Bancarotta di Simone Marani La bancarotta è un tipico reato fallimentare consistente in una attività di dissimulazione delle proprie disponibilità economiche reali, oppure ad una attività di destabilizzazione del proprio patrimonio, diretta a realizzare un’insolvenza, anche apparente, nei confronti dei creditori. 1. Concetti generali 2. Bancarotta fraudolenta 2.1. I fatti di bancarotta fraudolenta 3. Bancarotta preferenziale 4. Bancarotta semplice 4.1. I fatti di bancarotta semplice 5. Le forme di manifestazione della bancarotta 6. Circostanze aggravanti ed attenuanti Bibliografia 1. Concetti generali I reati di bancarotta sono contemplati all’interno della Legge Fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267), recentemente riscritta dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), anche se la novella non ha toccato le disposizioni penali di cui al Titolo VI, dedicato, per l’appunto, anche ai reati di bancarotta. La principale distinzione all’interno della bancarotta è tra bancarotta semplice (artt. 217 e 224, L. Fall.) e bancarotta fraudolenta (artt. 216, 223, L. Fall.), relativa ad una differente intensità della gravità oggettiva e soggettiva. La bancarotta può essere propria o impropria, a seconda che il fatto di bancarotta semplice o fraudolenta sia commesso da un imprenditore individuale fallito o da un soggetto diverso dal fallito, come, ad esempio, un amministratore, un direttore generale, un sindaco o un liquidatore di una società commerciale. Nel contesto della bancarotta propria debbono essere ricondotti anche i fatti commessi dai soci illimitatamente responsabili, come si evince dal combinato disposto degli artt. 222, L. Fall., che estende l’applicabilità delle disposizioni penali dettate per l’imprenditore commerciale ai soci illimitatamente responsabili, e 147 L. Fall., secondo il quale la sentenza dichiarativa del fallimento di una società in nome collettivo, in accomandita semplice ed in accomandita per azioni, produce il fallimento anche dei soci illimitatamente responsabili. Sia i fatti di bancarotta semplice che di bancarotta fraudolenta possono essere commessi su beni o su libri o scritture contabili. Nei primi casi si parla di bancarotta patrimoniale (o bancarotta in senso stretto), mentre nell’ultima ipotesi si parla di bancarotta documentale. Con il termine bancarotta prefallimentare ci si riferisce alla bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale posta in essere prima della dichiarazione di fallimento (art. 216, co. 1 L. Fall.), mentre quella postfallimentare è, come ovvio, quella compiuta dopo tale dichiarazione (art. 216, co. 2 L. Fall.). L’elemento che accomuna tutte le ipotesi di bancarotta è costituito dalla dichiarazione di fallimento. Secondo l’orientamento dottrinale dominante, la dichiarazione di fallimento deve essere considerata come condizione obiettiva di punibilità, con la conseguenza che il fallimento incide su un fatto che è già considerato come reato con il compimento di uno dei fatti tipici, mentre la giurisprudenza di legittimità la considera come elemento costitutivo o come condizione di esistenza del reato: il fatto diviene penalmente rilevante solo dopo la dichiarazione di fallimento. In merito al bene giuridico tutelato, la manualistica ritiene che i reati di bancarotta patrimoniale siano reati contro il patrimonio, mentre quelli di bancarotta documentale pregiudicherebbero l’esatta conoscenza del patrimonio del debitore da parte del creditore. 2. Bancarotta fraudolenta Il delitto di bancarotta fraudolenta è previsto dagli artt. 216 e 223, L. Fall., il primo dei quali, contemplando la bancarotta fraudolenta patrimoniale, punisce, con la pena della reclusione da tre a dieci anni, l’imprenditore fallito che abbia distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato, in tutto o in parte, i propri beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, abbia esposto o riconosciuto passività inesistenti. Soggetto attivo può essere solo l’imprenditore commerciale soggetto a fallimento, ex art. 2082 c.c., ovvero colui che esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o scambio di servizi, trattandosi di reato proprio. L’oggetto materiale del reato è costituito dai beni dell’imprenditore fallito o il patrimonio, inteso come il complesso dei rapporti giuridici economicamente valutabili facenti capo al fallito. Il patrimonio è comprensivo di tutti i beni sui quali l’imprenditore vanti un diritto reale di qualsiasi specie, dei diritti sui beni immateriali e dei crediti di qualsiasi natura. (G. CASAROLI) Secondo l’orientamento dominante in giurisprudenza, il patrimonio deve essere considerato in senso oggettivo, al momento della dichiarazione di fallimento, essendo irrilevante il modo in cui questo si sia formato, con la conseguenza che anche i beni conseguiti in maniera illecita debbono esservi ricompresi (Cass. Pen., sez. V, sentenza 15 dicembre 1993, in Cass. Pen., 1995, 1039). In merito alla condotta, possiamo distinguere: ‐ la distrazione: si ha distrazione quando si conferisce al bene una destinazione diversa da quella imposta dalla norma giuridica, ovvero quella di tenere a disposizione degli organi del fallimento i beni dell’imprenditore insolvente, affinché possano essere distribuiti ai creditori. Per quanto riguarda la distrazione commessa dall’imprenditore, questa consiste in ogni atto, diverso dalla dissipazione e dall’occultamento, mediante il quale l’imprenditore fa uscire dal proprio patrimonio, senza contropartita, o senza contropartita reperibile, o fa uscire, comunque, dal patrimonio assoggettabile in concreto a procedura esecutiva, una parte dei propri beni, allorché questo aggravi lo stato di insolvenza. (P. NUVOLONE) L’impostazione maggioritaria ritiene che per l’accertamento della distrazione sia sufficiente verificare la sussistenza di una sproporzione ingiustificata tra attivo e passivo nel bilancio dell’impresa. Quanto detto vale sia per la bancarotta fallimentare che per la prefallimentare, anche se, nella prima, il concetto di distrazione è molto più rigoroso, in quanto qualsiasi atto di disposizione compiuto dal fallito, senza autorizzazione, comporta una presunzione di frode. ‐ l’occultamento: consiste nel materiale nascondimento dei beni del patrimonio, in guisa da renderne impossibile l’apprensione da parte degli organi deputati alla procedura fallimentare. Il confine tra la condotta di occultamento e quella di dissimulazione, che vedremo a breve, è molto sottile; se l’occultamento avviene mediante un negozio giuridico simulato e non tramite espedienti materiali, si avrà dissimulazione. ‐ la dissimulazione: nella dissimulazione, infatti, i beni non vengono sottratti materialmente ai creditori, ma il soggetto attivo ne rende impossibile l’apprensione facendo credere, mediante negozi giuridici simulati, che detti beni appartengano ad altri. ‐ la distruzione: consiste nella condotta diretta alla disgregazione o all’annientamento materiale del bene, con conseguente eliminazione del valore economico dello stesso. ‐ la dissipazione: consiste nella distruzione giuridica della ricchezza, potendosi identificare con lo sperpero ingiustificato attuato mediante atti a titolo gratuito, a titolo oneroso o atti di adempimento ad obbligazioni naturali. Anche l’azienda che si trovi in regime di contabilità semplificata deve annotare, in ogni caso, le somme che riscuote; ciò in quanto, nella ipotesi di fallimento, l’imprenditore potrebbe rispondere del reato di bancarotta. Come ha avuto modo di specificare recentemente la giurisprudenza di legittimità: “Il regime tributario di contabilità semplificata, infatti, non comporta l’esonero dall’obbligo di tenuta dei libri e delle scritture contabili, previsto dall’articolo 2214 del codice civile” (Cass. Pen., sez. V, sentenza 17 luglio 2012, n. 28923). L’elemento soggettivo consiste nel dolo specifico, anche se, secondo un certo orientamento giurisprudenziale, il dolo specifico sarebbe configurabile solo nell’ipotesi di esposizione o riconoscimento di passività inesistenti, mentre nei casi di occultamento, distrazione, ecc., sarebbe sufficiente il dolo generico (Cass. Pen., sez. V, sentenza 27 febbraio 1992, in Riv. Pen. Econ., 1992, 585). A favore della tesi che rinviene l’elemento soggettivo nel dolo specifico per tutte le ipotesi contemplate si afferma che lo scopo di offendere le ragioni dei creditori non può mancare nelle altre ipotesi, se è vero che una medesima ratio è sottostante ai due gruppi di figure delittuose e che l’essenza stessa della bancarotta va appunto ravvisata nell’offesa all’interesse dei creditori, la cui attuazione può essere raggiunta, nello stesso modo, stornando attività o dissimulando passività. (L. CONTI) L’art. 216, co. 1, n. 2, L. Fall. contempla la fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale, punendo il fatto di chi abbia sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li abbia tenuti in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari. Rientrano nell’oggetto materiale sia le scritture contabili obbligatorie, ex art. 2214 c.c., sia le scritture contabili facoltative che siano idonee alla ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari. In merito alle diverse condotte punibili distinguiamo: ‐ la sottrazione: si tratta di una condotta diretta a togliere all’organo fallimentare la possibilità di acquisire i libri e le altre scritture contabili. Si può attuare con qualsiasi atto diverso dalla distruzione che comporta l’annientamento materiale del documento. ‐ la falsificazione: consiste nella creazione di un falso documento o nella sostituzione di un documento originario con uno artefatto. Può trattarsi sia di falsità materiale che di falsità ideologica. ‐ l’esposizione o il riconoscimento di passività inesistenti: è un particolare tipo di falso ideologico che non cade direttamente sui libri o sulle scritture contabili, ma si attua mediante la predisposizione di falsi atti o la effettuazione di false dichiarazioni, inducendo in errore gli organi del fallimento sull’esistenza di determinate voci passive del patrimonio. ‐ la tenuta caotica dei libri e delle scritture contabili: anche in questo caso possiamo parlare di attività di falsificazione intesa in senso lato, consistente in alterazioni e manomissioni tali da rendere impossibile il soddisfacimento dei creditori. “Sussiste il reato di bancarotta documentale a carico di un imprenditore qualora risulti provata la tenuta altamente irregolare dei libri contabili, l’emissione di fatture per operazioni del tutto inesistenti, il frequente ricorso a storni e giroconti che rendano difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e dei movimenti bancari della società. Né, a fronte di un ampio materiale probatorio documentale, possono assumere rilevanza le eventuali testimonianze utilizzate dall’imprenditore stesso al fine di accertare la veridicità dei movimenti bancari effettuati” (Cass. Pen., sez. I, sentenza 18 novembre 2010, n. 40809). In merito all’elemento psicologico del reato, questo è diversificato a seconda che si tratti di sottrazione, distruzione e falsificazione o di tenuta caotica dei libri e delle scritture contabili; nel primo caso si richiede il dolo specifico, rappresentato dal fine di ingiusto profitto o di pregiudizio per i creditori, nel secondo è sufficiente il dolo generico, consistente nella consapevolezza e volontà di tenere le scritture in modo da impedire agli organi del fallimento di recuperare i beni sottratti (G. CASAROLI). Recentemente il giudice nomofilattico ha statuito che “L'integrazione del reato di bancarotta fraudolenta documentale richiede il dolo generico, ossia la consapevolezza che la confusa tenuta della contabilità renderà o potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio, in quanto la locuzione "in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari" connota la condotta e non la volontà dell'agente, sicché è da escludere che essa configuri il dolo specifico” (Cass. Pen., sez. I, sentenza 21 luglio 2011, n. 29161). Ai sensi del secondo comma dell’art. 216, L. Fall., il medesimo trattamento sanzionatorio si applica all’imprenditore dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri e le altre scritture contabili. Si parla, in questo caso, di bancarotta postfallimentare, che si realizza laddove l’imprenditore sia stato già dichiarato fallito e sia in corso la procedura fallimentare. Come ovvio, il legislatore ha riproposto solo quelle condotte che possono essere compatibili con una realizzazione dopo l’avvenuta dichiarazione di fallimento. 2.1. I fatti di bancarotta fraudolenta Secondo quanto disposto dall’art. 223, L. Fall. si applicano le pene stabilite dall’art. 216 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite, i quali abbiano commesso uno dei fatti previsti da quest’ultimo articolo. L’elemento di novità è costituito dai soggetti attivi del reato. La problematica che viene maggiormente in rilievo attiene alla punibilità dei c.d. amministratori di fatto, ovvero coloro i quali, pur in assenza di un valido ed espresso atto di investitura, esercitano i poteri e le funzioni tipiche dell’amministratore all’interno di una compagine sociale. L’orientamento dominante in giurisprudenza ritiene che anche a costoro possa essere estesa la responsabilità, in quanto la legge, nell’indicare coloro che possono commettere la bancarotta nel fallimento societario, ha inteso riferirsi non tanto all’aspetto formale della qualifica di amministratore, bensì alle funzioni inerenti a tale qualifica (Cass. Pen., sez. V, sentenza 8 maggio 2002, n. 21535, in Riv. Pen., 2002, 768 e Cass. Pen., sez. V, sentenza 19 dicembre 1986, n. 6148, in Riv. Pen., 1988, 91). Si consideri, inoltre, che non si potrebbe parlare, in tal caso, di ricorso all’analogia, quanto di interpretazione estensiva della norma incriminatrice, trattandosi, comunque, di condotta diretta a ledere concretamente il bene giuridico tutelato. Con la riforma dei reati societari a opera del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, che ha introdotto il nuovo art. 2639 c.c., al soggetto formalmente investito della qualifica è equiparato chi esercita, in modo continuativo e significativo, i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione, anche se tale estensione è effettuata esplicitamente solo per i reati societari. Tra le varie soluzioni prospettate la più coerente è quella di ritenere applicabile la norma anche ai reati fallimentari, stante l’eadem ratio. (G. CASAROLI) La prima ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria è contenuta all’interno dell’art. 223, co. 2, n. 1, L. Fall., secondo il quale ai soggetti menzionati si applica la pena prevista dall’art. 216, co. 1, L. Fall., se abbiano cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società commettendo alcuno dei fatti previsti dagli artt. 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 c.c. Si tratta di fatti già punibili a norma degli articoli richiamati del codice civile e che, in connessione con il fallimento, vengono puniti più severamente. Essi appartengono alla categoria delle frodi o alla categoria delle violazioni più gravi degli obblighi incombenti alle persone preposte all’amministrazione e al controllo delle società, a tutela degli interessi convergenti intorno alle società stesse. (P. NUVOLONE) La seconda ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria è contemplata dall’art. 223, co. 2, n. 2, L. Fall., ai sensi del quale vengono puniti con la pena della reclusione da tre a dieci anni, gli amministratori e gli altri soggetti menzionati che abbiano cagionato con dolo, o per effetto di operazioni dolose, il fallimento della società. Il fallimento deve essere intenzionalmente causato mentre se il fallimento è conseguenza di una condotta cosciente e volontaria, ma non diretta alla produzione del dissesto, si configura l’ultima fattispecie di bancarotta fraudolenta impropria, prevista sempre dall’art. 223, co. 2, n. 2, L. Fall., consistente nelle ipotesi di bancarotta impropria diverse da quelle analiticamente e specificamente indicate mediante il richiamo all’art. 216 L. Fall. ed alle norme del codice civile sui reati societari. Rientrano nel concetto di operazioni dolose quelle che, sebbene omissive, abbiano dispiegato una qualche efficacia causale alla produzione dell’evento, anche se non costituiscono, di per sé, reato. 3. Bancarotta preferenziale Secondo quanto disposto dal terzo comma dell’art. 216, L. Fall., è punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione. E’ la c.d. bancarotta preferenziale, che si caratterizza rispetto alle altre figure di bancarotta, innanzitutto, per il fatto che l’oggetto giuridico è rappresentato dall’interesse dei creditori alla distribuzione del patrimonio secondo le regole della par condicio. L’esigenza pubblicistica è evidente in questa norma, in quanto si vuole impedire un trattamento sperequato dei creditori; ma proprio perché il fatto non è genericamente diretto a frodare i creditori ma soltanto a favorirne taluno, la pena è meno grave rispetto a quella di bancarotta fraudolenta. (P. NUVOLONE) La condotta può consistere, innanzitutto, in un pagamento, da intendersi in senso lato, come qualsiasi ipotesi di solutio con efficacia estintiva di un precedente rapporto. Non viene fatta alcuna distinzione tra pagamenti di crediti non ancora scaduti e pagamenti di crediti liquidi ed esigibili o tra pagamenti effettuati in denaro o eseguiti con mezzi differenti. La seconda modalità di condotta consiste nella simulazione di titoli di prelazione. La simulazione deve essere idonea a produrre effetti giuridici, con la conseguenza che non potrà configurarsi come tale una semplice dichiarazione del fallito senza la predisposizione di un titolo ideologicamente falso. La simulazione di titoli di prelazione può compiersi nel caso di pegno e ipoteca con una stipulazione fittizia, perché, per ipotesi, distrutta da una controdichiarazione e nel caso di privilegio facendo apparire diversa la causa del credito. Naturalmente deve trattarsi di un credito reale, se pur non privilegiato, altrimenti si cadrebbe nella bancarotta fraudolenta in senso stretto per esposizione o riconoscimento di passività non esistenti. (F. CONTI) L’elemento psicologico è costituito dal dolo specifico, consistente nel fine di favorire alcuni dei creditori, accettando il rischio di verificazione di un danno per gli altri. Si ritiene che il dolo specifico non sia escluso dal perseguimento di fini ulteriori come, ad esempio, la speranza di evitare il fallimento. Non è sufficiente, però, che vi sia stato il soddisfacimento di alcuni creditori a danno di altri, essendo necessario che il debitore abbia agito con lo scopo particolare di favorire alcuni creditori e non altri. 4. Bancarotta semplice La prima forma di bancarotta semplice, ovvero quella patrimoniale, è contemplata all’interno dell’art. 217, co. 1 L. Fall., secondo il quale si punisce, con la reclusione da sei mesi a due anni, l’imprenditore dichiarato fallito che abbia fatto spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla sua condizione economica, abbia consumato una parte notevole del patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti, abbia compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento, abbia aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa, o non abbia soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare. Il concetto di spesa eccessiva deve essere tenuto ben distinto da quello di dissipazione, avendo, il primo, una causa razionale. Mentre la dissipazione, infatti, sovente è ingiustificata, la spesa eccessiva comporta una violazione del dovere di continenza oltre il normale, imposta da una particolare condizione patrimoniale a tutela dei creditori. Una lontana giurisprudenza di legittimità individuava la differenza tra dissipazione e spesa eccessiva nello scopo voluttuario per alimentare i propri vizi (Cass. Pen., sentenza 20 novembre 1952, in Giur. Compl. Cass. Pen., 1952, III, 637). Le operazioni di pura sorte non devono essere intese nel senso di partecipazione a gioco d’azzardo, potendosi configurare, in questo caso, dissipazione, ma atti attraverso i quali si rischia una parte del proprio patrimonio per uno scopo che ha la sua base nella vita economica dell’azienda. Si distingue, così, l’operazione manifestamente imprudente, nella quale alcuno degli elementi può essere predeterminato dall’imprenditore, e operazione di pura sorte, laddove l’esito dell’operazione stessa non può essere in alcun modo predeterminato dallo stesso. L’aggravamento del dissesto può essere conseguenza del ritardo dal richiedere la dichiarazione di fallimento, o conseguenza di altre operazioni gravemente imprudenti o dovute ad altra grave colpa, come nel caso di ricorso al credito usurario o l’assunzione di enormi impegni finanziari. In merito all’elemento psicologico del reato, è indifferente che il fatto sia commesso con dolo o con colpa, anche se si registrano orientamenti contrastanti diretti, da una parte, a ritenere che la bancarotta semplice abbia sempre natura colposa e, dall’altra, a ritenere colpose solo le fattispecie di cui ai nn. 2 e 4 dell’art. 217, L. Fall., e dolosa quella di cui al n. 3 dello stesso articolo, considerando sia in termini di dolo e di colpa quella di cui al n. 1. L’art. 217 L. Fall., al n. 5, prevede una ulteriore fattispecie di bancarotta semplice documentale, consistente nel non avere soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare. La condotta deve riferirsi ad una distinta e precedente procedura concorsuale, il cui inadempimento abbia portato alla dichiarazione di fallimento. In altre parole, si punisce la recidiva rispetto a un concordato preventivo o fallimentare inerente ad una precedente e distinta procedura, anche se vi sia stato inadempimento solo parziale e purché si tratti di obbligazioni scadute. (F. CONTI) Il secondo comma dell’art. 217 L. Fall., prevede la fattispecie di bancarotta semplice documentale, punendo con il medesimo trattamento sanzionatorio previsto per la bancarotta semplice patrimoniale, il fallito che, durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento, ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa abbia avuto una durata minore, non abbia tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge ovvero li abbia tenuti in maniera irregolare o incompleta. In aggiunta a quanto scritto in precedenza, si evidenzia che il legislatore, richiedendo che si tratti di scritture contabili prescritte dalla legge, ha dato rilievo solo alle documentazioni ritenute come assolutamente obbligatorie, ad esclusione delle scritture imposte per finalità meramente fiscali. La tenuta delle scritture è irregolare quando queste non presentano i requisiti di regolarità formale e sostanziale richiesti dalla legge e degli usi commerciali, mentre sono scritture incomplete quelle ove, sebbene formalmente regolari, si riscontrano lacune o intermittenze a causa della mancata registrazione di alcune operazioni (G. CASAROLI). L’orientamento giurisprudenziale dominante ritiene che il delitto di bancarotta semplice documentale sia un reato di pericolo presunto, che si configura per la semplice possibilità che l’omissione, l’irregolarità o l’incompletezza delle scritture contabili pregiudichi l’interesse dei creditori ad una pronta ed esatta ricostruzione del patrimonio del fallito, essendo irrilevante che non vi sia stato un concreto pericolo di sottrazione dell’attivo (Cass. Pen., sez. V, sentenza 12 giugno 1984, n. 5406, in Riv. Pen., 1985, 216). 4.1. I fatti di bancarotta semplice L’art. 224 L. Fall. estende le pene contemplate dall’art. 217 agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori delle società dichiarate fallite, i quali abbiano commesso alcuno dei fatti contemplati da tale ultima norma (art. 224, n. 1) o abbiano concorso a cagionare od aggravare il dissesto della società con inosservanza degli obblighi a essi imposti dalla legge (art. 224, n. 2). La fattispecie in commento non contempla, come ovvio, le condotte di cui all’art. 217 L. Fall., relative all’effettuazione di spese personali o per la famiglia considerate eccessive rispetto alle condizioni economiche del soggetto agente, mentre troveranno applicazione le disposizioni attinenti alle operazioni manifestamente imprudenti che abbiano consumato una notevole parte del patrimonio sociale e quelle relative al compimento di operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento della società ed all’aggravamento del dissesto a seguito di astensione dal richiedere la dichiarazione di fallimento, anche se tale ultima ipotesi riguarda solamente gli amministratori ed i liquidatori, ai quali spetta il potere di richiesta del fallimento. Trova applicazione anche la disposizione relativa alla stipulazione di un concordato preventivo senza adempimento delle relative obbligazioni. In ogni caso è necessario un nesso di causalità con l’insolvenza fallimentare o il suo aggravamento, sì che il dissesto o il suo aggravamento costituiscono l’evento naturalistico del reato e ne segnano il momento consumativo. In merito all’elemento soggettivo della fattispecie di cui all’art. 224, n. 2, L. Fall. si è concordi nel ravvisare un’ipotesi di colpa per inosservanza di leggi. I fatti compresi nella figura in esame sarebbero in parte ugualmente punibili anche in mancanza di essa perché riconducibili all’ipotesi di bancarotta semplice di cui all’art. 217, n. 4 (inasprimento del dissesto con grave colpa). Ma quest’ultima esige una colpa grave, mentre nel caso in esame è sufficiente una qualsiasi inosservanza degli obblighi di legge, onde la sfera dell’incriminazione è per un aspetto più ampia (relativamente ai casi non gravi di inosservanza di leggi) e per un altro più limitata (essendovi escluse le ipotesi di colpa generica). (F. CONTI) L’art. 227 L. Fall. estende la responsabilità per i fatti di cui agli artt. 216 e 217 all’institore dell’imprenditore dichiarato fallito. Anche in questo caso si parla di bancarotta impropria, in quanto trattasi di soggetto diverso dall’imprenditore fallito. 5. Le forme di manifestazione della bancarotta In relazione al momento consumativo del reato di bancarotta, questo lo si ravvisa nel fallimento o nell’aggravamento dell’insolvenza fallimentare, nei casi in cui tali situazioni costituiscono l’evento naturalistico, e nella realizzazione dei singoli fatti, nel caso di bancarotta postfallimentare. Nella bancarotta prefallimentare è discusso se il momento consumativo debba essere individuato con la realizzazione dei singoli fatti o con la pronuncia della sentenza dichiarativa del fallimento. Se si considera la sentenza dichiarativa del fallimento come condizione obiettiva di punibilità, la consumazione dovrà ritenersi avvenuta nel luogo e nel tempo della realizzazione del fatto e non della pronuncia della declaratoria di fallimento. Discussa l’ammissibilità del tentativo nel reati di bancarotta. Secondo la soluzione preferibile, l’ammissibilità sarebbe da escludersi per la bancarotta semplice colposa e nella bancarotta che si caratterizza da una condotta omissiva, come nel caso di bancarotta semplice documentale per omessa tenuta delle scritture contabili. Non vi sono dubbi sulla ammissibilità del tentativo nella bancarotta postfallimentare, mentre residuano dubbi in proposito in merito alla bancarotta prefallimentare in quanto, come abbiamo avuto modo di vedere in precedenza, l’orientamento dominante ritiene che la sentenza di fallimento sia una condizione obiettiva di punibilità. Poiché è ben concepibile il conatus nel reato condizionato, che diviene punibile col verificarsi della condizione sempre che la struttura di tale reato, indipendentemente da quest’ultima, consenta il tentativo, non vediamo difficoltà alcuna a concepire situazioni di bancarotta prefallimentare tentata. Si pensi al caso di amministratori di una società i quali si accingano a trasferire beni all’estero nell’imminenza del fallimento, in modo da non consentire ai creditori di soddisfarsi su di essi, e che vengano sorpresi mentre stanno iniziando il carico su di una nave, delle merci da involare (F. CONTI). In quanto reato proprio, per la sussistenza del concorso esterno nel reato di bancarotta, occorre che vi sia l’attività tipica di almeno un soggetto che possieda le qualità previste dalla legge fallimentare (G. CASAROLI). La condotta dell’extraneus deve, poi, avere avuto una influenza causale agevolatrice sul compimento del fatto di bancarotta, accompagnato dalla consapevolezza della qualifica dell’intraneus e con la coscienza e volontà di aderire al fatto, senza che sia necessario un vero e proprio previo accordo tra i due. In relazione alla continuazione, questa deve escludersi in caso di un solo fallimento, laddove, con riferimento alla medesima violazione di legge, trova applicazione l’art. 219, n. 1, L. Fall., mentre nel caso di fatti attinenti a fallimenti autonomi e distinti non vi sarebbero problemi ad applicare l’art. 81 c.p. 6. Circostanze aggravanti ed attenuanti La disciplina delle circostanze aggravanti ed attenuanti specifiche è contenuta all’interno dell’art. 219, L. Fall. Una prima circostanza aggravante, disciplinata dal primo comma della norma, consiste nel caso in cui i fatti previsti negli artt. 216, 217 e 218 L. Fall. abbiano cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità. L’entità del danno va valutata in relazione al pregiudizio arrecato alla massa dei creditori, non dal fallimento, bensì dalla bancarotta. Ovviamente, nel caso di più fatti di bancarotta, occorre far riferimento al danno arrecato nel complesso. Si è ritenuta sussistere l’aggravante del danno di rilevante entità nel caso in cui commercialista ed avvocato, consulenti di un'azienda in difficoltà, abbiano contribuito a determinare la bancarotta fraudolenta della stessa, spogliandola di liquidità attraverso la costituzione di società che hanno rastrellato beni e attività dell’azienda in fallimento destinati ai creditori (Cass. Pen., sez. V, sentenza 9 gennaio 2012, n. 121). Le pene stabilite negli articoli di cui sopra sono, altresì, aumentate, ai sensi del secondo comma: ‐ se il colpevole ha commesso più fatti tra quelli previsti in ciascuno degli articoli indicati; deve trattarsi di una molteplicità di azioni criminose, indifferentemente relative alla medesima ipotesi di reato realizzata più volte, o a distinte ipotesi o al cumulo tra la reiterazione di singole ipotesi e l’attuazione di ipotesi diverse, ad esclusione del fatto in cui dalla formulazione legislativa si desuma l’irrilevanza dell’unicità o pluralità dei fatti medesimi. Proprio in considerazione della ratio che lo sorregge, l’art. 219, co., n. 1, esaurisce i suoi effetti nel contesto del medesimo procedimento concorsuale e, pertanto, nel caso di autonome dichiarazioni di fallimento, le plurime condotte illecite danno vita a un concorso di reati o, ricorrendone le condizioni, alla continuazione del reato. (G. CASAROLI) La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto applicabile anche al caso di fatti eterogenei di bancarotta fraudolenta e semplice l’aggravante in commento, anziché la continuazione, in quanto sarebbe irragionevole punire più severamente chi abbia commesso un fatto di bancarotta fraudolenta e di bancarotta semplice, rispetto a chi abbia commesso più fatti di bancarotta fraudolenta (Cass. Pen., sez. V, sentenza 21 luglio 2005, n. 27231, in Sole 24 ore, 10 agosto 2005, 27). ‐ se il colpevole per divieto di legge non poteva esercitare un'impresa commerciale; la circostanza in commento sussiste solo se l’inabilitazione all’esercizio dell’attività commerciale abbia la sua fonte immediata in un divieto posto in essere dalla legge, in ragione dell’esercizio di determinati uffici o professioni, come, ad esempio, quelli di ufficiale in servizio, notaio o avvocato. L’ultimo comma prevede l’unica circostanza attenuante per il caso in cui i fatti indicati nel primo comma abbiano cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità; in questo caso le pene sono ridotte fino al terzo. Si ritiene in dottrina che l’attenuante in commento possa trovare applicazione anche alla bancarotta impropria. Bibliografia ∙ ANTONIONI, La bancarotta semplice, Napoli, 1962; ∙ BRICCHETTI – TARGETTI, Bancarotta e reati societari, Milano, 1998; ∙ CASAROLI, Qualche riflessione sull’oggetto materiale del delitto di bancarotta, in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 1991, 403; ∙ CASAROLI, voce Reati Fallimentari, in Il diritto, 12, Milano, 2007, 689 e ss.; ∙ COCCO, La bancarotta preferenziale, Napoli, 1987; ∙ CONTI, voce Fallimento (reati in materia di), in Dig. disc. pen., V, Torino, 1991, 10 e ss.; ∙ GIULIANI BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano, 1999; ∙ MANGANO, Disciplina penale del fallimento, Milano, 1993; ∙ NUVOLONE, voce Fallimento (reati), in Enc. dir., XVI, 1967, 481 e ss.; ∙ PAGLIARO, Il delitto di bancarotta, Palermo, 1957; ∙ PERINI – DAWAN, La bancarotta fraudolenta, Padova, 2001; ∙ SANTORIELLO, I reati di bancarotta, Torino, 2000. 
Scarica

Bancarotta di Simone Marani La bancarotta è un