dell’orologio. Ricorderai che devi preparare la dose di Brompton e, scendendo dal letto, nervoso, starai quasi per cadere. Lì ci sarà Edwin, con un corpo che non è altro che pelle e ossa, gli darai il Brompton e uscirai fuori. “Oggi, gallo con patate” annuncerà il cuoco. E si siederà su un sedia a pelare patate, accanto a un’altra sedia su cui ha appoggiato un coltello. “Da qui in poi, non ci sono più posti per i galli” dirà Bobbi. 327 Prenderai il coltello e ti siederai per aiutarlo e per ascoltare le parole del cuoco: “Durante i viaggi verso sud, i galli iniziano subito ad ammalarsi. Perché le giornate sono o troppo lunghe o troppo corte, confusi, dubitano, non sanno quando fare chicchiricchì, obbligati a cantare fuori tempo, impazziscono, i poveretti.” Le bucce di patate si accumuleranno nel secchio e, tolto l’ultimo pezzo di pelle all’ultima patata, dirà: “Allora, se sei una persona di cuore, porterai il triste gallo sulla strada della padella.” E con loro arriveranno anche molti uccelli. Passeranno davanti alla prua, da dritta a babordo e in senso contrario, disegneranno linee rette e curve, iperboli e improbabili angoli, ingarbugliando tutti i postulati della geometria euclidea. Anche tu voleresti volentieri come gli uccelli, per prendere un’onda di vento e per scivolare con essa, scendere fin quasi a toccare l’acqua per risalire di nuovo in alto nell’aria. Il cuoco svuoterà in mare il secchio pieno di bucce di patate e il frastuono degli uccelli 328 L’amico congelato immediatamente aumenterà, abbandoneranno i volteggi in altezza e scenderanno velocemente verso l’acqua. Mentre i gabbiani si rubano rumorosamente le pelature dai becchi, scenderà una gran procellaria nera che caccerà i gabbiani a colpi d’ali restando la padrona assoluta. Rimarrai sul ponte, solo. Zoccoli di vento, nuvole disordinate, onde a pecorelle, nebbia. L’imbarcazione procederà a salti e dondolando. All’improvviso una grande onda ti colpirà e ti sembrerà di ricevere uno schiaffo in faccia. Ti porterai la mano alla guancia e toccherai un’erba viscida, appiccicaticcia come una biscia. “Che razza di animale è questo?” “Non è un animale, è un’alga” ti dirà Bobbi. Terrai in mano l’erba viscida che sembra di gomma. “Pare che siano così lunghe che arrivano fino in fondo al mare” ti dirà ridendo il cuoco nero. Viscida e lunga. 329 16 MOSTRI Sapevo che il Direttore mi avrebbe chiamato e stavo aspettando il momento. Mi avvisarono in refettorio, quando stavamo pranzando, che dovevo andare da lui. “Proprio adesso?” “Padre Solana ha ordinato di andarci subito” mi disse Beixama. “E io no?” chiese Inazito. “No, tu no.” Inazito ci rimase male, perché Padre Testalucida, così lo chiamava lui, non l’aveva convocato. Lasciai lì il piatto di riso e mi alzai. Feci tutto molto lentamente in modo da arrivare il più tardi possibile all’ufficio del Direttore. Avanti, mi dissero dall’interno quando bussai alla porta. Era seduto dietro la scrivania e con il capo 330 L’amico congelato mi fece cenno di sedermi. Indossava l’abito talare ed era completamente calvo. Sulla scrivania c’erano alcuni fogli, delle grandi tabelle con numeri nei riquadri. Ma in mano aveva un biglietto che teneva in un angolo. “Nome?” mi chiese. “Andoni Martinez.” Andoni sarà Antonio, mi disse lui. Antonio e poi? “Antonio Martinez” gli dissi. Di che classe ero, e dissi di quarta. Di IV B precisò lui, categorico, perché faceva domande e affermazioni senza bisogno delle risposte di nessuno. Appoggiò il foglietto sul tavolo e lo schiacciò un paio di volte con il palmo della mano, come se volesse stirare una piega. “Tu sei uscito dal collegio, hai preso l’abitudine di andare in giro” mi disse. “Ma con il permesso di chi?” “Senza permesso” gli dissi. “Con chi esci e dove vai?” mi chiese. Rimasi in silenzio. La cattolica pelata del 331 Direttore brillava come marmo bagnato. E il silenzio si prolungò. Allora estrasse un foglio bianco da sotto un plico di fogli. Mi disse di prenderlo e, quando l’avevo in mano, che avrei dovuto riempire le due facciate. “Domani dovrai riconsegnare questo foglio scritto e spiegare con chi e cosa hai fatto in giro per il paese...” Uscii con il foglio bianco in mano. Durante le lezioni del pomeriggio tenni quel foglio davanti a me, bianco, bianchissimo. Avevamo Lingua spagnola, piuccheperfetto del congiuntivo ed eravamo tutti lì, di pomeriggio, seduti ai nostri banchi di legno, scarabocchiati, vecchi, quasi biblici, Se io fossi stato. “A cosa ti serve quel foglio?” mi chiese Goio. Di solito utilizzavamo quaderni a quadretti e, Se tu fossi stato, quel foglio bianco doveva sembrargli una cosa strana. “Per matematica” gli dissi. Era completamente bianco, Se egli fosse stato, se ella fosse stata. In quasi tutte le materie 332 L’amico congelato ci facevano scrivere la data in alto a destra nel foglio, eccetto matematica. I fogli di matematica si consegnavano senza data. Per quello gli dissi che era per matematica, per quello era così bianco. Studiavamo Geografia, Matematica, Lingua spagnola, Scienze naturali, Formazione dello Spirito Nazionale, Francese, Religione, Latino, Ginnastica, e avevamo un quaderno a quadretti per ognuna della materie. Se noi fossimo stati. In classe avevamo una foto di Francisco Franco, più giovane di quello che vedevamo in televisione o sui giornali, che vigilava da sopra la lavagna. Alle spalle ci guardava un Gesù Cristo crocefisso, sempre nel momento peggiore del martirio, osservava la nostra indifferenza come se dicesse: Io sì, credo in voi. Siccome, al recuperare la gomma che era passata di banco in banco, lo sorpresero a dire grazie, Eskerrik asko, in basco, Inazito dovette 333 scrivere cento volte sul quaderno a quadretti di Lingua spagnola: Non parlerò in basco durante le lezioni di spagnolo. Il castigo consisteva nello scrivere, che veniva considerato alla stregua di una condanna ai lavori forzati. Per copiare quella frase, Inazito organizzò un lavoro di gruppo con i compagni di collegio. Lui scrisse dall’alto in basso la parola Non Non Non Non Non cento volte come sostegno per le altre che lasciò una ciascuno a noi. Esteban copiò parlerò, parlerò, parlerò, parlerò, Beixama in, in, in. Io copiai la mia alla destra di cinque colonne irregolari e storte, lezioni, lezioni, lezioni, cento volte. Poi, dalla finestra del dormitorio, guardai Kalaportu, e ricordai i mostri della chiesa. Soprattutto quello che, appeso e attaccato alla parete, sembrava avesse paura di cadere. E quello strano essere dal naso enorme e senza bocca, che non sarebbe mai stato in grado di parlare. Alla finestra, anch’io ero un mostro. Dai camini delle case saliva fumo e, a 334 L’amico congelato quell’ora, si vedeva tutto grigiastro. Avevo sentito, durante la lezione di Scienze, che l’autunno stimola tre sensi: la vista, l’udito e l’olfatto. “Per gli altri due sensi devi possedere la materia” disse Pablo Esparza, “il sapore e il tatto non si possono sperimentare senza appropriarsi della materia, per lo meno senza entrare in contatto con essa. La vista, l’udito e l’olfatto, invece, possono lavorare anche lontano dalla materia...” Ne trasse una conseguenza stupefacente, per questo, disse, e lo ripeté due volte, per questo l’autunno è la stagione che più assomiglia ai sogni. E io ero lì alla finestra, a riflettere sulla strana logica che ci mostravano le Scienze naturali e pensai al fumo che saliva dalle sigarette che accendeva e poi non fumava, simile a quello che saliva dai camini dei dintorni. Perché il fumo aveva un modo proprio di salire, prima si adagiava sui tetti, poi si impennava per cercare le cime degli alberi o le pendici della montagna dove svaniva. Nato dal fuoco chiaro del caminetto o del forno che abbandonava, il fumo se ne andava, portandosi via nell’aria su per il camino il tepore e la pulizia della 335 casa per lasciare il suo odore acre sulle tegole, sugli alberi, sui tralicci dell’elettricità. Soffiava un forte vento. “Vediamo se fa cadere prima le foglie o i nidi” si diceva. Ricordai i mostri di Goienkale e, alla finestra, anch’io ero un mostro. Testimone di quanto accadeva attorno a me, come quel triste uomo dal pene gigantesco o quell’altro che tirava fuori la testa dalla botte per guardare il mondo con fare tra l’ammirato e il burlesco. E più in là, nel quartiere di Kaiondo, Goio sarà stato a casa sua. Presto sarebbe arrivato anche Andres. E la madre avrebbe infilato l’ago per rammendare calzini, pantaloni e magliette bucate. Il maglione di Goio aveva dei buchi su un gomito e la madre doveva cucirgli delle toppe di pelle, Devi voler bene ad Andres, Non gli vorrò mai bene, Devi volergli bene perché sarà il tuo patrigno, come se fosse tuo padre. E gli mostrò una manica, con la toppa di pelle già cucita, ma lui nemmeno la guardò. Goio accese la vecchia radio e non aveva in mente altro che come, come, come... Alla radio si 336 L’amico congelato sentivano interferenze, fischi e rumore di pioggia, la maggior parte erano voci in lingue sconosciute che si sovrapponevano confusamente. Parigi, Praga, Budapest lesse mentre muoveva la sintonia, Ici Radio France Internationale... “Vuoi venire?” mi disse Inazito. “Non voglio uscire.” “Non usciremo dal collegio, andiamo a perlustrare l’interno.” Non fui capace di dire di no. Inazito conosceva bene alcuni angoli proibiti del collegio, soprattutto due, il museo degli animali imbalsamati e la soffitta dei vecchi pianoforti. Così, un pomeriggio, Inazito, Esteban e io percorremmo tutto il lungo corridoio, il pavimento con la cera faceva scriiih scriiih. Inazito apriva con destrezza, cric cric, le porte chiuse. L’esplorazione alla fine ci portò alla stanza di Padre Solana. Sapendo che si trovava nel suo punto di osservazione, entrammo tranquillamente 337 come si entra in una postazione non vigilata. Appena accesa la lampada da tavolo, la sagoma della statua di legno che c’era sulla scrivania iniziò a cambiare espressione. “Inazito, andiamocene, ci scoprirà.” “Guarda questa polvere.” “E questa è la brillantina che usa per lisciarsi i capelli, e con questa polvere si schiarisce la pelle...” Inazito saltò sul letto e, infilata la mano sotto il materasso, come se fosse in camera sua, estrasse una grossa rivista. “Guardate queste, delle sante!” disse indicando le immagini. La rivista si chiamava Playboy e dalla copertina ci sorrideva una donna bionda con delle grandi tette. “Andiamo, Inazito!” “Con questa rivista, tengo per le palle quel prete!” disse Inazito, tranquillamente steso sul letto a sfogliare, con lunghe pause, pagine piene di incredibili donne nude, bionde e con seni prosperosi.. 338 L’amico congelato In quel momento si sentì un rumore. Esteban avvisò: “Arriva qualcuno!” Tum tum tum si sentì rumore di passi provenire dal corridoio buio come nei film di paura. “Padre Solana!” disse Inazito muovendosi, adesso sì, a tutta velocità. Percorremmo di corsa come pazzi i corridoi e arrivammo in camerata senza fiato. Ci infilammo a letto e rimanemmo immobili. Dopo una mezz’ora, mi avvicinai al letto di Inazito e gli dissi a bassa voce: “Non è venuto.” “Meno male!” “Peccato non aver preso la rivista!” “L’ho lasciata sul letto!” disse Inazito. “Sopra il letto? Allora sa che siamo stati nella sua stanza.” “No, no, credo di averla lasciata sotto il letto” disse Inazito. “La leggeremo la prossima volta” dissi con complicità. Allora, allungò la mano sotto il letto accanto 339 e prese una rivista. “Se vuoi leggerla, eccola qua, come ti avevo detto, sotto il letto...” E lì avevamo la rivista Playboy. “Gliel’hai rubata!” “Ma va! Lui avrebbe commesso peccati ben più gravi del nostro furto, di notte, con questa rivista. 340 L’amico congelato 17 L’AMICO CONGELATO Sospeso. Quando mi sono svegliata, all’alba, mi è sembrato che l’orologio fosse sospeso in aria. I vecchi ingranaggi continuano con il loro incessante tic tac tic tac, antico, molto antico, dello stesso genere di quello spiacevole tic tac che ci ordinava di alzarci per andare a scuola. Quando mi rendo conto delle lenzuola bianche, le pareti bianche, il letto bianco, sento l’inquietudine e il disorientamento di chi si sveglia in un luogo insolito. Un’infermiera entra senza bussare. “Mi scusi, Maribel” l’infermiera mi conosce, “non sapevo che qui ci fosse qualcuno.” “Sono arrivata a mezzanotte, e Goio come sta?” “Migliora.” Mi alzo per andare a vedere del Rosso, cammino lungo la Galleria dei Passi Smarriti, scriiih 341 scriiih scriiih, finché incontro Imanol Urioste. “Com’è andato il viaggio?” mi dice in basco, dandomi un bacio. “Bene, e Goio?” “Meglio, credo che abbia iniziato a rompere le corde” dice Imanol. Aggiunge che ha iniziato a parlare, che sta recuperando la memoria, che fa alcune cose e quindi potrebbe anche immaginare e pensare. “Perdere la capacità di dimenticare,” dice Imanol, “è più grave che perdere la facoltà di ricordare... Ti ricordi Jario Jaramillo?” “Sì” rispondo e ricordo Jairo Jaramillo, il paziente che soffriva di anamnesia e non riconosceva i visi e, quando guardava un volto, sveniva. “Ecco, ieri l’abbiamo dimesso” dice Imanol. “Nell’andarsene mi ha detto che ricordava migliaia di porte che si chiudono rumorosamente.” Anch’io mi sono ricordata di porte chiuse all’improvviso o con più rumore di quanto pensassi. “Goio adesso è in terapia” dice Imanol. “Poi ci riuniremo con lui.” Saluto Imanol e, mentre il 342 L’amico congelato Rosso continua con la terapia, vado a far colazione. Mi siedo a un tavolo dove ci sono un paziente con la sua anziana madre. Hanno del caffè e guayabas per colazione. “Caffè, figliolo?” gli dice la madre. “Sì, senza zucchero” le risponde il paziente che è un uomo robusto. Sul tavolo la zuccheriera, con una fila di formiche. Le guayabas sono rosse dentro, proprio come piacciono a me. “Il caffè è già zuccherato, figliolo, una volta messo lo zucchero non si può togliere.” Il figliolo è un omone di una cinquantina d’anni. Si alza e inizia a passeggiare avanti e indietro per la sala. “Non puoi star fermo? Calmati, figliolo, oggi stesso ti porterà le lettere...” “È un mese che non viene quel figlio di puttana del postino.” “Sarebbe venuto, se ci avessero mandato qualcosa.” “Cosa vuoi dire, che non ci hanno mandato niente?” 343 “Si sono dimenticati di noi. Ognuno ha la sua vita, i suoi problemi, le sue preoccupazioni.” “No, no e no!” dice l’omaccione, e sembra un bambino arrabbiato. “Fuori nevica, ecco cosa succede!” dice la madre. “Per questo il postino non è venuto!” Guardo fuori stupita mentre sento i semi di guayaba tra i denti, e vedo un afoso giorno soleggiato. L’omaccione cammina avanti e indietro: “E così nevica!” dice avvicinandosi alla finestra e, quando la apre, entra una calda luminosità. “Le strade, le sedie, i piedistalli sono coperti” dice l’omone. “La neve copre i piedi delle statue.” “Per questo non viene.” “Per questo.” “Ma la prossima volta ti porterà qualcosa.” Lascio la sala da pranzo e, per raggiungere il giardino, devo percorrere di nuovo il lungo e solitario corridoio della Galleria dei Passi Smarriti. E lì trovo il Rosso, in piedi nella sua solitudine, ed è doloroso trovare un amico nel 344 L’amico congelato giardino di una clinica, ma per lo meno è in piedi, come gli alberi quando stanno crescendo, come quando una persona inizia a camminare. Le sedie e i letti sono legati alla stanchezza, al sonno, alla malattia e alla morte, anche se a letto si può far l’amore. Per lo meno è in piedi. “Hai iniziato a parlare? Immobile e in silenzio, sembra una statua di ghiaccio con la testa di fuoco. Quando alza il viso, nei suoi occhi vedo le colline che bruciano sotto il sole. “Mi hanno detto che hai iniziato a parlare!” ripeto. “Come stai, Goio?” Dice qualcosa ma sono suoni incomprensibili. Inizia a ripetere l’ultima sillaba dell’ultima parola sentita: “Oio...” “Come va...” dico. E forse inizierà a cercare una parola ma sarà un frammento privo di senso, spezzettata come i cubetti di ghiaccio che cadono nel bicchiere di plastica dalla macchina della Coca Cola. “Non hai voglia di parlare?” 345 “Parlare...” dice lui, come farebbe un bambino perso nel buio. “Dove siamo?” Di che colore sono le sue parole? Di un colore indefinito, sterile, simile ai residui che lascia l’acqua del fiume. Poi Goio resta lì, come un animale che ha trovato secco, il ruscello dove era solito bere. Sono andata a cercare Imanol Urioste e l’ho trovato nel suo studio che guarda la televisione: i giochi olimpici, un atleta che mostra la medaglia d’oro. E la bandiera si sta alzando sull’asta, in mezzo ad altre due bandiere, si sente un unico inno che ha qualcosa della marcia militare e sullo schermo si legge Sydney 2000, in sovrimpressione sul viso dell’atleta commosso che si asciuga le lacrime. “Come va ?”chiedo sedendomi vicino a lui. “Muscolatura, denaro, nazionalismo, record, pubblicità, fama, pastiglie, come spettacolo è di infima categoria...” L’atleta campione ha alzato le braccia con 346 L’amico congelato orgoglio, sotto gli anelli olimpici e, tirando fuori il petto, taglia il traguardo. “Lì ci sono i migliori corpi del mondo” dice Imanol sorseggiando del gin. “Paragonati ai corpi degli atleti, nella distribuzione generale a noi sono toccati solo gli avanzi. Però è stata inventata anche la vendetta...” E si vede di nuovo la medaglia d’oro dell’atleta, e la bandiera si alza un’altra volta sull’asta, in mezzo ad altre due, un po’ più alta delle altre due e di nuovo il viso emozionato e le lacrime dell’atleta. “Che vendetta?” gli chiedo. “Quel poveraccio ha passato otto anni a fare ginnastica, sacrificandosi, preparandosi per esibire adesso il suo corpo perfetto. Guardalo, è vero che è perfetto, paragonato a noi, che siamo fatti male...” Mentre mostra la medaglia d’oro, in sovrimpressione appare la torcia olimpica, fumante, e centinaia di colombe in volo. “Sono venuta a parlare di Goio” dico io. “Guardalo adesso, sudato, sfinito, spaventato, distrutto, con lo sguardo perso...” 347 “Di chi stai parlando?” dico. Nelle immagini che si ripetono, l’atleta taglia il traguardo portando avanti il petto con un ultimo sforzo. E Imanol inizia a ridere: “Invece, noi che siamo fatti male siamo qui, tranquilli e beati!” Quando faccio per andarmene, Imanol mi presta attenzione: “Se vuoi, ti faccio vedere la cartella clinica di Goio.” Torno in camera e, quando inizio a leggere la cartella clinica, dall’altoparlante sento chiamare il mio nome con una voce da aeroporto: “Maribel Lima, per favore, c’è una chiamata per lei in portineria.” È Arantxa. Vuole sapere quando penso di tornate al baserri, l’ha chiamato proprio così, casolare. “Anche Maialen vuole conoscerti” mi dice. “Sono arrivata oggi e adesso vorrei leggere la cartella clinica di Goio.” “Quando vuoi” mi dice Arantxa. “Però vieni, 348 L’amico congelato vero, che devi insegnarmi a fare il talo10.” “Cosa?” “Qui abbiamo una talaburdina.” “E che cos’è una talaburdina?” “Come! La pala di ferro che si utilizza per mettere l’impasto a cuocere! Abbiamo comprato farina di mais e anche Maialen vuole assaggiare il talo con il latte.” Arantxa ha detto urune ed esnegaz, come si dice in Bizkaia, talo con latte e mi sono ricordata di quella focaccia schiacciata e rotonda che, quando ero piccola, ogni tanto ci preparava la nonna in inverno. Talo caldo, e ho notato in bocca l’assenza di un sapore. “Ci vuole della labadurea per preparare il talo?” “Cos’è la labadurea?” “Labadurea? Quello che si usa per far lievitare l’impasto.” Non capivo perché Josu il lievito lo chiama legamia o bentzagia. Ho imparato a Managua che, per fare il pane, ci vuole il lievito. L’unica cosa che 10 Pane di farina di mais, rotondo e schiacciato, cotto sul fuoco. [N.d.T.] 349 sapevo del pane era andare a comprarlo, pane normale o pane bianco, filone o ciabatta, e pagare. “Verrò, ma non credere che io abbia mai fatto il talo.” “Ahi, che pigra!” mi dice Arantxa ridendo. La prima parte della cartella clinica di Goio è quasi vuota. Mancano anche molti dati generali: il nome, solo Juan, l’età, 42 anni; da lì in poi, sono in bianco gli spazi relativi a professione, indirizzo, amici, altre attività oltre a quella lavorativa. La sezione successiva si riferisce all’infanzia, dove pare che vada indicata soprattutto la patologia del padre, ma anche questo è in bianco. I nomi delle altre sezioni: dominio e passività, studi, adolescenza, sessualità, lavoro, motivazioni, profilo psicologico, correlazioni cronologiche tra la biografia e la patologia... La seconda parte della cartella clinica è composta dagli appunti quotidiani. Si tratta di impressioni scollegate scritte da Imanol, con penne di diversi colori, ognuna con una data diversa. Sono scritte in basco: oggi ha fatto questo, o ha detto quest’altro, o ha ricordato la tal cosa. La maggior 350 L’amico congelato parte delle note sono di questo tipo: Ha trascorso la mattina seduto in giardino, tutto solo. bbk. Ma ci sono anche osservazioni originali, per esempio: “Rimanere in silenzio è un comportamento umano legittimo e molto logico” frase che mi sembra perfetta da pronunciare ad alta voce. Le lettere bbk si ripetono diverse volte. La maggior parte delle note sono state scritte da Imanol, penso. Scendo dal Rosso, nelle ore diafane e lente, lunghe e vuote dell’ospedale. Sto seduta su una sedia o cammino avanti e indietro lungo la Galleria dei Passi Smarriti o sui sentieri di pietra di questo giardino che sembra francese. Arriva l’infermiera con un pacco di lettere. “Dammi la mia!” si avvicina l’omaccione. “Cosa vuoi che ti dia? Aspetta!” Inizia a leggere i nomi. L’infermiera, fatto il nome, allunga le lettere alle mani impazienti dei 351 degenti. Il pacco si va assottigliando. E finisce. Chi non ha ricevuto niente se ne va indifferente, sputando per terra, asciugandosi il sudore dalla fronte con il palmo della mano. “Non c’è niente per me!” dice l’omaccione, facendo con il dito la lettera d dell’alfabeto muto. “E cosa doveva arrivare?” gli dice uno. Al pomeriggio vado in camera e appoggio la testa sul cuscino dei sogni. Sono sola in una stanza con dodici letti, e nell’oscurità ho l’impressione che le bianche pareti si potrebbero muovere come si muovono le bianche lenzuola. Guardo i muri e sembra che vogliano insegnarmi lingue dimenticate e filosofie morte. Qui saranno rimaste intrappolate grida disperate assieme alle eco di impacciate dichiarazioni d’amore, ormai incomprensibili come antichi disegni sulla parete. E guardo la parete alla ricerca di un simbolo, in cerca di un’uscita, pensando che, nel punto esatto in cui adesso si è posata una zanzara, si aprirà il tunnel spazio-temporale. 352 L’amico congelato Al mattino sento la porta aprirsi e, alla luce della luna che filtra dalle alte finestre, vedo entrare nella mia stanza un uomo nudo. Pelato, grasso, sembra un fantasma e, quando si avvicina alla finestra, la luna conferisce sfumature azzurre, rossicce e violacee al suo corpo invecchiato e pesante. Sembra il modello del quadro che Armando ha sulla parete della casa di Managua. In una nota avevo letto che il modello aveva la meningite, la polmonite e l’AIDS, a cui Armando aggiungeva la Nudità imponente. Resto a guardarlo spaventata, le ombre sul suo grosso corpo, la camminata stanca, l’oscuro dondolare del suo sesso, il profondo abbattimento che rivelano i suoi gesti. Rimane due o tre minuti a guardare dalla finestra, poi si gira e lentamente se ne va, chiudendo la porta con attenzione, facendo rumore di zoccoli di bue lungo la Galleria dei Passi Smarriti. E poi niente, solo un mormorio: l’acqua che cerca un’uscita nel rubinetto, come se scendesse lungo una gola dalla sete inesauribile; o come l’elettricità che vuole fuggire dai cavi o un rumoroso fuco alla ricerca della luce. 353 E resto sveglia finché i galli iniziano a cantare. “Ieri ho letto la storia clinica di Goio” dico a Imanol. “E?” “Mi piacerebbe sapere cosa gli succede. L’ho letta e riletta fino a farmi dolere gli occhi e quella storia clinica è un romanzo.” “E tu come stai?” “Non dormo ma, per il resto, bene.” Imanol mi dà qualche consiglio, è evidentemente ubriaco, sebbene io non riesca a vedere la bottiglia di gin. “Non devi dormire il pomeriggio, non devi bere caffè dopo pranzo, niente cioccolato, né tè nero o Coca Cola, non fare attività fisica prima di andare a dormire, alzati e vai a letto tutti i giorni alla stessa ora.” “L’ultimo mi sembra il consiglio più sensato” gli dico. “Vorrei sapere cos’è successo a Goio. Dovrebbe spiegarlo uno psicologo, no?” 354 L’amico congelato “Non credo che questo sia il compito di uno psicologo, non può spiegarti quello che non capisce” dice Imanol, mentre prende la cartella clinica e la ripone nell’archivio. “Cosa vuoi, che faccia finta di capire quello che non capisco? Solo i ciarlatani e gli idioti capiscono tutto.” Fa qualche passo da ubriaco di qua e di là. Ritorna, si ferma barcollando davanti a me e dice: “O forse vuoi dare un nome alla malattia, pensando che con un nome controllerai meglio gli eventi?” Rimane un attimo ad aspettare la mia risposta prima di rispondersi lui stesso: “Allora immaginati che l’uomo si sia congelato, non nell’inverno della cima del Gorbeia e nemmeno sugli scogli dell’Antartico, ma proprio qui, in questo angolo dei Caraibi...” “E che cos’è il bbk?” “Bihotz Bakartien Kluba, il Club dei Cuori Solitari” mi risponde. “È una sigla di riferimento, scusa, le note di solito le leggiamo solo noi... “E così si tratta del Club dei Cuori Solitari...” dico io sorridendo. 355 “Ma non ci appartiene solo Goio” e Imanol mi guarda con espressione dolce. “Anch’io sono socio di questo club. Tu no?” Accende il televisore e, Sydney 2000, resta a guardare i giochi olimpici. Ho ricordato una per una le parole scelte da lui: muscolatura, denaro, nazionalismo, record, pubblicità, fama, pastiglie, spettacolo. “Maribel, temo che tu mi consideri un alcolizzato senza giudizio” dice, quando in tv interrompono le immagini sportive e inizia a cantare Shakira. Prende un libro dalla scrivania e me lo porge: “Ecco, dovresti sapere che l’alcool è molto spirituale. Anch’esso evapora, come le credenze e i pensieri e si deve bere il più rapidamente possibile in modo che non svanisca...” In tv appaiono immagini di spiagge. Su quella di Rio de Janeiro presentano le scultore di ghiaccio di Nelson Oliveira. Pare che faccia sculture solo di ghiaccio, per esempio A garota de Ipanema, e le opere vengono esposte sulla spiaggia. 356 L’amico congelato “Non è un peccato che l’opera vada persa?” chiede il presentatore, accanto alla scultura che si sta sciogliendo sotto il sole. Nella clinica è ricoverata un’altra persona che parla basco ed è uno degli ospiti più anziani. Sta sempre seduto davanti a una scacchiera ma senza scacchi. “Lei è basco?” gli chiedo in euskara. “Manuel Loidi” mi risponde, alzando due occhi grigi che sono due pozzi gemelli. Sembra abbia più di cent’anni e passa il tempo seduto davanti alla scacchiera. Mi avvicino e vedo una formica che si muove sulla scacchiera e lui che, ogni tanto, mette il suo vecchio dito davanti alla formica, come se fosse un bastoncino. “Come va?” gli chiedo. Questo vecchio sembra un’immagine da dagherrotipo. “Non ha famiglia?” gli chiedo. “Non ho nemmeno un’ombra al mio fianco.” Conosco questi occhi? Dove ho già visto 357 questi occhi vecchi come due pozzi? “È qui da molto tempo?” “Abbastanza. Qui nessuno sa che anche noi un giorno siamo stati bambini...” “Cosa fa?” “Con i miei reumatismi” dice con una voce senza denti, “prevedo il tempo che farà, come i meteorologi.” “Ma cosa ci fa qui, con la scacchiera e quella formica?” “Il re, la regina, le torri, gli alfieri, i cavalli e i pedoni sono andati persi. Adesso abbiamo solo una scacchiera di sessantaquattro caselle. E guarda questa formica, la vedi? Si sposta in continuazione e quando cammina sulla casella bianca pensa che sia giorno e quando passa a quella nera crede che sia scesa la notte...” Oggi ho passeggiato con il Rosso per il giardino e nei dintorni della residenza. Un Rosso pallido, apatico, con lo sguardo basso, che osserva il sole che diventa cenere sulla terra secca. 358 L’amico congelato C’è un uccello in giardino che canta in modo diverso a seconda dell’albero su cui si posa, quando cambia d’albero il suo cinguettio varia. Ci sono delle formiche, risalgono il tronco dell’albero in fila indiana fino al cuore dei frutti. “Come ti senti?” Ogni tanto rumore di macchine, rare. Il profumo delle bouganvillee e il movimento dei dantzalore, invece, è inarrestabile in un’atmosfera che sembra eterna. “Ti trovo meglio”, gli dico, ed è la verità. Alcuni cactus e, erette sui loro piedistalli, le malinconiche statue di marmo, bianche ma scurite da un muschio sottile. Poi siamo andati fino alla riva del fiume. Un’anziana donna ci avvisa: “Fate attenzione lì! Attorno a quell’albero si aggira la Gritona.”11 La Gritona. La chiamano così e immagino i suoi capelli simili a foglie perenni e le unghie come quelle del cane da guardia di una regina. “Ai tempi della violenza ci furono diversi 11 Personaggio popolare della cultura latinoamericana, usato per spaventare i bambini. [N.d.T.] 359 omicidi in questa zona e lì, sotto quell’albero, ammazzarono una donna incinta aprendole il ventre con la baionetta. lanciava urla spaventose e le sue grida rimasero aggrovigliate e legate nell’aria e per questo tutte le sere si possono riascoltare.” “Le vuoi sentire?” ho chiesto a Goio. “No” mi ha risposto con un sorriso. E siamo tornati subito alla clinica. “Cos’è successo ai tuoi ricordi?” gli ho chiesto. Ci siamo seduti, si è passato una mano sulla fronte, come se volesse cacciare un pensiero e, raccolta tutta la retorica del suo sacco di parole, mi ha detto: “Mi guardo le mani, le strofino una contro l’altra per sapere che sono entrambe mie...” E i nostri visi sono tesi, come le nostre mani. “Poi mi porto le mani al viso,” dice Goio, “sul mio viso, e non sono le mie mani...” 360 L’amico congelato “Come ti trovi?” mi chiede una ragazza. “Cosa?” “Se ti trovi bene qui?” È giovane, indossa abiti neri e ha dei lunghi capelli corvini. “Io? Perché?” “Tu non sei di qui” mi ha detto, “ti muovi come se fossi fuori luogo, sembri un soprammobile...” “Non esageriamo” le ho risposto ridendo. “Che donna dura!” Subito dopo ha una crisi di epilessia. Inizia a tremare e a buttar per terra tutto ciò che trova attorno a sé. Alla fine rimane immobile, un rivolo di saliva secca le esce dalla bocca come cotone, stesa a terra a faccia in giù, come una manta. L’abbiamo portata in infermeria su una barella e le sue parole sono rimaste come un’eco nella mia mente, “ti muovi come se fossi fuori luogo, sembri un soprammobile”. È vero che il nostro passato deve essere opaco per le persone che ci circondano, come lo è per noi stessi, ma io non conosco questa ragazza 361 e lei, invece, mi conosce abbastanza da capire che mi muovo come se fossi un soprammobile. Sono stanca e sto guardando la televisione. Il presentatore parla della breve vita delle libellule, nelle immagini al rallentatore si vede una libellula in volo che occupa tutto lo schermo: “Una vita da fiammifero, una morte da fiammifero...” dice il presentatore. Il giorno prima ho tracciato nella mia mente un percorso immaginario e oggi sono andata in città, sola, anch’io come un membro del bbk club. Ho passeggiato per le strade di Barranquilla e ho visto negozi, ristoranti, agenzie di viaggio, pasticcerie, negozi di scarpe, ho bevuto un caffè. Mi sono fermata davanti ai chioschi colorati per leggere annunci di alimenti afrodisiaci. Proseguo sul mio percorso immaginario ma è impossibile perché la linea finisce, perché la linea mi conduce a luoghi intransitabili, perché la linea si divide in due. Mi perdo nella moltitudine di un milione 362 L’amico congelato di abitanti, sapendo o credendo che nessuno mi conosce. Quando vedo le coppie che si baciano provo una certa invidia. I miei piedi sono due cani randagi che deambulano per la città senza sapere dove andare. E al tramonto ritorno. “Quando si fa buio, la gente viene uccisa per strada” mi hanno avvisata. “Non è un falso allarme” mi ha detto un altro. Sulla strada che mi porta da Barranquilla alla clinica, avverto degli sguardi strani. Sotto il cartello della United Fruit Company c’è una macchina, appena il mio taxi la oltrepassa, parte e ci segue spudoratamente. Arrivo inquieta, pensando che probabilmente si tratta di un sospetto infondato, perché, in un angolo del nostro cuore, portiamo sempre con noi un piccolo poliziotto spagnolo grande come una mosca. E, a volte, questo presentimento assume un moto browniano, di qua, di là, dritto, improvvisamente gira, ritorna, va su e giù, come l’incessante movimento senza senso di una mosca. 363 Quando entro dal cancello di ferro, vedo la figlia di Arantxa su in alto, che gioca con un grande pallone colorato. L’ho riconosciuta perché ha gridato in basco “La palla!” quando il pallone colorato ha iniziato a scendere pamp pump pamp giù per la collina. Le statue grecolatine non scendono dai loro piedistalli per fermarlo. La palla finisce nelle mie mani. La bambina scende correndo dalla collina. “Tu devi essere Maialen!” le dico dandole la palla. “Sì” mi risponde e, presa la palla, scappa correndo verso la macchina verde parcheggiata poco più in là. La bambina sale in macchina sul sedile posteriore e i vetri scuri non permettono di vedere all’interno, ma al volante c’è il comandante. Il comandante dai baffi neri che sembrano un corvo. 364 L’amico congelato 18 REPUBBLICA BIANCA Sarà lunga e viscida. “Ho sognato che stavo sognando” ti dirà più tardi Edna. Chi sogna che sta sognando si sveglia subito, scrisse Giulio Verne, anzi, Giulio Verne scrisse che l’aveva scritto Edgar Allan Poe. Tuttavia Edna si consumerà a lungo nei sogni, senza riuscire a svegliarsi. “Cosa sognavi?” le chiederai dal letto superiore del castello. E ti racconterà un sogno: “Sono arrivata in una città che non conoscevo.” “Che città?” “Non lo so, forse non era nemmeno una città reale...” “E sei arrivata sola?” 365 “Sola soletta.” “Come si chiama questa città?” “Non lo so.” “Ma non ci viveva nessuno in quella città?” “Sì, ma c’era una strana atmosfera per iniziare a fare domande.” “Così non hai chiesto niente?” “No.” “E cosa hai fatto in città?” “Sono andata alla ricerca di una piantina o di una cartina ma, siccome non avevo una cartina per sapere dove trovare una piantina mi risultava impossibile. Allora mi sono resa conto che stavo sognando ma, quando mi sono svegliata, ho capito che ero dentro un altro sogno. E allora mi sono svegliata...” Chiedile se stavolta è sicura di aver toccato terra. Non glielo dirai. Salirai in coperta. L’imbarcazione avanzerà pal pal sempre dritta. Avrai l’impressione che tutto quello che galleggia lo fa perché è contro natura. Pezzi di sughero, bottiglie vuote, scialuppe, perché ciò che è naturale 366 L’amico congelato va a fondo. Quel giorno vedrai l’isola degli Ona. Lì ci sarà ancora lo scheletro rinsecchito di ciò che sarebbe potuto essere una città, il molo puntellato, costruzioni di pietra e di ferro diroccate, vagoni merci rovesciati... Ti racconterà la storia degli Ona, iniziando dall’epoca in cui indossavano solo un pezzo di pelle di guanaco. Scoprirono il fuoco e gli bastava coprirsi il corpo con grasso di foca. Così protetti, non avevano bisogno di indumenti e, sebbene fossero nudi, non sapevano cosa fossero il raffreddore, la tosse o l’influenza. Allora arrivarono gli scopritori che stavano ampliando il mondo, e i religiosi, gli scienziati, i militari e i colonizzatori. I missionari anglicani giunsero su questa costa australe con l’intenzione di fare qualcosa per gli indigeni e li concentrarono tutti su quest’isola. Se, fino ad allora, gli ona avevano lavorato per piacere o per necessità biologica, da quel momento in poi dovettero farlo 367 obbligatoriamente e con la forza, nell’industria del carbone a loro sconosciuta. Erano abituati a dormire nudi vicino al fuoco ma i missionari anglicani gli portarono letti e coperte. E fu così che iniziarono ad ammalarsi. Quando li obbligarono a vestirsi, la loro salute iniziò a peggiorare, ma il vero disastro arrivò con il sapone. Ai missionari anglicani non piaceva l’odore degli Ona e benché nemmeno agli Ona piacesse quello dei missionari, questi ultimi li obbligarono a usare il sapone per strofinarsi e lavarsi il corpo. Con il sapone persero la protezione del grasso di foca e iniziarono a morire. Gli Ona non avevano conosciuto fino a quel momento il virus del raffreddore portato dai bianchi, i batteri della polmonite, la sifilide. Senza cure per tutto questo, iniziarono a tirare le cuoia uno dopo l’altro. La rivoluzione industriale sull’isola degli Ona fu breve perché, una volta morti i lavoratori, i padroni se ne andarono. E perché, alla fine, se ne andarono anche i missionari anglicani. E, passato il tempo, troverete una chiesa distrutta costruita con 368 L’amico congelato pietra di antracite, le miniere di carbone, i vagoni rovesciati sui binari abbandonati, gli scheletri di ferro, il vecchio molo. Un mattino avrete anche una sorpresa. Quando, avvisato da Edna, salirai in coperta, vedrete una nave da guerra che vi aspetta. Non molto grande, ma il cannone a prua vi spaventerà. “Sono cileni” dirà John. Pensando che ispezioneranno la barca, il nostromo darà l’ordine di spegnere i motori. Rimarrete ad aspettare: “Hanno problemi di acque territoriali...”dirà Axel. Farà freddo e il cielo sarà limpido. Migliaia di uccelli bianchi volteggeranno sopra le vostre imbarcazioni e ti sembreranno ancora più bianchi alla luce obliqua del sole. La bandiera del Cile ondeggerà al vento sull’albero maestro. I militari cileni, una volta fatta esibizione della loro bandiera, se ne andranno. Anche voi riaccenderete i motori e 369 proseguirete il vostro viaggio sulle acque piatte del mare. L’acqua sarà color indaco, come quello che utilizzava tua madre per sbiancare i panni. Ogni tanto, qualche gabbiano scenderà in picchiata, con le ali raccolte, come fosse una zavorra persa, per poi rialzarsi di nuovo in volo, a volte con un piccolo pesce, altre con il becco vuoto. Di notte, il vento di libeccio inizierà a soffiare con forza e porterà una bufera di neve. “È il benvenuto dell’Antartide”, così dirà, dalla sua sedia a rotelle, un Edwin più pallido che mai. Il mare si infurierà. Le onde inizieranno a sommergere l’imbarcazione, l’acqua invaderà paurosamente il ponte annegando tutto ciò trova. Il giorno successivo, invece, salirai in coperta e il mare sarà un regno in quiete. Temperatura di zero gradi, tempo freddo e limpido. Il giorno dopo, si vedranno due cime di ghiaccio su una mare molto scuro, i primi due iceberg. 370 L’amico congelato “Le prime sentinelle della Repubblica bianca...” dirà qualcuno. Non saranno gli unici. Presto inizieranno ad apparirne altri all’orizzonte, con uno spaventoso realismo, la testa alta e maestosa nel loro lento viaggio. E osservare con i tuoi occhi quello che tante volte avevi visto in fotografia, al cinema o in televisione, ti sembrerà onirico, quasi irreale. Axel farà i calcoli con il sestante, come si calcola la declinazione del sole: si innalzano di venti metri sulla superficie dell’acqua. “La parte nascosta dell’iceberg, cioè la parte che rimane sott’acqua, è l’altezza che vediamo moltiplicata per nove.” Per non urtare con quello che vi si avvicina, dovrete girare il timone, ma non di molto, siete di fronte all’architettura più sorprendente e allo stesso tempo più priva di valore. Ancora sulla via dell’Antartide, guardando quelle montagne di ghiaccio, ti pervaderà la sensazione di essere già arrivato. Qualcuno spiegherà che sono pezzi staccatisi dalla banchisa dell’Antartide, che 371 possono essere enormi e che si spostano alla deriva spinti dalle correnti marine più che dai venti. Il tempo sarà bello e lo spettacolo meraviglioso. L’Antartide sorriderà e, sotto un cielo azzurro terso, sulle bianche cime di ghiaccio i raggi del sole mostreranno i colori dell’arcobaleno. Nel tramonto senza fine dal cielo scenderanno sorprendenti tende di luce. “Com’è il mare?” chiederà Edwin. “Meraviglioso.” Assieme a un’incredibile bellezza, questo paesaggio e una luce perenne anche di notte, daranno vita a un ambiente fantasmagorico. Succederà all’alba. “Uomo in mare!” si sentirà gridare. “Uomo in mare!” ripeterà qualcuno ancora più alto. Guarderai il letto sotto il tuo e, vedendo che è vuoto, ti alzerai e uscirai correndo. “L’ho visto cadere” ti dirà il timoniere che guarda l’acqua da poppa, “ma non ho potuto far 372 L’amico congelato niente.” Edna arriverà nervosa e con il foulard sulla bocca, andrà da dritta fino a poppa e da babordo a prua, facendo tutto il giro dell’imbarcazione e poi ripeterà il percorso al contrario. “Ha dato la sua vita all’acqua” dirà il timoniere. Il nostromo darà ordine di fermare le macchine e di tornare indietro. L’acqua sarà silenziosa e scura come inchiostro pesante. “Ho parlato con lui” racconterà il timoniere. “Gli ho detto che faceva freddo e lui mi ha risposto No, non fa molto freddo. Ho visto che stava armeggiando con una delle ancore ausiliari, ma non ho dato importanza alla cosa, non mi sono accorto che stava togliendo la catena. Poi l’ho visto sul ponte laterale, che cercava di sollevare l’ancora. Quando mi sono reso conto che aveva una corda legata alla vita, sono corso verso di lui ma è riuscito a lanciare l’ancora ed è caduto in mare trascinato dal peso...” Anche gli scienziati si riuniranno in coperta per verificare la debolezza della scienza di fronte 373 alla morte. “Sono acque profonde, sicuramente sta ancora andando a fondo...” dirà Axel. Le facce saranno serie ma sul viso di Edna sarà visibile solo il dolore, anzi, la paura. “Cosa facciamo?” chiederà qualcuno. “Cosa vuoi fare, bere qualcosa e...” dirà il nostromo. “Poi proseguiremo il viaggio.” Tutt’attorno, l’acqua sarà una lastra grande e scura. Let´s have a wake dirà Bobbi. “Cosa significa wake?” gli chiederai. “Riunirci tutti e” dirà il cuoco, “restare fino a domani mattina a parlare del morto, a divertirci, a raccontare storie e a ridere.” Scenderai in cabina con Edna. Prenderai le medicine, il Brompton e le pomate e le riporrai nell’armadio. “Senti cos’ha sottolineato nel libro” ti dirà Edna. Leggerà un passo di Heart of Darkness di Joseph Conrad: 374 L’amico congelato “Ho lottato con la morte. È il combattimento meno eccitante che si possa immaginare. Si svolge in un grigiore impalpabile, con niente sotto i piedi, niente attorno, senza testimoni, senza clamore, senza gloria, senza il gran desiderio di vincere, senza il gran timore della sconfitta, in un’insalubre atmosfera di tiepido scetticismo, senza una ferma convinzione nel proprio diritto e meno ancora in quello dell’avversario. Se è questa la forma suprema della saggezza, allora la vita è un enigma più grande di quanto alcuni di noi pensano che sia.” La festa che deve durare fino al mattino inizierà già nel pomeriggio quando, tutti riuniti sul ponte, il nostromo ci farà un discorso. Soffierà un vento freddo. “Non so cosa sia la morte” dirà il nostromo nella sua preghiera scientifica. “Ma so che non siamo sempre stati il corpo che siamo adesso. Siamo formati da particelle che hanno vagato a lungo e da cellule che si uniscono in noi. Con la morte, gli elementi di cui siamo costituiti scioglieranno i 375 loro legami e torneranno all’oceano dell’esistenza. Si dissolverà l’essere umano che siamo stati e i nostri frammenti si integreranno di nuovo, ognuno a modo suo, nella massa dell’esistente. Non è vero che quando finisce la vita di un essere umano inizia la morte, quando la vita finisce, ha fine anche la morte...” “Affabulatore”! Dirai sottovoce, per la capacità oratoria e le conoscenze che dimostra. “Adesso, cinque minuti di silenzio!” ordinerà il nostromo. E quel silenzio verrà spezzato solo dall’indifferenza del mare e dal verso grae grae di alcuni uccelli bianchi. Poi tin-tin, la gente in coperta comincerà ad alzare il bicchiere e a parlare. Absolut Vodka, un sorso dopo l’altro, e le discussioni accademiche si mischieranno a storie divertenti, il tono delle voci si farà più alto, risate per qualsiasi battuta e, absolut sadist, gli occhi annebbiati. Edna guarderà il mare con occhi di vetro e l’acqua sarà di uralite. A te si annebbierà subito la vista, sarai così 376 L’amico congelato ubriaco da iniziare a parlare in basco: “Bere izenean eta gure gizenean,12” sussurrerai, così come la lingua antica e lontana ti riporterà alla mente. John Masefield, ormai sbronzo, ti dirà che vuole raccontarti una barzelletta macabra: “Me l’ha raccontata Edwin, quando eravamo a Chiloé, un monaco buddista l’aveva raccontata a Billy Burroughs” ti dirà barcollando. “Billy Burroughs la raccontò ad Allan Ginsberg, e Allan Ginsberg a Edwin. Questo Billy Burroughs non è il famoso William Burroughs, ma suo figlio. Billy Burroughs non godeva di buona salute e i medici gli avevano consigliato un difficile intervento. Pare che si fosse recato da un monaco buddista a chiedere consiglio e pare che il monaco gli avesse detto, Dopo l’operazione sarai vivo o sarai morto, entrambe sono una buona opzione...” Poi andrete in gruppo nella cabina del timoniere. “Allora, ci lasci guidare?” 12 Formula tradizionale per brindare: A lui e alla nostra fortuna! [N.d.T.] 377 E il timoniere ti lascerà il comando dell’imbarcazione. “Attento, Javier, non siamo altro che una banda di disperati!” dirà uno. “Io ero marinaio già da piccolo!” risponderai. Prenderai il timone e gli altri se ne andranno: “Andiamocene da qui, prima che questo tipo ci faccia naufragare!” ll timoniere rimarrà al tuo fianco un momento, come se non si fidasse di te. Ma, alla fine, anche lui se ne andrà e finalmente rimarrai solo, ubriaco, padrone del timone, che era quello che volevi. Thanks God, dirai in inglese, imitando un politicante repubblicano di Deep South, I’m free and he’s an asshole... E nel lontano orizzonte senza nome di questo mare, scorgerai il cammino di casa e là in fondo il pane e il caffelatte, e il silenzio di candeggina delle scale, e il tuo popolo sarà ancora lì e andrà avanti nella sua tenace lotta di resistenza. Il tuo Paese sarà là, come una vecchia barca, staccato dalla terraferma e sforzandosi inutilmente di riprendere la navigazione. 378 L’amico congelato E con lo sguardo cercherai un albero, una donna, un lembo di terraferma ma non vedrai altro che l’acqua di questo mare che, mentre ti lascia aperte tutte le strade, allo stesso tempo ti impedisce di raggiungere terra. E con il sapore di sale sulle labbra inizierai a cantare una melodia che hai imparato da Edwin: For wathever we lose, like a you or a me, it´s always ourselves, we find in the sea… E adesso sei tu la tua dinastia, i tuoi genitori, tu sei i tuoi figli e il ricordo che non ti trova. Sei la mano che fa male e allo stesso tempo la mano che cura, avanti libero e al posto di comando, ice will, ti sentirai il timoniere di un iceberg. La notte sarà breve e buia, tuttavia si vedranno le stelle. Polvere di stelle. “Notte di stelle, mattina di guai” ricorderai il proverbio dei pescatori di Kalaportu, e dirai ad alta voce, “domani fottuto.” 379 Il giorno dopo sarà quello successivo alla vigilia. Ti sveglierai con bruciore di stomaco. Vedrai Edna che si alza dalla cuccetta sotto la tua. “Guarda lì!” sentirai dire dal ponte. A un quarto di miglia dalla prua si potranno vedere due enormi schiene nere che si immergono e riappaiono a intervalli regolari disegnando il mare. Si avvicineranno e diventeranno più grandi e ogni tanto lanceranno in aria spruzzi d’acqua. Una delle due balene sarà molto grande, al suo fianco una più piccola. Forse saranno madre e figlio. Passeranno lentamente a babordo, ogni tanto daranno un rumoroso colpo di coda per immergersi come se non avessero motivo di temere nessuno. Spariranno a poppa nel mare lungo, vasto, profondo. 380 L’amico congelato 19 LA NAVE DI KAIOARRI Al mattino, la maggior parte della gente dormiva e l’alba arrivò troppo puntuale. “Svegliati!” disse la madre a Goio. E Goio si svegliò. Vide i vetri appannati della finestra e decise di continuare a dormire. Pensando al freddo che doveva fare fuori, rimase ancora un po’ al tepore delle coperte e si addormentò di nuovo. Dopo essersi alzato, aver preso l’acqua nel palmo delle mani ed essersi lavato il viso, indossò gli abiti che sua madre gli aveva lasciato sulla sedia, bevve il caffelatte che gli aveva preparato e rimase a guardarla. Poi scesero assieme le scale, lei andava al porto a cucire reti e Goio a scuola. All’angolo di Kaiondo si separarono e Goio continuò a guardare indietro, benché ci fosse la nebbia, seguiva sua madre con lo sguardo e poi 381 lo posò su un gatto, perché all’angolo della strada c’era un gatto morto, schiacciato dalla ruota di un camion, e nessuno si era preso la briga di raccogliere o buttar via quel cadavere lacerato e bagnato, steso pancia in su, le zampe anteriori aperte, come il Cristo sul crocifisso della scuola, le zampe posteriori inerti, allungate come se stesse saltando. Faceva freddo e c’era la nebbia. In quel periodo che precedeva l’inverno, la nebbia arrivava frequentemente, soprattutto dalla terraferma. Quella che scendeva dalla valle si chiamava “nebbia di latte”, si diceva che venisse da Eibar e che fosse il fumo del latte bollito nelle case che arrivava fino al mare, più lento e disperso del fiume che proveniva da quella cittadina industriale. Quando il professore di latino faceva l’appello, invece di rispondere Presente, bisognava dire adsum. “Emilio Mina.” “Adsum!” “Ignacio Michelena.” “Adsum!” 382 L’amico congelato “Antonio Martinez.” “Adsum!” A Padre Mendive piaceva così. A volte, invece di fare latino, dovevamo leggere la vita di qualche santo. Dava il libro a un alunno e ognuno di noi leggeva un passo e poi doveva passare il libro a un altro. A pagina 67, e questo lo sapevamo tutti, c’era una banconota da cento pesetas di cui si vedeva un angolo fuoriuscire dal bordo del libro. Alla fine della lezione verificava a pagina 67, per vedere se avevamo superato la prova della banconota e in questo modo rendevamo felici lui e anche Dio. E poi iniziavamo a salire la difficile scala delle declinazioni, nominativo qui genitivo cuius, dativo cui, accusativo quem, o a scendere verso il basso con i verbi irregolari, volo, nolo, malo, o attraverso le orazioni subordinate da ordinare con la consecutio temporum, scio quid feceris, so cosa hai fatto, sciebam quid fecisses, sapevo cosa avevi fatto, scio quid facias, so cosa stai facendo, sciebam quid faceres, sapevo cosa facevi, scio quid facturus sis, so cosa farai, sciebam quid facturus esses, sapevo cosa avresti fatto. 383 A volte tra di noi scoppiavano le guerre puniche, da una parte i romani e dall’altra i difensori di Cartagine, quando in classe iniziavano le manovre e il fragore bellico, le nostre armi principali erano le cerbottane per lanciare palline di carta e chicchi di riso. Una volta ci diede per compito una frase in latino per la lezione successiva. Io e Goio scegliemmo assieme. Dopo aver letto Catullo, io scelsi questa: Quem basiabis? Cui labella mordebis? Padre Mendive ascoltò e non fece commenti. Sulle sue sante labbra apparve un’espressione di schifo, di allegria e di rabbia, tutto assieme mentre diceva Un altro, un altro, un altro. Allora Goio disse: Mollior cuniculi capillo. E Padre Mendive iniziò di nuovo Un altro, un altro, mentre ci guardava infuriato, prima uno, poi l’altro. “Ci sono molti demoni mascherati da angeli” disse. “Ma io ho un detector di demoni!” Inazito, finita la lezione, chiese a Goio cosa significassero quelle frasi. 384 L’amico congelato Quel giorno a ricreazione non giocammo a pallone in cortile. Quando pioveva andavamo al coperto e giocavamo lì, come se giocassimo a pelota a mano, con il pallone che ormai era bagnato. Iniziavamo in una quarantina, tutti assieme, e chi commetteva un fallo veniva espulso. E Inazito utilizzava sempre, per qualsiasi situazione, le frasi: “Chi hai baciato? A chi hai morso le labbra?” chiedeva a tutti. In altre occasioni rimaneva a pensare e ripeteva come uno stupido: “Più morbido del pelo del coniglio...” Poi entrammo alla lezione di FEN e, siccome non c’era l’insegnante, iniziammo a tirarci pezzi di gesso presi dalla lavagna e la battaglia infuriò. All’inizio i lanci erano abbastanza deboli, poi più forti e alla fine dei tiri da professionisti. Quando Clemente entrò in classe, la guerra ebbe immediatamente fine, lui si diresse corrucciato alla 385 pedana della cattedra da dove poteva osservare la situazione dopo la battaglia. Zumalde, come sempre, fu l’ultimo a sedersi, per via delle sue dimensioni: ad ogni passo schiacciava un pezzo di gesso scrich scrich e non poteva nascondere le grasse dita imbiancate. Clemente López iniziò a illustrare i risultati sociali del regime, ci disse che all’operaio corrispondeva il nome di produttore, che la parola operaio era stata manipolata per ingannare i lavoratori, mentre noi continuavamo con il nostro gioco, lanciando pezzi di gesso o minacciando di farlo, finché l’insegnante, con il viso rosso, quasi paonazzo, alzò il braccio da culturista e picchiò il pungo sulla cattedra, sbam, poi gridò con uno sguardo da domatore da circo: “Qui, chi comanda sono io! Nessun altro ha il diritto di parlare in classe!” Il silenzio fu breve. Inazito mi passò un foglio con la caricatura del professore, in posizione da culturista, mostrando i suoi poderosi muscoli. Alle cinque del pomeriggio, uscendo, io e Goio appendemmo quella caricatura al portone 386 L’amico congelato con una puntina da disegno. A quell’ora la scuola sembrava un drago gigantesco che vomitava i ragazzi ingoiati alle otto del mattino, che uscivano in gregge, urlando come capretti appena liberati dalla bocca del drago. Quel giorno, sulla porta, incontrammo Ariane: “Anch’io vado verso Zubieta” disse Goio. “Allora andiamo assieme” disse Ariane sorridendo e incamminandosi. E Goio la seguì con una gran allegria e assai nervoso. “Cosa te ne pare delle lezioni?” gli chiese la professoressa. “Interessanti” rispose lui balbettando. Continuò in silenzio. Ma poi avrebbe colpito un sasso con la punta della scarpa e calpestato con forza le foglie secche per fare un po’ di rumore. A quei tempi, Ariane occupava già la maggior parte dei pensieri di Goio. Dov’era, quando sarebbe apparsa, dove l’avrebbe incontrata. Era 387 innamorato, ma l’amore non era il sentimento tenero e dolce che si poteva immaginare, gli incontri e le passeggiate con Ariane erano caratterizzati da un pesante silenzio più che dalla melodia dei film francesi di Alain Delon e BB. Da quando erano finite le lezioni private, qualunque scusa era buona per avvicinarsi a Zubieta. Da scuola a casa, aveva una buona ragione per passare da lì, ma anche la sera, quando usciva di casa, si incamminava verso Zubieta e passava sotto il balcone dell’appartamento di Ariane senza avere il coraggio di chiamare. Ariane sarà stata dentro, a leggere un libro o ad ascoltare musica e Goio si sarebbe seduto in un qualunque angolo a guardare quella casa, un étrange pays dans notre pays lui-même, nel silenzio del suo idillio. Un pomeriggio, seduto in un angolo del cantiere navale, Goio vide Ariane avvicinarsi, non veniva dalle case di Zubieta ma dalla zona di Kaioarri, ed era con Felipe, l’oste del porto. Uno accanto all’altra, chiacchieravano, camminavano al buio sulla riva, come se venissero dal fondo del mare. 388 L’amico congelato Goio ne fu molto sorpreso, gli venne un nodo in gola e non fu capace di salutare né di pronunciare una sola parola. Come se fosse una delle mostruose statue portata da Goienkale al cantiere, rimase lì ad aspettarli, con la staticità di una pietra, cercando di nascondere con l’indifferenza il dolore al cuore. “Buonasera!” disse Felipe. “Buonasera!” disse Goio. “A domani!” disse Ariane. Anche loro erano nervosi e a disagio come Goio. La Bella e il Grasso, Ah merde alors! Goio rimase lì con espressione stupita, rabbia e odio, a guardare l’oscurità di Zubieta verso la quale si allontanava la coppia. Venivano da Kaioarri. E Goio andava proprio lì, non riusciva a togliersi dalla mente quella ragazza, come se l’ombra di Ariane avesse smesso di seguire il suo corpo e volesse accompagnare Goio. 389 In ogni caso, non sarebbe andato a controllare dove passeggiava la coppia. Sarebbe andato all’imbarcazione. Kaioarri si trovava all’entrata del porto, e dall’alto degli scogli si vedeva tutto: le barche da pesca e le scialuppe semiaddormentate, cullate dalla marea, ogni tanto sembravano emettere un sospiro. Il mare era calmo, le onde si frangevano contro le pietra della riva e l’acqua aveva mutato il colore verdeazzurro del giorno in quello della pece. All’estremo del molo si trovava la nave, quell’imbarcazione che Goio chiamava sua, legata da tempo in un angolo, con la chiglia sul fondo, inclinata con la bassa marea e abbandonata. Goio era sceso molte volte nella stiva e nella sala macchine, aveva preso la ruota del timone tra le mani e aveva fatto muovere, a destra e a sinistra, il pesante corpo di quell’animale, senza paura di rompere le gomene legate al molo. Goio conosceva molto bene la sua imbarcazione. Lo scafo di prua era completamente arrugginito, ma lui aveva letto, o forse immaginato, 390 L’amico congelato il nome della nave, Esmirna, nome che, sicuramente, aveva ostentato attraversando i mari per anni. Tuttavia lui l’aveva sempre vista lì, come un elemento del paesaggio di Kaioarri e di nessun altro luogo. Aveva sentito dire da qualche vecchio o da un amico che la Esmirna si trovava a Kaioarri da una decina d’anni, che i marinai l’avevano volutamente fatta incagliare nei fondi rocciosi, con tutto il carico, perché l’armatore greco proprietario della nave preferiva ricevere i soldi dell’assicurazione piuttosto che mantenere quella vecchia carcassa di ferro. L’armatore avrebbe incassato i soldi, l’avevano rimorchiata e portata al piccolo molo di Kaioarri per smantellarla e portarne i pezzi a una fonderia, ma era ancora lì, arrugginita, come un elefante giallo, senza che nessuno sapesse fino a quando, come se fosse sempre stata lì, legata a quel molo tra pietre e onde instancabili. I ragazzi vi si avvicinavano tutti i giorni, per giocare, soprattutto d’estate. La sera, le coppie di innamorati che non avevano una stanza entravano in una delle sue cabine sgangherate a fare l’amore. 391 Forse, a notte fonda, qualche ubriaco vi cercava rifugio, pensando che a quell’ora la moglie non gli avrebbe aperto la porta di casa. 392 L’amico congelato 20 IL DESTINO DEI CORMORANI Mentre starete navigando nel mare esteso, lungo e profondo, apparirà un’isola. O sarà forse un altro iceberg? No, sarà la terraferma e avrà un nome Deception island. Prima di attraccare sull’isola, il nostromo riunirà l’equipaggio per informare dei pericoli che bisognerà evitare, fornire un elenco dei possibili incidenti e farvi firmare un documento. “Sono l’unico responsabile di tutto ciò che farò a terra e delle conseguenze delle mie azioni...” leggerà. Dopo aver firmato, il nostromo dirà che ognuno sarà responsabile della propria vita. E, solennemente, firmerete con nome e cognome la dichiarazione. “Questa è la burocrazia australe...” dirà Axel ridendo. 393 L’isola Deception un tempo è stata un vulcano, prima di spegnersi ed essere sommerso dalle fredde pianure di acqua dei mari australi... “I viaggiatori di molto tempo fa trovarono delle acque termali” dirà Axel. Eric Sorensen, per esempio, trovò dell’acqua a 69 gradi centigradi.” “Sembra un bel posto” dirai. “Chissà chi e perché l’ha battezzata così” dirà Axel. La parola Deception in inglese non significa solo delusione ma anche inganno. “È sempre stata un buon porto e un buon rifugio” dirà un marinaio, “quando il vento bianco rompe gli alberi dei velieri o quando il mare ghiacciato si stringe come una morsa attorno alla chiglia della nave...” Raggiunta l’isola, vedrete che è di pietra nerissima, nelle zone libere dal biancore della neve e dall’azzurro dei ghiacciai. Entrerete in una baia a forma di ferro di cavallo quasi chiuso, passerete in mezzo a impressionanti rocce a strapiombo che chiudono l’entrata e, all’interno del cratere, troverete la quiete e, se non fosse un’esagerazione, un po’ 394 L’amico congelato di tepore. Anche il colore e l’odore cambieranno completamente nell’addentrarvi dopo lo stretto accesso, le acque della baia saranno rossicce e il cattivo odore sempre più forte. Vedrete subito due velieri che stanno arrivando. Uno porta a rimorchio una grande balena, l’altro, che batte bandiera norvegese, vi si avvicinerà. E non sarà come incontrare la gente per strada a Bluefields o a Barranquilla: ti sentirai emozionato e preoccupato. Il capitano, con un inglese regale, vi inviterà a entrare e così vi inoltrerete nella baia incredibilmente bella, circondata quasi completamente da alte pareti di roccia nera. In questa bocca interna del vulcano distrutto, prima di arrivare alla fabbrica, ti renderai conto che il rosso dell’acqua è sangue. “Cosa c’è in acqua?” “Che schifo!” Sulla superficie galleggeranno ovunque pezzi di balena morta. Ci sono anche balene intere, vicino alle barche, che aspettano di essere squartate. Sopra la porta di una baracca di legno si leggerà il nome della compagnia: 395 JACOBSEN & BROTHERS CO. Ci saranno un veliero a tre alberi, due navi a vapore attraccate e altre due in arrivo. Sull’acqua sangue, grasso e petrolio. Un fetore nauseante in tutta la baia. Il nostromo ti chiamerà. Axel, tu e lui scenderete e andrete a casa del responsabile della compagnia. Si tratterà di un uomo raffinato in giacca e cravatta: “Swen Foyn” si presenterà stringendovi la mano. Un salotto elegante, il caminetto acceso, tepore. Indosserà il cappotto e verrà con voi al veliero. “Il nostro strumento” dirà. A volte ti sembrerà ironico, altre arrogante. “È la nostra arma” continuerà. “Se siete degli scienziati, saprete che noi milionari lo siamo grazie alle armi che inventiamo.” 396 L’amico congelato A prua vedrete un minaccioso cannone di ferro: “È un lancia arpioni” dirà Swen Foyn. “L’arpione è attaccato ad una alzaia. Quando si conficca nel corpo della balena, la punta si apre ed esplode un piccolo artefatto. Così la balena muore subito.” Swen Foyn sorriderà accanto al suo cannone. “Prima, anche con l’arpione infilzato, la balena riusciva a scappare e trascinava con sé le barche. La balena ferita si immergeva in acqua profonde oppure attaccava e sollevava la barca sulla sua schiena e spesso era capace di strappare le funi degli arponi portandoseli via con sé.” Indicando la zona industriale dirà: “Abbiamo un chiatta di tremila tonnellate e sessanta lavoratori.” Il signor Swen Foyn si mostrerà orgoglioso delle sue imprese. “Ci sono troppe balene e abbiamo poco tempo. Perché l’industria sia competitiva, bisogna usare il quaranta per cento del corpo di una balena 397 e l’altro sessanta per cento, che vale meno, dobbiamo lasciarlo lì, buttarlo. Pare che abbiano iniziato a lavorare nella fabbrica a novembre e che andranno avanti fino a febbraio: “A fine febbraio finisce l’estate australe e inizia il brutto tempo. Allora ci spostiamo a nord, verso i canali magellanici a Ushuaia...” Swen Foyn sembrerà molto arrabbiato a causa delle tasse che devono pagare a tre o quattro governi diversi: “Dobbiamo pagare le tasse all’Inghilterra, perché le isole Falkland sono loro, ma dobbiamo pagarle anche all’Argentina, che chiama Malvinas le isole e le considera sue...” Ed elencherà gli svariati problemi di proprietà di quelle isole praticamente disabitate. “E tu, sei infermiere?” ti chiederà più tardi. “Sì.” “Allora ti presenterò il nostro nuovo medico.” Terminata la visita alle navi conoscerai il medico, Harald Uppdal. “È la prima volta che mi imbarco e sono 398 L’amico congelato stupito, non capisco questa nostra industria del sangue...” dirà in inglese. È norvegese, si tratta di un medico appena laureato e non ti sembrerà molto contento. Con una tristezza infinita, guardando con i suoi occhi verdi la baia rossa, dirà: “Sono venuto sul pianeta sbagliato...” I punti migliori per attraccare sono occupati e, siccome la puzza di balena morta è insopportabile, deciderete di uscire dalla baia alla ricerca di un altro rifugio dove poter gettare l’ancora. Un altro stretto, a sud-ovest dell’isola, che si aprirà come un lago, conseguenza di un altro cratere vulcanico. In base ai calcoli di Axel, l’entrata della baia misurerà una ventina di metri di larghezza, con sei o sette metri di profondità all’inizio e più di centoventi in mezzo. “Questo posto è abbastanza stretto e poco profondo, e questa è una bella cosa se possiamo entrare senza problemi, perché non possono farlo i grandi blocchi di ghiaccio” decreterà il nostromo. Si rivelerà un buon porto perché, una volta attraccato, sarete al riparo da tutti i venti, ma anche 399 lì ci saranno resti di balene morte, macchie di nebbia di sangue rossiccio sulle acque azzurre; prede recenti che esalano una fetore forte e ripugnante. Vicino alla cala troverete una spiaggia nera, senza neve fin dove arriva l’alta marea. Tra le pietre scure vedrete salire del fumo. Il nostromo vorrà dare un nome alla baia. “Ma sicuramente ce l’ha già, anche se noi non lo conosciamo” dirà qualcuno. In alcuni punti si vedrà del fumo. Quando Axel ti dirà che deve indagare quelle fumarole, gli risponderai che lo accompagni. Troverete molte bocche di vapore e di acqua calda. Axel ne misurerà la temperatura, una esce nel paesaggio gelato a 67 gradi. L’altra a 63... Poi inizierete a cercare il muschio su per le rupi, anche se verrete attaccati dai cormorani. Vi si avvicineranno e dovrete difendervi con i sacchi che avete con voi. “Crederanno che vogliamo togliergli il nido, penseranno che, se stiamo cercando il muschio, finiremo per prenderci anche i loro nidi che sono fatti di muschio...” 400 L’amico congelato I cormorani sono uccelli intrepidi e non sarà facile cacciarli. Poi ti siederai sopra le rocce e, con la baia e la nave lì sotto, rimarrai a guardare i cormorani. Hanno il corpo rotondo e il collo lungo, la schiena nera e il petto bianco, sono pescatori straordinari. Hanno un volo lento e molto basso e, quando vedono un pesce, si buttano immediatamente a caccia, si immergono in profondità e poi escono dall’acqua in volo con il pesce stretto nel becco. Mentre osservi il paesaggio e i cormorani, arriverà il cuoco. “Cosa pensi di fare?” gli chiederai vedendolo salire con il fucile in mano. Bobbi Endicott rimarrà in silenzio fino ad aver recuperato fiato. Allora inizierà a preparare il fucile. “Mi piace lo stile di vita semplice e comunitario dei cormorani. Sono un bersaglio facile” dirà ridendo. Scenderete scivolando sul ghiaccio. Quel giorno cenerete cormorano. Ma la battuta di caccia sarà prima della cena e assai più 401 crudele. “Il fegato di cormorano è molto saporito” vi avviserà in anticipo il cuoco. Ma non ti piacerà sentire gli spari bang bang e vedere come cade a terra il cormorano morto. Axel ti racconterà delle cose sui cormorani: “I cinesi li allevano per sfruttare la loro capacità di pescare. Gli mettono un anello di metallo al collo in modo che non possano inghiottire il pesce che catturano. I pescatori cinesi, sulle loro imbarcazioni di bambù, portano due o tre cormorani addestrati. I cormorani tornano alla barca con un pesce nel becco. Solo ogni tanto, i pescatori cinesi gli tolgono l’anello al collo e danno al cormorano un pezzo di pesce. “Se il cormorano scappasse, con quell’anello al collo non potrebbe mangiare niente, no?” “Ovviamente no, ai cormorani non resta altro da fare che accettare questo lavoro.” Pensa. E allora rifletterai sul destino dei cormorani. 402 L’amico congelato 21 NON È LA FINE DEL MONDO Mi sembrava che fosse sempre lo stesso viso. A scuola Goio passava il tempo a disegnare volti ai margini delle pagine del libro e trovava spazio anche sulla tatuata superficie di legno del banco e al mattino, quando i vetri delle finestre erano appannati, li disegnava anche lì: mi sembrò che tutti quei visi fossero quello di Ariane. Quando bisognava formare le squadre di calcio, Goio aveva sempre qualche scusa per non giocare. Non avevamo più il portiere alto con i capelli rossi che si lanciava come Iribar o Yazhin per prendere i palloni. A Goio il calcio non interessava affatto. “Cosa ti succede, Goio?” gli chiesi durante l’ora di latino. “Niente.” “E la ragazza?” 403 Stavamo facendo dei commenti al De bellum gallicum, i soggetti del verbo appellantur pareva fossero Celtae e Galli. Nostra lingua, la nostra lingua, ipsorum lingua, la loro lingua... “Che ragazza?” “Non so, una qualunque.” “Non ho ragazze.” “E Ipse?” gli dissi, e capì subito lo scherzoso gioco di parole in latino. “Lei, quale?” chiese. “Quale vuoi che sia!” gli risposi io. E Goio divenne rosso come un pomodoro schiacciato. Rimaneva sulla porta della scuola, sembrava confuso, leggermente impaurito, come se stesse guardando le foglie dell’autunno che, con i primi venti dell’inverno, cadevano dagli alberi di fronte. Rimaneva ad aspettare Ariane, con la speranza di poterla incontrare come per caso: “Vai a casa?” le avrebbe chiesto Goio. E l’avrebbe accompagnata fino a Zubieta. A volte Ariane arrivava chiacchierando con qualcun altro, una volta la vide andarsene 404 L’amico congelato con l’odioso Clemente López. Altre volte, invece, usciva di fretta, quasi correndo, senza dare a Goio il tempo nemmeno di avvicinarsi. Così la seguiva, camminandole dietro e seguendo le tracce dei suoi passi come un bandito dei film western. Un giorno, nella nebbia, perse le tracce di Ariane. Non si vedeva niente a un palmo di naso. Oltrepassò Zubieta e anche al porto c’era nebbia attorno alle barche, sempre più spessa e pesante, sempre più fantasmagorica. I passanti a terra si muovevano come ciechi, così come le barche in acqua, e solo il rumore e le voci dimostravano la loro presenza. Goio trovò sua madre al molo, da tempo non andava a trovarla sul lavoro, lei stava cucendo le reti, con altre sei donne, afferrando l’ago con il guanto. “San Simone e San Giuda, è arrivato l’inverno” disse una di loro. Il giorno era grigio e il freddo entrava anche dal naso. “E le barche non rimarranno ancorate” le rispose un’altra. 405 Stavano per arrivare le corte e funebri giornate d’inverno, preannunciate dalla nebbia. Quel giorno Goio decise che l’indomani sarebbe andato a casa di Ariane. Come tutti i giovedì, Ariane aveva un giorno libero e sarebbe stata a casa. Alle dieci del mattino, quando uscimmo a ricreazione, benché gli amici l’avessero chiamato per giocare a calcio, Goio se ne andò. Fino a quell’ora avevamo avuto lezione di FEN. “Tu sei innamorato!”, gli dissi, mentre Clemente López spiegava la democrazia organica. Goio spalancò i suoi occhi di ghiaccio. “Ma figurati!” disse. Poi, mentre noi ci infangavamo giocando a pallone, lui andò a Zubieta. Si sarebbe fermato un instante davanti a casa di Ariane, con l’inquietudine di un mare in piena e avrebbe pensato che ormai era tardi per tornare indietro. Avrebbe sentito il rumore stridente della sega del cantiere navale e 406 L’amico congelato avrebbe guardato il porto come se fosse l’ultima volta che lo vedeva, nel momento in cui una nave a vapore salpava dal molo. Salì le scale dell’edificio e, agitato, suonò il campanello. Dopo pochi secondi apparve Ariane, in camicia da notte e con i capelli spettinati. “E tu cosa ci fai qui? Perché non sei a scuola?” Goio aveva l’espressione di chi non avrebbe voluto essere lì. “Entra” disse Ariane. Era completamente buio, dalle finestre socchiuse non entrava la luce, o per lo meno così sembrò a Goio. Fu sul punto di chiederle perché non le aprisse, ma non ne ebbe il coraggio... “Ti piace questa musica? È Georges Brassens” disse Ariane. Il giradischi stava funzionando, girava, ma Goio non si rendeva conto di nient’altro che della presenza di Ariane. Quando si sedette, Ariane lasciò scoperte le cosce e Goio divenne sempre più nervoso. I seni di Ariane erano perfettamente disegnati sotto la 407 camicia da notte leggera, proprio come nei film. “E cosa vorresti?” chiese Ariane. Ariane si era appena messa il rossetto rosso e Goio si sarebbe sentito più a suo agio a guardare le gambe, i seni e il viso di Ariane, se Ariane fosse stata la fotografia di Ariane, ma averla di fronte era terribile. “Sei scappato da scuola?” “Sì, dovevo venire qua.” “Cos’è successo? Ti aiuterò, se posso. Cosa succede?” Goio aveva le guance in fiamme e un nodo alla gola. Ariane si alzò dal divano e tolse il disco. “Sono innamorato di te” disse Goio. La frase cadde come un sasso nell’acqua immobile, espandendo onde silenziose in tutta la sala. Ariane rise, una risata leggera e triste, e con la mano si strinse la camicia da notte sul petto. “Ollalà!” disse. “Preparerò un caffè.” Goio rimase solo nel silenzio della sala, confuso. Si sentiva il bambino più stupido del mondo. 408 L’amico congelato Ariane tornò con il caffè fumante. Anche lei era nervosa. Guardò Goio negli occhi, una dolce sensazione di paura si era impossessata di lui. “Ahi, ragazzino” disse Ariane con la sua voce dolce, “tu hai appena iniziato a vivere e hai imparato a dire “ti amo”, ma quando diciamo “ti amo” non sempre è il paradiso e nemmeno la fine del mondo.” On dit je t´aime mais ça n´est pas toujours le paradis et ça n´est pas la fin du monde. Goio era accanto ad Ariane e avrebbe dato la vita per rimanere così a lungo. “Fra noi due non è possibile quella cosa che si chiama amore. Ho ventiquattro anni e sono troppo vecchia per te. Sei ancora un bambino, forse per questo sei così curioso...” Gli prese la mano e lo accompagnò fino alla porta. Nell’aprirla Ariane gli dette un bacio sulle labbra, stringendogli forte la mano nella sua e lui appoggiò le gambe contro le rotonde cosce di lei, Goio sentì le sue morbide labbra sulle sue e, con gli occhi chiusi, le socchiuse alla ricerca della sua lingua bagnata e tiepida. Come un cieco che tocca 409 una parete che non conosce, Goio cercava un ignoto umido, morbido e senza ostacoli. “Torna a scuola!” gli ordinò allora Ariane. Allontanò da sé il ragazzo che scese le scale come un automa. “Non tornare mai più!” gli disse Ariane sulla porta. Goio uscì e, dopo la catastrofe, tornò a scuola. Quando vedemmo arrivare Goio, la ricreazione era finita ed era già iniziata la lezione successiva. Chiese il permesso di entrare e si sedette corrucciato vicino a me. “Dove sei stato?” gli chiesi. Eravamo con il professor Patricio, lezione di Geografia, con i nostri atlanti e quaderni aperti, cercando di distinguere la geologia dalla geografia fisica, la geografia botanica, la geografia umana, la geografia economica. Inazito fu il primo a rendersene conto, quando guardò indietro dal suo banco: 410 L’amico congelato “Hai mangiato caramelle rosse!” disse. Goio aveva dei segni rossi agli angoli della bocca. La geografia umana studia la popolazione, in senso ampio, comprende la geografia storica, economica, politica eccetera. Ma Inazito aveva un altro tema: “Chi hai baciato, di chi hai mordicchiato le labbra?” Inazito era molto più attento alla realtà umana. “Più morbide del pelo di coniglio...” disse Inazito. “Figlio di puttana!” lo insultò Goio preso da un gran nervosismo. “Racconta, racconta!” insistevo io al suo fianco. E, senza dire niente, Goio mi assestò un pugno nelle costole che mi lasciò senza fiato. Allora gli detti un calcio: “Ti ho chiesto solo di raccontarmelo!” Il professor Patricio si accorse del nostro litigio e, con la parola geodinamica appesa alle 411 labbra, ci cacciò fuori dall’aula. Uscimmo senza rivolgerci la parola e ce ne andammo in direzioni contrarie, io verso il dormitorio e Goio fuori. Era iniziato l’inverno e presto sarebbe arrivato il Natale. Io avrei trascorso le vacanze a Bilbao. Goio e sua madre sarebbero andati al casolare dai nonni. Mio padre venne a prendermi in macchina. Sulla strada c’era poca neve. Credevo che avremmo messo le catene, ma mio padre non lo fece. “Perché vai così piano?” gli chiesi. “Perché ci sono stati molti incidenti!” mi rispose. Il viso appoggiato al finestrino, il naso schiacciato contro di esso, speravo di vedere macchine accartocciate come fisarmoniche dopo l’incidente. Arrivai a Bilbao triste, perché non avevamo messo le catene. Fu un Natale come tanti altri. Quando arrivai a casa, il presepio era già pronto in corridoio. 412 L’amico congelato Lampadine colorate, muschio, il fiume fatto con la carta argentata del cioccolato Zahor o Elgorriaga, casette di gesso, il pastore con le pecore, Gesù bambino nella culla e Maria e Giuseppe, il bue e l’asinello e, ad un angolo del paesaggio, ancora lontani, i Re Magi, e poi la neve di ovatta. Le melodie tradizionali, gli annunci natalizi e gli auguri. Le statuine a volte cadevano e dovevo rimetterle in piedi, soprattutto le pecore e i Re. I Re, quell’anno, mi portarono un montgomery verde. “Come cresce questo ragazzo!” disse il nonno a Goio appena lo vide, la vigilia di Natale. Goio, vergognandosi un po’, guardava le tacche, la sua al di sopra di tutte quelle dei suoi cugini e al di sopra di tutte le sue anteriori. La prima tacca rimaneva adesso all’altezza delle cosce. L’agnello era legato sotto la scala, un bell’agnellino bianco che beee beee non la smetteva di belare, come se intuisse il destino che 413 lo aspettava. Goio rimase a giocare con l’agnello, anzi a fargli compagnia, perché l’animale era troppo spaventato per capire il gioco. Poi vide come lo uccidevano e gli toglievano la pelle. Quando il coltello affilato fu pronto, l’agnello si mise a belare violentemente. Lo sguardo dell’animale era affranto, gli occhi annebbiati, il suo sangue tiepido schizzò ovunque prima di essere raccolto nel catino. Lo appesero a un gancio a testa in giù e senza fatica tolsero la pelle a un corpo rossiccio. Il nonno si sedette a capotavola per la cena, c’erano anche la madre, gli zii e le zie, i cugini piccoli. Goio avrebbe mangiato la sua porzione di carne, tra gli assassini, e avrebbe messo via gli astragali13 per giocarci. Mangiarono anche fagioli e noci. Dopo cena, il nonno si sarebbe arrotolato una sigaretta, l’avrebbe accesa e fumata lentamente. La nonna non era a tavola perché era ammalata. Goio avrebbe passato molte ore di quelle vacanze accanto al suo letto, mentre lei prendeva il rosario tra le mani rugose come tralci di 13 Piccole ossa delle zampe dell’agnello. [N.d.T.] 414 L’amico congelato vite e faceva scivolare i grani ad uno a uno tra le su dita. La notte di capodanno, con i bambini e le bambine del quartiere, andò in giro a cantare e a chiedere un’offerta di casolare in casolare. L’ascia è fuori dalla porta, è il cantare che qui ci porta, qui abbiamo cantato tanto, adesso andiamo in quello accanto. Nel casolare vicino, l’edera cresceva sulle vecchie pareti, approfittando delle crepe e degli spazi fra le pietre. Faceva freddo e vicino alla porta della stalla fermentava il letame fumante. Quando fece buio, si accesero le lanterne. “Porta la balena!” disse una ragazza. “Cos’è la balena?” chiese Goio, perché così aveva capito, balena. “Balena è l’olio per le lampade.” disse la ragazza. Altri casolari erano semiabbandonati. Parti del tetto erano crollate e i rovi e le ortiche crescevano libere fino alle stanze del primo piano. Si cantò anche a casa, dopo cena, sebbene la nonna fosse a letto. Forse cantarono proprio 415 perché a lei piaceva quella melodia natalizia intonata dal nonno, sua madre, la vicina Joakina e Goio, Vieni, vieni a casa ragazzo, a mangiare le castagne. Quando, ormai notte, guardò fuori dalla finestra, nevicava copiosamente. In quel lungo dopocena si cantò anche Voga voga marinaio, che lontan dobbiamo andar. Fu una grande nevicata, la neve continuò a cadere incessantemente come se volesse coprire tutto per l’eternità e gli tornò alla mente uno dei sei o sette versi che avevano cantato sulla porta del casolare di Mugertza, in quel giro pomeridiano di casa in casa: Bianca orlata di scuro la sottoveste, di un bel rosso la gonna, non c’è niente che possa onorare come te questa piazza, o donna. Anche lui era tra i cantori, anche se stava zitto, ed erano tutti lì, all’entrata della casa, eccetto la nonna. Al mattino successivo, con l’anno nuovo, prima di scendere a Murelaga a prendere la corriera per Kalaportu, trovò il nonno nella stalla. Goio guardò dalla porta e, nell’oscurità, lo scorse seduto sullo sgabello sotto la zampa della mucca e, quando si avvicinò, sentì i colpi dello zoccolo 416 L’amico congelato dell’animale sul pavimento e lo sciiff sciiff del latte caldo che cadeva nel secchio di metallo. Un’altra mucca iniziò all’improvviso a pisciare, accanto a Goio che sentì gli schizzi caldi di quella cascata gialla. Quando andò a salutare la nonna, l’anziana e magra donna dai capelli bianchi gli disse dal letto: “Prendi quella scatola dall’armadio, figliolo.” Goio le porse la scatola e la nonna, tra medaglie e monete vecchie e ammuffite, estrasse una piccola fotografia. La nonna appoggiò la vecchia foto sul palmo della mano di Goio, la chiuse con le sue dita deboli e deformate, in modo che la tenesse stretta e disse alcune parole che gli fecero sentire un brivido che nemmeno il più rigido degli inverni gli aveva mai provocato: “Tu vivi lontano e non mi vedrai morire, prendi la mia fotografia, così potrai vedermi anche quando me ne sarò andata.” Gli occhi della nonna brillavano in modo strano, per via della febbre. La paura attanagliò tutto il corpo di Goio, come la più fredda delle 417 morse. Anche lo zio Gregorio lo stava guardando, da quella fotografia appesa alla parete, con uno sguardo senza età e senza preoccupazioni. 418 L’amico congelato 22 IL DOLORE DELLA MANO AMPUTATA Rifletterai sul destino dei cormorani e, il giorno dopo, uscendo dalla baia, avrete un incidente. Sulla superficie dell’acqua viscere di balena si impiglieranno nell’elica e nell’ancora e Malcom, che ha iniziato a ripulire la catena dell’ancora, scivolerà e cadrà contro la cubia. Si ferirà gravemente a una mano. Uscirete in mare aperto con un tempo grigio industriale e le acque saranno calme, soffierà un vento costante di libeccio e vi appariranno numerose cime di ghiaccio che dovrete schivare. Poi scorgerete un’isola meravigliosa, simile a una piramide bianca costruita e poi dimenticata da qualche antica civiltà. Il nostromo la chiamerà Casablanca e vi fermerete per vedere cosa contiene una cassetta che sembra fatta per lasciarci messaggi. Getterete delle ancore speciali 419 per il ghiaccio, due a dritta e una a poppa, un’altra a babordo e un’altra a prua. Il giorno dopo andrete a vedere cosa c’è in quella scatola, perché chiamarla cassetta della posta è esagerato. Un vecchio pezzo di legno incastrato tra le pietre, alcune lettere scritte chissà quando e ormai cancellate. Una bottiglia rotta e, al suo interno, un messaggio illeggibile su un foglio bagnato quasi distrutto, si vedrà solo qualche resto d’inchiostro slavato sulla data. Sopra, una specie di coperchio biancastro. Penserai che è muschio grigio, oppure muffa: “Non è muffa, sono piume d’uccello” ti dirà Axel. Sarà il nostromo ad aprire la bottiglia. “L’unica cosa che si può leggere è l’anno, questo è un 12, credo sia una lettera del 1912...” Il paesaggio sarà fantastico. Si capirà che le rocce sono di un colore grigio scuro, perché in alcune zone sono visibili sotto il manto di neve e di ghiaccio. Non ci saranno colori, non ci sarà il verde dell’erba e nemmeno toni che ricordino la terra. Solo il bianco e il grigio che appariranno in 420 L’amico congelato centinaia di sfumature diverse. Così deciderete di lasciare anche voi una lettera. Discuterete su cosa scriverci. Alla fine scriverete solo la data, che venite dall’isola Deception e siete diretti al continente dei ghiacci. “Speriamo che i prossimi riescano per lo meno a decifrare l’anno” dirà qualcuno. Ma con il tempo anche l’anno svanirà. Chiuderete la bottiglia-cassetta e andrete agli scogli dei pinguini. Vi arrampicherete legati con la corda, perché la neve sarà dura e scivolosa. Arrivati sulla cima della collina, sentirete il vento sferzante ma lo sforzo per risalire il pendio sarà ripagato, perché potrete ammirare un vero spettacolo: dalla cima fino al mare, rocce ricoperte di animaletti bianchi e neri. Edna, stanca e allegra, dirà: “Guarda che uccelli, hanno addirittura il frac.” Vedendoli camminare sulla neve ti ricorderanno i vecchi film comici, soprattutto per il modo di incedere e di cadere: Charles Chaplin, Buster Keaton, Stanlio e Ollio, e una lunga lista di 421 attori. Si muovono, inciampano, perdono l’equilibrio e prendono un forte colpo per poi fermarsi qualche metro più in là. Allora, seri e dignitosi, guardano dove sono caduti quasi a individuarne la causa. Poi proseguono il loro cammino, con indiscutibile perseveranza, per inciampare di nuovo subito dopo e ricadere muso a terra. Saranno tantissimi. Axel farà ricorso alla sua attitudine matematica, quanti pinguini ci sono per metro quadrato, moltiplicato per tanti ettari, calcolerà a occhio e croce che ce ne saranno circa sessantamila. Scenderete fino a raggiungerli e non sarà facile muoversi sulle rocce, perché spesso sono a strapiombo sul mare, e là sotto le onde colpiscono con prepotenza e tenacia. Dovrete scendere senza aver dato un’occhiata tecnica verso il basso. I piccoli dei pinguini e i pinguini adulti, questi goffi e impacciati uccelli che non possono volare, camminano a passi corti, con la loro simpatica andatura, dondolandosi, le piccole teste chine, per scendere uniscono i piedi e fanno dei saltelli aprendo le loro ali che sono come braccia 422 L’amico congelato atrofizzate. Nelle zone dove c’è la neve ed è difficile mantenersi in piedi, si sdraiano in fila a testa in giù come se si lanciassero da uno scivolo. Anche in acqua ci saranno molti pinguini, tra onde altissime, e avranno il loro daffare per tornare a terra. Spinti da una di esse, forse riusciranno ad aggrapparsi a uno scoglio, ma l’onda successiva li coprirà trascinandoli di nuovo in mare. “Devo esaminare i nidi dei pinguini” dirà lo scrittore John Masefield. Vi chiederà di aiutarlo, dirà che deve conoscerli per poterli descrivere. “Siamo in epoca di cova delle uova, vuoi rovinare la famiglia?” dirà Axel. Nonostante ciò, vi avvicinerete tutti alla zona dove ci sono i nidi. Sono strutture semplici: con il becco portano alcuni sassi e formano delle profonde cavità protette dalle pietre. Quando proverete a guardare le uova, i pinguini si arrabbieranno. Ma John vorrà osservarle a tutti i costi e, infilatisi dei grossi guanti, senza temere le beccate, prenderà i pinguini per la coda e li allontanerà dal nido. Farà così di nido in nido, seguito dal gruppo formato dagli 423 altri, cacciando le famiglie ed esaminando le uova. Si sentiranno i versi, i richiami e la rabbia delle madri dei pinguini, mentre i maschi rimarranno lì vicino, seri e buffi. Appena ve ne andrete, le coppie torneranno ai loro nidi. Il maschio, stirando e torcendo il collo, mostrerà il suo amore alla femmina, la madre, appollaiata sopra l’uovo, ricambierà con un atteggiamento altrettanto affettuoso, entrambi gracchiando. “Guarda che amore!” dirà Edna. “Le meraviglie del matrimonio, senza dubbio...” dirà Axel. Benché indossino un abito elegante e sembrino puliti, nell’aria ci sarà una puzza intensa, per via delle uova rotte. “Cosa hai scoperto sulle uova?” chiederai a John. “La maggior parte sono intatte ma, quando un uovo si rompe, quello che i genitori covano non è che una specie di massa grigia...” John vorrà fare una fotografia, lui ed Edna tra i pinguini. Si metteranno in posa per essere 424 L’amico congelato immortalati nel futuro, perché questa immagine sarà futuro quando il passato sarà passato, e sarà passato quando il futuro passerà. “Cheese...” dirai, ma siccome il guanto è troppo grosso non riuscirai a fare lo scatto. Ti sfilerai il guanto e le punte delle dita ti si appiccicheranno alla parte metallica della macchina fotografica e, nel breve tempo necessario a infuocare l’immagine, calcolare la luce e staccare il dito, il vento e il freddo ti provocheranno un terribile dolore alle unghie. Risalirete con difficoltà fino alla cima della montagna, poi scenderete dall’altra parte perché sarà più facile. Tornerete giù come su uno scivolo, sdraiati a pancia in su e scivolando verso il basso; sarà come una caduta libera senza direzione né possibilità di frenare e a gran velocità. Quando arriverete in fondo, chiuderete gli occhi per via della polvere di neve alzata con i piedi e avrete le giacche a vento rotte sulla schiena. 425 Dopo qualche giorno, un pomeriggio, ti daranno una notizia inaspettata: è la vigilia di Natale, un annuncio clamoroso. In un angolo della sala da pranzo ci sarà l’albero di Natale, verde, con le lampadine colorate, coperto di piccole candele e addobbi. “Oggi, per cena, pinguino” annuncerà Bobbi. “Da dove hai tirato fuori questo pino?” chiederà qualcuno e il cuoco risponderà con un sorriso. Si apriranno scatolette, si stapperanno bottiglie. Ooman beans, dirà Axel, it´s shameful. La carne di pinguino non ti piacerà, ti sembrerà amara come un tradimento. Nemmeno ad Axel piacerà. “Ovunque vada, l’essere umano ha sempre un coltello in tasca...” A terra non è facile che si crei questa atmosfera. Nella cena di festeggiamento dentro 426 L’amico congelato l’imbarcazione non c’è tavolata né tovaglia bianca. Non passerai al tuo vicino il vassoio con il cibo, non ballerai. Ognuno si metterà dove può e come vorrà. Su una sedia, sopra il tavolo o il bidone della spazzatura. Si prende una bottiglia e si offre, ma da lì in poi sarete tutti invitati e padroni di casa. Per il dopocena, il nostromo avrà preparato un discorso: “Questo inizio di millennio per noi è stato generoso, felice e di successo. Quest’anno abbiamo realizzato il nostro sogno, siamo venuti all’Antartide e, in questo momento, molta gente si ricorderà di noi. Siamo un po’ tristi, perché non siamo a casa nostra, anche se, nella nostra patria, c’è un sacco di gente che vorrebbe essere qui. In futuro festeggeremo ancora questo giorno, però questo non lo dimenticheremo mai...” Come ricordo, vi regalerà una cartolina eccessivamente kitsch. Campane dorate, fiocchi di neve, angioletti con la sciarpa: Merry Christmas and a happy new year! 427 E, per concludere il discorso non finito, proporrà un brindisi: “Come ho detto, il nostro primo sogno si è realizzato, venire all’Antartide. Preghiamo che anche il secondo si realizzi. Il nostro secondo sogno, per completare il primo, sarà tornare a casa...” Si suoneranno la fisarmonica e la chitarra, se qualcuno saprà farlo, e si ascolteranno conversazioni sempre più esilaranti. “Sai che Giuseppe sta piangendo vicino alla culla?” “Perché?” “Perché voleva una femmina.” Risate e alcol. E quella notte apparirà la nostalgia. Se esiste la nostalgia, quella notte apparirà. In piena discussione, qualcuno tirerà fuori una cartina e, appoggiandoci la punta del dito, nominerà l’isola di Victor Hugo e la baia di Pendleton, e l’isola di Casablanca e, tra altri vari nomi, Beascoecheia Bay. 428 L’amico congelato Ti avvicinerai alla cartina, perché quel nome, in modo segreto, ti riporterà alla tua lontana terra, al tuo piccolo e mite Paese che non ha un colore proprio né linee di frontiera nel grande mappamondo, e penserai che anche lì adesso è inverno, ma molto più mite dell’estate australe, che sarà buio, senza una luce obliqua che dura tutto il giorno e che la gente, dopo cena, starà cantando canti tradizionali e non avranno certo bisogno di guardare una cartina. Allora canterete fino a rimanere senza voce e anche chi non conosce le parole si sgolerà fino a coprire la voce del cantante: How I missed her, how I missed her How I missed my Clementine But I kissed her littler sister… I canti da ubriachi e le discussioni quasi accademiche si prolungheranno fino al mattino, what precisely, if, perhaps, but, e resti di bestemmie. La notte di bagordi sarà chiara, perché il sole si nasconderà solo un attimo sotto la linea 429 dell’orizzonte per sorgere di nuovo subito dopo. Mentre starete facendo colazione, con una saporita frittata di uova di pinguino, dall’isola Deception arriverà un’imbarcazione. Saranno i cacciatori di balene norvegesi: “Un nostro compagno ha avuto un incidente e veniamo a cercare l’infermiere.” “Ma non avete un medico a bordo?” “Harald, il nostro medico, ha rinunciato ed è tornato in Norvegia una settimana fa, adesso siamo senza medico.” “Cos’è successo?” “Uno dei nostri si è troncato le dita di una mano.” “Vengo con te” ti dirà Edna. Ti renderai conto che non hai il diritto di scegliere se andare o no. Partirete a mezzogiorno, tu, lei e Axel. Axel indicherà l’isola che si scorge dove finisce l’acqua, quando sarà ancora solo un punto smarrito in lontananza. 430 L’amico congelato “Deception Island, 66º,56´ di latitudine sud, 60º,40´ di longitudine ovest, 19 chilometri da nord a sud, 15 da est a ovest e 50 chilometri quadrati...” ll punto bianco che si scorgeva in lontananza si andrà avvicinando, diventando sempre più grande, finché non entrerete nell’insanguinata baia e vi troverete nella zona industriale norvegese. Di nuovo quelle tristi acque rossastre, resti di balena ovunque e l’insopportabile fetore. Il marinaio ferito si troverà nella casa del direttore e Swen Foyn vi darà il benvenuto mentre vi spiegherà che non hanno più un medico e tutto il resto. Il poveraccio, che si chiama Tarje, lo troverai sdraiato a letto, con tre dita della mano sinistra amputate. “È arrivato il medico, Tarje!” gli diranno i suoi compagni. I moncherini delle dita mancanti saranno in cancrena e la mano sinistra tremerà come un ranocchio sottoposto a tortura. “Bisogna amputare...” dirai. Questo lo sanno, per quello sono venuti a cercarti così lontano, sperando che tu sia 431 abbastanza generoso e in grado di amputare una mano marcia. E adesso cosa farai, tu, che non hai mai avuto il coraggio nemmeno di separare con un coltello la carne dall’osso? Digli che lo facciano loro, con la destrezza con cui tagliano a pezzi il corpo di una balena. “Gli strumenti chirurgici sono a sua disposizione” ti dirà Swen Foyn. Il profondo nervosismo ti farà sembrare un chirurgo professionale: “Aiutami a dargli il cloroformio” chiederai a Edna. L’operazione verrà preparata alla svelta. Sapendo che non è facile l’asepsi in un ambiente di carne e grasso marci, prenderai eccezionali precauzioni igieniche. Ancor prima di iniziare l’operazione, Tarje avrà perso conoscenza. Avvertirai che Edna ti osserva, tappandosi il naso e la bocca con un fazzoletto bianco. Nervoso, prenderai il seghetto affilato tra le mani. Poi la mano marcia finirà nel catino, come un rospo squartato da un bambino cattivo. Il giorno dopo il malato starà meglio. Avrà 432 L’amico congelato la febbre, più di 38, ma gli dirai che è normale e gli prescriverai degli antibiotici. Anche se pulirai e benderai bene la ferita, in queste condizioni l’asepsi sarà impossibile. “Non muoverti” gli dirai, ormai notte. Non può rimanere fermo, gli fa male la punta delle dita, le dita, tutta la mano. E muovendo la mano che non c’è più, il dolore sarà ancora più intenso. Il sole praticamente non tramonterà, a mezzanotte declinerà sfiorando il pelo dell’acqua e poi ricomincerà ad alzarsi. E, accanto al sole, anche la luna sarà là in alto, come fossero fratello e sorella. Ti sarà difficile prendere sonno. Anche Edna si siederà con te, accanto a Tarje. Ti assopirai e, in sogno, credendo che Edna ti chiami, correrai verso di lei e, svegliandoti, troverai Edna e Tarje addormentati. Il quarto giorno la febbre salirà a 40 gradi e ti spaventerai. Ma il giorno dopo inizierà a scendere poco a poco. 433 23 FREDDO E GABBIANI Quell’inverno, privo di tempo e preoccupazioni, portò più neve del consueto. Sulla costa, di solito la neve si scioglie subito ma quell’anno, siccome nevicò diverse volte, si mantenne per giorni e giorni e la gente temette che i tetti delle case si potessero deformarsi e cedere sotto il suo peso. Anche quando non nevicava, di notte tutto diventava bianco con le stelle più fredde e, in quelle pallide mattine, trovavamo le pozzanghere del cortile ghiacciate. Saltavamo sul ghiaccio che cris cras si rompeva come se fosse vetro, ne prendevamo un pezzo affilato e lo succhiavamo. “Ti ammalerai, con tutti i microbi che ci sono nel ghiaccio!” “I microbi muoiono quando l’acqua gela e 434 L’amico congelato non possono nuotare” disse il Grasso. Il freddo ci prendeva, ci avvolgeva e ci attanagliava ma noi restavamo lì, a scivolare, a spingerci e strattonarci l’un l’altro, i piedi bagnati, le dita congelate, le orecchie paonazze, gli occhi irritati, soffiando vapore dalle narici come cavalli ansimanti. Goio non giocava quasi mai a pallone né prendeva parte alle altre attività. E in classe, benché continuassimo ad essere compagni di banco, non mi parlava. Durante le lezioni, cercavamo il tepore della stufa. Era una stufa a gas butano che si accendeva sul davanti e diventava incandescente. C’erano discussioni su dove collocarla e poi, facendo finta di niente, ci avvicinavamo per ritrovare, con il calore, la pace e l’intimità ormai perse della cucina di casa. Una volta, durante l’ora di Latino, gli mandai un biglietto. Quel giorno era in un altro banco, non ricordo perché. Gli scrissi queste parole: Mollior cuniculi capillo? 435 E, come se gli stessi passando la gomma, la penna o il temperino, lo diedi a Inazito, lui a Emilio ed Emilio a Goio. Ricevetti subito la risposta, scritta sul retro del foglietto che gli avevo mandato: di pelota. Alla fine delle lezioni, dietro il campo Prima che finisse la mattina, tutta la classe sapeva la notizia, che ci saremmo azzuffati dietro il campo, e ormai sembrava troppo tardi per spiegare che si trattava solo di uno scherzo. All’una in punto Goio uscì e, con i libri sotto il braccio, attraversato il campo regolamentare, si avviò solitario verso il luogo prefissato. Dietro di lui, Inazito, l’Annegato e Beixama. Con me c’erano Emilio e Juanjo, alle nostre spalle altri tre ragazzi e, un po’ più indietro per via della sua limitata mobilità, Zumalde. Faceva ancora freddo e tutti esalavamo nuvole di alito. Oltrepassammo la recinzione passando da un buco che c’era in un angolo e, tra macerie e rovi, si formò un piccolo circolo attorno a 436 L’amico congelato Goio che era stato il primo ad arrivare. Quando li raggiunsi e vidi Goio lì in mezzo, i capelli rossi, pallido pallido, tra nuvole di alito, perché faceva davvero freddo lì fuori, lo guardai come per dirgli che non avevo paura ma che azzuffarci non sarebbe servito a nulla, allora sentii la sua voce: “Non sei capace di venire solo?” “Non li ho chiamati io!” risposi infastidito. “Io sarò l’arbitro...” era la voce dell’Annegato. Posai i libri su una pietra, pur sapendo che si sarebbero bagnati, e dovetti entrare in mezzo al circolo. Goio si avventò su di me, iniziammo a darci pugni, a volte a vuoto, e finimmo entrambi a terra. Mi rialzai prima di lui e gli sferrai un forte colpo in un occhio. “Così, più forte!” sentii. Mi spostavo a destra e a sinistra, muovendo i pugni davanti al viso, come avevo visto fare in televisione. Aggrottai la fronte, perché sembra che con la fronte contratta i colpi facciano meno male, e gli sferrai un destro, Goio spostò un po’ la testa e 437 la mia mano gli sfiorò un orecchio. “Cassius Clay!” disse qualcuno. Goio mi abbracciò e caddi bruscamente all’indietro, il circolo di amici si aprì e finii tra i calcinacci e le ortiche. Una volta a terra, con la schiena dolorante, Goio si sedette sulla mia pancia e iniziò a darmi pugni, mentre le altre facce attorno lo incitavano. Raccolsi le forze e riuscii a girarmi, mettendolo sotto. Mi sedetti sulla sua schiena, con un ginocchio gli immobilizzai un braccio e, afferrandolo per i capelli rossi con le due mani, iniziai a sbattere la sua testa a terra. Il circolo di amici che continuava a gridare ci era praticamente addosso. Quando Goio riuscì a portarsi una mano alla faccia, gli presi il braccio e glielo piegai indietro. “Ahhh...” si lamentò, il viso sudato e insanguinato, ogni respiro si concretizzava in una bianca nuvola di vapore. “Ne vuoi ancora?” “No” disse. “Allora ti arrendi? Dillo tre volte!” 438 L’amico congelato Rimase in silenzio, allora gli presi la testa per i capelli e lo trascinai tra le ortiche e i calcinacci. “Basta!” disse Goio. “Allora devi dire che ti sei messo il rossetto in casa della professoressa di francese perché sei un frocio.” Era in trappola e non poteva fare forza, ma non disse niente. “Sarboa!” gli dissi, usando un insulto che avevo imparato dagli amici di Kalaportu. Lo lasciai libero e, mentre prendevo il fazzoletto dalla tasca, vidi che si girava e si alzava, aveva le labbra rotte e bagnate di saliva, da un sopracciglio gli scendeva un rivolo di sangue fino al collo. Prese i suoi libri e i quaderni e se ne andò. Io ero circondato dai compagni, sembrava volessero prolungare la tensione dell’azzuffata con i più stupidi commenti: “L’hai fatto a pezzi, tu!” Mi allontanai e pisciai contro la vecchia parete del frontón. Gli schizzi fumanti mi caddero sulle scarpe. 439 Me ne andai, quasi senza poter respirare, con il fiatone, sentivo i battiti del cuore in tutto il corpo e una gran voglia di piangere. Non andai in mensa. Mi ritirai nel dormitorio e per le scale incontrai Agustin: “Hai del sangue sotto il naso” mi disse. Oltre al sangue e a un forte dolore al naso, mi facevano male la schiena e tutte le ossa, avevo i pantaloni sporchi e la camicia strappata. Un’ora più tardi saremmo dovuti tornare in classe e dovevo lavarmi e cambiarmi i vestiti. Il pomeriggio, alla prima ora, Goio rimase seduto accanto a me, rannicchiato e immobile nel banco, cercando di non farsi notare, con una mano sul viso e il polso a coprire le labbra gonfie. Quando iniziò la lezione era tutto un incrociarsi di sguardi, Las entrañables provincias vascongadas, ma i mormorii cessarono ed ascoltammo la spiegazione di Clemente López più silenziosi che mai. Sicuramente si rese conto dell’insolito silenzio: 440 L’amico congelato “E così oggi abbiamo dei feriti di guerra” disse. Qualcuno rise. “Cosa ti è successo?” chiese a Goio. “Sono caduto.” “E dove saresti caduto, se si può sapere?” ”Ad Harriandi, dopo pranzo.” “E cosa ci sei andato a fare ad Harriandi, se si può sapere? A guardare il mare o a farti male di proposito?” “A guardare il mare.” “Certo, certo, a guardare il mare, perché nel mare ci sono molte cose da vedere!” Quel pomeriggio i muscoli di Clemente López erano più gonfi che mai. “E tu, Antonio, anche tu sei caduto da Harriandi o all’ora di pranzo fai da sparring a Cassius Clay?” “Sono caduto dalle scale.” “Che io sappia, da queste parti non ci sono abbastanza scale né gradini per procurarsi tanti lividi, nemmeno cadendo dall’ultimo piano...” Poi aggiunse, mentre guardava fuori dalla 441 finestra: “Alla fine della lezione, voi due vi fermerete qui.” Pensammo che ci avrebbe mandato dal Direttore e che anche lui avrebbe iniziato con le domande, e alla fine ci avrebbe dato qualche castigo. Alla fine della lezione rimanemmo seduti al banco. Clemente López mise in ordine un mucchio di fogli che aveva sulla cattedra, mettendone uno sopra, un altro sotto, altri inserendoli nel plico. A un certo punto alzò la testa e, guardandoci da sopra gli occhiali, disse: “Andate a casa!” Con gli occhi bassi, ci avvicinammo alla porta e ce ne andammo assieme, correndo lungo il corridoio vuoto. Goio aveva un vantaggio rispetto a me, non stava in collegio. Andò a casa e, prima che sua madre tornasse, indossò il giaccone cerato e scese a Kaioarri. 442 L’amico congelato Incontrò Hamaika al cantiere navale, il vecchio era in compagnia di una bottiglia verde piena di rum, e si sedette accanto a lui a guardare il porto. “Torni da una guerra?” gli chiese Hamaika. Goio rimase in silenzio. “È stato per una donna?” disse Hamaika. “Come fai a saperlo?” chiese Goio. “Ah, le donne della costa!” disse Hamaika. “Cosa hanno di speciale le donne della costa?” “Che sono di sabbia!” disse Hamaika ridendo. “Ma comunque, a volte sono meravigliose!” Poi scese la notte e una luna piena come un piatto di latte illuminava ovunque. Si portò la bottiglia alle labbra per verificare che davvero fosse vuota. “Tu vivi con Klara, no?” gli chiese Goio. “Nella vita di un uomo ci sono due donne, quella che ti dà la vita e quella che te la toglie...” Ed iniziò a imprecare contro Klara: “Quella donna fa pagare l’affitto anche ai ragni!” 443 Rimase a lungo a guardare, con occhi da pesce morto, la bottiglia verdastra sferzata dai raggi della luna. “Vado da Felipe” disse per concludere. E si allontanò nell’oscurità curvo e barcollante. “Fa freddo!” disse Hamaika allontanandosi. “Il freddo è come il sesso dei cani, una volta che entra ci resta un bel po’!” Goio andò a Kaioarri e, quando stava per arrivare all’imbarcazione arenata, trovò un gabbiano per terra. Ferito, malato o troppo vecchio, era praticamente morto, perché gli uccelli non diventano cadavere quando perdono l’ultimo respiro ma quando perdono la voglia di volare. Tra le pietre della riva, il gabbiano non aveva forze nemmeno per muoversi. L’aria era fredda e Goio portò il gabbiano dentro la barca. Juan Bautista, Goio e alcuni altri ragazzi di Kalaportu conoscevano molti gabbiani appena nati. 444 L’amico congelato Si erano presi cura e ne avevano salvato più d’uno cascato dal nido. Le piume che avevano all’inizio cadevano come i fiori di San Giuseppe per lasciar crescere le piume più forti. Era davvero bello lo sguardo di quegli occhi neri e rotondi! “Gli uccelli hanno gli occhi dove noi abbiamo le orecchie” mi avrebbe detto una volta Goio. “E le orecchie?” “Le avranno sotto le ali, non so.” Davano un nome ad ognuno di loro: Zampasporca, Hongkong, Uccellogrigio, Peruloti, Vedovanera, Pioggerellina … Quando uno era in grado di volare e sopravvivere da solo, lo lasciavano libero. All’inizio non aveva molta fiducia nelle sue ali, le apriva ma non osava alzarsi in volo. Le allargava e le richiudeva demoralizzato. Poi si preparava per spiccare il volo, sembrava dubitasse ma, una volta staccatosi da terra, si sarebbe stupito nel vedersi in aria ad ali spiegate. 445 24 MAPPING Il giorno dopo, sentirai un rumore simile a un tuono e salirai in coperta. Da lì vedrai la lunga linea del continente ghiacciato brillare biancastra a sudest. Quella gigantesca muraglia che vedi davanti ai tuoi occhi ti ricorderà la catena montuosa di Urbasa. Gli occhi interiori usciranno dall’abisso dell’invisibile e, all’improvviso, ti mostreranno la gigantesca parete rocciosa visibile da Urdiandi o da Bakaiku sulla strada tra Gasteiz e Iruñea, L’imbarcazione procederà parallela alla costa e ai grandi blocchi di ghiaccio che vedrai cadere dalle pareti al mare con il rumore di una cannonata, minacciando chiunque voglia passarci vicino. Prima di sentire il tuono, vedrai un blocco staccarsi dalla parete e precipitare nelle acque che lo abbracceranno sollevando onde tutt’attorno. 446 L’amico congelato Grandi onde come smarrite arriveranno fino a voi, scuotendo la nave. Il vento soffierà da sudovest. Il tempo sarà stupendo e il mare calmo, splenderà il sole. Ci saranno solo due colori, quello dell’acqua e quello della neve, blu e bianco, con innumerevoli combinazioni e sfumature impossibili da classificare. I riflessi dei raggi del sole sul ghiaccio saranno meravigliosi, alcuni pezzi di ghiaccio prenderanno un colore violaceo sulla superficie del mare, altri diventeranno rossi, come se fossero illuminati all’interno. Appariranno enormi blocchi di ghiaccio ovunque, come esploratori mandati dal continente. Alcuni inizieranno un viaggio verso luoghi lontani, simili a fantasmi pellegrini. Non li vedrai mai fermi, nemmeno con il mare calmo. Andranno di qua e di là, cambiando velocità in base alle correnti o alla direzione del vento. L’imbarcazione procederà lentamente, cercando di evitare i blocchi di ghiaccio. “Quando da un iceberg si stacca un pezzo grande, viene meno il centro di gravità ed è possibile 447 che si capovolga...” ti dirà Axel. Nel lungo pomeriggio si formeranno banchi di nebbia, nasconderanno il mare e le isole basse, lasciando alla vista solo la cima dei monti, ma la nebbia sparirà alla svelta e il paesaggio si aprirà di nuovo. E sarà incredibilmente bello. “La casa di zucchero” dirà Edna. Sembreranno le grandi magioni di Deep South. Maestose case aristocratiche, alcune superbe, altre più semplici, ma tutte fredde. Nemmeno se i blocchi fossero di zucchero riuscirebbero a mitigare l’amarezza e il freddo del luogo. E un altro blocco di ghiaccio assomiglierà, per continuare con i paragoni, a una gigantesca campana bianca in assoluto silenzio sopra le acque. Ma forse, penserai, si sentiranno i suoi rintocchi nelle abissali profondità del mare. Poi sarà la volta degli iceberg antropomorfi. Guarda quello: sembra un corpo umano, ingrigito e curvo, come un vecchio. Quel vecchio o quell’anziana donna avranno dei grandi buchi nel petto, nei quali il vento si insinuerà facendo 448 L’amico congelato fiuuu per andarsene poi lentamente in un respiro agonizzante. Axel si metterà accanto a te con i suoi strumenti nautici: “74 metri” dirà, calcolando l’altezza del corpo di ghiaccio. Guarda quell’altro, un testone che sembra quello di un gigante che dorme in piedi con gli occhi chiusi. Mentre lo state osservando, all’improvviso, si staccherà il pezzo che sembra la fronte e cadrà in mare con un frastuono terribile, sollevando onde impressionanti, e l’intera testa comincerà a dondolare e i due grandi blocchi di ghiaccio oscilleranno su e giù, come se i loro piedi stessero saltando sul fondo del mare. E una gran quantità di onde colpiranno e faranno dondolare la Iron Will. Poi le onde si placheranno fino a calmarsi del tutto, il testone recupererà il suo gigantesco mutismo e accanto a lui apparirà un altro blocco di ghiaccio, la testa di un gigante un po’ più piccolo. “Una volta perso il centro di gravità possono capovolgersi su se stessi...” sentirai di nuovo. Ti renderai conto che è pericoloso 449 passare accanto a quei giganti, possono girarsi all’improvviso, come un bambino che, dopo essere stato a lungo in mare a tremare dal freddo, decide di mettersi a nuotare. Più avanti, vedrete un iceberg a forma di arco. “L’Arco di Trionfo di Parigi” dirà il nostromo. Vi ritroverete tutti sul ponte ad ammirare questo monumento naturale. “Ci passeremo sotto...” dirà il nostromo. Penserai che stia scherzando. Invece non si tratta di uno scherzo e inizierà subito a discutere con il timoniere. Alla fine sarà lo stesso nostromo a prendere il timone. E condurrà l’imbarcazione verso l’arco di trionfo di ghiaccio. Anche senza passarci sotto, sarà comunque impressionante e anche molto bello. L’imbarcazione procederà lentamente pal pal, di bolina, costretta a schivare i blocchi di ghiaccio sempre più numerosi. Ghiaccio grande e piccolo, blocchi che occuperanno sempre di più la superficie dell’acqua, un pericolo continuo per l’imbarcazione che neppure ferma sarebbe 450 L’amico congelato comunque al sicuro. Ci sarà luce di giorno e di notte e nemmeno guardando l’orologio saprai stabilire che ore sono. Ti si irriteranno gli occhi, per via del vento e del freddo. Il sud diventerà scuro, prenderà un colore grigio, si leverà il vento da sudest, molto forte anche se non agiterà il mare. Poi inizierà a nevicare, fitto e incessantemente. Non si vedrà più niente, eccetto in un raggio di pochi metri. “Spegnere i motori!” ordinerà il nostromo. Senza visibilità non si potrà continuare perché, avanzando con la prua come ciechi, potreste andare a sbattere contro uno dei blocchi di ghiaccio. Anche con il motore spento e l’imbarcazione ferma, vi si avvicinerà da sinistra una montagna che vedrete solo quando vi sarà quasi addosso. Poi se ne approssimerà un’altra da poppa e ve ne accorgerete solo quando colpirà violentemente l’imbarcazione. Ti toccherà il turno di guardia, in coperta e, guardando la neve cadere sulla calma superficie nera del mare, ti sentirai venir meno. “Sembra che stiamo scalando il globo” ti dirà 451 Edna alle tue spalle. State risalendo verso l’alto mentre sotto, nelle oscure profondità, affondano il mare e i blocchi di ghiaccio. Ti sentirai svenire e ti stringerai a lei. Nella tua cabina, grazie al tè caldo preparato da Edna, recupererai conoscenza e forza. Il tempo migliorerà e tutt’attorno si vedrà ghiaccio ammucchiato come fossero calcinacci di un cantiere. Qua e là svetteranno alcuni iceberg ma la superficie del mare sarà coperta da piccoli pezzi. Riacceso il motore, trrr trrr trrr riprenderete la navigazione. Qualcuno dovrà avvicinarsi alla prua per avvisare il timoniere: “Avanti tutta!” E avanzerete. “Virare!” e girerete a dritta lentamente. Cozzerete sempre più frequentemente. Utilizzerete lunghe pertiche e stanghe per spostare il ghiaccio, allontanare i pezzi più piccoli ed evitare 452 L’amico congelato che l’imbarcazione finisca contro quelli più grandi. “Retromarcia!” Vedrete molti uccelli sorvolare il ghiaccio, gabbiani e procellarie volteggiare sopra di voi, pronti a tuffarsi in acqua a gran velocità appena vi si getta qualcosa. Ci saranno anche foche amanti del sole distese su blocchi di ghiaccio appiattiti, mostrando la loro originale morfologia: lucide teste calve, occhi rotondi e affettuosi, lunghi baffi, corpi pesanti e puliti. A un certo punto, Axel avvicinerà all’acqua un lungo bastone con un termometro sulla punta. All’improvviso sentirà un colpo, qualcosa tirerà il termometro verso il basso.“Una foca mi vuole portar via il termometro!” inizierà a gridare. Lo aiuterai a far forza verso l’alto e apparirà il muso della foca, con il termometro stretto in bocca, e non aprirà il morso finché non avrà tutto il corpo appeso in aria. Poi rideranno di Axel: “Povera foca, voleva provarsi la febbre e tu non gliel’hai permesso, che poco cuore con la 453 fauna.” L’imbarcazione bianca continuerà il suo viaggio, tra difficoltà scoraggianti, con una triste lentezza. La temperatura dell’acqua del mare sarà di due gradi, sotto zero. “C’è mai stata vita umana in Antartide?” chiederà qualcuno. Questo sarà uno degli argomenti di discussione. Qualcuno dirà di sì, qualcun altro di no e ci saranno spiegazioni di diverso tipo. “Anticamente, la massa di terra era concentrata in un unico continente” spiegherà Axel. “Una delle basi di questa teoria, è la forma complementare dei continenti. Avvicinando l’America e l’Africa, per esempio, l’Africa equatoriale si incastra perfettamente con le Antille, e anche il promontorio brasiliano coincide perfettamente con il Golfo di Guinea. Inoltre i continenti si allontano l’un l’altro di quattro o cinque centimetri ogni anno.” “Quindi, a quei tempi, dove si trovava l’Antartide?” E mentre tu ti troverai a dritta, un compagno punterà l’indice verso la lontananza grigia: 454 L’amico congelato “L’Antartide sarebbe dove attualmente si trova l’Oceano Indiano.” “Ma non ci sono prove di questo.” “C’è il carbone, e il carbone proviene dalla vita vegetale. E nell’ardesia sono stati trovati fossili di tronco di felce. Anche questa terra è stata, un tempo, una zona subtropicale e verde.” “E i resti di vita a quando risalgono?” “Antecedenti all’era degli ominidi, prima che i dinosauri dominassero la terra.” Ci saranno molte discussioni, sarà una delle forme per intrattenersi a bordo, discutere. Molte di queste diatribe verranno facilmente risolte grazie all’enciclopedia di Oxford, la soluzione di altre rimarrà in sospeso per giorni come un moscone che gira, e ci sarà anche qualche partecipante esasperato che negherà qualsiasi soluzione, persone che dopo aver discusso rimarranno mute come fossero poliedri, uno accanto all’altro, trasformati uno in un cubo e un altro in un cilindro. Il mare sarà quieto con onde di ponente. A sudest si vedrà una bianchissima terrazza che si allunga definendo l’orizzonte, la cui superficie sarà 455 coperta dalla nebbia. “Uno spettacolo per la fine del mondo” dirà Edna, indicando il sole che si moltiplicherà nei cani solari. “Qual è il sole vero?” le chiederai scherzando. Sei soli, sei aloni di sabbia. “Credevo fosse la luna” dirai ironicamente. Poi inizierà a nevicare. E scenderai in cabina a disegnare cormorani. All’improvviso, sentirai un forte boato. Salirai correndo in coperta e riuscirai a vedere un’enorme montagna di ghiaccio che perde pezzi e si gira su se stessa. Sarà a una distanza di circa duecento metri e dalle acque sorgeranno muraglie erranti, lanciate da una bomba subacquea, generando grandi onde e mulinelli, e la superficie si popolerà di resti di ghiaccio di tutte le dimensioni. Mentre l’enorme montagna di ghiaccio, poco a poco, tornerà alla sua posizione di equilibrio iniziale. Nel mare increspato l’imbarcazione inizierà a dare testate e a dondolare. Quando penserete 456 L’amico congelato che è tutto finito, lo spettacolo si ripeterà, con la caduta di un terzo del grande blocco. Il timoniere, prudentemente, allontanerà l’imbarcazione da quel luogo inadeguato e contemplerete lo spettacolo in silenzio, da più lontano. “L’instabile equilibrio” dirà qualcuno. “Lo stabile disequilibrio” dirà un altro. Axel calcolerà l’inclinazione del sole. Se la temperatura a mezzanotte era di circa –6º, a mezzogiorno sarà di +6º approssimativamente. Immergerà la sonda e così saprete che la profondità dell’acqua è di 75 metri e che i fondali sono rocciosi. Verrà anche dragato il fondale per raccogliere campioni di frammenti di roccia e numerose specie zoologiche. “Ne vuoi una?” ti dirà Axel. Così prenderai una pietra nera e piatta. Il vento soffierà da nordest. Farà uuh uhuuunh come se una moltitudine di labbri leporini soffiassero, tutte assieme, dal nordest. Grandi masse di ghiaccio si staccheranno dalla fascia bianca del continente e inizieranno a 457 navigare. Davanti a voi, si vedrà una fila di cime bianche che sembreranno sentinelle giganti poste a chiudere il passo al continente o un treno di sedici o diciassette vagoni bianchi. “A babordo!” ordinerà il nostromo, pensando che quel gelido treno fantasma si metta in moto. La notte sarà chiara. Vedrete due balene in lontananza, dirette a sud. Axel Fountaine ti inviterà nella sua cabina e rimarrai a guardare la grande cartina dell’Antartide che ha sulla parete: “L’Antartide, per convenzione, si colora di bianco nella parte inferiore dei mappamondi. Ma quello che si mostra nelle cartine è uno strato di ghiaccio, non il continente. Si credeva che questa cappa di ghiaccio ricoprisse la terra che si trova sotto e che coincidesse con il continente, quindi, che si trattasse di un sottile strato di ghiaccio che ricopre la terra. Invece questa cappa di ghiaccio non è per niente sottile...” Axel inizierà a preparare il tè: “In ogni caso, sappiamo meno della topografia dell’Antartide che di quella della Luna...” 458 L’amico congelato Allora gli chiederai: “Le cartine sono oggettive?” “L’autore delle cartine è soggettivo. Oggettivi sono solo gli oggetti. Cosa vuoi dire con “oggettivo?” “Se è possibile fare delle cartine vere.” “Vere?” chiederà Axel. “Le cartine sono allo stesso tempo soggettive e oggettive. Nella storia della cartografia occidentale c’è stata una graduale evoluzione, dalle antiche mappe piene di immaginazione, a quelle contemporanee ottenute con apparente precisione. Il Beato di Liebana per costruire la cartina che illustrava i suoi Commentari dell’Apocalisse, aveva preso come riferimento le testimonianze dei viaggiatori e i libri religiosi, e aveva collocato il paradiso a nordovest del mappamondo e, oltre all’Europa, all’Asia e all’Africa, una terra incognita dall’altra parte del mare, perché gli apostoli erano stati inviati ai quattro estremi della Terra. Mentre l’autore di una carta geografica contemporanea si baserà su 39 milioni di pixel ottenuti con un satellite, anche se utilizzerà questa informazione a modo suo...” Ti dirà che le carte geografiche del XIX 459 secolo erano molto eurocentriche, adattate agli interessi commerciali, politici e scientifici dei governi coloniali europei. Che avevano caratteristiche convenzionali: il Nord in alto, il Sud in basso, la longitudine zero fissata su Greenwich e l’Europa al centro del mappamondo. E che le convenzioni diventano abitudini, la loro natura arbitraria viene dimenticata e vengono scartate le altre carte, considerate primitive e soggettive. Allora Axel aprirà una grande cartella e ne estrarrà sei o sette carte. Sulla cartella si leggerà Mapping. “Questa è la carta del gruppo Geosphere Project, messa a punto a Santa Monica e a Pasadena e basata su 39 milioni di pixel inviati dal satellite Ptolomeus-2. Sembrerebbe quindi realizzata da un occhio elettronico imparziale e obiettivo. Nonostante questo, renditi conto del peso ideologico che porta con sé: il Nord è sopra, l’equatore al centro, l’Oceano Atlantico in mezzo... la manipolazione è evidente. Sono state eliminate le nuvole, anche se chi osserva la Terra da lontano vedrà una gran parte del pianeta coperta dalla 460 L’amico congelato nuvole che sono una delle sue caratteristiche. Quindi, gli scienziati di Santa Monica e di Pasadena hanno eliminato, pixel dopo pixel, la maggior parte dei resti di nubi. D’altra parte, sono stati tracciati i fiumi, vedi? Inoltre il mappamondo è stato colorato, come lo studiano i bambini i primi anni di scuola, il verde per rendere più vivo il manto vegetale, il bianco per rendere più candida la neve. Sono stati attribuiti colori falsi, paradossalmente per rendere più verosimile la cartina.” Poi ti mostrerà un altro mappamondo, realizzato sempre a Pasadena con l’informazione inviata dal satellite Seasat-4. In questo non sono presi in considerazione i continenti e il mare sarà colorato in base alla profondità indicata dalla misurazione dei cambi gravitazionali. Poi ti mostrerà un’altra carta geografica scura: “Questa è stata fatta da Joseph Stonehead, all’università di San Francisco. Anche questa si basa sulle informazioni del satellite, ma rilevate di notte, con tutto il pianeta al buio e si evidenziano solo le luci delle città. Che te ne pare?” Sarà praticamente nera, con dei punti 461 bianchi. I continenti non saranno marcati ma i punti bianchi, che sono l’immagine della luminosità delle città, nella loro disomogenea distribuzione, ricordano la geografia mondiale a cui siamo abituati. “Il mondo di notte, no?” “Ma è una notte imposta, perché non è mai notte fonda su tutto il pianeta contemporaneamente.” Saranno le tre del mattino e in cielo ci sarà una luce rossastra. “E che tipo di carta geografica farai al ritorno?” gli chiederai. “Il mio mappamondo avrà il Sud in alto e l’Est a sinistra...” Sorriderai e salirete in coperta. Le foche dormono sui blocchi di ghiaccio, nere con la loro copertura oleosa e macchie giallastre. Benché l’imbarcazione si avvicini, non si sveglieranno finché il rumore non diventerà assordante, allora apriranno un occhietto, come se facessero l’occhiolino, senza paura, senza stupore muoveranno leggermente il corpo alla ricerca di una posizione migliore per dormire, chiudendo gli occhi per il dolce riposo. Il vento del sud porterà altri pezzi di ghiaccio 462 L’amico congelato e cercherete di proteggere l’imbarcazione con le pertiche. La costa sarà in pieno disgelo e si sentiranno numerosi boati, come se si stesse combattendo una dura battaglia non molto lontano da lì. Soffierà il vento e la baia sarà invasa dalla nebbia. Il barometro sarà molto basso. Le nuvole arriveranno da nordovest sotto forma di masse nerissime. A nordest sarà più chiaro ma l’aria sembrerà d’acciaio. Poi l’imbarcazione si avvicinerà alla barriera di ghiaccio. La muraglia è di un bianco implacabile, verticale e inespugnabile. Bisogna trovare un luogo più adatto per sbarcare. Avanzerete in direzione sudest, alla ricerca di una baia. Scenderai in cabina e inizierai a tracciare un’altra cartina. Farai un mappamondo soggettivo. Collocherai l’Antartide in mezzo e ingrandirai il vermiciattolo di Cuba, così come l’arcipelago di Capo Verde, e anche tutta l’Africa, se vuoi. Disegnerai anche l’Europa, ma la frontiera occidentale del continente sarà costituita dal Belgio, dalla Svizzera e dall’Italia. Non dimenticare che la 463 Francia e la Spagna rimarranno sommerse dalle acque e a sudest dell’Europa ci saranno due isole, un Portogallo completato dalla Galizia e il Paese Basco. Dopo questa piccola vendetta, se così la vogliamo chiamare, lascerai il tuo bozzetto sul letto e tornerai in coperta. Ci sarà brutto tempo, un forte vento di nordest, neve e grandine, nonostante ciò rimarrai a dritta sotto i cristalli di neve taglienti come coltelli. Allora guarderai verso il basso e, davanti alle tue scarpe, vedrai un topo che passeggia indeciso da prua verso poppa. 464 L’amico congelato 25 LE ARMI E IL QUADERNO Goio si sorprese del fatto che sua madre fosse così arrabbiata. “Non si è mai visto niente del genere in questa casa!” E così sua madre gli disse, molto risentita, che non si era mai vergognata tanto come quel giorno a scuola, dove madre e figlio erano stati convocati alle sette da Padre Solana e dal Direttore e, dato che Goio non si era fatto vedere, aveva dovuto andarci da sola. “Dove ti eri cacciato? Ti ho cercato dappertutto!” Avevano avvisato la donna che, la prossima volta, avrebbero espulso il ragazzo dalla scuola. “Non ho fatto niente di male” fu l’unica cosa che disse Goio. “Non hai fatto niente di male? L’hai combinata 465 bella!” Il direttore aveva elencato alla madre tutte le sue birichinate. Fare le caricature di alcuni professori, le voci sulle sue relazioni con le ragazze, le scazzottate nel cortile della scuola... “Dobbiamo pagare l’affitto della casa e non credere che la scuola sia gratis.” Goio stava guardando fuori dalla finestra girando le spalle alla madre, senza rispondere né dire niente. Anche la madre rimase senza parole e scoppiò a piangere. Aveva ragione, tutti i mesi dovevano pagare l’affitto e la retta della scuola. E il salvadanaio di Goio era sempre vuoto, perché praticamente tutti i giorni svuotava abilmente quel grasso maialino dalla fessura che aveva sulla schiena. Dopo una serata del genere, il giorno dopo Goio arrivò a scuola sapendo cosa lo aspettava. 466 L’amico congelato Io, invece, mi svegliai senza sapere niente. Alle otto del mattino, quando stavamo per entrare in classe, Padre Solana ci chiamò, prima Goio e poi me, dicendoci che il Direttore voleva parlare con noi. Ci andammo assieme ma senza rivolgerci la parola. Ci fermammo davanti alla porta della Direzione, in corridoio, senza bussare. Da dietro la porta socchiusa sentimmo la voce del Direttore, Entrate. E vedemmo la sua testa pelata che sembrava di marmo lucido, Sedetevi. Alzò la testa, ci mostrò un foglio e sottolineò la gravità della questione: “Siete stati voi ad affiggere questa caricatura di un professore...” Quando il Direttore ci mostrò il vecchio disegno, rimanemmo in silenzio, un uomo sorridente che mostrava con ostentazione la sua forte muscolatura. Un reato con connotazioni politiche che, così lo qualificò il Direttore, se sottoposto alla giustizia comune, potrebbe portarvi in carcere. Allora mi disse: Lei, e lesse l’elenco delle 467 mie fughe che aveva annotato su un quadernetto, mentre io mi ricordavo della notte di luna piena in cui, salite le scale di due in due e mentre scriiih scriiih percorrevo il corridoio incerato, era apparso in un angolo Padre Solana. Il 5 ottobre alle dieci meno cinque, il 13 ottobre alle dieci, il 23 ottobre alle undici meno dieci, il 3 novembre alle undici e venti... All’improvviso, interruppe quella cronologia e guardò Goio. Un tema ancora più grave e spinoso, e fece l’elenco di tutte le volte che Goio era andato a trovare la professoressa di francese a casa sua. “Come vede, sappiamo tutto” disse Padre Testapelata con una certa curiosità. Goio era pallido e la corrente di parole del Direttore muoveva appena quella testa rossa che sembrava di ghiaccio. Disse che, in fin dei conti, eravamo ancora giovani e che, poco a poco, ci saremmo messi sulla retta via. Ci avrebbe dato la possibilità di dimostrarlo. Allora parlò della confessione e del pentimento. “La professoressa di francese ha cercato di 468 L’amico congelato sedurla?” chiese. “Mi ha dato qualche lezione di francese perché ero indietro rispetto agli altri, nient’altro.” “Ne è sicuro?” “Sì” disse Goio. Può andare, disse a Goio. “Perché vi siete azzuffati, Lei e Goio?” mi chiese il Direttore quando rimanemmo soli. “Perché è uno che se ne approfitta.” “Se ne approfitta?” chiese stupito. “E cosa significa? Cosa fa? Di cosa si approfitta?” “A calcio, Goio gioca da solo, invece di passare la palla a un compagno che è in posizione migliore della sua...” “Ejem, ejem!” fece, come se volesse schiarirsi la voce. “L’aiuterò a recuperare la memoria. Un giorno Goio è arrivato a scuola con le labbra sporche di rossetto...” “Rossetto, rossetto, che cos’è?” dissi. Mi disse che c’era in gioco qualcosa di assai più grave delle semplici bravate di un ragazzino, l’onore di tutti i ragazzi della scuola poteva essere in pericolo. 469 E mi mise in mano un foglio bianco, che avrei dovuto riempire su entrambe le facciate spiegando cosa facevo e con chi andavo quando uscivo dal collegio, un foglio come quelli di matematica, senza data, bianchissimo, Darà un dispiacere ai suoi genitori, se non lo scrive. Aggiunse: Constatato il suo reiterato rifiuto di collaborare, inoltreremo un ammonimento anche contro di Lei, come se mi stesse dando il permesso di ritirarmi. E uscii da lì con una sensazione di libertà. Entrai in classe quando la lezione di Geografia era già iniziata da parecchio. Inazito era sulla pedana accanto al mappamondo, con il professor Patricio. “I meridiani sono circoli che passano dai poli della Terra,” stava spiegando il professore. “I paralleli sono circoli sulla superficie della Terra, paralleli all’equatore.” Mi sedetti al mio banco vicino a Goio e, senza dire niente, presi il mio quaderno pieno di 470 L’amico congelato scarabocchi, la gomma e le penne. Poi dissi a Goio sottovoce: “Dobbiamo parlare.” “Quando vuoi.” “Credo che vogliano mandar via Ariane.” “Sì” confermò Goio quasi senza aprire la bocca. “I paralleli e i meridiani inventati dai geografi formano una rete attorno alla Terra,” disse il professor Patricio e chiese, indicando Inazito, “ma perché?” Inazito, tac, fece girare il mappamondo come faceva il professor Patricio, mentre rispondeva: “I meridiani e i paralleli catturano la terra nella rete, per legarla un po’. Proprio così, in modo che non scappi...” “Ti stai prendendo gioco di me?” disse il professor Patricio molto serio. “Io, no” disse Inazito, innocentemente. Lo castigò immediatamente. Gli ordinò di stendere il braccio e di aprire la mano. Prese la riga di legno e lo colpi tac sul palmo della mano. Inazito non tolse la mano. 471 “Uno, due, tre...” contava il professor Patricio. Se avesse chiesto scusa o se si fosse messo a piangere forse si sarebbe fermato. Ma Inazito non diede cenni di cedimento e il castigo continuò fino a completare i dieci colpi. Il risveglio, in quei dormitori tetri e gelidi del collegio, era triste. Alle sei del mattino, senza mai sgarrare un giorno e senza ritardi, Padre Solana suonava la campanella. Dovevamo uscire immediatamente dal letto, tremanti di freddo, arrabbiati, in un quarto d’ora andare in bagno e vestirci, scendevamo in refettorio e lì, come prima cosa, dovevamo recitare un Padre Nostro. Io, che mi ero dimenticato le preghiere, mi limitavo a muovere le labbra. Goio, invece, si sentiva soffocare come non mai dall’ambiente di casa. Le parole di sua madre, Devi voler bene ad Andres, sei mio figlio, il mio amato figliolo, erano insopportabili, soprattutto se pronunciate con affetto. Inoltre Andres passava da 472 L’amico congelato casa loro tutti i giorni. I vecchi armadi, la voce della radio, c’era qualcosa di intollerabile in quella casa, la polvere che si posava su ogni cosa o l’odore di candeggina, non li reggeva ed usciva per strada. Ma anche fuori, se fino ad allora si era trovato con gli amici per giocare a biglie, o a calcio, per costruire una capanna segreta o per uscire in barca e, fino ad allora, aveva pensato che gli amici e la famiglia fossero per sempre, ultimamente aveva perso queste certezze e si sentiva confuso. Rimaneva a guardare il mare e una strana alchimia si impossessava di lui, un’inquietudine che lo spingeva a staccarsi dai legami che aveva con il paese. Vedeva Ariane in classe e aveva di nuovo difficoltà a parlare in francese: “Che cosa significa questo?” mi chiese una volta dopo un dettato. Un pays que jamais ne rejoint le soleil natal. “Credo che rejoindre significhi unire o trovare” le risposi. Nemmeno io capivo bene la frase. Dopo qualche giorno, vide Ariane fuori da 473 scuola, era sera e pioveva. Aveva iniziato a diluviare e Goio, tornando verso casa, si era fermato al cantiere navale a guardare il porto, mentre la pioggia faceva venire la pelle d’oca al mare. Gli scaricatori, protette le mercanzie, si erano rifugiati al coperto e, inaspettatamente, vide Ariane sulla strada per Kaioarri, il soprabito scuro, le mani in tasca, i capelli bagnati, che saltava per schivare le pozzanghere, sola. Goio si nascose e Ariane passò, diretta a casa sua. Poi andò a Kaioarri, a cercare il gabbiano che aveva nascosto nella nave. Non lo trovò nell’angolo dove l’aveva lasciato. Uscì fuori e non lo vide nei dintorni. C’erano altri gabbiani che volavano attorno, volteggiando nella nebbia ma con nessuna intenzione di dare informazioni sul loro compagno. Entrò di nuovo, per sedersi al coperto. “Grae grae” sentì. Si inoltrò all’interno dell’imbarcazione, la perquisì nella penombra e trovò il gabbiano sopra un’asse. L’uccello sbatté i suoi occhi laterali, aveva 474 L’amico congelato le piume gonfie e sembrava grasso ma, quando lo prese in mano, Goio sentì che era pelle e ossa. Allora, in un angolo, vide le estremità di una borsa, spostò l’asse e prese il sacchetto di plastica. Pesava e, nell’aprirlo, vide tre pistole. Tre pistole come quelle che vedeva nei film o che immaginava nelle fondine dei guardia civil, ma queste erano vere, nere, pesanti e fredde. All’interno della borsa, avvolta da una plastica gialla, c’era anche della plastilina o una specie di pasta come quella che si usa per sigillare i bordi dei vetri alle finestre, e un quaderno scritto a mano. Iniziò a leggere quel quaderno che parlava di esplosivi. Era scritto in basco, con una penna blu, spiegava che tipo di materia è l’esplosivo, come si preparano gli ordigni, qua e là c’erano dei disegni che illustravano le quantità e come e dove collocarli per far saltare un edificio, e sotto il disegno dell’edificio c’era scritto caserma, e c’erano anche delle annotazioni in spagnolo o in francese, aggiunte in rosso, correzioni o integrazioni di quanto scritto in blu. Sul fianco di una pistola lesse Firebird, Goio 475 fino a quel momento aveva visto solo le pistole, le mitragliatrici e i fucili dei guardia civil, e quelli non parlavano basco. Era bagnato, sentiva il freddo nelle ossa, e rimase lì a guardare il gabbiano in quel pomeriggio morto. La pioggia cadeva sul mare e le onde che si frangevano contro il braccio esterno del porto erano altissime. 476 L’amico congelato 26 L’AMICO CONGELATO Non ho potuto togliermi dalla mente l’immagine del comandante con i baffi a forma di corvo e ho deciso di parlarne con Arantxa. Nell’aprire il cancello del casolare, con la mano ancora sulla maniglia, vedo i due cani pastore che si avvicinano correndo e abbaiando. Quando mi blocco spaventata, iniziano a girarmi attorno mostrando i denti da orecchia a orecchia e ringhiando in stereofonia. “Via da lì!” sento gridare in basco e vedo Arantxa scendere verso di me dalla porta del casolare. “Maribel, vieni!” dice Arantxa. “I cani non ti faranno niente...” Adesso le bestie mi si avvicinano muovendo 477 la coda e annusandomi e mi accompagnano fino all’entrata, saltellando fra i miei piedi. “E Goio?” mi chiede Arantxa con le braccia aperte e la faccia allegra quando la raggiungo. “Mi sembra che stia sempre meglio.” Se la casa, invece di una palma, avesse un altro albero a fianco, potrebbe davvero essere un casolare sulle falde di un qualsiasi monte basco. Sul prato cammina un uomo con aspetto da cowboy, pare uscito da un film western: cappello, camicia, jeans e una pistola infilata nella fondina che porta alla cintura. “Dove non ci sono cani, la volpe la fa da padrona” dice Arantxa, cacciando a calci le due bestie. Immagino che debba essere un detto di Jose Urioste che avrà pensato alle volpi, ai tassi e ai cinghiali che popolavano le pendici del monte Gorbeia. “Tra l’altro questi cani sono intelligenti” dice Arantxa, “gli manca poco per essere come le persone.” Penso, ma non lo dico, che ad alcune 478 L’amico congelato persone manca poco per essere come i cani. Entro nel salotto timorosa di calpestare il tappeto bianco, e cerco di calcolare quante pecore, lama o guanaco saranno stati necessari per confezionarlo. “Quando inizierà a parlare, guarirà alla svelta...” dice Arantxa. “Arantxa, vorrei parlarti di una cosa importante. L’altro giorno ho visto Maialen ed era con un militare.” “Era in divisa?” “No. Era in borghese, su una macchina verde.” “Una Lancia Thelma Turbo.” “Non so di che marca fosse, era un’elegante auto verde.” “Non è un militare” dice Arantxa. “Era il comandante dei soldati che ci hanno arrestato sul treno. È stato lui a interrogarci.” “Non è un militare, è mio marito.” Mi sorprende la naturalezza con cui Arantxa me lo dice. Penso ai baffi del comandante, quel corvo sopra le labbra. 479 “Tuo marito?” “Sì, il padre di Maialen” dice Arantxa. “Ci arresterà!” le dico mentre lo sto pensando. “No, loro ci proteggono.” “Ieri a Barranquilla mi hanno seguita in macchina.” “Non preoccuparti” dice, e io avrei voglia di risponderle che è o un’ingenua o una stupida. “E come faccio a non preoccuparmi, ci uccideranno!” “La questione è semplice” dice Arantxa. “In questa fortunata repubblica hai bisogno della protezione dei militari. Perché sequestrano duecento persone al mese e perché ne ammazzano migliaia. Noi paghiamo una quota mensile ai paramilitari e loro ci proteggono. Tutti paghiamo qualcuno e non è una spesa inutile.” Da quando sono arrivata in Colombia ho sentito una paura diffusa e costante, ma adesso un improvviso terrore e uno strano tremore si sono impossessati di me. “Allora tuo marito è un paramilitare! Siamo capitati bene!” 480 L’amico congelato “Non siamo nati ieri, Maribel,” dice Arantxa. “Qui le persone vivono nel terrore, si stupiscono di essere ancora vive, come se esserlo fosse dovuto a una distrazione della morte. E loro ci proteggono.” “Ci proteggono? Ci controllano! E quando si renderanno conto che siamo baschi, ci uccideranno.” Arantxa se n’è andata nervosa in cucina. Io rimango qui, ad osservare questa grande sala addobbata, pensando che potrebbe essere una delle ultime cose che vedrò. Il caminetto, i lari, il mantice, la testa di tigre imbalsamata, il televisore, il videoregistratore e le videocassette: Titanic, Todo sobre mi madre, American Beauty, La guerra de las galaxias III, El beso del látigo... Questa vita è come un film che promette colore, emozioni, fascino, saggezza ma, quando la rivedi dopo un po’ di tempo, As good as it gets, Pocahontas, Tirar a matar, non è che una brutta versione di quello che sarebbe potuto essere, in bianco e nero, mediocre, noiosa. 481 “Che lavoro faceva vostro padre?” chiedo ad Arantxa quando ritorna dalla cucina con gli occhi umidi. “Era cercatore di smeraldi.” “Lo smeraldo è quella pietra preziosa verde, no?” “Da queste parti il commercio di smeraldi è uno dei settori dove si fanno affari, assieme al caffè, al petrolio e alla cocaina...” “Venne qui nel dopoguerra, vero?” chiedo ad Arantxa. “Mio padre era molto giovane, quando finì la guerra aveva diciannove anni” inizia a raccontare Arantxa. “Da Santander ritornò a piedi a Orozko, nascondendosi nei boschi. Davanti alla porta chiusa del casolare trovò il gregge, le pecore erano tutte lì, davanti all’entrata, senza pastore, in silenzio e, quando lo videro, iniziarono a belare. Il casolare era chiuso e così, per entrare, ruppe una finestra, ma non trovò né i suoi genitori né i suoi fratelli. Vide l’aratro rotto in fondo al campo, un giogo spezzato vicino all’abbeveratoio e una pelle di pecora nel 482 L’amico congelato fango, tutta sporca. Il camino era spento e freddo, prese della legna e accese il fuoco.” Arantxa parla lentamente, con cautela, facendo delle lunghe pause. “Allora, mentre guardava il fuoco, si rese conto che il fumo si sarebbe visto anche da lontano. Aprì la finestra e vide le pecore che si allontanavano, strette in gruppo su per il sentiero, con quel modo di ammucchiarsi che le caratterizza quando hanno paura. Capì che sarebbero venuti a cercarlo e, salito di sopra, decise di nascondersi sotto il fieno. Arrivarono dopo poco, mio padre disse che forse erano guardia civil, ma non li vide, iniziarono a perquisire minuziosamente la casa e, per setacciare il pagliaio, presero le forche dalla stalla. Iniziarono a infilzarle nel fieno, erano tre o quattro, parlavano in spagnolo ed erano nervosi, perché, nascosto sotto il fieno, mio padre sentì il suono delle sicure delle armi e sentì anche il rumore brazzz prodotto dagli affilati denti della forca che perforavano il fieno: lo colpirono in pancia. Mio padre non gridò. Finché rinunciarono a cercare ancora e se ne andarono. Quando uscì dal suo 483 nascondiglio, accanto all’ombelico aveva altri tre buchi da cui sgorgava sangue.” Quando Arantxa smette di parlare si sente il rumore tic tac dell’orologio e il suono di un rubinetto aperto. “Si legò un brandello di lenzuolo alla vita e andò a piedi fino a Bilbao, dove raggiunse la casa dei suoi cugini. Rimase molto tempo a letto, con la febbre alta e in fin di vita, finché non si riprese. Fu lì che conobbe mia madre, che era cugina dei cugini, le promise che l’avrebbe sposata e decisero di partire assieme.” “Me ne vado, Arantxa” le dico. “Ti accompagno all’uscita.” Dal portico del casolare vediamo il cancello aprirsi e una macchina verde entrare. A sinistra scende la bambina e a destra il comandante e, tenendosi per mano, risalgono attraversando il giardino, mentre il cowboy porta al parcheggio la Lancia Thelma Turbo. La bambina si avvicina saltellando, tenuta per mano dal padre, il comandante, scuro, in abito elegante, con quei baffi che gli coprono la bocca 484 L’amico congelato come un uccello nero. Quando arrivano, sento un brivido. Arantxa bacia la bambina. Il comandante sorride e io cerco di evitare il suo sguardo. “Vieni fino al cancello a salutare questa amica” dice Arantxa a Maialen. Con la sua mano da iguana accarezza i capelli della figlia e io non sono in grado di dire niente. Mi ha fulminata con gli occhi, prima di continuare verso la casa. “No, voglio vedere il video di Shakira!” risponde la bambina, correndo dentro dietro a suo padre. Io e Arantxa scendiamo fino al cancello senza parlare. “Vuoi andare in macchina?” “No, vado a piedi.” E i pastori tedeschi ci accompagnano, senza mordere, senza abbaiare, docili. “Il fuoco acceso da nostro padre si consumerà pezzo dopo pezzo e si spegnerà,” dice Arantxa. “Noi non siamo il bosco.” Da qui si intravede la clinica, una casa bianca 485 sulla collina: sembra una balena addormentata. “Nemmeno a mio padre piacevano i baffi di mio marito” dice Arantxa con il suo dolce sorriso. “Sai cosa diceva? Se volete sposarvi, digli di togliersi quella scopa vecchia che ha sopra le labbra...” “Maribel!” sento chiamare. Cammino scriiih scriiih scriiih lungo la Galleria dei Passi Smarriti. “Maribel!” È una gran gioia sentire la voce del Rosso. “Cosa stai facendo, amico?” “Sono qui a fare degli stupidi esercizi.” Sento il desiderio di toccare i suoi capelli rossi. “Questo dev’essere Talete di Mileto, che cade in un pozzo. Anche quest’altro dev’essere Talete di Mileto, che passeggia, ti renderai conto che sta guardando una ragazza, e anche quest’altra immagine è di Talete di Mileto, tutto bagnato. Adesso bisogna mettere le immagini in 486 L’amico congelato ordine cronologico...” “Fallo.” “No, no, l’ospite sei tu.” “Ma io non sono molto ferrata in logica.” Allora, ridendo, mi dà la soluzione: “Questa è la mia versione: Talete di Mileto è caduto in un pozzo, ne esce tutto bagnato e pensa che non potrà andare all’appuntamento che ha con la ragazza ma alla fine è felice perché, quando la ragazza appare, i vestiti sono già asciutti...” Goio qui ha un amico pittore. Lo chiamano Fernando Botero, pur non assomigliando affatto all’elegante personaggio che appariva in quella fotografia su El Heraldo. “Togli ogni cosa, in modo che si possa vedere tutto” dice questo personaggio che ha la pelle olivastra, grosse lenti e che cammina a passi lenti. “Che cosa vuole togliere?” “Tutto...” Vuole togliere tutte le cose concrete perché lui è un pittore astratto. “Non sapete che sono astratto?” dice a Goio 487 e a me. Siamo rimasti a guardare il suo quadro. Mi sembra che abbia voluto dipingere il movimento dei dantzalore. “In ogni caso” dice Fernando Botero, “Vincent Van Gogh, quello senza un orecchio, aveva ragione: i fiori gialli sono più luminosi del cielo!” “Che titolo darai al quadro?” gli chiede il Rosso. “I dantzalore” dico io. Il pittore ci guarda e poi cede: “Sì, proprio quello!” Il Rosso ride e continuiamo a camminare, grazie alla sua risata non mi sento così bbk o, per lo meno, sento che la solitudine potrebbe iniziare a riempirsi di possibilità. “Conosci questa ragazza?” mi chiede il Rosso quando ci avviciniamo a una giovane che sta scrivendo. Ha i capelli lunghi e neri e anche gli abiti sono neri. Si tratta della ragazza che, dopo aver avuto una crisi epilettica, era rimasta immobile 488 L’amico congelato come una manta sul fondo del mare. “Passa le giornate a scrivere lettere a un tal T.” Sta scrivendo seriamente, con il tremore delle labbra tipico della follia. “L’essere umano è quello che nasconde qualcosa” dice la ragazza con un tono notarile. “L’essere umano è quello che fa qualcosa” dice il Rosso con allegria. “E anche quello che nasconde qualcosa” dico io, “questa ragazza ha ragione.” “E tu cosa nascondi?” mi chiede lui con l’intenzione di prendermi in giro. “Nove cose su dieci, come te.” Ci sono momenti in cui vedo tutto con un’amara lucidità, prima o poi ci troveremo circondati da uniformi mimetiche o da poliziotti spagnoli con aspetto da yuppie. Altre volte invece immagino dei cowboy con un revolver che proteggono un’inaspettata fuga mia e di Goio vestiti da indiani kiowa. 489 Protezione, così la chiama Arantxa. Nella Galleria dei Passi Smarriti c’è un grande orologio rotondo a cui manca la lancetta delle ore. “Meno dieci” ti risponderanno se chiedi l’ora. “Ma di che ora?” “Manca una lancetta!” ti diranno indicando l’orologio mutilato. Passo le ore a leggere. Nel libro di Sigmund Freud lasciatomi da Imanol ho letto che uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano è quello di essere amato e ho fatto un’orecchietta alla pagina. Che l’essere umano è sempre in pericolo e che anche da un punto di vista biologico ha bisogno dell’amore. E lì ho fatto il segno. E che questo bisogno è dovuto al fatto che veniamo al mondo così immaturi e indifesi, e che il bisogno d’amore non scomparirà mai. Mi viene voglia di andare dal Rosso e dirgli: “Non c’è altra soluzione. Dobbiamo credere nell’amore” e accarezzare i suoi capelli rossi. L’amore è un comportamento imperfetto che spinge l’essere umano dalla sofferenza al piacere, 490 L’amico congelato dal piacere al dolore e di nuovo dalla sofferenza al piacere. E chi aspira a sentimenti perfetti, raramente vedrà l’onda del desiderio negli occhi dell’altro. Noi baschi siamo piuttosto freddi quando dobbiamo esprimere i nostri sentimenti, forse un po’ di tenerezza migliorerebbe il nostro essere baschi. Ma non inizierò con le scuse stile Josu, con riflessioni su concetti astratti, quando il desiderio reale è accarezzare la chioma rossa di Goio. Attraverso la Galleria dei Passi Smarriti, che a volte mi sembra una giungla. Non una foresta ma una giungla. So che sul pavimento è stata data la cera, per questo i miei passi fanno scriiih scriiih, ma ho l’impressione di calpestare le foglie secche della giungla. “Ti stavo cercando” dice Imanol quando ci incontriamo. “Devo chiederti scusa, l’altro giorno, ubriaco com’ero, forse sono stato impertinente.” “No, non mi hai detto niente.” “Rispetto a Goio, invece, devo dirti che sta meglio.” “Lo so, sta molto meglio.” 491 “Come medico, io lo dimetterei,” Imanol mi riempie di gioia. “Ma, comunque, gli converrebbe rimanere qui ancora un po’, non si sa mai...” “Per la permanenza qui, sono piuttosto preoccupata. Non so ancora come, ma credo che dovremmo andarcene al più presto.” “Me l’ha detto Arantxa, che è stato il nostro sbirretto a farvi scendere dal treno e a interrogarvi. Hai ragione ad aver paura. Comunque, mio cognato non muoverà un dito contro di voi...” Facendo con le dita la lettera p dell’alfabeto muto, si porta una Marlboro alle labbra. “Al contrario” continua, “se ci fosse qualche pericolo ci avviserebbe. Non potete continuare a scappare da una parte all’altra senza fermarvi, Maribel, nelle guide Michelin o del Touring non sono indicate caverne e nemmeno abissi, ma chi viaggia trova buchi neri di ogni tipo e, per lo meno Goio, ha bisogno di tranquillità, almeno per un periodo, che sia in casa di mio padre o nella capanna di Tirofijo...” Parla come sua sorella, in modo fluido e lento, buttando fuori ogni tanto nuvole di fumo. 492 L’amico congelato “Puoi dire quello che vuoi, ma ho il sospetto che nessun basco possa vivere senza frustrazioni, senza questo profondo senso di rassegnazione. Tutti i baschi che ho conosciuto sono così, mio padre e i suoi amici, Manuel, voi. Dopo esservi sentiti quasi stranieri nel vostro Paese, potete andare in qualunque luogo e vi adattate al paesaggio come animali che sanno mimetizzarsi, ma non diventerete mai gente del posto. Perché il vostro cuore fossilizzato prova vergogna per essere scappati dalla vostra terra. La lontananza dal luogo d’origine, il mimetismo con il paesaggio, il cuore pietrificato. Sarà anche così ma adesso devo fuggire dal comandante con i baffi da corvo. “Preferisco ascoltare” dico a Imanol, quando rimane zitto come fosse in attesa di una risposta. “E con questo non voglio dire che non mi piacerebbe essere come voi. Nel nostro gruppo di amici si parla solo di chi ha più soldi, chi ha la macchina più nuova, chi ha più amanti, di chi ce l’ha più lungo...” Schiaccia nel posacenere il mozzicone di 493 sigaretta e fa una lunga pausa: “Anch’io vorrei andarmene. Firmerei le parole scritte da Simón Bolívar, proprio qui, a Barranquilla, pochi giorni prima di morire. Scrisse che la cosa migliore che si può fare in America è andarsene. La cosa migliore che si può fare qui è fuggire...” Ho ricevuto una lettera e un pacchetto, la lunga lettera è stata scritta a macchina da Andoni. Il pacchetto l’ha mandato Armando da Managua. Anche Armando mi ha scritto una lunga lettera ma non la leggerò. Come diceva la segretaria di Honorato Delaselva, Non l’aprirò. Posso immaginare le sue parole, per esempio, la vita è fatta per il rinnovamento di tutte le cellule, tutto il corpo cambia continuamente, l’amore non è eterno. O, ancora più stupidamente, Ho messo da parte tutto il mio orgoglio, ritorna, faremo quello che vuoi, assieme. Ma, in ogni caso, cosa mi avrà scritto? “E questo pacchetto?” mi chiede il Rosso. 494 L’amico congelato “Non lo so, aprilo se vuoi...” “L’amico congelato” dice lui, strappando la carta marrone che lo avvolge. “Cosa?” dico allarmata, ricordando la frase di quel telegramma di tempo fa, Goio si è congelato. Racchiuse all’interno di quella carta marrone che si usa per avvolgere il pesce, la carne e cose del genere, ci sono quasi quattrocento pagine scritte a macchina. “Credo si tratti del romanzo che ha scritto Armando” dico, dopo aver controllato alcune pagine. “Chi è Armando?” Ed ecco qui il romanzo, la ragione di quegli interminabili tip tip tap tip tap top diventati un plico di fogli. “Quello che vive con me a Managua, Josu. Non lo conosci?” “No.” “Credo che invece lui ti conosca. Vive rinchiuso in casa a Managua, ed è un mezzo scrittore.” L’infermiera, una bionda tinta, arriva con la 495 scatola delle medicine e distribuisce ai pazienti le pastiglie come fossero cioccolatini. “Ti aiuto a distribuire le pastiglie” le dice il Rosso e se ne vanno assieme. Rimango sola e non leggerei la lettera di Josu se non si fosse aperta quasi da sola, come una colomba che apre un’ala: Mi hai detto che scrivo con l’intenzione di stare zitto, che vivo sempre più fuori luogo, sempre più fuori dal tempo, che mi nascondo dietro schizzi di bozze e che rinuncio alla vita attuale per raccontare il passato o il futuro. Abbiamo perso la comunicazione, ma scrivo con l’intenzione di recuperarla, come quando ci raccontavamo delle cose, in quella stanza senza mobili del passato, senza sedie, seduti per terra schiena contro schiena. Credo che anche scrivere sia un modo di raccontare delle cose girando la schiena all’altro, perché tutti abbiamo bisogno di un po’ di conversazione. Però ognuno la ottiene come può, qualcuno con un monologo, qualcuno scrivendo e c’è addirittura chi partecipa alla 496 L’amico congelato conversazione in silenzio. Non mi dice che mi ama e nemmeno di tornare, Josu sta parlando dei suoi scritti, il ragno grammaticale appeso alla ragnatela della letteratura in un angolo del mondo: Ma forse hai ragione e, forse, scrivere non è un altro modo di parlare, ma il surrogato della parola, perché ci siamo dimenticati come si fa a parlare. E questo linguaggio sarà di un altro mondo, queste parole saranno intraducibili, questo idioletto assomiglierà molto al silenzio... Il Rosso ritorna ridendo con l’infermiera bionda. Il giorno che ho conosciuto Goio, nell’appartamento di Hendaia, in quell’agosto da spiaggia, e l’ho visto così pallido, ho pensato: questo è uno di quelli che leggono molto. “Vuoi leggerlo?” “Sì, è tanto che non leggo niente in basco” dice lui, con il dattiloscritto sotto il braccio. “Tu l’hai 497 letto?” “No” rispondo. “Non ti piace leggere?” “Non voglio perdere tempo.” “Se è solo per il tempo, lo perdiamo in molti altri modi.” “Il tempo e l’innocenza...” dico con un pizzico di cattiveria. “È proprio quello che io voglio perdere al più presto,” dice il Rosso ridendo, “l’innocenza...” E resto di nuovo sola. Così, molto bbk, leggerò un altro frammento della lettera, come se spiegassi l’altra ala della colomba: Dalla porta al letto, dalla sedia alla finestra, vivo all’interno di misure dettate dall’universo della quotidianità e ho solo due possibilità: ammettere l’oggettività degli oggetti e adattarmi all’assenza di desiderio delle nature morte, oppure posso provare a cambiare posto a qualcosa, accendere amori, catastrofi ed eclissi e provocare l’insurrezione delle cose... 498 L’amico congelato Poi racconta che era uscito di casa per prendere un po’ d’aria e che aveva dimenticato la chiave nella porta all’interno ed era rimasto chiuso fuori, dall’esterno aveva visto i libri sul tavolo, il caffè, i fogli scarabocchiati e la penna e aveva dovuto rompere il vetro della finestra per rientrare. Era entrato nell’isolamento del suo piccolo studio e aveva continuato a scrivere. Ma continuo a non capire in cosa consiste l’insurrezione delle cose. È tipico degli scrittori passare il tempo e spesso tutta la vita ad organizzare la fila infinita delle formiche che sono le lettere, rinchiusi in minuscole stanze, trasformare i giorni in giornate domestiche e le giornate domestiche in giorni di lavoro. La gente che inganna se stessa con queste forme di resistenza è un’eccezione della natura. Ma dov’è l’insurrezione delle cose? A parte andare a letto con la bella vicina indigena, direi che l’insurrezione è esclusivamente morfosintattica. Nella solitudine one man´s band, mi invento gli amici come un bambino che non vuol far altro 499 che giocare. Dramatis personae, i miei compagni di dramma, i miei fantasmi, quelli come noi dispersi per il mondo, persone senza appigli, tristi, in guardia, legati alla catena delle assenze. Ho provato a proporre alternative narrative, benché sia impossibile evitare l’unica curva necessaria del nostro destino. Chi saranno i personaggi drammatici che si è inventato per il suo romanzo, per cancellare se stesso e la stanza del suo isolamento? A volte, bisogna guardare le cose da un’altra angolazione. Quando uno, oltre ad essere parziale, diventa anche noioso. Intuisco il pericolo: rimanere intrappolato nella sparatoria. In ogni caso, inevitabilmente poi sopraggiungerà la realtà con il suo vento, i lampi, i tuoni, le inondazioni. Ma questa è un’altra storia... 500 L’amico congelato 27 CITTÀ Non incontrerai nuovamente il topo che hai visto passare indeciso da prua verso poppa. Troverete un luogo da dove risalire la muraglia di ghiaccio, attraccherete da dritta, sebbene nemmeno da questa parte sia facile scalarla. Bisognerà scavare una scala nel ghiaccio. Dovrete muovervi in fila indiana e legati l’un l’altro con la corda. I primi della cordata ricaveranno gli scalini. A fianco ci sarà il precipizio e il rischio di cadere. Quando raggiungerete la pianura di ghiaccio, la visibilità ormai sarà scarsa. Il nostromo sceglierà il luogo per la stazione scientifica e gli darà un nome: Città Estiva. Ci metterà anche un cartello: Summer Town 501 “Estiva!” dirà il nero Bobbi con ironia. “Città!” dirà un altro ridendo. Axel dirà che il nostromo potrebbe iniziare a mettere un nome con la penna blu a tutti gli angoli, adesso che ha a disposizione una grande pianura bianca. La principale preoccupazione della giornata sarà individuare un percorso sicuro dall’imbarcazione al campo. Camminando in linea retta, troverete un precipizio verticale sul mare e, dall’altra parte, nella pianura di neve si apriranno qua e là profondi crepacci. I crepacci non saranno stretti come sembra, alcuni avranno una specie di copertura o ponte che li nasconde ma, quando questi cadono, si vedranno dei paurosi crateri viola in profondità. “I crepacci si allargano e si stringono” dirà Axel. Penserai che si allarghino o si stringano in base alle maree. Poi capirai meglio cosa succede: i crepacci respirano. E, guardando dal bordo, sentirai il soffio glaciale che sale dalle profondità. 502 L’amico congelato Il giorno dopo aver montato il campo base, avrete molte cose da fare per costruire e organizzare quella piccola città che tu, per conto tuo, avrai chiamato Udairi. Il tempo non sarà dei migliori, a volte ci saranno ululanti folate di vento di nordest, una fitta nebbia e tormenta di neve. E quella della fondazione sarà una battaglia dura ma meravigliosa. Se il tempo non lo impedisce, farete delle escursioni attraverso questo continente infinito e sconosciuto. Si citeranno le avventure dei navigatori Arthur Gordon Pym e Dirk Peters che giunsero a vedere la Sfinge dei ghiacci, così come la leggenda degli esploratori Robert Falcon Scott e Roald Amundsen che vollero piantare la bandiera in quel punto immaginario del Sud che attrae tutte le bussole. Ma, tecnicamente, lì non è mai successo niente, perché la gomma bianca della neve ha cancellato per sempre qualunque traccia delle loro imprese. Si registreranno numerosi video e si scatteranno molte fotografie a Udairi, pensando che il vostro vissuto si possa trasformare in 503 un avvenimento, come se la vita non fosse sufficientemente reale di per sé e fosse necessario mostrare delle prove alla memoria. Non parlerete fra di voi ma guardando l’occhio meccanico delle telecamere, come se steste facendo dichiarazioni ad amici e famigliari seduti sul divano di casa, o a voi stessi in un futuro. E i vostri volti si macchieranno di sorrisi, nella realizzazione del reportage sul passato dettato dalla telecamera. John Masefield strapperà un pesce dal becco di un pinguino che lo tiene stretto. Il pinguino si arrabbierà e inseguirà lo scrittore fino all’accampamento, protestando, molto seccato, e rimarrà davanti alla base a lungo, a reclamare il suo pesce. L’imbarcazione resterà ancorata ma, prima di sera, anche lì avrete da fare, perché ci sarà il serio rischio di perderla. La assicurerete con ancore da ghiaccio e con delle gomene, ma non sarà sufficiente e nessuno potrà rimanere a guardare. Nemmeno con l’imbarcazione ormai bloccata ci sarà riposo per i marinai, che dovranno smontare e aggiustare il motore. A poppa si apriranno le 504 L’amico congelato coperture sopra una resistente struttura. Ritornando dall’imbarcazione all’accampamento, tu ed Edna rimarrete indietro. Farà freddo e camminerete a fatica e, quando starete per arrivare alla base, Edna si stringerà a te, appoggerà la testa sul tuo petto e cercherà di passarti una mano attorno alla vita. Sentirai un brivido nel corpo, al di sotto dei grossi abiti pesanti noterai le gambe tremare e ti fermerai. I tuoi guanti saranno troppo grossi per accarezzare il viso pallido che ti guarda da sotto il cappello e che quasi non vedi. Ed Edna, tremando, ti dirà qualcosa di incomprensibile, tipo I love you, parole fittizie in quel momento, e sentirete il vento freddo nelle ossa. Proseguirete sulla strada verso l’accampamento e tutto sarà molto irreale. Verrà organizzata anche una battuta di caccia, per catturare foche e pinguini. “È un peccato, perché gli animali dell’Antartico sono brava gente” dirà qualcuno. Il secondo giorno porteranno una foca enorme, il cadavere dell’animale è lungo quasi tre metri e ha un buco di proiettile in testa. 505 I tuoi amici arriveranno orgogliosi con i fucili in spalla. “Un elefante marino!” dirà il cuoco sorridendo, appoggiando lo scarpone sulla schiena dell’animale morto, mostrando il fucile di traverso davanti al corpo, come fosse in posa per una fotografia. Rimarrai a contemplare quella massa morta, senza capire la vanità del cacciatore. La pelle grigio scura, con macchie gialle e terrificanti denti. “Abbiamo carne e grasso per un po’...” Ti avvicinerai al mare e, dal bordo del precipizio, l’acqua ti sembrerà spaventosa. “La temperatura è di sette gradi sotto zero ma l’acqua non gela grazie alla salsedine” sentirai dire. Forse per la paura, camminare sarà molto faticoso. Il vento soffierà con forza ostacolando i tuoi passi, cadrai, ti rialzerai, barcollerai e arriverai all’accampamento mezzo soffocato, boccheggiante. “Respira dal naso” ti consiglieranno. La città dei pinguini sarà a poca distanza dal campo base e andrete spesso a osservare i 506 L’amico congelato vostri comici vicini. I piccoli ormai avranno perso la peluria iniziale e sfoggeranno delle belle piume nero azzurre ma senza ancora indossare il vestito degli adulti. Sarà una città popolata, organizzata in famiglie. Alcune di esse si disperderanno sulle colline di ghiaccio fuori dalla città, sono i pinguini di campagna. E darete un nome anche a uno che è sempre solo: Pinguino Solitario. In una di quelle famiglie di campagna, ne troverete anche uno impazzito che non farà altro che contorcersi e gridare; gli altri pinguini guarderanno impietositi il poveretto. Passerai le ore a osservare le abitudini degli animali, il loro deambulare umano, la loro stupidità umana. “Pensi davvero che assomigliamo ai pinguini?” “Sì, anche noi siamo abbastanza stupidi.” “Stupidi sì, ma ridicoli... pensi che veramente siamo così ridicoli?” Un giorno, un enorme crepaccio vi impedirà di fare il solito percorso, per evitarlo farete un altro 507 giro e troverete i brandelli di una bandiera sovietica. Proprio lì sotto, a 80 o 90 metri di profondità, si vedrà un vecchio rimorchiatore russo. Sotto la scurita bandiera rossa, ci sarà una tavola di legno con questo semplice epitaffio: 508 L’amico congelato 28 LA LEGGE DEL PIÙ FORTE La pioggia cadeva sul mare e le onde contro il braccio esterno del porto erano altissime. Un forte vento la faceva da padrone e non c’erano molti pesci in mare. Anche se, con il maltempo, si catturavano più sgombri. “A febbraio anche i gatti mendicano pesce” dicevano i vecchi di Kalaportu. Quel mese di febbraio ci furono due cambiamenti: a quelli che, come me, erano in collegio, diedero il permesso di andare in paese la domenica mattina, a condizione che assistessimo alla messa delle dieci; e la domenica pomeriggio, iniziarono le proiezioni cinematografiche. Così la domenica mattina, indossai il montgomery nuovo e mi avviai per andare alla Messa Grande della chiesa dei mostri. Passai sotto quegli esseri spaventosi e ascoltai la predica del 509 prete. Era in basco ed era rivolta ai pescatori: “Si può dire che quello del pesce che viene catturato sia un destino triste o sventurato? Ebbene no. Il nostro destino, quello delle creature di questo mondo, non è altro che compiere la volontà di Dio. E i pesci, quando finiscono nelle reti...” Mi sedevo in chiesa e osservavo le immagini alle pareti. I santi mi sembravano personaggi fantastici come quelli di Walt Disney, più arcaici ma non più sacri. C’era anche una Via Crucis, che si doveva leggere, immagine dopo immagine, come le vignette di un fumetto. “...prigionieri nelle ceste dei pescatori, sfamando le persone, senza rendersene conto, compiono il destino che Dio ha scelto per loro. La stessa cosa succede con gli esseri umani: dobbiamo rispettare il destino che Dio ha scelto per noi.” C’erano anche delle barche in miniatura, appese alle pareti laterali della chiesa. A volte, con il vento, sembrava che navigassero nell’aria. “Dopo il Diluvio universale, il livello dell’acqua 510 L’amico congelato non è più tornato alla situazione precedente e i due terzi delle terre sono ancora sommersi nell’acqua...” Non imparai le preghiere. Mi limitavo a muovere le labbra come se qualcuno dovesse fare il doppiaggio della mia voce. Qualche volta, la domenica, invece di andare in chiesa, andavo in giro. Un giorno, mi ricordai di Hamaika e mi recai all’osteria. “È un po’ che non si fa vedere da queste parti” mi informò l’oste. “Non sai dove vive?” “Da un po’ di tempo vive alla pensione di Klara.” Mi dette un indirizzo della zona della Erribera e mi disse che forse l’avrei trovato lì. Non era una casa normale. Si trattava di una pensione cadente e sporca. Guardando dalla strada, vidi una donna grassa. “È questa la casa di Klara?” “Entra, ragazzo!” mi disse e mi indicò una poltrona dove sedermi. 511 L’interno era pieno di mobili e tende antiche. “Aspetta un momento” mi disse. In sala c’era un acquario, all’interno si vedeva un pesce rosso che nuotava, da una parte all’altra chiuso dentro frontiere di cristallo, si fermava davanti a me, apriva la bocca e gli occhi e, boccheggiando, in silenzio, batteva contro il vetro. Forse non sapeva che era un vetro, per lo meno non come lo sappiamo noi. “Allora, stai ammirando il pesce rosso?” “Hamaika vive qui?” Un gatto bianco con la coda tesa salì miagolando sul tavolo pieno di piatti sporchi e avanzi di cibo. “Hamaika? Quello è sempre ubriaco ed è un disgraziato.” Da una parte c’era uno specchio di argento lucido rivolto all’acquario. La donna, che stava facendo un gomitolo sulla sedia a dondolo, sfilatisi i piccoli occhiali rotondi, lasciò la matassa da parte e, visibilmente irritata, mi indicò la porta: “E quello specchio a cosa serve?” gli chiesi 512 L’amico congelato uscendo. “Un pesce solo in un acquario fa una vita molto triste” mi rispose, “con lo specchio è più contento perché, vedendo un altro pesce, si sente in compagnia.” Allora mosse le pinne e si voltò, per fare qualche giro dentro l’acquario. “Se n’è andato, quel fannullone, miserabile foca!” La porta di legno era vecchia e triste. “E se n’è andato senza pagare l’affitto di sei mesi!” La domenica tornavo in collegio a mezzogiorno, perché dopo pranzo c’era il cinema, una proiezione alle tre del pomeriggio che si ripeteva alle cinque. Padre Alvarez scelse quattro ragazzi, tra cui io, tra quelli che non andavano a casa il fine settimana, per controllare la sala, diede ad ognuno di noi una torcia e ci mise a fare le maschere. Goio veniva quasi sempre alla proiezione delle tre. Sua madre gli dava venticinque pesetas. 513 Sulla porta si formavano gruppi e file di ragazzi. Si mangiavano frutti secchi e ci si scambiava figurine di calciatori: sembrava un mercato. Scoprii che erano semi di girasole e mi sembrò incredibile la somiglianza di quei fiori con il sole stesso. A un certo punto si spegnevano le luci. E poi, nella sala buia, iniziava il NODO, il notiziario del regime. A volte, con quella fascia di polvere luminosa sopra le teste, fra i gruppi di ragazzi iniziavano delle scaramucce e noi, che controllavamo la sala, dovevamo avvicinarci con le nostre torce e, con sferzate di luce, ordinare loro di tacere. “Tacere? Perché dovremmo tacere, abbiamo pagato l’entrata e parliamo quanto vogliamo e, se ne abbiamo voglia, portiamo la radio e magari anche la televisione...” Allora Padre Alvarez avrebbe messo fuori la sua testa calva dalla finestrella della cabina di proiezione, come se volesse fare un bilancio della discussione o della battaglia e, se lo considerava necessario, avrebbe acceso le luci della sala e fermato la proiezione. 514 L’amico congelato Per esempio, “Ci hanno circondato, Bonnie!” diceva Clyde, e lo schermo diventava bianco. Se Padre Alvarez accendeva le luci e fermava il film, non si poteva far altro che alzarsi e andarsene. L’avrebbero inutilmente pregato di continuare la proiezione, dicendo che mancava poco e di lasciarci vedere la fine, ma lui non cambiava idea. Sistemava le bobine dei film nelle scatole di metallo, se le metteva sotto il braccio e spariva all’interno del chiostro, senza rivolgere la parola né ascoltare nessuno. E noi, i custodi della sala, rimanevamo lì, con le torce in tasca, come lucciole, fino alla domenica successiva. Una domenica, quelli della prima fila in galleria pisciarono di sotto. Sei o sette assieme, perché cadde una bella pioggia tiepida su quelli della fila 21. Si udirono terribili insulti, in spagnolo quelli dei ragazzi e delle ragazze, in basco quelli dei più vecchi. Da allora, gli amanti del cinema che venivano tutte le domeniche non si sarebbero più seduti nei posti della fila 21, per precauzione; dalla 17 alla 22 erano troppo vicini al bordo della platea 515 superiore. Padre Alvarez illuminò immediatamente la sala, fermò la proiezione, rimise le pellicole nelle scatole rotonde di latta e se ne andò. Il giorno della pioggia dovemmo buttare della segatura nella sala. Se non era per un motivo era per l’altro, o per le scaramucce pubbliche o perché la pellicola a metà si bruciava, sta di fatto che raramente arrivavamo al lieto fine, alle grandi lettere del The End che restituivano agli spettatori la tranquillità. In ogni caso, con lieto fine o senza di esso, lì vedemmo Spartaco, King Kong, Charlot, Tarzan, BB e tutti gli altri in scene ancora oggi memorabili. Quando in sala la luce si spegne e si accende lo schermo, il sole si sta alzando sul deserto. La carovana avanza in lontananza, verso Ovest, rumorosamente e con le sue ruote cigolanti, tra la polvere e le pietre di arenaria del deserto, il tutto avvolto da colori giallastri e dalla musica dei violini. Nella carovana non manca nessuno: il medico ubriaco, il giocatore professionista, la prostituta, il direttore di banca avido e ladro, la donna elegante, lo stanco commerciante di whisky, lo sceriffo rude, il prigioniero ammanettato 516 L’amico congelato che impiccheranno appena arrivati in città. Non mancherà molto, amico, per arrivare a Oklahoma. Tutti procedono, ognuno assorto nei propri pensieri e, all’improvviso, in cima alla collina ingiallita si vedrà una penna, perché gli indiani ribelli che portano una penna in testa sono sempre in agguato sulla collina. Poi gli indiani attaccheranno la carovana e la donna elegante e il prigioniero riusciranno a scappare. La donna è da vent’anni che cerca sua figlia perché, quando aveva solo tre anni, era stata rapita dagli indiani. E il ragazzo dal doloroso passato per ora non desidera nient’altro che il collo libero dalla corda. Così entrambi cammineranno attraverso il deserto, la donna che si è lasciata alle spalle tutta l’eleganza dell’Est e il ragazzo dal doloroso passato, entrambi stanchi, e anche la borraccia sarà assetata finché non arriveranno al fiume. Così si getteranno in acqua a faccia in giù e poi si addormenteranno all’ombra per risvegliarsi proprio quando un’indiana bionda sta facendo il bagno nel fiume. La madre riconoscerà 517 immediatamente la sua amata figliola, ma la giovane kiowa prenderà sua madre per una pazza, il ragazzo dal doloroso passato guarderà, con la musica di un violino in sottofondo, la ragazza bagnata che esce dall’acqua che non assomiglia affatto alle coriste francesi che ha velocemente amato nei saloon di Yuma, Denver e Kansas City. Poi sequestreranno la ragazza kiowa, lei perché vuole farne sua figlia e lui perché la considera la sua moglie predestinata, forse poco a poco si addolcirà e addomesticherà, come se fosse dell’Est, e proseguiranno tutti e tre assieme contro tutti, contro i kiowa che appaiono all’improvviso tra le rosse colline, contro tutti quelli che hanno inchiodato in tutte le città il ritratto del ragazzo dal doloroso passato sotto la scritta wanted. Era la legge del più forte, ma noi, in quella poetica della violenza, ci identificavamo con quegli indiani necessariamente perdenti quando il cowboy dal doloroso passato iniziava a sparare e i kiowa cadevano morti come mosche: “Incredibile! Con ogni pallottola uccide sei o sette indiani!” a volte protestavamo. 518 L’amico congelato Fiu fiu fiu le pallottole passavano vicino alle nostre orecchie bucando l’aria. Ma non erano gli indiani i perdenti, perché gli indiani, sia vivi che morti, senza nome, sarebbero rimasti indistintamente confusi nei colori del deserto giallastro, abbandonati, come noi, in quell’oscurità. I veri perdenti sarebbero stati l’avido direttore di banca, il giocatore che faceva indebitare gli avversari, il pistolero professionista, come sarebbe stato evidente nel duello sotto il sole nella via principale di Oklahoma, in quell’Oklahoma che sembrava avere una sola strada. Poi, il ragazzo dal doloroso passato se ne sarebbe andato, montando a cavallo, con il suo gilet nuovo e il cappello pulitogli dalla ragazza, a inaugurare il nuovo ranch vicino a Oklahoma con moglie e suocera e, all’ora del tramonto, si sarebbe allontanato un po’ per ammirare quello che era stato un deserto e adesso era tappezzato d’erba con mandrie di vacche muggenti al pascolo, e per ammirare le innumerevoli stelle e, con la stessa musica di violino dell’inizio e delle scene d’innamoramento, per ammirare anche le grandi 519 lettere bianche che apparivano all’orizzonte tra le nuvole: The End E noi, le lucciole, quando la sala si illuminava, rimanevamo al nostro posto finché le folle di spettatori non erano uscite, muggendo come bestiame. “Questo sì, dicono che devono fare una cosa e la fanno” decidemmo. “Ma per sopravvivere bisogna imparare i trucchi...” Trucchi. Per esempio quelli del sangue. Quel sangue che zampillava abbondante non era reale. “Si prepara in fabbrica, come la pittura o la salsa di pomodoro. Si introduce in una borsa di plastica con un piccolo esplosivo che si fa esplodere a distanza...” Così ce lo spiegò Urruti, quello che ci buttava il pallone lontano. “Nei film più vecchi non era così, quello che 520 L’amico congelato riceveva lo sparo doveva portare la mano nel punto colpito e rompere la sacca di sangue, ma si notava e di solito era un movimento melodrammatico, perché il sangue non usciva al momento dello sparo ma quando la borsa veniva schiacciata con la mano...” Gli eroi dell’Ovest erano così, coraggiosi ma crudeli, sicuri ma imbroglioni, responsabili ma silenziosi, sempre pensierosi e di poche parole, oggi direi cinici. E iniziammo così, con questa etica del comportamento, per far colpo sulle ragazze di dodici tredici anni, in mancanza di marlborooo fumando le nostre celtas senza filtro con sguardo da cowboy. La tecnica del gesto era questa: alzare le sopracciglia incurvate e corrugare la fronte senza dire niente. Dopo il cinema, a volte rimanevamo a parlare in cortile o, se pioveva, a fumare sotto la tettoia del campo di pelota. Una volta si unì a noi anche Goio. Quel giorno venni a sapere dell’esistenza della casa che chiamavano Petit Maison. Alcuni pescatori erano soliti andarci finito il lavoro, pareva ci fosse un salone con poca luce, lampadine colorate di 521 bassa intensità. Sulla porta ci stava il Portoghese, che si faceva pagare; credo che prendesse circa duemila pesetas a scopata. Quella era una parola strana, scopata, strana come scopare, fare l’amore e tante altre. Le scope sono fatte da un manico e una spazzola, diventammo degli esploratori del dizionario, benché non ci fossero vocabolari in basco e in quelli spagnoli le spiegazioni delle parole legate al sesso fossero minime. Vivevamo ossessionati dai buchi e dalle rotondità. E il racconto di Pinocchio riscosse un grande successo. Raccontai che a Biancaneve piaceva Pinocchio, ma la cosa di Pinocchio era molto piccola e allora Biancaneve ebbe quell’idea, di chiedere a Pinocchio Adesso dimmi una bugia e, sospirando, Adesso una verità, Adesso una bugia, Adesso una verità, Adesso una bugia, Adesso una verità... Le ragazze divennero per noi lussuria ambulante. Si apriva così un mondo segreto, che ci attraeva in modo confuso e violento. Perché anche 522 L’amico congelato noi sentivamo il bisogno d’amore e sognavamo che in quel mondo sconosciuto avremmo amato qualcuno, e che forse qualcuno ci avrebbe amato. “Una volta che ci entri, puoi scegliere una delle dieci o undici ragazze che ci sono lì” disse qualcuno. “E da dove vengono queste ragazze?” “Da tutte le parti del mondo, una è svedese, un’altra brasiliana, un’altra tailandese, un’altra algerina...” “Per quel che ne so io” disse Urruti, e credevamo sapesse cosa diceva, “ce ne sono solo due, una bionda e l’altra mora, entrambe puttane...” Pareva che di notte indossassero vestiti da sera luccicanti, grandi scollature, che fossero molto attraenti e che fumassero sigarette dallo strano odore, forse si trattava di oppio... “Sì, forse!” dicevamo. Da quel giorno, Urruti ci diceva con malizia: “Fermi lì, eh!” 523 29 L’OPINIONE È COME IL CULO Arthur Smolensk 1953-1989. Sotto i caratteri cirillici c’erano i numeri arabi e un trattino tra di essi per riassumere tutta una vita, come se quel trattino fosse una rappresentazione sufficiente di un’intera esistenza. Visto il rimorchiatore e l’epitaffio, dedurrete che siete vicini a una stazione sovietica. “Maladiozhnaia...” dirà il nostromo, prendendo quel nome chissà da dove. E attraverserete a piedi la pianura innevata alla ricerca della base sovietica. Il nostromo, dopo aver tracciato una linea retta sulla cartina, calcolerà che vi troverete circa a undici chilometri ma, a causa dei crepacci, sarà necessario fare un giro di 29 chilometri, perché quelle crepe sono capaci di inghiottirsi qualunque cosa. 524 L’amico congelato “Se il ghiaccio si rompe e ti senti cadere” ti dirà Axel, “allarga le braccia e attaccati a qualunque sporgenza...” Andrete in sei e la marcia sarà faticosa. Non sarà ancora passata mezz’ora da quando avete lasciato la bandiera sgualcita che, all’improvviso, vedrete sparire Axel davanti a voi. Guarderete giù e lo vedrete in fondo a un buco di circa tre metri, con gli occhi spalancati e un sorriso tra l’allegro e lo spaventato. “Perché non hai aperto le braccia?” Ci metterete più di sette ore per arrivare alla base sovietica abbandonata da tempo. E lì, come se foste archeologi, inizierete a esaminare quell’antica città. Sarà una città fantasma, che un tempo fu davvero un quartiere, le fondamenta delle case in acciaio, i pavimenti e le pareti interne di legno protette con isolanti termici e lastre di alluminio. “Vodka” dirà uno entrando in una casa e leggendo un’etichetta. Ci sarà una finestrella aperta. Comincerà a soffiare il vento e, quando ti avvicinerai per 525 chiuderla, entreranno raffiche di neve che copriranno tutto di polvere bianca, e la casa stessa inizierà a muoversi: “Questo vento può sollevare la casa, comprese le fondamenta di acciaio...” Dormirete lì e, il giorno dopo, sistemerete la sauna dei russi e la proverete. Sentirete il piacere di sudare nel vapore caldo e la sferzata nell’uscire nudi sulla neve fredda e, dopo esservi asciugati, la sensazione di pulizia che avrete all’indossare i vostri pesanti abiti sarà bellissima. Axel preparerà i suoi apparecchi sismoacustici e realizzerà le sue analisi. Calcolerà che, in quel punto, l’altezza del ghiaccio è di 2.100 metri. Poco più in là, invece, sarà di 740. Pertanto vi troverete sopra enormi precipizi nascosti sotto il ghiaccio. “Al Palo della Solidarietà abbiamo 2.100 metri di ghiaccio sotto i piedi.” Nel mezzo della base sovietica troverete il Palo della Solidarietà, questo è il nome che gli avrete dato. Inchiodate sul palo, le assicelle a forma di freccia con i nomi delle città e le distanze, 526 L’amico congelato frecce di legno inchiodate sul cammino verso il luogo d’origine. Girerai attorno al palo e leggerai: Leningrado 15.780 km, Praga a tot chilometri e i nomi di altre città che furono socialiste, con la corrispondente distanza, ma ci saranno anche Ottawa e Amburgo. Allora anche tu preparerai una freccia. Prenderai un’assicella caduta ai piedi del palo e, con il pennarello di Axel, scriverai: Utilizzerai lo stesso chiodo arrugginito per fissare il cartello puntato verso Nordest. E lì rimarrà il nome del tuo paese, a più di duemila metri di ghiaccio sopra il mare, sul Palo della Solidarietà. Quando arriverà l’ora di tornare alla vostra base, sotto una sferzante tormenta di neve, senza poter vedere niente a venti o quaranta metri, girandovi indietro, l’ultima cosa che distinguerete a Maladiozhnaia sarà il palo con le frecce: 527 Kalaportu e questa tua ingenua birichinata, senza specificare i chilometri di distanza. Camminerete per un’ora guidati dalla bussola, lottando con la grigia nevicata di una mattina bianca. “Questa bussola non mi ha mai tradito” sentirai dire al nostromo, che urla insieme alla 528 L’amico congelato tormenta. “Come fai a saperlo?” gli chiederà Axel, anche lui gridando. “Si vede l’ago della bussola.” E immaginerai il sorriso di Axel sotto gli abiti di pelle. Il vento soffierà sempre più forte e il nostromo, dopo essersi attardato, ordinerà di montare l’accampamento proprio lì. Vi sistemerete tutti in due tende. Al riparo sotto la copertura della tenda, ascolterete lo sfavillare della grandine e i bramiti del vento, avvertirete che la neve si ammucchia e diventa sempre più alta. Rimarrai a lungo con gli occhi chiusi. Poi sentirai dire in basco: “Eccoci qua, tutti i vecchi amici di un tempo.” Allora aprirai gli occhi e ti ritroverai nell’aula della scuola, i banchi, la lavagna, ma ci sei solo tu in classe. Chiuderai gli occhi e sentirai di nuovo, Siamo tutti qui, i vecchi amici di un tempo. Aprirai gli occhi e sarai solo, con i pantaloni corti nell’aula vuota. Richiuderai gli occhi e si 529 ripeterà quella chiamata che è anche un inganno, molte volte, finché ti sveglierai nello stretto spazio della tenda, accanto ai tuoi quattro compagni che, con te, si logorano nervosi per il freddo e la paura. Quell’insopportabile prigionia dentro la tenda si prolungherà anche al mattino successivo, colpa del vento, della nebbia e della neve. Nel rendervi conto che la tormenta non cesserà, sarete scossi dal sospetto di una paura reciproca. Sentendo le grida che provengono dall’altra tenda, urlerete di riamando e le vostre urla, mischiandosi e deformandosi con gli ululati del vento, saranno spaventose, a volte molto flebili, indebolite, sembreranno giungere da lontano, altre volte molto amplificate, spaventosamente tremolanti o sconsolatamente prolungate. Ricorda la freccia, il cartello di Kalaportu. In questo deserto bianco tante cose possono guidarti ma non il tuo lontano paese d’origine, né i remoti tempi dell’infanzia. Quando la tormenta si attenuerà un po’, proseguirete, confidando nella bussola, sempre immersi nel vento, nella nebbia e nella neve. 530 L’amico congelato E avrete anche una canzone, passato il pericolo, passata la paura e ancora vivi, da cantare con le labbra congelate, rimettendovi in marcia: All well again! Ah, all well again! All! All! Love and pain. And world and dream… Tuttavia, e non solo per la fatica, farete il viaggio muti, perché quella neve fine come polvere vi toglierà il fiato. Arrivati, rimarrete a guardare la bussola perché non ci saranno tracce della Città d’Estate, completamente coperta dalla neve. Finché da un buco apparirà Edna gridando e alzando le braccia: “Qui, qui, qui!” Tornando all’imbarcazione vedrete la poppa e la prua sbattacchiare. Alcune cime si saranno rotte a causa della tensione provocata dal continuo dondolare del rullo. 531 Ci sarà una lieve mareggiata e, nel punto di attracco, le onde saranno abbastanza visibili. Tirerete delle nuove funi legandole ai ghiacci della cala. Il vento sarà molto fastidioso. Soffierà da una parte e dall’altra, senza sosta, instancabile, nove nodi al secondo, tredici nodi al secondo, innumerevoli nodi al secondo, e quel vento incessante trasformerà la neve in piccoli cristalli di ghiaccio, lanciandoli con impressionante forza. “Ed è ancora estate” dirai. “Con l’inverno australe la temperatura sarà ancora più terribile, 37 gradi sottozero, o 45 gradi sottozero...” “Ma per ora è ancora la fine dell’estate...” Le notti si faranno sempre più lunghe e sempre più buie. “Il brutto tempo che abbiamo visto fino ad ora non è niente paragonato a quello che dovremmo affrontare se ci fermassimo qui. Arriveranno tormente che possono durare una settimana o quindici giorni...” I giorni successivi il tempo diventerà più 532 L’amico congelato mite e festeggerete il Carnevale. Axel si presenterà coperto di piume, mascherato da cormorano. Anche John Masefield vorrà parteciparvi e l’unica cosa che gli verrà in mente sarà abbassare i pantaloni. Con i pantaloni alle caviglie, le mutande alle ginocchia, mostrando il pene e i testicoli tristi e scuri, inizierà a imitare i pinguini. Poi, costretto dal freddo e dalla vergogna, continuerà a trascinare i pantaloni ma si tirerà su le mutande. Tu prenderai una pentola e un mestolo e farai clanc clinc clanc e, con altri percussionisti, formerete una buona banda musicale. Il giorno di carnevale inizierete a discutere della data della vostra partenza, con la disinibizione propria di chi ha bevuto. “Credo sia arrivato il momento di andarcene” dirà Axel. Il nostromo gli risponderà seccato: “Come disse Clint Eastwood in un film, l’opinione è come il culo: ognuno ha la sua...” Scoppierete tutti a ridere e Axel si arrabbierà: “A marzo l’acqua inizierà a gelare e anche il mare si congelerà...” 533 È vero che la stagione sta cambiando e al tramonto vedrete le stelle che annunciano il prolungarsi della notte. E non si sentirà più la rumorosa caduta dei ghiacci della costa. La neve si farà sempre più dura. Sia in mare che nell’aria la vita aumenterà e si moltiplicherà, e gli animali inizieranno a muoversi. Ve lo confermerà anche la zona superiore di un precipizio di ghiaccio che dà sul mare scuro: i gruppi di foche si sposteranno verso nord e in lontananza vedrete passare anche molte balene, nel cielo innumerevoli storni di cormorani fuggiranno verso nord e i gabbiani sfoggeranno nuove piume e faranno più rumore che mai volando alla ricerca di cibo sopra la vostra base e attorno all’imbarcazione. “Quel nostromo è capace di scatenare l’inferno!” sentirai, born to raise hell. “L’inverno ci piomberà addosso come un orso bianco!” Il nostromo non vorrà accettare la fine dell’estate, quasi volesse approfittare al massimo degli ultimi sprazzi. 534 L’amico congelato Non solo gli ultimi sprazzi dell’estate ma anche i canini dell’inverno si faranno vedere poco a poco, anche se non tutti saranno minacciosi. Uno di quei giorni, per esempio, si formerà uno strano arcobaleno e in cielo si aprirà una tenda a spirale rossa, verde, blu e di altri colori che scende fino al mare. Ci saranno 19 gradi sottozero e non smetterà di nevicare. Tutti gli animali si dirigeranno verso nord, alla ricerca di luoghi meno freddi. “La neve copre tutto ma non è distruttiva, quello che un giorno copre lo restituirà intatto più avanti.” Sarà il commento ironico di qualcuno. Alla fine, il nostromo cederà e smantelleranno la base. “Domani partiamo” ordinerà. Così lascerete Summer Town, abbastanza sporca. Alcuni oggetti che non avete più intenzione di utilizzare, le ossa e le pelli degli animali che avete ucciso, molta spazzatura. “Non manca nessuno?” Tutto verrà ben presto coperto dalla neve, come se non fosse passata da lì anima viva, 535 tecnicamente tutto rimarrà come se non fosse successo niente. 536 L’amico congelato 30 L’EPOCA DELLE ACCIUGHE “Fermi lì, eh!” sento ancora adesso, attraverso il tempo. Ma chi poteva star fermo, a quattordici anni. Goio non mostrò a nessuno la borsa con le armi. Sentiva il bisogno di condividere la sua scoperta con Ariane, pur sapendo che lei apparteneva a un altro mondo. La vide uscire da scuola e la seguì, la sua coda di cavallo era davanti a lui e sentiva il cuore battere forte per la sensazione di fare qualcosa di male. Ariane non andò a casa, passò il ponte e costeggiando la Erribera si diresse verso il porto. Girò l’angolo del molo e rimase ad aspettare Goio. “Perché mi segui sempre?” Faccia a faccia con lei, Goio non ebbe il coraggio di negarlo. Non osò nemmeno dire che 537 andava al molo da sua madre. “Ti ho visto più di una volta seguirmi come un cagnolino.” Lo guardò dritto negli occhi per un momento. Poi se ne andò all’osteria del porto, sicuramente per incontrarsi con Felipe, mentre Goio rimase inchiodato all’angolo con una sensazione di malessere. Ariane non avrebbe mai capito la faccenda delle armi, né di quell’imbarcazione abbandonata, né niente di niente. E con Felipe avrebbe avuto dei figli grassi e brutti. Così, nei giorni di marzo e aprile, a Kalaporrtu arrivò la nuova stagione. Il freddo e la nebbia diminuirono, le grandi onde si indebolirono, arrivarono le rondini con l’odore delle alghe, la forza delle maree giovani e la pioggia che i pescatori chiamavano schiuma delle acciughe. La primavera arrivava sulla terraferma con i fiori. Nei campi si moltiplicavano i fiori di tarassaco e puufff soffiavano i bambini, come fossero giganti dell’aria, per disperdere le chiome bianche 538 L’amico congelato dell’infruttescenza del fiore. Ma in mare il fiore più bello era l’acciuga. “Andiamo a pescare acciughe!” dicevano i pescatori. E quando arrivava la barca piena si casse, buttavano le reti sul molo e chiamavano le donne per togliere le acciughe dalle reti. Di questo si occupavano la madre di Goio e le altre cucitrici di reti, di togliere una a una le acciughe che vi erano rimaste intrappolate. Anche il portoghese a volte scendeva fino al porto. Aveva comprato la villetta Loramendi che fino ad allora era appartenuta a una famiglia della ricca Neguri, e le aveva cambiato il nome. Adesso si chiamava Petit Maison e lui viveva lì con le sue prostitute. Il portoghese era un buon conversatore e tutte le mattine passeggiava per il porto, avanti e indietro per Goienkale e Barrenkale. A volte rimaneva a guardare come scaricavano il pesce. “Allora, pensi di rimanere a vivere qui?” gli chiedevano. 539 “Ho degli affari qui.” “Cos’hai da guardare?” gli chiedeva qualche pescatore. “Controllo che il merluzzo sia come quello del mio paese!” “E come vuoi che sia!” rispondevano ridendo. Il portoghese aveva due ragazze nella villetta Petit Maison e pareva che non le lasciasse mai uscire di casa. Intanto noi vivevamo passando da una lezione all’altra. Nelle ore di Scienze naturali studiavamo che quando fiorisce la ginestra inizia la primavera. In quelle di FEN ci annoiavamo con le caratteristiche della democrazia organica. A Francese confondevamo ufficio e boia. Quelle vie! La vrai vie est absente. Nous ne sommes pas au monde. Arrivava l’ora di Matematica e dovevamo fare la somma delle frazioni e il professore colpiva la lavagna con la squadra sbang e così ci 540 L’amico congelato svegliavamo tutti. Quando suonava la campanella della ricreazione, correvamo in cortile, tutti assieme e con gran fracasso, come se al mondo non ci fossero altri ordini a cui obbedire né altro luogo dove andare. Il professore di Latino, Blas Mendive, ci utilizzava per copiare le minute per la sua congregazione: “Oggi ne approfitteremo per migliorare la calligrafia” diceva. “Io scriverò alla lavagna e voi dovrete copiare su un foglio.” Padre Mendive era il segretario di una lugubre associazione religiosa, la Congregazione della Buona Morte e aveva sempre molte comunicazioni, richieste e lettere arretrate. Così, come se estraesse delle colombe, tirava fuori dal suo abito nero un plico di biglietti, ce li distribuiva e, dopo aver verificato che tutti fossimo pronti, iniziava a scrivere il testo alla lavagna. Noi copiavamo parola per parola con pennino e inchiostro di china. Non si poteva scrivere a penna, perché il giudizio di Dio sarebbe stato più sacro se scritto 541 con pennino e inchiostro, quell’inevitabile castigo della morte che noi allora vedevamo molto lontano. Il primo cerimoniale consisteva nel pulire a dovere il pennino. Poi lo intingevamo nell’inchiostro e spesso macchiavamo il foglio. Sul banco si moltiplicavano cerchi e semicerchi lasciati dal fondo del calamaio. La carta assorbente non bastava mai per pulire i nostri pasticci. A volte, mentre noi copiavamo, lui ci raccontava una storia: “C’era una volta un ragazzo italiano...” Il giovane viveva con suo padre, il quale doveva copiare interminabili elenchi di indirizzi e, oberato di lavoro, rimaneva sveglio a lavorare fino a tardi. Di notte, quando il padre andava a letto, il ragazzo si alzava e, di nascosto, continuava il suo lavoro e copiava indirizzi finché non gli si chiudevano gli occhi. Il giorno dopo il padre gli diceva, Guarda, figliolo, tuo padre non è un incapace come dicono, ieri ho copiato duecento indirizzi più del solito. E il ragazzo, la notte seguente, si alzava di nuovo per aiutare il padre in segreto, anche se questo significava non dormire, essere sempre stanco 542 L’amico congelato durante il giorno e a scuola fare le cose male, dando così un dispiacere a suo padre... Durante una di quelle esercitazioni di calligrafia, Inazito allungò un po’ la frase che doveva copiare. Sei vuoi essere sicuro del tuo cammino, chiudi gli occhi e vai avanti al buio, diceva San Juan de la Cruz, finché non vai a sbattere, aggiunse Inazito da parte sua, senza alzare la testa, con lo stesso inchiostro e la calligrafia elegante, asciugando le ultime parole con la carta assorbente. Se a qualcuno cadeva una goccia di inchiostro, Padre Mendive, indicando con l’indice il luogo dell’incidente, diceva, Castigo di Dio. Quella frase divenne un ritornello per Inazito e per tutti gli altri: “Castigo di Dio!” Qualunque cosa cadesse, si diceva ridendo: Castigo di Dio! Pareva che anche le stagioni fossero una prova della magnanimità divina, immaginavamo Dio inginocchiato che pregava se stesso. Ma la giustizia di Dio non era così facile da capire: oltre alla 543 condanna generale della morte c’era, per esempio, l’eccessiva crudeltà dei castighi inflitti all’Inferno. Anche tua madre dovrà consumarsi negli infuocati abissi infernali e, secondo Padre Mendive, avrebbe bagnato la punta delle dita nell’acqua cercando di portarsele alle labbra ardenti per l’eternità, ma senza mai riuscirci. Era un’evidente ingiustizia. E noi demmo ragione a Inazito: “Maria e Giuseppe erano due brave persone. Non capisco perché Dio non gli abbia permesso di avere un figlio loro, perché ha dovuto umiliare Giuseppe con questa crudele invenzione della colomba...” “Ti vedo preoccupato” dissi a Goio un giorno in cortile. “Ti è successo qualcosa?” “Non so” mi rispose. “A cosa pensi?” “Quest’anno finiremo la quarta e l’anno prossimo la quinta...” “E allora?” 544 L’amico congelato “E dopo cosa faremo?” “Questo dopo è molto lontano.” A quei tempi noi pensavamo solo alle ragazze e non alla quinta o alla sesta classe, perché loro erano la ragione nascosta e la soluzione proibita. “Ragazze.” “Cosa succede con le ragazze?” disse lui. “Che le ragazze sono un problema” gli risposi. “Ti piace una ragazza e sei sempre dietro di lei e, anche se lei non ti guarda nemmeno, non puoi togliertela dalla testa.” Allora disse, come se lanciasse una pietra nell’acqua: “Quel che mi succede è che mi piace Ariane.” Così mi disse. “E allora?” “Non posso stare con lei. È impossibile.” “Anche le mie sono tutte impossibili” dissi io ricordando le immagini del cinema, le bellissime e inavvicinabili donne dei film. E il forestiero, senza scendere da cavallo, sulla porta dell’allegro saloon diceva Belle ragazze, ma l’unica cosa che mi interessa è sapere se lo 545 sceriffo e i suoi uomini sono passati da qui. “Anche tu senti il dolore di questa mancanza?” “Che mancanza?” “Un dolore come se ti mancasse la metà del corpo.” Camminavamo su e giù per il cortile, lungo la riga esterna del campo regolamentare. “Manca sempre qualcosa” dissi io, come se avessi le idee chiare rispetto alla segreta tristezza di ognuno. “Il ricco non ha la salute, chi è sano non è molto intelligente, chi è intelligente non ha l’amore, chi ha l’amore non ha soldi...” E iniziò a piovere. “Andiamo” proposi, “ci bagneremo.” “La pioggia è bella” disse. Quelli che stavano giocando a calcio interruppero la partita e si misero al riparo nei corridoi della scuola. Noi iniziammo a bagnarci sotto la pioggia. “Quando inizia a piovere, bisogna cercare un riparo” gli dissi. Goio mi sorrise, la pioggia scendeva dai 546 L’amico congelato capelli rossi sulle sue guance: “Sei il mio miglior amico” mi disse. Così percorremmo il cortile ancora due volte sotto la pioggia e, quando entrammo a scuola, eravamo bagnati fradici. Quella nota scritta a mano in basco conferiva un tocco di irrealtà ai proprietari delle armi. Sebbene a Kalaportu la gente parlasse in basco, come lo stesso Goio faceva sia a casa che per strada, la lingua basca non si leggeva né si scriveva. Il primo scritto che Goio aveva letto in basco erano quegli appunti sull’uso delle armi e tornò diverse volte all’imbarcazione per cercare di capire cosa dicessero quei fogli a quadretti scritti a mano. Di notte quell’ufficio dei carabinieri è vuoto. Se vedete che c’è qualcuno, rimandate a un altro giorno. Siccome l’esplosivo è molto pericoloso, lo sapete, non dovete collegare il detonatore con la carica fino all’ultimo momento e fate attenzione 547 anche con l’orologio, togliete la lancetta grande e lasciate quella piccola in modo che faccia contatto con il polo elettrico ma, prima, provatelo tre volte... Successivamente avrebbe visto ancora la lingua basca in lettere stampate, un giorno che entrò nella cartoleria di Artekale, dove si vendevano anche i giornali che formavano tre pile alte come torri, El Correo Español, La Gaceta del Norte e El Diario Vasco. Goio voleva comperare due penne ma, siccome il negoziante era molto occupato a dare e farsi pagare i quotidiani, rimase a guardare i libri esposti in vetrina: Jaio nintzan iltzeco Aldi-oro noa iltzen Ildakoan erabat Asiko naiz bizitzen.14 Rilesse tre o quattro volte i quattro versi della poesia. Prese il libro tra le mani e lesse il 14 Sono nato per morire / Sto sempre morendo / Solo quando sarò completamente morto / Inizierò a vivere [N.d.T.] 548 L’amico congelato nome dell’autore: William A. Douglass. Anche il titolo gli fece venire i brividi: Morte a Murelaga. Un giorno arrivò il fotografo che, come tutti gli anni, doveva fare la foto di classe. Ci sistemammo tutti davanti alla lavagna, prendendo posto come potemmo. Scattò una fotografia e, quando ci disse che ne avrebbe fatta anche un’altra di riserva, ci sforzammo di rimetterci in una posa che meritasse di durare per sempre. Siamo tutti lì, tutta la classe, e quella fotografia non mi permette di mentire. Lì c’è Ixidro con il suo grande sorriso, Agustin che fa le corna al compagno accanto, nell’ultima fila Emilio, il biondo, che sporge la testa lateralmente, timoroso di non apparire nel futuro anteriore, e si vede anche la mia testa, in seconda fila, il sesto da sinistra... Sulla lavagna in alto a destra si scorge la data. Non si legge l’anno perché è coperto dalla testa di Nikolas: 549 27 Marzo 197... Mi sento sul bordo di un precipizio. Il tempo, istante dopo istante, è arrivato fino ad ora. Chissà dove saranno adesso i nostri compagni. Emilio Mina sarebbe diventato calciatore ma si arrese dopo qualche partita con l’Athletic di Bilbao, e finì alla deriva in squadre di serie B e C per poi concludere la sua carriera nell’Osasuna. Ernesto, che da molto giovane stette un periodo in carcere, oggi è deputato al Parlamento di Gasteiz. Esteban Oiz, l’Annegato, studiò Economia ed è il dirigente di una fabbrica di pesce in scatola di Bermeo. Il seguente sono io e posso passare oltre senza fare commenti. Juanjo Urtiaga, le lenti degli occhiali come fondi di bottiglia, era il più intelligente e il più furbo di tutti, oggi è il proprietario di un bordello a Mallorca. Jabi Larrea, Beixama, non ho dati su di lui. Inazito Mitxelena, nemmeno di lui so niente. Cecilio Ramírez, il figlio del guardia civil, 550 L’amico congelato tornò in Spagna con la sua famiglia. Goio, ecco il mio amico, che guarda la nebbia. Quello accanto, il quarto nella foto, Pedro Zumalde, il Grasso. Nella fila sotto, di nuovo da sinistra verso destra, Isidro: a diciannove anni scappò quando la polizia stava per arrestarlo e, da allora, non abbiamo più saputo nulla di lui. Poi Imanol, che sarebbe diventato pittore, ha esposto le sue opere in molte gallerie tra cui Arteleku. Josemari sarebbe diventato pescatore, come suo padre, come il padre di suo padre... Facce serie, sorridenti, burlone, annoiate. Eravamo il corteo funebre della bara dei giochi ma comunque, da quel momento, in un modo o nell’altro, in forma dolce o amara, avremmo dovuto continuare a vivere. E non so se tutti noi, che allora eravamo quei ragazzi della foto, siamo arrivati fino ad ora, ma so per certo che in qualche modo siamo rimasti tutti lì. 551 “Questa è una fotografia che riguarderete anche fra molti anni” ci disse il fotografo quando ritornò per vendercela a quaranta pesetas la copia. La guardiamo e ci rendiamo conto di com’è estranea quell’immagine, di quanto sono diverse le abitudini che avevamo in quel paese color seppia del passato. Nella fotografia quasi tutti indossiamo i pantaloni corti. E così, in pantaloncini corti, aspettavamo che arrivassero le feste del paese. 552 L’amico congelato 31 MARE GELATO Nel continente bianco tutto rimarrà come se, tecnicamente, non fosse successo nulla. “Nave a babordo!” griderà il nostromo. Preparerete le pertiche e le palanche, e dovrete fare turni di guardia in coperta per spostare o evitare i pezzi di ghiaccio che troverete sulla vostra rotta. A volte non potrete avanzare di prua e bisognerà navigare di bolina. “Retromarcia!” Il giorno dell’imbarco il vento di nordest farà alzare la temperatura da zero a cinque gradi, e il ghiaccio inizierà di nuovo a sciogliersi. Quando il tempo migliora si vedranno animali in aria, sopra il ghiaccio, nell’acqua, diretti verso nord. Arriveranno uccelli bianchissimi come 553 colombe, due punti nero corvino gli occhietti e due linee di grafito le zampe, non sarà facile vederli nel biancore dell’aria nebbiosa, ma si poseranno sull’imbarcazione e inizieranno a cercare resti di ogni genere, con la mansuetudine tipica degli animali antartici, i quali credono biologicamente che nessuno farà mai loro del male. Nei dintorni ci saranno pochi pinguini. Si vedranno alcune famiglie isolate, che ben presto si tufferanno in acqua, dirette verso nord, come se avessero fretta, come se fuggissero da qualcuno. Ci saranno anche delle procellarie ma non si avvicineranno all’imbarcazione, le si vedrà molto in alto, con un volo bello e sfuggente. Foche sì. Si scorgeranno anche degli elefanti marini, tra i ghiacci, mostrare la lucentezza delle loro teste e delle loro schiene. Vanno tutti verso nord, come se si fossero dati appuntamento in una terra o in un mare meno freddi. “Mi fa piacere vedere che Sua Eccellenza sia qui” dirai in basco all’elefante marino, perché la tua lingua ti sembrerà il modo più adeguato di rivolgerti a lui. 554 L’amico congelato Lui muoverà la testa come se dicesse Sì, anche a me. “Allora, stiamo bene di salute?” Sono io a rispondere per lui, Bene, senza particolari complicazioni. Il termometro scenderà a –7 gradi. Vedrete delle orche in lontananza. Con l’aiuto del binocolo ne osserverai un gruppo di una decina, le grandi pinne dorsali, scure ma con delle macchie gialle fra le pinne e il ventre. Quelle piccole misurano otto dieci metri, calcolerà Axel, quelle grandi sedici, diciotto. E, sotto le enormi e solide teste quadrate, in pieno mento, la bocca spaventosamente grande e piena di denti. Poi nevicherà e grandinerà. Una tormenta di ottantasette ore, incessante. Un lenzuolo bianco coprirà il mare. Sarà il movimento delle acque, con il suo ininterrotto su e giù, a spezzare quella coltre bianca, anche se la neve non cesserà di ammantarle. Axel dedicherà tutta la giornata alle sue misurazioni: “La temperatura dell’acqua è di 2,1 gradi 555 sotto zero, ha iniziato a gelare.” Axel utilizzerà anche la sonda marina: il fondale di pietra si trova a 127 o a 750 metri di profondità. L’imbarcazione, coperta dalla neve, navigherà ancora più bianca di quanto realmente sia. Lentamente, con attenzione, evitando le montagne di ghiaccio, cercherete di allontanare i blocchi più piccoli con pertiche e palanche. Sarà evidente che i ghiacci sono sempre più grossi e duri e che il mare si sta chiudendo. “Il ghiaccio fangoso si sta solidificando, assumendo quella consistenza gelatinosa che preannuncia il congelamento totale...” Così dirà Axel, rassegnato, non c’è altra possibilità che uscire in mare aperto il più presto possibile, ma raggiungerlo non sarà affatto facile. L’imbarcazione andrà avanti, ma troppo lentamente, e il timoniere si sfinirà per le continue manovre. Il nostromo non farà altro che gridare. “A dritta! A babordo!” come se si stesse contraddicendo. 556 L’amico congelato Un percorso difficile, un folle corridoio tra i ghiacci, non sempre sarà possibile evitare o allontanare i blocchi che emergono dalla nebbia e, tump, riceverete dei forti colpi. “A babordo! Portate qui la palanca! Attenzione con quell’iceberg!” Sulla superficie dell’acqua si formeranno lastre di ghiaccio o larghe placche, i compagni le chiameranno pancake, torte di ghiaccio. E le torte di ghiaccio si moltiplicheranno e si stringeranno sempre più. Si alzerà un vento bianco che porterà polvere di neve. E i fiocchi di neve saranno come aghi di ghiaccio per quelli che devono rimanere sul ponte, mentre i blocchi si uniranno per formare un lenzuolo bianco che copre il mare. “Virare a dritta! Ridurre la macchina!” La situazione si farà sempre più pericolosa, l’imbarcazione procederà pal pal con i motori praticamente fermi, senza poter avanzare con la prua e sbandando, circondata dal ghiaccio che, inesorabilmente, si sta facendo sempre più solido e stretto. Inoltre, come si intravvederà nella nebbia, 557 una forte mareggiata agiterà i blocchi in una folle danza. Anche la notte sarà terribile a causa della violenza del vento e la povera imbarcazione inizierà a tremare, come se stesse per scoppiare. “Avanti!” ordinerà il nostromo. “Rallentare i motori!” E andrete avanti, sempre più a bolina e inclinati a babordo. Sempre più alla deriva. Poi, dei terrificanti daumb, e zart, e crac. Il ghiaccio si stringerà e le placche si salderanno una all’altra. L’imbarcazione si ritroverà immobilizzata, sospesa sopra un molo di gelo. Allora sì, sarà chiaro che non avete calcolato bene i tempi, che avete rimandato troppo la partenza e che il ghiaccio vi ha circondati e intrappolati. Scomparirà il vivace campo scuro del mare, si imbiancherà tutto lo spazio che gli occhi possono raggiungere, come un morto avvolto in un lenzuolo bianco e non ci saranno più battiti marini, né sistoli né diastoli. Il ghiaccio non romperà lo scafo come se fosse un guscio di noce. È preparato per ogni eventualità, grazie ai progressi della scienza e della 558 L’amico congelato tecnica, la stessa pressione del ghiaccio alzerà lo scafo arrotondato come se lo si dovesse carenare. Così la vostra Iron Will rimarrà sulla pianura ghiacciata, inclinata a babordo, come alcune scialuppe sui moli dei paesini della costa. E, grazie al lavoro del freddo, scenderete dall’imbarcazione sul mare ghiacciato come se scendeste a terra. “Sotto ci è cresciuta l’erba!” dirà il nostromo indicando lo scafo, come se proponesse di carenarlo. Ma nessuno gli presterà attenzione. Una foca romperà il ghiaccio colpendolo con la testa e mostrerà il suo muso da un buco, burlona. Il nostromo le lancerà una pertica che le sfiorerà la testa e si perderà nell’acqua, all’interno del buco. La foca, un po’ stupita, continuerà a guardare, scherzosa e divertita. Così devono fare gli animali per respirare quando il mare si congela: aprire un buco nel ghiaccio con la testa per poterla mettere fuori. Fin dove la vista può arrivare, non si vedrà 559 altro che mare congelato. Potrete camminarci sopra ma non navigare. Il ghiaccio sarà duro e scivoloso ma, essendo formato da blocchi attaccati tra loro, non sarà un campo liscio. Se si trascinasse una slitta in linea retta su quell’immensa pianura, andrebbe subito a pezzi. Il nostromo darà l’ordine di chiedere aiuto. Si metteranno subito in comunicazione via radio, non si sa con chi. Tu rimarrai a guardare il paesaggio. Sarà molto difficile per una nave rompighiaccio infrangere questa cappa di gelo e arrivare fino a voi. Anche Axel la penserà così: “Il ghiaccio non è liscio, la parte superiore è molto irregolare anche per gli aerei, nemmeno uno dotato di sci riuscirà ad atterrare. Forse un elicottero...” La neve formerà una cappa dura sull’acqua tranquilla, il mare si nasconderà sotto un guscio gelato. Edna sarà accanto a te. Chiedile dove vanno le anatre di Central Park quando il lago si congela. No, non glielo chiederai. 560 L’amico congelato “Si è ghiacciato, ma si nota il movimento del mare” dirà lei. Ed è vero, avvertirai l’incessante andirivieni del mare. Sì, sistoli e diastoli. I battiti del mare fanno male al ghiaccio, quando il mare si alza i lamenti del gelo saranno tenui per farsi più acuti e prolungati quando scende. 561 32 LA BANDIERA BRUCIATA Fu nei giorni di festa del paese che successe la cosa di Maite. Ci avevano dato il permesso di uscire dal collegio dopo cena. La sera, le strade di Kalaportu erano addobbate con piccole bandiere spagnole e lucine colorate. La gente, indossati gli abiti della festa, si avvicinava al palchetto della musica, tra ghirlande e nastri di carta, perché un’orchestra venuta da lontano stava suonando pasodobles, boleri e un ampio repertorio di danze... I marziani sono arrivati già ballando il cha cha cha... Mi unii a Juan Bautista e a Goio e bevemmo un mare di vino, andando su e giù per il paese. L’orchestra non smetteva di suonare, passando dal 562 L’amico congelato cha cha cha al più strappalacrime dei boleri: Dov’è la donna immaginaria...? Alcuni ragazzi più grandi di noi stavano ballando, stretti stretti alle ragazze, in silenzio, il viso rosso e sudando nella penombra. Era quasi mezzanotte quando Juan Bautista disse: “Che ne dite se andiamo ad Harriandi?” “Com’è il mare?” Fatto sta che noi tre e Maite andammo al bunker. Maite era una ragazza molto bella, magra, bruna, con i capelli lisci e lunghi. A me piaceva ma a lei piaceva Juan Bautista. In realtà Juan Bautista era già stufo di Maite e, pur di non incontrarla, ci obbligava quasi a nasconderci. Per andare ad Harriandi dal molo, passammo vicino all’ufficio dei carabinieri e lì, sulla facciata, vedemmo la bandiera spagnola, non ancora ammainata, che ondeggiava al vento. “Scommetto che non avete il coraggio di 563 bruciarla!” propose Juan Bautista. “E invece sì!” rispose Goio. La bandiera faceva flap flap flap. “Ho proprio un accendino in tasca!” disse Juan Bautista. Ci passammo sotto e ci avviammo imboccando la salita. All’interno del bunker c’erano bottiglie vuote di birra e di gazzosa. Accendemmo un resto di candela trovata per terra e la collocammo in mezzo a noi quattro. Quando eravamo ormai sdraiati sui blocchi di cemento, con le nostre bottiglie e la nostra sbronza, Maite iniziò ad accarezzare Juan Bautista. “Se vuoi me, dovrai farlo prima con i miei amici!” disse Juan Bautista all’improvviso. “Perché?” chiese Maite ad alta voce. “Perché siamo amici” dissi io ridendo, pensando ubriaco che Juan Bautista stesse scherzando. “O tutti o nessuno!” insistette Juan Bautista. “Allora vieni!” disse Maite, alzandosi. “Io?” 564 L’amico congelato “Nella spiaggia lì sotto” disse Maite. “No, io no.” Maite era già sulla porta del bunker e i miei due amici mi stavano guardando, allora mi alzai e mi incamminai dietro la ragazza. Scendemmo lungo il sentiero tra le rocce, giù per Uradario, goffamente, la testa annebbiata dall’alcol, in fondo si vedevano le onde infrangersi sulla riva. Quando raggiunsi la piccola spiaggia, Maite mi stava aspettando sdraiata sulla sabbia, a pancia in su. Mi inginocchiai accanto a lei. “Togliti i pantaloni!” mi disse. Provai una gran vergogna. “Cosa vuoi?” mi chiese. “No, non voglio niente.” Eravamo circondati da gamberi in movimento. Avevo sentito dire a Goio che i gamberi da rete sono piccoli e tagliano le reti con le loro chele che sono come delle pinze. Ero preda della paura, del freddo e del desiderio. “Io ti amo” le dissi. 565 Appoggiando i gomiti sulla sabbia alzò le spalle, la schiena e il viso. E mi disse: “Non dire stupidate!” Avvicinai il viso e le diedi un bacio, come al cinema. Fu il primo bacio della mia vita, impacciato e rapido, avevo la sensazione di essere in un mondo di celluloide, ero spaventato e tremavo. “È vero!” le dissi. La sua lingua calda si mosse a lungo nella mia bocca, come fosse un animale tiepido e strisciante, e quel bacio mi lasciò senza fiato. “Ma cosa aspetti!” mi disse mentre mi slacciava il bottone della cintura dei pantaloni. “Togliti i pantaloni!” La mia reazione fu allontanarla un po’, senza volere. Allora rimanemmo un bel momento in silenzio, sulla sabbia umida, in un ambiente freddo. “Se non vuoi fare niente, te ne puoi andare!” mi disse subito dopo. Mi girai come se volessi allacciarmi i pantaloni e me ne ritornai su. Non c’erano uccelli che volteggiavano nel cielo buio, solo le stelle punteggiavano il firmamento notturno e poi apparve la luna tra le nuvole ferme, 566 L’amico congelato perfettamente rotonda, come fosse un pallone lanciato da Emilio Mina da colpire con la testa. “Quante volte l’avete fatto?” mi chiese Juan Bautista quando tornai al bunker. “Tre volte senza tirar fuori lo sgombro!” risposi, ripetendo una frase che avevo sentito pronunciare proprio da Juan Bautista. “È il tuo turno!” disse Juan Bautista a Goio. “Il mio no, io sono innamorato di un’altra!” rispose Goio. “Anch’io passo!” disse Juan Bautista. Decisi di tornare in collegio e, lasciati gli altri tre ad Harriandi, me ne andai. Saranno state le quattro o le cinque del mattino. Quando stavo per arrivare al molo, scivolai e presi una bella botta. Dolorante, nauseato, deluso da quella situazione, pensai che i miei quattordici anni fossero già troppi ed ero già stufo di vivere. In paese la notte di festa stava finendo. Tutto ciò che la sera prima era mirabilmente addobbato sembrava adesso sporco e rotto. Tutte le bandierine 567 e le luci della notte, la gente elegante, i musicisti venuti da fuori che interpretavano meravigliose melodie con i loro strumenti d’oro e d’argento, e adesso questo: bandierine di carta calpestate attorno al chiosco e, nel paesaggio ormai deserto di Kaiondo, sparuti gruppetti di ubriachi che ogni tanto ancora gridavano o lanciavano maledizioni. Sul finire della notte, vedevo il cantiere navale, il ponte, le case di Zubieta e il collegio come fossero radiografie di quelle che ti fanno in ospedale. Arrivai in collegio sfinito e zoppicante. Non incontrai nessuno, nemmeno Padre Solana si trovava nel suo normale punto di osservazione. Salii al dormitorio e, quando stavo per stendermi sul letto, sentii il bisogno di vomitare: non avendo tempo per andare in bagno, mi affacciai alla finestra. Sembravo uno dei mostri della chiesa, vomitando dalla finestra a quell’ora. Benché non fossi in grado di mostrare un grande pene eretto, assomigliavo a quel mostro dal corpo nudo e deforme, la bocca storta, la testa che si affacciava dalla botte, mentre vomitavo l’anima, lo stomaco in rivolta, quasi appeso alla finestra. 568 L’amico congelato Vidi Kalaportu là sotto e, sorpreso, mi resi conto che qualcosa bruciava nella zona del molo. Si vedeva una lanterna accesa, luminosa nella notte ormai prossima alla fine. La bandiera dell’ufficio dei carabinieri stava ardendo e tremava sull’asta tra fiamme rosse e gialle. Accadde pochi giorni dopo. Goio uscì da scuola alle cinque del pomeriggio, cenò verso le sette e poi uscì a fare un giro. Ogni tanto andava fino all’imbarcazione, a controllare che la borsa delle armi fosse ancora al suo posto. Verso le dieci era ancora a Kaioarri e doveva sbrigarsi per non arrivare a casa troppo tardi ma, quando uscì, si rese conto che i dintorni pullulavano di agenti della Guardia Civil. Goio rientrò dentro l’imbarcazione e, nascosto, rimase a osservare quelle ombre verdastre nell’oscurità. Nella zona del cantiere navale ne vide tre o quattro, sul molo all’entrata del porto intravide le punte dei fucili e in alcune barche sentì rumori 569 metallici e voci che impartivano ordini, e non erano quelle dei pescatori. Cosa ci facevano a quell’ora al porto, perché salivano sulle barche? Forse cercavano merci di contrabbando? Cosa ci facevano accovacciati sotto i camion del cantiere? Passava il tempo ed erano ancora lì, con le loro mitragliatrici e i cappelli di vernice, in attesa di qualcosa. Forse stavano cercando quelli che avevano bruciato la bandiera durante le feste, e Goio tremava, come quando si era attaccato con una mano all’asta della bandiera e con l’altra aveva dovuto accendere quattro o cinque volte l’accendino zip zip zip per dar fuoco a quel pezzo di seta. Non sarebbe potuto uscire dall’imbarcazione finché i guardia civil non fossero tornati in caserma. Tra l’altro le armi erano lì ed era il caso di nasconderle meglio. Si spostò strisciando, prese la borsa e la trascinò via. Dentro c’erano centinaia di granchi, sentiva il ticchettio dei loro denti e notò sulla mano il ventre piatto e le zampe di alcuni di essi. Conosceva un angolo migliore dove nascondere quella borsa, nei motori, nelle sporche interiora della barca. Lì dentro, il fetore dell’acqua marcia 570 L’amico congelato e dell’immondizia era rivoltante. Aprì la borsa e ne controllò il contenuto, toccando le tre pistole, anche il quaderno era lì. Si rese conto che c’era un pezzo di carta nuovo. Al buio non poteva leggerlo e se lo infilò in tasca, senza pensarci, e sulla punta delle dita sentì le lettere come formiche. Infilò la borsa di plastica sotto alcune vecchie assi e ci ammucchiò sopra dell’immondizia. Poi tornò e mise fuori la testa da una finestrella. C’era una nebbia fredda e, in quei bui momenti di paura, anche le cose meno importanti assumevano un’enorme rilevanza, il più banale fruscio, la lanterna che si accese sull’acqua per qualche secondo, il rumore degli scarponi neri nel silenzio del molo bagnato, il clic metallico che era sicuramente quello di un’arma... Guardò il foglio che teneva in tasca, gli sembrò che fosse scritto a mano, ma non c’era abbastanza luce per leggerlo. E così rimase a lungo, aspettando che i guardia civil, non sapeva quando, se ne andassero. Siccome non aveva il coraggio di mettere fuori del tutto la testa, la visuale da quella stretta apertura era limitata e non poteva 571 sapere cosa stesse succedendo. Improvvisamente iniziarono gli spari. Sentì chiaramente pum pum pum, e vide il fuoco dei fucili assieme al rumore degli spari, pum pum, e tremando cadde all’indietro giù per le incancrenite scale dell’imbarcazione. Fuori qualcuno gemette come un gatto ferito e rata ta ta ta sentì le raffiche a lungo. Poi gli spari cessarono, udì delle risate, il rumore degli scarponi e il motore delle jeep. Goio era nervoso e per un po’ non ebbe il coraggio nemmeno di muoversi. Dopo un momento salì le scale e, messa fuori la testa, vide che stava albeggiando e vide anche coppie di guardia civil che pattugliavano il molo. All’entrata del porto si vedeva una piccola barca vuota alla deriva, cullata dalle onde, e qualcosa di fianco, una camicia blu sulla superficie dell’acqua. Gli sembrò che le maniche di quella camicia si prolungassero e vide due mani sull’acqua e anche i capelli bagnati di una nuca che galleggiava guardando il fondo. Con una barca a motore, lo legarono con delle corde ed estrassero il cadavere di un ragazzo, scalzo, pantaloni neri di velluto, la camicia bucata, 572 L’amico congelato gli occhi inerti completamente aperti, un cadavere da cui traboccava sangue e acqua alla luce incerta dell’alba. Lasciarono il cadavere sul molo vicino al cantiere navale. Poi i sommozzatori iniziarono la ricerca di un altro corpo e ci volle almeno un’ora prima di trovarlo ed estrarlo dall’acqua. All’alba coprirono i cadaveri con delle lenzuola e sulla tela bianca le macchie di sangue si allargarono rapidamente come scarabocchi di inchiostro. L’ambulanza stava aspettando e si portò via i corpi senza vita dei due giovani. Se i guardia civil l’avessero visto uscire, avrebbero perquisito l’imbarcazione e avrebbero potuto trovare la borsa con le armi. D’altra parte, la gente del paese si era sicuramente svegliata con il rumore degli spari e sarebbe stata per strada. Sua madre lo stava sicuramente cercando, guardando in ogni angolo. Goio tremava tutto, nel liquido amniotico della paura, alla deriva. Non uscì dall’imbarcazione fino alle nove del mattino. Vide tre jeep della Guardia Civil nel porto, ma a quell’ora anche i pescatori erano al 573 molo. Stava camminando quando, all’altezza della gru del cantiere, gli si avvicinarono due agenti con il tricorno nero e luccicante, puntandolo con la canna delle mitragliatrici. E tu da dove vieni? Goio rispose indicando la spiaggia di Zubieta. Da lì. E il guardia civil lo guardò come se volesse separare la risposta dal corpo del ragazzo, con la durezza dell’entomologo che segmenta e classifica le parti di un piccolo corpo per individuare una specie sconosciuta. Lo perquisì e gli ordinò di rimanere lì, sotto la gru. Fermo lì, la schiena appoggiata alla base della gru, si ricordò del foglio che aveva in tasca. Tolse la mano dalla tasca e, portandola dietro la schiena senza farsi notare, riuscì a lasciarlo in un buco tra il ferro. Dopo cinque minuti, sentì la voce dell’altro gendarme. Lascialo andare, è solo un bambino. Poi gli dissero: Non avere fretta di crescere, perché ti può succedere quel che è successo a questi due. Nervoso, se ne andò a casa correndo lungo il molo. Trovò sua madre sulla porta, bagnata come 574 L’amico congelato lui, che piangeva e con il viso del colore della calce vecchia. Pensava che l’avrebbe picchiato, invece lo abbracciò. “Figlio mio adorato” gli disse. E, per la prima volta da molto tempo, Goio accettò quell’abbraccio materno. “Non tornavi e così Andres è andato alla clinica a vedere se eri uno dei due ragazzi che hanno ucciso...” Il giorno dopo non si parlava d’altro. I camion verdi e le jeep della Guardia Civil pattugliarono per tutto il giorno il porto e nei dintorni. D’altra parte, invece di permettere ai famigliari di portarsi via i corpi dei due giovani, furono gli stessi guardia civil a riportarli alle loro case, uno era di Vitoria e l’altro di Gernika. Per qualche giorno il porto rimase deserto come non mai. I pescatori non uscirono in mare, sospesero la campagna della pesca dell’acciuga e anche del resto, i negozi rimasero chiusi, i bambini 575 non vennero a scuola e noi non potevamo uscire dal collegio, a meno che non venissero a prenderci i nostri genitori. Benché ci fossero pattuglie della Guardia Civil ovunque, sui marciapiedi di Kalaportu apparvero volantini che, non so come, arrivarono anche in collegio. Sotto la fotografia e il nome dei due ragazzi - erano giovani, quattro o cinque anni più grandi di noi, poi avrei sentito dire a Maite che erano anche molto belli - si poteva leggere in spagnolo e in basco: Rivoluzione o morte Sciopero generale E fummo costretti a guardare la facciata in spagnolo per sapere che greba orokorra significava sciopero generale, perché quello era il basco che si utilizzava in Iparralde, il Paese Basco francese. E si diceva che i due ragazzi fossero venuti da Iparralde, sbarcando lì per cercare di arrivare poi a Eibar, a Bilbao o da qualche altra parte, e che avevano intenzione di realizzare un attentato 576 L’amico congelato contro il governo. Si diceva anche che in paese dovevano avere dei collaboratori, perché non erano state trovate armi sui loro corpi e nemmeno nella barca, e una volta sbarcati ognuno avrebbe avuto bisogno di una pistola, perché avrebbero potuto imbattersi in un controllo della Polizia in qualunque momento. E che qualcuno li aveva denunciati, perché c’era un’intera compagnia di agenti della Guardia Civil ad aspettarli, venuti apposta da Burgos. Si commentava che in paese avevano già arrestato quattro o cinque giovani e che non lasciavano passare i famigliari dei detenuti che si avvicinavano alla caserma, e che dalle case vicine si sentivano le urla di dolore degli arrestati, soprattutto alle prime ore dell’alba. Alla radio dissero che il Prefetto aveva annunciato che nei giorni seguenti ci sarebbero stati controlli e perquisizioni nelle provincie basche per catturare i terroristi infiltratisi dalla Francia perché, oltre ai due terroristi neutralizzati, potevano esserne arrivati anche degli altri, alla radio dicevano proprio così: “terroristi neutralizzati”. Si avvisavano 577 i cittadini baschi e la popolazione in generale di non prestare attenzione a chi stava cercando di propagare la sovversione e di distruggere l’ordine sociale e la pace. Il giorno dopo, al pomeriggio, non ci fu scuola e noi in collegio ci annoiavamo a guardare Kalaportu dalla finestra del dormitorio, come fossimo fantasmi. “Andiamo a vedere cosa succede” disse Inazito. “Se no domani dovremo credere a quello che ci raccontano gli altri...” Uscimmo di nascosto dal collegio, non senza correre dei rischi, perché superare la muraglia del collegio era difficile come passare la frontiera tra la Spagna e la Francia. In paese c’era una strana atmosfera. I guardia civil pattugliavano sulle loro jeep ma non ci dissero niente. C’era poca gente per strada, qualche ragazzo e qualche vecchio pescatore, anche noi ci dirigemmo alla zona dove si trovavano i giovani e, quando arrivammo a Zeharkale, ci rendemmo conto che si stavano riunendo tutti all’angolo fra Goienkale e Zeharkale. 578 L’amico congelato Lì trovai Goio, Juan Bautista e Felipe. Un ragazzo con la barba lanciò dei volantini in aria. Non riuscii a prenderne nemmeno uno. Iniziammo a gridare “Li-ber-tà! Li-ber-tà! Liber-tà!” “Andoni, libero!” gridò quello con la barba. Le nostre voci si univano, si mischiavano e si moltiplicavano. “Li-ber-tà! Li-ber-tà! Li-ber-tà!” ripetevamo. Tre o quattro jeep della Guardia Civil risalirono la via Goienkale per chiudere la strada alla manifestazione e sottomettere quel ribelle paese di mare. Continuammo la nostra marcia con la pelle d’oca come se avessimo vinto la paura, con le gambe che tremavano. I guardia civil iniziarono a sparare sulla gente. Pum pum pum si sentiva e si vedeva il fuoco dei fucili. Goio, Inazito e io scendemmo al porto da Artekale correndo in cerca di una via di fuga. “Li-ber-tà! Li-ber-tà!“ si sentiva gridare ovunque, tra il fragore degli spari. Altre tre jeep arrivarono dalla Erribera fino al molo, con le pistole e i fucili fuori dai finestrini e 579 dalle portiere posteriori semiaperte. Nella nostra fuga arrivammo fino all’estremità del molo. 580 L’amico congelato 33 IL PAESE DEGLI OGGETTI SMARRITI Quando il mare si abbasserà i suoi lamenti saranno più acuti e prolungati. Vi avviseranno che arriverà una nave rompighiaccio e rimarrete ad aspettare. “Adesso, mentre aspettiamo, non ci resta altro da fare che passeggiare sul mare” commenterà qualcuno. “Quando arriveranno?” “Fra una settimana, più o meno.” “Forse fra due, tre o quattro settimane...” La notte si farà sempre più lunga e il sole a fatica si alzerà sull’orizzonte. Verso le quattro del pomeriggio, dopo aver illuminato la bianca rugiada della neve, sparirà formando un arco. Di notte la temperatura scenderà a 17 gradi sotto zero anche se nella stiva, grazie a una stufa, raggiungerete quasi i 14 gradi. Durante il giorno non farà così 581 freddo, attorno ai 7 gradi sotto zero. Axel inizierà a scherzare: “Non sarò tranquillo finché la temperatura non sarà scesa fino a –45 gradi, così avrò qualcosa da raccontare agli amici quando torneremo...” Il nostromo scenderà sul ghiaccio con un piccone e un’ascia, pensando di poter aprire la strada all’imbarcazione. “ll capomastro ha preso il ghiaccio come un nemico personale,” dirà Edna, guardando il nostromo che si affanna trizz trazz davanti all’imbarcazione. Con piccone, ascia, sega e palanca, dopo aver combattuto, tornerà all’imbarcazione con la dignità di un generale dopo la battaglia. Benché l’abbia persa, benché sia stata assolutamente inutile. Gli altri, che non hanno voglia di fare un lungo viaggio, difenderanno la casa. Nevicherà quasi sempre e dovrete pulire ripetutamente l’imbarcazione. Se non lo fate, la neve vi coprirà, si ghiaccerà e allora non sarà più possibile andarsene da lì. 582 L’amico congelato Tutto sarà in silenzio, come se fosse fatto per rimanere in silenzio eternamente, e nel silenzio la rassegnazione aumenterà. La superficie ghiacciata del mare sarà bianca. Anche il soffitto celeste sarà bianco fino all’orizzonte e l’aria nebbiosa sarà lattiginosa. Arriveranno degli uccelli bianchi delle dimensioni dei gabbiani che volteggeranno sull’imbarcazione paralizzata e inclinata. Nei punti dove prima c’erano infiltrazioni d’acqua si formeranno dei ghiaccioli. A volte li romperete per ricavarne dell’acqua. Il sole apparirà all’orizzonte a nord, biancastro, ma dorerà le cime di ghiaccio. Conterete le ore, aspettando che arrivino gli aiuti. Passerete i giorni a letto, infilati nei sacchi a pelo e, cercando di accorciare l’attesa con scherzi e battute, il tempo vi sembrerà eterno. Un marinaio costruirà modellini di navi all’interno di bottiglie di vodka e whisky, dopo averle svuotate. Rimarrai a osservare il suo lavoro, come introduce i pezzi dallo stretto collo e, una volta all’interno, li sistema con un lungo ago ad uncino e grande abilità. Il giorno del tuo compleanno, ti 583 farà una sorpresa e te ne regalerà uno costruito dentro una bottiglietta da farmacia, una miniatura dei grandi velieri norvegesi che avete visto all’isola di Deception con tanto di bandiera. Quando ormai ti stavi dimenticando di essere un infermiere, ecco che ti regalano una barca dentro una bottiglietta da farmacia. Ma d’altra parte, anche il moltiplicarsi degli ammalati ti ricorderà che sei un infermiere. Axel ti si avvicinerà dicendo che ha un forte mal di testa. A John verranno i geloni ai piedi. Il cuoco avrà dolori reumatici. In generale, la salute di tutti ne risentirà e peggiorerà. Se ne andranno quasi tutti gli animali, non si vedranno esseri vivi, eccetto qualche procellaria. Nelle poche ore di sole, quando arriva qualche raggio, sulla neve le vostre ombre saranno molto lunghe. All’ora di colazione, il cuoco ti darà una grande gioia quando busserà alla porta con sei o sette tazze fumanti di cioccolata calda su un vassoio. “L’ordine del signore...” dirà Bobbi abbassando la testa come i camerieri neri degli 584 L’amico congelato hotel per ricchi. Tornando in cucina, lo si sentirà gridare: “Un topo! Un topo!” Sorprenderà il ratto mentre mangia i rifiuti. Ma non lo catturerà, si limiterà a guardarlo. Bobbi inizierà a seguirlo con una scopa in aria ma non riuscirà a catturare quel compagno di viaggio, sicuramente lo stesso che avevi visto in coperta tempo fa. “Maledetto topo d’acqua!” dirà. Poi qualcun altro dirà di avere paura dei topi, perché sono la miniatura di animali che potrebbero essere dei giganti. Anche quel giorno verrà abbellito sul finire da un tramonto meraviglioso. John comincerà a impallidire e non parlerà più tanto. “Mi fanno male le gambe” dirà con sorprendente brevità. Sospetterai che possa trattarsi di anemia, scorbuto o qualcosa di simile. Avrà le gambe 585 gonfie. Inoltre ti sembrerà che anche un ragazzo chiamato Franz abbia tutti i sintomi dello scorbuto. Chiederai al cuoco di non preparare, per qualche giorno, cibo inscatolato. E dovrai trovare dell’acido citrico. Hai delle vitamine nella borsa, dovrai distribuirle, soprattutto tra quelli che hanno sintomi evidenti. “Dobbiamo andare a cercare carne animale...” dirà il cuoco. Ma, eccetto gli uccelli che sotto le piume non hanno altro che ossa sottili, praticamente non si vedranno animali nei dintorni. Inaspettatamente, in lontananza, con il binocolo avvisterete una foca. Messe le ciaspole, vi avvierete con il fucile, senza perdere di vista il vostro bersaglio nero nella lontananza bianca, e la troverete sdraiata sul suo soffice giaciglio. Uscita alla luce dopo aver bucato la pelle gelata del mare, si starà godendo un momento di meritato sole. Le girerete attorno e l’animale alzerà la testa e aprirà la bocca come fosse un libro, mostrando i denti e ruggendo. Non sarà sola, avrà accanto un cucciolo. 586 L’amico congelato Penserai che è appena nato, perché ci sarà del sangue sulla neve e la pesante foca avrà l’aspetto di una madre sfinita. Il cucciolo sarà nervoso, inquieto e molto bello, come tutte le creature che giocano accanto alla madre. Allora prenderai il cucciolo di foca in braccio. Deciderete di far muovere la foca fino all’imbarcazione invece di ucciderla così lontano, anche perché non sarebbe facile trascinare il suo cadavere. Se vi portate via il cucciolo, la madre vi verrà dietro, con il suo stanco canto lamentoso, trascinandosi, allungando la scia di sangue sul ruvido ghiaccio rugoso. La porterai in braccio, pur essendo un cucciolo peserà parecchio e, prima di arrivare all’imbarcazione, dovrai fermarti a prendere fiato. Lascerai a terra il suo morbido corpo e ti si avvicinerà tarra tarra, strofinerà la schiena sui tuoi scarponi, alla ricerca di altre carezze. La madre verrà a cercare il cucciolo, lamentandosi minacciosa e si tranquillizzerà solo quando avrà di nuovo attaccata a sé la creatura, che succhia il latte che le esce dal naso. Dovrete 587 spararle accanto allo scafo dell’imbarcazione intrappolata nel ghiaccio. Ti daranno il fucile, fisserai l’animale nel mirino, lo vedrai da vicino e, proprio quando si sentirà il suo bramito acuto e terrificante, premerai il grilletto. Dal cuore della foca sgorgherà un abbondante zampillo di sangue. Agiterà il corpo nel tremore dell’agonia e terrà aperti e puntati su di te i suoi occhi belli e lontani, con l’espressione di chi non ha capito cosa sia successo. Il cuoco le toglierà la pelle e, nell’aprirla, troverà lo stomaco pieno di pesci. Si sentirà un canto di primavera al di sopra di questo deserto marino gelato: Oh, to be in England Now that April´s there… Sì, sarà aprile, ti sveglierai alle nove del mattino, salirai in coperta e sarà ancora notte fonda e il vento gelido soffierà con forza. Dopo 588 L’amico congelato l’estate, l’autunno e l’inverno, è come se, oltre alla primavera, ci fosse una quinta stagione molto più dura dell’inverno. Rimarrai sul ponte laterale per sentire il risvegliarsi del giorno. Il sole ancora nascosto inizialmente illuminerà le cime degli iceberg. Poi si alzerà poco a poco, color arancione, e illuminerà l’immacolata pianura creando ombre lunghissime sul biancore accecante. Quando sarà giorno, sbarcherai ed inizierai a camminare. La polvere di neve ti farà male al viso. Farai un passo e la neve sarà morbida come le piume, non parlerà ma sentirai il suo lamento, la voce della neve sarà come quella di un adolescente, delle foglie secche, di un foglio che si accartoccia. Non ci sarà niente attorno a te, solo il vento glaciale e non saprai dove stai andando. Gli aghi di neve ti faranno molto male, il vento ti ruberà il respiro e il biancore ti impedirà di vedere. Camminerai nella neve senza una meta e all’improvviso ti renderai conto che ti sei perso. Il biancore diventerà completamente scuro, alzerai la mano all’altezza degli occhi e non vedrai né 589 il guanto, né la mano, né niente, eccetto questa bianca oscurità. Ti renderai conto che sei cieco. Allora cadrai faccia a terra. Cercherai di alzarti e avrai la sensazione di essere diviso a pezzi, come se ogni pezzo volesse un modo di vita diverso e si perdesse in luoghi e stagioni diverse. La tua mente si eleverà e guarderai lo spettacolo del vento glaciale da una prospettiva alta, mite e dolce, il vento scuote la neve dal suo giaciglio, la raccoglie in mulinelli e la porta da una parte all’altra. E lì sotto ci sei tu, il bambino, vestito di pelli, e in questo strano chiaroscuro il tuo viso sembra una maschera bianca di cartongesso. Tuo padre sta cacciando foche, all’interno tua madre sta cucendo abiti con pelli di foca e tu sei il bambino che si trova davanti all’igloo. E il sole, che non può alzarsi in cielo, allungherà in modo smisurato la tua ombra. “Mamma, dov’è il papà?” chiederai. “Dove vuoi che sia!” “Si è perso?” “Dai, vai a fare un giro e lasciami un momento tranquilla, ma non ti allontanare, altrimenti il Grande 590 L’amico congelato Ladro ti catturerà.” Guarderai la pianura infinita alla ricerca di tuo padre e in lontananza scorgerai un puntino. Ti avvierai in quella direzione, sempre più lontano dall’igloo ma, quando ti fermerai e ti guarderai attorno, non vedrai da nessuna parte né il punto, né l’igloo, né nient’altro in quella pianura infinita. In cielo vedrai passare le anatre in volo. “Dove andate?” le chiamerai. Senza interrompere il loro volo, le anatre ti risponderanno: “Fuggiamo, perché arriva la lunga notte.” Sai che con la lunga notte il Grande Ladro raccoglie tutto quello che si è perso e lo porta nel Paese degli Oggetti Smarriti. Al tramonto camminerai e camminerai nella neve, ma non troverai la strada per tornare a casa e la lunga notte ti catturerà. Incontrerai uno strano personaggio e vedrai nell’oscurità le sue grandi corna di renna. “E tu chi sei?” gli chiederai. “Sono il Maestro dei Sogni” ti dirà. “Finché dura la lunga notte cerco compagni di gioco e ne 591 conosco molti di divertenti. Vuoi rimanere a giocare con me?” “Non posso fermarmi a giocare, devo tornare subito a casa.” “Verrei con te, ma non posso uscire dalla notte,” ti dirà con tristezza il Maestro dei Sogni. “Ma, se ti sei perso, vai da quella parte dove si vede un po’ di luce all’orizzonte...” Proseguirai sulla neve e arriverai esausto in riva del mare. Lì è l’alba ma l’acqua ti sembrerà scura e minacciosa. Vicino alla costa c’è un’isola libera dal ghiaccio ma, quando ci salterai sopra con un salto, inizierà a muoversi. Te ne renderai conto tardi, quando sentirai gli schizzi d’acqua: sei sopra una balena. “E tu?” dirà la balena. “Che ci fai, tu, sulla mia schiena?” “Credevo che tu fossi un’isola.” “Un’isola! Tu saresti capace di costruire un igloo sulla mia schiena.” “No, no, no... Non ho intenzione di rimanere a vivere qui.” “Dove stai andando?” 592 L’amico congelato “A casa.” “E dov’è la tua casa?” “Non lo so.” “Allora ti sei perso!” Le risponderai di sì e la balena muoverà la testa in mezzo alla baia nera. Cadrai in acqua e affonderai fino a ritrovarti intrappolato in una fitta rete, nelle profondità degli abissi marini. Così vedrai molti altri oggetti intrappolati nella rete come te. Slitte, racchette, guanti, strumenti da caccia, giochi di bambini, cani da slitta e molte altre cose. “Papà!” dirai vedendo anche tuo padre nella rete. Sei prigioniero nel Paese degli Oggetti Smarriti. E quel gigante che vedi lì come un polipo è il Grande Ladro, che vigila la sua grande rete di cattura. “Non è più perso, l’ho trovato...” dirà il bambino al Grande Ladro, indicando suo padre: “È vero, hai ragione!” ammetterà il Grande Ladro. E solleverà un estremo della rete per liberare il padre. 593 Esci subito anche tu, prima che la rete si richiuda. Scapperete sotto di essa e nuoterete rapidamente verso la superficie e poi fino alla terraferma, portandovi a rimorchio la rete piena di oggetti smarriti. Raggiunta la costa, proseguirete veloci sulla neve trascinando la rete fino all’igloo. Nell’aprirla, libererete animali, amici e oggetti d’ogni tipo. “Grazie” dirà un’anziana inuit, libera dalla rete e prima di avviarsi verso casa. Quell’altro è Tarje, per lo meno ha il viso di Tarje, quello sconosciuto che, toltosi la rete da dosso, vi ringrazierà: “Non è un brutto lavoro!” ti dirà mostrando la mano monca. La gente che ha perso qualcosa verrà a controllare la rete e tutti se ne andranno con l’oggetto non più smarrito. Da sotto la rete usciranno animali di molte specie, lupi bianchi, foche, renne, lepri delle nevi, gufi. Facendo grae grae, i gabbiani bianchi voleranno via dalla rete... Nell’aprire gli occhi vedrai Edna. 594 L’amico congelato “Ti abbiamo trovato privo di conoscenza a duecento metri da qui” sentirai. E la nonna è vicino al fuoco: “Non uscire con questa neve!” dice la nonna dal letto, la nonna del casolare Mugertza di Murelaga. Poi sentirai di nuovo la voce di Edna: “Ti ha trovato Axel praticamente sepolto sotto la neve.” “Ti abbiamo cercato come dei matti” ti dirà Axel, “avevamo paura che si ammalasse la persona che ci deve curare...” Tremerai molto e il brodo caldo portato da Bobbi ti scalderà un po’, mentre senti i mulinelli del vento, la neve accecante e la nebbia della lunga notte lì fuori. La nave rompighiaccio non è ancora arrivata. 595 34 KAPUT Da quando erano iniziati gli esami di fine anno, capitava che alla punta del molo potevamo andarci solo con l’immaginazione. Avevamo molto da studiare, ma non era facile concentrarsi sui libri, sulla concordanza di genere e numero del pronome relativo con i suoi antecedenti, o sul lontano palazzo di Nankin, o sulle caratteristiche del congiuntivo, o rispetto all’etimologia soumis à, il en indique la possibilité, le caractére souhaité, e un intenso desiderio di conoscere ci portava ad alzare gli occhi dal libro e ci spingeva per strada fino alla punta del molo, dandoci addirittura il coraggio e la forza per superare la recinzione di pietra. “Anche noi siamo un po’ congiuntivi...” disse Inazito a bassa voce. Quando alzammo gli occhi dal libro, ci 596 L’amico congelato rendemmo conto che la professoressa di francese stava piangendo e, nel bel mezzo della lezione, fummo scossi da un brivido. I giornali dicevano che l’esercito nordamericano aveva realizzato quell’anno ventimila operazioni belliche in Vietnam e che, alla fine, i vietnamiti si sarebbero dovuti arrendere. E che il mondo viveva con il timore di un’altra guerra, che la bomba atomica avrebbe potuto distruggere completamente la vita sulla superficie terrestre, che l’intero pianeta poteva sparire senza lasciare tracce e che forse sarebbero sopravvissuti solo gli scarafaggi sulla superficie desertica della Terra. Nonostante tutto c’erano delle speranze, l’automatizzazione e la cibernetica facevano grandi progressi, ben presto sarebbero state le macchine a fare tutto il lavoro. L’Athletic di Bilbao andava bene, aveva vinto le ultime tre partite del campionato, la Real Sociedad aveva pareggiato uno a uno in trasferta, l’Osasuna aveva perso la partita in casa tre a due... Non arrivavano navi cariche di bauli. Alle sei del mattino iniziava l’asta delle casse e delle ceste 597 di pesce. “C’è sempre meno pesce in mare” si diceva. I pescatori erano preoccupati, perché la pesca era scarsa, tutto era caro e dovevano andare sempre più lontano per pescare. A scuola quando si citava l’Africa era per riferirsi ai bambini del Biafra e alle campagne della Croce Rossa, alle elemosine e ai missionari. Ma i pescatori di Kalaportu dovevano raggiungere l’Africa per pescare e così noi, mezzi addormentati, in Africa cercavamo Dakar, Freetown, Monrovia, e li trovavamo sottolineati con una penna rossa non si sa da chi. Intanto a casa di Goio si mangiavano ancora pesciolini che sapevano di fango, la parte che toccava alla madre nella divisione al porto. Pagelli con patate, sgombri e riso, gattuccio e ceci, melù e zuppa d’aglio, quello che i pescatori di merluzzo scartavano per la vendita. Sui muri si vedevano ancora le fotografie dei giovani uccisi dalla Guardia Civil al porto e noi raccoglievamo confuse idee rivoluzionarie e 598 L’amico congelato di classe, perché leggevamo e mischiavamo con passione, oltre a quelli di scuola, anche libri proibiti. Quel Karl Marx della copertina del Manifesto Comunista ci sembrava simile a quel Sabino Arana con le tradizionali espadrillas che aveva detto che Euskadi era la patria dei baschi e che ci guardava da dietro le sbarre del carcere. Entrambi avevano la barba, come Pierre Joseph Proudhon che aveva detto che La propriété c´est le vol, come il Che Guevara degli adesivi e come quel giovane che durante la manifestazione aveva lanciato in aria volantini all’angolo tra Goienkale e Zeharkale. E, una volta, proprio a Kalaportu, quando sentii dire Quello è Gabriel Aresti, mi sembrò il poeta più clandestino del mondo. “Guarda, è Gabriel Aresti, quello che ha scritto Egun da Santimamina”. Perché si cantava Euskadi libre ikusi arte ez dut moztuko bizarra.15 “È di Bilbao, come te” mi disse Goio. “È malato e vive qui vicino, nel porto di Ea”. 15 Finché non vedrò Euskadi libera non mi taglierò la barba. [N.d.T.] 599 Ci sembravano simili e complementari la canzone che Josemaria Iparragirre aveva composto per l’Albero di Gernika e il quadro di Pablo Picasso sul bombardamento della cittadina. Cercavamo delle confluenze e, quando Padre Alvarez proiettò il film dei fratelli Marx, noi eravamo lì, le lucciole, per prendere come maestri segreti Charles Chaplin, Buster Keaton, Sigmund Freud e i fratelli Marx. Confondevamo la parola Repubblica con la parola Indipendenza e ammiravamo solo le scuole clandestine in basco: per noi, che in collegio ci sentivamo dei sequestrati, tutto ciò che era proibito e marginale era apprezzabile. Quando andammo alla Petit Maison? Era una mite notte di maggio quella in cui noi tre, uno ancora con i pantaloni corti, ci recammo al bordello. Ci avevano detto che sotto il vestito non indossavano biancheria intima, che erano di un posto o di un altro, che erano delle donne bellissime e dovevamo andarci subito, perché prima o poi 600 L’amico congelato l’avrebbero chiuso: il sindaco, il prete e affini si stavano dando da fare per cacciare le prostitute dal paese. “Dove andate?” ci chiese Juanjo al pomeriggio, quando vide me e Inazito puliti ed eleganti. “A mettere l’uccello nel nido” disse Inazito. Camminammo al buio seguendo la strada, finché non trovammo un’insegna luminosa su ci si poteva leggere: Petit Maison Avvicinandoci alla casa, scorgemmo una sigaretta accesa, capimmo che c’era un portiere seduto all’entrata e riconoscemmo il Portoghese. Ci abbagliò dalla testa ai piedi con una torcia elettrica: “Cosa cercate da queste parti?” “Venire a trovarvi e bere una birra, se è possibile” rispondemmo. “Questi non sono posti per bambini!” disse puntando la luce della torcia sui pantaloni corti. “È troppo caro per voi.” 601 “Abbiamo i soldi” gli rispondemmo. “Soldi, ma certo! Avrete bisogno di mille pesetas ciascuno.” “Allora, guarderemo soltanto” disse Inazito. Il Portoghese scoppiò in una risata: “Guardare, nemmeno per sogno!” disse. “Guardare!” ripeté mentre continuava a ridere. Ancora lì sulla porta ci guardammo e decidemmo di unire il denaro di tutti e usarlo per uno solo. “Quanto abbiamo?” “Io 200” disse Inazito. “Io 150” disse Goio. Io avevo 300 pesetas. Al Portoghese dovevamo far pena, o forse era stufo di tenere la porta chiusa e ci disse di passare. Entrammo dietro di lui, all’interno tutto era di color rosso intenso e nella rossa oscurità si intravvedevano le tappezzerie e la decorazione. Avevamo per lo meno i soldi per berci una birra ciascuno e ci sedemmo sugli alti sgabelli vicino al bancone. C’erano tre candele, infilate nella bocca di 602 L’amico congelato bottiglie vuote di patxaran Zoko. Il portoghese apparve dietro il banco e ci servì tre birre. Poi andò a parlare con due donne che chiacchieravano in un angolo, mentre noi ci giocavamo a sorte a chi sarebbe toccato. “Non l’abbiamo fatto bene, dobbiamo rifare” dissi quando mi toccò il bastoncino più lungo. Le due donne ci osservavano dall’angolo della sala. Una era bionda, i capelli tinti e il viso truccato, l’altra era nera e con i capelli ricci. Anche la seconda volta presi il bastoncino più lungo. “Chi ti piace di più, io o l’altra?” mi chiese la bionda in basco. “È lo stesso” dissi, pieno di vergogna e facendo finta di essere più interessato alla birra e all’intimità tra amici che a quella faccenda. “Come, lo stesso?” la bionda mi si avvicinò. Odore di fumo, di colonia, di disinfettante, di vacca. “Cosa succede, ragazzo, non vuoi guardare dalla finestra?” mi chiese aprendo ancora di più la scollatura. 603 Gli occhi di Inazito cadevano come fossero biglie sul petto prosperoso della donna. “Ma chi ha vinto?” “Lui, lui!” disse Inazito. E la bionda mi trascinò su per le scale con la forza di un partecipante a una gara di tiro con i buoi. Inazito e Goio rimasero di sotto con la bottiglia di birra in mano ma, dopo poco, si avvicinò la ragazza nera: “Bevete!” gli disse in francese. “A cosa vi serve la bottiglia, come microfono?” Senza aggiungere altro, slacciò uno a uno i bottoni dei pantaloni di Goio, si inginocchiò, lo annusò e dette un bacio a quel pezzo di carne senza nome. Poi lo prese per mano e, senza dire nemmeno una parola, lo portò su per le scale. Goio fece alcuni gradini dietro di lei finché non entrò in una stanza. In mezzo c’era un grande letto, coperto da un lenzuolo rosso, e Goio si sedette in un angolo, con la bottiglia di birra ancora in mano. “Lascia giù la bottiglia!” gli disse la donna, 604 L’amico congelato di nuovo in francese, e gliela tolse dalla mano. Gli diede un asciugamano e gli indicò il bagno. Goio ci andò, si lavò, si asciugò e tornò al letto. La donna era nuda, Goio le tocco il pube con l’intenzione di esplorare i luoghi così spesso menzionati e immaginati nelle conversazioni tra ragazzi, ma la ragazza gli allontanò la mano. Poi spogliò Goio come una madre spoglierebbe il suo bambino piccolo e gli toccò il petto con le sue lunghe unghie scure, come se gli ordinasse di sdraiarsi sul letto. Goio fece per abbracciarla ma lei gli fece cenno di rimanere fermo. “Faccio io” disse. “Ecco qua l’amico!” Chiamò amico in francese il senza nome e se lo mise in bocca. Goio non aveva mai provato una sensazione così morbida e tiepida. La ragazza muoveva la testa su e giù e, quando Goio iniziava a tremare di piacere, rallentava un po’ il movimento per poi intensificarlo di nuovo. Goio infilò una mano nei suoi capelli ricci. Allora la ragazza si tolse il pene di Goio dalla 605 bocca e si mise sopra di lui a quattro zampe e, quando ebbe il sedere proprio sopra il pene teso e sembrava che si sarebbe inginocchiata, si sedette sopra di lui e lo introdusse in quell’altro rifugio umido, morbido, caldo. I seni scuri della ragazza profumavamo di latte bollito, iniziò a emettere dei gemiti e a muoversi come se stesse cavalcando un cavallo. Goio andava alla deriva in un mare di piacere, finché sentì un dolce colpo interno, il corpo venne scosso da un breve attacco epilettico e sospirò. “Kaput!” disse la ragazza, scendendo dal corpo di Goio come si smonta da cavallo. Mentre lei si lavava in bagno, Goio si rivestì. Sapeva che la ragazza si aspettava una maggiore abilità e conoscenza da parte sua, si vergognava, era sudato e aveva di nuovo il pene in erezione. Goio cercò di baciarla ma la ragazza non glielo permise. 606 L’amico congelato Io scesi alla svelta al piano terra. “Ma se non ci sei stato nemmeno cinque minuti” mi disse Inazito indicandomi l’orologio, “così non vale.” Io gli dissi che avevo fatto quel che dovevo fare, benché anch’io avessi la sensazione che non fosse successo niente. Anche Goio ridiscese subito. “Anche questo non ha concluso niente!” protestò Inazito. Goio invece diceva che l’aveva fatto. Scendendo in paese lungo la strada dalla Petit Maison, Inazito ci disse che aveva avuto un’interessante conversazione con il portoghese. “Sa molte cose” disse. “Cosa ti ha detto?” “Sono diventato triste quando mi ha raccontato la storia delle balene. Un’ottantina si erano arenate su una spiaggia del Portogallo, come se avessero deciso di andarci a morire. Il Portoghese dice che è per colpa del buco che si è fatto nell’ozono del cielo...” 607 “Che buco?” gli chiesi io. “Gli scienziati hanno trovato un buco nel cielo, anche se è quasi proibito parlarne. Pare che nel cielo ci sia un buco e che i raggi del sole entrino da quel buco senza essere filtrati e provochino il cancro.” Camminavamo guardando il cielo nero. “Scommetto che non sapete di chi è la colpa” continuò Inazito, “delle donne eleganti, della loro lacca in bombolette. A loro non piace che il vento gli spettini i capelli e le bombolette di lacca che usano per fissarli sono ciò che provoca i buchi nell’ozono, dice il Portoghese.” “Non riesco a capire come una bomboletta di lacca possa fare un buco nel cielo...” gli dissi. “La bomboletta contiene del gas ed è quel gas che buca il cielo.” “E cosa c’entrano le balene con la lacca e le donne e il cielo?” “Era quello che gli stavo per chiedere quando siete ritornati” disse Inazito. “Dovrò tornarci un’altra volta per farmi raccontare come va avanti la storia...” 608 L’amico congelato Io e Goio camminavamo in silenzio. Nella notte non si scorgeva nessun buco speciale, era tutto un unico buco nero. “E a te cosa ha detto?” chiese Inazito a Goio. “Chi?” “La ragazza, dopo la scopata.” “Kaput!” disse Goio. “Che cosa ti ha detto?” “Quando abbiamo finito mi ha detto: kaput.” “E cosa diamine significa kaput?” chiese Inazito. “Non lo so” disse Goio. “Io sì lo so” dissi, perché durante le vacanze estive avevo letto il romanzo di Julio Verne e Curzio Malaparte. “Sarà il titolo del romanzo di Curzio Malaparte.” E accettarono quella spiegazione. “E a te cosa ha detto alla fine?” chiese Inazito. “Mi ha detto di tutto!” risposi. E lo dissi con forte accento di Gipuzkoa, in modo che i miei due amici ridessero, “quella di oggi è quasi gratis, maledetti ragazzini, ma la prossima 609 volta portate i soldi, d’accordo?” Scoppiammo a ridere e continuammo a camminare in silenzio, ognuno perso nel pallone dei propri pensieri. All’improvviso, Inazito disse: “Anche gli elefanti vivono così in Tanzania.” 610 L’amico congelato 35 TORNARE A CASA “La nave rompighiaccio non può arrivare fin qui e dovranno recuperarci dal cielo” avviserà più tardi qualcuno. Passerete le ore dei giorni seguenti alla luce di un bianco circolo astrale che nella nebbia è difficile capire se è il sole o la luna, aspettando di vedere arrivare qualcosa dal cielo. Ma non vedrete altro che i chiari segnali di una tempesta di neve che si avvicina soffiando da ponente. A un certo punto, si sentirà il rumoroso girare di un’elica, un metallico pal pal pal che turba la quiete della neve. Prima di scendere, si metteranno in comunicazione via radio: “Sì, siamo qui!” “Scenderemo subito, vi cerchiamo da molto tempo e ci resta poco carburante.” 611 “Siamo qui!” dirà di nuovo il nostromo. “State tranquilli, sappiamo dove vi trovate...” Uscirete tutti fuori e guarderete l’elicottero di color verde chiaro che solleva polvere di neve. Il nostromo lancerà, senza molto senso, dei bengala rossi e bianchi. Appena toccato terra, dall’elicottero scenderanno con un salto sulla neve dei militari americani con uniformi bianche e i fucili in mano. Vi spaventerete tutti un po’ per questa logistica militare, perché prenderanno posizione come se si trattasse di una manovra o di un’operazione di guerra. Su un fianco dell’elicottero leggerete Dakota P9R. “Sono il tenente March” vi dirà uno dei militari. “Abbiamo provato a venire con una nave, rompendo il ghiaccio, ma è stato impossibile...” Porteranno tutti alla nave in elicottero. “Non conviene spegnere il motore dell’elicottero. Dobbiamo andarcene il più presto possibile...” E tutto succederà in pochi meteoritici minuti. Raccoglierete le cose imprescindibili e 612 L’amico congelato salirete sull’elicottero che muove l’aria producendo un forte pal pal pal. “Ci siamo tutti?” All’interno il ruggito del motore sarà ancora più roboante e l’elicottero si alzerà di colpo come se cadesse verso l’alto. Vedrai Edna vicino a Bobbi, e anche il nostromo accanto a John, e sentirai un forte solletico allo stomaco. Guardando l’imbarcazione dall’alto, ti sentirai come un arbusto strappato alle radici. Una volta raggiunta una certa altezza, l’elicottero volerà orizzontalmente tra la nuvole. Siete seduti rivolti all’indietro e, guardando la nebbia e la neve che vi lasciate alle spalle, avrai la sensazione di andare contro il tempo. L’elicottero si inclinerà da una parte e dall’altra, dondolerà facendo un forte rumore, come un uccello ubriaco. Presto sarà buio e si vedrà una luna strana. Passerete sopra le cime di ghiaccio, più erette delle sentinelle sotto di voi. Rimarrà tutto indietro, sotto. 613 La rompighiaccio vi starà aspettando come un cigno bianco. Avvicinandovi alla prua leggerai il suo nome su un fianco: Iceblink Quando l’elicottero atterrerà sul ponte, vedrai i cannoni e le apparecchiature e capirai che si tratta di una nave militare. Allora guarderai la borsa che hai con te e ti renderai conto che non hai preso i documenti, che hai perso il passaporto in quel pezzo congelato di mare. La rompighiaccio ha già la poppa rivolta verso sud e, appena arrivati voi, si dirigerà verso nord, come se avesse davanti una strada di acqua nera, con bianchi campi di ghiaccio ai lati, oltrepassando ogni tanto queste gigantesche costruzioni che sono gli iceberg. “Ho una voglia immensa di mangiare frutta” dirà Edna. Menzioneranno la parola Homeland che 614 L’amico congelato tradurrai con casa. “Io vorrei essere su una spiaggia della Florida” dirà Axel. “E io in un bordello di Amsterdam” dirà Franz. Ti accorgerai dello sfasamento tra il movimento delle labbra dei tuoi compagni e il suono delle loro frasi. “Qualcuno crede che quando il sole si spegnerà, non so fra quanti milioni di secoli, tutta la Terra avrà l’aspetto dell’Antartico. Quando il sole si spegnerà, il mondo si congelerà, il ghiaccio si estenderà su tutto il pianeta e cadrà nello spazio infinito come una palla da baseball ricoperta di ghiaccio bianco. Non vedete la somiglianza di questo Antartico con quella città globale in cui si sarà trasformato il mondo?” Axel muoverà le labbra e a volte le frasi corrisponderanno al movimento, altre volte ci sarà una certa dissonanza. “In ogni caso, non tutto è morto. Gli animali e le piante si sono estinti, ma c’è ancora un resto di vita: il corethron. Il corethron è una pianta microscopica, 615 parente delle alghe delle acque ferme, ma mentre le alghe muoiono con il freddo, il corethron ha un guscio di vetro per sopravvivere. Il corethron si muove nell’acqua sfruttando la propulsione di ogni minimo movimento della stessa, è un ottimo nuotatore. Quando resta intrappolato nel ghiaccio non può muoversi ma si riproduce, dividendosi in due...” Nei tratti dove il varco nero si è chiuso, la nave rompighiaccio deve fare delle manovre per aprirsi un altro cammino. “Fra qualche milione di anni, il corethron probabilmente sarà l’essere vivo del futuro, quando la vita dipenderà dal silicio e non dal carbonio come adesso. Allora le persone dovranno essere di vetro...” Uscendo in mare aperto proverai una forte sensazione di libertà. Il vento soffierà da nordovest, con pioggia e nebbia. Le temperature aumenteranno di giorno in giorno: -9, -7, -6, -4. Però sai, border crosser, che senza 616 L’amico congelato documenti falsi non ti si aprirà nessuna frontiera. Finalmente al sole, anche se non si può dire che siate proprio sotto il sole, che è molto debole, ma piuttosto accanto a un sole basso. Pur essendoci una forte mareggiata, rimarrete fuori a chiacchierare. Nessuno può costruirsi un nido o una casa con fondamenta nell’acqua perché questo è lo spazio della fuga e del ritorno. E vedrete una balena. “Il mare è diventato un pericoloso labirinto per le balene” dirà qualcuno. “Si lasciano le reti aperte, a volte anche di venti chilometri; l’acqua viene inquinata in tutti i mari, mentre si moltiplicano le piattaforme petrolifere; anche l’inquinamento acustico turba il loro senso dell’orientamento e, senza avere una meta, si incagliano ovunque...” La vedrete da vicino, sentirete il bramito e gli schizzi d’acqua quasi vi raggiungeranno. Sarete testimoni del getto e del violento colpo di coda, la balena si sommergerà nell’acqua per riapparire poco dopo... Quell’oscuro corpo che si muove molto lentamente potrebbe essere della stirpe di 617 Moby Dick. Un corpo gigantesco che vive senza presunzione. “I norvegesi e i giapponesi le stermineranno e, quando il mare sarà un deserto, dovremo gonfiare e mettere in acqua balene di plastica...” sentirai dire. “Le balene hanno memoria” dirà un altro. Ricordare, e perché? Nel futuro non esisterà più la memoria. Allora riconoscerai la voce di Axel e ti fisserai sul movimento delle sue labbra: “Inoltre, siccome sono poche, per loro è sempre più difficile incontrarsi in mare. I maschi e le femmine, benché si cerchino reciprocamente, non si incontreranno mai e moriranno in solitudine in questo mare infinito...” E la balena si perderà a babordo. “Forse andrà a morire su una spiaggia della Florida...” dirà qualcuno. “Sicuramente non andranno a un bordello di Amsterdam...” dirà Franz, provocando una risata generale. Mangerete insalata, uova di gallina, 618 L’amico congelato prosciutto e frutta. Per la prima volta in tutto il viaggio in veste di invitato, il cuoco mangerà seduto vicino a te, ritmando con il cucchiaio sul piatto la musica del gruppo New Kids on the Block. Poi potrete vedere un video e ti siederai vicino a Edna. “Sono cortometraggi di Buster Keaton” ti dirà. In quel One Week, Buster Keaton ha ricevuto come regalo di nozze le parti di una casa prefabbricata, sistemate in una dozzina di casse. Ma siccome un suo nemico ha cambiato la numerazione delle casse, quando cercherà di assemblare i diversi pezzi si produrranno un’incredibile successione di disgrazie ed equivoci. Il vento rovescerà come fosse un guanto la struttura assemblata a fatica, e un treno dividerà in due la casa... È quasi impossibile montarla e, inoltre, quando riuscirà a costruire qualcosa lo farà nel posto sbagliato, sul terreno del vicino. “E tu, dove andrai?” sentirai, e le labbra di Edna si muoveranno. 619 Il cortometraggio successivo ha come titolo Cops. Si vedrà Buster Keaton che corre da solo lungo una strada deserta e, dietro di lui, appariranno migliaia di poliziotti che rincorrono il fuggitivo. “Cosa?” “Questa nave adesso va a Ushuaia. Da lì ci porterà alle isole Falkland. Passeremo la notte nel porto di Stanley e poi prenderemo una nave mercantile che va a New Orleans”... Sentirai la frase e vedrai le labbra di Edna muoversi, ma non potrai sovrapporre le due cose. “Cosa farai?” Non saprai cosa fare e rimarrai a guardare Buster Keaton che è un disastro e va avanti come un pazzo, moltiplicando le catastrofi al suo passaggio, con il viso gelato, finché non si renderà conto che le catastrofi non sono la fine del mondo. “Non lo so” risponderai. Se continui il viaggio, forse avrai la possibilità di fermarti in Brasile o in Venezuela, o di ritornare sulla costa atlantica del Nicaragua. Ma, senza passaporto, sarai sempre in pericolo, perché in qualunque momento possono chiederti i documenti 620 L’amico congelato e, finché rimarrai su una nave militare, non avrai nessuna possibilità di controllare come possono gestire via radio la faccenda dei tuoi documenti andati persi. Prima sbarchi, meglio è. “Nemmeno io voglio tornare a casa” ti dirà Edna piano, unendo molto lentamente il tremore delle labbra con il suono della sua voce. “E chi ti ha detto che io non voglio tornare a casa?” Edna rimarrà a guardarti nella pancia della nave, senza sapere cosa le hai detto e cosa non le hai detto, mentre la nave procederà con i motori al massimo. 621 36 LA SPIAGGIA VUOTA “Anche gli elefanti vivono così in Tanzania.” A volte Inazito pronunciava frasi senza senso come questa. Pensavamo che a quell’ora tarda della notte Padre Solana avesse già abbandonato la sua postazione ma, quando iniziammo a scalare il muro di recinzione del collegio, ci rendemmo conto di essere caduti nella ragnatela. “Ecco lì la spia internazionale!” disse Inazito. Così lo vedemmo affacciato alla finestra del piano di sopra mentre, con un binocolo, controllava la strada che portava a casa di Goio. La Petit Maison era proprio di fronte al suo osservatorio e deducemmo che la vedetta sapesse da dove venivamo e che ci avesse visto entrare in quel luogo. Era inutile nascondersi e così, senza 622 L’amico congelato preoccuparci troppo, entrammo in collegio con una sensazione strana. “Non dorme!” disse Inazito. “Abbiamo sbagliato a portargli via quel Play Boy!” “Domani glielo restituiremo!” ribattei io ridendo. Il giorno dopo, a ricreazione, giocammo una partita e Goio era il nostro portiere. Scendemmo in cortile passandoci il pallone l’un l’altro, toccò a me e ad Emilio scegliere i giocatori. Emilio volle prima Zumalde, io Goio, lui Beixama, io Agustin... Appena iniziato a giocare ci fu il primo gol: “Rigore!” gridarono tutti assieme quando Emilio cadde a terra a causa dello sgambetto fattogli da Inazito. “Fallo! Fallo!” dicemmo noi. Emilio tirò la punizione con lo stile di Rivelino e, benché Goio saltasse più di una tigre, fece gol. Il pallone andava da una parte all’altra del campo regolamentare, allora guardammo verso l’osservatorio e Padre Solana era immancabilmente lì. La finestra era chiusa ma dietro i vetri lui stava sempre vigilando. 623 E, mentre stavo guardando quella finestra, Emilio, quasi da centrocampo, tirò e fece gol. “Fuorigioco!” chiesi. Ma tra Emilio e Goio ce n’erano tre o quattro della nostra squadra. E Agustín, la nostra punta, si arrabbiò con me: “A cosa stiamo giocando, a calcio o a che cosa?” Sapevamo che sarebbe successo qualcosa ed eravamo nervosi. Quando sentimmo il battito delle mani che annunciava la fine della ricreazione, tornammo in classe in silenzio. Temevamo che non ci avrebbero nemmeno lasciato sedere e così fu. Quando stava per iniziare l’ora di Geografia, avvisarono: Antonio Martinez, Ignacio Michelena, Gregorio Ugarte, in direzione! Il Direttore, questa volta, ci ricevette uno a uno. Alzò la testa di marmo umido e fece lo stesso discorso a tutti e tre: avevano avuto anche troppa pazienza con noi che non rispettavamo le norme religiose, né quelle politiche, né quelle morali. Era sordo, ci faceva delle domande ma 624 L’amico congelato lo scopo dell’interrogatorio non era ascoltare le nostre risposte bensì trarre le sue conclusioni ed aggiungere i castighi corrispondenti. Ci disse che la scuola doveva occuparsi dell’educazione dei suoi alunni e non del recupero di elementi completamente degenerati. Per quelli esistevano i riformatori o le scuole speciali. Io fui il primo e rimasi in corridoio ad aspettare Goio, che uscì a testa bassa: “Qua non abbiamo più niente da fare!” disse. Lo disse con molta tranquillità. Non avremmo dovuto fare gli stressanti esami che stavano per iniziare. Ma io immaginavo mio padre, addirittura lo vedevo già, fra qualche giorno, come un cieco vede suo padre di fronte a sé. Immaginavo la sua faccia al sentire che mi avevano espulso dal collegio, si sarebbe slacciato la cravatta come un impiccato allenterebbe il cappio. “Non dovremmo più sopportare l’anidride pretesca!” disse Inazito, benché anche lui fosse molto spaventato. Nel frattempo non sapevamo se tornare in classe o no. C’era Geografia e il professor Patricio 625 stava parlando del colore del mare, parlava del mar rosso e del mar nero. Inazito decise di entrare in classe, perché voleva sapere del colore del mare, mentre Goio ed io ci avviammo verso Kalaportu. Quando arrivammo al molo, vedemmo le jeep della Guardia Civil davanti all’osteria di Felipe e l’ambiente ci sembrò strano. “Io vado a Zubieta” mi disse Goio. Sembrava che stessero arrestando delle persone. “Tu sei ancora innamorato, vero?” gli dissi. Non mi rispose e se ne andò, lasciandomi al molo. Così rimasi lì, a guardare le macchine e i camion che passavano sulla strada o, più in lontananza, le barche che uscivano o entravano in porto, i gabbiani, i passeri e le rondini che volavano irrequiete sopra i tetti. Vidi di nuovo lo scudo del Municipio, nel quale si vedeva una barca sopra un’onda, sei 626 L’amico congelato uomini remando e l’arponiere ancora in piedi dopo aver lanciato e conficcato l’arpione nella schiena della balena e se ne vedeva un’altra più grande accanto. Sotto, la frase: Abbiamo preso quelle grandi L’arpioniere prima aveva attaccato quella piccola che, una volta morta, avrebbero rimorchiato fino a una baia dove la balena madre, incapace di abbandonale la figlia, li avrebbe seguiti e sarebbe stata a sua volta catturata. Al pomeriggio andai a scuola. Avevamo Lingua spagnola e Matematica. Il passatempo di quel giorno fu masticare dei pezzi di carta e tirarli sul soffitto dell’aula. Le palline di carta con saliva si attaccavano e rimanevano lì e il soffitto era già abbastanza decorato. Io non ne feci nemmeno una, come se non avessi bisogno di lasciare tracce del mio passaggio in quel luogo. 627 Nel frattempo Goio era andato a casa di Ariane. Suonò il campanello ma la porta non si aprì. Una bambina di sette anni stava giocando con una corda davanti alla casa. “Stai cercando la ragazza francese?” “Sì, cerco Ariane” disse Goio. “È andata verso la spiaggia proprio adesso” gli disse la bambina. Così prese il sentiero che portava alla spiaggia. Lì avrebbe incontrato Ariane e si immaginava già i suoi capelli che le cadevano sulla schiena come pioggia libera e scura e il suo sguardo pulito e franco. Non era la prima volta che seguiva Ariane, l’aveva vista molte volte da lontano, senza avere il coraggio di avvicinarsi a lei, ma questa volta sì, le si sarebbe avvicinato, Ariane si sarebbe girata con i suoi occhi trasparenti e la sua rabbia. Perché mi segui, cosa vuoi da me? E Goio le avrebbe detto C’è bisogno di un motivo per vederti? Così le avrebbe risposto lui, con uno sguardo cinematografico da 628 L’amico congelato cowboy, alzando le sopracciglia e corrugando la fronte. Io non voglio niente. Allora Ariane se ne sarebbe andata e Goio sarebbe rimasto lì, al sole, con il sole negli occhi. Però Ariane sarebbe tornata subito e gli avrebbe detto Andiamo e, tenendosi per mano, sarebbero andati in spiaggia. Perché mi segui sempre come un cagnolino? Gli avrebbe chiesto Ariane, Perché sento una dolorosa mancanza che ha a che fare con te, le avrebbe risposto Goio e Ariane gli avrebbe regalato un allegro sorriso. Poi Ariane si sarebbe spogliata e tuffata in mare, scomparendo per un po’ sott’acqua per riemergere poi con i capelli aperti sull’acqua attorno alla testa e si sarebbe seduta vicino a Goio con il corpo bagnato, tremante, avrebbe raccolto i capelli a spirale sopra la testa, con la pelle d’oca, e poi gli avrebbe offerto le sue labbra paonazze per dargli un bacio. Ma Goio non incontrò Ariane sul sentiero che portava alla spiaggia di Zubieta. La spiaggia era vuota, con la bassa marea la sabbia era liscia e bagnata. Le onde morivano nella schiuma bianca 629 e c’erano alcuni gabbiani in aria. Con le scarpe in mano, iniziò a camminare sulla riva. A un certo punto, trovò un mucchietto di abiti che le onde prendevano per abbandonarli nuovamente sulla sabbia. Erano gli abiti e le scarpe di Ariane. Tutt’attorno era deserto, nessuno stava nuotando. Pensò che Ariane fosse annegata. I gabbiani volavano. Vide anche uno strano stormo di uccelli, di quelli che passano all’inizio dell’estate diretti a nordovest e che spariscono subito allontanandosi sul mare. E vide anche un peschereccio. Non era di Kalaportu, navigava senza bandiera e forse era una nave da pesca d’alto mare. “Dovrai andare alla scuola nazionale” gli disse sua madre. Quando tornò a casa, lei sapeva già che l’avevano espulso dalla scuola e stava piangendo. “Oppure dovrai iniziare a lavorare per mantenerti” aggiunse. 630 L’amico congelato Vedendo sua madre piangere sconsolatamente e non sapendo cosa fare, Goio si ritirò nella sua stanza. Si portò la radio in camera e si sdraiò sul letto con la radio appoggiata sulla pancia. Spostò la sintonia da una parte all’altra finché non trovò notizie di pugilato. Cassius Clay, Mohammed Ali, il pugile di Louisville sarebbe tornato a combattere sul ring. “Poi devo dirti qualcosa che non sai” gli disse sua madre dalla sala. Qualcosa che non sapeva, aveva detto sua madre, ma Goio sapeva già che, come Juan Bautista, anche lui avrebbe dovuto indossare la tuta da lavoro e iniziare a guadagnarsi il pane. Io non ci sarò per sempre, sua madre gliel’aveva già detto altre volte anche prima, Dovrai iniziare a lavorare per mantenerti. E perché no, sarebbe andato a lavorare e basta. Nel 1967, Cassius Clay, quando era campione del mondo, aveva fatto a pezzi la cartolina della chiamata alla leva per la guerra 631 del Vietnam ed era rimasto diversi anni in carcere e fuori dalla competizione sportiva. Quando gli restituirono il permesso di combattere, il campione del mondo era Joe Frazier. Così Cassius Clay, dopo aver sconfitto Oscar Bonavena, adesso affrontava il detentore del titolo ufficiale. Si presentò in pantaloncini rossi, Joe Frazier con pantaloncini verdi, così disse il commentatore. Classius Clay, prima di iniziare il combattimento, percorse quasi ballando il ring illuminato di quel magnifico Madison Square Garden e rise passando accanto a un serio Joe Frazier. L’arbitro parlò con entrambi e si sentì la campana che dava inizio al primo round. Cassius Clay si muoveva di più, ma Joe Frazier era come un carrarmato. Cassius Clay ha iniziato ad attaccare, si allontana un po’, poi si avvicina, balla attorno a Joe Frazier, non potendo attaccare come vorrebbe. “Vieni a cena!” gli gridò sua madre dalla cucina. Cassius Clay sferrava più colpi ma il commentatore, nervoso, diceva che quelli di Joe Frazier erano più efficaci. E via via che si 632 L’amico congelato succedevano gli attacchi, Cassius Clay sembrava si stancasse di più. “Goio, vieni a cena!” Al decimo round Cassius Clay recuperare. Ma all’undicesimo Joe Frazier azzecca quattro o cinque ganci e Cassius Clay inizia a traballare perdendo forza. Il dodicesimo round è duro, non può far altro che abbracciare Joe Frazier, come un naufrago abbraccia una tavola scura in alto mare, e Joe Frazier continua a colpire con una forza spaventosa. “Diventerà tutto freddo!” sentì dire a sua madre. “Sempre la stessa storia!” Tra un round e l’altro l’allenatore gli strofinò il torso, le cosce e la schiena con un asciugamano, e, al tredicesimo round, Cassius Clay si alzò quasi ballando e sferrò una raffica di ganci, finché non dovette rifugiarsi di nuovo contro le corde. Il quattordicesimo round venne vinto senza dubbi da Cassius Clay. Si alzò pronto a far suo anche il quindicesimo, ma Joe Frazier pensò la stessa cosa e, all’improvviso, mentre fermava un colpo di Cassius Clay, gli assestò un pugno fortissimo, 633 come una cannonata e il nero di Lousville cadde come morto. In quel momento sua madre entrò nella stanza, con gli occhi rossi e mordendosi le labbra, aveva delle lettere in mano: “Ti dirò la verità!” disse nervosa. Goio si sentì male all’udire la parola verità, mentre Cassius Clay si stava rialzando a fatica, le gambe tremanti e lo sguardo perso. “Questo è tuo padre!” disse, mostrando a Goio una fotografia ingiallita. Riuscì ad alzarsi ma a malapena si tenne in piedi, durante il minuto e pochi secondi che mancavano alla fine, debole, ormai sconfitto, mentre uno sfinito Joe Frazier continuava a colpirlo. Goio, in quella fotografia all’imperfetto, vide un viso stupido, completamente sconosciuto, che gli sorrideva. “Cosa?” chiese. Anche Joe Frazier era distrutto, diceva il radiocronista, ma la stanchezza e il dolore del vincitore sono assai diversi. “Queste sono le lettere che mi ha scritto, 634 L’amico congelato quattro in quindici anni. L’ultima è arrivata ieri.” Stupito, Goio rimase a guardare quell’estraneo e poco a poco quel viso gli si fece più conosciuto. “Ha i capelli rossi?” “Ha i capelli come i tuoi...” disse sua madre. “E se è mio padre, perché non porto il suo nome?” “Perché se ne andò!” Lesse il mittente: John Rhys. L’uomo della fotografia ingiallita viveva in una città chiamata Swansea, e voleva conoscere suo figlio. “Fra dieci giorni andrai a Southampton in traghetto da Bilbao e lui ti aspetterà lì, così potrai passare con lui una ventina di giorni.” Goio guardò le lettere una per una, erano in inglese e non capiva. Nemmeno sua madre le avrebbe capite. In una cartolina si vedeva un’enorme roccia in mezzo al mare, completamente coperta di gabbiani. 635 636 L’amico congelato 37 USHUAIA Mentre l’imbarcazione procederà avanti tutta, non potrai rispondere alle domande dei militari, Permanent Address, per esempio, quando alzeranno la testa e ti chiederanno Permanent address. “Sbarcherò a Ushuaia” gli dirai. “Non vuoi venire negli Stati Uniti?” chiederà l’ufficiale togliendosi gli occhiali dalla montatura dorata. “È strano, tutti i latinoamericani vogliono venire negli Stati Uniti...” “E gli indigeni?” gli chiederai. “Ah, sei un indigeno?” dirà sorridendo, come se le tue parole gli sembrassero divertenti. Gli altri andranno con la Iceblink fino alle Falkland e da lì negli Stati Uniti. “Se hai intenzione di fermarti a Ushuaia potrò pagarti solo la metà...” ti dirà il nostromo. 637 E ti pagherà la metà del tuo compenso come infermiere. “Così siamo a posto” ti dirà dandoti in mano 6.000 dollari, “senza guadagnarci né perderci niente...” Non calcolerai se ci guadagni o ci perdi e cercherai a Ushuaia l’hotel o la pensione più calda. Ushuaia è costruita su un pendio, al limite delle acque grigio-azzurre che penetrano tra le rocce nere della bocca del canale di Beagle. Le case sulla collina sono di legno, di cemento o di plastica e, per quanto riguarda i colori, sembrano dipinte da bambini con toni pastello, il tutto sotto nubi pesanti. Sceglierai un bungalow di legno che assomiglia ai vecchi rifugi di montagna del Gorbea o di Irati, ma con le comodità dei moderni holiday inn. Il sistema di riscaldamento sarà così buono che dovrai addirittura aprire la finestra per non soffocare. Dal tepore della stanza si vedranno le 638 L’amico congelato montagne rocciose e una grande cima in lontananza ti sembrerà simile a un’altra vista tempo fa e ti ricorderà il racconto degli indigeni Alakaluf. Lassù, un tipo anonimo, povero e senza patria come te non dovrebbe preoccuparsi di niente. Avresti a disposizione il miglior vino e del tè caldo, biscotti e ogni sorta di cibo desiderato e le foche barbute si toglierebbero la pelle per offrirtela. Accenderai la televisione e vedrai il notiziario della CNN. Il governo dello Sri Lanka chiede alla popolazione dell’isola di rimanere tre ore senza bere, in omaggio ai soldati morti di sete al Passo degli Elefanti, È il minimo che possiamo fare in ricordo dei nostri eroi, dirà il generale Sarath Munasinghe, perché domani si celebrerà l’anniversario dell’assedio al quale le Tigri tamil sottoposero i soldati dello Sri Lanka. I massacri in Algeria sono diventati fatti quotidiani e, viste le ultime notizie, dirà l’informatore, Non è possibile e, quasi contemporaneamente, la gente risponderà È normale. Così ci ordinavano di fare gli ufficiali, dirà un ex soldato, di non perdere il tempo inutilmente per portare il cadavere fino alla 639 postazione di comando, è sufficiente la testa, e così noi consegnavamo solo la testa dei terroristi morti. Spegnerai il televisore e ti metterai a disegnate cormorani. E ricorderai quella canzone di Bluefields: contry Red, yuh surprise me assin far a love poem. Ah sing a song a love poem fa me small contry, big lite… E ci proverai anche in basco: Amodio kanta bat ene aberriarentzat Aberri txiki, argi handi...16 Poi andrai verso la zona del porto, come se cercassi la chiave. Maya ya-ya lost his key, Maya ya-ya-oh! 16 Una canzone d’amore per il mio paese / Una piccola patria, una grande luce... [N.d.T.] 640 L’amico congelato Maya-ya-ya, rub an go down, Maya ya-ya-oh! Give the key for open the door... Al molo ci sono molte imbarcazioni, c’è anche una nave di lusso da crociera, con turisti a bordo, accanto a tre o quattro pescherecci piccoli e vecchi. Sul molo incontrerai Axel e ti stringerà in un abbraccio che non sai se è di addio o di arrivederci, dicendo: “Partiamo domani mattina alle sette.” Poi arriverà Edna, dicendo Hai hani. “Partite domani mattina alle sette, no?” le chiederai. “Posso rimanere a Ushuaia.” E hai voglia di chiederle perché mai dovrebbe fermarsi lì. Dille che Ushuaia è un punto invisibile al sud del mondo, che il sud è un luogo insignificante della Terra, che la Terra non è altro che uno tra i corpi celesti che il sole guarda e che il sole, come la Terra, non è che una particella nella polvere di stelle dell’universo. “Perché?” 641 Allora girerà la testa e penserai che forse si è messa a piangere. “Non hai la minima intelligenza emozionale” ti dirà. Si alzerà la nebbia e gocce di pioggia scivoleranno sulle sue guance come lacrime. Edna si girerà e salirà sull’imbarcazione, l’Iceblink, e tu rimarrai a riflettere sull’intelligenza emozionale. In che organo del corpo si sviluppa questa capacità, nel cervello, sulla lingua, nel cuore o più in basso. E rimarrai ad aspettare, per sapere cosa ha voluto dire Edna quando ha detto Potrei rimanere a Ushuaia, se ha detto Me ne vado, oppure Resto qui con te. Hai dei problemi di comunicazione, com’è risultato chiaro quando hai detto Perché. Farà buio e il vento sarà freddo, ed Edna non scenderà da quel cigno bianco che è l’Iceblink. Deciderai di andartene e, mentre vai dal porto al paese, un enorme nulla si aprirà davanti a te come delle fauci. 642 L’amico congelato Entrerai nell’unica strada che attraversa il paese e vedrai l’insegna blu al neon di un locale che si chiama Ozono. Il cameriere, dall’interno, ti dirà che è molto tardi e che sta già mettendo le sedie sopra i tavoli. “C’è birra?” “Forse è rimasto qualche resto...” ti risponderà in spagnolo. “Certo che l’ambiente è proprio blu, eh?” “È un’imitazione dell’ozono, sai com’è, abbiamo pensato che potevamo ricreare qui una falsa concentrazione di ozono, invece del buco che c’è là sopra, a qualche migliaio di chilometri...” “Cos’è l’ozono?” chiederai. “L’allotropico dell’ossigeno.” “E cos’è un allotropico?” “Non so cosa significhi, lo uso per fare colpo sugli amici... Ozono, l’ho cercato su un dizionario, perché gli ultimi ubriachi chiedono sempre cos’è l’ozono. Non ho ancora avuto tempo di cercare cosa significa allotropico. Ed è meglio così, vedo un tipo e, zas, penso, questo è un allotropico di Mafalda, o 643 quest’altro è l’allotropico di Robert Falcon, o quello là è l’allotropico del pinguino...” Leggerai un annuncio sulla parete Exotic Cruise Vacations. “Sei venuto in vacanza?” ti chiederà il barista. “Sì.” “Sei stato in Antartide?” “Sì.” “E come ti è sembrata?” Discover the awe-inspiring vistas and remarkable wildlife of the White Continent on a luxury cruise to the bottom of the world. “L’allotropico di qualunque altro luogo” dirai. “Possono dire quello che vogliono, ma i Poli sono agli antipodi del paradiso.” Così rimarrai per ore nel locale vuoto a chiacchierare con l’annoiato barista, come due ubriachi da romanzo che fabbricano storie. “Per molto tempo, durante tutta la prima metà del XX secolo, Ushuaia è stata una colonia 644 L’amico congelato penitenziaria. Questo pendio era ancora bosco, gli alberi sarebbero poi stati tagliati dai prigionieri fino a lasciare la montagna completamente spoglia. In seguito divenne una città normale, per la gloria dell’Argentina, soprattutto da quando chiamarono la via principale Calle San Martín, perché tutte le vie principali dell’Argentina si chiamano San Martín...” “Un’altra birra?” chiederai al barista. “Però la storia di questo porto è più antica. Charles Darwin passò da qui nel suo famoso viaggio. Robert Fitz-Roy, il capitano della nave da guerra Beagle, era venuto prima e, in quell’occasione, aveva portato molti indigeni in Inghilterra. In un altro viaggio del Beagle, portò con sé diversi indigeni cresciuti ed educati nella cultura e nelle abitudini inglesi, tra loro Jemmy Button che, ancora bambino, era stato portato in Inghilterra e, avendo imparato bene l’inglese, aveva quasi dimenticato lo yaman. Appena toccata terra, gli indigeni si tolsero i loro eleganti abiti inglesi, si strofinarono il corpo con grasso di foca, indossarono pelli di guanaco e vollero tornare subito alla vita della loro tribù. Per lo stupore degli scienziati e dei militari del Beagle, 645 non vollero più ritornare in Inghilterra. E ti mostrerà un libro, il viaggio di un naturalista attraverso il mondo. “E in questo libro appare la storia di questo indigeno?” No, questo libro prova che, due milioni di anni fa, tutti eravamo antropoidi africani e che, 300 milioni di anni fa, eravamo anfibi, quando uscimmo sulla terraferma sconosciuta come anatre bagnate dalle acque... “No” ti dirà senza aggiungere altro il barista. All’epoca di Charles Darwin si pensava che il mondo avesse 6.000 anni da quando Dio l’aveva creato, perché tutte le generazioni successive ad Adamo ed Eva erano registrate. Charles Darwin allungò quel tempo a 300 mila anni. Attualmente si prolunga la storia del mondo fino a 5.000 milioni di anni. Vedrai un telefono azzurro sulla parete, ti avvicinerai e farai sette numeri e, stupidamente, rimarrai ad aspettare la risposta. Una voce automatica di donna ti dirà, in spagnolo e in inglese, Il numero selezionato è inesistente, forse non è 646 L’amico congelato stato composto correttamente. Oppure, quando una voce di ragazza ti risponderà Hello, hello, hello, rimarrai in silenzio con lo stupore di aver potuto stabilire una comunicazione. Sai che non hai fatto il numero correttamente. Inoltre non conosci i prefissi internazionali né quelli regionali. “Ti regalerò il libro” ti dirà poi il barista. “Dimmi come ti chiami, così te lo dedico...” “Ho perso il passaporto” gli dirai, come se fosse uno scherzo, “adesso sto aspettando i documenti, non ho voglia nemmeno di ricordare il mio nome.” “Capisco il problema” dirà il barista. “In questo mondo, se non hai documenti, sei morto.” E, dopo aver scritto la dedica sulla prima pagina del libro, ti racconterà la barzelletta dell’alcolista anonimo. “Arriva un ubriaco dicendo: anch’io sono un alcolista anonimo. Hai smesso di bere? E l’ubriaco: No, no, bevo ma senza dire come mi chiamo...” “Cos’è, un messaggio indiretto?” dirai al 647 cameriere. “No, no, no” il barista inizierà a ridere. “Probabilmente io bevo più di te...” “Non c’è bisogno di dirlo!” risponderai. “Ma è piuttosto tardi, non ti pare?” Guarderai l’orologio e ti sembrerà molle. “Gli orologi sono superflui...” dirai. “La tua casa non sarà lontana.” “Che casa?” “La tua casa!” “Io non ho una casa...” “Non avere una casa in questa stagione...” ti dirà il barista, “significa avere troppa fiducia nel mondo.” In quel momento, il rompighiaccio Iceblink starà navigando verso le isole Falkland. 648 L’amico congelato 649 38 SE QUEI TEMPI FOSSERO DURATI PER SEMPRE Si vedeva un’enorme roccia in mezzo al mare, completamente coperta di gabbiani. Era palpabile la forza del vento e delle onde e sul retro della cartolina si poteva leggere, in piccolo, Welsh e Swansea. Fui io a portare a Goio l’altra cartolina. “Ieri, tornando da scuola, ho incontrato Ariane, era venuta a cercarti e mi ha dato questa per te...” Goio rimase a guardare la cartolina e io aggiunsi: “Dicono che i guardia civil hanno perquisito la sua casa stamattina presto...” Ma questo lo sapeva già. E anche che avevano arrestato Felipe. “Credo che sia venuto un peschereccio del 650 L’amico congelato Paese Basco francese a prenderla” mi disse. “L’ho visto vicino alla spiaggia e credo che lei l’abbia raggiunto a nuoto.” Goio mi disse che aveva visto i vestiti di Ariane sulla sabbia. La cartolina era un fotogramma di un film, Charly Chaplin e un bambino povero che si affacciano preoccupati da dietro un muro all’angolo di una strada. Noi sapevamo che, dopo essere scappati da un poliziotto che li inseguiva, si erano fermati lì pensando di essere in salvo. Ma, nell’immagine, si vedeva quel poliziotto, proprio dietro di loro, con le mani sui fianchi e i suoi grandi baffi. Goio lesse il testo della cartolina, quella calligrafia piccola, arrotondata e un po’ inclinata: Non volevo andarmene senza salutarti. Mi piacciono le persone che sono capaci di amare e perdonami se non ti ho corrisposto. Il tempo gira come un mulino e non è detto che in futuro non ci si incontri di nuovo. 651 Ariane “La settimana prossima conoscerò mio padre” mi disse Goio. “E dove vive tuo padre?” “In un paese che si chiama Swansea.” “E dov’è?” “Ho già il biglietto per il traghetto BilbaoSouthampton” mi disse. “Swansea!” dissi io. “C’è una squadra di calcio che si chiama così, e dovrai parlare in inglese.” “Non so cosa ci farò lì.” Quell’anno non avremmo portato a casa voti belli, né brutti. Non avremmo portato a casa nessuna pagella. Avremmo lasciato da parte le Scienze naturali e anche quelle artificiali, l’ombra della solitudine si stese accanto a noi e, con la tristezza che ci provocavano parole come concordanza, credo, genitivo, rossogialla, equazione... il nostro sapere si sarebbe inacidito. 652 L’amico congelato Era finita e sarei dovuto tornare a Bilbao, ma a Bilbao non avevo molte cose da fare, per lo meno così dovevano pensarla i miei genitori, infatti vennero a prendermi quindici giorni dopo. Meglio così, perché temevo quel gesto che mio padre avrebbe fatto per slacciare la cravatta, tenendo il nodo con la mano e muovendo la testa come un impiccato che vuole togliersi il cappio dal collo. Siccome non andavamo a scuola, io e Goio ci trovavamo al porto, con la nostra piacevole ignoranza. Una volta, quando arrivai, Goio si trovava in compagnia di un sommozzatore e di un suo amico. Il sommozzatore doveva cercare qualcosa che si era perso nelle acque del porto. Indossò lo scafandro, le pinne e quell’incredibile palla sulla testa e, scendendo lentamente dalla scala del molo, si immerse nel mare. Rimanemmo a guardare l’acqua scura del porto e lui rimase a lungo sott’acqua. “Come sarebbe il paesaggio marino se sparisse l’acqua?” chiesi. “Simile a quello della terraferma!” disse 653 Goio. “Forse un po’ più strano.” “È tutto buio e pieno di fango!” disse l’amico del sommozzatore. “Niente! Non ho trovato niente!” disse più tardi il sommozzatore quando uscì dall’acqua e gli tolsero quel marchingegno dalla testa. “Niente! Niente!” diceva lamentandosi e tossendo. Allora rimanemmo tutti e tre a guardarlo. Aveva gli occhi spalancati, mentre si toglieva lo scafandro, come se non avesse capito bene: “Come sarebbe il paesaggio del mare se sparisse l’acqua?” chiesi di nuovo. “Se non ci fosse l’acqua?” rispose ridendo. “Ma guarda questo di Bilbao! Se non ci fosse acqua, senti questa!” disse, ridendo a crepapelle. E quando finalmente riuscì a liberarsi completamente dello scafandro, stava ancora ridendo. I pescatori erano molto impegnati e c’era un gran via vai di barche nel porto. Le cucitrici di reti erano al lavoro nella solita zona del molo, e anche la madre di Goio si trovava lì. “Ci vediamo, Senoncifosseacqua!” mi disse 654 L’amico congelato il sommozzatore quando ce ne andammo. Ci avviammo verso Kaioarri. “Andiamo, ti farò vedere l’imbarcazione” mi disse Goio. Uno dei giorni successivi ci dedicammo a calafatare la barca di Juan Bautista. Faceva caldo, un caldo che allontanava anche gli uccelli. Stava a testa in giù sul molo, portammo dei rovi e accendemmo un fuoco per fare asciugare le assi prima di raschiare lo scafo. Goio portò una latta di pece calda e Juan Bautista, seduto a gambe aperte sulla chiglia, iniziò a riempire le crepe e i piccoli buchi, aiutandosi con una spatola. Goio segò un’asse su misura per fare un banco nuovo, perché una delle panche della barca era marcia. “Vai a casa di Goio a scaldare questa latta!” mi disse Juan Bautista quando la pece si indurì. Bussai alla porta e mi aprì la madre di Goio. “Sono venuto a scaldare questa...” 655 Lei la prese e andammo in cucina. Era piuttosto buia. Mise la latta sul fuoco e rimasi ad aspettare seduto su una sedia. “Tu sei Andoni, vero?” “Sì” le dissi. C’era un mucchio di panni da stirare, erano indumenti da pescatore. Mi resi conto che, oltre a cucire le reti, lavava e stirava vestiti a casa per guadagnare qualche soldo. Quando la pece fu calda la rimescolò con un pezzo di legno per verificare che fosse abbastanza liquida. Afferrando la latta con un foglio ripiegato me la diede: “L’avete combinata proprio bella, mocciosi.” L’ultimo giorno, Goio doveva trovarsi al molo per le cinque del pomeriggio per imbarcarsi per Portugalete, ma non voleva perdersi il tour di Francia ed accese la radio. Stanno salendo il Mont Ventoux, il traguardo è in vetta alla montagna. Quattro ciclisti sono in fuga: Danguillaume, Guimard, Labourdette e Polidori. A quaranta secondi c’è Heddy Merckx 656 L’amico congelato con la sua maglia gialla. Heddy Merckx, veloce, sicuro, recupera poco a poco fino a prendere il comando della corsa e si lascia alle spalle gli altri quattro. Qualche metro dietro a Heddy Merckx, Poulidor e Van Impe si danno il cambio. Arrivò Andres e si sedette vicino a lui per ascoltare la radio. “Come va la corsa?” “Heddy Merckx è in testa!” gli rispose Goio. “E Gabika?” “Non si vede.” “E Gandarias?” “Nessuna traccia nemmeno di Gandarias.” “Hai preparato tutto?” gli chiese sua madre dalla camera. Zoetemelk e Peterson si sono avvicinati ai primi due, Agostinho tutto solo ha raggiunto Heddy Merckx ma, alla fine, non riesce a mantenere il suo ritmo. Heddy Merckx pedala da solo percorrendo gli ultimi metri della salita, sempre più stanco, per un attimo sembra che non riesca a raggiungere il traguardo, ma non si arrende e, superando se stesso, lo taglia per primo. 657 Stavo aspettando sul molo, sapevo qual era la nave che Goio avrebbe preso per andare a Portugalete e, poco dopo l’ora prevista, arrivarono tutti e tre. “Aspetta un attimo” disse Goio e, dando la valigia a sua madre, corse lungo il molo fino alla gru del cantiere navale. Trovò il pezzo di carta nella stessa fessura dove l’aveva lasciato tempo prima e ritornò. Abbracciò sua madre, Andres e anche me e salì sulla nave che andava a Portugalete, che aveva già i motori al massimo come dimostravano i ruggiti che provenivano dal suo ventre di acciaio. Il sole cadeva dietro Harriandi come se avesse intenzione di annegare in mare. Goio ci salutò dalla ringhiera della banda destra della nave. Gli saremo sembrati come i mostri di Goienkale, fermi lì, impietriti, sul molo. E pareva che tutto ciò stesse succedendo ad altri, in un altro mondo sconosciuto e sfuggente. Tuttavia noi 658 L’amico congelato eravamo i testimoni di quel chiarore freddo, di un vuoto stupefacente. Così doveva vederci Goio quando iniziammo a camminare dalla nave verso la punta del molo. In un’altra imbarcazione stavano levando l’ancora sulla quale erano ben visibili le patelle e le alghe attaccate alla grossa catena e altri piccoli animali acquatici che, sentendosi sollevati in aria, si lanciavano all’acqua. All’entrata del porto onde cieche rompevano contro la barriera, vidi le lacrime della madre del mio amico come frammenti di cristallo confondersi con gli schizzi delle onde. Stava per cadere la notte sui vecchi tetti del paese, presto si sarebbero levati in volo i pipistrelli. Il silenzio ruggiva, la paura si impossessava di tutto. Quando la nave si allontanò, i gabbiani posati sulle boe si alzarono in volo. Solo allora Goio spiegò e lesse il pezzo di carta che aveva trovato nella borsa delle armi e che aveva tenuto nascosto così a lungo tra i ferri della gru: 659 In questi giorni hanno arrestato alcuni compagni e temo che la Guardia Civil sappia qualcosa, anche se non so esattamente cosa. Credo che la cosa migliore sia, in ogni caso, che ve ne andiate immediatamente. L’amico. Poi guardò la cartolina, il messaggio d’addio di Ariane, la stessa calligrafia arrotondata, piccola, inclinata in avanti, forse scritta con la stessa penna, formiche sulla carta, una scrittura peculiare data da quella penna che aveva sempre con sé: Non volevo andarmene senza salutarti. Mi piacciono le persone che sono capaci di amare e perdonami se non ti ho corrisposto. Il tempo gira come un mulino e non è detto che in futuro non ci si incontri di nuovo.. Il poliziotto, con le mani sui fianchi, era alle loro spalle, ma Charlot e il bambino guardavano impauriti davanti a loro, senza sapere chi c’era 660 L’amico congelato alle loro spalle e, nei loro occhi, come negli occhi di tanta gente, si potevano leggere la tristezza, la solitudine, l’impotenza. Non capivano la ragione di quello che stavano vivendo. O forse la capivano e questo gli provocava un intenso dolore. Lasciò Kaioarri a dritta, con i gabbiani e l’imbarcazione. Guardò di nuovo indietro, verso Kalaportu. L’osteria di Felipe sul molo, chiusa. Si era lasciato a dritta lo scheletro metallico del cantiere navale e un cagnolino peloso sulla prua di una barca. Ormai fuori dal porto, il braccio esterno. Goio andò a poppa, in fondo si dissipava il solco bianco dell’acqua schiumosa come se fosse la veste funebre della schiuma del passato. Con l’ufficio dei carabinieri apparve anche Barrenkale, nello stesso istante in cui scompariva la sua casa. Poi sparì la fabbrica di ghiaccio, e poi il quartiere di Kaiondo. Le cose iniziarono ad allontanarsi e a sparire e gli tornò alla mente un dettato, Rien n´est jamais fini, tout commence quand la plupart pensent que c´est fini, e sugli scogli di Harriandi c’erano dei bambini che facevano pipì nell’acqua dall’alto delle rocce. 661 Vedeva i mostri di Goienkale, era sparita l’osteria del porto. Si riconosceva la scuola. In vista di Harrizorrotz virarono un po’ a babordo, il verdeazzurro si faceva scuro e la notte si impossessava dei colori della materia, mentre a terra si accendevano, sempre più lontane, alcune lampadine. E anche la Erribera, e il cantiere navale, e la Petit Maison, e la scuola e le case nuove di Zubieta scomparvero dietro lo scoglio di quei bambini piscioni e restò alla vista solo Kaioarri, l’imbarcazione arrugginita e i gabbiani che volteggiavano sopra di essa, e adesso sì, si lasciò alle spalle Kalaportu e a dritta osservò l’oscurità in alto mare. I gabbiani accompagnavano Goio volteggiando grae grae grae sopra di lui. Il suo paese, in un angolo del mare grande e buio, nel grembo di enormi scogli che mostrano il petto a un mare sempre aggressivo, al bordo di onde continue, non era altro che un momento di luce intermittente, che si nascondeva là dietro, dove le onde piegandosi di sdraiano sulla superficie del mondo ormai lontana. 662 L’amico congelato E, mentre Goio guardava la terra, io osservavo il mare, con la mia paura, le mie preoccupazioni, il mio viso da stupido. Lo sto ancora guardando e vedo quella triste nave nascondersi, anche se continua a navigare nel paesaggio dei miei ricordi. Nonostante tutto, non dirò che quei tempi sarebbero dovuti durare per sempre. Lì rimarranno le cose, lontane, nel passato, al loro posto, nei paesaggi deserti dell’oblio. Su quella riva del mare abbiamo vissuto questo, quello e quell’altro. In quel paesino isolato siamo cresciuti molto o poco, di colpo o lentamente, bene o male, e a volte abbiamo creduto che il futuro sarebbe stato come il nostro passato, senza sospettare minimamente che, con il passare del tempo, ci saremmo trovati così lontani e così fuori dal tempo come lo siamo adesso. Ma con questo non voglio dire che quei tempi sarebbero dovuti durare per sempre. 663 39 L’AMICO CONGELATO La realtà si imporrà inesorabilmente con il suo vento, i suoi fulmini, tuoni e inondazioni. Questo è quanto. Arantxa e Imanol arrivano correndo in camera mia. “Vieni, non preoccuparti, ma fai alla svelta!” dice Imanol. “Poliziotti spagnoli” dice Arantxa nervosa, “ci hanno avvisati che vi stanno cercando.” “Chi ve l’ha detto?” “Mio marito” dice Arantxa. “Ma cosa ha detto esattamente?” “Che i loro amici spagnoli vi hanno localizzato e che hanno chiesto la loro collaborazione per farvi sparire.” “Allora dobbiamo andarcene subito” dico io. Il passato e il futuro si confondono in questo 664 L’amico congelato presente incontrollabile e inarrestabile, in questo presente inquietante. “Immediatamente” dice Arantxa. “Arantxa, vai a prendere Goio!” dice Imanol mentre guarda fuori dalla finestra. “Salteremo da qua.” Infilo in una borsa tutto quello che ho a portata di mano mentre Imanol lega due lenzuola fra di loro. “Non credo che si rompa” dice stringendo il nodo. Mentre Imanol lega un estremo del lenzuolo alla gamba del letto, si sentono passi veloci provenire dalla Galleria dei Passi Smarriti. Arantxa torna con Goio. Abbiamo lasciato cadere dalla finestra le due lenzuola legate, come una corda; per primo scende Imanol, poi Goio e alla fine io. Quando raggiungo Imanol, lui sta guardando in alto e ride. “Cosa succede?” chiedo. “È l’immagine di un fumetto, non vedi?” dice Imanol già ebbro. “Una corda fatta con le lenzuola e 665 attaccata alla finestra del carcere. Credo di essere diventato il personaggio di un fumetto, ah, ah, ah...” Arantxa è rimasta su, nervosa, e ci saluta, facendo la lettera b dell’alfabeto muto. Abbiamo saltato il muro, attraversato il bosco e alla fine siamo sbucati in una discarica, si vedono rifiuti di ogni tipo e anche qualche punto fumante. Bottiglie vuote, cartoni, lattine, plastica incenerita, pelli rinsecchite di gatti e topi, montagne e pianure di rifiuti, quasi un universo di immondizia, e noi corriamo con l’abilità che è solo degli ubriachi e dei fuggitivi, attraverso questo paesaggio che sembra seguire all’annichilimento atomico. Poi di nuovo il bosco, rovi e acacie. Siamo arrivati in città stanchi e infangati. “Sono morto di paura, ma la paura non ci sottometterà” dice Imanol barcollando, con la sua ironia da ubriaco. Andiamo a un appartamento situato in alto, su per le scale. “Questa è la mia tana segreta!” dice, mente infila la chiave nella serratura. “Finora ho portato qui solo personaggi con nome di donna.” 666 L’amico congelato Una volta dentro, inizia a ridere allegramente. Dopo il batticuore, un respiro: “Con questa azione epica a favore della patria credo di aver pagato per sempre il debito che avevo con mio padre...” Ci mostra l’appartamento e, in camera da letto, inizia a parlare delle sue amanti: “Se Celia è in casa, quando ti svegli te la trovi sempre accanto, addormentata con i capelli che le coprono il viso e ti abbraccia nel suo lungo sonno. Invece Lourdes non c’è sempre: appena la tocchi sparisce e ti lascia lì con il desiderio, e resti solo, pensando che non la vedrai per due o tre secoli..,” E indicando la bandiera basca alla parete inizia a ridere: “Il vecchio straccio del nostro popolo.” “C’è acqua per fare la doccia?” gli chiedo. “Certo che c’è! Qui ci sono anche dei vestiti” dice Imanol aprendo la porta dell’armadio. “Mettetevi quello che volete!” 667 Mi sono fatta la doccia, lavata i capelli e pettinata con cura. Indosso un’ampia maglietta bianca e, guardandomi allo specchio, ripasso gli angoli degli occhi con una matita nera. Infilo i pantaloni e mi guardo di nuovo allo specchio. Le labbra rosse e gli occhi spaventati da una strana inquietudine. In bagno ci sono dei profumi, essenze, essenza di eliotropo, La nuit bleue. Mi porto le mani alla vita e mi guardo di profilo, chiedendomi stupidamente se posso piacere a qualcuno, per esempio, se posso essere il tipo di Goio. Giro la testa da una parte e i capelli mi coprono mezzo viso, sorrido e percorro la silhouette del mio corpo dall’alto in basso, controllandone le forme. “Ceneremo qualcosa, adeguato all’urgenza della situazione” dice Imanol, mostrandomi il riso bianco che ha preparato mentre mi facevo la doccia. Il Rosso è sotto la doccia, Imanol ha riempito il suo bicchiere di gin e si ricorda di nuovo di suo padre. Mi mostra una cartina dell’Europa che c’è in sala, facendo con l’indice la lettera d dell’alfabeto 668 L’amico congelato muto. “È piccolo il nostro Paese, no?” “Come i profumi di qualità” aggiunge e mi rendo conto che ha sentito il mio profumo di eliotropo. “E come i migliori veleni.” Si avvicina barcollando alla parete, dicendo: “La sorpresa più grande della mia vita è stata rendermi conto, da piccolo, che quella Euzkadi che per mio padre era così grande si poteva coprire con un’unghia...” E Imanol appoggia la punta del dito sulla cartina e copre il Paese Basco. All’improvviso le luci si spengono e il buio ricopre tutto come si coprono i mobili con le lenzuola. “Ma papà, il nostro paese si può coprire con un’unghia,” continua Imanol, “così dissi a mio padre. Anche le cose piccole hanno un gran valore, mi rispose lui. Ma quello che mi rimase in mente fu che il Paese Basco si poteva coprire con un’unghia.” “Dovremo cenare al buio o aspettare che torni la luce” dico, mentre accendo un fiammifero 669 per poter vedere l’uovo che sto friggendo. “Accenderemo delle candele” dice Imanol. Il Rosso, finita la doccia, ci raggiunge al buio. Accendiamo due candele e la luce delle fiamme comincia a volare sulla tavola, rischiarando il riso bianco e mostrando le uova fritte. “Sui giornali e in televisione non c’erano notizie del nostro piccolo Paese. E, quando c’erano, bisognava immaginarsi il fantasma della nostra geografia nelle notizie degli assassinati nel nord della Spagna o nel Sudovest della Francia... A Imanol l’idea viene quando sta per iniziare a mangiare il riso con le uova: “Volete che vi rappresenti una conversazione fra me e mio padre?” Così porta un’altra sedia che sistema vicino alla sua. Alla luce delle candele, le grandi ombre formatesi sulla parete stanno tremando. “Hai un’idea sbagliata della patria, padre” dice Imanol guardando la sedia vuota. Poi cambia sedia e, seduto a sinistra, dice, facendo la voce grossa: “Cosa ne sai tu della patria!” 670 L’amico congelato “In ogni caso” di nuovo sulla sedia di destra, “so che non bisogna confondere la patria con la distanza.” “La distanza? Che distanza?” “Tu vivi in un Paese Basco che si trova lontano da questa Colombia, e il Paese Basco nel quale tu vivi è quello di cinquant’anni fa” dice Imanol interpretando se stesso. “Franco è morto nel suo letto, i franchisti continuano ai loro posti, signori e padroni della Spagna e tu stai sempre a guardare al passato, sperando che i fucilati della guerra civile si rialzino uno ad uno. In mezzo secolo non hai imparato niente.” “Io sono ancora disposto a versare il mio sangue.” “Questa è la cosa peggiore!” continua Imanol con il suo melodramma. “Che sei disposto a morire per la patria, ma non ti avvicini al paese reale e non sei disposto a vivere tutti i giorni per essa. La patria è la gente che saluti tutte le mattine quando esci di casa, non quel ritaglio che hai in testa, con quell’assurdo racconto epico di dare la propria vita per la patria.” 671 Imanol si è seduto sulla sedia a sinistra: “Quello che dici mi ferisce, figliolo, maledizione!” e la voce di Imanol adesso è grossa e arrabbiata. “Lo so, padre.” Imanol resta seduto solo un attimo sulla sedia del figlio. Adesso continua su quella del padre, come una patetica marionetta: “Cosa ne volete sapere voi, maledetti mocciosi! Siete nati qui, in un’altra epoca, io ho dedicato la mia vita a crescervi sani ed educarvi secondo le tradizioni basche. Quando eri piccolo, tutti dicevano che mi assomigliavi molto e non ho mai dubitato che avresti portato avanti i miei ideali. Poi ho capito che non era così, che il sangue non basta e che la comunicazione tra di noi diminuiva e si perdeva...” Sembra che dia per conclusa la messa in scena. Imanol ha iniziato a bere gin, mentre il suo riso e le uova fritte sono ancora nel piatto alla luce della candela. Una luce sempre più debole e tremolante accentua il triste ambiente da the end. 672 L’amico congelato “Mio padre non tornò mai a Orozko. Parlava sempre del suo paese, ma non ebbe mai il coraggio di tornarci. In fondo aveva paura, perché sapeva che l’Orozko della sua gioventù e dei suoi sogni non esisteva più. Se fosse tornato nel Paese Basco, avrebbe trovato le grandi montagne distrutte, i fiumi puliti inquinati, le strade deviate, qualcosa di molto diverso dalla patria dei suoi ricordi. E si sarebbe sentito più lontano che mai dal Paese Basco. Aveva una paura inconscia di trovarsi fisicamente e metafisicamente fuori luogo in questo ritorno archeologico.” Immagino Jose Urioste, come un albero sradicato, trapiantato in un altro luogo e caduto nel fondo della Storia. Anche noi siamo così, come un tronco tagliato alla radice e abbandonato sulla cunetta al bordo della strada, che guarda il mondo da fuori. “La patria è una mancanza” dice Imanol, “e a Orozko questa mancanza sarebbe stata più evidente che in qualunque altro luogo. Il tempo non era passato invano. Così rimase nel casolare con la palma, né qui né là, senza venire del tutto 673 qui e senza mai andarsene veramente là, finché il tempo non ha dato al padrone della casa la stanza più stretta: due metri di lunghezza per uno di larghezza e mezzo metro di profondità, la tomba dove l’abbiamo sepolto, con la bandiera basca e un pugno di smeraldi.” Imanol si porta una marlboro alle labbra e, guardando la sigaretta, mi vengono in mente cavalli e cappelli da cowboy: “Dopo la morte di nostro padre, nell’armadio della sua camera trovammo una scatola piena di lettere che non erano mai state aperte, tutte provenienti dal Paese Basco. Nostro padre, negli ultimi quarant’anni, non aveva letto nessuna delle lettere che gli avevano scritto dal Paese Basco.” Gli occhi mezzo baschi mezzo colombiani e completamente ubriachi di Imanol, iniziano improvvisamente a piangere: “Abbiamo assistito all’autopsia e, vi faccio una domanda, avete mai visto vostro padre dentro?” Al sentire la domanda di Imanol, Avete mai visto vostro padre dentro? mi ricordo delle parole 674 L’amico congelato di Arantxa, che Imanol aveva pianto davanti al cadavere del padre, e credo di capirne il significato. “Adesso” dice Imanol, portandosi il bicchiere alla bocca e facendo con l’altra mano la lettera a dell’alfabeto muto, “vi farò una proposta, rivolta a tutti i baschi, con la parolaccia che usava mio padre, dopo aver detto che in basco non c’erano parolacce: porcadiquellaputtana!” È in piedi, le candele sono quasi consumate e la sua ombra, molto bbk, è un fantasma grande, impazzito e tremolate sulla parete. “Voglio proporre il ritorno nel Paese Basco, porcadiquellaputtana! Con gli emigrati e gli esiliati degli ultimi duecento anni si possono fare sette nazioni e dovremmo tornare, e se non possiamo costruire sette nazioni, vediamo se siamo capaci di organizzarne almeno una...” Imanol mi saluta, i suoi occhi sono due pozzi. “Questa è la chiave” e me la consegna. “Io non tornerò prima di quindici giorni ma comunque ne ho una copia...” Si sentono rumori di passi insicuri nella 675 totale oscurità, giù per le scale, “quando ve ne andate, buttate via la chiave.” “E adesso, cosa facciamo?” dico, quando io e il Rosso rimaniamo soli. “Cosa intendi dire?” “Niente.” “E perché me l’hai chiesto?” “Non era una domanda, era un pensiero, e adesso cosa facciamo, una domanda senza punto interrogativo, mi è venuta ad alta voce...” Le due candele sul tavolo sono ormai consumate e, nell’oscurità, c’è un ambiente notturno, quell’atmosfera da sogno che crea l’insonnia. “Dobbiamo scappare, vero?” dice il Rosso. E non solo scappare. Dobbiamo cancellare ogni traccia. Dalle sedie, dai cucchiai, dai manubri delle biciclette, dai letti, dalle lettere, dalle strade, dalle scarpe. “Dove?” dico. “Lo so che dobbiamo sparire.” “In Irlanda, in Brasile, o in Mozambico” dice 676 L’amico congelato il Rosso scherzando. “Andresti in Mozambico?” “Sì, il Mozambico è un bel posto, perché è lontano.” “Lontano da dove?” desiderando accarezzare i capelli del Rosso che è a un metro da me. “Lontano da qualsiasi luogo” dice. “Non vuoi tornare a Bluefields?” “Non si può tornare indietro nel tempo, no?” dice il Rosso. “Dove vorresti andare?” “In un posto dove potessimo starci tutti e due.” “Adesso abbiamo un solo biglietto aereo e io devo andare in un altro posto. Andoni mi ha proposto una strana avventura per te. Hanno bisogno di una persona come te per andare dall’Ecuador all’Antartide.” “All’Antartide? Ma se lì si congela anche il fuoco!” “Adesso che parli del fuoco... dobbiamo bruciare le carte.” 677 Raccogliamo tutti i fogli che abbiamo nelle borse, i vecchi giornali e le lettere, e iniziamo a bruciarli nella tazza del water. Seduta per terra, alla luce del fuoco di un giornale, vedo la lettera di Josu: Viviamo divisi tra realtà e memoria. La realtà con il suo stile, il suo pragmatismo, la viviamo adesso in modo immediato. La memoria, invece, è piena di modi segreti di vivere, di ricordi e di rumori interni, quel che può essere o quello che potrebbe essere o sarebbe potuto essere, colma di desideri e di dolori. E viviamo sempre in dubbio tra la realtà e la memoria, con il bisogno di fermare quello che ci spinge a scappare in qualunque posto, e con un’impellente necessità di fuggire che ci porta a rimanere fermi nel luogo dove ci troviamo. Perché siamo i frammenti dispersi di un popolo che sta costruendo la propria preistoria nazionale, noi e i nostri fantasmi. Sempre resistendo per sopravvivere, moltiplicando amori e morte. Sapendo che, anche senza di noi, il mondo sarebbe pieno di gente. 678 L’amico congelato La lettera di Josu, una volta aperta, è lunga. Ci si potrebbero fare tre o quattro colombe di carta. Perché la vita abbia un senso, bisognerebbe commettere dei crimini inconfessabili. Ma l’immaginazione non è irreale. Nemmeno la realtà è reale. Sono l’immaginazione e la memoria a dare senso alla realtà. Rispetto al libro, non ci sarà bisogno nemmeno di leggerlo. Perché leggere un romanzo congelato sarebbe come mangiare ghiaccio, mangerai ma non ti sazierai. Quando mi rendo conto che anche Goio sta bruciando dei fogli, ormai tutta la lettera di Andoni è praticamente cenere. Si può leggere solo l’ultima parte dell’ultimo foglio: “Non troverai in questo fiume un cranio più economico” ha ripetuto il venditore. E me ne sono andato giù lungo il fiume, nella barca a motore, ricordando la canzone di Tatanka 679 Yotanka: Se hai perso qualcosa torna indietro e, se lo cerchi con attenzione, lo troverai. Non so se i nantu, El Dorado, la foresta, El Porvenir, lo stesso fiume, la mia barca sono reali. Non so se sono pezzi di una realtà che si sta perdendo per mancanza di nomi o di riferimenti o, al contrario, sono le parti della realtà che si sta materializzando e rafforzando dal nulla con parole e con nomi. Però parlare della realtà oggigiorno è fare filosofia, così come è filosofia nominare l’amore romantico o proporre una società migliore. Ma dobbiamo fare un po’ di filosofia, anche se solo per iscritto, vediamo se anche questo ci dà un po’ di fuoco, un po’ di senso. Tuttavia non sappiamo ancora se il mondo, dopo questo, sarà la casa di tutti o il luogo dell’esilio collettivo. Ho dato fuoco anche all’ultimo foglio. Tutto 680 L’amico congelato confluisce nel fuoco. Le notizie, la pubblicità, le fotografie, i messaggi, le opinioni e i ricordi, il fuoco li ha distrutti uno a uno, la carta si è accartocciata, stropicciata, annerita fino a diventare cenere. Poi l’acqua se li porta via. Siamo tornati in sala con una sensazione di stanchezza e ci siamo seduti uno vicino all’altro. Una candela si è spenta e dell’altra ne resta solo un moccolo che crea una penombra. “Non ho letto la lettera di Josu”, mento. “È quello che succede alle coppie. Sai com’è. Un corpo inizia ad allontanarsi dall’altro, prima si allontanano le carezze, poi i sorrisi e poi i gesti. A quel punto ormai i due corpi sono separati...” Ho voluto accarezzargli i capelli e lui, girando un po’ la testa, mi ha preso il dito indice tra i denti. Ho sentito le sue labbra morbide, la sua lingua umida, e la dolcezza tra i denti. “Ma condividono il letto” dico aprendo la mano in aria, “condividono il bagno, la cucina, in fin dei conti le abitudini del vivere assieme. Alla fine è più comodo. Tra l’altro non bisogna cambiare le lenzuola tutti i giorni, come all’inizio.” 681 Mi tira per la mano e mi fa stendere a terra e vorrei vedere i suoi occhi, li tiene socchiusi ma, quando li apre, non vedo tristezza e sono appesa al suo collo, e me ne vergogno, di essere appesa al collo di qualcuno, ma ormai siamo sotto il tavolo della sala. “Alcune coppie sanno parlare” dico e ho paura, “vogliono capire questo allontanamento, ma la maggioranza non ha bisogno di capire...” Mi toglie le scarpe e io gli slaccio i bottoni dei pantaloni di due in due, prendo il suo pene già bagnato in mano, e lo metto in bocca, è salato, lui mi spoglia. Nel girarci resto sotto e all’improvviso sento il suo sesso entrare dentro di me. Sollevo i fianchi, appoggiandomi sui talloni, per resistere alle spinte e in tutto il corpo avverto il tremore che mi produce il movimento del suo. Con una mano afferro i capelli rossi di Goio e li pettino, con l’altra ho afferrato qualcos’altro e un dolce tremore si impossessa di me, con delle convulsioni cloniche e toniche simili all’epilessia. La mia mente resta completamente in bianco 682 L’amico congelato e, quando tiro con una mano, sento la sua testa sul mio petto, e che quello che afferro con l’altra mano è la tovaglia e, tirando, cadono sopra di noi alcune foto polaroid, il vaso di fiori, il gufo di gesso, il barattolo di Nescafé, la chiave di casa e diverse altre cose, una rovinosa caduta accompagnata dal fragore di oggetti che si rompono. Così rimaniamo sdraiati, ho una testa rossa sul petto, come se io fossi una baia. Ho la mano del Rosso su un fianco come se fosse un’ancora, non c’è bisogno della parola futuro e non ci preoccupa l’instancabile orbita ellittica e quasi perfetta che percorrono i pianeti, i meteoriti e gli altri asteroidi. Mi sveglio all’alba, siamo vicini e nudi in mezzo alla confusione delle cose cadute a terra, come un soldato che si sveglia dal sonno senza ferite ma ancora sul campo di battaglia. Il mio amico russa ancora. Perché svegliarlo se non abbiamo niente. Né casa, né paese, né soldi, né vestiti. Senza niente e nudi, ci troviamo nella precisa condizione a cui può arrivare la penuria, 683 circondati dai cocci di un vaso di fiori, foto polaroid, resti di caffè. Ieri abbiamo bruciato i giornali e le lettere e siamo in un quartiere che non conosciamo. Adesso sì, abbiamo toccato il fondo. Ripasso la catena degli eventi e arrivo fino all’anno 1975. È un sera d’inverno a Zornotza, ho sedici anni, sono innamorata e siamo passati davanti alla caserma della Guardia Civil: “Guarda bene tutto questo” dice il ragazzo e io lo ascolto a bocca aperta. “Tutto questo è archeologia, presto qui non ci saranno bandiere spagnole, né guardia civil, né oligarchi...” Nella catena degli eventi, siamo nell’anno 1985, nel bar Hendayais guardiamo la televisione spagnola e il mio ex compagno appare in abito elegante per fare dichiarazioni a favore della costituzione spagnola. “Ci saranno sempre dei settori radicali” dice in spagnolo, “ma bisogna fare le cose come se non esistessero...” La catena dei ricordi mi porta fino a Parigi, a Praga, a Managua. E ancora più indietro: siamo 684 L’amico congelato bambini che scuotono il noce con un lungo bastone e raccolgono le noci cadute a terra. Pare che succeda così anche a chi sta per morire: sullo schermo della memoria passano velocemente le immagini di mille situazioni di vita, il movimento brownoideo dei ricordi, là, qui, dritto, girando all’improvviso, indietro, su, pausa, di nuovo giù, girando, come le mosche. Però, con le scene del passato arrivo al presente e, invece di fermarmici, cerco di immaginare il futuro e la catena dei miei pensieri va avanti e la lanterna magica proietta situazioni che non ho ancora vissuto. Sono a Managua, di nuovo con Josu. Sto cuocendo del riso, un sottile filo di vapore sale dalla pentola verso l’alto, e la voce di Josu dietro: “Fra poco, se non chiudo gli occhi, non ti vedrò più, se non mi tappo le orecchie non ti sentirò, non mi sentirò al tuo fianco se non mi sommergerò nelle acque torbide della memoria.” Il vapore che esce dalla pentola, fumo, si trasforma poco a poco in un drago. E sono su una nave mercantile, si chiama Southern Star, vedo le scogliere della terraferma, 685 sempre a dritta. Chiuderò gli occhi per non vedere la bruma e le nebbie dell’orizzonte del futuro. Dalla prua sento giungere le imprecazioni di un passeggero ubriaco: “La vita è una veliero pieno di merda, spinta dal vento delle scoregge di un mare di piscia!” “Mondiale!” gli rispondo, guardandomi attorno e muovendo il mento. “Come stai?” mi chiede il Rosso quando si sveglia. E alla tenue luce dell’alba che entra nella stanza, osservo il paesaggio da dopoguerra e iniziamo a ridere, e a baciarci. “Una guerra mondiale, sì” dice il Rosso. Mi alzo e, dalla finestra, vedo altri edifici, la maggior parte non terminati, e anche le gru che hanno già iniziato a trasportare materiale. In cucina preparo del caffè per la colazione e ritorno alla finestra, per ricordare il paesaggio e la gente lontana, per rendermi conto che non è possibile prevedere il futuro, mentre guardo dalla 686 L’amico congelato finestra e faccio colazione in piedi con caffè e biscotti. Le gru e le scavatrici hanno iniziato la loro attività molto presto, tra la nebbiolina, come animali preistorici. Sistemiamo i piccoli disastri provocati dall’amore, cancelliamo le tracce del nostro passaggio, ci vestiamo, Goio con gli abiti di Imanol e io con quelli delle sue amanti, e usciamo per strada. Buttiamo in un cestino la chiave di casa, come ci ha detto di fare Imanol. “La casa rimarrà senza chiave” mi dice il Rosso. “No, la chiave rimarrà senza casa...” dico io scherzando. “Non abbiamo niente, vero?” Bisogna controllare tutto, qualcosa che potrebbe metterci in pericolo, che ci tradisca, dobbiamo essere sicuri soprattutto di non avere con noi niente scritto in basco. “Dov’è rimasto il romanzo che ti ho dato l’altro giorno?” gli chiedo. “Ieri è rimasto là.” Lo prenderà Arantxa, o forse lo troverà Imanol e lo lascerà sullo scaffale dei libri che non 687 si leggono. E quel testo rimarrà nell’ospedale come un’anonima conseguenza della schizoafasia. Forse, in un lontano futuro, quando i paleografi indagheranno su Rioquemado, lo troveranno, tra abbondanti segni grafici e fossili dell’antichità, e non riusciranno a identificare la lingua basca di quel testo, né che il basco fosse uno dei disturbi del linguaggio del passato. Che effetto farà questo idioletto a una persona normale? Per esempio: Gazuk jta grtarak ze dra erandik, zeku tae zeitz pe irizakatu dtu. jrialderk ialdie jaanga dra garpozten, zegfn, azen. Geteka madukaak bldain birad, itadzita grakaut dra, bela plate abt egnda zamaant jaanga irda pepraak... I paleografi, e qualunque lettore sano di mente, dichiareranno che si tratta di un testo antico, remoto, scritto in una lingua sconosciuta. “Hai avuto tempo di leggerlo?” “L’ho letto subito.” “E allora?” 688 L’amico congelato “Non so se ho perso l’innocenza, ma ho trovato alcune onde...” “Che onde?” “Non hai mai tirato un sasso piatto nell’acqua in modo che salti? Si lancia e fa ft,,, ft,,ft, .. plof... Gli dico di sì. “Ft,,, ft,, ft, plof.” dice di nuovo il Rosso. “Conosco il suono che fa una pietra appiattita quando salta sull’acqua!” dico, sospettando che Goio mi stia prendendo in giro ogni volta che ripete ft,,, ft,, ft, plof. “E sai che a ogni salto si formano dei circoli di onde nell’acqua...” “Certo che lo so,” gli dico “e anche una grossa pietra buttata in acqua forma dei circoli di onde!” “Mi sono buttato in acqua” dice il Rosso,”e ho preso qualche circolo...” In questa città tutti vanno di fretta, operai, negozianti, senatori, studenti, venditori di giornali, disoccupati. Ognuno con la propria vita, ognuno 689 chiuso dentro la propria parentesi, ognuno con qualcosa di segreto, con il proprio volume sommerso. Perché rispondere a chi ti ha chiesto che ore sono, perché aiutare un signore anziano che è caduto a rialzarsi, perché spiegare a qualcuno come si arriva alla stazione, può essere una frode, una trappola. Beva Coca Cola. Fra mezz’ora ognuno di noi andrà per la sua strada. Il Rosso prenderà un aereo per Quito e poi chissà dove andrà e io tornerò in nave e poi in autobus al rifugio di Armando e poi chissà dove andrò. Per ora siamo ancora assieme, ma la vita ha imbastito i fili del destino in modo che proprio oggi ci separi e ci invii in direzioni diverse. Il tempo è passato velocemente. Un’ora impossibile come le tredici del mattino è arrivata subito in tutti gli orologi. Il tempo passa sempre e si può presumere, essendo ostinatamente ottimisti, che così sarà ancora per un periodo. Arriva un’ambulanza lentamente, ed è triste, con il nome al contrario: 690 L’amico congelato La sirena è spenta, procede senza fretta. Gli zoppi camminano lentamente, quelli che la settimana scorsa o qualche anno fa hanno lasciato indietro o hanno dimenticato una gamba o un piede. Temo che domani o dopodomani mi mancherà la metà del pianeta, come mi mancava ieri. E, dimenticando le trazioni antisentimentali dei baschi, ci abbracciamo con un po’ di antropofagia, ci baciamo sulla bocca, le nostre lingue cercano di occupare il luogo dell’altra, come se una volta in passato la lingua fosse rimasta nella bocca sbagliata e adesso volesse tornare al suo posto. Il volo delle colombe. Alcuni innamorati mattutini si scambiano segreti sulle sedie. Anziani pensionati chiacchierano, nella loro terza età, nel loro terzo mondo. Vietato sputare. I bambini corrono dietro ai piccioni. Le mamme e le bambinaie corrono dietro i bambini. Un poliziotto con degli anfibi neri, in piedi, sull’attenti, solo, con la sua pesante arma 691 appesa alla cintola scura, il cappellino gli fa ombra sugli occhi rendendo il suo viso illeggibile. Legga Selecciones. Prima di separarci, ci abbracciamo come se fossimo un animale con due schiene. Ragazzi solitari fermi davanti al vecchio fotografo per la fotografia che manderanno alla fidanzata lasciata al paese. Passa una bella ragazza in minigonna e tacchi alti, come una cartolina senza indirizzo. Ricordo cosa mi ha detto il Rosso e vorrei capire quest’idea di prendere gli anelli delle onde. Tuttavia non sono anelli bensì circoli di onde che si formano quando si getta una pietra in acqua. Mi sono buttato in acqua, ha detto il Rosso, e ho preso qualche circolo... Adesso vedo il viso di Goio incorniciato dal finestrino dell’aereo mentre, da dietro il vetro, mi fa la lettera a dell’alfabeto muto. L’aereo si muove e dopo poco si alza in volo. Inizia a cadere verso l’alto per poi scomparire nel cielo che cadrà sopra di me. “Alla prossima!” dico a bassa voce. 692 L’amico congelato Abbiamo poca memoria perché non possiamo prevedere cosa ci riserverà il mondo. 693 40 SE NON ORA, QUANDO Il rompighiaccio Iceblink sarà ancora in viaggio verso le isole Falkland. Ti sveglierai a letto accanto a un libro ma non riuscirai a leggere. Con sforzo e attenzione, fisserai l’inchiostro disseminato sul foglio e non crederai che quel materiale inerte possa dirti qualcosa di importante. Formiche, proprio così, sul foglio vedrai delle formiche che si muovono, in laboriose file, senza fermarsi, come se stessero cambiando significato. Si tratta del quaderno di viaggio di Charles Darwin, Viaggio di un naturalista attraverso il mondo. Lo aprirai e leggerai la dedica: “All’allotropico Jemmy Button.” Il ghiaccio e il vento gelido la faranno da padroni come se fossero un’epidemia ma, nonostante ciò, deciderai di rimanere lì, anche 694 L’amico congelato se sta arrivando l’inverno, in attesa di una quinta stagione che inizierà dopo di esso. E ricorderai che hai un vago impegno, un incarico, benché tu non possa dire con precisione cosa, per quale ragione e con che finalità. “L’esule, colui che vive lontano dal proprio Paese, deve essere ambasciatore del suo Paese in qualunque luogo” ricorderai che disse non sai chi. Questo accadde tempo fa, il giorno che ricevesti un passaporto falso. Non si tratta dell’allotropico di Jemmy Button. Sarai l’allotropico ambasciatore basco in qualunque luogo, l’allotropico ambasciatore basco all’orizzonte. Pur avendo solo documenti falsi. E anche lì sarai l’ambasciatore del tuo Paese, senza potere e nella nebbia, in quell’ultimo porto straniero, perché ormai il tuo Paese ti avrà dimenticato e forse perché anche tu avrai dimenticato cos’è. 695 Scendendo lungo la via San Martin noterai la civilizzazione, evidente nel traffico e nei negozi ed entrerai in un duty free che si chiama Jemmy Button. Un locale stretto, pieno di souvenir per turisti, cianfrusaglie e bigiotteria. Magliette con pinguini sul petto, animali imbalsamati, armi degli indigeni. Ti fermerai davanti all’espositore di cartoline. Sono quasi tutte delle splendide fotografie della spedizione di Ernest Shackleton, scattate durante il viaggio della Endurance che rimase intrappolata nei ghiacci dell’Antartico mentre l’Europa si dissanguava nelle trincee della prima guerra mondiale. Accanto a queste suggestive fotografie, un’altra attirerà la tua attenzione. Quattro uomini che alzano un Winchester ciascuno, come fossero i personaggi di un western in ambiente invernale, in posa dietro tre corpi nudi stesi a terra a pancia in giù. La prenderai in mano e, sul retro della cartolina, leggerai che sono cercatori d’oro. “Cos’è questo?” chiederai al negoziante. 696 L’amico congelato “Cercatori d’oro” ti risponderà. “Siccome qui non se ne trovava quasi, molti di quelli che erano venuti a cercare oro si dedicarono a cacciare indigeni. Gli Ona erano abituati a cacciare guanaco e quando i grandi guanaco rossi scomparvero, iniziarono a cacciare guanaco bianchi. I residenti consideravano gli Ona dei ladri di pecore e per il cadavere di ognuno di essi pagavano due libbre sterline.” Gli indigeni nudi sono a terra, i loro archi e le frecce vicino alle mani inerti. “Poi”, aggiungerà il negoziante sorridendo, e si sentirà ancora il rumore degli spari, “i crani venivano acquistati dal British Museum per realizzare misure antropologiche, pagavano tre libbre sterline per ogni teschio.” “E questa?” chiederai indicando un’altra cartolina, anche quella una fotografia di inizio secolo, molto seria, molto belle époque, come se i tre uomini stesi sulla neve non fossero evidentemente assiderati. “Quelli sono prigionieri. Portavano qui gli anarchici e i comunisti arrestati durante gli scioperi 697 operai di Buenos Aires o della Patagonia. Perché Ushuaia era un penitenziario per i lavori forzati, ed era famosa perché nessuno riusciva a scappare, la maggior parte degli evasi venivano intrappolati dal freddo, tra il mare del sud e le montagne del nord, e tornavano in carcere in cerca di riparo. I tre uomini della fotografia morirono assiderati, erano fuggiti e avevano preferito morire congelati sul ghiacciaio piuttosto che tornare in prigione.” Tornerai alla via principale e per un po’ camminerai senza una meta. Incontrerai Swen Foyn, il direttore della fabbrica dell’isola di Deception. “Il marinaio che hai operato sta bene” ti dirà. “Ma non abbastanza da iniziare a suonare il piano, vero?” gli risponderai con freddezza. Non capirà e glielo ripeterai: “Non suonerà più il pianoforte!” Non se la prenderà e risponderà alla tua battuta con un sorriso. Poi estrarrà una fotografia dalla tasca. “Guarda!” ti dirà. Un gruppo di pescatori sopra il corpo di una 698 L’amico congelato balena. “La più grande che abbiamo catturato quest’anno... ti rendi conto di quanto è grande? Per farcela stare tutta, la foto è stata scattata da molto lontano...” Ridendo aggiungerà: “Da così lontano che non mi riconoscerai.” Riderà perché è difficile riconoscerlo, indicando le piccole figure umane sulla schiena della balena. “Non si possono riconoscere perché la balena era molto grande!” È arrabbiato perché deve pagare le tasse al Cile, all’Argentina e alla Gran Bretagna. “Presto dovremo pagarle anche agli americani e agli ecologisti, perché no...” Allora ti offrirà un lavoro nella compagnia Jacobsen & Brothers, come infermiere dei cacciatori di balene. “Abbiamo bisogno di una persona come te, ti pagheremo più di quanto guadagna uno yuppie di New York...” E ricordando il colore sanguinolento e il 699 fetore asfissiante delle acque della baia Deception fino a sentirlo, gli risponderai di no. “Pensaci e mi dai una risposta la prossima volta” aggiungerà lui. Farai una doccia e andrai in discoteca. Sotto l’acqua calda della doccia, avrai la sensazione di lasciare lì tutta la stanchezza e la confusione, uscirai pulito e con la testa più leggera. All’entrata della discoteca leggerai: TIERRA DEL FUEGO After-hours Un nome che suona come se fosse un concetto filosofico, ma sai che la chiamano così perché, quando chiudono le altre discoteche e i bar, questa rimane aperta, e non chiude finché non sorge il sole. Ti avvicinerai al bancone. “Una birra”, ordinerai. L’interno della discoteca, a uno che è 700 L’amico congelato appena arrivato dal continente bianco e dall’estesa solitudine del mare, sembrerà caotico. “Ballando al buio!” dirai al cameriere quando ti porta la birra. “Ballando con i lupi!” ti risponderà lui. Dentro non farà freddo. Un ambiente elettrico, stracolmo di carica positiva e negativa, luci psichedeliche e un rumore assordante. Comincerai a muoverti fra la gente e, inaspettatamente, incontrerai di nuovo Swen Foyn. Ti abbraccerà e ti dirà qualcosa ridendo a crepapelle, gli si sbiancheranno i denti e la lingua sembrerà viola ma, eccetto la parola “proposta”, non capirai cosa ti dice. “Cosa?” gli chiederai. A voce alta, quasi gridando, ti dirà: “Forse ci hai pensato meglio!” “No!” gli risponderai. Il locale buio si illuminerà con la luce irregolare e intermittente dei neon, per quello i denti brilleranno, risalteranno i bottoni, le labbra assumeranno un tono violaceo e i corpi si muoveranno come nei primi film muti del secolo 701 scorso. “No, davvero!” griderai sorridendo. Si porterà il bicchiere alla bocca con l’indifferenza di un beduino e, dopo aver ingerito il liquore, ti griderà in un orecchio: “Conosco bene la gente che, come te, vagabonda senza una meta, presto ti tenterò di nuovo.” La musica sarà altissima e ossessiva. La gente ballerà con movimenti impazziti e disarticolati, come lo farebbero gli Ona, gli Alakaluf o gli Yaman attorno al fuoco, o come i giovani afroamericani sballati di Bluefields o di New York vicino a un economico però potente player. “Arrivederci!” saluterai il baleniere. Andrai su e giù per le scale. Agli angoli imitazioni di grotte, in un ambiente dominato dalla più confusa fantascienza. Swen sparirà. E penserai che forse Edna, all’ultimo momento, sia scesa dalla Iceblink. Niente sarà fermo, tutto sarà in movimento, convulso e non sarà difficile ballare con la luminosa spensieratezza imposta dal frastuono della musica. 702 L’amico congelato Ti sentirai libero in questa marea di braccia, gambe e piedi inarrestabili, il corpo sciolto dai legami della volontà e vibrante come un anfibio. Scenderai le scale, poi risalirai di nuovo, la discoteca ha almeno tre piani. Cercherai di farti spazio fra la gente, spingendo e scostando le persone come si allontanano i rami e le liane in una foresta. Improvvisamente incontrerai Maribel. Rimarrai affascinato dal suo viso da caleidoscopio. A quattrocchi con quel viso che pronuncia parole inintelligibili. La vedrai muovere le labbra illuminata dalla luce psichedelica, ma ovviamente non sentirai niente per via del frastuono. È Maribel, anche se il suo viso è un quadro surrealista trasformato da fulmini colorati. Non può essere vero e non crederai che sia reale, penserai che non è altro che l’aurora boreale. Vi muoverete tra la gente tenendovi per mano. Nervoso, allontanerai la gente con una mano, con l’altra stringerai con forza la sua, come il bambino che porta la rete degli oggetti smarriti. 703 Leggerai a lettere rosse: Chill-out. E ti ci avvierai. Scavalcando coppie di innamorati troverete un posto libero. Si sentirà la voce chiara di Tracy Chapman: If no now, then when... L’ambiente sarà accogliente, in penombra, tranquillo, ideale per parlare, ma in quel momento né tu né Maribel saprete cosa dire. Come se, improvvisamente, nel ridotto spazio fra voi due si fosse posato tutto il tempo passato, le parti del giorno, i frammenti dell’anno, le briciole del secolo, le distanze, tutto. “Come hai fatto a sapere che ero qui?” “Me l’ha detto Andoni, è rimasto praticamente sempre in contatto con l’università di Quito.” E le parole, pigre e inadeguate, saranno molto più piccole dell’emozione che sentirete. “Meno male che sei venuta, perché nel 704 L’amico congelato viaggio ho perso il passaporto...” “E meno male che tu sei rimasto qui” ti dirà Maribel. “Al pomeriggio, quando sono arrivata, non ho trovato la vostra imbarcazione al porto e ho pensato che anche tu fossi andato alle Malvinas.” Il posto sembra vero, ma non ne sei sicuro, per via dell’atmosfera tempestosa e irreale creata dalla musica e dai giochi di luce. “Però al porto mi hanno detto che uno era rimasto qui ed ho pensato che fossi tu.” Allora arriverà Swen e interromperete immediatamente la conversazione in modo che non si accorga che parlate in basco: “Cosa succede?” chiederà. “Niente” risponderai. “Davvero?” “Sì, davvero.” “Questa è una bugia, no?” Rimarrai in silenzio. “Allora succede qualcosa e sarà meglio che io me ne vada da qui” dirà lui. E andrà alla zona Chill-in, borbottando qualcosa come Love stream. E rimarrete di nuovo 705 soli: “Ho portato un passaporto che potrebbe andar bene per te.” “E cosa faremo?” “Cosa vuoi fare...” “Possiamo fare qualcosa assieme?” “Sì.” Non sei ancora sicuro, nonostante tu l’abbia davanti agli occhi, che tu e Maribel vi troviate nello stesso spazio. Allungherai il braccio, con la tua mano toccherai la sua e, nonostante ciò, sarà impossibile verificare se questa vicinanza sia reale o no. “Non devi tornare da qualche parte?” “No. E tu?” “Nemmeno io ho dei programmi particolari.” “Allora abbiamo tempo” dirà Maribel. “Finalmente abbiamo tempo.” Uscirete alla luce incerta del mattino. Le strade saranno quasi deserte, il vento soffierà con forza dal canale Beagle che gli indigeni Yamana 706 L’amico congelato chiamavano Onashaga. E sarete testimoni del primo segnale di civiltà e del lavoro per la collettività quando, alle prime ore del mattino, camminerete per strada dietro ai netturbini. Il camion della spazzatura avanzerà lentamente davanti a voi brrum brrum. Un lavoratore immerso nei rifiuti fino alle ginocchia svuoterà i bidoni nel rimorchio, sotto, altri due suoi compagni, camminando ai due lati, gli sollevano i bidoni sul camion e, una volta svuotati, li lanciano verso i portoni. Il sole sorgerà rosso, come carbone incandescente. E, tenendovi per mano, come foste in viaggio di nozze, darete un finale da favola per lo meno a questo giorno che giunge incatenato a quello successivo. I netturbini saranno, senza rendersene conto, il corteo nuziale. Io non sarò invitato a nozze da nessuno e continuerò a dedicarmi a questa ridicola archeologia del futuro. Farà freddo e il vento porterà l’aria di altri dolori immemorabili, le eco della vita passata 707 e futura e in mare si vedranno imbarcazioni che vanno e vengono circondate da stormi di gabbiani. E, mentre vai verso il futuro, avrai la sensazione di camminare verso il passato. Hai perso tutto quello che avevi, perché veramente avevi più di quello che si può avere, tuttavia saprai che ancora possiedi la cosa più importante che può esserci: il tempo. Sì, il tempo. E la tua avventura, ovunque tu vada, sarà più bella di quella di Ulisse, perché tornerai al luogo dove non sei mai stato.