1860. Novembre. Mancano poche ore al
risultato delle elezioni per il sedicesimo
presidente degli Stati Uniti d’America e
a Washington la tensione è altissima. Le
strade brulicano di uomini che fanno la
spola fra taverne e alberghi in cerca di
notizie o si assiepano davanti alle porte
dell’ufficio del telegrafo. Le sale dei
circoli che costellano il quartiere della
Casa Bianca sono già piene di passanti
accorsi numerosi per approfittare del
whisky offerto gratuitamente.
Soltanto una donna di colore, Elizabeth
Keckley, si affretta a tornare alla sua
pensione di mattoni rossi stringendo al
petto il suo cesto da cucito. È una sarta
specializzata in eleganti abiti femminili
alla moda. A Saint Louis, dopo anni di
sacrifici e risparmi, è riuscita a
comprare la libertà per sé e per il figlio
George, studente in una lontana
università dell’Ohio. Si è trasferita a
Washington, la capitale federale
dell’Unione, animata da un solo intento:
continuare a garantire al figlio
quell’istruzione che a lei è stata
preclusa.
Nonostante il clima teso a causa delle
dispute legate all’abolizione della
schiavitù e ai propositi secessionisti del
Sud, Lizzie lavora alacremente. Non
importa se per orlare le tende di un hotel
malandato riceva soltanto due dollari e
mezzo o se, per ultimare il vestito della
moglie del senatore Davis, rientri così
tardi da avere a malapena il tempo per
un pasto e un bagno. Bravissima a
confezionare i corpetti complicati e
aderenti per i quali le dame del tempo
impazziscono, Lizzie vede la sua fama
accrescersi e farsi largo a poco a poco
tra i circoli più in vista della città.
Finché un giorno non si trova al cospetto
di una donna sulla quarantina dai capelli
scuri, con una bella carnagione e limpidi
occhi azzurri che denotano acume e
intelligenza: Mrs Mary Lincoln, la
moglie del presidente appena eletto, la
first lady nota per le sue bizze e i suoi
improvvisi accessi d’ira.
Lizzie le sistema magnificamente un
abito rosa di moiré antico che Mary
sfoggia con successo al primo grande
ricevimento in onore dell’insediamento
del marito. Da quel momento diviene
non soltanto la sarta personale di Mrs
Lincoln, colei che si occupa di vestirla e
acconciarla per balli, cene e
ricevimenti, ma anche la ex schiava cui
l’inquieta, volubile Mary confida le sue
angustie e i suoi rancori, il suo
disappunto di first lady oggetto di
malevolenze, invidie e gelosie. Un
sodalizio che da parte della fedele
Lizzie non verrà mai meno, neanche
quando Mary Lincoln, sola e
abbandonata da tutti, dopo aver perso il
figlio Willie, a causa di una malattia, e
poi il marito, vittima di un attentato,
rivolgerà il suo risentimento contro di
lei, scambiando un estremo gesto
d’amore per un insulto alla sua dignità
di ex first lady dell’Unione.
Con uno stile avvincente e una trama
arricchita da splendide descrizioni che
restituiscono tutto il fascino dell’epoca,
La sarta di Mary Lincoln, New York
Times bestseller, «porta alla luce, con
stile, grazia e rispetto, gli scatti
dimenticati di un’America passata»
(Book Reviews), raccontandoci la storia
vera di Elizabeth Keckley: ex schiava,
sarta della Casa Bianca e autrice di un
libro di memorie che scandalizzò
l’intera nazione.
Jennifer Chiaverini insegna scrittura alla
Pennsylvania State University e
all’Edgewood College. È autrice di
numerosi bestseller e della fortunata
serie Elm Creek Quilts. Attualmente
vive a Madison, in Wisconsin, con il
marito e due figli.
I NARRATORI DELLE TAVOLE
JENNIFER CHIAVERINI
La sarta di Mary
Lincoln
traduzione di
Maddalena Togliani
Titolo
originale:
Mrs.
Lincoln’s
Dressmaker
© 2013 by Jennifer Chiaverini
All rights reserved including the right of re
production in whole or in part in any form.
This edition published by arrangement with
Dutton, a member of Penguin Group (Usa)
Inc.
© 2014 Neri Pozza Editore, Vicenza
www.neripozza.it
Edizione digitale: maggio 2014
ISBN 978-88-545-0874-3
Quest’opera è protetta dalla Legge sul
diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale,
non autorizzata.
A Marty, Nicholas e Michael
con amore e gratitudine
1.
Novembre 1860 - gennaio 1861
Il giorno delle elezioni, a metà
pomeriggio, Elizabeth Keckley si
affrettò a tornare alla sua pensione, un
edificio di mattoni rossi in Twelfth
Street dove aveva preso in affitto due
stanzette sul retro. Quando usciva di
casa portava sempre con sé il
documento
comprovante
la
sua
condizione di schiava affrancata, ma il
giorno
dell’elezione
presidenziale
desiderava trovarsi al sicuro, al chiuso,
molto prima del coprifuoco. La città era
invasa da un’agitazione febbrile, anche
se i cittadini bianchi della città di
Washington, distretto di Columbia, non
avevano il diritto di voto. In questo
erano sullo stesso livello dei residenti
neri della capitale, schiavi o liberi che
fossero; Elizabeth, sempre prudente,
evitava di discutere l’argomento con le
mogli degli esponenti dell’élite politica
e sociale della città per le quali
confezionava
splendidi
abiti
da
indossare a balli e ricevimenti. Le sue
clienti
adottavano
un
unanime
atteggiamento di diffidenza e sdegno nei
confronti del candidato repubblicano, un
avvocato dell’Illinois, uno zotico
provinciale
venuto
dall’Ovest,
abolizionista radicale. Le divergenze di
opinione tra loro si manifestavano al
momento di decidere quale dei suoi tre
rivali sarebbe dovuto succedere al
presidente Buchanan, il quale, pur
essendosi dimostrato un inetto, almeno
non aveva danneggiato i loro stati e la
“peculiare istituzione” schiavista del
Sud.
Se la popolazione avesse cominciato
a sfilare per le vie della città e il corteo
fosse degenerato, come succedeva fin
troppo spesso in quel periodo, Elizabeth
voleva trovarsi al riparo dai disordini.
Le strade si stavano già riempiendo di
uomini che facevano la spola di corsa
fra taverne e alberghi in cerca di notizie
sull’elezione, formavano capannelli agli
angoli delle strade e scoccavano
occhiate ostili ai loro rivali, o si
assiepavano
davanti
alle
porte
dell’ufficio del telegrafo in Fourteenth
Street, anche se i risultati erano attesi
solo diverse ore dopo. Molti dei
passanti dovevano avere approfittato del
whisky distribuito gratuitamente dai vari
circoli politici che costellavano il
quartiere della Casa Bianca, e di tanto in
tanto gli scoppi di risa sguaiate
coprivano perfino il continuo scalpiccio
degli zoccoli dei cavalli e il fischio dei
treni di passaggio, in lontananza.
Tornando a casa dopo aver fatto la
prova di un abito, Elizabeth strinse più
forte il cesto da cucito e cercò di
mostrarsi serena e composta; sussultò
una sola volta, quando un giovanotto che
indossava una spilla con l’immagine di
Breckinridge la spintonò per la fretta di
arrivare alla bacheca fuori dal National
Hotel.
Fece un sospiro di sollievo quando
giunse infine nel suo quartiere
tranquillo, un rifugio in quella che solo
pochi mesi prima era una città
sconosciuta. Dopo aver trascorso
qualche settimana a Baltimora, quella
primavera la difficoltà di trovare lavoro
l’aveva convinta a trasferirsi a
Washington. Non molto prima aveva
abitato a Saint Louis, dove era riuscita a
comprare la libertà per sé e per il figlio
dopo anni di sacrifici e risparmi.
Adesso George studiava all’università
di Wilberforce, nell’Ohio, e lei era
un’eccellente sarta specializzata nella
realizzazione di mantua1, una donna
d’affari dall’ottima reputazione, libera e
indipendente. Sapere che il suo unico
figlio stava ricevendo l’istruzione che a
lei era stata preclusa, e che non aveva un
padrone, le rendeva più facile
sopportarne la lontananza.
Virginia Lewis, sua padrona di casa e
cara amica, doveva averla vista arrivare
dalla finestra perché la aspettava sulla
porta. «Ci sono novità?» le chiese
apprensiva, studiando la sua espressione
come per leggervi la risposta. «So cosa
dicono le tue dame. Se c’è qualcuno che
sa cosa sta succedendo sono proprio
loro».
«Temo che non ne sappiano più di
noi». Elizabeth posò il cesto da cucito e
si tolse lo scialle. «Non c’è nulla di
nuovo rispetto a quanto abbiamo saputo
stamattina. Lincoln è ancora il favorito,
ma non avremo certezze finché non
avranno finito il conteggio dei voti».
«Immagino che alle tue clienti non
piacerebbe Lincoln come presidente».
«No, per niente. La maggior parte dei
mariti parteggia per Breckinridge, e loro
fanno lo stesso. Qualcuna sostiene
invece Bell». Elizabeth abbassò la voce
con tono da cospiratrice. «Temono che
Lincoln voglia liberare tutti gli schiavi».
Risero insieme. «Che Dio lo
benedica, se è così!» esclamò Virginia.
«Se è vero, prego perché vinca».
Elizabeth annuì, ma nutriva qualche
dubbio. Checché ne dicessero i
partigiani del Sud residenti in città,
Abraham Lincoln, a quanto sapeva, non
aveva mai promesso di mettere fine alla
schiavitù, solo di impedirne la
diffusione. Ma anche se avesse posato
una mano sulla Bibbia giurando di
essere un abolizionista convinto, i pochi
mesi trascorsi a Washington le avevano
insegnato che i candidati spesso
facevano promesse che erano incapaci
di
mantenere
dopo
l’elezione.
Qualunque fossero le intenzioni di
Lincoln, favorevoli o deleterie per
Elizabeth, per i Lewis e gli altri neri del
posto, quando i suoi sostenitori fossero
entrati in città per prendere il potere
avrebbero inevitabilmente rimpiazzato i
seguaci di Buchanan, tra i quali si
trovavano i mariti di alcune delle sue
clienti migliori. Lei poteva solo
auspicare che ne restasse almeno
qualcuna, tanto da garantirle lavoro a
sufficienza. Non osava sperare che la
nuova first lady amasse vestirsi con
eleganza e di riuscire in qualche modo a
farsi notare da lei.
Mezzanotte era già passata da un
pezzo quando fu svegliata di soprassalto
dalle grida per le strade, da canti e
discorsi trionfali e, poco dopo, da spari
e vetri infranti. Si rizzò a sedere sul letto
e tese le orecchie, al buio, cercando di
interpretare quell’accozzaglia di suoni e
urla concitate. Alla fine capì che i voti
erano stati contati e che il risultato
dell’elezione era stato divulgato.
Abraham Lincoln sarebbe diventato il
sedicesimo presidente degli Stati Uniti.
Elizabeth era arrivata a Washington
senza denaro, né amici, né casa, ma
presto aveva trovato lavoro come aiuto
sarta per due dollari e mezzo al giorno,
e aveva preso una stanza in una
pensioncina. Aveva deciso quasi subito
di mettersi in proprio, e si era procurata
un’insegna e dei biglietti da visita. La
sua specialità, aveva fatto sapere in
giro, erano i mantua: era bravissima a
confezionare i corpetti complicati e
aderenti per i quali le dame eleganti
impazzivano. Poco per volta si era
creata un giro di clienti che l’avevano
raccomandata alle amiche. Una signora
generosa, intima del sindaco, lo aveva
persuaso a esentarla dalla tassa per la
licenza che, come tutte le donne nere
libere sopra i quattordici anni, Elizabeth
avrebbe avuto l’obbligo di procurarsi
entro trenta giorni dal suo arrivo se
desiderava trattenersi in città. In effetti
aveva già deciso di restare, anche se lo
spettacolo
cui
assisteva
quotidianamente, di schiavi incatenati
trascinati lungo le strade fangose dal
cantiere navale alla casa d’aste, e le
restrizioni
imposte
agli
schiavi
emancipati, come la licenza e il
coprifuoco,
le
davano
talvolta
l’impressione di non essere davvero
libera.
In ottobre, qualche settimana prima
dell’elezione che causò tanto scompiglio
a
Washington,
Elizabeth
aveva
confezionato un abito per la moglie di un
ufficiale di cavalleria, il colonnello
Robert E. Lee. «Non badate a spese»
aveva detto il colonnello a Elizabeth
consegnandole cento dollari destinati
all’acquisto di pizzi, bottoni e fiocchi
per il vestito della consorte. Elizabeth
era stata ben felice di obbedire, e
quando Mrs Lee aveva sfoggiato l’abito
a una cena privata alla Casa Bianca in
onore del principe di Galles, le altre
signore presenti, colpite dalla sua
bellezza e dal taglio perfetto, si erano
affrettate ad accaparrarsi Elizabeth. La
sua reputazione era cresciuta a mano a
mano che le clienti, una più soddisfatta
dell’altra, la raccomandavano alle
amiche, e in breve si era ritrovata con
tanto di quel lavoro da non riuscire
quasi a sbrigarlo.
Poco dopo l’elezione, una signora
per la quale lavorava la suggerì a una
vicina, Varina Davis, moglie del
senatore
Jefferson
Davis
del
Mississippi. Sapendo che i Davis
amavano dormire fino a tardi, Elizabeth
propose di recarsi nella loro casa di I
Street di pomeriggio invece che di
primo mattino. Così facendo poteva
lavorare per la famiglia del senatore
dopo pranzo, mentre al mattino sarebbe
stata libera di occuparsi delle altre sue
clienti. Mrs Davis accettò la proposta, e
i giorni autunnali passarono in modo
sereno e produttivo, nonostante la
tensione crescente in città, che sembrava
essersi esacerbata invece che calmata
dopo l’elezione. La residenza dei Davis
era il centro nevralgico delle attività
sudiste: politici e statisti del Sud
arrivavano di corsa a qualsiasi ora e
scomparivano nello studio del senatore
Davis per riunioni clandestine tenute a
bassa voce. Ma di tanto in tanto si
udivano grida irate, e a ogni scoppio di
collera le labbra di Mrs Davis si
stringevano in modo impercettibile; di
solito però si limitava a lanciare
un’occhiata alla porta e a far finta di
niente. Se era di buonumore azzardava
una battuta sugli uomini e il loro brutto
carattere, ma Elizabeth sospettava che
fosse preoccupata quanto loro per il
divario che si stava ingigantendo tra
Nord e Sud.
A Elizabeth piacevano i Davis. Il
senatore le pareva un gentiluomo cortese
e dignitoso, e sua moglie – bruna, grandi
occhi castani e una pelle troppo scura
per i dettami della moda – era istruita e
spiritosa, e sembrava avere amici
dappertutto, tra i repubblicani come tra i
democratici. Mrs Davies dimostrava una
trentina d’anni, dieci meno di Elizabeth.
Amava leggere e citare poesie, e quando
Elizabeth arrivava di solito la trovava
intenta a scrivere una lettera, leggere un
libro o ricevere un’amica.
Un grigio pomeriggio di dicembre,
Elizabeth arrivò dai Davis appena in
tempo per vedere una delle amiche della
signora, la graziosa e vivace moglie di
Samuel Phillips Lee, andarsene in fretta
e con aria irritata. «Non sembra
contenta» mormorò la sarta a Jim, il
portiere nero, uno schiavo che era
venuto a Nord dal Mississippi al seguito
dei Davis. «Ho quasi paura di entrare
per scoprirne il motivo. Hanno
litigato?»
Jim annuì. «Non per molto e senza
gridare, però sì, hanno bisticciato. Ho
sentito dire a Mrs Davis che non vuole
più avere niente a che fare con i
repubblicani».
«Ma perché? Che sciocchezza».
Elizabeth spostò la borsa nell’altra
mano e fece un gesto di saluto all’amica
di Mrs Davis che si allontanava con
cautela lungo la strada. Il freddo
invernale aveva gelato il fango, che si
era indurito creando solchi profondi e
rendendo pericolosi gli spostamenti a
piedi. Difficile capire cosa fosse
peggio, se il fango denso e molle che
insozzava le sottane e risucchiava le
scarpe, o quello congelato che
provocava storte e cadute. «Mrs Davis
ha molti amici repubblicani».
«Non vengono quasi più». Jim si
guardò alle spalle e si sporse verso di
lei, prendendo un tono confidenziale.
«Sapete quanti democratici inferociti
riescono a stiparsi nello studio di Mr
Davis?»
«Dieci?» azzardò Elizabeth curiosa.
«Una dozzina?»
«Il doppio, l’ho visto con i miei
occhi. Sono arrivati ieri al tramonto,
senatori, ministri e tutti gli altri, alla
spicciolata, discreti, e sono rimasti fino
alle tre di stamattina a parlare di
secessione».
Il cuore di Elizabeth iniziò a battere
veloce. La prima volta che aveva sentito
quella parola era stata costretta a
domandarne il significato al suo padrone
di casa, Walker Lewis, e sentirla
pronunciare non mancava mai di
spaventarla. «Hanno parlato anche della
guerra?»
«Parlare dell’una di solito porta a
parlare anche dell’altra, non è vero?»
Elizabeth annuì. Era proprio vero.
«Forse non si arriverà a tanto. Forse
sono solo spacconerie dei politici».
Sapeva che il senatore Davis lavorava
giorno e notte per convincere gli stati
che praticavano ancora lo schiavismo a
restare nell’Unione. Sperava che i suoi
sforzi fossero destinati al successo, ma
le divergenze fra le due parti erano tanto
marcate che un accordo sembrava
improbabile.
«Può darsi» disse Jim facendola
entrare, ma lei sapeva che era solo una
formula di cortesia. Forse lui la voleva,
la guerra, se gli avesse garantito la
libertà. Non poteva dargli torto.
Trovò Mrs Davis in salotto, con un
libro in grembo e lo sguardo assente.
«Buongiorno, signora» la salutò. «Ho
finito di imbastire la fodera del vestito
da giorno, se volete provarlo».
Mrs Davis alzò lo sguardo
trasalendo. «Certo, Elizabeth». Si alzò e
fece segno alla sarta di seguirla di
sopra, nel suo salottino privato.
La moglie del senatore rimase in
silenzio mentre Elizabeth la aiutava a
infilare il corpetto e la gonna di
mussola. La sarta era dell’opinione che
investire tempo e fatica per tagliare e
provare la fodera fosse il segreto per un
abito ben riuscito, e considerava con
occhio critico le sue colleghe che non
dedicavano la necessaria cura a quella
fase dell’operazione. Per prima cosa
Elizabeth creava un modello per la
fodera appuntando con gli spilli la
mussola a buon mercato o la carta sul
corpo della cliente. Poi staccava i vari
pezzi e li imbastiva. La cliente provava
questa prima versione dell’abito, che
Elizabeth poi modificava e adattava
prima di un’altra serie di prove; queste
terminavano solo quando la sarta si
considerava pienamente soddisfatta.
Soltanto allora si azzardava ad
avvicinare le forbici al raso, alla seta o
al tessuto moiré, ben più preziosi, che
avrebbero costituito lo strato esterno del
vestito. A quel punto il modello ormai
perfetto era l’unico supporto che le
serviva per confezionare l’abito,
un’operazione che compiva nelle
proprie stanze, in privato. Il processo
era lungo e laborioso, ma Elizabeth
insisteva nell’affermare che era l’unico
modo per avere un abito perfetto. Si
chiedeva cos’avrebbero pensato le sue
clienti se avesse detto loro che aveva
imparato la tecnica del tagliare
direttamente il materiale sul corpo dalle
schiave nere in Virginia; non perché
fossero
fanatiche
della
moda,
naturalmente, ma per non sprecare
neppure un pezzetto del ruvido cotone
fornito dalla padrona.
Mentre Elizabeth creava delle
piegoline nella parte posteriore del
corpetto e le fissava con cura con gli
spilli, Mrs Davis sospirò e disse: «Mi
chiedo... Mi chiedo se avrei dovuto
scegliere un tessuto più adatto all’estate
nel Sud».
«Il raso vi dona particolarmente, e
farà molto caldo solo per pochi giorni».
Studiando il corpetto, Elizabeth staccò
altri due spilli dal puntaspilli e li
appuntò. «Perché vi preoccupate?
Pensate di andare in Mississippi per
l’estate?»
«Sì, andiamo a casa» rispose Mrs
Davis con una breve risata. «Sono nata
in Mississippi, ma il mio cuore è a
Washington. Mi dispiacerebbe molto
andarmene, anche se prendessero il
sopravvento i repubblicani».
«Anche a me dispiacerebbe molto
vedervi partire». Elizabeth ripensò alla
moglie di Samuel Phillips Lee, con i
lineamenti fini deformati dalla collera
mentre usciva frettolosamente da casa
Davis. «E anche alle vostre amiche, ne
sono sicura».
«Dubito che le mie amiche si
tratterranno qui. Alcune di loro hanno
già dichiarato di volersi trasferire in
stati dove riceveranno un’accoglienza
migliore. Nessuna di noi ha molta scelta,
d’altronde». Con un sospiro Mrs Davis
permise a Elizabeth di allargarle le
braccia per poter sistemare le maniche
dell’abito. «Il dovere di una moglie è
accompagnare il proprio consorte. Se i
nostri decidono di restare nell’Unione, e
quindi a Washington, restiamo. In caso
contrario...» Mrs Davis lasciò la frase in
sospeso e agitò la mano come a chiudere
il discorso, con un movimento convulso
che strappò la manica di mussola dalle
mani di Elizabeth. «Insomma, andremo
dove ci toccherà, che ci piaccia o no».
«Se dovrete andare, e lo credo
improbabile» replicò Elizabeth, «sarete
la dama meglio vestita del Mississippi,
sempre se state ferma e mi lasciate
finire».
Suo malgrado Mrs Davis rise. Diede
un colpetto amichevole alla mano che
l’altra donna le aveva posato su un
fianco, ma da quel momento in poi
rimase perfettamente immobile finché
Elizabeth non ebbe terminato.
Durante il mese di dicembre
l’argomento della guerra fu sollevato
spesso a casa Davis, tanto dalla signora
quanto dal senatore. Questi lavorava
sempre di più e a tutte le ore, e sua
moglie, quando non si occupava dei figli
piccoli, si distraeva scrivendo lettere,
leggendo libri e ricevendo amiche dalle
quali probabilmente pensava di doversi
congedare quanto prima per non
rivederle mai più. Un’agitazione
profonda, che nessuno osava manifestare
esplicitamente, serpeggiava per la città;
si viveva con l’impressione che il tempo
a disposizione stesse per scadere, ed
Elizabeth lo avvertiva in particolar
modo a casa Davis.
All’avvicinarsi delle feste di fine
anno, Mrs Davis diede parecchio lavoro
alla sarta, chiedendole di cucire abiti
per tutti i giorni per lei e le figlie, e un
indumento speciale per suo marito, una
splendida vestaglia di seta che gli
avrebbe regalato a Natale. Siccome la
moglie voleva fargli una sorpresa,
chiese a Elizabeth di tenerla nascosta
ogni volta che il senatore era a casa.
Una volta Mrs Davis si precipitò nella
stanza dove Elizabeth era impegnata a
cucire e le gettò addosso una trapunta –
che coprì gli scampoli di seta, il cesto
da cucito ed Elizabeth stessa dalle
spalle alla punta delle scarpe – solo
qualche istante prima che il senatore
Davis facesse il suo ingresso, essendo
tornato dal Campidoglio più presto del
solito. Non ci fu il tempo di sistemare la
trapunta perché avesse un’aria meno
ridicola, così Elizabeth si limitò a
salutare con un cenno del capo, senza
muoversi, mentre Mrs Davis andava a
baciare il marito cercando di distrarlo.
Il senatore ricevette il benvenuto della
moglie, ma poi lanciò un’occhiata
curiosa dietro di lei, alla sarta. «Avete
freddo, Lizzie?»
«Ora non più, Mr Davis» replicò lei.
Mrs Davis fece un rapido sorriso
complice e trascinò il marito fuori dalla
stanza, chiedendogli come fosse andata
la giornata. Elizabeth, soffocando una
risata, si tolse di dosso la trapunta,
piegò la seta e la nascose nel cesto
prima che il senatore tornasse.
Fu uno dei rari momenti sereni in un
periodo di tensioni e preoccupazioni
crescenti. Alcuni giorni prima di Natale
tutta Washington fu scossa dalle notizie
provenienti dal Sud: il South Carolina
aveva votato la secessione dall’Unione.
A casa Davis, dove fino a quel momento
Elizabeth aveva sentito dibattere se
fosse o meno legale o giusto dissolvere
l’Unione, cominciarono a fare congetture
su quali stati avrebbero seguito il South
Carolina ed entro quanto tempo. Mentre
gli appelli alla secessione si facevano
più pressanti, Mrs Davis manteneva un
atteggiamento ambiguo. Un giorno si
faceva paladina della causa dei diritti
dei singoli stati ed elogiava lo
schiavismo, e l’indomani confidava a
un’amica che non sopportava l’idea di
andarsene da Washington, dove aveva
abitato a lungo e creato legami molto
forti. «Preferisco restare a Washington e
farmi mettere i piedi in testa piuttosto
che andare a sud e diventare la moglie
del presidente» dichiarò. Quando
l’amica reagì con un’esclamazione
sorpresa, Mrs Davis le assicurò che lo
pensava davvero.
Sembrava certo che altri stati del Sud
avrebbero seguito l’esempio del South
Carolina, uscendo dall’Unione. In mezzo
a tutto quel fermento, Elizabeth faticava
a trovare il tempo per confezionare la
vestaglia del senatore Davis. Dopo
settimane di lavoro clandestino,
frettoloso e spesso interrotto, alla vigilia
di Natale il regalo non era ancora
pronto.
Anche se Mrs Davis non la
rimproverò, Elizabeth sapeva che
avrebbe
tanto
desiderato
poter
impacchettare la vestaglia finita per
donarla al marito la mattina di Natale.
«Se volete resto a finirla» propose
Elizabeth nel tardo pomeriggio, anche se
era stanca dopo una lunga giornata a
cucire, con le dita indolenzite, la testa e
la schiena che le dolevano.
Mrs Davis accettò felice e piena di
gratitudine, ed Elizabeth riprese quindi a
cucire punti veloci e precisi alla luce
del lume a gas del salottino, mentre la
sua cliente decorava l’albero di Natale
in soggiorno. Pensò a suo figlio, che
trascorreva le vacanze con un compagno
di studi a Cleveland. Era il primo Natale
che
non
trascorrevano
insieme.
Elizabeth aveva mandato a George un
pacchetto regalo con dei dolci, un libro
e due camicie eleganti, ma non aveva
avuto sue notizie. Guardando Mrs Davis
indaffarata a preparare i festeggiamenti
con la famiglia, ebbe ancora più
nostalgia del suo George. Quando era
giovane, la sua bellezza e grazia naturale
avevano attirato l’attenzione di un
bianco potente, Alexander Kirkland, e
non c’era stato modo di scoraggiarlo. Il
padrone di Elizabeth non aveva fatto
nulla per proteggerla, e così era stato
concepito George, il bambino che lei
non aveva voluto ma che aveva finito
per amare con tutto il cuore.
Il rumore di una porta che si chiudeva
in un’altra ala della casa la destò dalle
sue fantasticherie, e quando diede
un’occhiata all’orologio su un tavolo
vide che mancava un quarto a
mezzanotte, e che il coprifuoco per la
gente di colore, fissato alle dieci di
sera, era quindi già passato da un pezzo.
Non poteva tornare a casa a piedi, anche
se avesse avuto il coraggio di aggirarsi
per la città a un’ora tanto tarda: la
criminalità era aumentata parecchio
persino in un quartiere elegante di
bianchi come quello dei Davis e nella
zona piccolo borghese di neri dove
abitava lei. Decise che, quando avesse
finito la vestaglia, l’avrebbe consegnata
a Mrs Davis e le avrebbe chiesto di
poter dormire in soffitta con la servitù.
Con un po’ di fortuna sarebbe riuscita a
riposare qualche ora e a partecipare alla
celebrazione natalizia alla Union Bethel
Church l’indomani. Virginia e Walker
Lewis le avevano proposto di unirsi a
loro e alle figlie per il pranzo di Natale,
ed Elizabeth era stata ben felice di
accettare. Era abituata a trascorrere
molto tempo da sola – dopo più di
trentasette anni da schiava, privata di
qualunque forma di solitudine, potersi
isolare dagli altri continuava a parerle
un lusso –, ma il giorno della nascita del
Signore voleva festeggiare in compagnia
di amici.
Stava sistemando la cintura a
cordoncino della vestaglia quando udì il
senatore Davis nel corridoio tra il
soggiorno e il salotto. «Che aria di festa
avete saputo creare, mia cara» lo udì
elogiare la moglie, anche se la voce non
tradiva alcuna contentezza. «Ai bambini
brilleranno gli occhi di gioia quando
vedranno quell’albero». Si appoggiò
allo stipite della porta e lanciò
un’occhiata nel salottino. «Siete voi,
Lizzie?» chiese, avvicinandosi. «Perché
siete ancora qui, così tardi? Spero che
Mrs Davis non pretenda troppo da voi».
«No, signore» rispose, impressionata
dalla sua aria stanca e sciupata.
Elizabeth sapeva che aveva dieci anni
più di lei e che non godeva di buona
salute, ma evidentemente gli eventi delle
ultime settimane l’avevano fatto
invecchiare anzitempo. Essendo stata
colta di sorpresa, non ebbe modo di
nascondere la vestaglia. Fu così
costretta a spiegarsi, anche se cercò di
mostrare il meno possibile pur senza
mentire. «Mrs Davis desiderava proprio
che finissi questa vestaglia entro
stasera» gli disse, lanciando uno
sguardo verso il soggiorno per
assicurarsi che la moglie non udisse, «e
mi sono offerta di rimanere per
terminarla».
«Allora dev’essere urgente». Il
senatore attraversò la stanza e prese in
mano l’orlo della sua sorpresa di
Natale. «Di che colore è? Questo lume
non è sufficiente per i miei occhi ormai
vecchi».
«È seta cangiante verde oliva,
signore». Stava per aggiungere che era
un colore splendido e che gli avrebbe
donato molto, ma decise di lasciare che
lo scoprisse da solo quando avesse
aperto il regalo, il giorno dopo, e
l’avesse ammirato alla luce del sole.
Lui annuì, fece un sorriso enigmatico,
lasciò andare l’orlo e uscì dalla stanza
senza aggiungere altro. Elizabeth sapeva
che aveva indovinato che si trattava del
regalo di Natale da parte della moglie, e
che non voleva rovinarle la sorpresa. Si
sentì toccata dalla sua sensibilità. Non
avrebbe mai potuto trovarsi d’accordo
con le sue idee riguardo lo schiavismo o
la secessione, ma certamente lo
ammirava per i piccoli gesti affettuosi
nei confronti della moglie.
Finì la vestaglia proprio mentre
l’orologio suonava la mezzanotte. In
modo del tutto inatteso le tornò in mente
suo marito, che l’aveva ingannata e
delusa finché non si era vista costretta
ad annunciargli che sarebbe andata a
stare per conto proprio. James Keckley,
il quale aveva finto di essersi affrancato
per indurla a sposarlo, era invece uno
schiavo fuggitivo che viveva nascosto a
Saint Louis, se non era ancora morto a
forza di bere.
Piegò con cura la vestaglia e ricacciò
in un angolo della mente i pensieri sul
marito ormai lontano. Era Natale, e in
quel giorno benedetto non avrebbe
augurato nulla di brutto a nessuno, in
particolare non all’uomo che un tempo
aveva amato.
Subito prima di mezzanotte, il 31
dicembre, le campane della Trinity
Church tra Third Street e C Street
suonarono Hail, Columbia e Yankee
Doodle per dare il benvenuto all’anno
nuovo, ma le ultime possibilità di
riconciliazione tra Nord e Sud facevano
ormai parte del passato. Capodanno di
solito era una giornata di festa in città, o
questo almeno aveva assicurato a
Elizabeth chi ci abitava da sempre, ma il
primo giorno del 1861 non c’era folla a
festeggiare in locande e taverne, e ben
pochi fecero visita ai vicini. Chi si
presentava sulla soglia in quella mattina
limpida e fredda aveva un’espressione
ansiosa e turbata, e pareva spinto a
uscire da un impegno irrevocabile
piuttosto che dal desiderio di scambiarsi
gli auguri. Un vicino, ex schiavo che
lavorava come maggiordomo alla Casa
Bianca, disse più tardi ai Lewis che al
tradizionale ricevimento di Capodanno
si erano presentati meno ospiti del
solito. Gli invitati erano cortesi tra loro
come richiedeva l’etichetta, ma alcuni
sfoggiavano sul cappello insolenti
coccarde inneggianti all’Unione o alla
secessione, in modo che fosse ben
chiaro da che parte stavano. Neppure il
presidente Buchanan sfuggì a frecciate e
commenti pungenti quando strinse la
mano agli invitati, ma essendo
l’anfitrione oltre che il presidente, anche
se solo per poche settimane ancora,
reagì con tatto e diplomazia.
Il 9 gennaio il Mississippi votò la
secessione, e Jefferson Davis comunicò
alla moglie che era deciso a seguire il
suo amato stato fuori dall’Unione. Poi il
senatore si ammalò e dovette restare a
letto alcuni giorni, e fu proprio in
camera sua che un flusso ininterrotto di
amici, politici e statisti andò a trovarlo
per discutere la situazione. Elizabeth era
certa che la pressione esercitata dal
ruolo di leader dei democratici del Sud
avesse contribuito non poco al suo stato
di salute. La moglie lo accudì
amorevolmente, e quando la sarta elogiò
la sua disinvoltura e sicurezza nel curare
il malato, Mrs Davis si limitò a
replicare: «Ho fatto molta pratica».
Una sera, mentre Elizabeth la vestiva
per uno dei pochi ricevimenti ai quali
partecipò la coppia quel triste autunno,
Mrs Davis disse a un tratto: «Sapete,
siete così brava che vorrei portarvi con
me».
Qualcosa nel suo tono di voce
suggerì a Elizabeth che non si trattava di
un complimento gratuito. «Quando
partirete per il Sud, Mrs Davis?» chiese.
«Oh, non so ancora di preciso, ma
presto. Sapete che scoppierà la guerra,
vero?»
Lei lo sospettava da tempo, ma la sua
cliente sembrava averne la certezza;
essendo la moglie del senatore Davis,
era probabile che parlasse con
cognizione di causa. «La guerra? Non
direte sul serio...»
«Sì, ve l’assicuro. La gente del Sud
non tollererà le richieste umilianti del
partito abolizionista. Si batterà».
Elizabeth si sforzò di mantenere un
tono di voce pacato mentre allacciava
gli ultimi bottoni. «E chi vincerà,
secondo voi?»
«Il Sud, naturalmente» replicò Mrs
Davis. «Il Sud è impulsivo, e i soldati
sudisti ce la metteranno tutta per
vincere. Il Nord si troverà costretto a
cedere quando vedrà che il Sud è
determinato, invece di
lasciarsi
coinvolgere in un conflitto lungo e
sanguinoso».
Impulsivo e determinato forse, ma
Elizabeth non pensava che bastasse per
vincere una guerra. Credeva anche,
sebbene non avesse l’impudenza di dirlo
ad alta voce, che Mrs Davis
sottovalutasse la determinazione dei
nordisti. Quelli di sua conoscenza non
sembravano
particolarmente
arrendevoli, né spaventati più dei sudisti
alla prospettiva di combattere. «Mrs
Davis» disse invece, con il tono di voce
più ragionevole che poté, «siete sicura
che ci sarà la guerra?»
«Sì, ne sono certa». A un tratto si
voltò sulla sedia e afferrò la mano della
sarta. «Vi conviene venire al Sud con
me. Mi prenderò cura di voi».
Elizabeth fu colta alla sprovvista e
d’istinto sottrasse la mano.
Mrs Davis non sembrò accorgersi del
gesto poco garbato. «Quando scoppierà
la guerra, i neri soffriranno, qui al Nord.
La gente vi considererà responsabili del
conflitto, e temo che in preda
all’esasperazione finirà per prendersela
con voi».
Elizabeth fu costretta, suo malgrado,
a condividere l’opinione della cliente
con un cenno del capo. La secessione
avrebbe causato la guerra, e la
responsabilità ricadeva sui delegati dei
vari stati che avevano votato per uscire
dall’Unione. Ma anche lei temeva che in
un modo o nell’altro la colpa sarebbe
stata attribuita alla gente della sua razza,
come spesso accadeva ingiustamente.
«Forse tornerò a Washington tra
qualche mese e mi stabilirò alla Casa
Bianca» fantasticò Mrs Davis mentre si
girava per osservare i drappeggi
dell’abito allo specchio. «I sudisti
parlano di eleggere presidente mio
marito. Anzi, sembra ormai assodato che
sarà lui il presidente. Non appena
arriveremo nel Sud e ci separeremo
dagli altri stati, riuniremo un esercito e
marceremo su Washington, e io andrò ad
abitare alla Casa Bianca».
«Mrs Davis» intervenne Elizabeth,
«sono molto onorata per la fiducia che
mi accordate. Però...» Dovette fermarsi
per fare un respiro e riflettere un attimo.
«Devo pensare alla mia attività. Qui ho
la mia chiesa, gli amici».
«Anche al Sud abbiamo delle chiese,
come forse ricorderete, e molte donne di
colore che sarebbero felici di diventare
vostre amiche». Un lieve sorriso
divertito le sollevò gli angoli della
bocca. «Per quanto riguarda la vostra
attività, sono sicura che andrà benissimo
anche laggiù. Io continuerò ad avere
parecchio lavoro per voi e, se non
bastasse, con la mia raccomandazione
credo che non avrete difficoltà a trovare
molte nuove clienti a Montgomery».
Allora i Davis progettavano di
trasferirsi in Alabama, non in
Mississippi. Elizabeth si chiese come
mai la sua cliente non gliel’avesse detto
prima. «Ecco... non so cosa dire. Vi
prego di perdonare le mie esitazioni. Vi
ringrazio per l’alta opinione che avete
del mio lavoro».
«Anche di voi, non solo del vostro
lavoro». Mrs Davis cercò il suo sguardo
nello specchio e la guardò fissa.
«Promettetemi di riflettere sulla mia
proposta, anche se il tempo stringe.
Dovrete rispondermi in breve tempo».
Quello Elizabeth poteva farlo. «Lo
prometto».
Mantenne la parola, e meditò
sull’offerta della sua cliente. Ebbe la
tentazione di accettare: la famiglia
Davis le piaceva, e il ragionamento
della signora sembrava plausibile. Ma
tornare nel profondo Sud, nella terra
dove regnava ancora la schiavitù... Pur
essendosi ormai affrancata, sapeva che
la vita sarebbe stata difficile per lei,
molto più che nel distretto di Columbia,
dove pure si praticava ancora lo
schiavismo. Per quanto apprezzasse Mrs
Davis, era più affezionata ai Lewis, e le
sarebbero mancati troppo gli amici che
frequentavano l’Union Bethel Church.
Inoltre era possibile che i nordisti, come
ipotizzava Mrs Davis, incolpassero i
neri per l’inevitabile conflitto e
sfogassero la propria rabbia su di loro;
ma i sudisti non avrebbero fatto lo
stesso?
Dopo avere riflettuto a lungo sulla
questione, sapendo che il momento di
dare una risposta si avvicinava,
Elizabeth chiese aiuto agli amici. Tutti
loro, nati liberi o schiavi affrancati, le
suggerirono di restare a Washington.
Non si capacitavano del fatto che la
moglie del senatore Davis le avesse
rivolto un’offerta del genere pur
conoscendola da così poco tempo. La
sarta lavorava per loro da meno di tre
mesi, e Mrs Davis si aspettava che
lasciasse casa sua e affrontasse rischi
inimmaginabili in una terra che, a suo
dire, stava per essere devastata dalla
guerra? Contrariamente a lei non
credevano che la proposta di Mrs Davis
fosse generosa. «Non andare» la
implorò Virginia una sera, dopo essere
rimasta a parlare con lei in soggiorno
fino a tarda ora. «Se cambiassi idea,
forse non ti sarebbe più possibile
tornare a casa».
Elizabeth sapeva che i suoi amici
avevano ragione. Sapeva anche che il
Nord era molto più forte di quanto Mrs
Davis sembrasse credere: il popolo del
presidente Lincoln era determinato e
assetato di vittoria, e la sarta non
pensava che avrebbe rinunciato agli stati
meridionali senza combattere o che
avrebbe ceduto di fronte alle prime
resistenze del Sud. Alla fine, dopo tante
riflessioni, domande e preghiere, prese
la sua decisione basandosi su un unico
fatto irrefutabile: era una donna di
colore, e sarebbe stato più saggio per lei
restare con la gente del Nord, che
almeno
in
parte
appoggiava
l’abolizionismo, piuttosto che unirsi ai
sudisti, i quali avrebbero preferito
vederla in catene.
Qualche giorno dopo Elizabeth non
aveva ancora comunicato la sua
decisione a Mrs Davis. Arrivando alla
residenza del senatore scoprì che la sua
cliente era uscita più presto del solito,
quella mattina, per acquistare diversi
metri di chintz a fiori, grazioso ma meno
prestigioso dei tessuti che usava di
solito. «Vorrei che mi confezionaste due
abiti da casa» esordì Mrs Davis,
sciorinando gli scampoli e disponendoli
sul divano.
«Di chintz?»
«Sì, Elizabeth, di chintz». Mrs Davis
fece un sorriso forzato, come se stesse
per mettersi a piangere. «Devo
rinunciare agli abiti costosi per un po’.
Ora che la guerra è imminente, devo
diventare un esempio di frugalità per la
gente del Sud».
«Certo». La sarta raccolse le stoffe.
«Comincio subito».
«Grazie». Dopo un istante aggiunse:
«Elizabeth?»
«Sì, Mrs Davis?»
«Credo...» Lasciò la frase in sospeso,
e fece un respiro profondo. «Meglio
essere prudenti. Sarebbe bene che li
finiste al più presto».
Elizabeth capì al volo. Il destino dei
Davis era ormai irrevocabile, solo una
questione di tempo.
La sarta terminò di confezionare gli
abiti pochi giorni prima che la famiglia
Davis lasciasse Washington. Quando le
presentò gli indumenti finiti, Mrs Davis
li ammirò poi li mise da parte e
consegnò a Elizabeth alcuni suoi ricami
particolarmente difficili che voleva
affidare alla sarta perché li portasse a
termine. «Potete mandarmeli tramite il
servizio postale quando avete finito» la
istruì, poi tacque e fece un sorriso
speranzoso. «Oppure potete venire nel
salotto della mia nuova casa e
consegnarmeli di persona. Forse non
avrete molta strada da fare. Sono sicura
che, ovunque ci stabiliremo, troveremo
una stanza per voi nella nostra
residenza».
Elizabeth non poteva più rimandare.
«Mi dispiace molto, Mrs Davis. Sono
ben contenta di finire il ricamo, ma
dovrò inviarvelo. Ho deciso di restare a
Washington».
La signora strinse le labbra e annuì,
come se si fosse preparata al rifiuto di
Elizabeth ma non volesse ancora
rassegnarsi del tutto. «Non vi tenta per
niente la prospettiva di diventare la
sarta personale di una first lady?»
Elizabeth fece una risata nervosa.
«Certo che sì, ma non abbastanza da
rinunciare al posto dove vivo. Vi
prometto, signora, che se tornerete a
Washington sarò
ben lieta
di
ricominciare a lavorare per voi. Più che
lieta: ne sarei felicissima».
«Oh, Elizabeth». Mrs Davis la
guardò con un’espressione triste e
affettuosa. «Vi siete appena tradita.
Avete detto se ritorno, non quando».
Il 21 gennaio, Jefferson Davis e
diversi altri senatori del Sud
rinunciarono al proprio incarico e
partirono da Washington, legando la
propria sorte a quella dei rispettivi stati.
Più tardi Elizabeth lesse sui giornali che
il senatore Davis aveva espresso il
proprio amore per l’Unione e un
desiderio di pace, ma aveva anche
ribadito il diritto a possedere degli
schiavi e il diritto di secessione da parte
degli stati meridionali. «Certo non
provo nessuna ostilità nei vostri
confronti, senatori del Nord» aveva
detto in Senato. «E non c’è nessuno, per
quanto le discussioni tra noi possano
essere state aspre, al quale non auguri,
al cospetto del Dio in cui credo, ogni
bene».
Poco dopo Mrs Davis lasciò
Washington con il marito, i figli e gli
schiavi. Gli stati del Sud elessero
Jefferson Davis presidente, e Varina
Davis divenne first lady della
Confederazione.
1.
Ampio ed elegante abito femminile le cui
origini risalgono al diciottesimo secolo
(N.d.T.).
2.
Febbraio-marzo 1861
Tutta Washington fremeva d’impazienza
e, in certi ambienti, di apprensione per
l’arrivo del presidente Lincoln. Si stava
avvicinando alla capitale con la sua
famiglia
seguendo
un
percorso
ferroviario tortuoso, per salutare più
sostenitori possibile durante il tragitto, e
per evitare che qualcuno tentasse di
fargli del male. «Non ha ancora assunto
le sue funzioni e i secessionisti stanno
già
minacciando
di
ucciderlo»
commentò Walker Lewis un mattino,
offendo a Elizabeth il giornale,
disgustato dalle notizie. «Non vogliono
neppure aspettare di vedere cosa farà
una volta insediato. Lo odiano per
principio».
Anche il conflitto sempre più aspro
per il controllo di Fort Sumter nel porto
di Charleston era sulla bocca di tutti. Fin
dal 26 dicembre, quando il maggiore
Robert Anderson aveva trasferito il
posto di comando dal vulnerabile Fort
Moultrie di Sullivan’s Island alle
fortificazioni più robuste e facilmente
difendibili che si affacciavano sul porto,
le poche truppe federali che vi si
trovavano erano praticamente sotto
assedio. All’inizio di gennaio, lo stesso
giorno della secessione del Mississippi
dall’Unione, le forze del South Carolina
avevano fatto fuoco sulla Star of the
West, una nave mercantile disarmata che
il presidente Buchanan aveva inviato al
maggiore Anderson e ai suoi uomini con
aiuti e rifornimenti. La nave era stata
costretta a fare dietrofront, e le notizie
che giungevano da Fort Sumter erano
sempre più critiche, a mano a mano che
gli uomini esaurivano le scorte di cibo,
munizioni e altri generi di prima
necessità. Anche se molti repubblicani
chiedevano un intervento militare
immediato, Buchanan sembrava invece
incline a temporeggiare per le ultime
settimane della sua presidenza e a
lasciare che a risolvere il problema
fosse il suo successore Abraham
Lincoln.
Le mogli di alcuni ufficiali si erano
insediate a Sullivan’s Island con i
mariti, ma quando il maggiore Anderson
aveva spostato le truppe da Fort
Moultrie a Fort Sumter, le signore erano
state dirottate su Charleston perché non
corressero rischi. Lì però avevano
trovato solo porte chiuse. Nessuna
pensione aveva accettato di accoglierle,
e la proprietaria di una locanda aveva
dichiarato senza mezzi termini che se
avesse ospitato le mogli degli ufficiali
avrebbe perso tutti gli altri clienti.
Scoraggiate e furiose, le donne erano
state costrette a lasciare i mariti
asserragliati a Fort Sumter e a cercare
rifugio al Nord. Al loro arrivo a
Washington, amareggiate e piene di
risentimento, si erano viste accogliere
con grande calore dai repubblicani ed
erano state celebrate come le prime
martiri della guerra.
«Non riesco a immaginare come si
siano sentite» dichiarò una sera una
delle clienti di Elizabeth mentre la sarta
la vestiva per un ricevimento alla Casa
Bianca. Margaret Sumner McLean era
figlia del maggior generale Edwin Vose
Sumner, nato in Massachusetts, e moglie
del capitano Eugene McLean, originario
del Maryland, che non faceva mistero
delle proprie simpatie sudiste. Il cugino
di suo padre era il senatore abolizionista
Charles Sumner, che cinque anni prima
era stato picchiato selvaggiamente e
quasi ucciso in Senato da un collega del
South Carolina, offeso da uno dei suoi
discorsi contro lo schiavismo; la
violenza
della
reazione
non
sorprendeva, visto che l’orazione
traboccava
di
insulti
personali.
Affermare che in quel periodo di crisi
Mrs McLean si sentisse combattuta era
un eufemismo. «Mandare via donne
inermi, lasciarle senza casa e senza
protezione! Sono scandalizzata dalla
cosiddetta cavalleria meridionale!»
«Ho sentito dire che alcuni
gentiluomini del Sud hanno offerto alle
signore una stanza nella propria casa»
fece osservare Elizabeth, sistemando la
balza di pizzo attorno alle spalle della
sua cliente. «Le signore hanno
declinato».
Mrs McLean reagì scoppiando a
ridere, quasi a sottolineare l’assurdità
della situazione. «Non avevano scelta, e
i gentiluomini di Charleston lo sapevano
bene.
Come
potevano
accettare
l’ospitalità di uomini che avevano
dichiarato apertamente la propria
ostilità nei confronti dei loro mariti?
Posso immaginare la piega che
avrebbero preso i negoziati: “Sentite,
maggiore Anderson, sicuri di volerlo
ancora, Fort Sumter? Perché abbiamo
qui le mogli dei vostri uomini”».
«Pensate che i cittadini di Charleston
avrebbero fatto del male alle signore?»
«Oh, probabilmente no. Erano
gentiluomini, non plebaglia. Ma anche se
la loro sicurezza fosse stata garantita, le
signore non potevano certo mettere i
propri mariti in una simile posizione nei
confronti del nemico. Né si sarebbe
dovuti arrivare a tanto. Che fine avevano
fatto le buone vedove di Charleston, gli
onesti affittacamere? Come si sarebbero
sentiti se le loro donne fossero state
trattate con una simile mancanza di
rispetto a Washington o a New York?»
«Immagino che non l’avrebbero
apprezzato».
«No, infatti. L’avrebbero considerato
un gesto ostile». Mrs McLean, con
l’abito e i capelli perfettamente a posto,
congedò Elizabeth con un ringraziamento
e la promessa di trasmettere i saluti
della sarta nella prossima lettera che
avrebbe scritto a Varina Davis, una cara
amica che le mancava molto. La società
di Washington non era più la stessa,
adesso che se n’era andata, e
l’entusiasmo suscitato dalle nuove
conoscenze era un sostituto ben scialbo
alla compagnia delle amiche fidate di
vecchia data.
Elizabeth rivide Mrs McLean solo
due settimane dopo, quando la cliente si
presentò senza preavviso alla pensione
dei Lewis. Elizabeth stava cucendo nella
sua stanza e udì dei passi e il fruscio
delle gonne col cerchio in corridoio.
Alzò interdetta gli occhi dal suo lavoro
e si vide davanti Mrs McLean, che la
guardava con aria di superiorità da
sopra un pacchetto avvolto nella
mussola e stretto da uno spago.
Elizabeth si sentì contrariata, ma
mantenne un’espressione sorridente.
Non le piaceva che le clienti andassero
a casa sua, in particolare se non la
avvisavano prima. Era più appropriato
alla loro condizione sociale – e più
rispettoso della sua vita privata – se era
lei a recarsi da loro.
«Elizabeth, sono stata invitata a cena
al Willard domenica prossima» esordì
la visitatrice a mo’ di saluto. «Non ho
nulla da mettermi per l’occasione. Ho
appena comprato la stoffa, dovete
mettervi subito al lavoro».
Elizabeth riuscì a trattenere un
sospiro di esasperazione. «Ho più
lavoro di quanto riesca a sbrigarne»
replicò senza scomporsi. «È impossibile
che vi confezioni un abito per domenica
prossima».
«Pff! Niente è impossibile». Mrs
McLean si guardò attorno, come per
sottolineare che non c’era nessun’altra
cliente a richiedere i servizi di Elizabeth
in quel momento. «Devo avere l’abito
per domenica».
«Mi dispiace...»
«Non ditemi ancora di no. Dovete
confezionarmelo, il vestito». Levò una
mano, come per porre un freno alle
possibili obiezioni di Elizabeth. «Vi ho
sentito dire spesso che vorreste lavorare
per le dame della Casa Bianca. Ebbene,
è in mio potere procurarvi questo
privilegio. Conosco bene Mrs Lincoln, e
avrete l’occasione di farle un abito,
sempre che finiate il mio in tempo per la
cena di domenica».
Per un attimo Elizabeth si chiese
come mai la moglie nata in
Massachusetts di un simpatizzante
sudista del Maryland conoscesse la
nuova first lady, cresciuta nell’Illinois e
non ancora arrivata a Washington. Poi si
ricordò che il padre della sua cliente era
uno degli ufficiali di cavalleria che si
erano offerti di accompagnare i Lincoln
da Springfield alla capitale. Forse le
famiglie erano amiche dai tempi in cui
Lincoln era nel Congresso. Chissà,
magari Mrs McLean era davvero in
grado di mantenere una simile promessa.
Elizabeth non ebbe bisogno di altri
incoraggiamenti. «Molto bene» disse,
mettendo da parte l’abito che stava
ricamando per un’altra cliente, una
dolce signora dal viso buono, che non si
sarebbe mai sognata di lamentarsi se
avesse finito il vestito con uno o due
giorni di ritardo. Elizabeth si sentiva in
colpa, ma non poteva permettere che
un’opportunità così rara e promettente le
sfuggisse. Decise che si sarebbe fatta
perdonare dall’altra cliente, anche se
non sapeva bene come. Ma non prima
della domenica successiva.
Elizabeth persuase Mrs McLean a
fare subito le prove per cominciare a
tagliare la fodera, assicurandole che era
l’unico modo per finire in tempo il
vestito. Si rividero il giorno dopo a casa
della cliente, di fronte al Willard’s
Hotel, e di nuovo l’indomani; da quel
momento in poi, Elizabeth aveva fatto
abbastanza progressi da poter continuare
da sola. In realtà non fece tutto da sola:
per rispettare la scadenza ingaggiò due
ragazze come assistenti, sarte abili
sebbene prive di esperienza, dalle quali
si era già fatta aiutare in passato per
piccoli lavoretti. Anche con il loro
contributo, però, Elizabeth fu costretta a
lavorare tutto il giorno e fino a notte
inoltrata, concedendosi a malapena una
pausa per mangiare, dormire qualche ora
ed eliminare l’indolenzimento da collo,
schiena e dita.
Ci volle un piccolo miracolo, ma in
qualche modo, dopo tanta fatica e ansia,
il giorno della cena Elizabeth riuscì a
completare l’abito. A metà mattina, non
appena ebbe dato l’ultimo punto, corse a
casa McLean, lo fece provare alla
cliente, e realizzò piccole modifiche che
nessuno, all’infuori di un’altra sarta
specializzata in mantua, avrebbe notato.
Il vestito era pronto.
«Elizabeth, siete una meraviglia»
dichiarò Mrs McLean, ammirandosi
nello specchio intero. Aveva un bel
fisico, e il corpetto le aderiva come una
seconda pelle, mentre le pallide rose di
seta conferivano una calda eleganza alla
sua
carnagione
di
alabastro.
«Un’occhiata a questo abito da parte di
Mrs
Lincoln
varrà
tutte
le
raccomandazioni del mondo».
«Vi sarei comunque molto grata»
puntualizzò Elizabeth «se voleste
mettere una buona parola per me».
La sua cliente la guardò nello
specchio da sopra la spalla, pienamente
soddisfatta per l’ottimo taglio del
corpetto e la perfezione della balza.
«Sono tentata di tenervi tutta per me...
sarete il mio piccolo segreto». Vide
l’espressione dell’altra donna nello
specchio e si affrettò ad aggiungere:
«Stavo solo scherzando. Certo che
parlerò di voi alla first lady. Avete
mantenuto la vostra parte dell’accordo,
ora sta a me mantenere la mia».
Elizabeth mormorò parole di
ringraziamento,
nascondendo
la
delusione. A quanto pareva lei e Mrs
McLean ricordavano l’accordo in modo
diverso: Elizabeth non aveva lavorato
tanto duro, dormendo così poco, solo
perché
la
cliente
menzionasse
fuggevolmente il suo nome alla moglie
del presidente. «Avrete l’occasione di
farle un abito» erano state le parole
esatte della donna. Era sembrata molto
sicura di sé. Ora, però, Elizabeth si
chiedeva se avesse davvero il potere di
realizzare il suo sogno più grande.
Elizabeth custodiva gelosamente tutte
le preziose lettere che George le
mandava dall’università di Wilberforce.
Si gustava ogni parola: la descrizione
degli studi, i nuovi amici, gli scherzi
innocenti, le lunghe ore trascorse in
biblioteca. Dopo aver risposto alle
molte domande della madre, gliene
rivolgeva altrettante su Washington;
voleva avere notizie sull’elezione, il
passaggio di potere, i personaggi famosi
che lei incontrava. «Le tue notazioni
suscitano l’invidia dei miei compagni di
corso» le scriveva. «Loro devono
accontentarsi delle notizie che leggono
sul giornale, mentre io ricevo di prima
mano i tuoi resoconti esaurienti e
regolari. Gli amici vengono da me
quando
hanno
domande
sugli
avvenimenti
della capitale (non
preoccuparti, mamma, non divulgo mai i
pettegolezzi sulle tue clienti), e sono ben
felice di rispondere. Non condividerò
mai con nessuno le belle camicie che hai
confezionato per me, ma quando si tratta
di informazioni posso anche dimostrarmi
altruista».
Le canzonature bonarie di George la
facevano sorridere, così come i suoi
elogi generosi. La mancanza di
istruzione era sempre stata fonte di
dispiacere per lei, ma sapeva di essere
già fortunata a saper leggere e scrivere.
Erano due attività illegali per gli
schiavi, ma nessuno dei proprietari di
Elizabeth aveva mai proibito ai suoi
schiavi di istruirsi se erano abbastanza
intelligenti da imparare da soli o
aiutandosi a vicenda nel tempo libero.
Elizabeth non si considerava brava a
scrivere, perciò quando l’amatissimo
figlio definiva “esaurienti” le sue lettere
non poteva evitare di sentirsi lusingata.
Stava ridendo della descrizione
comica, fatta da George, di una battaglia
di palle di neve nel cortile principale
dell’università quando sentì bussare alla
porta. Era una domenica insolitamente
calda di inizio marzo, che preannunciava
la primavera, e lei e Virginia avevano
progettato di andare a fare una
passeggiata per vedere i preparativi
della cerimonia dell’insediamento che
doveva tenersi il giorno dopo. Si affrettò
ad aprire, aspettandosi di vedere
l’amica; si trovò invece di fronte in
corridoio un giovane messaggero, un
ragazzino nero di quattordici anni circa,
senza fiato per la corsa e con una lettera
in mano. «Devo aspettare la risposta,
signora» disse annaspando.
Elizabeth, curiosa, aprì la lettera,
lesse la prima riga e si lasciò sfuggire
un sospiro che sembrava quasi una
risata. «Mia cara Elizabeth» aveva
scritto Mrs McLean. «Abbiate la
cortesia di passare da me oggi alle
quattro. Con i miei migliori saluti, Mrs
McLean».
Scuotendo il capo, la sarta lesse di
nuovo la breve missiva, come se con la
semplice forza di volontà potesse far
apparire altre parole. «Non ha detto
nient’altro?» chiese al ragazzo. «Il
motivo di questa convocazione, per
esempio?» E di tutta quella fretta, stava
per aggiungere, ma si trattenne.
«No, signora» rispose lui, scuotendo
il capo. «Mi ha ordinato solo di portare
la lettera a Mrs Elizabeth Keckley alla
pensione Lewis in Twelfth Street».
«Hai svolto il tuo compito, allora».
Ripiegò la lettera, se la infilò in tasca e
diede una moneta al messaggero. «Per
favore, torna da Mrs McLean e dille che
la ringrazio per il suo biglietto, e che
passerò da lei domattina appena potrò».
Lui annuì e scappò via, e lei richiuse
la porta. La domenica era il suo giorno
libero, e le clienti lo sapevano. Era
libera, quindi libera anche di non dare
retta alle richieste importune. Lunedì
mattina avrebbe potuto andare da Mrs
McLean, qualunque cosa volesse. In
caso contrario sarebbe stata libera di
cercarsi un’altra sarta, anche se
Elizabeth,
forse
immodestamente,
credeva che avrebbe faticato a trovarne
una brava e conciliante come lei.
La mattina dell’insediamento di
Abraham Lincoln era fredda e nuvolosa,
le strade affollate erano sature della
polvere sollevata da un vento leggero e
intermittente. Non erano ancora le nove
quando Elizabeth uscì dalla pensione e
si unì ai gruppi di persone che si
aggiravano per le vie in attesa
dell’evento. Non vide neppure un volto
familiare tre le migliaia di individui che
incrociò nei pochi isolati che la
separavano dalla casa di Mrs McLean.
Lungo il tragitto vide che i visitatori
venuti da fuori città non erano riusciti a
trovare posto negli alberghi di
Washington, e avevano trascorso la notte
per strada, su una specie di giaciglio di
fortuna fatto di assi di legno, e ora
facevano la fila per lavarsi a una pompa
d’acqua pubblica. Una folla in preda
all’agitazione si era radunata davanti al
Willard’s Hotel, ed Elizabeth dovette
farsi strada a fatica per arrivare alla
casa dei McLean, dall’altra parte della
via. Col fiato in gola bussò forte alla
porta d’ingresso, senza sapere se
l’avessero sentita. Poco dopo il portiere
venne ad aprire; quando disse il suo
nome e spiegò il motivo della visita, le
fu comunicato che Mrs McLean non era
a casa. Proprio mentre si stava
chiedendo se fosse il caso di aspettare o
di provare a tornare a casa, comparve
uno degli aiuti del colonnello McLean e
le spiegò che doveva andare al Willard.
Perplessa, Elizabeth attraversò la
strada fendendo di nuovo la calca, e
riuscì a fatica a varcare la soglia
dell’hotel. «Eccovi!» esclamò una voce,
e una mano le si posò sulla spalla,
costringendola a voltarsi. Era Mrs
McLean, che la squadrò contrariata e
incredula. «Perché non siete venuta ieri,
come vi avevo chiesto?»
«Il vostro biglietto non diceva che
era urgente» le ricordò la sarta.
«Alla
vigilia
dell’insediamento
poteva forse non esserlo?» La bocca
della cliente si strinse in una smorfia di
disapprovazione. «Mrs Lincoln voleva
vedervi, ma ora temo che sia troppo
tardi».
«Mrs Lincoln voleva vedere me?»
Mrs McLean annuì, facendo la
sostenuta. «Una settimana fa, qualcuno
ha rovesciato del caffè sull’abito che la
moglie del presidente voleva indossare
oggi. Le serviva una sarta, così le ho
parlato di voi. E pensate un po’:
conosceva già il vostro nome. A quanto
sembra avete lavorato per alcune sue
amiche di Saint Louis. Ma ormai non ha
più importanza».
«Mi dispiace, Mrs McLean» disse
Elizabeth, profondamente abbattuta. Se
la moglie del presidente aveva richiesto
una sarta, perché mai la sua cliente
aveva aspettato una settimana a
mandarla a chiamare? «Non avevate
precisato perché volevate vedermi,
quindi ho pensato che sarebbe stato lo
stesso venire oggi».
«Sareste dovuta venire ieri» ripeté
l’altra donna in tono di rimprovero, per
poi ammansirsi un poco. «Andate nella
stanza di Mrs Lincoln. Può darsi che
abbia ancora bisogno di voi».
Elizabeth si precipitò in cerca della
suite numero sei. Quando bussò alla
porta, una voce allegra la invitò a
entrare, e avanzando nella stanza si
trovò faccia a faccia con una donna sulla
quarantina dai capelli scuri, leggermente
appesantita ma con una bella carnagione
e limpidi occhi azzurri che denotavano
acume e intelligenza. Era circondata da
signore eleganti che la stavano aiutando
a prepararsi per l’insediamento.
La signora con i capelli scuri non si
presentò perché non ce n’era bisogno.
«Voi siete Elizabeth Keckley, credo».
Elizabeth annuì.
«La sarta suggeritami da Mrs
McLean?»
«Sissignora».
«Benissimo». Mrs Lincoln tornò alla
toilette e si esaminò il viso allo
specchio, toccandosi la pelle sottile
sotto gli occhi e aggrottando le
sopracciglia per qualche ruga appena
scoperta o solo immaginata. «Ora non ho
tempo di parlarvi, ma vorrei che veniste
alla Casa Bianca domattina alle otto».
Voltandosi sulla sedia, incrociò lo
sguardo di Elizabeth e la guardò fissa.
«Da domani abiterò lì».
Il breve incontro era finito. Elizabeth
uscì inchinandosi a ritroso e tornò a
casa, senza più curarsi della folla
crescente, dell’assembramento di uomini
e cavalli per la sfilata ufficiale, delle
note di marce militari che le giungevano
all’orecchio da lontano. Solo pochi anni
prima aveva vissuto in schiavitù a Saint
Louis, e aveva lavorato fino allo
sfinimento, chiedendosi se sarebbe mai
riuscita a guadagnare abbastanza denaro
per acquistare la libertà per sé e per il
figlio. Adesso era stata invitata alla
Casa Bianca per incontrare la first lady,
un’ottima opportunità per inserirla tra le
sue clienti.
Avrebbe tanto voluto che George
fosse lì per accompagnarla alla Casa
Bianca. Voleva ricordare ogni dettaglio
per poi descrivergli tutto, ogni
particolare,
ogni
parola
della
conversazione, riempiendo pagine e
pagine se necessario, per fargli vivere
l’esperienza quasi in prima persona,
istante per istante.
Trascorse il resto della giornata da
sola in camera sua; quando riusciva a
concentrarsi cuciva, ma più spesso
fantasticava sull’incontro dell’indomani
con Mary Lincoln.
Più tardi gli amici le avrebbero
raccontato dell’emozionante cerimonia
d’insediamento, di come il cielo avesse
finito per schiarirsi e la cavalleria
gonfia d’orgoglio avesse circondato la
carrozza del presidente entrante mentre
avanzava con un’andatura solenne
sull’acciottolato di Pennsylvania Avenue
verso il Campidoglio. Le avrebbero
detto di Mrs Lincoln, impettita, che
ammirava la cerimonia con la sua
famiglia dalla tribuna eretta sui gradini
del Campidoglio. Elizabeth avrebbe
sorriso nel sentire la descrizione del
presidente, alto e magrissimo, che aveva
fatto un passo avanti, si era tolto il
cappello e poi si era fermato di colpo,
rendendosi conto solo allora che non
aveva nessun posto dove metterlo
mentre prestava giuramento. Il suo ex
avversario, il senatore democratico
dell’Illinois Stephen A. Douglas,
gliel’aveva preso cavallerescamente e
l’aveva tenuto in mano finché l’altro non
aveva finito di parlare. Elizabeth si
sarebbe commossa nel leggere la
trascrizione del discorso del presidente
Lincoln, in cui a proposito dei contrasti
fra nordisti e sudisti diceva: «Non siamo
nemici ma amici. Non dobbiamo essere
nemici. Anche se le passioni possono
averci messo a dura prova, non devono
spezzare i nostri legami di affetto. Le
corde mistiche della memoria, che si
tendono da ogni campo di battaglia e
tomba di patriota a ogni cuore vivente e
a ogni focolare su tutta la nostra vasta
terra, confluiranno nel coro dell’Unione
quando saranno toccate, come certo
accadrà, dagli angeli migliori della
nostra natura».
Adesso, nella solitudine delle sue
stanze in Twelfth Street, Elizabeth udì il
cupo boato dei cannoni che fecero fuoco
quando Abraham Lincoln divenne il
sedicesimo presidente degli Stati Uniti.
Più di trentamila persone si erano
assiepate sul terreno recintato attorno al
Campidoglio
per
assistere
a
quell’evento storico, ma Elizabeth,
persa nei suoi pensieri e assorbita da
quello che sarebbe potuto diventare il
giorno più importante della sua vita, non
era tra loro.
3.
Marzo-aprile 1861
Qualche minuto prima delle otto, il
giorno dopo l’insediamento, Elizabeth
percorse a piedi il mezzo chilometro che
la separava dalla Casa Bianca,
attraversando Lafayette Square e
passando davanti alla statua di bronzo di
Thomas Jefferson nel viale di accesso a
semicerchio. Quando giunse in fondo al
colonnato che conduceva alla porta
principale della residenza presidenziale,
l’anziano portiere irlandese, basso e
robusto, la fece entrare nell’ingresso,
dove qualche istante dopo vide una
persona dall’aria familiare che le
andava incontro percorrendo un
corridoio ampio. «Buongiorno, Mrs
Keckley» la accolse il maggiordomo.
«Benvenuta alla Casa Bianca».
«Grazie, Mr Brown» replicò lei,
felice e stranamente riconfortata dalla
presenza di quel viso amico. Come lei,
Peter Brown era uno schiavo affrancato.
Lui e la sua famiglia vivevano a soli tre
isolati da Elizabeth, e si erano
conosciuti tramite i Lewis. «Sono venuta
a rendere visita a Mrs Lincoln per
sapere se vuole assumermi come sarta.
Avete qualche consiglio da darmi?»
Peter Brown ridacchiò e la scortò
fino al piano superiore lungo una
scalinata centrale con un grande viavai.
Uomini di tutti i tipi salivano e
scendevano a grande velocità, quasi
sicuramente in cerca di un lavoro
proprio come lei, desiderosi di
assicurarsi un posto presso la nuova
amministrazione. «Non conosco la first
lady abbastanza bene da saper giudicare
cosa le piace e cosa no» le confidò
Peter sottovoce. Si fermò un attimo sul
pianerottolo per lasciar passare altra
gente.
«Posso
però
darvi
un
suggerimento: qualunque cosa vediate,
non lasciatevi turbare».
Elizabeth, perplessa, si chiese cosa
potesse voler dire, ma quando il
maggiordomo la fece entrare in una sala
d’attesa arredata con mobili di mogano
dall’aria frusta, e altre tre donne
benvestite
alzarono
lo
sguardo
sentendoli arrivare, capì. Avrebbe
dovuto immaginare che la first lady
avrebbe chiesto a diverse conoscenti di
suggerirle una sarta, e naturalmente
sarebbero state tutte ansiose di entrare
nelle sue grazie raccomandandole la
propria. Mentre le sarte in attesa si
scambiavano cenni di saluto, Elizabeth
sentì su di sé il loro sguardo: stavano
studiando com’era vestita, proprio come
lei stava esaminando loro. Nessuno si
fidava di una sarta che non indossava
l’abito più elegante che poteva
permettersi. Era contenta di avere scelto
il suo vestito più nuovo e raffinato, di
ottima lana scozzese blu, rossa e
marrone chiaro e dal taglio impeccabile.
La corrispondenza tra le linee colorate
era così perfetta che l’abito sembrava
ricavato da un unico scampolo di tessuto
dal corpetto all’orlo della gonna.
«Mrs Lincoln sta ancora facendo
colazione» le disse Peter, indicandole
una sedia. «Vi farà entrare tra poco.
Forza e coraggio».
Elizabeth lo ringraziò con un sorriso,
ma si accasciò sulla sedia con il morale
sotto i piedi. Non si era aspettata di
trovarsi faccia a faccia con delle
concorrenti, e dubitava che sarebbe stata
scelta al posto di sarte quasi certamente
più conosciute di lei a Washington. A
peggiorare le cose, avevano tutte
l’evidente vantaggio di essere bianche.
Ma non poteva fare nulla per cambiare
la situazione, così si rizzò a sedere,
serena e paziente, finché finalmente non
apparve una delle dame che Elizabeth
aveva visto con Mrs Lincoln al Willard
e chiamò la prima sarta in una sala
adiacente.
Elizabeth fu convocata per ultima.
Fu accompagnata in un salotto ovale
con il soffitto alto e grandi finestre
affacciate sul prato della Casa Bianca,
che scendeva dolcemente fino a un
imponente cancello di metallo e a uno
stagno, oltre il quale scorreva il
Potomac. Mrs Lincoln era in piedi
accanto a una finestra e chiacchierava
con un’amica che Elizabeth non
riconobbe, ma alzò lo sguardo
all’ingresso della sarta e si avvicinò per
accoglierla. «Eccovi qui, finalmente» le
disse con calore.
«Grazie per avermi ricevuta,
signora» rispose Elizabeth. Frugò nella
borsa ed estrasse diverse carte, che
aveva protetto da strappi e piegature
inserendole tra due fogli rigidi di
cartone. «Vi ho portato alcune lettere di
raccomandazione delle mie clienti di
Saint Louis».
«Sì, conosco bene la vostra
reputazione». Mrs Lincoln scorse
rapidamente le lettere, annuì soddisfatta
e gliele restituì. «Per chi avete lavorato
qui a Washington?»
«Tra le altre, la moglie del senatore
Davis è stata una delle mie clienti più
assidue».
La moglie del presidente alzò le
sopracciglia. «Mrs Davis? Avete
lavorato per lei? È stata soddisfatta del
vostro operato?»
«Certo, signora».
«Benissimo. Pensate di poter
lavorare per me?»
«Certo, Mrs Lincoln» le assicurò la
sarta con enfasi. «C’è molto da fare?»
Mrs Lincoln si portò una mano al
mento, come riflettendo sulla questione.
«Questo, Mrs Keckley, dipende
interamente dalle vostre tariffe. Spero
che chiediate somme ragionevoli. Non
posso permettermi di scialacquare».
Lanciò uno sguardo mesto alla sua
compagna, che scosse il capo in segno
di solidarietà. «Siamo appena arrivati
dall’Ovest e siamo poveri. Se non
chiedete somme esagerate, credo che
potrei affidare a voi tutti i lavori di
sartoria».
«Credo che le mie tariffe non vi
creeranno problemi, Mrs Lincoln».
Elizabeth sapeva per esperienza che le
dame bianche come la first lady non
avevano la sua stessa idea di “povertà”.
«Pratico prezzi ragionevoli».
«Bene, se non chiedete troppo avrete
parecchio da fare». La fronte
leggermente
aggrottata
sembrava
smentire il tono leggero e disinvolto.
«Non posso permettermi di spendere
molto, meglio che lo sappiate fin da
subito».
Giunsero in fretta a un accordo
soddisfacente per entrambe, e solo
allora la moglie del presidente precisò
che voleva che Elizabeth cominciasse
subito. A un suo cenno, l’amica mostrò
un abito rosa vivace di moiré antico che
la first lady voleva indossare al primo
grande
ricevimento
in
onore
dell’insediamento del marito, il venerdì
seguente. Le descrisse le modifiche che
desiderava, di poco conto, cosicché
Elizabeth, pur avendo solo tre giorni a
disposizione, le assicurò che l’abito
sarebbe stato pronto in tempo. Dopo
avere preso le misure della sua cliente,
portò a casa con sé il vestito, e ci lavorò
fino a notte fonda. Sapeva che
l’indumento, pur non essendo stato
confezionato da lei e di fattura
mediocre, era una sorta di prova. Se
l’avesse superata Mrs Lincoln le
avrebbe commissionato un abito e forse
molti altri a seguire. Se invece le
modifiche non fossero state di suo
gradimento, non avrebbe avuto una
seconda possibilità.
Il giorno dopo Elizabeth tornò alla
Casa Bianca per altre prove e trovò Mrs
Lincoln di ottimo umore, al centro di un
gruppo vivace di signore, parenti venute
dall’Illinois, dal Kentucky e da altri stati
per partecipare ai festeggiamenti della
capitale. La first lady indossava un abito
da casa di cashmere con un inserto di
stoffa trapuntata sul davanti e aveva
un’acconciatura semplice, mentre le
altre dame portavano abiti da mattina.
Chiacchieravano e si prendevano in giro
scherzosamente mentre Elizabeth aiutava
la sua cliente a indossare l’abito e
apportava alcune modifiche necessarie.
Mrs Lincoln le parve così allegra che
Elizabeth si chiese cosa potesse aver
alimentato le dicerie che circolavano sul
suo temperamento. Aveva sentito alcune
sue clienti – tutte del Sud, a dire la
verità – definire la first lady una
campagnola ignorante e volgare priva di
buone maniere, ma a lei non sembrava
una descrizione calzante. Elizabeth
avrebbe fatto meglio a fidarsi del
proprio spirito di osservazione, senza
dare ascolto a commenti tanto malevoli,
senz’altro frutto di gelosie e giochi
politici.
Più tardi, di ritorno nelle sue stanze,
Elizabeth lavorò alacremente all’abito,
adornandolo di perle e di una mantella
di pizzo. Il giovedì pomeriggio fu
sorpresa dalla nuova convocazione alla
Casa Bianca, ma dopo la brutta
esperienza
dell’incontro
mancato
organizzato da Mrs McLean, si affrettò a
prendere l’abito e la cesta da cucito e si
precipitò subito alla residenza della
coppia presidenziale. Di sopra, nel
salotto ovale, Mrs Lincoln le comunicò
che il ricevimento era stato spostato al
martedì successivo, ma prima che
Elizabeth potesse tirare un sospiro di
sollievo la sua cliente le disse che
voleva qualche altra modifica all’abito.
La sarta nascose il proprio sconcerto
quando Mrs Lincoln le descrisse ciò che
voleva: era evidente che non si trattava
di semplici dettagli, ma erano necessari
cambiamenti significativi dello stile
dell’abito. La sarta pensava comunque
di avere il tempo necessario, e quando
la first lady le commissionò anche una
fascia azzurra di seta moiré da portare in
vita per la cugina, Mrs Grimsley,
Elizabeth accettò.
«Sarà tutto pronto, avrete tempo a
sufficienza per prepararvi per il
ricevimento,
martedì»
promise
Elizabeth, e se ne andò il prima
possibile, sapendo di non avere un
minuto da perdere.
Per giorni e giorni cucì senza sosta,
alzandosi presto e andando a dormire
tardi, fermandosi appena qualche istante
per mangiare, per andare in chiesa e per
leggere l’ultima lettera di George. Diede
gli ultimi punti il martedì a fine
pomeriggio, ed ebbe appena il tempo di
piegare con cura l’abito, di unirvi la
fascia per Mrs Grimsley e di portare il
tutto di corsa alla Casa Bianca. Peter
Brown l’accolse all’ingresso, ma ormai
lei conosceva bene la strada e la lasciò
salire da sola.
Trovò Mrs Lincoln in vestaglia, in
uno stato di agitazione terribile, sebbene
le amiche cercassero in tutti i modi di
calmarla. «Non posso scendere!»
esclamò, divincolandosi dall’abbraccio
di una cugina. «Come potrei? Non ho
nulla da indossare. Immaginate cosa
direbbe la gente! Pensate a come si
prenderebbe gioco di me».
«Nessuno ti prenderà in giro» obiettò
paziente Mrs Edwards, la sorella
maggiore, che indossava un abito sobrio
di broccato marrone.
«Metti l’abito di velluto grigio»
propose Mrs Grimsley, che portava un
vestito di seta moiré azzurro con uno
strascico lungo tempestato di turchesi e
perle, e un’acconciatura con rose
bianche. «È molto elegante, e nessuno
l’ha ancora visto».
Proprio allora, la più giovane delle
donne presenti vide Elizabeth che
indugiava incerta sulla porta. «Eccola, è
qui!» esclamò indicandola con un gesto,
e tutte si girarono a guardare la sarta.
«Ecco!» esclamò Mrs Edwards
sollevata. «Non ti avevamo detto che
sarebbe venuta?»
Mrs Lincoln, con le labbra strette,
fece due passi verso Elizabeth prima di
fermarsi di colpo. «Mrs Keckley, mi
avete deluso parecchio. Mi avete
tradita». Aveva il volto pallido per la
collera, gli occhi cerchiati di rosso.
«Perché mi portate l’abito così tardi?»
Elizabeth trasse un respiro profondo
e aprì il vestito con cura, tenendo
appoggiato sul braccio il capo, meno
ingombrante, destinato a Mrs Grimsley.
«Perché ho appena finito, e pensavo di
essere in orario».
«Invece siete in ritardo, Mrs
Keckley». La moglie del presidente
scosse il capo, si torse le mani e
cominciò a camminare avanti e indietro.
«Mi avete deluso profondamente. Ora
non ho tempo per vestirmi, e in ogni
caso non intendo farlo. Non scenderò».
Le altre donne protestarono e si
avvicinarono per confortarla a gesti, ma
lei le allontanò bruscamente.
«Mi dispiace se vi ho deluso, Mrs
Lincoln, perché pensavo di arrivare in
tempo». Umiliata, Elizabeth si sforzò di
parlare con pacatezza, a voce bassa.
Non capiva la ragione di quel trambusto.
Aveva tutto il tempo per preparare la sua
cliente al ricevimento, se solo si fosse
decisa a lasciarglielo fare. «Mi
permettete di aiutarvi a vestirvi?
Avremo finito in pochi minuti».
«No, non mi vesto». Mrs Lincoln si
fermò, lanciò un’occhiata fuori dalla
finestra e levò le mani in un gesto
d’impotenza. «Resterò in camera mia.
Mr Lincoln potrà andare giù con le altre
signore».
«Ma c’è tempo a sufficienza per
prepararti, Mary» le fece notare Mrs
Grimsley.
«Lasciati aiutare dalla sarta» la
implorò sua sorella. «Vedrai che non ci
metterà molto».
Mary, incerta, spostò lo sguardo dalla
sorella alla cugina. «E va bene»
capitolò. «Può provarci».
Elizabeth cominciò subito ad aiutare
la sua cliente a sfilarsi la vestaglia e a
infilare l’abito di moiré antico prima
che cambiasse idea. Acconciò i capelli
scuri con delle rose rosse che
richiamavano il colore del vestito.
L’abito era splendido, e quando Mary
Lincoln si osservò allo specchio, fu
come se un venticello fresco spazzasse
via le nubi minacciose di poco prima,
perché divenne radiosa e sorridente,
felice del suo aspetto. Era davvero
molto elegante nell’abito rosa, messo
abilmente in risalto da collana,
orecchini e braccialetti di perle.
Si sentì bussare alla porta ed entrò il
presidente Lincoln in persona, seguito
dai piccoli Tad e Willie. Salutò le
signore con parole cortesi e sorrisi, poi
si buttò sul divano senza tante
cerimonie, incurante delle pieghe che si
sarebbero inevitabilmente formate nel
suo abito da sera. I bambini gli saltarono
subito addosso, lottando e ridendo, e lui
finse di volersi difendere da loro, senza
smettere di scherzare. Elizabeth,
divertita, soffocò un sorriso. Non
avrebbe mai immaginato che il capo
dello stato si azzuffasse con i suoi figli
come qualunque altro padre affettuoso.
Di lì a poco Mrs Lincoln osservò:
«Forse è ora che i bambini la smettano».
«No, mamma!» obiettò Willie. «Non
siamo ancora stanchi».
Il presidente scoppiò a ridere. «Forse
voi no, ma vostro padre sì». Tolse le
gambe dal divano e si alzò mentre i figli
andavano a giocare altrove. Infilandosi i
guanti, citò qualche verso di una poesia
sui giochi spensierati di un ragazzino
scalzo, e altre strofe di un poema su un
fabbro che grazie al duro lavoro si era
guadagnato una notte di riposo.
Le signore presenti parevano
affascinate, ma sua moglie tratteneva a
stento l’impazienza. «Sembrate di umore
poetico, stasera».
«Sì, mamma, è un’epoca poetica, la
nostra». Il sorriso gli si allargò
guardandola. «Siete elegantissima con
quell’abito. Mrs Keckley ha fatto un
lavoro eccellente». Mentre porgeva i
suoi complimenti alle altre dame – Mrs
Grimsley con l’abito di seta moiré
azzurra, Mrs Edwards con un sobrio
abito marrone e nero, Miss Edwards
vestita di scarlatto, Mrs Baker di rosa
pallido e Mrs Kellogg di seta giallo
limone – Elizabeth arrossì di piacere e
orgoglio. Il presidente in persona aveva
elogiato il suo operato chiamandola per
nome, quando lei pensava che Mr
Lincoln non la conoscesse neanche.
«Scendiamo, mamma?» chiese il
presidente a sua moglie.
«Tra un attimo» rispose lei,
accigliandosi mentre cercava qualcosa
sulla toilette. «Non riesco a trovare il
mio fazzoletto di pizzo».
Erano tutte pronte a giurare di averlo
visto sul tavolo pochi istanti prima, ma
nessuna sapeva che fine avesse fatto.
Elizabeth si mise a cercare con le altre,
ma dopo qualche minuto si udì di nuovo
la risata sonora del presidente, che con
un gesto della mano dalle dita affusolate
mandò un servo a cercare Tad e Willie.
Quando i bambini furono di nuovo al
cospetto dei genitori – Willie serio e
obbediente, Tad tutto sorrisi birichini –
non ci volle molto a indovinare cosa
fosse accaduto al fazzoletto. Alla fine il
ladro mattacchione fu convinto a
restituire il maltolto che tornò nelle mani
della legittima proprietaria. Solo allora
Mrs Lincoln sorrise, prese il braccio del
marito e precedette le altre dame al
piano inferiore per presenziare al
ricevimento, elegante e regale come una
vera regina.
Per un lungo istante Elizabeth rimase
a guardarli, faticando ancora a digerire
tutto quello che aveva visto. «George
non ci crederà mai» mormorò
stringendosi addosso lo scialle e
prendendo la borsa. Eppure l’aveva
visto con i suoi occhi.
Quella sera, seppe più tardi
Elizabeth, un presidente Lincoln
cordiale e premuroso aveva stretto la
mano per più di due ore a centinaia di
persone
andate
a
congratularsi,
riservando
agli
sconosciuti
l’accoglienza di solito destinata agli
amici e salutando molte persone per
nome. Alcune delle clienti storiche di
Elizabeth erano state invitate alla festa,
ma quasi tutte le signore originarie del
Sud, sempre presenti nel panorama
mondano della capitale, non si erano
viste. Un affronto calcolato che non
poteva essere sfuggito all’attenzione
della first lady. I presenti, nordisti o
sudisti che fossero, socializzarono con
disinvoltura, ma sotto la vernice
amichevole i dissapori non erano mai
troppo lontani, soprattutto ora che nei
loro stati di provenienza si stavano
formando delle milizie e gli uomini del
maggiore Anderson erano sempre più in
difficoltà a Fort Sumter. Mentre tutti gli
occhi erano puntati sui Lincoln – sguardi
scrutatori, indagatori – nel guardaroba
incustodito accadde l’impensabile:
quando gli ospiti si apprestarono ad
andarsene, scoprirono che i loro
mantelli e soprabiti erano stati mescolati
o in qualche caso rubati, tant’è che, a
detta di un burlone, solo un ospite su
dieci ripartì con gli stessi indumenti di
quando era arrivato.
Mrs Lincoln fu molto soddisfatta
della sua prima serata di gala, avendo
forse dimenticato la collera e
l’agitazione delle ore immediatamente
precedenti l’evento. Molto meno
entusiasta
appariva
la
mattina
successiva alla prima cena di stato del
presidente in onore dei membri del
governo, qualche settimana dopo.
Elizabeth l’aveva vestita con un abito di
seta di un blu magnifico, impreziosito da
ricami, e l’aveva guardata prendere
felice il braccio del marito e scendere la
scalinata, maestosa come se si
preparasse a una splendida serata. Il
giorno dopo, però, tornando alla Casa
Bianca per sottoporre alla first lady
diversi nastri per una cuffia nuova, la
trovò in uno stato di agitazione estrema.
La sera prima, quando gli ospiti erano
stati sul punto di andarsene, la figlia del
ministro del Tesoro, la splendida Kate
Chase, una ventenne dai capelli castano
ramato, aveva umiliato Mrs Lincoln
davanti agli ospiti.
«Anche di fronte ai giornalisti» si
lagnò Mrs Lincoln. «Così il suo sgarbo
sarà sulla bocca di tutti».
Impietosita, Elizabeth decise di non
farle notare che se davvero era accaduto
qualcosa di deliziosamente scandaloso i
pettegoli avrebbero provveduto a
diffondere la notizia ben più
velocemente degli organi di stampa.
Miss Chase era una delle giovani donne
più in vista dell’alta società di
Washington, elogiata per il suo fascino,
per l’intelligenza arguta oltre che per la
bellezza, e se aveva davvero offeso la
first lady la storia non avrebbe mancato
di fare scalpore. «Cos’ha fatto?»
«Ebbene...» Mrs Lincoln esitò. «A
raccontarlo sembra sciocco».
«Allora forse non è successo niente
di grave».
«Sì, invece». La moglie del
presidente raccolse un rocchetto di
nastro, se lo rigirò tra le mani e lo
ripose quasi senza vederlo. «Stavo
accomiatandomi dagli ospiti, e quando è
arrivato il turno di Miss Chase le ho
detto: “Sarò lieta di ricevervi quando lo
desiderate, Miss Chase”. E lei ha
risposto, con aria di superiorità: “Mrs
Lincoln, venite pure voi da me quando
volete”. Capite come mi sminuisce?
Sono io a dover andare da lei. Non
intende disturbarsi a farmi visita».
Elizabeth si accigliò. La risposta di
Miss Chase era vagamente sfrontata,
però la giovane aveva la reputazione di
essere sì ambiziosa, ma soprattutto
adorabile e piena di qualità. «Non è
stato carino da parte sua».
«Non è stato carino? Molto peggio,
direi. Impertinente e inappropriato per
una signora». Mrs Lincoln si alzò per
avvicinarsi alla finestra che si
affacciava sul Potomac e, sull’altra
sponda, mostrava le verdi colline della
Virginia. «Immagino che non ci si debba
aspettare di meglio dalla figlia del
ministro Chase. Sapete che lei e suo
padre volevano che il partito
repubblicano candidasse lui invece di
mio marito?»
«No, non lo sapevo».
Mrs Lincoln voltò le spalle alla
finestra con un cenno di assenso. «È
vero, e siccome sua madre è morta, se il
padre fosse stato eletto presidente Miss
Chase
sarebbe
stata
la
sua
accompagnatrice ufficiale. È convinta
che il loro posto sia qui, alla Casa
Bianca, e che lei dovrebbe essere la
first lady».
«Ebbene» intervenne Elizabeth con
tatto, «lui non è stato designato e lei non
è la first lady».
Dopo un attimo Mary Lincoln
scoppiò a ridere. «Sì, è vero. Sono certa
però che continua a sperarlo».
Da quel momento in poi, Mrs Lincoln
e Miss Chase furono rivali in società;
ciascuna si considerava la dama più
importante tra la gente che contava a
Washington, e mal sopportava i tentativi
dell’altra di dimostrare la superiorità
del proprio rango. Miss Chase aveva la
bellezza, la popolarità, il fascino e i
legami di lunga data con l’élite della
capitale, ma Mrs Lincoln aveva il
presidente, la Casa Bianca e il titolo di
first lady. E poi, come Elizabeth amava
ripetersi con fierezza, aveva il vantaggio
di una sarta particolarmente brava che le
avrebbe
sempre
consentito
di
presentarsi in pubblico – o in battaglia,
come talvolta si aveva l’impressione
che facesse – vestita in modo
impeccabile.
Elizabeth, infatti, era diventata la
sarta personale di Mrs Lincoln, e
durante la primavera del 1861 avrebbe
confezionato più di quindici abiti per la
first lady. Spesso si occupava anche di
vestirla e di acconciarla per balli, cene
e ricevimenti. Una sera il presidente
osservò la perizia con cui si occupava
della moglie, e chiese a Elizabeth se
avesse il coraggio di provare a domare i
suoi riccioli ribelli.
«Se non continuaste a passarci le
mani, non sarebbero tanto spettinati» lo
rimproverò la moglie.
Il presidente si limitò a sorridere e si
sedette in poltrona. «Allora, Mrs
Elizabeth» chiese, «volete provare a
domare questa chioma intrattabile
stasera?»
«Certo, signor presidente» replicò
lei, prendendogli dalle mani pettine e
spazzola. Quando ebbe finito, lui si
guardò allo specchio e dichiarò che i
suoi capelli sembravano avere imparato
una lezione. Rimase così soddisfatto che
diventò un’abitudine per lui chiedere a
Elizabeth di pettinarlo quando aveva
finito con sua moglie, ed Elizabeth lo
acconciava come poteva.
Con il passare delle settimane,
Elizabeth assunse altri incarichi alla
Casa
Bianca,
come
sbrigare
commissioni per Mrs Lincoln oppure
occuparsi di Willie e Tad quando erano
malati, somministrando loro i soliti
rimedi da bambini; ma il suo ruolo
principale rimase quello di sarta per la
first lady. Pian piano scoprì che Mrs
Lincoln preferiva vestirsi di bianco, ma
che amava anche il rosa, il rosso
porpora, il giallo intenso, il viola e il
blu. Le piaceva portare perle sulla pelle
e fiori tra i capelli, e prediligeva
scollature profonde con abiti a maniche
corte per mostrare il collo e le spalle di
cui andava fiera, ignorando i commenti,
bisbigliati a mezza voce, sul fatto che
uno stile del genere fosse adatto a donne
più giovani.
Elizabeth imparò presto che le
critiche feroci nei confronti della sua
ultima e principale cliente non
cessavano mai, e anzi piovevano
abbondanti da ogni dove, con grande
costernazione
e
afflizione
dell’interessata che non poteva far nulla
per arginare quel fiume in piena.
La mattina del 12 aprile Washington
fu svegliata di soprassalto da resoconti
sconvolgenti e spesso contraddittori che
provenivano da Charleston. Quel giorno,
prima dell’alba, i cannoni della
Confederazione avevano fatto fuoco
contro Fort Sumter. No, al contrario: le
due fazioni erano ancora impegnate in
negoziati frenetici. Eh, magari si fossero
limitate a discutere... avevano sparato,
eccome. Nessuno sapeva cosa credere.
Era in corso una battaglia cruenta,
oppure il maggiore Anderson si era
arreso? Il forte era stato distrutto, i suoi
difensori massacrati, oppure le truppe
dell’Unione, esauste e affamate, erano
uscite sventolando la bandiera bianca ed
erano state fatte prigioniere? Gli abitanti
di Washington affollavano uffici del
telegrafo e alberghi, chiedendo notizie e
diffondendo dicerie, ma nessuno sapeva
con precisione cosa stesse accadendo e
cosa fosse eventualmente già successo. I
secessionisti, che dall’insediamento del
presidente Lincoln e della sua
amministrazione avevano mantenuto un
profilo
basso,
ora
celebravano
apertamente l’inizio della guerra. I
simpatizzanti del Sud reclutavano senza
più nascondersi soldati per l’esercito
degli stati confederati, mentre gli uomini
leali all’Unione correvano ad arruolarsi
nelle milizie. Per la strada le discussioni
sfociavano in zuffe, e proprio allora la
notizia più allarmante di tutte si diffuse
per la città: i ribelli stavano marciando
su Washington con un esercito di
ventimila soldati.
Alla fine si seppe la verità su Fort
Sumter: dopo che le sue truppe erano
state impegnate per trentaquattro ore in
uno scambio di tiri incrociati con i
soldati della Confederazione, il
maggiore Robert Anderson era stato
costretto ad arrendersi. Il 14 aprile altre
cinque compagnie militari di Washington
furono richiamate in servizio attivo, per
un totale di circa duemilacinquecento
soldati del posto distribuiti nell’intero
distretto. Soldati a cavallo furono
posizionati in tutti i punti strategici
d’accesso alla città. Venti cavalieri
proteggevano la Casa Bianca, e
centinaia di essi erano collocati negli
immediati dintorni e al Campidoglio, al
ministero del Tesoro e all’ufficio
postale. L’indomani il presidente
Lincoln fece un appello nazionale per
l’arruolamento di settantacinquemila
reclute, assegnando una quota a ogni
stato. Quelle truppe, che si sarebbero
arruolate per un periodo di novanta
giorni, sarebbero certamente state
sufficienti per soffocare la ribellione.
Mentre Washington aspettava i
rinforzi dal Nord, e cresceva la paura di
un attacco imminente da parte dei
confederati, i giovani neri del quartiere
borghese agiato dove abitava Elizabeth,
così come i meno fortunati che vivevano
nelle zone più povere, erano ansiosi
quanto i bianchi di prendere le armi per
difendere la città. Perfino il figlio
undicenne di Peter Brown, che lavorava
come lustrascarpe davanti al ministero
del Tesoro, annunciò orgoglioso a
Elizabeth che aveva intenzione di
arruolarsi come tamburino non appena
avesse compiuto dodici anni. Ma ogni
ragazzo nero che cercava di unirsi
all’esercito, indipendentemente dall’età,
dal ceto sociale e dalla prestanza fisica,
veniva respinto.
«O il bisogno di soldati è molto
limitato, o la stupidità di chi si occupa
dell’arruolamento per conto del
presidente Lincoln è enorme» commentò
Virginia Lewis parlando con Elizabeth,
una domenica pomeriggio durante
l’abituale passeggiata, scoprendo alcuni
soldati della milizia che venivano
addestrati sul terreno antistante il
Campidoglio. La città aveva preso le
sembianze di un accampamento militare,
e dappertutto l’apprensione cresceva.
Anche se era la capitale dell’Unione,
Washington era essenzialmente una città
del Sud, tra lo stato schiavista del
Maryland e quello della Virginia, che
aveva proclamato la propria secessione
dopo che il presidente aveva fissato le
quote di reclutamento. Solo il Potomac
la separava da quest’ultimo.
Qualche giorno prima, al marito di
una delle clienti preferite di Elizabeth, il
colonnello Robert E. Lee, un virginiano,
era stato assegnato il comando di tutto
l’esercito degli Stati Uniti, ma questi,
dopo un’attenta riflessione, aveva
rifiutato ed era tornato a casa, nella sua
piantagione di Arlington, sull’altra
sponda del fiume. Elizabeth aveva
appreso dalle conversazioni udite alla
Casa Bianca che il presidente Lincoln
aveva fatto di tutto per tenere la Virginia
nell’Unione, e sapeva dai commenti di
Mrs Lee fatti in sua presenza che
neanche suo marito aveva auspicato la
secessione della Virginia. Per ogni
guerrafondaio convinto, sembrava che ci
fossero due o tre persone trascinate nel
conflitto controvoglia, ma comunque
decise a fare il loro dovere meglio che
potevano. E siccome lo schiavismo era
il punto cruciale del conflitto, era forse
strano che i neri volessero contribuire a
loro volta al trionfo dell’Unione?
«Chi seleziona le reclute deve
pensare di avere abbastanza volontari
bianchi da raggiungere la quota
richiesta» rispose Elizabeth. «Se i
combattimenti durano più del previsto,
forse in seguito permetteranno anche ai
neri di arruolarsi».
Nonostante la giornata fosse calda,
Virginia rabbrividì. «Spero che la
guerra finisca prima di quel giorno.
Immagini che bagno di sangue sarebbe
se settantacinquemila uomini non
bastassero a mettere fine al conflitto?»
Elizabeth trasse un respiro impaurito,
e gli odori penetranti dei rifiuti degli
accampamenti e del fumo di carbone le
fecero bruciare e lacrimare gli occhi.
«Lo immagino fin troppo bene».
Prese a braccetto Virginia e si
voltarono per tornare verso casa. Anche
se trovava inaudito che gli uomini neri
non potessero unirsi all’esercito, era
segretamente sollevata che suo figlio
non dovesse mettere la propria vita al
servizio del paese.
Si chiese se suo marito James
avrebbe tentato di arruolarsi. Da
giovane era stato molto combattivo, e
dopo l’attacco fallito all’arsenale di
Harpers Ferry da parte di John Brown
aveva dichiarato che, se fosse stato lì,
avrebbe preso le armi e fomentato la
rivolta di schiavi voluta da Brown. A un
tratto il viso di James le apparve nella
mente con tanta chiarezza che le sembrò
di averlo davanti, non delirante e
ubriaco com’era stato negli ultimi anni,
ma sorridente, coraggioso e bello come
quando si erano conosciuti.
Si lasciò sfuggire un grido soffocato
e si fermò, profondamente turbata da
quella visione. Erano settimane, forse
addirittura mesi che non pensava a suo
marito. Perché le tornava in mente
proprio in quel momento?
«Elizabeth?» Virginia si era fermata
quando
l’amica
aveva
smesso
bruscamente di camminare. «Cosa
succede? Sembra che tu abbia visto un
fantasma».
Elizabeth riuscì a fare una risatina
poco convinta. «No, non mi pare. Non di
recente, almeno».
Virginia sorrise incerta a quel
tentativo di dissipare l’improvvisa
tensione. «Cosa ti turba, allora?»
Elizabeth esitò. Virginia sapeva che
era sposata e che lei e il marito si erano
separati, ma lei non amava parlare male
di James, e di conseguenza non aveva
raccontato molto all’amica. Non sapeva
bene perché, ma era riluttante a
confessarle di aver appena pensato al
marito.
Indicò invece con un cenno i
preparativi per la difesa della città
attorno a loro, che parevano del tutto
inadeguati alla portata della minaccia.
«Non abbiamo forse ragione di essere
tutti quanti turbati, di questi tempi?»
Virginia annuì. Guardarono le
manovre ancora per qualche istante
prima di riprendere il cammino verso
casa.
Di lì a poco Elizabeth ebbe ragione
di chiedersi se non fosse stato proprio lo
spettro irrequieto di James a renderle
visita.
Solo due giorni dopo la passeggiata
con Virginia, le fu recapitata una lettera
dal Missouri, scritta con applicazione
ma con mano tremante, piena di errori e
di scuse.
Cara Mrs Keckley,
mi dispiace scrivervi per dirvi che vostro
marito James è morto in febbraio per una
malattia al fegato. Non ha sofferto molto e non
è morto da solo. Non c’erano soldi per il
funerale ed è stato seppellito nel campo degli
schiavi, spero non vi dispiaccia. Un bel funerale
cristiano con preghiere e canti.
So che eravate separati ma ve lo volevo dire
perché siete sua moglie e l’unica parente. Era
un brav’uomo a modo suo come sapete, e
mancherà agli amici.
Mi dispiace non avervelo detto prima ma non
sapevo dove eravate. La vostra vecchia padrona
di casa mi ha dato questo indirizzo e spero che
la lettera vi arrivi.
Con tutti i miei omaggi,
Ephraim Johnson
Elizabeth strinse la lettera tra le mani un
lungo istante prima di piegarla con cura
e di infilarla nella busta. Era contenta di
sapere che James non aveva patito a
lungo, ma le dispiaceva che avesse
comunque sofferto.
Si chiese chi fosse Ephraim Johnson.
Non conosceva nessuno con quel nome.
Non le venne da piangere, e si chiese
cosa rivelasse quella mancanza di
emozione. Non aveva lacrime per
piangere un uomo che un tempo aveva
amato profondamente. La notizia della
sua morte la intristiva, ma non provava
nessun dolore profondo, forse perché
sapere che James fosse finalmente in
pace le procurava un certo sollievo. Il
suo tormento su questa terra era finito.
«Ecco» mormorò alla stanza vuota.
«Ora sono vedova».
Desiderava che le colpe di James
fossero seppellite con lui. Non voleva
pensare male del marito, adesso che era
scomparso.
Gli
abitanti
di
Washington
aspettarono preoccupati di vedere chi
sarebbe arrivato prima, le compagnie
militari addestrate del Nord o gli
invasori del Sud. Le truppe dell’Unione,
che si stavano avvicinando alla capitale
dagli stati del Nord, viaggiavano in
treno, e avrebbero dovuto attraversare
Baltimora, circa sessanta chilometri a
nordest della capitale. Ciò non avrebbe
dovuto costituire un problema, perché
anche se era uno stato schiavista, il
Maryland era rimasto nell’Unione. Ma si
mormorava che migliaia di abitanti,
simpatizzanti dei sudisti, stessero
progettando di bloccare il passaggio
delle truppe nordiste attraverso la città,
e siccome Baltimora era nota per la
violenza delle sue bande di criminali
quelle voci non potevano essere
ignorate. A complicare le cose c’era una
particolarità del sistema ferroviario
della città: i treni diretti a Washington
arrivavano alla stazione di President
Street, ma poi dovevano essere trainati
dai cavalli per diversi isolati verso
occidente fino alla stazione di Camden,
dove potevano riprendere il loro viaggio
sulle rotaie. Il sistema, scomodo in
tempo di pace, era potenzialmente
catastrofico in periodo di guerra.
La mattina del 19 aprile il Sesto
Reggimento Massachusetts partì da
Filadelfia su un treno diretto a
Washington e arrivò a Baltimora con le
armi già cariche. Gli uomini, sul chi
vive, speravano di poter attraversare la
città senza ostacoli; sapevano però che
durante il tragitto fra le due stazioni
probabilmente sarebbero stati insultati e
forse anche aggrediti, ma che dovevano
assolutamente ignorare gli attacchi.
Anche se i provocatori avessero aperto
il fuoco contro di loro non dovevano
rispondere, a meno che non fossero gli
ufficiali a ordinarlo.
Il treno con a bordo il Sesto
Reggimento Massachusetts arrivò a
Baltimora senza clamore, e i vagoni che
trasportavano le prime sette compagnie
attraversarono la città senza problemi.
Ma la notizia della presenza dei soldati
si diffuse rapidamente, e gli abitanti si
riversarono subito nelle strade urlando
insulti e minacce. La folla inferocita
divelse le rotaie e bloccò la strada con
pesanti ancore prese sulle banchine di
Pratt Street, obbligando così le ultime
quattro compagnie del Sesto Reggimento
ad abbandonare i vagoni e ad
attraversare la città a piedi. Quasi subito
i soldati furono circondati da diverse
migliaia di uomini e ragazzi che li
aggredirono lanciando sassi e mattoni,
mentre dalle finestre dei piani superiori
piovevano loro addosso piatti e
bottiglie. Quando la collera della calca
si fece più violenta, qualcuno scassinò
un’armeria, e da un punto non ben
precisato i soldati udirono dei colpi di
pistola. Le compagnie accelerarono
l’andatura, ma quando la folla inferocita
bloccò le strade davanti a loro, fecero
fuoco. La calca arretrò, e i soldati
riuscirono ad avanzare fino alla stazione
di Camden Street; dopo avere riparato
altri binari che erano stati sabotati nei
tafferugli, il treno ripartì per
Washington.
Quando i soldati del Sesto
Reggimento Massachusetts arrivarono a
destinazione, malconci e insanguinati, il
loro aspetto alimentò invece di placarle
le paure dei cittadini che li avevano
aspettati con ansia. Quattro soldati e
almeno nove civili erano stati uccisi, e
numerosi erano stati i feriti nelle strade
di Baltimora; quando arrivarono le
notizie di altre linee ferroviarie
distrutte, di ponti bruciati, di linee
telegrafiche tagliate, il panico si diffuse
tra gli abitanti di Washington, che si
resero conto di essere stati isolati dal
Nord. Elizabeth, recandosi a piedi alla
Casa Bianca, vide con sgomento gente
che accatastava i propri averi su carri e
in carrozze per fuggire dalla città.
Nella residenza del presidente, Mrs
Lincoln si sforzava di conservare un
senso di calma e normalità. Espletò le
proprie funzioni di ospite agli eventi
ufficiali che le signore dell’élite
cittadina snobbavano, iscrisse Willie e
Tad ai corsi di catechismo della Fourth
Presbyterian Sunday School e cercò di
dissipare la malinconia del marito, che
si faceva più marcata all’aggravarsi
della crisi. «Comincio a credere che non
esista nessun Nord» disse una volta il
presidente al cospetto di Elizabeth; in
effetti senza l’arrivo dei rinforzi, senza
notizie tramite telegrafo, senza servizio
postale, anche lei avvertiva quella
strana cappa di isolamento, del sentirsi
soli e circondati da nemici ostili e
invisibili. Non contribuiva il fatto che i
giornali sudisti riuscissero a penetrare a
Washington facendosi
beffe
dei
controlli. Il Richmond Examiner
dichiarò a più riprese che Washington
sarebbe stata una capitale perfetta per la
Confederazione, osservando che quasi
tutti gli abitanti della città venivano
dalla Virginia o dal Maryland, e che
quindi avrebbero accolto l’esercito
degli stati confederati come una
liberazione, con acclamazioni e fiori,
ben felici di riunirsi con il loro amato
Sud.
Washington si preparò e rimase in
attesa, finché a mezzogiorno del 25
aprile il Settimo Reggimento New York
arrivò alla B&O Station. I cittadini,
sollevati, li festeggiarono mentre i
soldati marciavano fino alla Casa
Bianca per mettersi a disposizione del
presidente Lincoln. La paura di
un’imminente invasione da parte dei
confederati diminuì a mano a mano che
arrivarono
altre
truppe
dal
Massachusetts, dal Rhode Island e da
altri stati, per insediarsi all’interno del
Parlamento e nella rotonda del
Campidoglio, mentre gli ultimi arrivati
si accamparono nella Casa Bianca,
nell’ufficio brevetti e a Georgetown, o
piantarono le tende nel prato a sud della
residenza del presidente. I muratori del
Massachusetts costruirono venti forni di
mattoni nelle cantine del Campidoglio
per cuocere pane a sufficienza per i
soldati, e il rumore dei tamburi, delle
trombe militari e delle esercitazioni col
moschetto divenne così costante che
Elizabeth arrivò quasi a dimenticare
come fosse silenziosa Washington prima
dell’avvento dei soldati.
Mentre la città si trasformava attorno
a lei, Elizabeth cuciva per Mary
Lincoln, di solito alla Casa Bianca –
come preferiva lei –, ma talvolta nelle
proprie stanze, dove la first lady amava
andare a fare le prove. Una dopo l’altra,
le amiche e le parenti di Mrs Lincoln
erano tornate tutte a casa loro, in Illinois
o altrove, finché non era rimasta solo
Mrs Grimsley, sempre leale e piena di
buonsenso, che però non mancava di
ribadire la sua nostalgia di casa.
Siccome
l’élite
di
Washington
continuava a snobbarla, Mrs Lincoln si
sentiva sempre più sola e isolata.
Elizabeth, comprensiva e generosa,
divenne la sua confidente, e non tardò a
scoprire quanto la first lady si sentisse a
disagio nel nuovo ambiente e nel ruolo
tanto importante che pure aveva
desiderato. Mai prima di allora aveva
vissuto tra sconosciuti che non restavano
per nulla colpiti dal suo cognome,
sinonimo di grande influenza a Lexington
per via degli uomini d’affari e dei
politici importanti ai quali era legata da
vincoli di parentela. Suo marito si
circondava di uomini che consideravano
importune e fastidiose le ingerenze della
first lady a proposito di incarichi e linee
politiche, cosicché doveva lottare contro
i collaboratori del presidente perfino
per poter avere voce in capitolo sugli
eventi sociali della Casa Bianca.
Esclusa dalla cerchia dei collaboratori
intimi del presidente, piena di nostalgia
per le sorelle e le cugine che erano
partite, ignorata dalle dame più popolari
di Washington, Mrs Lincoln ripeteva
spesso a Elizabeth – a volte con
tristezza, altre con tono di sfida – che la
sarta era la sua unica vera amica nel
raggio di cento chilometri.
Elizabeth era stata accolta nell’élite
nera di Washington in virtù della sua
grazia e dignità naturali, dei suoi contatti
altolocati in quanto habitué della Casa
Bianca e, ironicamente, della prestigiosa
famiglia di appartenenza tramite il padre
ed ex padrone, il colonnello Armistead
Burwell. Cercò di convincere con tatto
la first lady a ingraziarsi l’alta società.
Mentre cuciva per le altre clienti, aveva
colto segnali favorevoli: alcune delle
dame si mostravano inclini a un’apertura
nei confronti di Mrs Lincoln. «Oggi le
signore di Washington sono accomunate
solo dall’ostilità verso Mrs Lincoln»
aveva confidato alla sarta, durante le
prove, Elizabeth Blair Lee, che era
rimasta amica di Varina Davis
nonostante le differenze di vedute
politiche. «Almeno noi repubblicane
dovremmo appoggiarla».
Ma
neppure
l’amicizia
della
popolare, autoritaria e generosa moglie
di Samuel Phillips Lee poteva redimere
Mrs Lincoln agli occhi di chi la
disprezzava, perché si comportava come
se la nazione non fosse in guerra.
Quando scoprì che il Congresso
assegnava ventimila dollari per la
decorazione della Casa Bianca a ogni
nuova amministrazione, Mrs Lincoln si
adoperò subito per spendere quella
somma con una gioia che non si premurò
neppure di celare. Elizabeth non
avrebbe avuto problemi a confermare
che la Casa Bianca avrebbe avuto
bisogno di qualche intervento di
restauro: perfino al tempo della sua
prima visita, quando l’importanza
dell’incontro imminente assorbiva ogni
suo pensiero, non aveva potuto evitare
di notare lo stato pietoso dei tappeti lisi,
i mobili rotti, la carta da parati
strappata, gli arazzi dai quali i
cacciatori di oggetti ricordo avevano
tagliato via dei pezzetti fino a ridurli a
brandelli. Ma per quanto quelle spese
fossero necessarie, non stava bene che
la first lady spendesse tutto quel denaro
in tappeti e porcellane quando i valorosi
soldati dovevano fare a meno perfino di
tende e coperte.
Anche la lealtà di Mrs Lincoln nei
confronti dell’Unione fu messa in
dubbio, sebbene in modo del tutto
infondato, come Elizabeth ben sapeva.
«Perché dovrei parteggiare per i
ribelli?» aveva chiesto una volta la sua
cliente, gettando lontano da sé, rabbiosa,
una copia della rivista Harper’s che
insinuava il contrario. «Non sono forse
miei nemici? Impiccherebbero mio
marito domani, se potessero, e forse
manderebbero alla forca anche me.
Come posso simpatizzare con persone
che muovono guerra a me e ai miei?»
Anche se era vero che il fratello, i tre
fratellastri e tre dei suoi cognati si erano
arruolati
nell’esercito
della
Confederazione, Mary Lincoln era una
sostenitrice accanita dell’Unione, e
sebbene fosse cresciuta in una famiglia
che possedeva schiavi, era perfino più
abolizionista del marito. Ciò non impedì
ai giornali del Nord di pubblicare la
notizia, del tutto inventata, che la
sorellastra più giovane della first lady,
Emilie, il cui marito era generale
nell’esercito della Confederazione,
avesse
usato
un
lasciapassare
presidenziale per far avere provviste ai
ribelli oltre le linee dell’Unione. Solo i
sudisti sapevano da che parte stava la
moglie del presidente, e per questo la
condannavano. La consideravano una
traditrice che, ripudiando le sue origini
meridionali, infangava il buon nome
della
sua
famiglia.
Unione
e
Confederazione la credevano entrambe
fedele all’altra fazione, e nessuna delle
due la considerava una dei loro.
Sebbene la minaccia più immediata
di un’invasione sembrasse per il
momento scongiurata, l’esercito degli
stati confederati non sembrava essere
troppo lontano. Le milizie della Virginia
si esercitavano ad Alexandria, sulla
sponda opposta del fiume, e per ogni
picchetto dell’Unione che faceva la
guardia ai ponti che portavano a
Washington c’erano militari della
Virginia di guarnigione sull’altro lato.
Una bandiera della Confederazione
sventolava arrogante su un albergo di
Alexandria, ben visibile da Washington
per chiunque fosse nella posizione giusta
e avesse buona vista o un cannocchiale.
Elizabeth talvolta vedeva il presidente
Lincoln, affacciato a una finestra della
Casa Bianca, scrutare in silenzio la
bandiera. Talvolta si sedeva in poltrona,
posava i piedi sul davanzale e guardava
le imbarcazioni sul Potomac con un
cannocchiale, levando di tanto in tanto
gli occhi alla bandiera dei ribelli. Se la
considerava la provocazione suprema,
non lo disse mai in presenza di
Elizabeth.
La guerra era molto vicina, e si
sarebbe avvicinata ancora.
Il servizio telegrafico e quello
postale ripresero, e all’inizio di maggio
Elizabeth ricevette una lettera che nei
momenti
critici
delle
settimane
precedenti era rimasta bloccata.
24 aprile 1861
Cara mamma,
spero che questa lettera ti trovi in ottima
salute. Le notizie da Washington sono così
allarmanti, di questi tempi, che posso solo
pregare che i giornali esagerino come sempre.
Scrivo di fretta e con una certa riluttanza,
perché temo che ciò che sto per dirti ti
dispiaccia. Madre mia, sono un soldato. Forse
ti chiederai come sia possibile, dal momento
che i neri non sono bene accolti nei ranghi
dell’esercito dell’Unione. L’ho scoperto di
prima mano quando io e alcuni amici siano
andati ad arruolarci a Columbus e siamo stati
respinti, tra le beffe e gli insulti delle reclute
bianche che ci bruciavano nelle orecchie. I
miei amici non hanno avuto scelta, sono tornati
all’università, ma io ero troppo agitato per
restare, quindi sono andato a casa a Saint Louis.
Lì, da solo, senza i miei compagni con la pelle
più scura della mia, nessuno aveva motivo di
ritenermi nero, e così ho firmato.
Madre mia, so che non sarai contenta che abbia
lasciato l’università senza finire il semestre, e
mi addolora darti un dispiacere, ma sono sicuro
che potrò riprendere gli studi quando avrò
terminato il servizio militare. Mi sono
arruolato solo per tre mesi, ma dicono tutti che
finirà molto prima, e non posso certo perdere
quest’occasione per dare il mio contributo
all’Unione. So bene che se non fosse per te
sarei ancora uno schiavo, e sento quindi un
obbligo preciso ad aiutare anche gli altri a
liberarsi delle catene per conquistare la libertà.
Sono disposto ad accordare a questa nobile
causa i tre mesi che mi chiedono, e anche la
mia vita se necessario.
Per favore, scrivimi spesso e prega sempre per
me.
Il tuo affezionato figlio
George W.D. Kirkland
Soldato semplice
Primo Reggimento Volontari del Missouri,
Compagnia D
Elizabeth si ritrovò in lacrime ben prima
di arrivare alla fine della lettera. Suo
figlio temeva di darle un dispiacere
perché lasciava l’università prima della
fine del semestre? Credeva che fosse
quello ad addolorarla, e non il suo
inganno, il suo arruolamento dovuto
all’irruenza
della
gioventù,
la
possibilità che morisse sul campo di
battaglia?
Accecata dal pianto, in preda alle
vertigini per l’ansia, brancolò alla cieca
in cerca di una sedia e vi si lasciò
cadere, appallottolando la lettera che
teneva in mano. Strinse le labbra per
soffocare i singhiozzi, prima che
Virginia, Walker o un altro dei residenti
udissero il suo dolore e accorressero a
vedere cosa stava succedendo. Tremò in
silenzio finché non si fu calmata,
cercando disperatamente di cacciare
dalla testa immagini del suo unico,
preziosissimo figlio che giaceva ferito o
morente in un campo nel lontano Sud.
Nonostante la paura, però, era fiera
di lui; profondamente fiera. George
aveva ragione. Dio aveva accordato
loro la possibilità di liberarsi dal
tormento della schiavitù, e quindi erano
entrambi costretti ad aiutare i molti altri
della loro razza ancora privi di libertà.
George lo faceva a modo suo, ma anche
lei aveva una missione.
Pregò il Signore di risparmiare suo
figlio, ricompensando così il suo nobile
desiderio di sacrificare la vita.
4.
Maggio-agosto 1861
Durante l’inverno della secessione
l’attività di Elizabeth era diminuita,
perché molte delle sue migliori clienti
erano partite verso sud, ma con l’arrivo
della primavera anche il lavoro riprese.
Nel frattempo Mrs Lincoln aveva
sfoggiato molte sue creazioni a diversi
ricevimenti alla Casa Bianca, e a un
tratto Elizabeth si ritrovò a essere la
sarta di mantua più celebre e ricercata
tra le unioniste di Washington. Avendo
più lavoro di quanto non riuscisse a
sbrigarne, prese in affitto un laboratorio
di fronte alla pensione e assoldò delle
aiutanti. Le sue clienti capivano che
Elizabeth doveva sempre dare la
precedenza alla first lady, e si
precipitavano a fare ordini quando Mary
Lincoln era in viaggio.
Mrs Lincoln non poteva neanche
avventurarsi a fare una passeggiata
lungo Pennsylvania Avenue senza che i
giornalisti divulgassero la notizia via
telegrafo, perciò quando lei e la cugina,
Mrs Grimsley, andarono a New York a
fare compere all’inizio di maggio, i
reporter le tallonarono come segugi. Gli
articoli sulle serate a teatro, la visita a
un fabbricante di carrozze, le cene, le
occasioni mondane e gli incontri con le
personalità locali riempirono i giornali
e stimolarono i commenti più malevoli.
Quando Elizabeth lesse delle spese fatte
da Mrs Lincoln per tappeti, porcellane,
ornamenti per il camino e mobilio per la
Casa Bianca, fece una smorfia
addolorata, rimpiangendo che la sua
cliente non fosse più discreta. La
preoccupavano le somme spese dalla
first lady, non solo perché i giornali la
descrivevano come una scialacquatrice,
ma anche perché non riusciva a
immaginare come lo stanziamento del
Congresso bastasse a pagare tutti quegli
acquisti.
Però era impossibile non lasciarsi
contagiare dalla gioia della sua cliente
di ritorno a Washington; piena di
eccitazione, aspettava con impazienza
che le consegnassero gli oggetti
acquistati. «Sono decisa a trasformare la
Casa Bianca in un luogo che rappresenti
degnamente la nostra nazione» annunciò
a Elizabeth mentre accompagnava lei e
Mrs Grimsley da una stanza all’altra,
descrivendo i diversi arredi e il modo in
cui intendeva valorizzarli. Prima però,
naturalmente, bisognava occuparsi di
riparazioni e restauri, ma la first lady
intendeva sfuggire al baccano e alla
polvere, oltre che al caldo e alle
malattie di Washington nei mesi estivi,
portando Tad e Willie più a nord che
poteva.
«Mi piacerebbe portarci anche Mr
Lincoln» confidò «se riuscissi a
strapparlo alle riunioni del governo».
Nessuno a Washington poteva
dimenticare che la minaccia della
Confederazione incombeva sempre più
vicina. Per settimane la bandiera sudista
aveva sventolato, spinta dalla brezza, su
Alexandria, schernendoli e ricordando
loro il rischio dell’invasione, creando
un clima di nervosismo esacerbato e
facendo lievitare i prezzi di farina, caffè
e altri generi alimentari. Un mattino di
fine maggio, Elizabeth si svegliò al
suono delle campane della caserma dei
pompieri, e quando scese a fare
colazione seppe dai Lewis che poco
dopo
l’alba
dieci
reggimenti
dell’Unione
avevano
attraversato
silenziosamente
il
Potomac
e
conquistato Alexandria; il comandante
del Reggimento Zuavi di New York, il
colonnello Elmer Ellsworth, era stato
colpito e ucciso, unica vittima della
missione.
Elizabeth rimase sconvolta. «Siete
sicuri?» Aveva visto spesso il
colonnello Ellsworth alla Casa Bianca,
lo ricordava come uno dei collaboratori
preferiti del presidente. Sapeva che
prima dell’elezione il presidente
Lincoln aveva incontrato quel giovane a
Chicago e lo aveva incoraggiato a
trasferirsi a Springfield per studiare
diritto. Aveva fatto parte della guardia
d’onore che aveva scortato il presidente
in treno fino a Washington, e dopo la
secessione Abraham Lincoln aveva
usato la sua influenza per procurargli
una posizione invidiabile nell’esercito.
Aveva solo pochi anni più del figlio
maggiore dei Lincoln, Robert.
«Sì, purtroppo» le confermò Walker,
scuotendo il capo con espressione cupa.
«Il suo è il primo sangue versato sul
terreno dei ribelli».
«E non sarà l’ultimo» aggiunse
Virginia a mezza voce.
I pensieri di Elizabeth andarono
subito a George, quasi coetaneo del
colonnello, tanto ansioso di partecipare
ai combattimenti. E poi pensò ai
Lincoln. La moglie del presidente era
affezionata al colonnello Ellsworth
quasi quanto il marito. Avrebbe avuto il
cuore a pezzi.
Anche se non era attesa, quel giorno
Elizabeth percorse veloce le strade
fangose diretta alla Casa Bianca, per
offrire alla first lady tutto il suo
appoggio. Sulla soglia, Mr McManus
annunciò con aria contrita che erano tutti
in lutto. «Il presidente era in biblioteca
con dei visitatori quando ha saputo della
morte del colonnello» le confidò
l’anziano portiere. «Peter Brown dice
che era così turbato da non riuscire a
parlare».
«Meglio che vada dalla first lady»
disse Elizabeth tirando dritto.
La trovò nel suo salottino personale,
con addosso un allegro abito da giorno a
fiori, seduta alla toeletta a fissare il
nulla. Alzò lo sguardo all’arrivo della
sarta, e un’espressione sorpresa si fece
strada per un attimo nella sua cappa di
dolore. «Ah, Elizabeth» disse. «Come
sapevate che avevo bisogno di voi?»
«Ho sentito suonare le campane per il
colonnello, e ho pensato che voleste
vedermi». La sarta si diresse subito nel
guardaroba e cominciò a passare in
rassegna gli abiti della sua cliente, in
cerca di un indumento più appropriato.
A un tratto si rese conto che le
avrebbero probabilmente chiesto di
confezionare parecchi abiti neri nei mesi
a venire, quando le sue clienti avessero
perso mariti, figli e fratelli, e avessero
deciso di indossare i vestiti scuri che la
tradizione prescriveva. Allontanò il
pensiero e vide un abito di seta nera che
Mrs Lincoln doveva avere portato con
sé dall’Illinois e glielo mostrò. «Cosa
pensate di questo?»
«Sono sicura che andrà benissimo».
La sua cliente guardò appena l’abito.
«Oggi pomeriggio io e il presidente
andremo all’arsenale a vedere il corpo e
rendergli omaggio. Dopo, credo che...
che il colonnello sarà trasferito qui,
dove gli verrà allestita la camera
ardente nell’East Room».
Elizabeth annuì e cominciò a
slacciare il corpetto di Mrs Lincoln.
«Quell’orribile bandiera era una
provocazione insopportabile per lui»
disse la sua cliente con voce distante.
«Aveva promesso a mio marito che
l’avrebbe tolta da lì, ed è proprio ciò
che ha fatto. Ma quel gesto gli è costato
la vita».
«Ucciso per una bandiera?» chiese
Elizabeth senza riflettere. Le pareva uno
spreco enorme.
«Non sarebbe dovuto accadere». Mrs
Lincoln appallottolò il fazzoletto che
teneva in grembo. «Per evitare
spargimenti di sangue, l’esercito
dell’Unione ha mandato un tenente ad
Alexandria con la bandiera bianca per
avvertire
il
comandante
della
Confederazione che le forze nemiche
erano
in
superiorità
numerica
schiacciante, e che avevano tempo fino
alle nove per abbandonare la città o
arrendersi».
Il comandante doveva avere scelto
l’una o l’altra possibilità rinunciando a
combattere, perché se i ribelli avessero
deciso di resistere Elizabeth avrebbe
udito il baccano dell’artiglieria dei due
schieramenti. «Cos’hanno deciso?»
«Di battere in ritirata. Il tenente ha
riferito al colonnello Ellsworth che i
ribelli non avrebbero reagito perché la
città era piena di donne e bambini.
Quasi tutte le truppe ribelli sono salite a
bordo di un treno e hanno lasciato
Alexandria prima dell’ultimatum, ma
qualcuno è rimasto, non so perché. Sono
stati catturati e rinchiusi nella prigione
di un negriero». Mrs Lincoln sospirò
mentre Elizabeth la aiutava a togliersi
l’abito da giorno. «Devo avvisarvi che
si tratta di informazioni che ho colto qua
e là, e non di un resoconto ufficiale».
Una traccia di collera le fece tremare la
voce. «Mio marito ha sempre meno
fiducia in me».
«Ditemelo lo stesso» la incoraggiò
con dolcezza Elizabeth raddrizzando la
sottoveste della sua cliente. Voleva
sapere cos’era successo al giovane
ufficiale, e lo sforzo di raccontare la
storia sembrava avere un effetto
calmante sulla moglie del presidente.
«Ebbene, da quanto ho capito il
colonnello Ellsworth è partito con
alcuni dei suoi uomini per occupare
l’ufficio del telegrafo, ma è passato
davanti all’albergo dal quale svettava la
bandiera in tutta impunità. Sapeva
quanto infastidiva mio marito, quanto gli
facesse male vederla».
«Dava noia a tutti qui a Washington»
convenne Elizabeth, aiutando Mrs
Lincoln a indossare l’abito di seta nera.
La donna si mosse assecondando la
sarta, docile come una bambola.
«Forse pensava che il presidente
stesse osservando l’albergo proprio in
quel momento, o forse voleva dare il
segnale che la città era stata occupata.
Non lo sapremo mai. In ogni caso, il
colonnello Ellsworth è entrato nello
stabile ed è salito sul tetto, ha preso la
bandiera e l’ha strappata. È tornato giù
dai suoi uomini...» Mrs Lincoln si
premette il fazzoletto contro le labbra, si
fece forza e continuò: «Mentre portava
giù la bandiera catturata, il proprietario
dell’hotel gli è andato incontro
all’improvviso e gli ha sparato al petto,
da pochi passi di distanza».
Elizabeth si bloccò mentre stava
abbottonando il corpetto della cliente.
«Che il Signore abbia pietà».
«Uno dei soldati del colonnello
Ellsworth l’ha subito vendicato,
uccidendo il colpevole con una scarica
di moschetto alla testa, ma era troppo
tardi, sapete?» continuò lanciandole uno
sguardo addolorato da sopra la spalla.
«Troppo tardi per salvarlo».
Elizabeth strinse le labbra e scrollò il
capo. «Mi dispiace moltissimo, Mrs
Lincoln. Voi e il presidente gli eravate
tanto affezionati».
«Certo». La first lady tacque mentre
Elizabeth finiva di vestirla. «Credo che
fosse come un figlio per mio marito. E
per entrambi era uno di casa, capite?
Pieno di giovinezza, di forza e di
coraggio...»
Inspirò
bruscamente.
«Dovrò scrivere a sua madre. Lo farà
anche mio marito, naturalmente, ma devo
scriverle anch’io. Anche se non riesco a
immaginare cosa potrei dirle». Le si
ruppe la voce e si lasciò ricadere contro
lo schienale della sedia.
«Mrs Lincoln» chiese Elizabeth con
voce ferma, «c’è qualcosa, qualunque
cosa, che posso fare per voi o per il
presidente?»
«Avete fatto ciò di cui avevo più
bisogno, Elizabeth, come sempre». Le
rivolse un sorriso triste e tirato. «A
volte non so come riesco a sopportare la
vita in questa...» Agitò una mano, come
a indicare Washington. «Ecco, sapete
anche voi com’è, e quanto abbia bisogno
di voi».
Una piccola vampata di orgoglio
riscaldò il cuore di Elizabeth. Sì, lo
sapeva. «Per me è un grande piacere,
signora».
Qualche giorno dopo, quando la
moglie del presidente la chiamò di
nuovo alla Casa Bianca, Elizabeth seppe
che migliaia di persone erano andate a
rendere omaggio al giovane colonnello,
esposto nella camera ardente dell’East
Room. Tra loro c’era Robert Lincoln,
che aveva compiuto il viaggio da
Harvard per condividere il lutto e il
dolore dei genitori. Sembravano tutti
scossi non solo dalla perdita personale
subita, ma anche dall’impressione che
quella morte prematura, violenta e
improvvisa preannunciasse il sacrificio
di molti uomini giovani e valorosi che
sarebbero scomparsi nei mesi a venire.
La bandiera che era costata la vita al
colonnello Ellsworth fu offerta alla first
lady. Mrs Lincoln ne fu onorata e
profondamente commossa, e la conservò
per sempre.
La morte di quel soldato che
conosceva appena creò in Elizabeth
nuove apprensioni per la vita del
militare che amava sopra ogni cosa.
George scriveva spesso, almeno due
volte alla settimana, e le raccontava gli
aneddoti della vita da campo e le sue
buffe disavventure di recluta alle prime
armi. Elizabeth aveva visto abbastanza
scene di vita militare a Washington per
sapere che il figlio le dava una versione
edulcorata e ottimista della sua
esistenza, e che le cose dovevano essere
ben più difficili per lui di quanto
lasciasse immaginare. Stando a quel che
gli risultava era l’unico nero del
reggimento, composto quasi per intero
da immigrati tedeschi, con qualche
irlandese e americano tra loro. «Sono
più bianco di quasi tutti i miei
commilitoni» le scrisse in una delle
prime lettere, «quindi non devi
preoccuparti che mi faccia scoprire».
Molti civili del Missouri non amavano i
tedeschi, ma George apprezzava la loro
operosità e lo stoicismo, oltre a
condividerne le opinioni abolizioniste.
Lo stato schiavista del Missouri era
in una situazione particolare: aveva
votato in marzo per restare nell’Unione,
ma senza fornire uomini o armi a
nessuna delle due parti. Quella
decisione non aveva impedito a unionisti
e secessionisti di formare milizie per
conto proprio e di disputarsi il controllo
delle varie armerie federali situate in
diversi punti dello stato. Nel giro di
qualche settimana dopo l’arruolamento
di George, il Primo Reggimento del
Missouri sotto il comando del capitano
Nathaniel Lyon marciò su Camp
Jackson, dove le milizie secessioniste
dei volontari del Missouri conservavano
l’artiglieria pesante e le munizioni
sottratte dai confederati all’Unione e
destinate all’assalto dell’arsenale di
Saint Louis. Quasi settecento miliziani
furono costretti ad arrendersi, ma
quando rifiutarono di giurare fedeltà agli
Stati Uniti il capitano Lyon decise di
arrestarli e di farli marciare per le
strade della città fino all’arsenale, dove
progettava di rilasciare gli uomini, dopo
averli umiliati, e di ordinare loro di
disperdersi.
L’esito disastroso di quella mossa del
capitano Lyon, sebbene descritto da
George con parole scelte con cura,
ricordò
a
Elizabeth in modo
impressionante l’incidente di Baltimora.
Quando il Primo Reggimento Missouri
scortò i secessionisti catturati attraverso
la città, gli abitanti, indignati, si misero
a urlare insulti e a gettare pietre e
ciottoli contro i soldati. «Il ritornello
“Maledetti olandesi!” è stato urlato
contro i nostri commilitoni tedeschi
tanto spesso e con tale astio che ho
capito che c’è qualcuno di più odiato
dei negri» scrisse George. A un certo
punto, secondo una versione degli
eventi, un civile ubriaco si parò davanti
alle truppe che avanzavano, tirò un
colpo di pistola e ferì mortalmente un
capitano
del
Terzo
Reggimento
Missouri. I soldati risposero aprendo il
fuoco, prima tirando sopra le teste dei
civili, poi direttamente nella folla.
Ventotto persone, tra cui donne e
bambini, rimasero uccise, e altre
cinquanta furono ferite. Seguirono
diversi giorni di disordini, durante i
quali l’odio antitedesco esplose a Saint
Louis, i civili sparavano contro i soldati
da dietro le finestre dei negozi e degli
uffici, e le truppe reagirono ancora una
volta facendo fuoco tra la folla nelle
strade. Anche se George descrisse gli
eventi senza darvi troppo peso, con la
spavalderia della giovinezza, Elizabeth
capì che era rimasto scosso.
A metà giugno George le disse in
un’altra lettera che il Primo Reggimento
Missouri e altri reggimenti federali
avevano marciato su Jefferson City e
avevano scoperto che il governatore
secessionista aveva abbandonato la
capitale dello stato. Le forze
dell’Unione
conquistarono
senza
problemi la città e inseguirono il
governatore e la sua guardia di stato fino
a Boonville, un’ottantina di chilometri a
nordovest. «È stata una schermaglia
breve e poco cruenta» scrisse George,
«ma abbiamo inflitto una bella batosta
alla guardia di stato, abbiamo cacciato
via i secessionisti e preso possesso a
nome dell’Unione la valle del Missouri.
Un buon lavoro, se posso dire la mia».
Mentre le scriveva quella lettera
erano accampati, e non sapeva quando e
verso dove avrebbero ripreso a
marciare. Le ingiunse di
non
preoccuparsi e le chiese di pregare per
lui, promettendo a sua volta di scriverle
il prima possibile. «Non dimentico mai
il mio particolare dovere» concluse.
«Nulla di ciò che subisco sul campo di
battaglia ha la minima importanza se
procura la libertà a tutta la nostra razza.
Vorrei solo che i miei amici
dell’università avessero il diritto di
prendere le armi come ho fatto io. A
volte, quando sento i miei commilitoni
parlare della codardia e inferiorità dei
neri, ho la tentazione di non limitarmi a
parlare in loro difesa. Vorrei balzare in
piedi e gridare: “Non ho forse
combattuto valorosamente come voi?
Non ho marciato, non ho sopportato gli
stessi stenti? Se il mio sangue sarà
versato, non sarà rosso come il vostro?
Sì, sono nero anch’io, e vi sfido a
mostrarmi perché mai non sarei un
soldato coraggioso come voi!” Ma
naturalmente non posso dire nulla, non
ancora. Quando la guerra sarà finita dirò
la verità, e nessun uomo potrà
considerarsi superiore a me».
Elizabeth era troppo orgogliosa di lui
per tormentarlo con preoccupazioni e
timori. George si era arruolato per
dimostrare il proprio valore, per
proteggere l’Unione, per liberare gli
esseri umani della sua razza dalla
schiavitù. Lei, che aveva vissuto quasi
quarant’anni come schiava, sapeva bene
che la sua missione era nobile e
necessaria.
E dire che quando si era scoperta
incinta di lui, più di ventiquattro anni
prima, era stata colta dallo sconforto.
Non avrebbe voluto avere rapporti con
Alexander Kirkland, e le faceva orrore
la prospettiva di mettere al mondo un
bambino destinato a una vita da schiavo.
Ma dopo la nascita di George, la sua
paura più grande era stata che glielo
portassero via.
Verso metà estate, i giornali si
riempirono di notizie di battaglie,
scaramucce, avanzate e ritirate nei
pressi di città che Elizabeth non aveva
mai sentito nominare. Furono presi
prigionieri da entrambe le parti, ma il
presidente Lincoln e i suoi consiglieri
non sapevano cosa fare degli uomini
catturati. Trattandosi di ribelli colpevoli
di tradimento avrebbero dovuto essere
impiccati, cosa impensabile visto il
numero di prigionieri, e che oltretutto
avrebbe causato rappresaglie contro i
soldati dell’Unione catturati dai sudisti.
Uno scambio di prigionieri, pratica
corrente tra paesi in guerra, sarebbe
stato interpretato come il riconoscimento
della legittimità della Confederazione
come stato sovrano, un passo che il
presidente non aveva alcuna intenzione
di compiere. Così i ribelli catturati
erano tenuti prigionieri a tempo
indeterminato, talvolta spostati da galere
per schiavi a carceri militari di
proprietà della Marina a prigioni civili
a Washington, mentre Lincoln e i suoi
consiglieri dibattevano su cosa fare di
loro e dei beni dei ribelli che l’esercito
dell’Unione aveva confiscato sull’altra
sponda del Potomac. La piantagione di
Arlington appartenente a Robert E. Lee
era forse la proprietà terriera più
preziosa della Virginia, e alcuni
consiglieri di Lincoln gli suggerirono di
venderla per contribuire a finanziare la
guerra e come avvertimento nei
confronti degli altri latifondisti.
Elizabeth capì che il gentiluomo che un
tempo le aveva sorriso mettendole in
mano una banconota da cento dollari,
dicendole di non badare a spese per la
moglie, era ormai un ribelle; anzi, non
un semplice ribelle ma il loro generale,
eppure lei non riusciva a evitare di
dispiacersi per la moglie, la sua ex
cliente. La piantagione era stata
ereditata dalla famiglia di lei, che
discendeva da Martha Washington. il
pensiero che Mrs Lee forse non avrebbe
mai più rivisto la dimora dei suoi
antenati addolorava Elizabeth.
La sarta non aveva dimenticato altre
clienti che erano fuggite da Washington
per tornare nei propri stati una volta che
questi avevano abbandonato l’Unione. In
giugno completò il ricamo che le aveva
affidato Varina Davis, ma non aveva
idea di come farglielo avere. Il servizio
postale aveva interrotto le consegne
nella Confederazione il 1° giugno, e
anche se Elizabeth aveva sentito parlare
di contrabbandieri che trasportavano
impunemente merci varie facendo la
spola tra il Nord e il Sud, non aveva
idea di come arrivarci, né si sarebbe
sentita a suo agio a fidarsi di qualcuno
impegnato in quell’attività. Alla fine
affidò il ricamo a un’amica di Mrs
Davis, Matilda Emory, moglie del
maggiore William Emory. Questi,
originario del Maryland, dopo essere
stato di guarnigione alternativamente nel
Territorio Indiano e nella capitale, in
maggio aveva abbandonato l’esercito
dell’Unione contro il volere della
moglie. Mrs Emory, non contenta di
protestare, aveva fatto reintegrare il
marito recuperando lei stessa la lettera
di dimissioni. Nonostante il suo forte
attaccamento all’Unione era rimasta
amica di Mrs Davis, e senza spiegarle
come avrebbe portato a termine
l’impresa assicurò a Elizabeth che
avrebbe fatto pervenire il ricamo alla
sua amica.
Da quando se n’era andato da
Washington, appena sei mesi prima,
Davis era stato eletto presidente degli
stati confederati e Mrs Davis era
diventata la first lady. Talvolta Elizabeth
ripensava ai mesi in cui aveva lavorato
in casa Davis e si stupiva per i
cambiamenti avvenuti da allora. Mrs
Davis e il marito si erano spostati
dall’Alabama alla Virginia, o almeno
così dicevano i giornali, e ora abitavano
in un’altra Casa Bianca a Richmond, la
nuova capitale della Confederazione. La
sarta si chiese se la sua ex cliente
sperasse ancora che i confederati
avrebbero espugnato Washington e di
poter prendere possesso della vera Casa
Bianca.
Osservando
le
nuove
guarnigioni disposte dall’Unione a
difesa del distretto, la sarta pensava che
la conquista della città non sarebbe stata
facile come credeva Mrs Davis.
L’attuale first lady, in ogni caso,
avrebbe avuto qualcosa da ridire sulle
dichiarazioni tanto ottimiste di Mrs
Davis, se la sua sarta fosse stata così
imprudente da parlargliene. Mrs Lincoln
era, com’era sempre stata, una fervente
unionista, e sebbene i ministri del
presidente
boicottassero
sistematicamente i suoi tentativi di
influenzare il marito o la politica, usava
la propria posizione per sostenere la
causa del Nord in altri modi.
Organizzava cene per i personaggi in
vista e, sperando di sollevare il morale
del popolo, chiedeva alla banda della
Marina di tenere concerti ogni
mercoledì e sabato, quando il parco
attorno alla Casa Bianca era aperto al
pubblico. Visitava gli accampamenti
militari e i soldati in ospedale, spesso
distribuendo con le sue mani leccornie
provenienti dalle cucine e dagli orti
della Casa Bianca. Ottenne armi dal
ministero della Guerra e le fece mandare
a un colonnello dell’Unione nel suo stato
natale del Kentucky con una lettera
sincera e appassionata con cui gli
professava la propria ammirazione per
il suo patriottismo. Passava in rassegna
le truppe con il marito, e rimase
entusiasta quando un colonnello
dell’esercito ruppe una bottiglia di
champagne contro un carro per
battezzare il campo dove bivaccavano
gli uomini “Camp Mary”, in suo onore.
Elizabeth avrebbe desiderato che gli
sforzi di Mrs Lincoln ricevessero un po’
più di attenzione dai giornali, invece di
miseri trafiletti di tanto in tanto.
Purtroppo i giornalisti e i pettegoli
erano molto più affascinati dalle
vicende dei suoi parenti secessionisti e
dalle sue spese esose per il baldacchino
di raso a frange, il servizio di
porcellana viola e oro con il sigillo
degli Stati Uniti su ogni pezzo, e un altro
servizio uguale con le proprie iniziali.
La stampa la assillava senza darle
tregua, perfino durante le trasferte per
scappare dal caldo, dalle malattie e
dagli sciami di mosche e zanzare che
tormentavano Washington nei torridi
giorni estivi.
A fine luglio, quando cominciò a
spargersi la voce che le truppe si
stavano radunando vicino a Manassas
Junction, in Virginia, Mary Lincoln era a
casa. Migliaia di cittadini in cerca di
distrazioni prepararono cestini da picnic
e noleggiarono una carrozza per andare
a vedere lo spettacolo. Politici
desiderosi di vivere dal vero una pagina
di storia, giornalisti a caccia di notizie,
lavoratori curiosi, signore con i
parasole, elettrizzate alla prospettiva di
correre qualche rischio e di cogliere atti
di eroismo, desideravano tutti stare a
guardare mentre il generale di brigata
Irvin McDowell e il suo fortissimo
esercito della Virginia nordorientale
infliggevano una sconfitta memorabile ai
ribelli prima di marciare su Richmond e
mettere rapidamente fine al conflitto.
Diverse giovani assistenti di
Elizabeth erano state invitate da alcuni
soldati ad andare sul loro carro. «Venite
con noi, Mrs Keckley» la esortò Emma
Stevens, ex schiava del Maryland che
occupava una stanzetta nella soffitta
della pensione dei Lewis. Quando era
piccola, a lei e a sua madre era stata
donata la libertà alla morte della loro
vecchia padrona, ma gli eredi della
donna avevano ignorato il testamento. Le
due donne erano rimaste in schiavitù
altri dieci lunghi anni intanto che la
causa intentata dalla madre di Emma
contro gli eredi andava per le lunghe.
Dopo aver vinto quasi miracolosamente
la causa, e guadagnato la libertà, Emma
e sua madre avevano adottato il
cognome dell’avvocato che le aveva
rappresentate con coraggio nell’aula di
tribunale nonostante il clima ostile che
vi regnava.
Elizabeth sorrise e scosse il capo.
«No, grazie».
«Oh, venite, su» insistette Emma. «Ci
sarà posto a sufficienza sul carro. E poi
è domenica. Non dovreste lavorare di
domenica».
«Devo» rispose Elizabeth. «Mrs
Lincoln ha bisogno che finisca l’abito da
giorno bianco prima del suo viaggio al
mare. Voi ragazze andate a divertirvi, ma
state attente».
Fece un sospiro di sollievo quando
Emma reagì con una smorfia delusa e si
avviò da sola, ritrovando però subito il
buonumore al pensiero delle amiche e
dei ragazzi che le avrebbero scortate. In
realtà non voleva confessare alla
ragazza, la sua collaboratrice prediletta,
che non sopportava di assistere a una
battaglia, poiché le ricordava quelle che
George stava forse affrontando a sua
volta, da qualche parte in Missouri.
Cucì tutto il giorno in camera sua con
finestre e porte aperte per far circolare
l’aria, interrompendosi solo per il
pranzo e per una passeggiata con
Virginia lungo il fiume, dove il lezzo
rovinò il piacere del venticello fresco.
Udirono i rimbombi dell’artiglieria a
ovest, e si chiesero come stesse andando
la battaglia. «Forse ci pentiremo di
esserci perse la scena» osservò
Virginia.
«Io no di certo» replicò Elizabeth.
Lungo la strada del ritorno verso
Twelfth Street passarono davanti a un
ufficio del telegrafo, dove uomini e
ragazzi aspettavano notizie dal campo di
battaglia. I confederati erano in fuga, a
giudicare dai discorsi, e le amiche
udirono due uomini affermare che
l’esercito
dell’Unione
sarebbe
probabilmente giunto a Richmond nel
giro di una settimana. Rassicurate dalle
novità positive tornarono a casa e
raccontarono a Walker ciò che avevano
appreso. Rientrata nelle sue stanze,
Elizabeth riprese a lavorare all’abito di
Mrs Lincoln, infilò un filo nell’ago e si
autorizzò a sperare che la guerra finisse
entro l’autunno, per permettere a George
di concludere il proprio periodo con
l’esercito e di riprendere l’università
all’inizio del semestre successivo.
Le sue speranze furono annientate
prima dell’alba.
Durante la notte fu svegliata da
rumori provenienti dall’esterno: ruote di
carri, zoccoli di cavalli, voci concitate.
Corse alle finestre, ma si affacciavano
tutte sul giardino, e vide solo le facciate
posteriori di altre case e un alone
luminoso di qualche lanterna attraverso i
vetri. A mano a mano che il chiasso
aumentava, altre finestre si illuminarono.
Elizabeth si vestì in fretta e uscì sul
marciapiede davanti a casa, dove trovò
Virginia, Walker e qualche altro vicino
che guardavano esterrefatti il passaggio
di carri, carrozze e uomini a cavallo;
avanzavano più in fretta che potevano
spronando al massimo i cavalli esausti,
e avevano espressioni sofferenti e
terrorizzate.
«Cos’è successo?» chiese Elizabeth a
Virginia, che si limitò a scuotere la testa,
stringere le labbra e afferrarle il
braccio. Restarono aggrappate l’una
all’altra mentre quella sfilata spaventosa
continuava, e capirono infine che si
trattava degli spettatori partiti pieni di
entusiasmo quel mattino per Centreville
con il progetto di assistere alla battaglia.
Infine Walker fermò un nero su un
carretto trainato da un cavallo, che
rallentò ma non si arrestò. «Un disastro»
annunciò stando a cassetta. «Centinaia di
morti. Compagnie intere sbaragliate. I
soldati di McDowell stanno battendo in
ritirata per tornare in città, se non sono
ancora stati catturati o uccisi, e i ribelli
li inseguono».
Virginia si lasciò sfuggire un grido,
ed Elizabeth avvertì un brivido. Emma e
altre due delle sue protette si trovavano
nel bel mezzo di tutto quel caos. «Sono
rimasti feriti anche dei civili?» chiese
all’uomo sul carretto, che però si era già
allontanato.
Per tutta la notte il fiume dei civili di
ritorno non rallentò; erano scossi ed
esausti, e raccontavano terrorizzati di
come fossero riusciti a sfuggire a una
morte certa. Si erano tenuti a una certa
distanza dai combattimenti, vicino al
fiume, e così erano stati i primi a
tornare. La sarta aveva quasi
abbandonato le speranze quando
apparve Emma, scortata da un giovane
che la affidò subito alle cure di Walker,
Elizabeth e Virginia. «È stato un incubo»
esordì la ragazza tremante, con gli occhi
sbarrati. «Non avevo mai visto nulla del
genere. Se non fossimo stati tra gli ultimi
arrivati, e non ci fossimo trattenuti
vicino al carro...» Scosse il capo e
tacque mentre Virginia la accompagnava
dentro.
Solo all’alba i primi soldati
arrivarono in città, con espressioni
stranite, esausti, incuranti ormai del
proprio rango. Nessuno si sognava più
di agitare il vessillo del reggimento, o di
suonare marce militari con tamburo e
piffero. Affamati e stanchi, alcuni
lasciarono cadere la loro roba sulla
soglia delle case, sul marciapiede,
davanti a lotti non edificati, e si
coricarono a dormire. Alcuni curiosi,
dopo essersi ripresi dallo stupore,
corsero in casa e tornarono subito con
pane, formaggio, mele e altro cibo da
distribuire ai soldati di passaggio.
Elizabeth e Virginia li imitarono,
offrendo acqua in brocche e secchi dai
quali i militari attingevano con un
mestolo.
Poi arrivarono i feriti, portati in città
sui carri. Non c’erano abbastanza letti
per tutti i soldati che ne avevano
bisogno, e c’era penuria di bende,
infermiere, cibo e ospedali. Prigionieri
in uniforme grigia erano scortati da
guardie armate. Alcuni cittadini urlarono
insulti e gettarono pietre ai confederati
catturati, mentre i simpatizzanti sudisti,
senza alcun ritegno, gridarono loro
parole di incoraggiamento lungo la
strada verso il vecchio Campidoglio,
trasformato in una prigione militare
federale.
Per ore la popolazione di Washington
aspettò in preda al terrore che l’esercito
della Confederazione sfruttasse la
vittoria per espugnare la città, ma non ci
fu alcuna invasione.
Nei giorni che seguirono i nordisti
volevano vendicarsi, e il presidente
Lincoln pretendeva delle risposte.
Mentre i volontari si assiepavano negli
uffici di reclutamento, il presidente si
riunì con i suoi collaboratori, deciso a
scoprire perché la battaglia fosse finita
in modo così tragico e ad assicurarsi che
non succedesse mai più. La stampa
aveva già ribattezzato la ritirata caotica
dell’Unione dal campo di battaglia “la
grande fuga”, umiliando i soldati del
Nord e incoraggiando invece i loro
nemici.
«Erano truppe di giovani inesperti»
disse Mrs Lincoln a Elizabeth,
difendendo a spada tratta i soldati e, di
riflesso, suo marito che li aveva mandati
a combattere. «Ora non lo sono più. Non
subiranno mai più una sconfitta tanto
cocente».
La sarta sperava che avesse ragione,
e pensò subito a suo figlio. Nell’ultima
lettera, George le aveva detto che il
Primo Reggimento Missouri si stava
apprestando a marciare su Springfield,
ma non sapeva quando sarebbero partiti.
Sua madre avrebbe voluto sapere se
avevano già cominciato ad avanzare, se
erano arrivati, se avevano combattuto e
chi aveva vinto la battaglia. Anche
George era ancora inesperto, pensò,
sebbene il suo reggimento avesse dovuto
combattere nelle strade di Saint Louis e
nella scaramuccia di minore importanza
di Boonville. Doveva ancora affrontare
il tipo di battaglia che aveva visto
impegnati gli uomini di McDowell nei
pressi del torrente chiamato Bull Run, e
si sentì morire immaginandolo sotto il
fuoco dei fucili e cannoni ribelli.
I giorni che passavano tra le lettere di
George erano pieni di attesa e
preoccupazione. L’arrivo di ogni lettera
portava una gioia e un sollievo solo
momentanei, perché pur assaporando
ogni parola, Elizabeth sapeva che non
garantivano la sua incolumità al
momento della lettura, ma erano solo
una prova del fatto che era ancora vivo
quando le aveva scritte.
Era già qualcosa, però. Elizabeth
custodiva gelosamente le sue lettere in
una scatola di legno di palissandro
ricevuta dalla sua ex padrona come dono
di addio quando era partita da Saint
Louis. Ogni domenica sera leggeva le
lettere nell’ordine in cui il figlio gliele
aveva scritte, un rito che si allungava
ogni settimana. Erano talismani che
annullavano la distanza tra loro e,
sperava, un giorno gliel’avrebbero
restituito.
I primi giorni di agosto furono
caldissimi e umidi, e all’orizzonte non si
prospettava alcun miglioramento. Dopo
aver organizzato una cena di stato per il
principe Napoleone III, Mrs Lincoln
portò Willie, Tad e la cugina Mrs
Grimsley in villeggiatura a Long Branch,
a Manhattan e a nord dello stato di New
York, ma la sua assenza non fece che
procurare lavoro supplementare a
Elizabeth, perché tutte le altre dame si
precipitarono a farsi confezionare abiti.
Lavorò per Mary Jane Welles, moglie
del ministro della Marina; per Margaret
Cameron, moglie del ministro della
Guerra; e per Adele Douglas, la giovane
vedova del senatore Stephen A. Douglas
dell’Illinois. La graziosa Mrs Douglas
osservava un lutto stretto ma con ottimo
gusto, e nonostante la circostanza tragica
le altre signore invidiavano la sua grazia
e la sua bellezza.
Verso metà mese, quando i temporali
estivi saturarono l’atmosfera di umidità
senza accordare sollievo dal caldo,
Elizabeth ricevette una lettera dal
Missouri vergata da una mano
sconosciuta. Non poteva essere di
George né della sua ex padrona, Anne
Garland, la cui calligrafia conosceva
bene. Aprì subito la busta. Con il cuore
che
batteva
per
un’apprensione
improvvisa, aprì la lettera e la lesse
lentamente, parola per parola, avendo
paura di arrivare fino in fondo.
Nei pressi di Springfield, Missouri
11 agosto 1861
A Mrs Elizabeth Keckley
Washington DC
Gentile signora,
è con grande dolore che le scrivo per
informarla della morte di suo figlio, George
Kirkland. Grazie alla sua ottima condotta e al
suo coraggio mentre era ai miei ordini, si è
conquistato il rispetto mio e dei suoi
commilitoni, e se fosse sopravvissuto avrebbe
presto avuto una promozione. È stato ferito
nella battaglia di Wilson’s Creek, dove le sue
ultime parole sono state per la nostra nobile
causa e per la necessità di lottare fino alla
vittoria. È sepolto qui, accanto ai suoi
compagni d’armi che sono caduti come lui quel
giorno. Invierò a casa il prima possibile i suoi
effetti personali.
Distinti saluti,
Charles W. Anderson
Capitano, comandante della Compagnia D
Primo Reggimento Volontari del Missouri
Elizabeth sentì la stanza muoversi e
girarle attorno, poi calò il buio.
5.
Agosto 1861 - marzo 1862
Quando arrivarono gli effetti personali
di George, una settimana dopo,
Elizabeth li lasciò sullo scrittoio due
giorni prima di avere il coraggio di
esaminarli. Nel pacchetto trovò tutte le
lettere che gli aveva scritto, legate con
un nastro; un libro di salmi; il necessario
da cucito che si poteva arrotolare e
legare; una boccetta di inchiostro di
palissandro; una tazza di stagno; una
scatoletta di tabacco, anch’essa di
stagno; due dadi di osso. Era felice che
George avesse trovato conforto e
ispirazione nelle Sacre Scritture mentre
era in guerra, ma non le piaceva che
avesse iniziato a fumare e a giocare.
Comunque,
non
aveva
più
importanza.
In mezzo a tanta sofferenza, Elizabeth
trovò conforto in una lettera calorosa e
piena d’affetto di Mrs Lincoln e
nell’amicizia di Virginia, Walker ed
Emma, i cui occhi brillavano di lacrime
quando disse a Elizabeth che avrebbe
tanto voluto conoscere il suo bel soldato
eroico. Per un attimo Elizabeth si
concesse di immaginare George ed
Emma che si incontravano, si
innamoravano, si sposavano, facevano
dei figli... e poi cacciò per sempre quei
pensieri.
Era morto libero. Almeno era riuscita
a fare quello per suo figlio.
In autunno Mrs Lincoln tornò a
Washington, e il dovere richiamò
Elizabeth alla Casa Bianca. Il fronte del
conflitto si era allontanato dalla
periferia della città, ma ogni giorno
arrivavano
nuovi
racconti
di
combattimenti
violenti
e
scene
terrificanti di morte e rovina. La guerra
infieriva in diversi stati, e l’esercito
dell’Unione
subì
una
sconfitta
demoralizzante dietro l’altra. A
Washington un lungo periodo piovoso
fece tracimare il Potomac, spingendo a
valle i corpi dei soldati dell’Unione
uccisi settimane prima, nella battaglia di
Ball’s Bluff, finché non furono ripescati
tra i ponti all’altezza di Fourteenth
Street. Vicino al fiume e ai canali le
fogne traboccavano riversandosi per le
strade, e spargendo miasmi pestilenziali
per interi isolati. I soldati erano
accampati sulle colline circostanti,
ammassati gli uni sugli altri in tende
perennemente fradice, e il vaiolo e la
febbre tifoidea ne uccisero molti.
I soldati dell’Unione combattevano
contro i confederati, medici e infermiere
si battevano con le malattie, poliziotti e
volontari cercavano di domare gli
incendi che divampavano con allarmante
regolarità, e il presidente combatteva
con i suoi ministri e con il generale
McClellan, che sembrava incapace di
sfruttare il vantaggio sul campo di
battaglia e perfino di riconoscerlo,
quando ce l’aveva. Nel frattempo, Mrs
Lincoln era impegnata su tutt’altro
fronte. Il rifacimento della decorazione
della Casa Bianca le aveva procurato
violente critiche da parte della stampa
ed era costato molto più della somma
accordatale; Elizabeth scoprì con
disappunto che il giardiniere, James
Watt, le aveva insegnato a gonfiare le
fatture e a nascondere certe spese
inserendole nel conto di Watt stesso.
Ignorando
gli
avvertimenti
del
commissario per gli edifici pubblici, che
le comunicava che non aveva più soldi
da spendere, Mrs Lincoln proseguì
nell’accumulare debiti finché non
divenne impossibile continuare a
nasconderli al marito. Ci fu un furioso
litigio il giorno del quarantatreesimo
compleanno di lei, in seguito al quale la
first lady implorò il commissario di
intercedere in suo favore presso il
marito. Lui ubbidì con riluttanza, e anche
se Elizabeth non fu testimone diretta
della replica esplosiva di Abraham
Lincoln – «Giuro che non approverò mai
le fatture per le inutili cianfrusaglie di
questa maledetta casa!» – quella frase
finì, dopo, sulla bocca di tutti.
La reputazione di Mary Lincoln fu
ulteriormente
danneggiata
dai
personaggi di dubbia moralità che
frequentavano di sera il suo salotto: una
cricca di favoriti, quasi solo uomini, che
la adulavano e, forse, tradivano la sua
fiducia. Si diceva che uno dei
frequentatori più assidui avesse fornito
al New York Herald il messaggio
annuale del presidente al Congresso, che
fu pubblicato prima ancora che Lincoln
lo pronunciasse. Dopo quella volta, il
presidente mise in guardia la moglie
contro le confidenze inopportune, vietò
l’ingresso alla Casa Bianca al presunto
responsabile dell’indiscrezione, licenziò
il giardiniere e, con grande dispiacere di
Mary, smise di confidarsi con lei sulle
questioni politiche.
Elizabeth scoprì presto sulla sua
pelle quello che le disavventure di Mrs
Lincoln le avevano già suggerito:
c’erano persone senza scrupoli decise a
insinuarsi, in un modo o nell’altro, alla
Casa Bianca per i propri scopi
disonesti. Non appena Elizabeth fu
riconosciuta in tutta Washington come la
sarta di Mrs Lincoln, perfetti sconosciuti
cominciarono a cercarla fingendosi
amici, sperando che usasse la sua
influenza per procurare loro un lavoro,
accordare un favore o rivelare
informazioni utili.
Un giorno una donna che Elizabeth
non aveva mai visto si presentò da lei,
le commissionò un vestito e insistette
per lasciarle un anticipo. Per qualche
tempo andò ogni giorno per prove e
ritocchi, comportandosi sempre con
educazione e gentilezza. Il giorno in cui
l’abito fu terminato e si presentò per
ritirarlo, esitò prima di chiedere: «Mrs
Keckley, conoscete Mrs Lincoln?»
«Sì» rispose lei, piegando con cura
l’abito affinché la cliente potesse
portarlo a casa.
«Siete la sua sarta, vero?»
«Sì».
«La conoscete molto bene, quindi».
Elizabeth mantenne un’espressione
indifferente, ma si chiese dove volesse
andare a parare la donna con le sue
domande. «La vedo quasi ogni giorno».
«Non pensate di avere un certo
ascendente su di lei?»
Ecco, era arrivata al dunque. «Non
saprei.
Mrs
Lincoln,
immagino,
ascolterebbe i miei suggerimenti, ma
sapere se i miei commenti potrebbero
influenzarla è un’altra questione».
«Sono sicura che ci riuscireste». La
donna fece un sorriso per ingraziarsela.
«Ho una proposta per voi, Mrs Keckley.
Desidero più di ogni altra cosa lavorare
alla Casa Bianca. Ho sentito tanto
parlare della bontà del presidente
Lincoln che vorrei stargli vicino, e se
non trovo nessun altro modo per entrarvi
sono disposta anche a fare la serva».
Elizabeth tentò di intervenire, ma la
donna riprese a parlare fingendo di non
essersene accorta. «Mia cara Mrs
Keckley, non potreste raccomandarmi a
Mrs Lincoln, dicendo che sono una
vostra amica senza lavoro, e chiederle
di assumermi come cameriera? Se
accettate,
sarete
ricompensata
lautamente. Potrebbe fruttarvi diverse
migliaia di dollari».
Elizabeth la guardò esterrefatta.
«Signora, mi avete giudicata male.
Piuttosto che tradire la fiducia di
un’amica mi getterei nel Potomac. Non
sono tanto meschina. Scusatemi, ma
quella è la porta, non tornate mai più!»
La donna balzò in piedi, stupita e
furiosa.
«Benissimo!»
sbottò
attraversando la stanza per uscire.
«Rimpiangerete
questo
vostro
comportamento».
«Mai e poi mai!» esclamò Elizabeth,
sbattendo la porta quando l’altra se ne fu
andata. Un attimo dopo sentì bussare
dolcemente, e spalancando l’uscio si
vide davanti Emma.
La ragazza fece un cenno indicando il
corridoio. «Perché se ne va arrabbiata?»
«Oh, non è niente» rispose Elizabeth
facendola entrare. È solo un’altra
cacciatrice di opportunità. Afferma che
il suo più grande desiderio è lavorare
come cameriera per Mrs Lincoln».
«Non ha l’aria di una cameriera»
osservò Emma. «Ma ha un aspetto
familiare».
«Non l’avevo mai vista prima che
ordinasse quel vestito, e spero di non
rivederla più».
Desiderava
solo
dimenticare
l’incidente, ma la curiosità di Emma la
spinse a fare qualche ricerca. Scoprì che
la donna era un’attrice, e aveva
raccontato agli amici che voleva
introdursi alla Casa Bianca come
cameriera, svelare i segreti dei suoi
inquilini e pubblicarne un resoconto a
fondo scandalistico. «Ha sottovalutato i
vostri principi e la vostra lealtà»
osservò Emma, orgogliosa di avere
svelato l’inganno.
«Che sia di lezione a entrambe».
Elizabeth non avrebbe mai accettato di
venire corrotta, ma sapeva che altre
persone di sua conoscenza non si
sarebbero fatte scrupoli. Quando
ripensava al tempo e alla fatica
necessari per guadagnare, sgobbando
duro, i milleduecento dollari necessari
ad acquistare la libertà per sé e per
George, capiva che qualcun altro al
posto suo avrebbe ceduto alla
tentazione. Ma Mrs Lincoln non era più
solo
una
cliente,
e
neppure
semplicemente la first lady. Era
diventata un’amica, ed Elizabeth
sarebbe morta piuttosto di tradirla.
Per Mary Lincoln l’autunno fu
caratterizzato da cambiamenti di
personale alla Casa Bianca, alcuni
desiderati da lei, altri imposti. Dopo che
tutte le scuole del distretto furono chiuse
per via della guerra, la first lady decise
di aprire una classe all’interno della
Casa Bianca invece di mandare in
collegio Willie e Tad. Ingaggiò un tutore,
fece portare banchi e una lavagna, e
invitò a seguire le lezioni anche i
migliori amici dei suoi figli, Bud e
Halsey Taft. Fino ad allora l’educazione
dei figli più giovani dei Lincoln era
stata trascurata parecchio da parte dei
genitori, troppo indulgenti. Willie era
portato per lo studio e spesso leggeva e
componeva poesie, ma Tad sapeva a
malapena leggere e scrivere, una lacuna
alla quale Mrs Lincoln decise di porre
rimedio. Entrambi i genitori davano
grande importanza all’educazione, e
speravano che i due figli imparassero ad
amare il sapere quanto loro, e che
seguissero un giorno le orme del fratello
maggiore Robert che studiava ad
Harvard. Elizabeth era segretamente
entusiasta di quella novità, che, sperava,
avrebbe inculcato nei due monelli un po’
di disciplina oltre alle nozioni
scolastiche. Aveva rimpianto a lungo di
non poter ricevere un’istruzione, e le
dispiaceva che una simile opportunità
andasse perduta per qualcun altro.
Alcuni nuovi membri del personale
della Casa Bianca avrebbero dovuto
rassicurarla,
invece
ricordavano
fastidiosamente a Elizabeth i pericoli
che correva il presidente in quel periodo
difficile. Nuovi portieri – alcuni di loro
ufficiali della polizia metropolitana,
vestiti in borghese ma armati, sebbene le
pistole fossero nascoste – piantonavano
i saloni pubblici, mentre sentinelle in
uniforme montavano la guardia nei
giardini circostanti. Nell’anno trascorso
dalla sua elezione, il presidente aveva
ricevuto tante di quelle lettere di
minacce che era impossibile contarle,
anche se la loro frequenza e violenza era
aumentata dopo Bull Run. Mary Lincoln
sembrava preoccuparsi della sicurezza
del marito più di lui, e lo esortava a
viaggiare senza annunciare in anticipo i
propri trasferimenti e a farsi scortare
dalle guardie quando si spostava in città.
Lui considerava inutili tali misure e
ignorò le richieste della moglie, che era
quindi ancora più ansiosa.
Mrs Lincoln aveva paura anche delle
minacce dall’interno. Lei e il presidente
parlavano spesso dei ministri in
presenza di Elizabeth, che riteneva la
first lady un’ottima conoscitrice
dell’animo umano, le cui intuizioni sulla
sincerità altrui erano spesso più
accurate di quelle del marito. La sarta
aveva scoperto quasi subito che Mary
Lincoln detestava il ministro del Tesoro
Salmon Chase, che definiva un politico
egoista invece di un vero patriota, ma
attribuiva tanto astio al fatto che fosse il
padre della sua acerrima nemica in
società, la bella Kate Chase.
Mrs Lincoln non aveva una grande
opinione neppure del segretario di Stato
William Seward. Un mattino, Elizabeth
arrivò alla Casa Bianca prima del solito
e trovò il presidente seduto con il
giornale in una mano mentre carezzava
la testa del piccolo Tad con l’altra.
Mentre stava imbastendo un abito, entrò
una serva con una lettera per Mr Lincoln
appena arrivata tramite un messo. Ruppe
il sigillo e lesse la missiva in silenzio.
«Di chi è la lettera, papà?» chiese la
moglie.
«Seward». Lincoln se la mise in
tasca. «Devo andare a parlargli oggi».
«Seward! Vorrei che non aveste nulla
a che fare con quell’uomo. Non merita
fiducia».
Mr Lincoln la guardò con dolcezza,
ma Elizabeth ebbe l’impressione che
reprimesse un sorriso. «Dite lo stesso di
Chase. Se vi dessi ascolto, presto
resterei senza ministri».
L’espressione di Mrs Lincoln diceva
che
l’avrebbe
considerato
un
miglioramento non indifferente. «Meglio
stare senza che fidarsi di alcuni di
quegli uomini. Seward è peggio di
Chase. Non ha principi».
«Mamma, vi sbagliate». La scintilla
di umorismo si era spenta. «I vostri
pregiudizi sono così radicati che non vi
fermate neppure a riflettere. Seward è un
uomo abile, il paese può fidarsi di lui, e
lo stesso vale per me».
«Siete troppo onesto per questo
mondo! Avreste dovuto nascere santo».
Il presidente sbuffò infastidito, ma Mrs
Lincoln insistette. «Mi pare normale
diffidare di un politico frustrato e
ambizioso. Mi intristisce vedere che
subite e lasciate che quell’ipocrita di
Seward faccia di voi ciò che vuole».
«Inutile parlarne ancora, mamma».
Mr Lincoln spostò lo sguardo sul
giornale. «Non mi farete cambiare
idea».
Ma non per questo la moglie smise di
provarci. Definì Andrew Johnson un
demagogo e avvisò il marito che, se gli
avesse accordato un ruolo importante, un
giorno se ne sarebbe pentito. Quando il
popolare generale McClellan fu
promosso, Mary Lincoln dichiarò che
era un imbroglione, perché parlava
molto ma combinava poco. Mr Lincoln
obiettò che era un patriota e un bravo
soldato, e a quel punto la first lady
replicò: «Dovrete trovare qualcuno in
grado di prendere il suo posto, se volete
conquistare il Sud».
Il generale Ulysses S. Grant non era
certo l’ufficiale che avrebbe scelto lei
per sostituire McClellan. «È un
macellaio» diceva spesso, «e non è
adatto a capeggiare un esercito».
Quando il marito le disse che aveva
ottenuto molte vittorie in battaglia, lei
protestò: «Sì, di solito riesce a
rivendicare una vittoria, ma di che
vittorie parliamo? Perde due uomini
ogni volta che il nemico ne perde uno.
Non ha nessun rispetto, nessuna
considerazione per la vita. Se la guerra
continuasse per altri quattro anni, e lui
restasse alla testa dell’esercito,
spopolerebbe il Nord». Scosse il capo,
indignata e arrabbiata. «Potrei andarci
io al suo posto in battaglia. Secondo la
sua tattica, non c’è nulla da fare se non
mandare file di uomini, una dopo l’altra,
davanti alle trincee nemiche a farsi
sparare finché il nemico non si stanca di
massacrarli. Grant, lo ripeto, è uno
stupido ostinato e un macellaio».
«Ebbene, mamma, immaginiamo che
vi assegni il comando dell’esercito»
disse il presidente Lincoln con uno
sguardo divertito. «Sicuramente ve la
cavereste molto meglio di qualunque
altro generale che ci ha provato prima di
voi».
Se si fosse trattato di un’offerta seria,
Mrs Lincoln l’avrebbe accettata di
sicuro. A quel punto il marito sarebbe
stato costretto ad ascoltare i suoi
consigli.
La guerra intristì gli animi nel
periodo natalizio, ma Mrs Lincoln era
decisa a festeggiare. Elizabeth le
confezionò un abito di velluto azzurro da
indossare a uno spettacolo al National
Theatre, e altri abiti per i ricevimenti
pomeridiani e le serate di gala di
Abraham Lincoln. I due figli piccoli
erano felici, ma il presidente sembrava
sempre malinconico, e non riusciva a
liberarsi dei pensieri che gravavano
come un peso su di lui. La moglie
cercava di rallegrarlo, ma le tattiche che
avevano sempre funzionato in passato
ora sembravano avere perso efficacia.
Robert Lincoln tornò a casa
dall’università per le vacanze, e la sua
presenza rasserenò il clima di quella che
era stata una stagione di inaspettati
trionfi per la first lady. Le
ristrutturazioni tanto criticate avevano
trasformato i saloni per i ricevimenti
della Casa Bianca in vere e proprie
attrazioni turistiche, guadagnandole
elogi sperticati sui giornali e
complimenti a denti stretti perfino da
parte dei suoi detrattori più tenaci.
Quanto a Elizabeth, festeggiò il
Natale in modo tranquillo, andando a
messa la vigilia e la mattina di Natale.
Come l’anno prima, i Lewis la
invitarono a partecipare al pranzo, e
anche Emma fu loro gradita ospite. I
suoi amici furono così gentili e
premurosi con lei che solo più tardi
Elizabeth si rese conto che avevano tutti
tentato di divertirla e distrarla, sapendo
che il primo Natale senza suo figlio
sarebbe stato triste per lei. Rimase così
commossa dalle loro attenzioni che si
sforzò di essere allegra. Ricordò a se
stessa che, grazie al Salvatore, la cui
nascita celebravano quel giorno, suo
figlio avrebbe goduto della vita eterna.
Circondata dagli amici, confortata dalla
certezza che lei e George – e anche i
suoi genitori – si sarebbero ritrovati in
cielo, un giorno, non poteva piangere il
proprio lutto, almeno non quel giorno, il
giorno di Natale.
Il successo in società di cui godette
Mrs Lincoln durante il periodo natalizio
si protrasse fino a Capodanno. Migliaia
di persone visitarono la Casa Bianca in
occasione del tradizionale ricevimento
del primo dell’anno, e sebbene alcuni
ospiti continuassero a criticare le spese
della first lady per i lavori di
abbellimento e altri parlavano di
scandalo e corruzione, la maggioranza
dei visitatori dichiarò che la Casa
Bianca rimodernata era elegante e
sofisticata, molto più adatta a una
nazione gloriosa.
Poco dopo il ricevimento di
Capodanno fu organizzata una grande
serata di gala, e il mattino seguente Mrs
Lincoln ne parlò in termini entusiastici
mentre Elizabeth le prendeva le misure
per un abito. «Ho un’idea» dichiarò.
Anche se aveva parlato come per
un’ispirazione improvvisa, la sarta ebbe
l’impressione che avesse riflettuto a
lungo su cosa dire. «Siamo in guerra, e
dobbiamo spendere il meno possibile.
Come sapete, è tradizione che il
presidente tenga una serie di cene
ufficiali ogni inverno».
«Sì, certo». Elizabeth aveva vestito
la first lady per quasi tutte quelle
occasioni.
«Sono cene costose». Mrs Lincoln
scrollò il capo e sospirò, come se le
parole non bastassero a descrivere le
spese enormi. «Ho pensato che, se
organizzo tre grandi ricevimenti,
possiamo evitare le cene ufficiali. Cosa
ne pensate?»
Elizabeth rifletté. Un ricevimento in
grande avrebbe permesso ai Lincoln di
accogliere molti più ospiti a parità di
costi, ma c’era da considerare
cos’avrebbe pensato l’alta società di
Washington se il presidente avesse
abbandonato la tradizione. In ogni caso,
Mrs Lincoln aveva già deciso, e in quei
casi la cosa migliore era dichiararsi
d’accordo. «Credo che abbiate ragione,
Mrs Lincoln».
La first lady si rasserenò in volto.
«Sono felice di sentirvelo dire. Se
riesco a persuadere mio marito, non
incontrerò ostacoli alla realizzazione
della mia idea».
Prima che Elizabeth avesse finito di
lavorare per quel giorno, il presidente le
raggiunse
con
un’espressione
esasperata. «Vengo dal capezzale del
mio generale recalcitrante» disse
sospirando con aria grave mentre si
sedeva. «Almeno oggi può incolpare la
febbre tifoidea della scarsa voglia di
muoversi».
La moglie mormorò parole di
consolazione poi, per distrarlo da
quell’umore cupo o forse perché non
riusciva ad aspettare oltre, gli propose i
cambiamenti nel calendario sociale. Il
presidente rifletté, poi aggrottò le
sopracciglia e disse: «Mamma, temo che
il vostro piano non funzioni».
«Funzionerà, invece, se siete voi a
deciderlo».
«È uno strappo alla tradizione» si
limitò a osservare lui. In quelle
occasioni
l’etichetta
era
molto
complessa, con regole di comportamento
e un ordine scrupoloso degli ospiti per
rango. Il presidente e il segretario di
Stato si alternavano a organizzare
ricevimenti serali dall’ultima settimana
di gennaio fino a marzo, e la Casa
Bianca doveva sobbarcarsi anche cene
settimanali per diversi membri del
governo,
ufficiali
dell’esercito,
diplomatici e giudici della Corte
Suprema. Mettere fine a quegli
appuntamenti tradizionali rischiava di
offendere qualcuno.
«Dimenticate, papà, che siamo in
guerra, e le abitudini vecchie o superate
possono
e
dovrebbero
essere
accantonate» gli fece notare Mrs
Lincoln. «L’idea permetterebbe di
risparmiare, dovete ammetterlo».
«Sì, mamma, però vanno considerati
altri fattori oltre all’economia».
Elizabeth nascose un sorriso. La
questione
dell’economia
assillava
entrambi i Lincoln, soprattutto per la
nota liberalità con cui Mary sperperava
il denaro, ma la frugalità era diventata
uno strumento cui entrambi facevano
ricorso quando tornava loro utile e che
veniva invece passata sotto silenzio
quando non ne avevano più bisogno.
Mrs Lincoln di solito era la
spendacciona e il marito quello più
attento alle spese, ed era divertente
vedere che si erano scambiati i ruoli.
«Penso anche a un’altra cosa»
insistette Mrs Lincoln. «I ricevimenti
pubblici sono più democratici di quelle
stupide cene di ufficali, e sono quindi
più consoni alle istituzioni del nostro
paese, come direste voi se doveste
imbastire un discorso. In città ci sono
molti forestieri, stranieri oppure no, che
potremmo invitare ai ricevimenti ma non
alle cene».
Mr Lincoln ci pensò ancora. «Credo
che abbiate ragione, mamma» dichiarò
infine. «Avete difeso con abilità il
vostro punto di vista. Credo che
dovremo optare per i ricevimenti».
Quando lo sguardo del marito si
rivolse altrove, la first lady lanciò a
Elizabeth un’occhiata trionfale. Quel
giorno aveva vinto lei.
Nonostante tutti i discorsi sul
risparmio, per il primo ricevimento Mrs
Lincoln decise di organizzare un grande
ballo nell’East Room. Quando si diffuse
la notizia della sua dispendiosa
iniziativa, ancora una volta fu al centro
delle critiche, non solo dei soliti che le
davano addosso a ogni occasione, i
giornalisti e gli appartenenti ai circoli
popolari, ma anche dei segretari di
gabinetto del marito, che cominciarono a
chiamarla “strega” alle sue spalle ma al
cospetto di Elizabeth. Quest’ultima non
riferiva alla sua cliente di quell’aperta
ostilità per non farla soffrire, ma sapeva
che i commenti più crudeli di solito
viaggiavano veloci dagli uffici fino
all’oggetto di scherno, passando dagli
alloggiamenti della servitù.
Se le frecciate dell’entourage la
ferirono, Mrs Lincoln finse indifferenza
e si buttò a capofitto nei preparativi.
Collaborò con Elizabeth per la
confezione di un abito nuovo, di raso
bianco, scollato e con le spalline basse,
con balze di pizzo nero, fiocchi bianchi
e neri e un lungo strascico elegante.
Progettò un menu elaborato di tacchino
arrosto, foie-gras, ostriche, manzo,
anatra, quaglie, pernici e aspic, seguito
da un assortimento di frutta, torte e
gelati, e creazioni spettacolari di
zucchero filato. Mandò settecento inviti
a uomini di spicco del governo e
consorti, oltre a certi amici cari,
personaggi importanti di Washington e
dignitari in visita. «Mezza città esulta
per avere ricevuto l’invito» Elizabeth
sentì dire al segretario particolare del
presidente, «mentre l’altra metà è
furiosa per essere rimasta tagliata
fuori». Il clima di attesa si fece
palpitante quando il New York Herald
predisse che il ballo sarebbe stato
«l’evento più spettacolare mai visto in
America».
Gli annunci pomposi della stampa
non bastarono a conquistare tutti. I soliti
detrattori, e molti altri, espressero il
proprio stupore e disgusto per il trionfo
della futilità rappresentato dal ballo e
dalla padrona di casa. Molti inviti
furono declinati, e quasi un centinaio
furono rispediti al mittente con
commenti indignati per quell’eccesso di
frivolezza proprio mentre la nazione era
sconvolta, angustiata e impoverita dalla
guerra. «Sono allibita da una simile
impertinenza da parte di un gentiluomo!»
esclamò Mary Lincoln rivolta a
Elizabeth un pomeriggio mentre leggeva
la posta. «Sentite cosa scrive il senatore
Benjamin Wade: “Il presidente e Mrs
Lincoln sanno che è in corso una guerra
civile? Se così non fosse, i coniugi
Wade ne sono invece al corrente, e per
questa ragione rifiutano di ballare e far
festa”». Mrs Lincoln sbatté la lettera sul
tavolo. «Se sappiamo che c’è una
guerra? Ma se non pensiamo ad altro!»
«Non riesco a immaginare qualcuno
che sia più consapevole della guerra del
presidente» commentò la sarta.
Indignata, la first lady balzò in piedi
e si avvicinò alla finestra a grandi passi.
«Se annullare il ballo servisse a far
terminare subito la guerra, o almeno ad
accordare un’ora di riposo a un soldato
stanco, sarei la prima a proporlo».
Elizabeth mormorò parole di
consolazione finché Mrs Lincoln non si
fu calmata. Magari fosse stato così
semplice porre termine al conflitto... Ma
in quel momento, si accontentava di far
cessare le tempeste che si scatenavano
ogni volta che qualcuno offendeva la
first lady. I critici giudicavano le sue
azioni senza capire i motivi che le
animavano, perciò le critiche erano
sempre ingiuste e ben di rado accurate.
Vista la situazione, che non pareva
destinata a cambiare, la moglie del
presidente avrebbe fatto bene a coltivare
la calma e a imparare a ignorarle. Un
silenzio dignitoso era spesso la reazione
migliore alle chiacchiere malevole; ma
Mrs Lincoln non era fatta così.
Qualche tempo dopo, la first lady fu
distratta dalla frenesia dei preparativi
quando Willie si buscò un brutto
raffreddore cavalcando il suo pony con
il maltempo. Pochi giorni prima del
ballo le sue condizioni peggiorarono, e
gli venne la febbre. Elizabeth aveva
accudito entrambi i bambini quando si
erano ammalati di morbillo e di molte
altre malattie, e anche questa volta Mrs
Lincoln la chiamò al capezzale del
figlio. Con amorevole efficienza,
Elizabeth si occupò di Willie – un
bambino dolce, educato, sensibile,
adorato da tutti – e cercò di confortare
la madre, che si preoccupava senza
sosta, come faceva sempre quando uno
dei suoi figli non stava bene. Aveva
perso il secondogenito, Eddie, per colpa
della tubercolosi prima che compisse
quattro anni, e viveva nel terrore di
veder morire un altro figlio.
Presto apparve evidente che il
bambino stava diventando sempre più
debole. Un pomeriggio, Elizabeth era
accanto al suo letto e gli premeva una
pezza bagnata sulla fronte mentre Mary
Lincoln
indugiava
nei
paraggi,
raccontando a Willie storielle divertenti
sui suoi animali domestici; ma il piccolo
era troppo intontito dalla febbre per
prestarle attenzione. Mr Lincoln andò a
chiedere notizie del figlio, come faceva
spesso durante il giorno. «Come sta il
mio ragazzo?» si informò.
«Sembra
stabile
rispetto
a
stamattina» replicò Elizabeth. «Non è
peggiorato ma neanche migliorato».
«Forse si riprenderà presto» disse il
presidente, ma i suoi occhi non si
illuminarono di autentica speranza.
Elizabeth cercò di fare un sorriso
incoraggiante. «Ho visto bambini
guarire da malanni ben più gravi».
«Dovrei annullare il ballo» dichiarò
angustiata la moglie. «È ridicolo
pensare di organizzare un simile evento
con nostro figlio malato. Posso annullare
tutto, rimandare a dopo la sua
guarigione».
«No, il ricevimento si deve fare»
dichiarò il presidente. «Avete già
investito fin troppo tempo e denaro per
annullare ora».
«Non sarebbe un problema» insistette
Mrs Lincoln con voce tesa. «I nostri
ospiti capirebbero, ne sono sicura, e se
mando un messaggio ai responsabili del
banchetto non dovrebbero incontrare
nessuna difficoltà a rimandare di una
settimana o due».
Il presidente sprofondò in un silenzio
pensoso per qualche istante, poi
propose: «Perché non consultiamo prima
il dottor Stone?»
Sua moglie si dichiarò d’accordo,
così fu mandato a chiamare il medico di
famiglia, che non molto tempo dopo si
presentò per esaminare il paziente.
«Vostro figlio sta nettamente meglio»
annunciò il dottor Stone dopo aver
verificato il polso del bambino, averne
ascoltato la respirazione e avergli
rivolto qualche domanda sui sintomi che
avvertiva. «C’è ogni ragione di sperare
che presto guarisca completamente».
«Oh, grazie al cielo!» esclamò con
enfasi Mrs Lincoln. «E cosa pensate del
ricevimento?»
«Non vedo perché non dovrebbe
procedere come previsto» rispose il
dottore, riponendo i suoi strumenti nella
borsa. «Vi assicuro, presidente, signora,
che nell’immediato vostro figlio non
corre alcun pericolo».
Mrs Lincoln giunse le mani come se
volesse
pregare
e
ringraziò
calorosamente il dottor Stone, ma dopo
la sua partenza il breve attimo di
vivacità si spense. «Per quanto sia felice
delle buone notizie, non ho nessuna
voglia di danzare con Willie che sta così
male».
«Se non vi va di ballare, non ballerà
nessuno»
replicò
il
presidente.
«Andiamo, mamma. Non saremo lontani.
Possiamo venire di sopra a controllare
come sta tutte le volte che volete, e sono
sicuro che possiamo contare su Mrs
Keckley perché lo assista in nostra
assenza, vero?»
«Certo» rispose Elizabeth. «Resterò
anche tutta la notte, se volete».
Rassicurata, Mary Lincoln accettò di
procedere come convenuto e riprese a
seguire l’organizzazione della serata.
Anche dopo che Tad si ammalò a sua
volta, i Lincoln tennero a mente la
diagnosi del dottor Stone e andarono
avanti con il programma prestabilito,
sperando che i loro bambini si
riprendessero alla svelta.
La sera del ricevimento, Elizabeth
arrivò presto per vestire la sua cliente e
la trovò seduta al capezzale di Willie,
tesa e pensierosa, con la manina del
bambino tra le sue. «La febbre è
aumentata da ieri» sussurrò a Elizabeth.
«Il dottore insiste nel dire che non corre
nessun pericolo, ma io credo che sia
peggiorato».
Il
visetto
dolce
appariva
effettivamente più accaldato di quanto
non fosse parso a Elizabeth in
precedenza, e il bambino aveva il
respiro affannoso. «Come sta Tad?»
«Non bene, ma meglio di suo
fratello». La first lady sospirò e si alzò,
premendosi il dorso della mano sulla
fronte. «Meglio che mi vesta per il
ballo. E dire che prima lo aspettavo con
tanta impazienza...»
Mrs Lincoln chiese a una domestica
di restare con Willie mentre Elizabeth la
aiutava a prepararsi per la serata. Nel
suo salottino privato, la sarta aiutò la
moglie del presidente a indossare
l’abito di raso bianco con lo strascico
lungo e le decorazioni nere e bianche,
poi le fece una pettinatura con fiori
bianchi e neri. Mrs Lincoln indossava
altri fiori sul petto, un bouquet da mezzo
lutto di mirto crespo in onore della
regina Vittoria, vedova da poco.
Mr Lincoln giunse per scortare al
piano inferiore la moglie prima che
questa fosse del tutto pronta, e mentre
aspettava che i preparativi fossero
ultimati volse le spalle al camino e si
mise ad aspettare con le mani conserte
dietro la schiena. Aveva un’espressione
solenne e, sebbene tenesse lo sguardo
fisso sul tappeto, sembrava molto
lontano con i pensieri.
Quando fu pronta, la first lady si
ammirò allo specchio con il lungo
strascico che ondeggiava sul pavimento.
Il fruscio del raso destò il presidente
dalle sue fantasticherie, e guardò la
moglie per un attimo prima di fare un
sorriso quasi impercettibile. «Accidenti!
La nostra gatta ha la coda lunga,
stasera».
Mrs Lincoln lo guardò con le
sopracciglia sollevate ma non fece altri
commenti.
«Mamma» disse, posando lo sguardo
sulle braccia e il collo nudi, «ritengo
che se quello strascico coprisse anche il
busto, sarebbe meglio».
Capitava di rado che Elizabeth non
fosse d’accordo con il presidente, ma in
quel caso non condivideva la sua
opinione. Le spalle e il décolleté
splendidi di Mary Lincoln erano il suo
punto forte, e la scollatura profonda
dell’abito li metteva in risalto. Mrs
Lincoln volse le spalle al marito con
l’aria offesa, ma poco dopo accettò il
suo braccio e scesero insieme per
accogliere gli ospiti.
Elizabeth tornò nella stanza del
bambino malato, dove Willie, madido di
sudore, dormiva un sonno leggero e
disturbato. Poco dopo udì la banda della
Marina che cominciò a suonare nei
saloni dove si svolgeva il ricevimento,
al piano inferiore, e la musica si librò
fin di sopra e lungo i corridoi come
sussurri bassi e lontani di anime in pena.
Durante tutta la sera Mary Lincoln
lasciò spesso gli invitati per andare a
controllare come stava il suo adorato
figlio, talvolta accompagnata dal marito.
Chiedeva con ansia a Elizabeth se
c’erano stati cambiamenti, ma ogni volta
la sarta rispondeva scrollando il capo.
Poco prima della fine del ballo, Willie
sembrò avere difficoltà a respirare, ma
dopo un’ora particolarmente penosa la
respirazione divenne più facile. Non
appena gli ospiti se ne andarono, Mrs
Lincoln raggiunse Elizabeth al capezzale
del bambino e insieme lo vegliarono
finché le prime luci dell’alba non fecero
capolino oltre la linea dell’orizzonte.
«Dovreste riposarvi, Elizabeth»
disse la first lady con voce arrochita
dalla stanchezza e dalla preoccupazione.
«Sto bene, Mrs Lincoln» replicò la
sarta con dolcezza. «Perché invece non
andate voi a dormire?»
«Non servirebbe, non potrei prendere
sonno. No, Elizabeth, avete vegliato
Willie più di me. Insisto perché andiate
a riposare».
Elizabeth sapeva che non sarebbe
servito a niente discutere. «E va bene,
Mrs Lincoln». Si alzò stancamente,
inarcando la schiena per alleviare
l’indolenzimento. «Dormirò un poco, ma
tornerò qui non appena mi sarò
svegliata, così potrò darvi il cambio».
Mrs Lincoln annuì distrattamente,
senza distogliere gli occhi dal figlio che
soffriva.
Elizabeth trovò il letto che le era
stato preparato nell’ala riservata alla
servitù, rimase in sottoveste e si sdraiò
tirandosi il piumino fin sotto il mento.
Dormì un sonno inquieto e si svegliò
poco prima di mezzogiorno serbando un
vago ricordo di terribili sogni
premonitori. Qualcuno gentilmente le
aveva lasciato un bricco d’acqua
accanto alla bacinella, e dopo essersi
lavata in fretta corse giù per dare il
cambio a Mrs Lincoln, scoprendo che
Willie non era migliorato in sua assenza.
Nel corso dei giorni successivi
Willie peggiorò inesorabilmente sotto lo
sguardo dei genitori, che aspettavano
pregando. Il presidente annullò una
riunione con i ministri e la moglie una
cena di gala per non allontanarsi dal
capezzale del bambino. Il miglior amico
di Willie, Bud Taft, andò a trovarlo e si
addormentò sul pavimento, deciso
com’era a non allontanarsi dal
compagno di giochi preferito. Elizabeth
si prese cura di tutti loro, senza
trascurare neppure il piccolo Tad, che
non stava male come il fratello ed era
stato sistemato in un’altra stanza.
Rimaneva anche la notte alla Casa
Bianca quando c’era bisogno di lei, e
correva a casa sua per riposare e
cambiarsi d’abito quando potevano fare
a meno dei suoi servigi. Nel frattempo
Mrs Lincoln vegliava al capezzale del
figlio, ossessionata senza dubbio dal
ricordo dei giorni lontani e strazianti di
più di dodici anni prima, quando aveva
assistito al decesso di suo figlio Eddie.
Il 20 febbraio, in una giornata calda e
soleggiata, Willie esalò il suo ultimo
respiro. Dopo tutte le ore in cui
Elizabeth l’aveva vegliato, al momento
della sua morte si trovava a casa
propria, dove un messo andò subito a
chiamarla. Si precipitò immediatamente
alla Casa Bianca e chiese di vedere Mrs
Lincoln, ma la first lady, inconsolabile e
devastata, era a letto. Elizabeth si fermò
a vedere come stesse Tad – il bambino
aveva la febbre, era addolorato e
spaventato – e poi andò ad aiutare a
preparare Willie, che fu lavato, vestito e
trasferito sul letto della Green Room, e
gli coprì amorevolmente il viso con un
lenzuolo bianco.
Elizabeth lo stava vegliando da sola
quando entrò Mr Lincoln, con il viso
terreo e smunto, gli occhi rossi e
tormentati. La sarta era troppo sconvolta
e sofferente per parlargli, così gli fece
un cenno rispettoso e si spostò ai piedi
del letto per lasciarlo avvicinare. Non
aveva mai visto un uomo tanto prostrato
dal dolore, e ne aveva visti molti, così
tanti da non riuscire neanche a contarli.
Mr Lincoln levò il lenzuolo dal viso
di suo figlio e lo guardò a lungo
teneramente. «Il mio povero bambino,
troppo buono per questa terra»
mormorò. «Dio l’ha fatto tornare a casa.
So che sta meglio in cielo, ma lo
amavamo tanto... La sua morte è una
tragedia!»
Terribili singhiozzi gli impedirono di
continuare. Elizabeth ebbe le lacrime
agli occhi guardando il padre straziato
nascondere il viso tra le mani, mentre il
corpo angoloso era scosso dai singulti.
Avrebbe voluto più di ogni altra cosa
offrirgli parole di conforto, ma sapeva
che nessuna frase sarebbe stata
adeguata; non poté far altro che serbare
il silenzio.
Più tardi Elizabeth tenne compagnia a
Mrs Lincoln nella sua stanza, dove le
tende erano state tirate e gli specchi
coperti. Tornò da lei l’indomani e la
trovò in uno stato di prostrazione
preoccupante. Si lamentava, piangeva,
era inconsolabile, distrutta dal dolore,
incapace di alzarsi dal letto e perfino di
occuparsi di Tad, ancora convalescente.
Mentre la Casa Bianca veniva
addobbata di crespo nero in segno di
lutto, la first lady fu vittima di crisi
parossistiche, con grida e pianti violenti
che spaventarono Tad e preoccuparono
la sarta, incapace di aiutarla. Il dottor
Stone prescrisse il laudano, ma quando
il torpore indotto dal farmaco si
dissipava, Mrs Lincoln sembrava stare
peggio di prima. Elizabeth aveva
assistito molte persone malate, ma non si
era mai trovata di fronte un caso di
isteria come quello della first lady, e
non sapeva in che modo esserle d’aiuto.
Con suo grande sollievo il presidente
non ci mise molto a capire che la sarta
non sapeva come muoversi, e prese
disposizioni affinché Rebecca Pomroy,
un’infermiera che lavorava in un
ospedale militare, fosse trasferita alla
Casa Bianca per occuparsi di Mrs
Lincoln e di Tad.
Grazie alle cure dell’infermiera
Pomroy, Mrs Lincoln trovò la lucidità
necessaria per scrivere a Mrs Taft,
domandandole di lasciare a casa i
bambini per il funerale perché vedere
gli amici con cui il figlio aveva
trascorso tanti momenti felici l’avrebbe
devastata. Elizabeth non raccontò mai
alla first lady che suo marito aveva
permesso segretamente a Bud di andare
alla Casa Bianca per vedere un’ultima
volta Willie prima che fosse trasferito
nella bara. Poco dopo Mrs Lincoln si
alzò dal letto per andare a dirgli addio,
in privato, insieme al marito e ai due
figli che le restavano, nell’East Room,
dove si sarebbe svolta la cerimonia più
tardi, quello stesso giorno. Mary Lincoln
stava troppo male per essere presente
alla celebrazione, così si ritirò nelle sue
stanze mentre membri del Congresso,
segretari di gabinetto, diplomatici,
generali e dignitari vari sfilarono per
rendere omaggio e porgere le
condoglianze.
Una settimana dopo la morte di
Willie il presidente si chiuse nella
Green Room per stare da solo con i suoi
pensieri, ricordare il figlio beneamato,
pregare. Nelle settimane seguenti, ogni
giovedì osservò quel rituale funebre
privato, che sembrava dargli sollievo.
Tad migliorò giorno dopo giorno sotto
gli occhi attenti dell’infermiera Pomroy,
ma siccome accettava di prendere le
medicine solo da suo padre, il
presidente doveva spesso assentarsi
dalle riunioni per somministrare le dosi
necessarie. Robert pianse la morte del
fratellino ma si sforzò di mantenere un
atteggiamento coraggioso e virile, e quel
tentativo sembrò effettivamente dargli
forza. Solo lo strazio di Mrs Lincoln non
sembrava lenirsi col tempo. Passava da
momenti di dolore paralizzante a una
frenesia disperata, e gli scoppi
improvvisi di pianto spaventavano Tad e
allarmavano tutti gli occupanti della
Casa Bianca.
Elizabeth era presente il giorno in cui
Mr Lincoln rivelò inavvertitamente di
temere che la moglie non si riprendesse
più da quelle crisi di nervi. La first lady
era in preda a una delle sue crisi di
pianto disperato; Mr Lincoln la prese
dolcemente
per
un
braccio,
l’accompagnò alla finestra e indicò con
un gesto solenne il St Elizabeths
Hospital in lontananza.
«Mamma» esordì, «vedete quel
grande palazzo bianco, su quella collina
laggiù?»
Mrs Lincoln annuì con gli occhi
sgranati.
Tutti
a
Washington
conoscevano l’ospedale psichiatrico, un
edificio celebre e imponente.
«Cercate di controllare il vostro
dolore»
continuò
il
presidente
imperturbabile «o impazzirete e ci
toccherà mandarvi là».
Elizabeth soffocò un grido d’orrore.
L’ipotesi di un simile destino per Mrs
Lincoln era troppo terribile da
concepire, e non poteva credere che il
presidente parlasse in quel modo alla
moglie sofferente. Ma nei giorni seguenti
parve che quell’avvertimento la
inducesse a riprendere il controllo dei
nervi. Robert era così preoccupato dalla
lentezza dei progressi materni che
implorò la zia Elizabeth Edwards di
tornare alla Casa Bianca, sperando che
riuscisse a confortarla, sebbene le due
sorelle avessero litigato l’autunno
precedente. Al suo arrivo Mrs Edwards
trovò la sorella minore a letto, incapace
di reagire alla disperazione, e il nipote
Tad in lacrime per la morte del fratello.
La sarta si rese conto che la presenza di
Mrs Edwards portò un immediato
sollievo a tutta la famiglia. Fu lei che
riuscì a persuadere la sorella ad alzarsi
dal letto, vestirsi, e infine andare in
chiesa per partecipare alle funzioni.
Nonostante i lievi miglioramenti,
però, la first lady era spesso sopraffatta
dal dolore e trascorse gran parte del
mese successivo asserragliata dentro la
Casa Bianca. Elizabeth era spesso con
lei, le confezionava il guardaroba per il
lutto e le offriva tutto il sostegno di cui
era capace. Una volta in cui Mrs
Edwards non c’era, la moglie del
presidente disse a un tratto: «Se Willie
fosse vissuto, sarebbe stato la speranza
e il bastone della mia vecchiaia». Aveva
la voce bassa e lo sguardo assente. «Ma
la Provvidenza non ha voluto
risparmiarlo».
La sarta, avendo a sua volta perso un
figlio, la capiva benissimo. Aveva
sperato che George facesse una carriera
brillante per contare su di lui negli anni
della vecchiaia, ma la Provvidenza non
aveva risparmiato nemmeno lui.
Con la stessa voce assente Mrs
Lincoln aggiunse: «Sono convinta che la
morte di Willie sia la punizione per i
miei peccati, per la mia vanità e per
aver assecondato le mie passioni».
«Cosa?» esclamò Elizabeth. «Non
parlerete sul serio!»
«Ha cominciato a stare male la sera
del mio grandioso ricevimento» ribadì
la first lady amaramente. «Non è forse
un chiaro segno del giudizio di Dio?»
«Oh, no, Mrs Lincoln». Elizabeth
scosse il capo. «No. Dio non è così
crudele».
«Davvero?» Mary Lincoln spinse lo
sguardo fuori dalla finestra, ma
Elizabeth non vide dove lo posò. Sul
campanile della chiesa? Sugli ospedali
pieni di soldati feriti? Sul St Elizabeths
sull’altra sponda del fiume Anacostia?
«Se il Suo castigo è giusto, chi siamo
noi per considerarlo crudele?»
6.
Marzo-aprile 1862
Nelle settimane che seguirono la morte
di Willie, Mrs Lincoln lottò per
affrontare e superare ogni singolo
giorno. Evitava le apparizioni in
pubblico e restava aggrappata alla
sorella, Mrs Edwards, che spesso la
sostituiva quando non si sentiva di
ricevere visite. Evitava di entrare nella
Green Room, dove era stata allestita la
camera ardente del figlio, e non invitò
mai più i due piccoli Taft alla Casa
Bianca. Serbò i fiori che erano stati
deposti sulla bara il giorno del funerale
e la commovente orazione funebre del
poeta Nathaniel Parker Willis, ma regalò
tutti i suoi giocattoli. Non riusciva a
sopportare qualunque cosa glielo
ricordasse, eppure il figlio era sempre
nei suoi pensieri.
Anche Mr Lincoln soffriva per la
morte di Willie, ma non poteva
permettersi il lusso di isolarsi dal
mondo. Al Congresso i dissidi non
mancavano, la questione degli schiavi
non era ancora stata risolta e il conflitto
continuava.
I confederati avevano rubato la
fregata
a
vapore
Merrimack
dall’arsenale di Norfolk, avevano
eliminato la parte superiore dello scafo,
l’avevano rivestita di una corazza di
ferro e ribattezzata Virginia prima di
mandarla sul fiume James a sbaragliare
la flotta dell’Unione. Il giorno dopo
l’Unione si vendicò ricorrendo alla
propria corazzata, la Monitor, che con
la forma insolita del ponte e la torretta
rotante stupì tutti coloro che assistevano
alla battaglia dalle altre imbarcazioni di
entrambi gli schieramenti o dalle due
sponde. Nessuna delle due corazzate
inflisse danni ingenti all’altra, ma il
Nord riuscì a mantenere il blocco su
Norfolk e Richmond, e a rivendicare
quindi la vittoria.
Qualche settimana dopo, all’inizio di
aprile, l’Unione sconfisse gli stati
confederati a Shiloh, in Tennessee. Fu la
battaglia più sanguinosa di tutta la
guerra fino a quel momento, con più di
tredicimila uomini uccisi, feriti o
dispersi per l’Unione e undicimila per il
Sud. Tra i soldati che persero la vita vi
fu il fratellastro della first lady, Samuel
B. Todd, ufficiale che combatteva con il
Ventiquattresimo Reggimento Louisiana.
La sua morte ricordò ai detrattori della
first lady dei suoi legami familiari con i
secessionisti e risollevò le vecchie e
sterili questioni sulla sua lealtà; secondo
Elizabeth un gesto mostruoso in un
momento simile, che denotava una grave
mancanza di rispetto per il suo lutto.
Dopo la faticosa vittoria, il generale
Ulysses S. Grant fu criticato dalla
stampa e molti esigevano la sua
rimozione, ma il presidente Lincoln
replicò: «Non posso fare a meno di
quest’uomo, perché combatte».
Anche
il
presidente
Lincoln
combatteva, su altri fronti. Le recenti
conferenze contro la schiavitù alla
Smithsonian
Institution
avevano
suscitato un coro di richieste di
emancipazione
da
parte
degli
abolizionisti
e
delle
fazioni
repubblicane più radicali al Congresso.
Alcuni degli ufficiali militari avevano
preso l’iniziativa di liberare gli schiavi
in particolari circostanze, e non sempre
con l’avallo del presidente. Da più di un
anno gli abolizionisti sostenevano che
l’Unione non poteva sperare di vincere
la guerra se non avesse privato la
Confederazione della sua forza lavoro
emancipando gli schiavi. Frederick
Douglass, ex schiavo e strenuo difensore
dei neri che Elizabeth ammirava molto,
contribuì alla causa scrivendo sul suo
giornale: «Fermate la zappa in mano ai
negri e soffocherete la ribellione sul
nascere». Nel luglio 1861, il generale
Benjamin Butler aveva messo a lavorare
tre schiavi fuggiti a Fort Monroe,
dichiarandoli “contrabbando di guerra”
e negando di doverli restituire ai
proprietari in base alla Fugitive Slave
Law, la legge che regolamentava le
sanzioni per gli schiavi fuggiaschi,
perché venivano da uno stato che aveva
abbandonato l’Unione. Il Congresso
confermò la legittimità della decisione
del generale Butler; da quel momento in
poi altri ex schiavi “di contrabbando”
ricevettero proposte di lavoro per
contribuire allo sforzo bellico, e il loro
numero aumentò rapidamente. Alla fine
di agosto, e senza l’autorizzazione del
presidente, il maggior generale John C.
Frémont, comandante della Divisione
Ovest dell’esercito, proclamò la
liberazione
degli
schiavi
della
Confederazione nello stato del Missouri.
Il presidente si infuriò quando apprese
ciò che aveva fatto Frémont, e gli ordinò
di revocare la decisione; quando
Frémont rifiutò, Lincoln lo fece di
persona, suscitando le ire degli
abolizionisti del Nord e attirandosi
molte critiche.
L’evidente riluttanza di Lincoln a
liberare gli schiavi stupiva e deludeva
Elizabeth, ma più lavorava alla Casa
Bianca e più lo conosceva, più capiva
che desiderava abolire la schiavitù, ma
con modi e tempi suoi. Il presidente, la
sarta l’aveva capito, temeva che
un’emancipazione immediata e totale
avrebbe indotto gli stati schiavisti
confinanti con il Nord a lasciare
l’Unione
per
legarsi
alla
Confederazione; Elizabeth non gli
invidiava quelle preoccupazioni.
Ma all’inizio della primavera del
1862 gli atteggiamenti erano cambiati e
si erano presentate delle opportunità.
Incoraggiato dalle richieste sempre più
pressanti dei cittadini, e ispirato forse
dai rapporti dei suoi comandanti di
campo che usavano gli ex schiavi
fuggiaschi come uomini di fatica, cuochi
o infermieri, il presidente Lincoln
dovette decidere che era il momento di
sostenere la causa abolizionista. Un
mattino ai primi di marzo convocò alla
Casa
Bianca
il
senatore
del
Massachusetts Charles Sumner per
leggergli la prima versione di una legge
che avrebbe consentito ai singoli stati di
procedere all’emancipazione all’interno
del proprio territorio. I proprietari di
schiavi sarebbero stati indennizzati per
la perdita economica con fondi federali,
e gli schiavi liberati avrebbero avuto
l’opportunità di emigrare verso un certo
numero di colonie in Africa o in
America Centrale. In passato il senatore
abolizionista aveva criticato quelle
forme
di
compensazione,
ma
riconoscendo l’opportunità di un
cambiamento reale e duraturo che la
legge produceva, decise di appoggiarle.
Nel giro di poche ore lui e il suo
collega, il senatore del Massachusetts
Henry Wilson, sottoposero al Congresso
un progetto di legge che prevedeva
l’emancipazione degli schiavi nel
distretto di Columbia.
Al cospetto dei senatori Henry
Wilson parlò con grande eloquenza dei
contributi che la popolazione nera libera
aveva dato al distretto, del modo in cui
si erano elevati e avevano creato scuole,
chiese,
imprese
commerciali
e
organizzazioni caritatevoli. Tutti quei
risultati erano stati realizzati nonostante
le forme di discriminazione ingiuste che
ne avevano limitato la vita e la libertà.
Pagavano tasse per scuole che i loro
figli non avevano il diritto di
frequentare, un’ingiustizia terribile. Era
ora che diventassero del tutto liberi, e
nessun cittadino onesto aveva ragione di
temere che gli schiavi emancipati non
avrebbero seguito il loro illustre
esempio, diventando membri operosi
della società una volta liberi.
Non tutti erano d’accordo con il
senatore Wilson, naturalmente, o con un
altro importante sostenitore della legge,
Thaddeus Stevens, il leader della
fazione radicale del partito repubblicano
e l’avvocato che aveva rappresentato
Emma e sua madre nella causa legale
che aveva garantito loro la libertà tanto
attesa. La corrente che più si opponeva
al progetto era capeggiata da Clement
Vallandigham dell’Ohio, dell’ala più
estrema del partito democratico, e il
dibattito durò diversi giorni. Walker
Lewis e alcuni altri esponenti in vista
della comunità nera di Washington si
recarono ogni giorno al Senato, nella
zona destinata al pubblico, per ascoltare
i diversi interventi, suscitando il fastidio
e anche la preoccupazione di alcuni
senatori, in particolare Garret Davis del
Kentucky, che interruppe un discorso
violentemente contrario alla proposta di
legge per protestare con astio:
«Immagino che tra qualche mese
affolleranno la tribuna al punto da
cacciare le signore bianche!» Walker e i
suoi compagni non si lasciarono
intimidire e continuarono a seguire i
dibattiti per poi aggiornare il resto della
comunità di colore, che aspettava con
grande impazienza e speranza che la
legge passasse.
I giornalisti seguivano la vicenda in
veste più ufficiale; il National
Republican elogiava il senatore Wilson
ma l’Evening Star, quotidiano di
Washington, avvertiva che il progetto
della
legge
sull’emancipazione
consisteva nell’imporre l’uguaglianza
dei neri all’uomo bianco. A New York
Horace Greeley, che per anni aveva
criticato il presidente Lincoln dalle
pagine del Tribune, fu talmente
entusiasta per la proposta che ringraziò
l’Onnipotente di avere reso Lincoln
tanto saggio. Lincoln non commentò
l’appoggio di Greeley in presenza di
Elizabeth, ma la first lady non fece
neppure lo sforzo di nascondere la
propria diffidenza. «Oggi copre di
complimenti mio marito» disse, agitando
una mano con un gesto insofferente.
«Domani
potrebbe
benissimo
ricominciare con le critiche».
A Elizabeth sembrava che a
Washington la popolazione bianca non
condividesse l’opinione di Mr Greeley
sul presidente. In lettere e petizioni a
membri del Congresso, direttori di
giornali e altre persone influenti, molti
domandavano che la legge venisse
respinta. Chi possedeva schiavi era
contrario al progetto per motivi
superflui da spiegare, ma anche alcuni
cittadini che non avevano mai avuto
schiavi denunciavano la legge, perché
secondo loro l’emancipazione avrebbe
spalancato le porte a un’ondata di neri
liberi che avrebbero rubato il lavoro ai
bianchi; gli schiavi fuggiaschi si
sarebbero rifugiati a Washington,
diventando un peso per la comunità. In
tempo di guerra, il governo non poteva
permettersi di indennizzare i proprietari
di schiavi del distretto con somme fino a
trecento dollari per schiavo, come
prevedeva la legge; sarebbe stato più
prudente,
più
oculato,
e
complessivamente migliore, lasciare che
fossero loro, per il momento, a
occuparsi del mantenimento degli
uomini di loro proprietà piuttosto che se
lo accollasse lo stato.
Gli oppositori del progetto potevano
protestare e lamentarsi quanto volevano,
ma il governo federale non aveva
bisogno della loro approvazione per
sottoporre la proposta al voto. Il 3
aprile
il
Senato
approvò
il
provvedimento con ventinove voti a
favore e quattordici contrari, e qualche
giorno dopo anche la Camera dei
rappresentanti si pronunciò a favore, con
novantatré voti contro ventinove. A quel
punto il presidente Lincoln aspettò
quattro giorni, durante i quali ascoltò
con rispetto gli argomenti dibattuti
appassionatamente dai due schieramenti,
e il 16 aprile, una bella giornata di
primavera, promulgò la legge.
Con qualche svolazzo di penna,
aveva abolito per sempre la schiavitù
nella capitale degli Stati Uniti.
I residenti neri di Washington
reagirono con slanci di gioia. In tutti i
quartieri abitati da gente di colore si
moltiplicarono le grida giubilanti e gli
inni di ringraziamento: gli esponenti di
rilievo della comunità, sapendo che ogni
loro azione era osservata e giudicata,
esortarono le persone a manifestare in
modo contenuto e senza esagerare. Una
tale discrezione veniva naturale a
Elizabeth, ma perfino lei rise, esultò e si
mise addirittura a ballare con Virginia in
salotto quando apprese la notizia. «Se
avessi saputo cosa ci aspettava, avrei
risparmiato il mio denaro» commentò un
altro residente della pensione, un
vecchio calzolaio che si era comprato la
libertà da poco. La battuta fu così
comica che tutti quelli che erano a
portata di orecchio scoppiarono a
ridere, un suono squillante pieno di
felicità, che faceva eco ad altri
festeggiamenti in giro per la città. La
fiducia nel presidente era stata
rinnovata, così come la volontà di
assistere all’abolizione della schiavitù
ovunque, per tutti, per sempre.
La domenica Elizabeth si unì agli
altri fedeli alla Union Bethel Church,
dove chi era nato libero, si era
affrancato o aveva appena conquistato la
libertà grazie alla legge ringraziò il
Signore e celebrò l’avvenimento. La
sarta apprezzò la predica del pastore, il
quale pronunciò parole commosse di
giubilo e di gratitudine per Dio, che li
aveva liberati dalle catene. Eppure
serpeggiava tra i fedeli un sentimento
più amaro: non dimenticavano i
moltissimi altri della loro razza che non
avevano goduto della nuova legge, e
capivano che la libertà comportava non
poche
responsabilità.
«Dobbiamo
impegnarci» dichiarò il pastore, come
altri esponenti della Chiesa stavano
indubbiamente facendo nelle altre chiese
nere di tutta Washington «a ricorrere
all’operosità, alla forza di carattere e
alla dirittura morale per dimostrarci
degni dello splendido privilegio appena
ricevuto. Siamo sempre stati un popolo
rispettoso della legge e obbediente, e
anche in futuro dobbiamo tentare di
vivere in modo tanto giusto ed
esemplare da far dimenticare un giorno a
chi oggi è deluso dalla promulgazione
della legge del perché vi si fosse
opposto».
Le speranze di Elizabeth nei confronti
dei cittadini bianchi di Washington,
indignati dagli eventi, erano meno
ambiziose. Non si augurava che
dimenticassero addirittura le loro
obiezioni, ma sperava almeno che
accettassero l’emancipazione come un
dato di fatto, e che dimostrassero una
maggiore tolleranza per la gente nera
che, come loro, si considerava a casa
propria in quella città.
Il giorno dopo la promulgazione della
legge da parte del presidente, Elizabeth
cuciva nella sua stanza, con la finestra
spalancata per far entrare l’aria fresca
della primavera e il cinguettio degli
uccelli, quando qualcuno bussò alla sua
porta. In corridoio si trovava una donna
bianca di una trentina d’anni con i
capelli scuri, vestita con un abito
semplice di lana marrone. «Buon
pomeriggio» la salutò la sarta. «Posso
aiutarvi?»
La nuova arrivata le rivolse uno
sguardo speranzoso. «Siete Elizabeth
Keckley, la sarta specializzata in
mantua?»
«Sì».
«Piacere di conoscervi». La donna
tese la mano ed Elizabeth gliela strinse.
«Mi chiamo Mary Ames. Sono una
giornalista».
«Oh, Signore!» esclamò la sarta
senza riflettere, perché la sorpresa
l’aveva privata per un attimo del suo
abituale autocontrollo. «Volevo dire...
Perdonatemi, Mrs Ames. Il piacere è
mio».
«Va tutto bene, non fa niente». La
donna lanciò uno sguardo oltre le spalle
di Elizabeth, all’interno della stanza, e
la sarta fu felice che Mrs Lincoln non
avesse scelto proprio quel giorno per
farle una visita a sorpresa per parlare di
un nuovo abito. «Possiamo scambiare
due chiacchiere?»
«Mi dispiace molto, ma se siete a
caccia di informazioni sul presidente e
sua moglie...»
«Oh, no, no, non è assolutamente
questo il mio scopo» si affrettò a
precisare Mrs Ames. «Voglio scrivere
un articolo, ma il soggetto siete voi, non
i Lincoln».
«Perché mai vorreste parlare di me?»
La curiosità indusse Elizabeth a
spalancare la porta. «Chi mai vorrebbe
leggere un articolo su di me?»
«Per via della nuova legge
sull’emancipazione, naturalmente. Tutti
si
chiedono
quali
saranno
le
conseguenze, per Washington e per i
nuovi neri liberi. Vorrei scrivere un
articolo per descrivere come se la
cavano alcuni ex schiavi che hanno fatto
fortuna da quando sono giunti in città».
Fece un sorriso per ingraziarsela. «E chi
ha avuto un successo più grande di
quello della richiestissima sarta
Elizabeth Keckley? Passare da una
capanna di schiavi alla Casa Bianca è un
cambiamento notevole».
«Molto gentile da parte vostra». La
sarta fece un sorrisetto incerto. «Ho
sempre cercato di darmi da fare, e ho
avuto la fortuna di incappare in clienti
generose che mi hanno raccomandata
alle loro conoscenti».
«Oh, siete troppo modesta» protestò
Mrs Ames. «Avete saputo imporvi
grazie al talento e alla vostra
reputazione. Dovete sapere quanto vi
stimino le dame dell’alta società di
Washington. Quando ho chiesto in giro
di suggerirmi per un’intervista il nome
di qualche ex schiavo che avesse fatto
carriera, il vostro nome era quello più
ricorrente».
La sarta si esortò mentalmente a non
cedere alle lusinghe, ma la sua fermezza
vacillò. «Se accetto di farmi
intervistare, dev’essere chiaro che non
intendo diffondere pettegolezzi sulle mie
clienti».
«Certo». Un’ombra di disappunto
oscurò per un istante l’espressione
cordiale di Mrs Ames, ma si dissipò
subito. «La discrezione è essenziale tra
una sarta e la sua cliente, che viva alla
Casa Bianca o dietro l’angolo».
«Sono
contenta
che
lo
comprendiate».
«Non intendo pubblicare un articolo
scandalistico, Mrs Keckley» puntualizzò
Mrs Ames, poi tacque per riflettere
qualche istante. «Anche se il mio
direttore lo preferirebbe. Dopotutto, gli
scandali fanno vendere. Ma lo stesso
vale per gli articoli stimolanti e capaci
di ispirare i lettori, come quello che
vorrei scrivere io. La vostra storia
spingerà gli ex schiavi appena liberati a
mettere in pratica frugalità, operosità e
moralità per arrivare ad affermarsi
proprio come avete fatto voi». Quindi
aggiunse: «Può anche servire a
rassicurare i cittadini bianchi di
Washington sul fatto che non hanno nulla
da temere. I cambiamenti repentini a
volte
fanno
paura,
sapete,
e
l’emancipazione comporta cambiamenti
profondi».
Elizabeth esitava ancora. «Immagino
che non ci sarebbe nulla di male a
parlarvi. L’articolo potrebbe perfino
fare del bene».
«Assolutamente sì» dichiarò Mrs
Ames, mentre la padrona di casa la
invitava a entrare.
Elizabeth preparò il tè e si misero a
parlare
in
salotto.
All’inizio
l’intervistata era un po’ a disagio, si
esprimeva
con
mille
riserve,
chiedendosi come le sue clienti – Mrs
Lincoln in particolare – avrebbero
reagito a ogni sua parola. Alla seconda
tazza di tè si rilassò rievocando i giorni
della schiavitù, George, e la sua
incredibile nuova vita a Washington, e si
ritrovò a rivelare più di quanto non
avesse voluto sulle sofferenze del
passato. Solo quando la teiera si fu
raffreddata e Mrs Ames ebbe riempito
diverse pagine di appunti Elizabeth si
chiese se avesse parlato troppo.
«Quando sarà pubblicato l’articolo?»
domandò la sarta accompagnando la
giornalista alla porta.
«Forse già domani, se mi impegno»
replicò allegramente Mrs Ames.
Elizabeth aveva il batticuore per il
nervosismo quando la congedò. Si era
immaginata di avere più tempo per...
ecco, non esattamente per avvertire Mrs
Lincoln, ma per informarla che sarebbe
apparso
quell’articolo,
e
per
rassicurarla sul fatto che non aveva
raccontato indiscrezioni a proposito
della Casa Bianca. Non pensava di aver
detto nulla di offensivo, ma talvolta era
difficile immaginare come avrebbe
reagito la first lady. Con un po’ di
fortuna, sarebbe riuscita a leggere
l’articolo prima della moglie del
presidente... o forse Mrs Lincoln non
l’avrebbe letto per niente.
Il giorno dopo una delle vicine di
Elizabeth nella pensione dei Lewis
bussò alla sua porta e le consegnò
l’ultima edizione dell’Evening Post.
«So che dovete essere voi la “Lizzie”
dell’articolo» commentò Miss Brown
con gli occhi che le luccicavano per
l’entusiasmo. «Congratulazioni, mia
cara».
«Grazie» disse Elizabeth prendendo
il giornale. Chiacchierarono per qualche
minuto, ma non appena Miss Brown se
ne fu andata Elizabeth chiuse la porta, si
lasciò sprofondare in poltrona e sollevò
il giornale, ansiosa di leggere ciò che
aveva scritto Mrs Ames. Trasse un
respiro profondo e cominciò fissando
subito lo sguardo sul titolo, Vite degli ex
schiavi, e sul primo sottotitolo, “La
storia di una ragazzina in catene”. La
sarta scorse l’articolo su una bambina di
nove anni giunta dal Congo e si fermò
quando la colonna si interrompeva,
subito prima di un altro sottotitolo, “Una
donna nera di classe”. Si fece forza e
continuò.
Lizzie *** è una donna straordinaria ed
elegante. È scura di pelle, ma ha lineamenti
perfettamente regolari, occhi scuri e decisi,
capelli neri dritti e lucidi. Un sorriso un po’
triste ma dolcissimo rende il suo viso subito
simpatico a chi la guarda. È un viso forte, il
suo, che denota intelligenza e profondità di
sentimenti, con tratti che lasciano intuire una
grande bellezza ora offuscata dai torti subiti e
dal dolore.
L’inizio non è male, si disse Elizabeth. Il
suo nome era scritto con una grafia
diversa da quella che usava lei, ma il
direttore aveva rimosso il cognome per
proteggerne l’anonimato, e forse anche il
nome scritto in modo diverso serviva a
quello. Era piacevole scoprire che
conservava ancora tracce di bellezza
alla sua età, pensò divertita riportando
lo sguardo sul giornale.
Il padre di Lizzie era un gentiluomo del Sud, e
nelle vene di sua madre scorreva il miglior
sangue della Virginia.
Non posso raccontare i torti da lei subiti
durante l’infanzia e la prima giovinezza; se ci
provassi le mani si rifiuterebbero di scrivere
inorridite, e il cuore indignato soffocherebbe
le parole che mi verrebbero spontanee.
Da ragazza fu venduta a una famiglia che la
portò con sé in una grande città del Nordovest.
Per anni il “signore”, la “signora” e i numerosi
figli furono accuditi da questa giovane schiava
che lavorò sodo per loro. Il grande talento di
Lizzie e il suo gusto indubbio la trasformarono
nella sarta più in voga in quella grande città.
Guadagnò migliaia di dollari, che confluirono
nelle borse della famiglia del suo padrone. Le
ragazze della famiglia frequentavano la buona
società con indosso gli abiti meravigliosi
confezionati dalla giovane schiava che, tre volte
più intelligente di loro e quasi altrettanto bella,
aveva trascorso settimane e mesi chiusa in una
stanza, in casa, consacrando al cucito ogni
istante.
Elizabeth cominciò ad avvertire una
certa apprensione. Non aveva mai
chiamato Armistead Burwell padre; quel
titolo lo aveva sempre riservato al
fedele marito di sua madre, George
Hobbs, che aveva amato profondamente.
Né aveva mai definito «gentiluomo» il
colonnello Burwell; tale espressione
usciva dritta dritta dalla penna di Mrs
Ames. Ma non era quello il peggio. Non
aveva mai affermato di essere «tre volte
più intelligente» delle figlie dei suoi
padroni. Non cucivano bene quanto lei,
ma a essere sinceri ben poche donne
avrebbero saputo tenerle testa con ago e
filo. Erano ragazze intelligenti e argute,
e lei provava affetto nei loro confronti,
sebbene una certa tensione nei loro
rapporti avesse sempre impedito la
nascita di un rapporto d’amicizia vero e
proprio. Cosa diavolo avrebbero
pensato di lei se avessero creduto a
quell’articolo in cui Elizabeth vantava la
propria superiorità intellettuale? Poteva
solo sperare che la frattura esistente
nella nazione avrebbe impedito al
giornale di finire nelle loro mani;
oppure, se lo avessero letto, si augurava
capissero che la loro ex schiava non
aveva mai detto una cosa del genere ma
era stata travisata dalla giornalista.
L’articolo
proseguiva
con la
descrizione delle tappe del successo di
Elizabeth come sarta in quella «grande
città del Nordovest», di come avesse
acquistato la libertà, di come suo figlio
fosse morto sul campo di battaglia
indossando l’uniforme dell’Unione e
portando con sé «l’ultima speranza
terrena e l’ultimo conforto per il cuore
di sua madre», e di come lei avesse
«voltato le spalle all’Ovest, e fosse
giunta qui, stanca e demoralizzata, per
ricominciare da capo». Elizabeth reagì
con una smorfia infastidita ad alcuni
particolari
sbagliati
ed
errori
cronologici, ma nel complesso Mrs
Ames aveva descritto abbastanza
fedelmente le sue esperienze. Qualche
piccola inesattezza poteva essere
perdonata.
L’articolo continuava elogiando i
suoi successi da quando era giunta a
Washington.
È stata Lizzie a confezionare i meravigliosi
abiti di Mrs Lincoln, la cui eleganza è stata
ampiamente celebrata durante l’ultima stagione
invernale. È stata lei a vestire la first lady per
tutte le occasioni importanti. Carrozze
lussuose attendono alla sua porta, mentre le
altere proprietarie si sottopongono, docili
come agnellini, al giudizio di Lizzie che dice
loro cosa indossare. Lizzie è un’artista e ha il
dono di rendere belle le donne, e nessuna si
sognerebbe di mettere in dubbio i suoi
consigli. Così lei dimentica i suoi dolori, si
tuffa nel lavoro con ogni nuova cliente, come
se vestirla fosse l’obiettivo più importante
della sua esistenza. Ma di fronte a colei che le
ha teso la mano come a una sorella è scoppiata
in lacrime affermando: «Sono sola al mondo.
Non ho più nulla per cui vivere. Cerco di
lasciarmi assorbire da queste attività, ma non ci
riesco».
«Oh, mio Dio» mormorò Elizabeth
rivolgendosi alla stanza vuota. Non le
dava fastidio essere definita artista o
genio, ma dubitava che le sue clienti
sarebbero state felici di essere definite
«altere», «docili come agnellini» e
obbedienti a ogni suo ordine. La
conclusione del paragrafo, poi, la lasciò
del tutto sconcertata. All’inizio non
capiva chi fosse la «donna che le aveva
teso la mano come a una sorella»: forse
Mrs Le Bourgois, che aveva organizzato
l’intervento delle dame di Saint Louis in
suo favore per aiutarla a comprarsi la
libertà? Mrs Lincoln, forse? Poi intuì
che la giornalista parlava di sé,
rivendicando un ruolo di gran lunga
troppo
importante,
giacché
si
conoscevano appena. Era incredibile
anche apprendere che aveva pianto
durante l’intervista, perché Elizabeth
non aveva versato una sola lacrima.
Poteva avere rivelato di vivere da sola,
ma mai si era lagnata per il fatto di
essere sola al mondo, né avrebbe mai
affermato di non avere nulla per cui
vivere. Aveva il suo lavoro, gli amici, la
libertà, la fede: insomma, non si sarebbe
mai abbandonata alla disperazione.
Com’era imbarazzante pensare che ora
amici e clienti l’avrebbero creduta in
quelle condizioni... perché naturalmente
l’avrebbero riconosciuta subito, così
come aveva fatto Miss Brown. Cos’era
venuto in mente a Mrs Ames di inventare
frasi
tanto
sentimentali
e
di
attribuirgliele?
L’articolo proseguiva descrivendo
l’abitazione di Elizabeth, anche se per
fortuna evitava di precisare l’indirizzo
esatto o di indicare che viveva presso i
Lewis. Per ultima una frase che aveva la
pretesa di fornire un giudizio
drammatico e definivo sul soggetto:
«Donna riflessiva e raffinata, dai
sentimenti profondi e dalle aspirazioni
elevate, si erge sola nella sua
condizione
di
donna,
sola
nell’universo».
Perché Mrs Ames voleva a tutti costi
enfatizzare la sua solitudine? Elizabeth
non era senza amici, senza risorse,
abbandonata da tutti. Aveva perso suo
figlio, ma in quello condivideva il
destino di tante altre madri nel terribile
periodo della guerra. Aveva molti amici.
Godeva della protezione di Mrs Lincoln
e di altre grandi dame a Washington.
Non capiva cos’avesse detto o fatto per
dare alla giornalista quell’impressione
di solitudine profonda.
«Se si vuole scrivere della vita di
un’altra persona» sentenziò ad alta voce,
alzandosi dalla poltrona con il giornale
ancora stretto in mano «bisognerebbe
attenersi sempre alla verità. Tutto il
resto è solo uno spreco di carta,
inchiostro e parole».
Avrebbe dovuto gettar via il giornale
e dimenticare tutta quella storia, ma un
vago senso di orgoglio o di vanità la
indusse a ripiegarlo con cura e a
metterlo da parte nello stesso baule
dove conservava i ritagli degli abiti che
confezionava per Mrs Lincoln, gli
scampoli troppo piccoli per essere usati
che la first lady le permetteva
generosamente di tenere.
A un tratto Elizabeth si rese conto che
l’articolo avrebbe potuto essere di gran
lunga peggiore. Nonostante gli errori e
le invenzioni, Mrs Ames non aveva
scritto nulla di offensivo nei confronti di
Mrs Lincoln, elogiandone anzi lo stile e
l’eleganza. Questa era una fortuna non
da poco, e chiudendo il baule la sarta si
concesse un respiro di sollievo e decise
che in futuro avrebbe evitato di parlare
con i giornalisti. Non avrebbe tentato la
sorte rischiando una seconda volta
imbarazzo e scandali sulla carta
stampata.
7.
Maggio-ottobre 1862
In maggio, anche se soffriva ancora
profondamente per la sua perdita, Mrs
Lincoln fece uno sforzo per riprendere
le vecchie abitudini e assolvere ai suoi
doveri. Si costrinse a passeggiare nei
giardini della Casa Bianca con le
amiche che venivano a trovarla e a fare
dei giri in carrozza. Inviò mazzi di fiori
colti nella serra a conoscenti e dignitari
importanti, e affidò all’infermiera
Pomroy i manicaretti provenienti dalle
cucine della Casa Bianca perché li
distribuisse nelle corsie dell’ospedale
militare. I figli che le restavano, Tad e
Robert, quest’ultimo tornato a casa
dall’università per l’estate, le fornirono
la distrazione più efficace dal dolore.
Per settimane aveva accennato al
fatto che aria fresca e un cambiamento di
panorama le avrebbero fatto bene, così
Elizabeth non fu stupita quando Mrs
Lincoln annunciò che a metà giugno tutta
la famiglia si sarebbe stabilita nella
residenza estiva. L’Anderson Cottage,
raccontò alla sua sarta, era un edificio di
due piani con tanto di timpano e stucchi
situato sulla tenuta di duecentoquaranta
acri del Soldiers’ Home, un sanatorio
riservato alla convalescenza dei
veterani feriti. Si trovava circa tre
chilometri a nord della città, ed era un
rifugio fresco, circondato dai boschi,
isolato in cima a una collina, abbastanza
distante dal Campidoglio e dalla Casa
Bianca da poter essere un luogo di
villeggiatura dove concedersi un po’ di
riposo, ma abbastanza vicino da
consentire al presidente di andare e
venire in caso di bisogno.
Sebbene Mr Lincoln tornasse in città
quasi ogni giorno, la first lady e i figli
non si mossero dal cottage, ed Elizabeth
vide ben poco la moglie del presidente
tra la fine della primavera e l’estate.
Anche se molte altre signore agiate
lasciavano Washington per sfuggire al
caldo, agli insetti, alle malattie e ai
fastidi visivi, olfattivi e sonori di una
città invasa da migliaia di soldati malati
o feriti, un numero sufficiente di clienti
rimase a casa, dando abbastanza lavoro
a Elizabeth che così si tenne occupata in
assenza di Mary Lincoln.
Certe volte anche lei avrebbe voluto
fuggire in un luogo fresco per l’estate,
ma faceva in modo di sfruttare i momenti
meno caldi, il mattino presto e la sera,
per passeggiare, assistere a delle
conferenze o uscire con i Lewis.
Una sera lei e Virginia stavano
tornando a casa dal concerto di un coro
alla Presbyterian Church in Fifteenth
Street quando udirono una banda che
suonava una musichetta allegra a pochi
isolati
di
distanza.
Incuriosite,
rallentarono il passo per ascoltare. Si
scambiarono un’occhiata ed Elizabeth
espresse ad alta voce quello che
entrambe stavano pensando: «Vuoi che
andiamo a vedere di cosa si tratta?»
Virginia
acconsentì
subito
e
seguirono la bella musica fino a casa di
Mrs Farnham. Il giardino era rischiarato
da una moltitudine di lanterne, e coppie
bianche passeggiavano chiacchierando,
godendosi la bella serata, i bicchieri di
punch e la musica gradevole.
Virginia prese a braccetto Elizabeth
e, con un cenno, le indicò il
maggiordomo nero che faceva la guardia
alla porta. Come di tacito accordo
attraversarono la strada e gli si
avvicinarono. «Buonasera» lo salutò
Elizabeth
educatamente.
«Potreste
soddisfare la nostra curiosità? Cosa sta
festeggiando Mrs Farnham?»
«Si tratta di una sagra, di un evento di
beneficenza per raccogliere fondi per i
soldati malati e feriti».
«Un evento di beneficenza?» gli fece
eco Virginia.
L’uomo di guardia annuì. «Sì,
signora. Gli ospiti pagano venticinque
cent per entrare, e possono comprare
degli scontrini per farsi servire del
punch e altre leccornie. In cambio di
qualche altro scontrino possono
chiedere il brano che vogliono
all’orchestra. Tutto l’incasso sarà
devoluto all’acquisto dei prodotti
necessari, oggi troppo scarsi, per i
soldati malati: medicine, bende, coperte,
cibo buono».
«Che bella idea!» esclamò Elizabeth.
«Spero che abbia grande successo».
Il maggiordomo le ringraziò e loro
due tirarono dritto.
Mentre lei e Virginia tornavano a
casa, Elizabeth rifletté su quanto aveva
visto. «Virginia» disse assorta quando
imboccarono Twelfth Street, «sto
pensando una cosa».
«Cosa?»
«Se i bianchi possono organizzare
eventi di beneficenza per aiutare i
soldati che soffrono, perché la gente di
colore benestante non può darsi da fare
a sua volta per alleviare le sofferenze
dei neri?»
«Non vedo perché no» confermò
Virginia. «Dio sa che i neri in difficoltà
non mancano, dalle nostre parti, e ne
arrivano di nuovi ogni giorno».
Era una triste realtà. Proprio come gli
avversari del progetto di legge del
presidente avevano previsto, dopo
l’emancipazione
Washington
era
diventata il rifugio di fuggiaschi ma
anche di uomini ormai liberi che
scappavano dagli stati dove era ancora
in vigore lo schiavismo. Prima che la
legge abolisse la schiavitù nel distretto,
la popolazione di schiavi fuggiti dal Sud
era di poche centinaia di anime; i nuovi
arrivati si insediavano nelle casette
lungo Duff Green’s Row in East Capitol
Street ed erano assorbiti quasi
spontaneamente dal tessuto cittadino.
Con la legge sull’emancipazione, però,
erano diventati migliaia. Arrivavano in
città soli o con la famiglia, doloranti,
affamati ed esausti, reduci da una vita di
lavoro nei campi; non sapevano fare
altro, ed erano quasi tutti analfabeti. Ben
pochi di loro riuscivano a trovare, o
potevano permettersi, un alloggio in
case o pensioni per neri, e ancor meno
numerosi erano quelli che erano partiti
per la capitale con un’idea di ciò che
avrebbero fatto una volta arrivati sul
posto. All’inizio furono raggruppati tutti
a Camp Barker, un complesso militare
ormai vuoto che comprendeva caserma,
scuderie e tende, ma quando il campo
giunse a saturazione i rifugiati si
costruirono baracche di fortuna con
coperte, fango e pezzi di legno in
accampamenti
che
sorsero
spontaneamente vicino agli ospedali
militari, dietro i forti alla periferia della
città o perfino nei vicoletti del centro.
Talvolta
gli
amministratori
commettevano errori nella distribuzione
delle razioni, e intere famiglie pativano
la fame. Malattie come dissenteria,
vaiolo e febbre tifoidea si propagavano
nei campi sovraffollati e sudici, e i
morti erano seppelliti in cimiteri
improvvisati poco lontano.
I bianchi di Washington, anche alcuni
di quelli che avevano caldeggiato
l’emancipazione,
cominciarono
ad
allarmarsi
per
quell’afflusso
incontrollato di rifugiati in condizioni di
povertà estrema. Non erano gli unici. I
neri ricchi e benestanti, desiderosi di
non perdere la propria condizione
privilegiata, già prima poco stabile,
nella gerarchia sociale della città, erano
ben decisi a distinguersi dai loro simili
incolti, poveri, con la pelle più scura
della loro. Nella comunità di colore di
Washington, infatti, la posizione sociale
era determinata dalla ricchezza, dalla
distanza che ciascuno poteva vantare nei
confronti della schiavitù e dal colore
più chiaro della pelle. I neri nati liberi e
ricchi erano in cima alla piramide; sotto
venivano, nell’ordine, gli ex schiavi
dalla pelle chiara, poi quelli con la
pelle scura e infine, più giù, gli schiavi.
Era un ordine che rispecchiava quello
conosciuto da Elizabeth quando viveva
con i suoi padroni, in cui le ragazze
schiave che lavoravano in casa e
avevano la pelle chiara – spesso figlie,
nipoti o sorelle dei padroni – erano
tenute in maggiore considerazione dei
braccianti scuri di pelle. Le regole
implicite
erano
osservate
scrupolosamente anche all’interno della
Casa Bianca, dove neppure il presidente
era in grado di instaurare l’uguaglianza.
Mrs
Lincoln
aveva
raccontato
dispiaciuta a Elizabeth di William
Johnson, il domestico personale del
presidente, dalla pelle scura, che li
aveva seguiti a Washington da
Springfield ma aveva dovuto andarsene
poco dopo, prima che la sarta iniziasse a
lavorare per loro. I servitori della Casa
Bianca, più chiari di pelle, avevano
snobbato William e lo avevano trattato
con tale disprezzo che questi, dopo due
giorni, aveva dato le dimissioni e
chiesto al presidente di aiutarlo a
trovare un altro impiego.
Grazie al cielo la maggior parte degli
abitanti neri borghesi di Washington
superarono quei pregiudizi di classe e si
misero ad aiutare i profughi. Agirono
per compassione e anche per interesse
personale, perché avevano ben presente
che molti bianchi non vedevano alcuna
differenza tra il ricco mercante di colore
la cui moglie e le figlie si vestivano di
seta e i fuggiaschi senza scarpe, che
recavano ancora sul corpo le cicatrici
lasciate dalla frusta e che fino a poche
settimane prima erano stati schiavi. Il
modo di vita dei più poveri tra loro
avrebbe determinato il giudizio dato alla
razza nel suo complesso, e quindi per il
loro bene era essenziale mettere da parte
lo snobismo e aiutare a innalzare il
livello dei più derelitti. Elizabeth
avrebbe voluto che tutti comprendessero
spontaneamente che aiutare le persone
nel bisogno era la cosa giusta da fare.
La domenica successiva, incoraggiata
da Virginia, Walker ed Emma, Elizabeth
ebbe dal pastore il permesso di
rivolgersi all’assemblea dei fedeli dopo
la predica. Non era abituata a parlare
davanti a un pubblico tanto folto, ma si
fece coraggio, salì sul pulpito e si disse
che la causa era troppo importante per
cedere alla paura.
«Abbiamo tutti assistito alla grande
migrazione di schiavi appena liberati a
Washington» esordì. «Giungono qui con
il cuore gonfio di speranza e tutti i
propri averi sulla schiena. Appena si
liberano dalle catene della schiavitù
abbandonano le regioni arretrate dove
sono insediate le piantagioni e vengono
nella capitale in cerca di libertà, ma
molti di loro non sanno neppure dove
cercarla. Molti buoni amici si sono
prodigati per loro, animati da carità e
compassione, ma per ogni parola gentile
ne sono state dette due ostili».
Alcune donne annuirono facendosi
aria, i cappelli che ondeggiavano per
sottolineare la loro approvazione.
«I nuovi arrivati non sono stati
accolti
ma
scacciati»
proseguì
Elizabeth, «e i loro fulgidi sogni di
libertà stanno svanendo in presenza di
quella signora severa animata da senso
pratico, la realtà».
Mormorii di assenso si udirono dai
primi banchi.
«Invece di sentieri fioriti, giorni di
sole, pergolati carichi di frutti dorati, la
strada è piena di ostacoli e il giardino
irto di spine» continuò. «Le richieste di
aiuto sono troppo spesso accolte con
freddi rifiuti. Poveri figli della
schiavitù, poveri uomini e donne della
nostra razza: la transizione dalle catene
alla libertà è stata troppo repentina! Non
sono pronti alla nuova vita che ha preso
forma davanti a loro, e ora le grandi
masse del Nord guardano indifferenti la
disperazione di quei derelitti. I vicini
bianchi, che osservano i nostri fratelli
giunti come rifugiati, hanno imparato a
considerare tutta la nostra razza un
popolo di pigri incapaci».
Una risposta più marcata accolse
queste sue ultime parole: cenni di
assenso più decisi, alcuni “amen”,
diversi incoraggiamenti a continuare.
«È un dovere sacrosanto aiutare il
nostro popolo» proseguì Elizabeth, «e
questi poveri sfortunati sono proprio
nostri fratelli. Nostro Signore Gesù
Cristo ci ha insegnato ad amare il
prossimo. Ci ha detto che qualunque
cosa facciamo all’ultimo dei suoi
fratelli, è come se lo facessimo a Lui.
Fratelli e sorelle, vi chiedo di lanciare
uno sguardo nei campi dei rifugiati e di
vedere il vostro prossimo. Vi chiedo di
unirvi a me nel creare una società di neri
con il compito di aiutare gli ex schiavi
liberi in difficoltà».
Un applauso scrosciante accolse le
sue parole, e quando Elizabeth, dopo
avere ringraziato con un cenno, tornò al
suo banco, il pastore prese la parola e
invitò tutti coloro che erano interessati
alla fondazione di un’organizzazione
umanitaria a trattenersi dopo la
celebrazione per il primo incontro.
Due settimane dopo fu fondata
ufficialmente la Contraband Relief
Association, con quaranta membri, tutti
di sesso femminile, ed Elizabeth fu
eletta
presidentessa.
Progettarono
concerti e altri eventi a scopo di
beneficenza, e organizzarono il lavoro
dei volontari nei campi di ex schiavi. I
loro membri più influenti sollecitarono
donazioni presso i nordisti più facoltosi,
bianchi e neri. Con i fondi raccolti
acquistarono i prodotti di prima
necessità per i campi – scarpe,
indumenti, brande, cibo, attrezzi – e
aiutarono gli schiavi liberati a costruirsi
case più stabili.
Elizabeth si recava spesso nei campi
per insegnare il cucito, la lettura e le più
fondamentali regole per tenere in ordine
una casa alle donne che, in quelle
condizioni squallide, cercavano di
occuparsi della famiglia. Essendo colta
e educata, nel suo ruolo di presidentessa
dell’ente umanitario le autorità cittadine
le chiedevano spesso di accompagnare i
dignitari di passaggio a Washington che
desideravano visitare i campi. In una di
queste occasioni fece da guida a Miss
Harriet Jacobs, un’ex schiava fuggita dal
South Carolina, di pochi anni più
anziana di lei, nota e influente
abolizionista. Lo sguardo esperto e
compassionevole di Miss Jacobs
registrò ogni dettaglio mentre Elizabeth
la accompagnava in giro e descriveva la
situazione disperata degli schiavi
fuggiti. «Sono dispostissimi a lavorare,
ma non sono abituati a farsi pagare»
spiegò Elizabeth mentre passavano
accanto a un gruppo di giovani che
ascoltavano attentamente un uomo di
colore con gli occhiali, benvestito, che
parlava loro dall’alto di una cassa
rovesciata. A un tratto uno dei ragazzi
incrociò le braccia, levò il mento e si
mise a fissare con aria pensosa
l’oratore; era così simile a George, il
figlio che aveva perduto, che Elizabeth
dovette distogliere lo sguardo con il
cuore stretto dal dolore. «Dobbiamo
insegnare loro a cercare un’occupazione
retribuita, a negoziare una paga giusta e
a rinunciare a un posto di lavoro in cui il
padrone li tratti male».
Miss Jacobs annuì, allontanandosi
con la sua accompagnatrice ma senza
smettere di osservare i giovani uomini.
«Lavoro se ne trova?»
«Oh, sì. La guerra ha creato molti
posti». Elizabeth guidò Miss Jacobs
dietro una tenda dove un soldato stava
distribuendo filoni di pane a un gruppo
di donne esangui e silenziose, alcune
delle quali tenevano in braccio bambini
vestiti di stracci. «Sapete della nuova
legge del presidente Lincoln, quella che
gli consente di ingaggiare “persone di
discendenza africana” per combattere
contro i ribelli?» Miss Jacobs annuì.
«Allora forse saprete anche che, dopo la
promulgazione della legge, il governo si
è messo a tenere un registro degli ex
schiavi e a distribuire razioni di cibo,
vestiti e denaro in cambio del lavoro
che svolgono a favore dell’Unione. Gli
uomini dei campi tagliano legna da
ardere, vanno a prendere l’acqua,
scavano fossi, fanno la guardia davanti
agli ospedali, costruiscono strade e
qualunque altra cosa vada costruita,
riparano ciò che è rotto».
«E le donne?»
«Lavorano come lavandaie e cuoche,
e fanno i turni nel tenere d’occhio i
bambini. Gli uomini ricevono un
compenso di dieci dollari al mese. Le
donne sole ne guadagnano quattro,
quelle con un bambino due e mezzo o
forse anche tre». A un tratto Elizabeth si
arrestò e posò una mano sul braccio di
Miss Jacobs, facendola fermare. «Che
sia chiaro: i lavori più pesanti, quelli
che nessuno vuole sobbarcarsi, ricadono
sempre sugli ex schiavi: pulire latrine,
seppellire cavalli e muli morti,
rimuovere i rifiuti dalle corsie degli
ospedali. Sono compiti importanti,
necessari, ma anche pesanti, estenuanti,
e non corrispondono a quello che si
erano aspettati dalla libertà».
«Le loro speranze sono andate
deluse»
osservò
Miss
Jacobs
riprendendo a camminare.
«È vero» concesse Elizabeth,
affrettando il passo per raggiungerla,
«ma prima di trascorrere del tempo con
queste persone non mi ero resa conto di
quanto fossero irrealistici i loro sogni, e
di quanto si senta depresso chi li aveva
coltivati».
Qualcosa, forse l’imbarazzo o
l’incertezza, impedì a Elizabeth di
confidare alla donna che, quando
visitava i campi, i rifugiati le si
accalcavano intorno, lamentando la
propria sofferenza e implorandola di
aiutarli. Per alcuni la delusione era tale
da far loro idealizzare i ricordi della
schiavitù, cosicché rimpiangevano la
vita precedente. Elizabeth era rimasta
interdetta la prima volta che aveva
sentito una vecchia dire che avrebbe
preferito tornare a essere schiava nel
Sud, dove tutto le era familiare e dove il
padrone si occupava di lei, a quella
miserabile libertà del Nord. Elizabeth
disse a se stessa che l’anziana donna e
quelli che la pensavano come lei non
erano da criticare, e non si sarebbe
adombrata per le loro parole. Dopo una
vita di dipendenza, non conoscevano
nient’altro, e le preoccupazioni e i
pensieri legati alla povertà erano stati un
pessimo inizio della loro vita da liberi.
«Tutti i campi sono in questo stato?»
volle sapere Miss Jacobs. «Tutto sembra
scarseggiare, qui, a parte la malattia, la
miseria e la fame... e il desiderio di
sconfiggerle, il che mi riconforta».
«Il bisogno di beni di prima necessità
è grande ovunque» rispose Elizabeth,
«ma ho sentito dire che le condizioni
sono leggermente migliori dall’altra
parte del fiume».
«Sull’altra sponda, in Virginia?»
«Sì. Parte della proprietà del
generale Lee di Arlington è stata
trasformata in un campo chiamato
Freedman’s Village. Non l’ho visitato
personalmente, ma voi dovreste farlo, se
volete che il vostro rapporto sia
completo. Ho sentito dire che tutti gli
uomini e quasi tutte le donne lavorano e
guadagnano. Hanno anche molto spazio a
disposizione per muoversi all’aria
aperta, un privilegio che a queste
persone è negato».
Miss Jacobs annuì pensierosa. «Sì,
mi piacerebbe molto vederlo con i miei
occhi».
Al termine della visita, Elizabeth
accompagnò l’ospite fino alla strada
dove l’aspettava la carrozza. Fece per
salutarla con la mano quando il
cocchiere l’aiutò a salire, ma si bloccò
esterrefatta quando la chiamò Miss
Brent e lei gli rispose.
«Vuol dire che non lo sapevate?»
chiese un’altra volontaria a Elizabeth
quando più tardi quest’ultima le
raccontò lo strano episodio. «Harriet
Ann Jacobs è Linda Brent».
«La scrittrice, intendete?»
«Esistono altre Linda Brent? Quando
scrive usa uno pseudonimo per
proteggersi, ma vi assicuro che sono la
stessa persona».
Elizabeth era così sbalordita che
scoppiò a ridere. Aveva letto Incidents
in the Life of a Slave Girl poco dopo la
pubblicazione, ed era stata molto colpita
dalla fuga coraggiosa al Nord
dell’autrice e dei suoi sforzi instancabili
per liberare anche i due figli. Molti
aneddoti della vita di Miss Brent – di
Miss Jacobs – erano dolorosamente noti
a Elizabeth, e la sua vicenda le aveva
occupato la mente a lungo anche dopo
aver terminato il libro. Leggendolo era
venuta voglia anche a lei di scrivere
qualche appunto sulla propria infanzia in
schiavitù e sui terribili anni della
giovinezza, quando era stata insidiata da
Alexander Kirkland e una padrona
crudele alla quale era stata “prestata”
aveva cercato di domarla picchiandola
regolarmente. Un tempo aveva pensato
di mostrare al figlio i propri scritti, ma
dopo la morte di George non aveva più
pensato al progetto.
Forse doveva riprendere in mano la
penna, un giorno o l’altro. Anche se non
avesse mai pubblicato un libro di
memorie come quello di Miss Jacobs,
poteva sempre condividere la storia con
gli amici più intimi.
Nelle settimane che seguirono seppe
che Miss Jacobs aveva effettivamente
visitato il Freedman’s Village di
Alexandria, e che era rimasta tanto
colpita dalle disgrazie degli abitanti e
dai progressi compiuti che aveva deciso
di fermarsi lì a lavorare. Da parte sua,
Elizabeth continuò a collaborare con il
campo della capitale, impartendo
insegnamenti
fondamentali
e
dispensando consigli. Era incoraggiante
vedere che, sebbene alcuni ex schiavi,
delusi, rimpiangessero un passato che
non era mai esistito, altri si mettevano a
lavorare per migliorare le proprie
condizioni. Costruirono casette solide
per la famiglia e coltivarono un orto.
Risparmiarono denaro e comprarono
polli e maiali. Presero a frequentare la
chiesa e mandarono i propri figli alle
scuole del campo, dove gli insegnanti si
stupirono dei loro progressi continui e
ragguardevoli. Fieri, determinati e
lucidi, si misero a programmare il futuro
con buonsenso e fecero tutti i passi
necessari alla realizzazione dei loro
progetti. Con il passare dei mesi, i più
esitanti e ansiosi tra loro cominciarono a
seguire l’esempio degli altri, ed
Elizabeth e gli altri volontari si
felicitarono del fatto che la loro opera
iniziava a produrre frutti.
Il lavoro della Contraband Relief
Association era fondamentale, infinito e
dispendioso. Elizabeth donò tutto quello
che
poteva,
ma
sapeva
che
l’organizzazione doveva trovare altre
fonti di finanziamento se voleva
continuare a funzionare.
Anche se Elizabeth si era recata solo
di rado alla Casa Bianca quell’estate,
perché Mrs Lincoln aveva trascorso
quasi tutti i mesi caldi al Soldiers’
Home o in viaggio con Robert e Tad,
conosceva ormai abbastanza da vicino il
funzionamento dell’amministrazione del
presidente Lincoln per sapere che si
trovava in difficoltà. La guerra stava
andando male. Le forze confederate del
generale
Stonewall
Jackson,
in
inferiorità numerica, avevano bloccato
l’esercito dell’Unione nella Shenandoah
Valley, costringendolo a ripiegare verso
il Potomac. Nella Battaglia dei Sette
Giorni in Virginia, il generale
McClellan aveva di nuovo battuto in
ritirata, sebbene avesse sconfitto i
confederati per tre giorni di seguito. Un
attacco dell’Unione a Vicksburg fallì,
vanificando il tentativo di acquistare il
controllo sul fiume Mississippi. A
Richmond, in Kentucky, le truppe degli
stati confederati inflissero una sconfitta
cocente a un piccolo contingente di
soldati dell’Unione, che furono catturati
quasi tutti. In una seconda battaglia
presso il torrente Bull Run, il generale
John Pope subì una sconfitta disastrosa,
con più di quindicimila soldati uccisi,
feriti, dispersi o catturati, e il resto
dell’esercito respinto dall’altra parte
del fiume verso Washington dal generale
Robert E. Lee.
Elizabeth provava pena per il
presidente, ben sapendo che ogni
sconfitta gli gravava sul cuore, ma fu
meno solidale con un’altra battaglia
condotta da Lincoln. In luglio il
presidente aveva tentato in tutti i modi di
convincere i membri del Congresso
provenienti dagli stati confinanti a
mettere in atto un programma per
un’emancipazione
progressiva
e
remunerata, e anche se non approdò a
nessun risultato Elizabeth era certa che
fosse un progetto che gli stava a cuore.
Nel giro di qualche settimana, però, le
dichiarazioni rilasciate alla stampa la
indussero a chiedersi se non avesse
frainteso la posizione del presidente
sull’abolizione della schiavitù. Il 14
agosto Abraham Lincoln ricevette alla
Casa Bianca una delegazione di leader
della comunità di colore e presentò il
suo progetto per la creazione di colonie
di schiavi liberati in Africa o in
America Centrale. La presenza della
razza nera sul continente americano
aveva provocato la guerra, dichiarò il
presidente, e l’inimicizia tra le razze
sarebbe perdurata, ne era certo, anche
dopo la risoluzione del conflitto. Anche
quando avessero cessato di essere
schiavi, i neri non sarebbero mai stati
uguali ai bianchi, perciò sarebbe stato
meglio per tutti se fossero rimasti
separati.
La delegazione lasciò la Casa Bianca
in preda alla collera e per nulla
convinta, e si affrettò a condividere il
risultato deludente di quell’incontro
storico con i membri della stampa che
stavano dalla sua parte. Qualche giorno
dopo, in un articolo di fondo del New
York Tribune intitolato La preghiera di
venti milioni, Horace Greeley attaccò
duramente il presidente per non aver
rispettato la legge, non pretendendo dai
suoi
generali
che
obbedissero
immediatamente
alle
disposizioni
previste dal nuovo Confiscation Act.
Accusò il presidente di lasciarsi
influenzare eccessivamente «dai suoi
consiglieri, dai rappresentanti degli
stati, dalle minacce, da certi politici
fossili degli stati schiavisti confinanti»,
e di essere disposto ad arrecare danno
alla nazione pur di ingraziarseli. Nessun
difensore della causa dell’Unione
credeva che la ribellione potesse essere
sedata a meno che non venisse abolita la
schiavitù, che ne era la causa, insisteva
Mr Greeley, avvertendo che «ogni ora di
compiacenza nei confronti della
schiavitù è un’ora in più di pericolo per
l’Unione».
Tre giorni dopo il presidente Lincoln
rispose all’editoriale con una lettera
concisa, che Greeley pubblicò il 25
agosto insieme alla sua lunga risposta.
Scusando il «tono prepotente e
dittatoriale» del giornalista in virtù
dell’amicizia che li legava, il presidente
dichiarò con grande enfasi che il suo
scopo era solo salvare l’Unione. «Il mio
obiettivo fondamentale in questa guerra
è salvare l’Unione» scrisse, «e non
salvare o distruggere la schiavitù. Se
potessi salvare l’Unione senza liberare
nessuno schiavo lo farei, e se potessi
salvarla liberando tutti gli schiavi lo
farei, e se potessi salvarla liberandone
alcuni e senza curarmi degli altri, farei
pure quello. Ciò che faccio nei confronti
della schiavitù e della razza nera, lo
faccio perché sono convinto che salvi
l’Unione; e ciò che evito di fare, evito di
farlo perché non sono sicuro che
facendolo contribuirei a salvare
l’Unione».
Tutti a Washington ebbero modo di
leggere lo scambio infuocato o ne
sentirono parlare da amici e vicini. Gli
unionisti che non erano troppo sicuri di
parteggiare per l’emancipazione erano
soddisfatti, perché il presidente aveva
ribadito con chiarezza quali fossero le
sue priorità, ma secondo Elizabeth erano
i soli a essere contenti. Gli abolizionisti
indignati sostenevano che il presidente
sembrava incapace di capire che il
modo più rapido e sicuro per vincere la
guerra e salvare l’Unione stava
nell’emancipare tutti gli schiavi,
ovunque si trovassero, e nel permettere
loro di indossare la divisa blu
dell’Unione e di imbracciare le armi per
difendere la nazione. Quanto a
Elizabeth, desiderava l’abolizione della
schiavitù ovunque. Voleva che gli
uomini di colore potessero arruolarsi
come aveva fatto suo figlio George. Ma
voleva anche che gli ex schiavi liberati
fossero ben nutriti, sani, istruiti, con un
lavoro e benestanti, e sapeva che non
bastava desiderarlo perché ciò si
realizzasse: servivano invece duro
lavoro e un’accurata pianificazione.
Voleva credere che anche il presidente
stesse lavorando sodo e pianificando
con cura per realizzare ciò che
desiderava, che avesse buoni motivi per
temporeggiare, e che fosse per quello
che non liberava tutti gli schiavi
sofferenti, sebbene con pochi tratti di
penna avrebbe potuto farlo.
Voleva aver fiducia in lui, ma
sperava che non rimandasse troppo a
lungo.
A metà settembre, in una battaglia
estremamente
sanguinosa
lungo
l’Antietam Creek in Maryland, il
generale McClellan riuscì a respingere
l’avanzata di Lee verso nord. Anche se
il presidente era irritato dal fatto che
McClellan avesse permesso all’esercito
confederato sconfitto di battere in
ritirata in Virginia senza inseguirlo,
l’aver evitato l’avanzata nemica era
quasi una vittoria, e servì a rinfrancarlo.
Meno di una settimana dopo i
giornali del Nord pubblicarono un
proclama del presidente che dichiarava:
«Il primo giorno di gennaio dell’anno di
Nostro Signore 1863, tutti gli individui
tenuti come schiavi in qualunque stato, o
parte di stato, da proprietari in rivolta
contro gli Stati Uniti saranno liberati e
da quel momento liberi per sempre».
Quando lesse per intero il Proclama
di
Emancipazione
sul
National
Republican il 23 settembre, Elizabeth
esultò, e ricominciò ad avere fiducia in
Lincoln. Ora finalmente i dettagli che
erano stati tenuti segreti cominciarono a
trapelare, e la tattica temporeggiatrice
del presidente acquistò un significato.
Aveva sempre voluto liberare gli
schiavi, insistevano i suoi sostenitori,
nonostante
le
sue
precedenti
dichiarazioni secondo le quali la guerra
era combattuta solo per preservare
l’Unione. Aveva scritto il Proclama di
Emancipazione settimane o mesi prima e
l’aveva presentato ai suoi ministri, ma
era stato costretto ad aspettare una
vittoria decisiva per l’Unione prima di
poterlo divulgare al popolo americano,
altrimenti sarebbe apparso come un
gesto disperato. Mr Lincoln aveva preso
tempo anche per determinare se la
liberazione
degli
schiavi
fosse
costituzionale, ed era giunto alla
conclusione che era perfettamente legale
per lui, in virtù dei suoi poteri di
comandante in capo in periodo di
guerra, liberare gli schiavi in zone
ribelli.
La comunità nera e gli abolizionisti
di tutte le razze esultarono, ma nei giorni
seguenti, a mano a mano che le parole
del presidente furono discusse e
dibattute, i motivi per gioire furono
ridimensionati dalla preoccupazione che
il gesto di Lincoln fosse stato troppo
prudente. In effetti il proclama sanciva
l’abolizione della schiavitù solo negli
stati che erano ancora ribelli il 1°
gennaio 1863, quindi in teoria se uno
stato avesse accettato di tornare
nell’Unione prima di quella data, la
schiavitù avrebbe potuto continuare
entro i suoi confini. Il proclama, poi,
non si interessava minimamente al
destino degli schiavi che vivevano negli
stati fedeli all’Unione di Delaware,
Kentucky, Maryland e Missouri, oltre al
Tennessee e a parti della Louisiana,
territorio della Confederazione che era
finito sotto il controllo dell’Unione. A
cosa serviva dichiarare liberi gli schiavi
in regioni dove la popolazione non
rispettava l’autorità del presidente e
quindi, con ogni probabilità, non
avrebbe obbedito ai suoi ordini? A
Elizabeth pareva che Lincoln avesse
emancipato gli schiavi dove l’Unione
non poteva liberarli e li avesse tenuti
schiavi in luoghi dove aveva invece il
potere di garantire loro la libertà.
Eppure, nonostante i suoi punti
deboli, il proclama andava celebrato a
testimonianza del fatto che la nazione
procedeva con determinazione verso una
maggiore libertà per tutti. La vecchia
Unione era sparita per sempre. Quando
la nazione fosse stata ricostruita, gli
Stati Uniti ne sarebbero usciti rinnovati.
Il giorno dopo la pubblicazione del
proclama, una folla enorme con tanto di
banda si riunì davanti alla Casa Bianca
per dedicare un concerto al presidente e
tenere
discorsi
encomiastici.
Il
presidente uscì a ringraziarli dicendo:
«Non sono stato informato del motivo
preciso per cui mi fate questo onore
oggi, quindi immagino sia per via del
proclama». La folla applaudì e confermò
urlando. Il presidente proseguì con la
consueta umiltà: «Quello che ho fatto,
l’ho fatto dopo un’attenta riflessione, e
animato da un fortissimo senso di
responsabilità. Mi affido a Dio nella
speranza di non aver commesso un
errore». La calca reagì con trasporto,
assicurandogli tra le urla che aveva fatto
bene.
Anche Elizabeth era convinta che non
avesse commesso errori, e che
sarebbero arrivate a ruota altre forme di
libertà.
Credeva anche che presto la sua
Contraband Relief Association sarebbe
diventata più essenziale che mai.
Ai primi di settembre la first lady era
partita da Washington alla volta di New
York con Tad. In ottobre, afflitta da
terribili cefalee intervallate da momenti
di disperazione, e desiderando avere a
fianco una compagna che le stesse
vicino, chiese a Elizabeth di
raggiungerla al Metropolitan Hotel di
Manhattan. Elizabeth accettò di buon
grado, non solo perché non era mai stata
a New York e desiderava molto
visitarla, ma anche perché il viaggio le
avrebbe permesso di promuovere la sua
causa presentandola a un pubblico
nuovo. Armata di credenziali e di lettere
di raccomandazione, prese il treno per
Manhattan, si stabilì nell’hotel che
aveva prenotato Mrs Lincoln e il mattino
successivo parlò alla first lady del suo
progetto.
«Una causa nobilissima» dichiarò
questa. Era vestita a lutto dalla testa ai
piedi e aveva sofferto di diversi
malesseri durante tutto il periodo in cui
aveva viaggiato, ma per un attimo
sembrò essere tornata quella di un
tempo, piena di energia e di idee.
«Insisto per unirmi al vostro elenco di
sostenitori. Basterà un contributo di
duecento dollari?»
«Certo, Mrs Lincoln» rispose
Elizabeth, felice di un dono tanto
generoso. «Grazie mille».
«È il minimo che possa fare dopo
tutto quello che voi avete fatto per me»
replicò la first lady, che si accinse
subito a scrivere al marito per
procurarsi la somma.
Durante il periodo che trascorse a
New York, la sarta frequentò la
comunità
nera,
sollecitando
e
raccogliendo donazioni per comprare
tutto ciò che mancava nei campi di ex
schiavi. Fu presentata al reverendo
Henry Highland Garnet, che animò una
riunione per conto dell’associazione di
Elizabeth alla Shiloh Presbyterian
Church. Dopo che ebbe raccontato al
sommelier del Metropolitan Hotel della
sua missione, questi raccolse un’enorme
somma di denaro dai camerieri di colore
della sala da pranzo.
Quando la first lady decise di
approfittare della visita a New York per
spingersi fino ad Harvard e far visita al
figlio Robert, chiese a Elizabeth di
accompagnarla, e lei ancora una volta
colse l’occasione. A Boston fu
presentata a Wendell Phillips, un
avvocato, oratore e abolizionista tanto
convinto che per anni aveva rifiutato di
assaggiare lo zucchero di canna o di
indossare indumenti di cotone perché
entrambi erano frutto del lavoro degli
schiavi. Lui e altri filantropi bostoniani
contribuirono generosamente alla sua
causa e le assicurarono il loro appoggio.
Incontrò anche il reverendo Leonard A.
Grimes, che organizzò un incontro
aperto al pubblico nella chiesa battista
di Twelfth Street, dove sua moglie aprì
una filiale bostoniana della Contraband
Relief Association. Il reverendo Grimes
era un amico di Frederick Douglass, del
quale Elizabeth era una fervente
ammiratrice, e si offrì di scrivere al
famoso abolizionista e oratore da parte
sua. Dall’Inghilterra, dove stava
effettuando una serie di conferenze, Mr
Douglass non solo donò un contributo
generoso all’associazione, ma raccolse
anche
denaro
presso
diverse
organizzazioni britanniche abolizioniste.
Durante i viaggi autunnali, e con
l’incoraggiamento e il sostegno di Mrs
Lincoln,
Elizabeth
lavorò
instancabilmente alla raccolta di fondi
per aiutare gli ex schiavi, tenendo
sempre a mente la convinzione di
George secondo cui, essendo loro stessi
divenuti liberi, avevano l’obbligo di
contribuire a liberare gli altri dalla
schiavitù. Elizabeth era completamente
d’accordo, ma credeva che l’obbligo di
aiutare i bisognosi continuasse anche
una volta spezzate le catene. Chi aveva
già attraversato il fiume e si trovava in
libertà era obbligato a voltarsi e a
tendere una mano a chi compiva i primi,
timidi passi sulla riva, ed Elizabeth
decise di fare proprio quello.
8.
Dicembre 1862 - maggio 1863
La sera del 31 dicembre, Elizabeth ed
Emma si recarono alla Union Bethel
Church per assistere a una veglia in
favore della libertà, insieme a migliaia
di altri fedeli di colore in centinaia di
chiese nere di tutto il Nord. Al tramonto
ogni banco era pieno, e mentre
aspettavano che il pastore iniziasse i
partecipanti pregavano, cantavano e
raccontavano le proprie esperienze di
schiavi. Alle dieci il pastore si presentò
dinanzi alla congregazione, aprì una
Bibbia molto vissuta e li invitò a
pregare prima di tenere un’omelia su
Dio, Satana, il presidente Lincoln e il
giorno ormai imminente della libertà
eterna. Chiese al Signore di benedire la
mattina di Capodanno, cui mancavano
solo poche ore, di benedire la mano del
presidente Lincoln quando aveva stretto
la penna per firmare il Proclama di
Emancipazione.
Celebrando
quell’evento glorioso tanto vicino, parlò
anche del significato di libertà per la
gente della loro razza e ricordò ai
presenti le nuove responsabilità che
dovevano assumersi con energia e gioia.
Poi, quasi come se i vicini bianchi e i
capi del governo fossero in mezzo ai
fedeli, si rivolse direttamente a loro: «Il
vostro destino di uomini bianchi e il
nostro di neri sono uguali!» esclamò.
«Avanziamo tutti verso lo stesso
obiettivo. Dateci quindi le stesse
condizioni di vita, di libertà, e le
occasioni di felicità che avete avuto voi
dalla fondazione della nostra splendida
nazione, e chiedete a noi lo stesso
contributo che fornite voi per aiutare il
governo».
Un coro di amen si levò dalla
congregazione.
«Dateci il diritto di voto e delle armi
per combattere!» continuò il pastore con
voce stentorea. «Fateci indossare
l’uniforme
blu
dell’Unione
e
imbracciare i fucili. Non anteponete il
volgare pregiudizio alla necessità e alla
salvaguardia del paese. Non rifiutate di
accogliere proprio gli uomini che più di
ogni altro tengono a sconfiggere i ribelli.
Forse che gli uomini neri non sanno
brandire una spada, sparare, marciare e
obbedire agli ordini come chiunque
altro?»
I fedeli risposero che sì, certo, ne
erano capaci.
«Un uomo che vuole vincere una
battaglia non avanza verso il nemico con
una mano legata dietro la schiena!»
tuonò il sacerdote. «Se casa vostra è in
fiamme, e un uomo nero vi offre un
secchio d’acqua, lo rifiutate, forse? Se
state affogando e un uomo di colore
tende la mano per tirarvi a riva, restate
dove siete e sperate che un bianco passi
di lì prima che finiate sott’acqua, oppure
afferrate quel braccio scuro e decidete
di vivere?»
Un boato di approvazione accolse le
sue parole. Elizabeth applaudì fino ad
avere male alle mani, e le parole del
ministro la indussero ad alzarsi,
pervadendole le vene di determinazione,
calda e forte come la vita stessa.
Subito prima di mezzanotte il tono
del prelato cambiò ancora. «In questo
momento non voglio vedere nessuno che
prega in piedi a capo chino!» esclamò.
«Nessuna sorella seduta con la testa in
avanti, nessun fratello con un solo
ginocchio flesso perché ha i pantaloni
troppo
stretti.
Voglio
che
ci
inginocchiamo tutti completamente per
ringraziare l’Altissimo per la libertà e
per il presidente Lincoln».
Elizabeth ed Emma, una di fianco
all’altra, si misero in ginocchio. Con la
coda dell’occhio Elizabeth vide le
labbra dell’amica muoversi in una
preghiera silenziosa. In chiesa calò il
silenzio, rotto di tanto in tanto da un
fedele che chiedeva aiuto al Signore,
che li aveva guidati dall’epoca buia
della schiavitù all’avvento di quella
nuova libertà. Altri presenti implorarono
il Signore di guidare anche il presidente
Lincoln.
Elizabeth, pur conservando un
rispettoso silenzio, ripeté mentalmente
quelle parole con tutto il cuore.
Sebbene fosse andata a dormire
molto tardi, il mattino dopo Elizabeth si
alzò presto come sempre e andò alla
Casa Bianca a vestire Mrs Lincoln per il
tradizionale ricevimento di Capodanno,
alle undici. La first lady, pallida e con il
viso tirato, aveva già scelto un abito e
una cuffia neri e stava aspettando la
sarta nel suo salottino personale. «Non
riesco a smettere di pensare a tutte le
persone che ci hanno lasciato
dall’ultimo
Capodanno»
mormorò
mentre Elizabeth le allacciava il vestito
sulla schiena. «Ogni giorno da adesso
alla primavera sarà disseminato di
anniversari tristi».
La sarta sapeva che alludeva in
particolare alla morte di Willie. «Per il
primo anniversario della morte di mio
figlio, ho fatto in modo di tenermi
occupata» confidò alla first lady. In
realtà il giorno in cui aveva sofferto di
più non era l’anniversario della data in
cui era stato ucciso ma del giorno in cui
aveva ricevuto la lettera che ne
annunciava la morte. «C’è sempre tanto
da fare nei campi degli ex schiavi che
non ho avuto difficoltà a tenere la testa
impegnata per non pensare al mio
dolore».
«Forse dovrei fare anch’io qualcosa
del genere» disse Mrs Lincoln. «I
soldati hanno sempre bisogno di cure e
di attenzione, soprattutto quelli che
languono negli ospedali militari. Sembra
che apprezzino quando scrivo per conto
loro delle lettere a casa, se non sono in
grado di farlo da sé». Si sforzò di
accennare un sorriso, e sembrò sollevata
alla prospettiva di avere un piano. «Farò
come suggerite voi, Elizabeth, e mi
distrarrò pensando ai bisogni degli altri.
Anche se non lenisce il dolore, almeno
mi permetterà di rendermi utile ai
soldati».
«Mi auguro che serva a entrambe le
cose» osservò l’altra donna.
Quando la first lady ebbe finito di
vestirsi, chiese a un domestico se il
presidente era pronto a scendere, e per
tutta risposta le fu comunicato che stava
scrivendo in ufficio. «Ancora?»
esclamò, e aggiunse rivolta a Elizabeth:
«Sta lavorando alla versione finale del
proclama da ieri sera».
«Il Proclama di Emancipazione?»
chiese Elizabeth, improvvisamente a
disagio. A cos’altro poteva alludere Mrs
Lincoln? Dal momento in cui i giornali
avevano
pubblicato
il
decreto
preliminare, il presidente era stato
bombardato di critiche. I democratici
più radicali del Nord avevano
dichiarato
che
non
intendevano
combattere una guerra per liberare gli
schiavi, e nelle elezioni di metà mandato
chi osteggiava l’emancipazione aveva
manifestato il proprio scontento
eleggendo governatori e membri del
Congresso democratici. I democratici
temevano che nonostante l’apparente
rifiuto della politica di Lincoln da parte
del popolo alle urne, questi sarebbe
andato comunque avanti per la sua
strada e avrebbe trasformato in legge il
proclama, mentre gli abolizionisti e i
repubblicani radicali temevano che
avrebbe rinunciato. Si diceva che i
ministri lo esortassero ad apportare al
documento cambiamenti dell’ultima ora,
e a quanto pareva quelle voci di
corridoio corrispondevano al vero.
Elizabeth poteva solo pregare che i
cambiamenti effettuati dal presidente –
in quello stesso momento poco distante
da lei – non intaccassero la natura stessa
della nuova legge.
La sarta se ne andò dalla Casa
Bianca prima dell’arrivo del presidente
Lincoln, e uscendo incrociò alcuni degli
invitati al ricevimento. Avrebbe voluto
vedere il presidente, non per
interrogarlo a proposito del proclama,
perché aveva già abbastanza problemi
senza l’assillo delle domande della
sarta, ma perché forse sarebbe riuscita a
capire dalla sua espressione se i
cambiamenti effettuati rappresentavano
una buona o una cattiva notizia per la
sua razza.
Invece di dirigersi a casa, andò alla
Union Bethel Church dove la veglia
continuava. Lungo la strada notò un
assembramento davanti all’ufficio del
telegrafo; non appena fosse arrivato un
messo dalla Casa Bianca a comunicare
notizie sul proclama, l’informazione
sarebbe stata diramata istantaneamente,
grazie al mezzo di comunicazione
elettrico, ai giornali di tutto il Nord.
Altri uomini, bianchi e neri, si
assiepavano davanti alla bottega di uno
stampatore, dove gli operai erano in
attesa della versione definitiva del
proclama per stamparlo. Elizabeth
sospettava che avrebbero dovuto
aspettare a lungo, perché il ricevimento
di Capodanno durava per tradizione tre
ore. Il presidente si sarebbe recato
nell’East Room dove avrebbe stretto
mani e accolto i visitatori, dapprima i
diplomatici stranieri, poi gli ufficiali e
infine chiunque altro tra i presenti lo
desiderasse. Dopo avere stretto tutte
quelle mani forse non avrebbe più avuto
la forza di reggere la penna.
Quando Elizabeth giunse alla Union
Bethel Church, il sacerdote e diversi
fedeli, della ventina che si era riunita in
chiesa a pregare, si interruppero per
precipitarsi a interrogarla. Riferì loro
ciò che sapeva, e cioè che bisognava
aspettare ancora. Rassegnati, ripresero
le preghiere o le conversazioni a mezza
voce, ascoltando le campane che
segnavano il passaggio delle ore,
alzando rapidi lo sguardo ogni volta che
si apriva la porta e subito dopo
ricominciando l’attesa.
Poi, a fine pomeriggio, un diacono si
precipitò nella cappella, sudato e
ansimante, con un foglio stretto nella
mano destra che odorava ancora di
inchiostro fresco. «Ci siamo!» annunciò.
Era troppo affannato dalla corsa per
leggere il proclama ad alta voce, così lo
affidò al pastore che salì sul pulpito e lo
lesse lentamente e con enfasi, affinché
ogni parola risuonasse in tutta la chiesa.
Elizabeth avvertì un’ondata di sollievo e
di gioia, perché a ogni frase le appariva
più chiaro che il presidente aveva
apportato ben pochi cambiamenti al
proclama preliminare, che lei aveva
letto tante di quelle volte da saperlo
ormai quasi a memoria. La lista di
territori sotto il controllo dell’Unione
era stata modificata perché nel frattempo
l’esercito era avanzato, e soprattutto
erano apparsi due nuovi paragrafi che
non comparivano nella versione
preliminare
diffusa
nell’autunno
precedente. Nel primo il presidente
Lincoln ingiungeva agli individui che il
proclama aveva appena reso liberi di
«astenersi da ogni forma di violenza, a
meno che non si tratti di necessaria
autodifesa». Un mormorio si diffuse
nella
congregazione
quando
il
significato delle parole divenne chiaro.
Mai prima di allora avevano avuto il
permesso di difendersi fisicamente, di
ribellarsi alle percosse inflitte loro da
padroni particolarmente crudeli. Né
potevano farsi valere e combattere per
salvarsi la vita se l’occasione si
presentava. Era una rivoluzione.
Il secondo emendamento era ancora
più sorprendente. «Dichiariamo inoltre e
rendiamo pubblico che questi individui»
– i neri appena emancipati – «se
considerati abili saranno arruolati nelle
forze armate degli Stati Uniti per
presidiare forti, posizioni, basi e altri
luoghi, e per condurre mezzi di trasporto
di
ogni
genere
nell’ambito
dell’esercito».
Si udirono acclamazioni e grida di
stupore. Nei territori dei ribelli gli
schiavi erano liberi e gli uomini di
colore avrebbero avuto il diritto di
combattere per l’Unione.
Il giorno che molti di loro credevano
non sarebbe mai arrivato era infine
giunto.
La congregazione rese grazie e intonò
inni di gratitudine, poi si avviò compatta
alla Casa Bianca, dove centinaia di altri
cittadini giubilanti, bianchi e neri,
cantavano e gridavano i loro
ringraziamenti al presidente, che si
mostrò qualche istante a una finestra per
salutarli con un inchino solenne e umile.
Più tardi Elizabeth si recò nei campi
degli schiavi fuggiti, dove gli uomini
liberi dimenticarono per un poco i loro
problemi e festeggiarono l’alba di un
nuovo giorno di libertà, il primo delle
loro nuove vite in cui non avrebbero più
temuto la frusta, né vissuto nel terrore
delle aste dove venivano scambiati
come merce, o spaventati alla
prospettiva
di
essere
venduti
separatamente da coniuge e figli
rischiando di non vederli mai più.
La sera la folla si zittì quando il
reverendo Danforth B. Nichols,
responsabile degli uomini liberi del
campo, lesse ad alta voce il Proclama di
Emancipazione, pronunciando ogni
parola con precisione e chiarezza;
quando ebbe finito, e dopo che si furono
placati gli applausi e le grida esultanti,
levò le mani per attirare l’attenzione
generale e ricordò ai presenti che la
legge non era applicabile ovunque, per
esempio non nel confinante Maryland.
Ma neppure quella considerazione
amara servì a smorzare la gioia.
Finalmente la libertà era a portata di
mano.
L’anniversario della morte di Willie
si avvicinava e Mrs Lincoln era sempre
più agitata e irrequieta; investiva
quell’energia debordante nei suoi doveri
sociali di first lady. Riprese a ricevere
visite il sabato pomeriggio, e pur
continuando a osservare un lutto stretto
lei e il presidente ricominciarono a
uscire di sera per assistere a letture o
rappresentazioni teatrali, lo svago
preferito di Abraham Lincoln.
Per Mrs Lincoln la consolazione
maggiore erano i due figli che le
restavano. Si illuminava tutte le volte
che Robert andava a trovarli, ogni pochi
mesi, e sebbene Elizabeth ritenesse che
il ragazzo era un po’ troppo serio e
permaloso, si felicitava anche lei della
sua venuta per la gioia che dava ai
genitori. Le sue visite, però, non erano
sempre occasioni allegre, perché
desiderava lasciare Harvard e arruolarsi
e sfruttava sempre quei pochi giorni a
casa per cercare di ottenere il permesso.
Mrs
Lincoln
si
opponeva
strenuamente al progetto, come ripeteva
spesso al marito quando erano soli, o
meglio in compagnia di Elizabeth, che
cuciva silenziosa in un angolo e stava ad
ascoltare. «Abbiamo perso due figli, e
non posso sopportare l’idea di perderne
un altro, di compiere un altro sacrificio»
dichiarò Mrs Lincoln un giorno verso
metà febbraio quando l’argomento fu
sollevato per l’ennesima volta.
«Ma molte madri hanno rinunciato a
tutti i loro figli, che amavano quanto noi
amiamo il nostro» le fece notare il
presidente. Elizabeth si aspettava quasi
che a quel punto le lanciassero entrambi
uno sguardo compassionevole, ma non
accadde. La feriva vedere che
sembravano aver dimenticato il suo lutto
e perfino la sua presenza.
«Sarà, ma non posso sopportare
l’idea che Robert si metta in pericolo. I
suoi servizi non sono necessari sul
campo, e il suo sacrificio sarebbe
inutile».
«I servizi di ogni uomo desideroso di
aiutare il suo paese sono necessari in
tempo di guerra» replicò il marito.
«Dovreste valutare la questione da un
punto di vista liberale e non egoista,
mamma».
Mrs Lincoln voleva a tutti i costi che
Robert continuasse gli studi, e siccome
nessuno dei due riusciva a persuadere
l’altro, lasciarono cadere il discorso; ci
avrebbe pensato Robert a rimetterlo in
campo.
Anche se le discussioni erano
terminate per il momento, le parole di
Mr Lincoln continuavano a frullare in
testa a Elizabeth. I servizi di ogni uomo
erano necessari, aveva detto. Forse le
bruciava ancora che i coniugi Lincoln
non avessero pensato che una di quelle
madri che aveva rinunciato a tutti i suoi
figli per la causa dell’Unione fosse con
loro, perché avvertiva un insolito
desiderio di rimproverare il presidente.
Ogni uomo che amava il suo paese,
aveva detto. Era tentata di chiedergli se
nel novero includesse anche gli uomini
di colore.
Perché non considerava anche i neri?
Se davvero c’era un bisogno disperato
di tutti gli uomini che amavano il loro
paese, doveva calcolare tutti gli uomini
di colore, non solo gli schiavi appena
emancipati che vivevano nei territori del
Sud riconquistati.
La previsione di Elizabeth che la
Contraband Relief Association sarebbe
diventata ancora più fondamentale dopo
l’emancipazione si dimostrò azzeccata. I
bisogni di uomini, donne e bambini nei
campi erano così enormi che perfino i
contributi
munifici
degli
amici
desiderosi di aiutare erano insufficienti
a procurare il minimo indispensabile.
Per tutto l’inverno Elizabeth consacrò
sempre più tempo e denaro, troppo
denaro, all’associazione. Per la prima
volta da quando si era insediata a
Washington ebbe difficoltà a sbarcare il
lunario, e non riusciva a sopportare la
preoccupazione e l’incertezza che quella
scarsità di risorse provocava in lei. Per
gran parte della vita aveva lavorato per
proprietari che non sapevano gestire il
proprio denaro, si riempivano di debiti
e si spostavano da una città all’altra nel
futile tentativo di migliorare la loro
condizione. Da schiava si era
ripromessa che, se avesse ottenuto la
libertà, mai sarebbe stata così poco
oculata con i soldi. Ora sembrava
invece che stesse seguendo i suoi ex
padroni sul sentiero dello sperpero. Non
cambiava nulla il fatto che i suoi debiti
fossero causati dall’altruismo e non dal
desiderio di uno stile di vita al di sopra
dei suoi mezzi; la conseguenza, in altre
parole la miseria, sarebbe stata la
stessa.
Le sarebbe piaciuto confidare i suoi
problemi alle amiche, ma non voleva
preoccupare inutilmente Emma con le
difficoltà
economiche
del
suo
laboratorio, e non desiderava turbare
Virginia che era incinta. Perciò si
angosciava per conto suo, in segreto, o
così credette fino a un certo giorno. Era
alla Casa Bianca e stava passando in
rassegna dei nastri per bordare un nuovo
abito, rimuginando sui propri problemi,
quando Mrs Lincoln esclamò a un tratto:
«Santo cielo, Lizzie, perché lanciate
quelle occhiate tetre ai nastri? Se
proprio non vi piacciono potete andare
nei negozi a cercarne altri, anche se non
so cos’abbiano di nuovo in nero...
Abbiamo già visto tutto!»
«Perdonatemi»
disse
Elizabeth
imbarazzata. «I nastri vanno benissimo,
ma confesso che sono altrove col
pensiero».
«Sapevo che c’era qualcosa che non
andava». La first lady le si sedette
accanto e posò una mano sulla sua.
«Ditemi tutto. Sono giorni che sospirate
e vi accigliate. Siete scontenta? Non
state bene?»
«Sono solo preoccupata». Elizabeth
esitò, ma si sentiva con le spalle al muro
e sapeva di dover dare qualche
spiegazione. «Vivo al di sopra dei miei
mezzi».
«Voi?» esclamò la first lady stupita.
«Non ci credo. Non siete mai stata una
scialacquatrice. Anzi, vi siete sempre
dimostrata oculata con le spese».
Elizabeth fece un sorriso tirato. «Non
spendo per me, questo è vero, ma
ultimamente, tolto quello che mi serve
per mangiare e per l’affitto, dono tutto ai
campi di ex schiavi».
«Se è così...» disse Mrs Lincoln,
cercando una soluzione per il problema
della sua collaboratrice «dovete
smetterla subito».
«Ma hanno tanto bisogno». Elizabeth
si fece forza e disse ciò che fino a quel
momento aveva voluto nascondere anche
a se stessa. «Devo guadagnare di più».
La first lady sembrò sorpresa.
«Lizzie, mia cara, mi piacerebbe
aiutarvi ma non posso pagare i vestiti
più di quanto faccia ora. Mio marito è
dell’avviso che spenda già troppo; non
negli abiti, intendo, ma in tutto il resto».
Quanto a questo, Elizabeth era
d’accordo con il presidente. «Oh, no,
Mrs Lincoln. Non volevo suggerire che
intendo aumentare le tariffe. Non mi
sognerei mai di chiedere alle mie clienti
di pagare più del giusto, e certo non a
voi». Esitò. «Penso tuttavia di dover
trovare un modo per guadagnare di più».
«Potete accettare nuove clienti,
confezionare più abiti?»
La sarta ripensò a quegli anni lunghi
e pesantissimi a Saint Louis quando
aveva lavorato fin quasi ad ammalarsi
per guadagnare di che acquistare la
libertà per sé e George. Rabbrividì al
ricordo del dolore, delle cefalee
continue, del male alla schiena, della
stanchezza
agli
occhi
e
dell’intorpidimento delle dita. «Non
credo che potrei lavorare più di così».
«Allora dev’esserci un altro modo
per aumentare gli incassi» dichiarò Mrs
Lincoln con ottimismo. «E ci devono
essere altre possibilità per finanziare
l’associazione, al di là del vostro
stipendio. Non ci abbiamo riflettuto
abbastanza. Qualcosa ci verrà in mente».
Elizabeth la ringraziò e si sentì subito
meglio, sebbene per il momento non
avesse trovato nessuna soluzione. Era un
piacere vedere Mrs Lincoln tornare
quella di un tempo, efficiente e piena di
spirito d’iniziativa.
Qualche giorno dopo Mrs Lincoln si
alzò all’arrivo della sarta e le strinse le
mani. «Mia cara, credo di avere una
soluzione».
«Sarebbe un’ottima notizia» replicò
Elizabeth, sorpresa e sollevata.
La first lady spiegò che il ministero
del Tesoro aveva bisogno di personale
che tagliasse i grandi fogli stampati per
dare alle banconote il loro formato
normale. Le sarte erano particolarmente
ricercate per questo lavoro, per via
della loro abilità con le forbici. «Non è
un lavoro difficile, e la paga è
accettabile» spiegò Mrs Lincoln,
palesemente soddisfatta di sé. «E
soprattutto, non dovrebbe portar via
tempo alla vostra attività principale».
«Io... non so cosa dire» balbettò
Elizabeth, completamente spiazzata.
«Sembra perfetto».
«Bene! Dovete fare domanda,
naturalmente, ma penso che con la mia
raccomandazione non avrete problemi».
Mrs Lincoln esitò per un attimo e parve
farsi forza. «C’è prima una piccola
prova da superare, un compito ingrato e
disonesto».
La scelta degli aggettivi era così
sconcertante che per un attimo Elizabeth
la guardò senza riuscire a parlare.
«Cosa intendete?»
«Penso che vi faciliterebbe le cose
essere presentata a Mr Chase prima di
fare domanda».
Parlava di Salmon P. Chase, ministro
del Tesoro e padre della rivale di Mrs
Lincoln in società, la bellissima Kate
Chase. «Ma voi disprezzate il ministro
Chase».
La first lady sollevò il viso e respirò
profondamente. «Metterò da parte il mio
disprezzo il tempo necessario per
organizzare l’incontro».
E così avvenne. Più tardi, quel
pomeriggio, quando Mr Chase giunse
alla Casa Bianca per intrattenersi con il
presidente, la moglie riuscì a farsi
trovare fuori dall’ufficio del marito alla
fine del colloquio. Dichiarandosi
entusiasta per quell’incontro casuale,
disse al ministro che desiderava
presentargli qualcuno e lo condusse nel
salotto privato, dove li aspettava
Elizabeth.
Quest’ultima aveva incrociato spesso
Mr Chase, ma senza che nessuno li
presentasse ufficialmente. Mise da parte
il cucito e si alzò, mantenendo
un’espressione neutra anche se il volto
del visitatore denotava fastidio e
impazienza. Tuttavia Mr Chase fece del
suo meglio per essere amabile quando la
first lady li presentò. «Mrs Keckley,
naturalmente» disse lui stringendole la
mano. «La celebre sarta. Mia figlia vi
stima molto».
«Grazie,
signore»
replicò
l’interessata. «La stima è reciproca».
Ignorò l’espressione scettica di Mrs
Lincoln che, per fortuna, Mr Chase non
notò.
La first lady arrivò subito al dunque,
e quando ebbe finito di spiegare lo
scopo dell’incontro Mr Chase le lanciò
uno sguardo indagatore e disse: «E così,
Mrs Keckley, vorreste rinunciare al
vostro lavoro di sarta per un posto al
ministero a tagliare le banconote? Da
quello che ho sentito, molte dame
dell’alta società ci resteranno male».
«Non intendo rinunciare al cucito,
signore»
rispose.
«Voglio
semplicemente aumentare i miei
guadagni».
«Nessuno nel distretto è più
qualificato di Elizabeth nel maneggiare
un paio di forbici» intervenne Mrs
Lincoln. «Il ministero del Tesoro non
dovrebbe avere problemi ad affidarle il
compito di tagliare dei fogli di carta
belli dritti. Il lavoro che svolge ogni
giorno è ben più difficile».
«Non ho dubbi». Mr Chase osservò
Elizabeth per un momento. «Benissimo,
Mrs Keckley. Se è ciò che desiderate,
dovreste fare domanda al ministero del
Tesoro. Dirò al mio assistente che
abbiamo parlato, dopodiché sono sicuro
che le vostre qualifiche sapranno essere
convincenti».
«Ve ne sono molto grata, signor
ministro» disse la sarta. Lui si
accomiatò con un cenno e uscì dalla
stanza, con Mrs Lincoln che si affrettò a
seguirlo come per ringraziarlo con mille
premure. Quando tornò, promise
all’amica che avrebbe scritto anche a
George Harrington, per aggiungere la
propria raccomandazione a quella di Mr
Chase.
La first lady si sedette subito con
carta e penna, e di lì a breve concluse
tamponando la lettera con la carta
assorbente. «Gli ho assicurato che siete
una donna piena di buona volontà che
svolge il proprio lavoro con grande
onestà» spiegò, soddisfatta del proprio
operato. «L’ho anche informato del fatto
che potrete cominciare a lavorare per lui
solo dalla metà di aprile, alla fine della
stagione degli eventi sociali, perché da
quel momento in avanti avrò meno
bisogno di voi. Spero che possa andarvi
bene».
«Il periodo sarebbe perfetto»
confermò Elizabeth. «Grazie mille, Mrs
Lincoln».
La dama, felice, chiamò un servitore
per affidagli la lettera. «E ora non ci
resta che aspettare una risposta».
Era solo questione di tempo, le
assicurò Mrs Lincoln il giorno dopo, e
poi di nuovo l’indomani. Forse Mr
Chase non aveva ancora trovato un
momento per affrontare la questione con
Mr Harrington. Ogni ministero sbrigava
le pratiche in corso meglio che poteva in
periodo di guerra, ma talvolta anche le
faccende più importanti subivano ritardi.
Passò una settimana, poi un’altra. Le
speranze di Elizabeth cominciarono a
diminuire, ma si guardò bene dal
lamentarsi. La first lady si era
dimostrata
molto
gentile
nel
raccomandarla a Chase e Harrington, e
lei non voleva apparire ingrata. La
moglie del presidente, tuttavia, non si
faceva nessuno scrupolo a protestare
quando riteneva che le lagnanze fossero
giustificate. Indignata per il fatto che il
ministero non avesse usato né alla sua
protetta né a lei stessa la cortesia di una
risposta, dichiarò che ne avrebbe
scoperto la ragione, anche se per farlo
avesse dovuto recarsi di persona al
ministero del Tesoro.
Elizabeth seppe che aveva trovato la
risposta quando una mattina arrivò alla
Casa Bianca e vide Mrs Lincoln in
atteggiamento pensoso davanti alla
finestra, con un’espressione dispiaciuta
e vagamente imbarazzata.
«Avete avuto notizie dal ministero
del Tesoro» indovinò Elizabeth. «Non
ho avuto il lavoro».
«Mi dispiace molto, Elizabeth»
esordì la first lady. «Erano tutti
d’accordo nel dire che le vostre
qualifiche andavano benissimo, ma mi è
stato detto che il supervisore di quel
reparto aveva delle... riserve. Deve
tener conto di come reagirebbero gli
altri dipendenti».
La sarta capì al volo, e si sentì
umiliata per aver coltivato anche se
brevemente la speranza di avere il
posto. «Gli altri dipendenti non
accetterebbero di lavorare accanto a una
donna di colore».
Mrs Lincoln attraversò la stanza e
andò a posare le mani sulle spalle
dell’amica. «È sbagliato, io lo so e mi
dispiace infinitamente. Se dipendesse da
me l’avreste voi, quel posto, e chiunque
non fosse contento sarebbe libero di
andarsene».
«Purtroppo, invece, non dipende da
voi».
«No» convenne la moglie del
presidente accigliandosi. «Anche se
penso che, in quanto first lady, dovrei
avere voce in capitolo».
Elizabeth
si
lasciò
cadere
stancamente su una sedia. Era dai tempi
della schiavitù che non si sentiva tanto
ferita, demoralizzata e indignata.
«Penseremo a qualcos’altro» la
rincuorò l’amica con un sorriso. «Non
arrendetevi, Elizabeth».
«Non è mia abitudine arrendermi»
replicò, ma non aveva idea di cos’altro
fare.
Per festeggiare il decimo compleanno
di Tad, Mrs Lincoln propose una visita
all’accampamento dell’Armata del
Potomac vicino a Falmouth, in Virginia,
sulla
sponda
settentrionale
del
Rappahannock. Sabato 4 aprile, nel bel
mezzo di un’inaspettata tempesta di neve
primaverile, il presidente, la sua
consorte, Tad e un gruppetto di amici,
alcuni responsabili dell’amministrazione
e qualche membro fidato della stampa
salirono a bordo dell’imbarcazione a
vapore Carrie Martin. Navigarono
verso sud, a valle, superando
Alexandria e Mount Vernon, dove le
campane del traghetto suonarono in
omaggio a George Washington secondo
la tradizione in uso lungo il fiume. La
nevicata violenta e accecante costrinse
il capitano a fermarsi in una cala
riparata per la notte e, sebbene la
tempesta si intensificasse, il mattino
dopo
proseguirono
e
giunsero
nell’affollato porto mercantile di Aquia
Creek il giorno di Pasqua. Il gruppo si
trasferì su un treno sul quale sventolava
la bandiera dell’Unione e che, sfidando
venti impetuosi e altre forti nevicate,
giunse alla stazione di Falmouth dove i
visitatori furono accolti dal generale
Hooker.
Le
condizioni
meteorologiche
ritardarono di un giorno il programma
ufficiale, ma nella settimana successiva
il presidente e la first lady
ispezionarono le truppe, assistettero a
una grandiosa sfilata della cavalleria,
visitarono gli ospedali da campo e si
avventurarono
sulla
riva
del
Rappahannock, da dove riuscirono a
vedere le truppe dei confederati che li
salutavano sbracciandosi dalla sponda
opposta. La famiglia tornò a Washington
l’11 aprile, di buonumore dopo la gita
fuori città. Quando Elizabeth andò alla
Casa Bianca il giorno successivo, notò
che il presidente sembrava incoraggiato
dalla prontezza, dalla forza e
dall’entusiasmo delle truppe che aveva
incontrato, mentre sua moglie appariva
più serena e rilassata, nonostante si
fosse verificato un fastidioso incidente:
al momento di salutare il presidente, una
cavallerizza esuberante dai capelli rossi
che aveva sposato un principe prussiano
e acquisito il titolo di principessa SalmSalm aveva baciato appassionatamente
Abraham Lincoln invece di stringergli la
mano. Entusiaste, alcune altre dame
avevano trovato il coraggio di imitarla,
e il presidente era stato quasi aggredito
dalle signore che volevano salutarlo con
trasporto. La principessa Salm-Salm
aveva spiegato ridendo che era stato il
generale Sickles a suggerire alle signore
di
rivolgere
al
presidente
quell’accoglienza
sperando
di
rallegrarlo. Mary Lincoln si era offesa
profondamente, ma aveva rifiutato di
permettere a quelle donne sciocche di
rovinarle la gita. Ciò che aveva sempre
desiderato più di tutto era trascorrere
del tempo con il marito e i figli, e senza
dubbio la breve gita con il presidente e
Tad le aveva fatto un gran bene.
Mrs Lincoln era tornata a Washington
con una nuova idea per aiutare Elizabeth
a
risolvere
il
suo
problema.
Conversando con il personale in un
ospedale da campo aveva saputo di una
nuova legge che accordava una pensione
alle vedove il cui unico figlio era morto
in guerra, come Elizabeth. «Tutto ciò che
dovete fare è inviare la domanda
all’Ufficio Pensioni degli Stati Uniti» le
assicurò la first lady. «A mio avviso è il
minimo che la nazione possa fare per
ringraziarvi del vostro sacrificio».
La sarta la ringraziò e non appena le
fu possibile si recò nell’apposito ufficio
a prendere i formulari. L’impiegato la
guardò incuriosito spiegandole le varie
firme e autorizzazioni che le servivano,
ma era abituata alle occhiate perplesse
da parte di uomini bianchi che la
vedevano in luoghi dove non si
aspettavano di trovare una donna di
colore, così lo ignorò. Solo più tardi,
dopo aver parlato con diversi uomini cui
aveva chiesto di testimoniare in suo
favore, capì di essere ancora una volta
sospesa in quello strano limbo tra il
mondo dei bianchi e quello dei neri, in
cui circostanze indipendenti da lei le
avrebbero impedito di ottenere la
pensione che tanto le serviva.
Anche
se
esistevano
alcuni
reggimenti di schiavi fuggiaschi, e
pareva che un giorno i neri sarebbero
stati regolarmente arruolati, George era
entrato nell’esercito quasi due anni
prima, facendosi passare per bianco. Lui
ci era riuscito, ma bastava dare
un’occhiata a Elizabeth per rendersi
conto che bianca non era. Sarebbe stato
difficile spiegare come una donna nera
avesse potuto partorire un uomo bianco,
ma il problema peggiore era un altro,
ovvero che suo figlio, agli occhi della
legge, era illegittimo. George era stato
concepito in seguito a uno stupro, era il
frutto di una relazione che lei non aveva
mai desiderato, eppure, a causa
dell’assurda moralità che sanciva i
rapporti tra razza, matrimonio e la
“peculiare istituzione” della schiavitù,
la sarta avrebbe patito le conseguenze di
quello che era visto come un
comportamento sessuale inappropriato.
Elizabeth, scoraggiata, temeva che
non ci fosse più nulla da fare; proprio
quando ormai era in preda allo
sconforto, Mary Welch, cliente di
vecchia data che aveva conosciuto a
Saint Louis, si fece raccontare la sua
storia. «Credo di conoscere qualcuno in
grado di aiutarvi» le disse premurosa la
donna, indignata per il trattamento
ingiusto che la sarta si trovava a subire
per colpa della burocrazia. «Ci penso
io».
Qualche giorno dopo Miss Welch
presentò Elizabeth al suo amico Owen
Lovejoy, membro del Congresso
originario dell’Illinois, abolizionista
convinto che aveva molta esperienza
nello sciogliere i nodi più intricati delle
leggi che perpetuavano le ingiustizie
razziali. Accettò di buon grado di
aiutarla a preparare la domanda, e
quando fu costretto a tornare
nell’Illinois prima di avere finito,
incaricò il fratello Joseph di prendere il
suo posto. Un terzo fratello, Elijah, il
maggiore, era stato ucciso circa
venticinque anni prima mentre cercava
di difendere la macchina da stampa del
suo giornale abolizionista da una folla
inferocita di schiavisti.
Entrambi i fratelli sopravvissuti
erano presenti quando Owen Lovejoy la
convocò in ufficio per spiegarle la
soluzione che proponeva al suo
dilemma. «Il fatto è che l’esercito
dell’Unione pensa che vostro figlio sia
bianco» esordì Owen. Aveva un viso
intelligente, occhi vivaci e i capelli neri
su una fronte volitiva. «Dobbiamo
invece dimostrare che George era il
figlio mulatto e legittimo vostro e di Mr
Alexander Kirkland».
Elizabeth avvertì una stretta di
apprensione. «Come faremo?»
I fratelli si scambiarono un’occhiata,
poi fu Joseph Lovejoy a parlare.
«Testimonierete che voi e Mr Kirkland
eravate sposati».
«Ma non lo siamo mai stati» protestò
lei debolmente. Il solo pensiero le dava
il voltastomaco. «Anche se l’idea non
fosse completamente ripugnante ai miei
occhi, non potrei mai posare la mano
sulla Sacra Bibbia e giurare il falso».
I fratelli si scambiarono un’altra
occhiata, e la donna capì che avevano
previsto quella sua reazione. «Mrs
Keckley» riprese Owen Lovejoy con
tatto, «abbiamo studiato la faccenda
sotto ogni punto di vista, e la nostra
opinione è che questo sia l’unico modo
per ottenere la pensione».
«Voi siete la madre vedova di un
soldato ucciso al fronte, giusto?» chiese
Joseph Lovejoy.
«Certo»
replicò
Elizabeth
disorientata.
«E la legge non prevede che le madri
vedove che hanno subito questa perdita
abbiano diritto alla pensione?»
«Sì».
«Allora spero che sarete d’accordo
con noi nel ritenere ingiusto privarvi di
quella pensione solo perché altre leggi
di minore importanza vi sono avverse».
«Vostro figlio non si è mai finto
bianco» proseguì Owen Lovejoy. «Si è
messo in fila per arruolarsi e, quando ha
firmato sul foglio, chi lo ha arruolato ha
desunto che fosse bianco, ed è stato ben
felice che avesse deciso di unirsi
all’esercito».
«Vostro figlio non ha mentito per
arruolarsi» aggiunse il fratello, come
per rassicurarla. Effettivamente le era di
conforto sapere che George non avesse
raccontato menzogne.
«Per
quanto
riguarda
l’altra
difficoltà...» Owen esitò. «Perdonatemi
se tocco un argomento che, posso
benissimo immaginarlo, vi turba e vi
addolora profondamente. Le circostanze
del concepimento di vostro figlio non
sono colpa vostra. Non è stata una
vostra scelta dare a Mr Kirkland un
figlio al di fuori dal matrimonio».
Non era stata sua scelta dargli un
figlio tout court, stava per replicare lei,
ma non riuscì a pronunciare quelle
parole che sarebbero state interpretate,
da gente che non la conosceva bene,
come un rifiuto del proprio figlio,
l’ammissione di non averlo amato. La
verità più importante della sua vita era
invece che aveva amato George con tutta
se stessa, con fierezza, con la medesima
passione di cui si nutriva l’odio per suo
padre.
«Sarebbe
quindi
una
grave
ingiustizia» continuò Owen Lovejoy «far
prevalere la lettera della legge su un
autentico atto di giustizia. È giusto che
riceviate la pensione alla quale vi dà
diritto il sacrificio patriottico di vostro
figlio».
«E se vi negano la pensione»
aggiunse suo fratello con un tono di sfida
nella voce, «ciò non farà che contribuire
alla nostra causa politica».
Elizabeth non capiva bene a quale
causa alludesse – l’abolizionismo?
L’uguaglianza? La causa repubblicana? –
ma a lei serviva qualcosa che le
tornasse utile subito, non una vittoria
politica intangibile che risultasse
preziosa negli anni a venire. «Parlate
tutti e due come avvocati» replicò con
voce incerta. «Non dovete adoperarvi
con mille lusinghe, cercando di
nascondere il vostro vero scopo. So che
volete aiutarmi, quindi vi prego di
parlarmi chiaramente. Mi suggerite di
mentire per ottenere la pensione,
giusto?»
«Ebbene...» Joseph Lovejoy esitò.
«Sì. Mentire è sbagliato, ma in questo
caso una piccola bugia permette che
giustizia sia fatta».
«Credete che solo mentendo riuscirò
a far accettare la mia domanda?»
«Ne sono sicuro» dichiarò Owen
Lovejoy in un tono che non lasciava
adito a dubbi.
«Allora lo farò».
I fratelli
Lovejoy annuirono,
soddisfatti di averla persuasa. Si chiese
se avessero capito quale delle loro frasi,
perfettamente studiate, aveva sortito
l’effetto sperato. Owen Lovejoy aveva
detto – e la legge lo confermava – che
suo figlio aveva permesso alla madre di
aspirare alla pensione dando la vita per
l’Unione. Erano state quelle parole a
convincerla. Non avrebbe gettato via
l’ultimo dono che George le aveva fatto
solo per obbedire a stupide leggi sulla
razza e il matrimonio che non erano state
pensate per le esigenze dei neri e non
avevano mai aiutato un solo schiavo.
Perché quelle leggi dovevano essere
applicate al suo caso preciso quando
non erano mai intervenute in suo aiuto
negli anni lunghi e difficili in cui
avrebbero potuto alleviare le sue
sofferenze?
Era sicura che il Signore l’avrebbe
perdonata per le menzogne che si
apprestava a dire, in tutta libertà e senza
scrupoli.
Verso la metà di aprile Elizabeth si
presentò al cospetto del giudice di pace
William S. Clary e due rispettabili
testimoni per prestare la propria
testimonianza sotto giuramento. Era
vedova e madre di George W.D.
Kirkland, soldato semplice del Primo
Reggimento Volontari del Missouri,
Compagnia D, ucciso il 10 agosto 1861
nella battaglia di Wilson’s Creek. Il
padre di George era il suo primo marito,
Alexander Kirkland, un uomo bianco
morto quando George aveva solo
diciotto mesi. Più tardi la famiglia
Garland aveva portato con sé la madre e
il figlio a Saint Louis, dove Elizabeth
aveva sposato James Keckley, ma nel
corso degli ultimi tre anni avevano
vissuto separati ed Elizabeth non
riceveva da lui nessuna forma di aiuto
materiale. Aveva acquistato la libertà
per sé e per il figlio per milleduecento
dollari, a prezzo di grandi fatiche e di
lavoro durissimo, e aveva sperato che il
figlio, quando avesse percepito uno
stipendio, l’avrebbe aiutata a ripagare i
debiti che aveva contratto per
riscattarsi. Doveva ancora restituire
duecento dollari, oltre ad altri cento che
doveva versare per gli studi di George.
George non lasciava una vedova né figli
minori di sedici anni. Elizabeth non si
era in nessun modo impegnata, né aveva
favorito o collaborato, con la ribellione
negli Stati Uniti, e aveva sacrificato
volentieri la vita di suo figlio sull’altare
del paese.
Qualunque residuo di senso di colpa
per la bugia svanì quando i due
testimoni, Daniel A. Payne, vescovo
dell’African
Methodist
Episcopal
Church, e John M. Brown, sacerdote,
giurarono in separata sede che la
conoscevano da dieci anni e che ogni
parola
della
sua
testimonianza
corrispondeva al vero. Elizabeth si
chiese come mai tutti credessero a
quelle parole, visto che non aveva mai
negato – e sarebbe stato facile
dimostrarlo – di essere arrivata a
Washington nel 1860.
Ma Elizabeth giurò solennemente, e i
documenti furono firmati con tanto di
sigilli; nel giro di qualche settimana la
sua domanda fu accettata. Da quel
giorno in poi, e per il resto della sua
esistenza, ricevette una pensione dal
governo federale. Se era del tutto
inadeguata per compensare la sua
perdita – otto dollari al mese, in seguito
diventati dodici, per la vita di suo figlio
–, spesso quei soldi facevano la
differenza tra serenità e preoccupazione,
e quindi li accettò con riconoscenza.
Il bel tempo primaverile contribuì a
sollevare leggermente il morale della
città assillata da tanti problemi, ma
Elizabeth aveva l’impressione che il
presidente Lincoln dimagrisse a vista
d’occhio e invecchiasse anzitempo a
causa delle preoccupazioni che gli
procurava
la
guerra.
L’esercito
dell’Unione aveva un bisogno disperato
di soldati, tanto che il Congresso era
stato costretto ad approvare una legge
per il reclutamento di uomini bianchi
sposati tra i venti e i trentacinque anni, e
di uomini bianchi scapoli fino ai
quarantacinque anni. I neri erano esentati
perché non erano considerati cittadini, e
chiunque potesse permettersi di pagarsi i
servizi di un sostituto evitava il servizio
militare. L’ingiustizia di un sistema che
mandava in guerra i poveri e permetteva
ai ricchi di evitarlo pagando creò un
clima di profondo risentimento in tutto il
Nord.
Alla fine di aprile e all’inizio di
maggio le forze dell’Unione e degli stati
confederati
si
scontrarono
a
Chancellorsville, un luogo di passaggio
a ovest di Fredericksburg nella contea di
Spotsylvania, in Virginia. Anche se i
confederati persero il loro tanto esaltato
generale Stonewall Jackson, morto sotto
il fuoco amico, il generale Lee conquistò
una vittoria decisiva in quella che fu la
battaglia più sanguinosa della guerra
fino a quel momento, con oltre
diciassettemila morti per il Nord e quasi
tredicimila per il Sud. La drammatica
notizia giunse a Washington insieme a
migliaia di feriti, trasformando ancora
una volta la città in un caotico ospedale
da campo, pervaso dal lezzo di morte e
marciume; Elizabeth teneva le finestre
chiuse giorno e notte, nel futile tentativo
di lasciar fuori gli odori e gli orrori del
campo di battaglia che quel puzzo
nauseabondo evocava.
Alcune settimane dopo, a metà
maggio, il generale Grant condusse le
sue truppe oltre il Big Black River in
Mississippi e fino a Vicksburg, ma due
attacchi diretti alla città furono respinti,
e le forze dell’Unione dovettero
risolversi a iniziare un assedio tedioso e
demoralizzante.
A Mary Lincoln non piaceva che il
marito si aggirasse per Washington senza
una scorta armata, per via delle
numerose lettere contenenti minacce di
morte, ma il presidente faceva spesso la
spola da solo tra la Casa Bianca e
l’ufficio del telegrafo al ministero della
Guerra per procurarsi le notizie più
recenti dal fronte. Una volta, mentre
Elizabeth era con Mrs Lincoln nel
salotto privato a provarle un abito, il
presidente tornò da una di quelle
passeggiate solitarie con passo lento e
pesante, e con un’espressione infelice e
preoccupata. Come un ragazzino esausto
si sdraiò su un divano e si coprì gli
occhi con le lunghe mani ossute,
l’immagine stessa dello scoramento.
La first lady scambiò uno sguardo
preoccupato con la sarta e chiese:
«Dove siete stato, papà?»
«Al ministero della Guerra».
La moglie non si lasciò intimidire dal
tono brusco. «Ci sono novità?»
«Sì, molte, ma nessuna positiva. È
tutto buio. L’oscurità regna ovunque».
Mrs Lincoln fece un lieve sospiro, ed
Elizabeth provò un moto di solidarietà
nei confronti del presidente. Cercava di
immaginare cosa si provasse a portare
un fardello del genere, e non sapeva
come un uomo solo potesse riuscirvi.
Continuò a lavorare sul corpetto
dell’abito, e con la coda dell’occhio
vide Mr Lincoln che allungava il
braccio e prendeva una Bibbia dal
tavolino accanto al sofà, la apriva e la
sfogliava distrattamente, finché un brano
non attirò la sua attenzione. Si immerse
subito nella lettura, e dopo un quarto
d’ora di silenzio quasi assoluto la sarta
gli lanciò un’occhiata e scoprì che la sua
espressione era ben diversa da prima,
quasi allegra. La smorfia abbattuta era
scomparsa, e al suo posto si vedevano
una nuova determinazione e la speranza.
Curiosa, Elizabeth si chiese cosa aveva
letto per trarne un conforto così
immediato. Mormorando una scusa
qualsiasi – un puntaspilli che non
riusciva a trovare – la sarta passò dietro
al divano fingendo di cercare l’oggetto
perduto e scoprì che il presidente stava
leggendo un passo del Libro di Giobbe.
Intenerita, immaginò quasi che Lincoln
avesse udito il Signore che gli parlava
in tono stentoreo nella confusione della
battaglia: «Orsù, cingiti i lombi, come
un prode; io ti interrogherò e tu mi
risponderai». Lo spettacolo sublime del
capo di una nazione tanto importante che
cercava consolazione e coraggio nelle
Sacre Scritture e trovava entrambi in un
momento così buio la commosse, e
dovette calmarsi prima di tornare da
Mrs Lincoln.
Anche la moglie consultava la Bibbia
per trarne conforto e consigli, ma dopo
la morte di Willie si rifugiava
soprattutto
nei
misteri
dello
spiritualismo. Consultava i medium e li
invitava a tenere delle sedute alla Casa
Bianca, sperando di entrare in
comunicazione con gli spiriti dei figli
morti. Non solo gli spiritualisti più abili
riuscivano a mostrarle Willie ed Eddie e
a farla comunicare con loro, secondo
Mrs Lincoln, ma la avvertivano anche di
nuove pericolose offensive che il
generale Lee stava programmando e dei
tradimenti in atto fra i ministri di suo
marito. «Sono stata avvisata che non c’è
uno tra loro, a eccezione dell’ufficiale a
capo del servizio postale nazionale, che
non pugnalerebbe mio marito alle spalle
se ne avesse l’occasione» confessò la
first lady a Elizabeth il mattino dopo una
seduta. Se la sarta credeva che alcuni
spiritualisti possedessero indubbiamente
facoltà inspiegabili, sapeva bene che
anche prima di quei messaggi dall’aldilà
Mrs Lincoln pensava che i ministri
fossero motivati da avidità e sete di
potere piuttosto che da amore per il
paese e lealtà nei confronti di suo
marito.
Riguardo
allo
spiritualismo,
Elizabeth incoraggiava la consorte del
presidente a dimostrare un briciolo di
sano scetticismo. Imbroglioni senza
scrupoli sfruttavano la credulità di
vedove o genitori che avevano perso i
figli, interpretando lo squillo di un
campanello invisibile o colpi misteriosi
come messaggi dei cari defunti, frasi in
codice di amore eterno e conforto,
quando invece erano i medium stessi a
produrre quei rumori con aggeggi
nascosti sotto il tavolo. L’estate
precedente Mrs Lincoln era per
l’appunto stata raggirata da un furfante
del genere, un affabile gentiluomo
inglese che si faceva chiamare Lord
Colchester e affermava di essere il
figlio illegittimo di un duca britannico.
Si era guadagnato una certa reputazione
a Washington per le sue presunte
capacità medianiche, così Mary Lincoln
un giorno lo invitò alla Casa Bianca per
una dimostrazione. Qualche tempo dopo
certe voci riguardo al presunto
gentiluomo alimentarono i sospetti del
presidente, che chiese al dottor Joseph
Henry, direttore della Smithsonian
Institution, di investigare. A sua volta il
dottor Henry chiamò in aiuto Noah
Brooks, corrispondente del Sacramento
Union e il miglior amico del presidente
Lincoln tra i giornalisti. Mr Brooks
partecipò a una delle sedute di Lord
Colchester in una stanza buia nella
residenza di un suo seguace, e quando
gli spiriti divennero particolarmente
loquaci mise una mano sotto il tavolo, ne
afferrò una che stava battendo contro un
tamburo con un campanello e gridò:
«Accendete un fiammifero!» Prima che
qualcuno dei partecipanti esterrefatti
avesse la prontezza di reagire, il
tamburo si abbatté sulla fronte di Mr
Brooks. Quando uno dei presenti si
decise infine ad accendere una lampada,
illuminò una scena che aveva
dell’incredibile: Mr Brooks con il viso
insanguinato che teneva stretto per un
braccio Lord Colchester.
Nel parapiglia che seguì l’inglese
riuscì a dileguarsi, ma qualche giorno
dopo Mrs Lincoln convocò Mr Brooks
alla Casa Bianca. Aveva ricevuto un
biglietto da Lord Colchester che le
chiedeva di intercedere presso il
ministero della Guerra e di procurargli
un lasciapassare, facendo capire che in
caso contrario non avrebbe esitato a
ricattarla. Insieme Mrs Lincoln e Mr
Brooks organizzarono la venuta del falso
medium
alla
Casa
Bianca,
promettendogli il lasciapassare, ma al
suo arrivo Mr Brooks lo affrontò,
dandogli
del
truffatore
e
dell’imbroglione, e gli ordinò di
andarsene
immediatamente
da
Washington se non voleva ritrovarsi
nella prigione del vecchio Campidoglio.
Lord Colchester seguì il consiglio e non
causò più alcun fastidio alla first lady.
Mentre raccontava alla sua sarta tutta la
storia, Mrs Lincoln rideva così di gusto
che sembrava che fosse stata vittima di
uno scherzo innocuo più che dei raggiri
di un ciarlatano. Anche se Lord
Colchester era stato smascherato, Mrs
Lincoln continuava ad avere fiducia
negli altri spiritualisti e a credere che i
suoi cari figli Willie ed Eddie le
apparissero sul serio, non solo nel bel
mezzo di una seduta, ma accanto al suo
letto di notte, quando la destavano per
assicurarle che erano insieme e felici in
cielo.
Non tutti i messaggi trasmessi a Mrs
Lincoln erano portatori di conforto.
Talvolta, arrivando alla Casa Bianca,
Elizabeth trovava la first lady pallida e
scossa, con ombre scure sotto gli occhi.
Significava che la notte precedente
aveva avuto terribili premonizioni
sull’assassinio del marito. Erano solo
incubi, cercava di rassicurarla l’amica,
certamente angosciosi, ma nulla più che
brutti sogni. La moglie del presidente
non ne era convinta, e anche Elizabeth
doveva ammettere che esisteva un
fondamento reale per quelle paure.
C’era la guerra. Abraham Lincoln si
muoveva liberamente in una città piena
di forestieri e secessionisti. Riceveva
regolarmente lettere piene di minacce
terribili, anche di morte. A volte gli
amici erano così preoccupati che
dormivano a turno alla Casa Bianca per
vegliare su di lui. Da parte sua, anche se
talvolta anche lui aveva sogni
premonitori o passava notti insonni, il
presidente ignorava i pericoli o li
sdrammatizzava ridendo, e mal tollerava
le guardie che gli facevano da scorta per
gli spostamenti più lunghi.
Un pomeriggio, mentre Elizabeth
cuciva nel salotto dei Lincoln, la first
lady interruppe la conversazione
vedendo il marito infilarsi soprascarpe e
mantella. «Dove andate, papà?» chiese.
«Vado al ministero della Guerra,
mamma»
replicò
lui
rassegnato
alzandosi mentre si sistemava il colletto,
«per vedere se ci sono notizie».
«Ma, papà, non dovreste andarci da
solo. Sapete che siete circondato dai
pericoli».
«Sono tutte invenzioni» sentenziò lui.
«Perché qualcuno dovrebbe volermi fare
del male? Non preoccupatevi per me
come se fossi un bambino, perché
nessuno mi darà fastidio». Tranquillo, o
forse semplicemente fatalista, partì per
la sua passeggiata solitaria chiudendosi
la porta alle spalle.
Mary Lincoln non riusciva a provare
la stessa, ostinata sicurezza. Sembrava
vedere il pericolo nel fruscio di ogni
foglia, nel soffio del vento, ed Elizabeth
non se la sentiva di darle torto.
9.
Giugno-dicembre 1863
Per mesi il presidente aveva rifiutato di
ascoltare chi lo esortava a permettere a
schiavi appena liberati o nati liberi di
arruolarsi per combattere, ma con il
passare del tempo, osservò Elizabeth, la
sua resistenza andava scemando. Forse
l’aumento delle richieste da parte dei
repubblicani radicali, le insistenze di
personaggi di spicco della comunità
nera come Frederick Douglass, e
soprattutto il bisogno disperato di nuovi
uomini da parte dell’esercito lo avevano
indotto ad adottare una prospettiva più
pragmatica e libera da pregiudizi. Uno
dei portieri della Casa Bianca disse un
giorno a Elizabeth che una volta il
vicepresidente Hamlin aveva presentato
a Lincoln suo figlio e diversi altri
ufficiali bianchi che si dicevano disposti
a dirigere compagnie di soldati neri. «Il
presidente sembrava molto colpito» le
confidò il portiere, «e poi ha detto:
“Immagino che i tempi siano maturi”».
«Se volete sapere il mio parere, i
tempi erano “maturi” già mesi fa, e
aspettavano solo che il presidente si
decidesse»
ribatté
bruscamente
Elizabeth. Non era da lei criticare
Lincoln, che ammirava e rispettava, ma
su
quell’argomento,
come
sull’emancipazione, non sopportava i
suoi temporeggiamenti dannosi e
inspiegabili. Ma come sempre si disse
che probabilmente aveva le sue buone
ragioni per aspettare.
Poi, a fine maggio, il ministero della
Guerra emanò l’Ordine 143, che
istituiva il Bureau of Colored Troops
per reclutare e addestrare uomini di
colore. A metà giugno, il primo
reggimento di soldati di colore vide la
luce a Washington e cominciò
l’addestramento sull’isola di Analostan,
nel fiume Potomac, vicino alla riva della
Virginia,
a
poca
distanza
da
Georgetown. La loro presenza suscitò
l’orgoglio della comunità nera di
Washington e dei profughi che vivevano
ancora nei campi di ex schiavi. Quando
Elizabeth andava nei campi a insegnare
e a distribuire prodotti di prima
necessità, udiva uomini e donne parlarne
come dei “nostri soldati”. Erano
diventati i figli e fratelli di ogni famiglia
di colore.
Quando il tempo divenne afoso, in
giugno, Mrs Lincoln si trasferì al Nord,
come aveva fatto nelle estati precedenti,
per sfuggire al caldo e agli altri
inconvenienti dell’estate. Lei e Tad
trascorsero una settimana dalla sua
amica Sally Orne a Filadelfia, per poi
tornare a Washington a preparare il
trasferimento estivo della famiglia nel
rifugio fresco e tranquillo di Soldiers’
Home. Mentre Mrs Lincoln era assente
da Washington, Virginia diede alla luce
una bella bambina, che lei e Walker
chiamarono Alberta Elizabeth. Il parto
fu facile, e madre e figlia erano in ottima
salute. Elizabeth si sentì fiera e onorata
quando i Lewis le chiesero di essere la
madrina di Alberta, e accettò con
piacere.
Era una fortuna insperata che la
nascita coincidesse con l’assenza della
first lady, perché Elizabeth fu più libera
di occuparsi di Virginia dopo il parto e
aiutò Walker a prendersi cura degli altri
figli più grandi. Non si aspettava di
rivedere Mary Lincoln prima della fine
dell’estate o dell’inizio dell’autunno, ma
il 2 luglio, quando a Washington si
sparse la voce che il generale Lee aveva
cominciato ad avanzare verso il
Potomac, ricevette la terribile notizia
che Mrs Lincoln era rimasta gravemente
ferita in un incidente di carrozza.
La sarta si precipitò subito alla Casa
Bianca, dove trovò la consorte del
presidente a letto con la testa fasciata in
compagnia dell’infermiera Pomroy.
«Mrs Lincoln!» esclamò, andandole
subito accanto. «Cos’è successo? State
bene?»
«Oh, Elizabeth, siete stata buona a
venire. Sono un po’ acciaccata, ma sto
bene». Era pallida e aveva un’aria
preoccupata. Aspettò che l’infermiera
uscisse dalla stanza prima di aggiungere:
«Io e il presidente eravamo a Soldiers’
Home. Lui voleva prendere la carrozza
per venire in città, ma all’ultimo
momento ha deciso di precedermi a
cavallo, mentre io ho preso la carrozza
più tardi».
«E Tad?» chiese subito Elizabeth
preoccupata. «Era con voi?»
«No, grazie al cielo. È rimasto là con
degli amici». Mrs Lincoln trasse un
lungo respiro tremante. «Andava tutto
bene, quando, senza preavviso, i cavalli
si sono imbizzarriti e la carrozza è
andata in mille pezzi. Sono dovuta
saltare giù, altrimenti... altrimenti non so
cosa sarebbe successo, non voglio
neanche pensarci».
«Vi siete fatta male nella carrozza o
saltando?»
«In nessuno dei due modi» rispose la
first lady con un sorriso amaro. «Sono
semplicemente caduta male. Sono
inciampata e ho sbattuto la testa contro
un sasso. Ho perso parecchio sangue e
confesso che, dopo, mi sono sentita un
po’ confusa, ma per fortuna è accaduto
quasi davanti a un ospedale militare,
pensate un po’, e alcuni soldati si sono
precipitati a soccorrermi».
«Grazie al cielo erano proprio lì».
«Grazie al cielo, davvero». Mrs
Lincoln le prese la mano e la fece
sedere accanto al letto. «Elizabeth, ho
paura. Non è stato un incidente».
La sarta fu percorsa da un brivido.
«Cosa intendete?»
La voce di Mary Lincoln tremò, e la
sua mano strinse quella dell’amica.
«Quando sono riusciti a calmare i
cavalli, hanno scoperto che qualcuno
aveva svitato i bulloni che fissavano il
sedile della carrozza. Quando il sedile
si è staccato, ha spaventato i cavalli.
Ecco perché si sono imbizzarriti e hanno
cercato di scappare».
«Terribile!» esclamò Elizabeth.
«Qualcuno avrebbe cercato di farvi del
male apposta?»
«Non a me, ma al presidente. Doveva
esserci lui a bordo della carrozza,
ricordate?»
«Oh, Signore». La sarta si sentì
venire meno dallo spavento. «Avete idea
di chi possa essere il responsabile?»
Mrs Lincoln scosse il capo. «Mio
marito ha contro la popolazione di interi
stati. Il colpevole potrebbe essere
l’autore di una di quelle lettere ignobili
che ha ricevuto. Avremmo dovuto tenere
una lista dei nomi. Oppure potrebbe
essere una spia venuta dal Sud e
mandata da Jefferson Davis in persona».
Elizabeth non riusciva a concepire
che il senatore Davis potesse essere il
mandante dell’attentato, ma l’aveva
conosciuto in tempo di pace, non durante
la guerra. Poteva essere cambiato.
«A questo punto, mio marito deve per
forza accettare di aumentare le guardie
del corpo». Mary Lincoln si lasciò
ricadere contro il cuscino. «Devo
insistere, e non potrà far altro che
accettare. Potete immaginare come si
senta in colpa sapendo che sono rimasta
ferita al posto suo».
Elizabeth rise suo malgrado. «Allora
direi che dovete sfruttare questo vostro
vantaggio».
Mrs Lincoln le fece eco, ma con una
risata più debole che tradiva una leggera
nota isterica. «Non ci avevo pensato.
Forse dovrei approfittarne anche per
confessargli i miei debiti».
«Oh, no, quello no. Per lui sarebbe un
colpo anche più duro dell’incidente
della carrozza».
La malata sorrise, troppo stanca per
ridere. Chiuse gli occhi ed Elizabeth le
tenne la mano finché non si fu
addormentata.
Il mattino dopo la convalescente
stava molto meglio e riprese i
preparativi per una celebrazione
grandiosa del giorno dell’Indipendenza.
Per la prima volta dopo la morte di
Willie aveva accettato che fosse una
festa in grande stile, con la banda della
Marina che doveva esibirsi sul prato
della Casa Bianca, una grande tribuna
per il pubblico eretta per l’occasione sul
Mall, fuochi d’artificio e una sfilata di
reggimenti e di dodici delegazioni di
Massoni, Odd Fellows e Union League.
Lo spettacolo intendeva stimolare il
patriottismo e risollevare il morale della
gente, ma con i dissapori crescenti legati
alle nuove leggi varate dal Congresso
sulla coscrizione e la preoccupazione
per l’avanzata sicura dell’esercito dei
confederati, qualcuno nelle alte sfere
dell’amministrazione
premeva
per
annullare la cerimonia. Tutta Washington
era in preda a un’agitazione nervosa
quando il generale Lee condusse
l’esercito al di là del Potomac in
Pennsylvania. Cominciò a farsi strada la
certezza che uno scontro militare in
quello stato fosse imminente, e la paura
per Washington indifesa dilagò. Ma
quando il segretario personale del
presidente
le
confidò
quelle
apprensioni, Mrs Lincoln ribadì decisa
che secondo suo marito le forze
dell’Unione
avrebbero
arrestato
l’avanzata di Lee, e che loro per primi
non dovevano perdere l’ottimismo,
altrimenti tutta la città si sarebbe
lasciata prendere dalla disperazione.
La celebrazione si tenne quindi come
previsto, anche se la moglie del
presidente non vi prese parte. La mattina
del 4 luglio, mentre il marito aspettava
apprensivo notizie da Vicksburg, dove
Grant stava tentando di sferrare un
nuovo attacco alla città, e da una
cittadina agricola in Pennsylvania
chiamata Gettysburg, dove le forze
dell’Unione e l’esercito degli stati
confederati stavano combattendo, le
condizioni della first lady in seguito alla
caduta
peggiorarono
bruscamente.
Mentre Elizabeth era fuori con Emma a
godersi la giornata di festa, un
messaggero andò a cercarla a casa senza
trovarla. Solo a metà pomeriggio seppe
che c’era bisogno di lei, e corse alla
Casa Bianca.
Trovò Mrs Lincoln a letto,
febbricitante e agitata. Quella mattina
l’infermiera Pomroy aveva scoperto che
la ferita si era infettata profondamente,
ed era stata costretta a riaprirla per far
uscire il pus. La piaga si era infiammata,
e Mrs Lincoln soffriva parecchio.
Elizabeth le restò accanto quel giorno
e il successivo, e in certi momenti la
febbre si alzò tanto che il presidente
mandò un telegramma a Robert
ingiungendogli di tornare a casa subito.
Lincoln faceva la spola tra la stanza
dove giaceva la moglie e l’ufficio del
telegrafo, ma la notizia della vittoria
dell’Unione a Gettysburg e del successo,
probabile ma non ancora confermato, di
Grant a Vicksburg lo distrassero solo
momentaneamente dal declino della
moglie.
Elizabeth assistette l’infermiera
meglio che poté, ma con sua grande
frustrazione non poteva fare molto, oltre
a tamponare la fronte della malata con
una pezza umida, leggerle qualcosa,
assicurarle che sarebbe andato tutto
bene e pregare. Nel giro di pochi giorni
il successo del generale Grant a
Vicksburg fu confermato e sembrò che le
sorti della guerra volgessero finalmente
a favore dell’Unione, ma Mrs Lincoln
non migliorava e Robert non era ancora
arrivato. Preoccupato del fatto che
nessuno sapesse dove si trovava suo
figlio, il presidente telegrafò di nuovo a
Robert, esortandolo a tornare a
Washington al più presto. Proprio allora
a New York – l’ultimo luogo dove
Robert era stato visto – esplosero dei
tafferugli per via della coscrizione: per
diversi giorni squadre di bianchi, quasi
tutti immigrati irlandesi, attaccarono gli
uffici di leva, razziarono negozi,
distrussero botteghe di proprietari neri,
bruciarono un orfanotrofio per bambini
di colore e aggredirono i neri per le
strade, uccidendone brutalmente più di
cento. Alla fine la milizia di stato di
New York e altre truppe furono mandate
a ristabilire l’ordine, ma quell’ondata di
morte e distruzione sconvolse il Nord e
alimentò la paura che la coscrizione
causasse atti di violenza simili in altre
città.
Due settimane dopo l’incidente di
Mrs Lincoln, il presidente sembrava
così provato dalla preoccupazione e
dalla tensione che Elizabeth prese a
temere per la sua salute, oltre che per
quella della moglie. Mentre il Nord
celebrava le recenti vittorie militari,
Abraham Lincoln si concentrava sulle
disgrazie: New York era nel caos più
totale, il generale Meade si era lasciato
scappare Lee, Robert Lincoln aveva
fatto perdere le sue tracce e la first lady
si stava spegnendo a causa di un
incidente che avrebbe dovuto capitare a
lui.
Infine, alcuni giorni dopo, Robert
arrivò a casa, rassicurando il padre. Se
il
ragazzo
aveva
fornito
una
giustificazione per la lunga assenza e il
suo silenzio, Elizabeth non la seppe mai.
Grazie alle cure amorevoli prodigate
dall’infermiera Pomroy, Mrs Lincoln
cominciò a migliorare: la febbre si
abbassò, la ferita si chiuse. Con grande
sollievo di Elizabeth, ogni giorno
sembrava restituirle un po’ più di forza,
ma il caldo e l’umidità estivi non le
permettevano di guarire del tutto.
Quando un’epidemia di malaria si
diffuse in città, fu deciso che la first lady
non era in grado di sopportare il clima
di Washington nelle sue condizioni e che
avrebbe dovuto trasferirsi al Nord
finché non si fosse ristabilita del tutto. Il
presidente diede rapidamente le
disposizioni necessarie: non appena
fosse stata abbastanza in forze, Robert
avrebbe scortato la madre e il fratello
minore in una casa di cura a Manchester,
in Vermont, un luogo situato fra le
splendide Green Mountains e famoso
per le proprietà curative delle sue acque
minerali. A Elizabeth parve un rifugio
fresco che favoriva il riposo, ideale per
la convalescenza della sua amica.
La sarta preparò il bagaglio della
first lady e il giorno della partenza si
recò alla Casa Bianca per salutarla.
«Dovreste venire con me» la esortò Mrs
Lincoln come aveva già ripetuto tante
volte. «Mi sento molto meglio in vostra
compagnia».
Elizabeth era tentata di accettare
l’invito, ma aveva preso troppo lavoro
dalle altre clienti per fare i bagagli e
partire senza preavviso. «Vorrei poter
venire» rispose, «ma gli impegni che ho
preso mi costringono a rimanere».
Mrs Lincoln rispose con un sospiro, e
di lì a breve la carrozza portò lei e i
figli fino al treno che li avrebbe condotti
al Nord.
Mentre percorreva a piedi il sentiero
davanti alla Casa Bianca per tornare a
casa, Elizabeth udì un uomo alle sue
spalle dire all’amico: «La strega ha fatto
prendere un bello spavento al magnate,
eh?»
La sarta, ferita, si fermò, si fece forza
e si voltò ad affrontarli. «Vi prego»
esclamò con voce brusca, guardandoli
con furia tranquilla, «non usate mai più
quel termine odioso in mia presenza per
parlare di Mrs Lincoln!»
Riconobbe gli uomini che la
fissavano stupefatti, a bocca aperta:
erano due segretari alle prime armi che
lavoravano in due oscuri ufficetti. Non
conosceva neanche i loro nomi, ma era
sicura che loro sapessero il suo.
«Vi prego di scusarci, signora»
balbettò il più giovane dei due. Si
toccarono frettolosamente il cappello e
la superarono veloci, in preda
all’imbarazzo.
Elizabeth, dopo essersi sfogata, li
guardò allontanarsi e la comicità della
scena la indusse a soffocare una risatina.
Forse nessuna donna di colore li aveva
mai trattati a quel modo. Meglio che si
comportassero
bene,
altrimenti
avrebbero sentito parlare ancora di lei.
A un tratto si rese conto che aveva
rimproverato loro il termine “strega” ma
non l’altrettanto irrispettoso, sebbene
meno perfido, “magnate”, e a quel punto
scoppiò a ridere di cuore.
La first lady restò lontana da
Washington quasi due mesi. In tutto quel
periodo Elizabeth lavorò per altre
clienti e dedicò il resto del tempo alla
Contraband
Relief
Association,
raccogliendo fondi dagli abolizionisti e
dai ricchi neri di tutto il Nord, e
insegnando il cucito e altre attività
domestiche alle donne e ragazze che
vivevano nei campi. Prese con sé come
apprendiste alcune donne libere che
sembravano brave, e che con i loro
guadagni poterono permettersi di trovare
un alloggio in pensioni pulite e di
fuggire dagli accampamenti dove
regnava lo squallore, nonostante i
giacigli e altre piccole comodità che
Elizabeth e gli altri volontari avevano
procurato. Le assistenti rifiorirono
grazie alla nuova vita, seguite e guidate
da Elizabeth ed Emma, che mostrarono
loro tutto ciò che una ragazza di colore
doveva sapere per muoversi a
Washington.
Durante l’assenza di Mrs Lincoln, il
presidente fu assorbito dalla guerra e
dai suoi problemi. Le vittorie
dell’Unione a Gettysburg e Vicksburg gli
parvero segnare un’inversione di rotta,
ma le settimane che seguirono quei
trionfi, molto onerosi in termini di vite
umane, non furono prive di sconfitte.
L’attacco coraggioso, ma rivelatosi
sanguinoso
e
fallimentare,
del
Cinquantaquattresimo
Massachusetts
contro la roccaforte dei confederati, Fort
Wagner vicino a Charleston, fu
particolarmente terribile da sopportare
per la comunità di colore, perché quello
era uno dei
primi
reggimenti
ufficialmente neri, e grande motivo di
orgoglio per gli americani della stessa
razza. Il numero di morti durante
l’attacco violento fu altissimo, quindi
anche gli episodi di eroismo e coraggio
lasciarono un sapore amaro in bocca.
Elizabeth era fiera che gli uomini della
sua razza avessero compiuto un gesto
tanto nobile, spingendo altri neri ad
arruolarsi, ma piangeva i morti e
pregava per le loro mogli e madri.
Poco prima che la first lady tornasse
nella capitale, Elizabeth ricevette altre
tristi notizie dal fronte, stavolta tragiche
per i Lincoln e non per l’Unione in
generale. Il cognato di Mary Lincoln, il
generale confederato Ben Helm, marito
della sua amata sorellastra Emilie, era
rimasto ucciso nella battaglia di
Chickamauga in Georgia. Anni prima,
all’inizio della guerra, il presidente
aveva offerto al marito della cognata
preferita il prestigioso incarico di
tesoriere
principale
dell’esercito
dell’Unione, ma Helm aveva rifiutato e
si era invece arruolato con i confederati.
Dopo Shiloh era stato promosso
generale di brigata e aveva capeggiato
la famosa Orphan Brigade, l’unità di
fanteria più celebre del Kentucky. Ora
era morto, e la loro cara sorellina era in
lutto, ma i Lincoln non potevano
piangere pubblicamente un ribelle.
Solo un paio di giorni dopo il ritorno
a casa di Mrs Lincoln, si diffuse la voce
che il suo fratellastro, il capitano
Alexander Todd, era stato ucciso il
giorno prima del cognato generale Helm
mentre svolgeva per lui le funzioni di
aiutante di campo nella battaglia di
Baton Rouge. Aleck era solo un bambino
quando Mrs Lincoln se n’era andata da
casa, ma il ragazzino allegro con i
capelli rossi era stato il beniamino di
tutti, ed Elizabeth sapeva che la first
lady gli era molto affezionata.
Quando la sarta fu chiamata di nuovo
alla Casa Bianca, uscì subito dalla
pensione, ansiosa di rivedere la sua
migliore cliente dopo tante settimane di
lontananza. Mrs Lincoln la accolse
cordialmente, prendendole le mani nelle
sue e sorridendo, dichiarandosi felice di
rivederla. Elizabeth fu sollevata nel
vedere che sembrava essersi rimessa del
tutto, ma aveva un’aria triste che,
secondo lei, andava imputata ai lutti
recenti.
Dopo che ebbero parlato per qualche
minuto dell’imminente stagione dei
balli,
la
first
lady
dichiarò
all’improvviso: «Elizabeth, ho appena
saputo che uno dei miei fratelli è stato
ucciso in guerra».
La sarta rimase sbalordita dalla
freddezza con cui lo disse. «L’ho sentito
anch’io, ma non volevo parlarvene per
prima per non farvi soffrire».
«Non dovete farvi scrupoli». Mrs
Lincoln abbozzò un sorriso rassegnato,
ma le tremavano le labbra. «È naturale
che mi dispiaccia per un mio parente
stretto, ma non al punto che temete voi».
Elizabeth non sapeva come reagire.
«Davvero?»
La moglie del presidente intrecciò le
mani in grembo e se le osservò. «Aleck
ha fatto questa scelta tanto tempo fa. Ha
preso una decisione che è andata contro
i voleri di mio marito, e quindi anche i
miei. Ha combattuto contro di noi e,
poiché ha deciso di essere nostro
nemico giurato, non vedo perché dovrei
piangere la sua morte».
«Suppongo che abbiate ragione»
replicò Elizabeth pensosa, combattuta
tra il sollievo e il rammarico. Era felice
che l’amica non fosse vittima della
disperazione assoluta che l’aveva colta
dopo la morte di Willie, ma sapeva che
soffriva per la morte del fratello, ribelle
oppure no. Simulare indifferenza era una
mossa destinata ai suoi detrattori, alle
masse malevole pronte a criticare
qualunque traccia, anche impercettibile,
della slealtà della first lady. Ma era una
messinscena che con lei poteva evitare,
ed Elizabeth era molto dispiaciuta che la
sua cliente e amica non se la sentisse di
essere perfettamente onesta con lei e di
lasciarsi consolare come sarebbe stato
necessario.
Mesi addietro, in primavera,
l’acerrima nemica della first lady in
società, Miss Kate Chase, si era
fidanzata con il ricco ex governatore del
Rhode Island e attuale senatore William
Sprague IV e il loro matrimonio,
previsto per novembre nel salone della
splendida dimora dei Chase, era atteso
come l’evento sociale più importante
della stagione. Alla cerimonia erano
stati invitati cinquanta ospiti, inclusi il
presidente Lincoln e consorte, i ministri
con le mogli e alcuni senatori, membri
del Congresso e generali; altri
cinquecento ospiti sarebbero arrivati più
tardi per il ricevimento. Elizabeth
assicurò alla sua cliente che si sarebbe
tenuta libera quel pomeriggio per
vestirla, ma Mrs Lincoln le disse che
non sarebbe stato necessario. «Credo
che avrò un terribile mal di testa quel
giorno» confidò con noncuranza.
«Ma, Mrs Lincoln» protestò la sarta,
«non temete di essere criticata se non ci
andate? Ci saranno tutte le persone che
contano a Washington».
«Ho più paura di quello che direbbe
la gente se ci andassi» ribatté la first
lady. «Sapete che quei Chase, il padre
come la figlia, hanno sempre pensato
che la Casa Bianca spettasse loro di
diritto. Mr Chase ha trascorso gli ultimi
tre anni nella funzione prestigiosa che
mio marito gli ha attribuito formandosi
una cerchia di sostenitori e preparandosi
al suo ruolo di candidato alternativo, e
sarebbe ben felice di essere designato.
Rifiuto assolutamente di favorire la
figlia facendo piaceri politici al padre, e
di assecondare il padre dimostrando di
frequentare in società la figlia. Sono
avversari di mio marito, Elizabeth, e
quindi anche miei».
Elizabeth capiva il punto di vista
della first lady, ma aveva comunque un
brutto presentimento. Sebbene la moglie
del presidente fosse spesso indisposta,
nessuno avrebbe creduto al pretesto di
un problema di salute se non si fosse
presentata al matrimonio, e i suoi critici
avrebbero inevitabilmente inventato
qualcuna delle loro teorie strampalate
che avrebbe finito per metterla in cattiva
luce. Mr Lincoln doveva pensarla come
lei, perché quando tutti i suoi tentativi
per indurre la moglie ad accompagnarlo
fallirono, andò al matrimonio da solo e
si trattenne al ricevimento per due ore,
quasi per compensare l’assenza della
first lady.
La sarta avrebbe voluto andare alla
cerimonia almeno per osservare i vestiti
degli ospiti. Diverse dame si
presentarono con abiti di sua creazione
– Mary Jane Welles in uno splendido
abito di moiré rosa antico, ed Elizabeth
Blair Lee con uno strepitoso vestito
rosso di seta senza spalline, erano
ottime ambasciatrici del suo stile – e
sarebbe stata fiera e felice di
confrontare il proprio operato con
quello di altre sarte specializzate in
mantua. Come molti abitanti di
Washington che non erano stati invitati,
anche lei scorse avidamente le
descrizioni del matrimonio sui giornali
del giorno dopo. Vi si leggeva che la
novella Mrs Sprague era splendida in un
abito da sposa di velluto bianco con un
velo di pizzo, un anello con un solitario
da quattromila dollari che le brillava
sulla mano elegante. Quando era entrata
nel salone, la banda della Marina aveva
suonato The Kate Chase March
composta per l’occasione da Thomas
Mark Clark. Quasi tutti i giornali
pubblicavano l’elenco degli ospiti più
illustri, primo tra i quali il presidente
Lincoln. Alcuni giornalisti fecero notare
che Mrs Lincoln non era presente, e solo
uno menzionò perfidamente la sua
«improvvisa e strana» malattia e
aggiunse un falsissimo augurio per una
guarigione rapida dal «malessere
misterioso e inopportuno».
Fu Tad Lincoln invece ad ammalarsi
sul serio pochi giorni dopo il
matrimonio. I suoi sintomi ricordavano
la malattia di cui aveva sofferto
nell’inverno del 1862, quella che aveva
tolto la vita al fratello, e i genitori
provarono
un’angoscia
crescente
vedendolo peggiorare in quel modo
tanto familiare. Elizabeth si prese cura
di lui come aveva fatto col fratello, e
anche l’infermiera Pomroy era sempre
reperibile. Il presidente aveva accettato
di
pronunciare
qualche
parola
all’inaugurazione di un nuovo cimitero
nazionale a Gettysburg, ma il giorno
prima della partenza la moglie lo
implorò di non andare. «Mamma, è mio
dovere» Elizabeth lo sentì dire alla
consorte, e quando lei scoppiò in
lacrime e dichiarò che era migliore
come burocrate che come padre,
l’espressione dolente e abbattuta nei
suoi occhi ferì a tal punto la sarta da
indurla a distogliere lo sguardo. Non
aveva mai conosciuto un uomo con una
simile bontà e nobiltà d’animo, e si
chiese perché Mrs Lincoln sembrasse
talvolta cieca alle qualità eccellenti del
marito. Con il passare del tempo la sarta
aveva capito che il presidente era
estremamente altruista, e che amava con
tutto il cuore la moglie e i figli. Per sé
non chiedeva mai nulla se non l’affetto
della consorte, ma non sempre veniva
accontentato. Quando Mary Lincoln
aveva uno di quei suoi momenti di
impulsività, diceva e faceva cose che
ferivano profondamente il marito. Se lui
non l’avesse tanto amata non avrebbe
sofferto della sua scarsa sensibilità,
invece teneva a lei e all’opinione che
aveva di lui. Spesso lo feriva
involontariamente, ma dopo, riflettendo
con calma, rimpiangeva le proprie
parole crudeli. E quello, si disse
Elizabeth, ne era proprio il classico
esempio.
Il giorno dopo la sarta arrivò alla
Casa Bianca e trovò Tad a letto, Mrs
Lincoln isterica e il presidente che con
aria abbattuta si preparava a partire per
la stazione. «Tad stava troppo male per
fare colazione stamattina» le rivelò la
first lady torcendosi le mani e tornando
a rivolgersi al marito. «Vi prego, papà,
non andate. Mr Everett potrà fare il
discorso al posto vostro. Avete detto voi
stesso che il vostro intervento ha
un’importanza secondaria. Non si
accorgeranno della vostra assenza».
«Non credo di peccare di
presunzione se mi illudo del contrario»
ribatté lui, indossando con mosse
stanche la giacca e il cappello. La
moglie smise di camminare avanti e
indietro per ricevere il bacio del marito,
ma non appena se ne fu andato scoppiò
in lacrime. Elizabeth si precipitò da lei
con un fazzoletto, la accompagnò a
sedersi sul divano e cercò di calmarla
con parole di conforto, ma Mrs Lincoln
era ormai in uno stato tale di agitazione
che nulla pareva placarla. Alla fine
l’amica la persuase a restare seduta
tranquilla, le fece preparare una tazza di
tè e verso mezzogiorno, l’ora in cui
doveva partire il treno presidenziale, si
era calmata. Ricordando a Mrs Lincoln
che doveva restare serena per non
spaventare il figlio, la sarta la
accompagnò nella stanza di Tad, che si
rizzò subito a sedere e chiese qualcosa
da mangiare.
Il sollievo trasfigurò Mrs Lincoln:
sembrava che dal suo viso si fossero
dissipate le nubi, scacciate da un raggio
di sole. Mandò subito a dire in cucina di
preparare i piatti preferiti del figlio, e
quando gli furono portati su un vassoio
il bambino mangiò lentamente ma con
appetito. Non appena tornò a sdraiarsi la
madre e la sarta uscirono dalla stanza
affidandolo alle cure dell’infermiera
Pomroy. «Mr Lincoln non stava bene
stamattina» disse sottovoce la first lady
mentre tornavano in salotto. «Spero che
non si stanchi troppo durante questo
viaggio».
Elizabeth annuì, facendo attenzione a
mantenere
un’espressione
neutra.
Proprio come aveva previsto, ora che la
crisi era passata Mary Lincoln si era
pentita delle parole dure che aveva
rivolto al marito prima della partenza.
«Mr Hay e Mr Nicolay si prenderanno
cura del presidente» ricordò la sarta alla
first lady. «Viaggiano con lui, no?»
«Oh, sì. Sono un bel gruppo». Lo
disse con voce carica di sottintesi.
«Anche se sono meno del previsto».
«Tad stava troppo male per
viaggiare» protestò Elizabeth, «e voi
dovevate stare qui per prendervi cura di
lui».
«Oh, ma non stavo parlando di noi,
Elizabeth. Qualcun altro, che era stato
invitato a partecipare, ha declinato
l’invito del presidente».
«Chi?» domandò l’amica, stupita. «E
perché? Mi sembra che sia un onore
viaggiare con il presidente in
un’occasione tanto importante».
«Pare anche a me, a meno che non si
tratti del ministro Chase – non che il suo
rifiuto mi stupisca –, del ministro
Stanton o del ministro Stevens, che un
tempo era un amico fidato». Mrs Lincoln
abbassò la voce. «Non credono che mio
marito sarà rieletto, e vogliono prendere
le distanze da lui in modo che il suo
presunto fallimento non intacchi la loro
immagine».
«Certo che vincerà!» esclamò
Elizabeth indignata. «E per quanto
riguarda
quelle
persone,
sono
scandalizzata dalla loro slealtà dopo
tutto quello che ha fatto per loro».
«Con qualche rara eccezione –
rarissima, anzi – i ministri non sono
leali a nessuno se non a se stessi»
replicò Mrs Lincoln con aria truce, poi
tacque per qualche istante, riflettendo.
«Credo che manderò un telegramma a
mio marito per annunciargli che Tad sta
meglio. Questo lo rasserenerà, ne sono
sicura».
Elizabeth le diede ragione, contenta
che la first lady pensasse ai sentimenti
del marito e alle sue difficoltà costanti
invece che alle proprie.
Tad continuò a migliorare, ma due
giorni dopo il presidente tornò da
Gettysburg con la febbre, che si
trasformò quasi subito in vaioloide, una
forma attenuata di vaiolo. Fu messo in
quarantena nella Casa Bianca per tre
settimane, ma sua moglie confidò a
Elizabeth che era piuttosto su di morale.
Da quando era presidente, aveva
osservato, era sempre assillato da gente
che voleva qualcosa da lui. «Che
vengano pure i questuanti» scherzava
con un filo di voce dal letto dove
giaceva. «Ho qualcosa da dare a tutti
loro».
Durante la prima settimana di ottobre,
non molto tempo dopo il ritorno di Mrs
Lincoln a Washington, il presidente
aveva emesso il Proclama del
Ringraziamento.
Nonostante
la
distruzione causata dalla guerra, aveva
detto, l’anno 1863 era stato positivo,
grazie all’ottimo raccolto, allo sviluppo
regolare dell’industria, all’ampliamento
dei confini nazionali, all’aumento della
popolazione e alla ricchezza dei
giacimenti minerari. Anche nel bel
mezzo di una guerra civile di una
violenza senza precedenti, era stata
mantenuta la pace con gli altri paesi, era
stato mantenuto l’ordine in tutta la
nazione al di fuori delle zone di guerra,
ed erano state create, rispettate e
obbedite delle leggi. «Mi è parso
opportuno» dichiarò il presidente «che
quei doni da parte di un Signore
misericordioso debbano essere accettati
in modo solenne, rispettoso e con
estrema gratitudine, con un solo cuore e
una sola voce da parte di tutto il popolo
americano. Invito quindi i miei
concittadini in ogni punto degli Stati
Uniti, e anche quelli che si trovano per
mare o in paesi stranieri, a considerare
l’ultimo giovedì del prossimo novembre
come un giorno di ringraziamento e di
elogi al nostro magnanimo Padre che
vive in cielo».
Dopo la pubblicazione del proclama,
Mrs Lincoln ed Elizabeth si trovarono
d’accordo nel considerarla un’ottima
idea, ma quando arrivò il giorno che
aveva riservato alla Festa del
Ringraziamento il presidente si trovava
ancora a letto malato. Elizabeth
immaginò che rendesse comunque
grazie, per il miglioramento della salute
di Tad, per i recenti successi militari che
lasciavano intravedere un barlume di
speranza
quanto
alla
vittoria
dell’Unione, per i consiglieri saggi, e
soprattutto, bene ancora più raro, per gli
amici leali che davano buoni consigli.
Quel giovedì del Ringraziamento
Elizabeth partecipò a una cerimonia
speciale in chiesa. Tra le molte fortune
per le quali ringraziò il Signore c’era il
presidente Abraham Lincoln. Non
riusciva a immaginare un uomo migliore
di lui per guidare la nazione in quegli
anni oscuri.
Un giorno burrascoso di dicembre
poco dopo quella data, Elizabeth si
stava recando nel salotto della Casa
Bianca dove era solita cucire quando un
servitore la prese da parte e la avvertì
che Mrs Lincoln aveva visite, e che per
tutta la mattina si era sentito piangere, a
tratti, attraverso la porta chiusa.
Elizabeth lo ringraziò e si preparò
mentalmente prima di girare la maniglia.
Dentro trovò la first lady seduta sul
divano, con le mani strette in quelle di
una donna più piccola tutta vestita di
crespo nero. Dimostrava vent’anni meno
di Mrs Lincoln, e aveva i capelli scuri e
il viso dolce, le guance pallide e occhi
grandi, tragici, cerchiati di rosso. Le due
donne
erano
immerse
nella
conversazione, ma sentendo la porta
aprirsi tacquero subito e si girarono
verso di lei. «Ah, Elizabeth» disse Mary
Lincoln alzandosi, lasciando però la
mano tra quelle della visitatrice.
«Permettetemi di presentarvi la mia cara
sorella, Mrs Emilie Helm».
«Piacere, Mrs Helm» disse Elizabeth
affabile, con un cenno educato del capo,
ma la donna era troppo sconvolta per
reagire se non stringendo le labbra, un
gesto che voleva essere insieme un
sorriso e un modo per ricambiare il
saluto.
La first lady attraversò la stanza,
prese il gomito della sarta e la
riaccompagnò alla porta. «Mia sorella e
sua figlia sono arrivate solo ieri, e
abbiamo molte cose da raccontarci.
Potreste tornare domani, o meglio
ancora il giorno dopo? E per favore...»
abbassò la voce fino a ridurla a un
bisbiglio. «Ecco, sarebbe bene che non
si sapesse in giro che la mia sorellina è
qui con noi».
Elizabeth acconsentì, vagamente
divertita, e tornò a casa. Aveva lavorato
molte volte in presenza degli ospiti di
Mary Lincoln, ma evidentemente Mrs
Helm non era una visitatrice come le
altre, essendo la vedova di un generale
della Confederazione. La sarta si chiese
come avrebbe interpretato la stampa il
suo soggiorno alla Casa Bianca.
Due giorni dopo Elizabeth riprese a
lavorare dalla first lady e in breve
ricostruì la storia dell’arrivo di Mrs
Helm alla Casa Bianca. La giovane
vedova e sua figlia si stavano dirigendo
verso la casa della matrigna di Mary
Lincoln, nel Kentucky, quando erano
state fermate alla frontiera perché la
vedova si era rifiutata di giurare fedeltà
agli Stati Uniti. Quel gesto avrebbe
significato disonorare il ricordo
dell’adorato marito, insisteva Mrs
Helm, e siccome le guardie di frontiera,
spiazzate, non sapevano cosa fare di lei,
l’avevano trattenuta a Fort Monroe,
sperando che cambiasse idea e prestasse
giuramento, in modo da lasciarla
ripartire. Vedendo che la donna non
cambiava idea, telegrafarono al
presidente Lincoln chiedendogli come
comportarsi. La sua risposta via
telegrafo non si fece attendere:
«Mandatemela qui».
Entrambi i coniugi Lincoln adoravano
la giovane vedova che chiamavano
“sorellina”, e traevano conforto dalla
sua presenza. Ambedue erano ansiosi di
chiederle la sua opinione sulla salute
dell’altro; a Mary, Mrs Helm disse che
il presidente sembrava in forma, anche
se era dimagrito, ma quando Abraham
Lincoln le confidò che la moglie aveva i
nervi a pezzi, replicò che effettivamente
sua sorella le era parsa molto nervosa
ed eccitabile, e quel suo insistere sul
fatto che vedeva gli spiriti di Willie ed
Eddie in fondo al letto di notte era molto
preoccupante.
Con il passare dei giorni Elizabeth
udì il presidente implorare Mrs Helm di
prolungare il soggiorno, perché la
moglie sembrava stare meglio in sua
compagnia. Anche la sarta aveva notato
un cambiamento notevole nel suo
comportamento dall’arrivo della sorella,
ma aveva percepito anche una certa
tensione in casa. Per tutta Washington si
era diffusa la notizia che i Lincoln
ospitavano sotto il proprio tetto una
ribelle, la quale non aveva la minima
intenzione di ricredersi, e questo aveva
alimentato il malumore, il disprezzo e
ulteriori commenti sulla lealtà della first
lady. Un mattino Tad e sua cugina si
misero a litigare su chi fosse il vero
presidente, il padre di Tad o Jefferson
Davis. Il bisticcio più grave, però, fu
quello che si svolse nella Blue Room
una sera, e che Mrs Lincoln descrisse a
Elizabeth il giorno dopo. Il senatore Ira
Harris, padre di un colonnello del
reparto munizioni e patrigno di un
ufficiale del Dodicesimo Reggimento di
Fanteria, e il generale Daniel Sickles,
che aveva perso una gamba a
Gettysburg, erano andati alla Casa
Bianca per incontrare Mrs Helm,
ufficialmente per chiedere notizie di
amici comuni. La conversazione aveva
preso una piega sconcertante quando il
senatore Harris, forse per effetto di un
eccesso di alcol, aveva cominciato a
stuzzicare la vedova elogiando le recenti
vittorie dell’Unione a Ovest, dove suo
marito era stato ucciso.
«Ah, signora» le aveva detto,
guardandola fissa. «Se avessi venti figli,
combatterebbero tutti contro i ribelli».
«E se io avessi venti figli, senatore
Harris» aveva risposto lei in lacrime,
«si schiererebbero tutti contro i vostri».
«A quel punto» raccontò Mary
Lincoln a Elizabeth, «il senatore Harris
ha guardato me e mi ha chiesto perché
Robert non si era arruolato!»
«Oh, cielo!» esclamò Elizabeth. «E
voi cos’avete risposto?»
«Gli ho detto che Robert non è uno
scansafatiche e che si sta apprestando a
entrare nell’esercito. Ho precisato che,
se non l’ha fatto finora, è soprattutto
colpa mia: sono stata io a imporgli di
restare ancora un po’ all’università,
perché un uomo istruito è più idoneo a
servire il paese di uno ignorante. Il
senatore si è limitato a tossicchiare in
modo carico di sottintesi. Avrei voluto
fare una battuta più arguta, ma sul
momento ero troppo turbata. Robert sa
che lo criticano perché non è soldato, e
si arruolerebbe subito se glielo
permettessi». Mrs Lincoln si torse le
mani, accigliata. «Ho paura che uno di
questi giorni mio marito mi scavalchi e
gli consenta di andare in guerra».
«Forse il presidente potrebbe usare
la propria influenza per trovargli un
posto dove Robert non corra rischi».
«Non credo che esista un posto
sicuro nell’esercito, oggi. E poi, dopo
che il senatore Harris mi ha tormentato
con la sua domanda, il generale Sickles
è uscito zoppicando per andare a
infastidire mio marito a letto».
«No!»
«Sì!
Vi
rendete
conto
dell’impudenza? Il generale è andato a
chiedere a mio marito, che giaceva a
letto malato, nella sua stanza, come
poteva tenersi in casa una ribelle. Mio
marito gli ha riservato tutta la cortesia
che si deve usare a un veterano mutilato,
ma poi gli ha detto, in tono che non
ammetteva
repliche:
“Scusatemi,
generale Sickles, ma io e mia moglie
siamo abituati a decidere da soli chi
ospitare”».
«Mrs Helm fa parte della famiglia»
ribadì
Elizabeth.
«Unione
o
Confederazione, la famiglia viene
sempre per prima».
«Oh, Elizabeth...» La first lady
scosse il capo sconsolata. «Se tutti la
pensassero come voi, non ci sarebbe
forse nessuna guerra. Potrei riempire
pagine e pagine se elencassi tutte le
famiglie di mia conoscenza che sono
state divise da questa guerra.
Comincerei con la mia e andrei avanti
fino ad avere il cuore infranto».
Verso la fine del mese la tensione in
casa Lincoln arrivò a un punto tale che
Mrs Helm tornò nel Kentucky. Prima di
partire acconsentì a prestare il
giuramento di fedeltà, e così il
presidente le accordò l’amnistia.
Dopo la partenza della sorellina,
Mary Lincoln confessò rattristata alla
sarta che sarebbe stato bello se fosse
potuta restare per il periodo delle
vacanze, per aiutarli a ritrovare un po’
di gioia in quelle ricorrenze, ma non era
stato possibile.
All’avvicinarsi del Natale, però,
grazie anche alla guarigione di Mr
Lincoln, e lasciatasi alle spalle per un
altro anno lo scoglio del compleanno di
Willie con i ricordi tristi di tutto ciò che
avevano perso, lo spirito natalizio operò
la sua magia sulla first lady. Una mattina
annunciò che il 1° gennaio avrebbe
cessato di vestirsi a lutto, per iniziare
bene l’anno nuovo. Entusiasta, Elizabeth
cominciò subito a lavorare su un nuovo
abito, da indossare per il ricevimento di
Capodanno. Che piacere sarebbe stato
vestire la sua cliente più in vista con
qualcosa di diverso dal crespo e dalla
seta nera, dopo tanto tempo!
Il vestito sarebbe stato magnifico: un
prezioso velluto viola adornato di pizzo
valencienne e applicazioni di raso
arricciato, con un lungo strascico, e
un’acconciatura con una grande piuma
bianca. «Porterà fortuna cominciare il
nuovo anno con abiti nuovi» dichiarò la
sarta mentre le drappeggiava addosso la
mussola della fodera per le misure.
La first lady sospirò. «La fortuna non
sarà sufficiente se vogliamo che mio
marito vinca la guerra e conservi la
presidenza nell’anno a venire».
«Questo è vero» replicò Elizabeth
stringendo due pieghe di tessuto tra
pollice e indice e fissandole con uno
spillo. I Lincoln avrebbero avuto
bisogno anche di perseveranza, duro
lavoro, fiducia e coraggio. Senza quelle
doti, tutta la fortuna del mondo non
sarebbe bastata.
10.
Gennaio-novembre 1864
Gli ospiti che parteciparono al
ricevimento di Capodanno notarono
subito che la first lady aveva smesso il
lutto, come secondo molti avrebbe già
dovuto fare da un pezzo. Elizabeth
sapeva che, sebbene soffrisse ancora
tanto per la morte di Willie, le esigenze
legate all’elezione imminente la
costringevano a rinunciare al sollievo
che le procurava quel rituale per il bene
del futuro politico del marito.
La candidatura e la rielezione del
presidente Lincoln non erano per niente
sicure. La storia e le consuetudini gli
erano nemiche: l’ultimo presidente
rieletto una seconda volta era stato
Andrew Jackson nel 1832, più di
trent’anni prima. L’opinione popolare
nei confronti di Lincoln oscillava in
base all’andamento della guerra: godeva
di grande popolarità dopo le vittorie, e
crollava nella stima della gente in
occasione delle sconfitte. Ora che il
successo
dell’Unione
sembrava
concretizzarsi, il dibattito politico aveva
cominciato
a
interessarsi
all’integrazione del Sud nell’Unione alla
fine del conflitto. Si stavano facendo
progetti per la ricostruzione in
Tennessee, in Louisiana e in Arkansas,
già largamente sotto il controllo
dell’esercito federale, ma non tutti
condividevano l’approccio di Lincoln.
Essendo il presidente in carica, non
poteva evitare di essere incolpato per
ogni sconfitta militare, e perfino per
ogni successo parziale ma non
abbastanza rapido. I democratici
liquidarono tutto il periodo del mandato
presidenziale come un fallimento totale
– un giudizio scorretto ma prevedibile,
vista la fonte –, ma perfino il suo partito
aveva vedute diverse sul bilancio del
periodo che Lincoln aveva trascorso
alla testa del paese. I repubblicani
radicali protestavano sostenendo che
fosse troppo tollerante nei confronti dei
confederati vinti, e che i suoi progetti
per
la
ricostruzione
postbellica
mancassero di rigore. Per assicurarsi la
rielezione, Lincoln doveva convincere i
repubblicani a fare fronte comune con
lui, un progetto per niente facile da
realizzare.
La first lady decise di fare tutto il
possibile per aiutarlo. Nei giorni freddi
e grigi dell’inizio di gennaio riprese
l’abitudine delle visite domenicali,
assicurandosi di invitare tutti coloro che
avrebbero potuto sostenere suo marito.
Il primo ricevimento dell’anno fu
organizzato il 9 gennaio, seguito da una
serie di balli e cene che diedero inizio
alla stagione invernale degli eventi
sociali. Mrs Lincoln accettò tutti gli
inviti che poté, senza esagerare, e
ricevette i suoi ospiti in grande stile;
inviò inoltre lettere cortesi e mazzi di
fiori colti nella serra della Casa Bianca
a personaggi di spicco del governo e
dell’imprenditoria.
Era inevitabile che i piani della first
lady creassero dei dissapori con i
ministri del marito, che avevano idee
diverse sul calendario sociale del
presidente. Il conflitto peggiore, e quello
che lasciò più tracce su Mrs Lincoln, fu
con John George Nicolay, il segretario
particolare del presidente incaricato di
organizzare
le
cene
di
stato.
Ostinatamente decisa a ostacolare tutte
le ambizioni del ministro Chase, Mrs
Lincoln disse a Mr Nicolay di non
invitare lui, la figlia o il cognato a una
cena per i membri del governo
organizzata per la fine di gennaio.
Nicolay si oppose, spiegando alla first
lady che non poteva escludere uno dei
ministri, non solo perché ciò era
contrario alla tradizione, ma perché
avrebbe fatto apparire il presidente
come un uomo vendicativo e timoroso di
un potenziale rivale. Mary Lincoln
insistette, ed Elizabeth ebbe l’ingrato
privilegio di assistere a più di un litigio
tra lei e l’inflessibile segretario che –
mai al cospetto della first lady, ma in
presenza di altro personale della Casa
Bianca – cominciò a chiamarla Sua
Maestà Satanica. Quando il presidente
venne a sapere del conflitto, vi mise fine
bruscamente ordinando a Nicolay di
invitare Chase insieme agli Sprague e
ingiungendo a sua moglie di lasciar
cadere la faccenda.
«Vedete anche voi che non ho potere
in questa casa di uomini» si lagnò con
Elizabeth, sentendosi amareggiata e
umiliata. «Tutto quello che faccio è per
il bene di mio marito, ma quando non mi
scavalcano
mi
ignorano
completamente».
Elizabeth cercò di consolarla meglio
che poté – anche se pensava che avesse
commesso un errore tattico nel tentare di
escludere Mr Chase con la sua famiglia
– ma Mary Lincoln si tormentò a tal
punto per l’accaduto che non dormì per
le due notti successive. A suo merito va
detto che scrisse a Mr Nicolay un
biglietto di scuse, che gli fece pervenire
tramite il portiere della Casa Bianca. Se
il segretario le rispose, gentilmente o
meno, la moglie del presidente non lo
disse mai a Elizabeth.
Per quanto la first lady rimpiangesse
il litigio con Mr Nicolay, rimase piena
di antipatia e diffidenza nei confronti del
ministro Chase, ed esortò il marito ad
appurare se gli fosse leale. «Se pensasse
che gli torna utile, vi tradirebbe
domani» insistette. «Non sono l’unica ad
avervi avvertito».
Era vero, perché in molti si erano
accorti delle ambizioni politiche di
Chase. Per mesi aveva viaggiato in
lungo e in largo per il Nord, facendo
discorsi e raccogliendo consensi,
esprimendo la speranza che il presidente
Lincoln venisse rieletto e nascondendo
la propria intenzione di candidarsi. Mr
Chase godeva delle simpatie degli
abolizionisti e dei repubblicani radicali,
secondo cui il Proclama di Amnistia e
Ricostruzione che il presidente Lincoln
aveva emesso nel dicembre precedente
era troppo cauto e blando.
Perfino a Elizabeth appariva chiaro
che il presidente disapprovava quella
campagna elettorale sotterranea che
faceva Chase, ma sembrava che
osservasse le attività del ministro con
una tolleranza attenta e tuttavia
benevola, aspettando di vedere se le sue
scorrettezze
diventavano
troppo
appariscenti. Per sua moglie, il
comportamento del ministro era già
inaccettabile. «Perché non chiedete le
sue dimissioni?» gli domandò durante
una discussione particolarmente accesa.
La turbava molto che il ministro
mostrasse una simile mancanza di
rispetto al marito, e non riusciva a
capire per quale motivo il presidente
tollerava che un rivale continuasse a
occupare una posizione influente e ben
pagata che gli permetteva di aumentare
ogni giorno il proprio potere.
«Mandarlo via e riconoscere
apertamente che è il mio avversario per
la candidatura?» replicò Lincoln. «Non
sono pronto a dimostrarmi così poco
sicuro dell’appoggio del popolo».
La spinosa discussione fu affrontata
un’altra volta, mentre Elizabeth stava
preparando la first lady per una serata di
gala. «Perfino il dottor Henry ritiene che
si sia comportato in modo tanto
inammissibile che meriterebbe di essere
cacciato dal governo» dichiarò la first
lady al marito mentre Elizabeth le
legava un fiocco di raso in vita. Il dottor
Anson Henry era un amico di famiglia di
vecchia data originario dell’Illinois, e
medico personale, fidatissimo, del
presidente. «Ha scoperto che i
collaboratori di Mr Chase hanno diffuso
delle voci poco gentili sul mio conto,
quindi stavolta non potete dire che si
tratta di una mia invenzione».
«Non vi direi mai una cosa del
genere, mamma» le fece notare
pacatamente Lincoln.
«Forse non lo direste a me, papà, ma
agli altri sì, o magari lo pensate» ribatté.
«Dovete promettermi di liberarvi del
ministro Chase una volta per tutte».
«Non posso, e non intendo farlo,
mamma».
Nessuno degli argomenti della moglie
riusciva a far presa su di lui, così alla
fine lei levò le braccia in aria in un
gesto di stizza e si ritirò all’altro capo
della stanza, inviperita. Allontanò la
sedia dalla scrivania con uno strattone,
si sedette rigida e cominciò a scrivere
furiosamente una lettera; visto il suo
umore, Elizabeth non si azzardò ad
avvicinarsi per vedere chi fosse il
destinatario.
Dopo un attimo Abraham Lincoln
sospirò e si sedette faticosamente sulla
sua poltrona. «Ebbene, madame
Elizabeth» le chiese con voce arrochita
ed esausta. «Mi spazzolate questi capelli
ispidi stasera?»
«Certo, signor presidente».
Elizabeth impugnò spazzola e pettine
e gli mise in ordine la capigliatura
meglio che poté. Mentre lei si dava da
fare Mr Lincoln serbò un silenzio tetro e
imbronciato, finché a un certo punto un
debole sorriso gli increspò le labbra e
disse: «Madame Elizabeth, voi avete
vissuto in una fattoria, vero?»
«Sì, signor presidente» rispose.
«Quando ero bambina, in Virginia».
«Allora sapete cos’è un tafano».
Elizabeth
sorrise.
«Purtroppo,
signore, conosco bene quelle fastidiose
bestiole».
«Quando ero bambino, una volta io e
mio fratello stavamo arando un campo,
lui governava l’aratro e io conducevo il
cavallo» ricordò il presidente. «Il
cavallo era un pigrone, ma una volta
corse fino in fondo al campo tanto
velocemente che, pur correndo più
rapido che potevo, non riuscivo quasi a
tenergli dietro. Quando lo raggiunsi vidi
che gli si era posato sopra un tafano
enorme, e lo mandai via. Mio fratello mi
chiese perché lo avessi fatto. Gli dissi
che non volevo che il povero cavallo,
già vecchio, fosse morso dall’insetto.
«Ma Abe» obiettò mio fratello, «è
quello che lo faceva correre!»
La sarta rise.
«Ora, madame Elizabeth» continuò
Mr Lincoln, più allegro di quanto non
fosse stato fino a quel momento, «se Mr
Chase ha il tafano della presidenza che
lo morde, non intendo cacciarlo via,
perché forse è quello che fa andare
avanti il ministero del Tesoro».
Elizabeth rifletté. «A volte un tafano
può diventare tanto fastidioso che, se il
cavallo agita la coda e torce il collo per
morderlo, è così impegnato nel cercare
di liberarsi dell’insetto che dimentica di
arare».
Mr Lincoln prese un’espressione
pensosa. «Immagino che, in questo caso,
sarebbe giusto ammazzare subito il
tafano. Il trucco sta nel capire in quale
momento smette di essere un aiuto e
comincia a diventare una scocciatura».
«Per fortuna siete un esperto di
tafani, voi!» esclamò Elizabeth con un
briciolo di impudenza, facendo ridere il
presidente. All’altro lato della stanza,
Mary Lincoln fece un lungo sospiro
carico di esasperazione.
A mano a mano che l’inverno tetro e
fangoso andava avanti, cominciò ad
apparire chiaro che i “tafani della
presidenza” non erano gli unici insetti
nocivi a stimolare il ministero del
Tesoro. Per mesi erano circolate a
Washington delle voci su irregolarità in
campo finanziario e immoralità tra il
personale del ministero. Un cittadino
indignato scrisse al presidente Lincoln
accusando il ministro Chase di
speculazione in azioni, oro e cotone. Si
diceva che le impiegate venissero
ingaggiate per la loro bellezza invece
che per le capacità, e diversi signorine
affermarono di essersi viste rifiutare un
posto di lavoro finché non avevano
ceduto agli abbracci appassionati del
sovrintendente dell’ufficio preposto alla
stampa e al taglio delle banconote.
(Quando Elizabeth venne a saperlo, fu
sollevata all’idea di non essere stata
assunta nel reparto taglio banconote
l’anno prima.) Peggio ancora, decine di
impiegate giovani e nubili erano incinte,
si mormorava.
Allarmato, Mr Chase incaricò un
investigatore del ministero della Guerra
di far luce sulle accuse, e quando il
detective trovò effettivamente scandali e
situazioni inaccettabili ovunque, una
commissione speciale di membri del
Congresso iniziò un’indagine formale.
Dopo aver udito la deposizione di una
serie di testimoni, tra cui due giovani
impiegate che giurarono di essere state
costrette a incontri intimi con il loro
datore di lavoro, la commissione non
riuscì a stabilire in modo unanime se le
accuse fossero vere o false. Il pubblico
preferì credere alla versione più
scandalosa e salace degli eventi; quindi,
anche se il ministero del Tesoro non era
il «bordello più grande della nazione»,
come sosteneva un detrattore, la sua
reputazione era rovinata, così come
quella di Mr Chase, proprio nel
momento in cui voleva apparire un
dirigente responsabile e degno di
fiducia.
Un uomo più cauto avrebbe forse
messo in sordina le proprie ambizioni
politiche nei confronti della presidenza,
almeno finché lo scandalo successivo
non avesse distratto l’opinione pubblica,
ma Chase non lo fece, e i suoi alleati più
convinti lo spinsero ad andare avanti. I
suoi amici nel Congresso organizzarono
una commissione per promuovere la
candidatura, e Mr Chase incoraggiò in
questo senso i sostenitori, pur non
partecipando direttamente alle loro
attività, talvolta condotte a sua insaputa.
In febbraio gli organizzatori della
campagna stesero e misero in
circolazione due documenti: uno
criticava il primo mandato del
presidente Lincoln senza parlare del
ministro Chase, mentre l’altro divenne
famoso come la “circolare Pomeroy”,
dal nome del suo autore, il senatore del
Kansas
Samuel
C.
Pomeroy,
responsabile della campagna elettorale
di Chase. La circolare Pomeroy
criticava il presidente Lincoln e
presentava Chase come «statista di rara
abilità
e
amministratore
di
prim’ordine», che possedeva «più
qualità necessarie a un presidente nei
prossimi quattro anni di quelle che si
trovano combinate in qualunque altro
candidato». Affermava che la rielezione
di Lincoln sarebbe stata quasi
impossibile, e che per evitare il disastro
di una vittoria dei democratici radicali
in novembre tutti i repubblicani leali
dovevano unirsi e sostenere Chase per
assicurarsi che vincesse.
Se i sostenitori di Mr Chase avevano
sperato di mantenere confidenziale il
contenuto dei documenti, peraltro
distribuiti in gran numero, ebbero una
delusione cocente. La circolare Pomeroy
fu trasmessa agli organi di stampa e
pubblicata sul National Intelligencer e
su altri giornali. I lealisti dell’Unione,
che ricevettero copie del documento per
posta in buste stampigliate con il timbro
dei sostenitori di Chase al Congresso, le
trasmisero scandalizzati a Lincoln alla
Casa Bianca, spesso con un biglietto che
esprimeva il loro disgusto per Chase e
la loro incrollabile lealtà nei confronti
del presidente.
Elizabeth seppe che le voci
sull’intrigo avevano messo in grande
imbarazzo Mr Chase, e intuì da
conversazioni smozzicate nel salone di
casa Lincoln che il ministro aveva
scritto al presidente dichiarando la
propria totale estraneità alla circolare
Pomeroy fino a quando non erano stati i
giornali a divulgarla. La sarta sapeva
anche che, dopo avere ricevuto la lettera
contrita di Chase, Lincoln aveva
replicato con un breve biglietto di
avvenuta ricezione, ripromettendosi di
scrivergli una lettera più lunga non
appena ne avesse avuto il tempo. La
lettera partì circa una settimana dopo, da
quanto sapeva Elizabeth, ma la sarta ne
ignorava il contenuto e non poteva certo
chiederlo. Quasi ogni segreto che
conosceva sul funzionamento della Casa
Bianca l’aveva appreso per sbaglio,
trovandosi per caso presente quando
erano state pronunciate frasi importanti.
Qualunque cosa il presidente avesse
detto a Mr Chase, le conseguenze dello
scandalo furono meno tragiche di quello
che la first lady aveva sperato, perché
egli rimase ministro del Tesoro.
«Non so come mio marito sopporti di
essere nella stessa stanza con un
traditore di tal fatta» borbottò Mrs
Lincoln risentita a Elizabeth un giorno,
alla fine di febbraio, quando si rese
conto che Chase sarebbe rimasto. Questi
però cambiò atteggiamento, diventando
molto meno presuntuoso, e il 5 marzo
annunciò pubblicamente che non si
sarebbe candidato alla presidenza da
parte repubblicana. «È già qualcosa»
commentò Mrs Lincoln, più allegra.
L’incidente aveva indotto i sostenitori
più ferventi di Lincoln ad appoggiarlo
conducendo loro stessi la campagna
elettorale negli stati rispettivi, ma anche
adesso che Chase era fuori gara il
risultato era incerto. Un piccolo gruppo
di
repubblicani
sollecitò
il
vicepresidente Hannibal Hamlin a
presentarsi, ma lui interruppe subito la
manovra, affermando di sostenere il
presidente. Alcuni repubblicani radicali
appoggiavano invece il generale
Benjamin Butler, comandante militare
unionista di New Orleans, che secondo
loro era in grado di unire i democratici
favorevoli al conflitto e le ali radicale e
moderata del partito repubblicano. Il
generale si era guadagnato consensi per
la sua intransigente opposizione allo
schiavismo e per l’occupazione di
Baltimora e New Orleans, ma quando
non riuscì a conquistare la desiderata
popolarità, rifiutò le avances di quelle
fazioni.
In febbraio il New York Herald aveva
invocato la candidatura di Ulysses S.
Grant, ma l’idea sembrò far inorridire il
generale, che insistette pubblicamente e
con tenacia sul fatto che la rielezione di
Lincoln era essenziale per la causa
dell’Unione. La presa di posizione fu
molto gradita a Mrs Lincoln, che
criticava spesso il generale Grant,
considerandolo un macellaio che non si
curava di quanti soldati finissero uccisi
pur di vincere. Elizabeth aveva spesso
sentito dire alla first lady che se mai il
generale Grant fosse stato eletto
presidente degli Stati Uniti, lei avrebbe
voluto lasciare il paese e restare
all’estero fino al termine del suo
mandato.
John C. Frémont, che era stato il
primo candidato repubblicano alla
presidenza nel 1856, agli albori del
partito, era molto popolare tra gli
abolizionisti
come
quelli
che
abbondavano tra la popolazione di
origine tedesca di Saint Louis. A
differenza del generale Grant, il
generale Frémont era dispostissimo a
sostituire il proprio superiore. Per anni
aveva covato risentimento nei confronti
del presidente, che aveva revocato il
suo proclama del 1861 con cui liberava
gli schiavi dei confederati nello stato
del Missouri, e lo aveva poi sollevato
dalle sue funzioni di comandante della
Divisione Ovest dell’esercito unionista.
Frémont sembrava l’unico a non voler
seguire l’esempio degli altri potenziali
avversari del presidente Lincoln e a non
volersi togliere di mezzo.
Mrs Lincoln rifiutò di aspettare
passivamente
che
la
situazione
evolvesse in modo favorevole al marito.
Lo sostenne a modo suo, coltivando
amicizie con politici e uomini d’affari
dalla dubbia moralità ma di grandi
mezzi e influenza. Ancora una volta si
trovò al centro dei pettegolezzi più
feroci perché si circondava di
personaggi equivoci. Quando Elizabeth,
sempre attenta alle apparenze, suggerì
con tatto che i nuovi amici e
corrispondenti della first lady non
sembravano il genere di gentiluomini
che il presidente si sarebbe scelto come
amici, Mrs Lincoln replicò: «Ho un
obiettivo, Elizabeth. In campo politico è
necessario coltivare tutti coloro che
rappresentano punti di forza».
Scettica, la sarta domandò: «E
ritenete che questi signori di New York
rappresentino un punto di forza,
nonostante le chiacchiere spiacevoli che
suscita la vostra amicizia con loro?»
«Sono persone influenti, e abbiamo
bisogno di influenzare i votanti se
vogliamo che mio marito sia rieletto»
spiegò la first lady. «Saprò sfruttarli fino
all’elezione, e dopo, se restiamo alla
Casa Bianca, li lascerò perdere, e farò
loro sapere senza mezzi termini che li ho
semplicemente usati. Sono uomini privi
di principi, e non mi crea problemi fare
il doppio gioco almeno per un po’».
Elizabeth
rimase
scandalizzata
apprendendo che la sua amica
prevedeva di strumentalizzare uomini
senza scrupoli, forse anche pericolosi, e
di liquidarli quando non ne avesse più
avuto bisogno, dicendoglielo chiaro e
tondo per schernirli, oltretutto. «Il
presidente sa qual è il vostro scopo?»
«Certo che no! Non approverebbe
mai».
«Forse questo dovrebbe indurvi a
rinunciare».
«Oh, Elizabeth». Mrs Lincoln scosse
il capo quasi avesse appena avuto la
conferma che la sarta non la capiva,
proprio come il marito. «Conto di
tenerlo all’oscuro e di raccontargli tutto
a cose fatte. È troppo onesto per
occuparsi dei propri interessi, quindi
trovo di essere in dovere di sostenerlo a
modo mio».
Come sempre Mrs Lincoln affermava
di agire animata dalle migliori intenzioni
e sembrava convinta che il suo operato
fosse buono e necessario; ancora una
volta Elizabeth rimase sgomenta.
Avrebbe voluto che la moglie del
presidente si comportasse con maggior
prudenza. Anche se le piaceva tessere
intrighi, non poteva reggere il confronto
con quei politici di New York, navigati
e scaltri, per i quali il doppio gioco e
l’opportunismo in politica erano uno
stile di vita. La sarta aveva paura che
fossero loro a usare Mrs Lincoln,
checché ne dicesse, e temeva che
l’alleanza con quei personaggi loschi
non sarebbe finita bene.
Elizabeth aveva un altro motivo per
detestare i viaggi a New York della first
lady, che quando era preoccupata o
scontenta si consolava spendendo soldi.
Se andava al Nord, i giornali si
affrettavano a riferire in modo malevolo
tutti gli acquisti fatti nelle lussuose
boutique di Broadway, riempiendo la
carrozza di scialli, boa, mantelle,
fazzoletti, parasole, ventagli, cuffie,
stivaletti e guanti; se per caso era
presente al momento della consegna a
casa della merce acquistata, Elizabeth
tentava di nascondere il proprio
sconcerto, ma un fazzoletto da ottanta
dollari la lasciò a bocca aperta, e uno
scialle costatone duemila le strappò
un’esclamazione scandalizzata. Dopo
aver fatto qualche calcolo, non riusciva
a capire come facesse Mrs Lincoln a
permettersi tutte quelle spese; se i conti
erano giusti, le sue spese personali di
quella primavera superavano il budget
totale per il restauro della Casa Bianca
durante il primo anno di presidenza di
suo marito.
Un membro del personale della Casa
Bianca aveva l’ingrato compito di
approvare tutte le spese ufficiali della
first lady, ma nessuno controllava le
spese personali. Forse ritenevano tutti
che si sarebbero adeguate alle
restrizioni imposte dallo stipendio del
marito, ma non era così, purtroppo. Se
Mary Lincoln ordinava oggetti di lusso
in un elegante negozio di Broadway o di
Pennsylvania Avenue, i negozianti erano
fin troppo felici di farle credito, ma a un
certo punto le fatture sarebbero arrivate
e il pagamento della merce sarebbe stato
sollecitato.
Non appena il sole primaverile
asciugò le strade fangose della Virginia
rendendole percorribili, gli eserciti si
sarebbero rimessi in movimento, e per
la prima volta il generale Grant avrebbe
fronteggiato il generale Lee. Tutti al
Nord capivano che sconfiggere Lee era
cruciale per mettere fine alla ribellione,
non solo perché costui era un brillante
stratega, ma anche perché il suo esercito
proteggeva
la
capitale
della
Confederazione, Richmond.
Il 25 aprile, verso mezzogiorno,
Elizabeth, Emma, Virginia e le figlie dei
Lewis si unirono alla folla che si
accalcava lungo Fourteenth Street per
guardare i trentamila soldati del
generale Burnside che andavano a dare
man forte all’Armata del Potomac. Nei
primi mesi di guerra ogni parata di
soldati aveva attirato moltissimi
spettatori
esultanti,
ma
essendo
diventato uno spettacolo ormai comune,
quasi nessuno vi faceva più caso. Quella
marcia, però, non era come le altre.
Questa volta le colonne di uomini
includevano sette reggimenti di United
States Colored Troops, tre delle quali
arruolate nel vicino Maryland, e
sembrava che ogni nero di Washington, e
non solo, fosse venuto a vederli partire
per battersi contro il generale Lee.
Elizabeth
si
sentì
invasa
dall’orgoglio mentre aspettava, con il
suono del piffero e dei tamburi che
annunciava l’arrivo imminente delle
truppe. Giunsero da New York Avenue,
con l’uniforme pulita e in ordine, e
imboccarono Fourteenth Street, sfilando
davanti alla folla in festa. Virginia si
caricò sulle spalle la piccola Alberta
mentre le figlie più grandi, Jane e Lucy,
si misero in punta di piedi e allungarono
il collo per spingere lo sguardo sopra la
testa della gente. «Eccoli!» gridò
Virginia, indicando con il dito. «Vedete
come marciano bene? Li vedete? Quelli
sono i nostri soldati, i nostri valorosi
soldati neri».
Mentre le ragazze, con gli occhi che
luccicavano, assicurarono alla madre di
averli visti, Elizabeth scrutò i visi scuri,
orgogliosi, determinati dei soldati neri e
si sentì la gola stretta per l’emozione. Le
loro uniformi splendide, la musica
entusiasmante, la marcia decisa e
regolare, gli spettatori che li
acclamavano: in quel momento Elizabeth
ebbe l’impressione che non ci fossero
limiti a ciò che gli esponenti della sua
razza potevano fare negli anni a venire,
senza più l’ostacolo imposto dalla
schiavitù, e quando la pace avesse
ripreso a regnare sul loro paese unito.
Era lo spettacolo più sublime cui avesse
mai assistito, e pregava perché gli
uomini si mostrassero coraggiosi.
Sarebbero stati sotto il pubblico
scrutinio, ne era certa, e molti avrebbero
sperato di vederli perdere. Invece
dovevano vincere a ogni costo, e così
facendo avrebbero smentito tutti i
discorsi falsi e malevoli sul fatto che
permettere agli uomini di colore di
arruolarsi fosse una follia.
I soldati giunsero davanti al
Willard’s Hotel, dove il presidente
Lincoln e il generale Burnside
aspettavano sotto il portico orientale di
vedere sfilare gli uomini. Quando i
soldati neri passarono davanti al
presidente, agitarono in aria i cappelli e
inneggiarono al “grande emancipatore”,
l’uomo che aveva liberato il loro
popolo. Abraham Lincoln si tolse il
cappello, fece inchini e cenni del capo,
mostrando loro lo stesso rispetto e la
stessa cortesia che riservava ai soldati
bianchi.
La colonna di uomini impiegò più di
quattro
ore
per
attraversare
Pennsylvania Avenue. Dopo i soldati
vennero i carri ambulanza, poi migliaia
di capi di bestiame per nutrire le truppe,
tutti diretti verso l’altra sponda del
fiume, in Virginia. Un nuovo obiettivo,
una nuova determinazione riempirono la
città, dai soldati in marcia a chi stava a
guardare formulando auguri ai militari.
Infine i futuri combattenti scomparvero,
lasciandosi dietro speranza, paura,
impazienza e apprensione.
La folla si disperse e gli spettatori
tornarono a casa. Ora, lo sapevano tutti,
dovevano prepararsi all’inevitabile
carneficina.
Non dovettero aspettare molto.
Mentre gli eserciti dell’Unione e
degli stati confederati si affrontavano
nei territori selvaggi, i morti e i feriti
affluirono a Washington dagli ospedali
da campo, proprio come era successo
dopo le battaglie di Bull Run, della
Campagna Peninsulare, di Antietam e di
Gettysburg. I feriti giungevano in vagoni
adibiti ad ambulanze, un treno al giorno,
ma erano treni lunghi chilometri, che
avevano sballottato e scosso per lunghi
tragitti, senza cibo e senza nessun’altra
forma di conforto, i militari feriti,
sporchi, deboli, mutilati, con le ferite
non medicate. Una volta arrivati a
destinazione, i soldati malati, feriti o
agonizzanti, i cadaveri, i prigionieri e
gli ufficiali erano sloggiati a grande
velocità dalle banchine, stazioni e strade
di accesso intasate, per far posto ai
nuovi veicoli in arrivo. L’odore
nauseabondo dei corpi nell’afa estiva
aleggiava, dolciastro e rivoltante, su
ogni strada e vicolo, e i cadaveri si
ammonticchiavano senza che gli
imbalsamatori
riuscissero
a
occuparsene. Un impresario di pompe
funebri accumulò tanto di quel ritardo
nella preparazione dei cadaveri che fu
brevemente trattenuto in stato di arresto
e denunciato per disturbo della quiete
pubblica. Tutta Washington sembrava
essersi trasformata in un unico, enorme
ospedale, e nessuno sfuggiva alle
disgustose esalazioni di morte.
Dai territori selvaggi la battaglia si
spostò a Spotsylvania Court House, e da
lì al North Anna River, poi a Cold
Harbor. Le perdite furono molto
numerose in ambo gli schieramenti, in
particolare per l’Unione, ma senza che
l’uno o l’altro dei nemici riuscisse a
prendere il sopravvento. Determinante
fu la tattica che il generale Grant adottò
ogni volta che falliva nel tentativo di
annientare l’esercito avverso: dove i
suoi predecessori avevano sempre
scelto di ritirarsi, lui spingeva avanti i
suoi uomini, una volta dopo l’altra,
costringendo il generale Lee a restare
sulla difensiva e avvicinandosi sempre
più a Richmond. La popolazione del
Nord capì che Grant aveva una strategia
diversa da quella che avevano visto
finora.
Nell’ultima grande battaglia di quella
campagna,
Grant
sorprese
Lee
chiedendo ai tecnici del genio militare
di costruire un ponte galleggiante sul
James, lungo più di seicento metri, e poi
attraversandolo
furtivamente
e
minacciando così Petersburg, il più
importante
centro
di
approvvigionamento
e
deposito
ferroviario di tutta la regione, che
riforniva anche la capitale confederata
di Richmond. Se Grant avesse
conquistato Petersburg, anche Richmond
sarebbe inevitabilmente caduta. Le
truppe dell’Unione iniziarono l’assedio.
La frattura all’interno del partito
repubblicano si aggravò nel corso della
primavera. Alla fine di maggio, la
fazione radicale si riunì a Cleveland per
scegliere il proprio candidato per le
elezioni generali, decisa a raccogliere il
sostegno di un numero sufficiente di
delegati da vanificare la candidatura di
Lincoln.
Proponendosi
come
i
rappresentanti del Radical Democracy
Party, intendevano scegliere come
candidato il generale Frémont, anche se
circolava la voce che aspirassero
addirittura a Grant, il quale aveva però
manifestato il suo assoluto disinteresse
per la cosa. Aveva già il suo bel daffare
a combattere la guerra, pensò Elizabeth,
senza doversi anche occupare delle
schermaglie che si succedevano a
Washington.
Poco dopo la fine della convention,
Elizabeth stava vestendo Mrs Lincoln
per una serata all’opera con il generale
Blair – l’ufficiale in capo del servizio
postale nazionale – e sua figlia, quando
entrò il presidente con un giornale in
mano. «Nicolay mi ha portato l’Herald,
così posso leggere tranquillamente le
notizie che arrivano da Cleveland» disse
alla moglie con un’aria disinvolta ma gli
occhi divertiti.
Mrs Lincoln fece un’espressione
perplessa. «Non avete letto i rapporti
all’ufficio del telegrafo, ieri?»
«Sì» rispose lui, sdraiandosi sul
divano e stendendo le lunghe gambe
davanti a sé, «ma Nicolay deve aver
pensato che volessi anche il giornale».
«Forse sono cambiate le notizie?»
chiese la first lady in tono ironico, come
a indicare che lo considerava
impossibile.
«No, le parole sono sempre quelle.
Frémont è il loro uomo; o perlomeno,
l’uomo delle quattrocento persone che si
sono presentate alla convention».
«Solo?» chiese Elizabeth d’impulso,
senza riuscire a trattenersi. «Solo
quattrocento?»
Il presidente fece un sorrisetto.
«Esatto, madame Elizabeth. Solo
quattrocento». Colto da un’improvvisa
ispirazione, si rizzò a sedere e prese la
Bibbia che si trovava sul tavolino lì
accanto. «Questo mi ricorda...» disse,
voltando le pagine. «Primo libro di
Samuele, capitolo ventidue, versetto
due». Trovò il passaggio, si schiarì la
voce e cominciò a leggere il testo sacro.
«“E tutti quelli che erano in difficoltà,
che avevano debiti o che erano scontenti
si radunarono presso di lui, ed egli
divenne loro capo. C’erano con lui circa
quattrocento uomini”». Ripose la Bibbia
sul tavolino. «Quattrocento, anche qui.
Un numero interessante, mi pare».
E così Elizabeth scoprì che Mr
Lincoln non era molto preoccupato per
la concorrenza di Frémont.
Qualche giorno dopo, alla convention
di Baltimora, i repubblicani leali ad
Abraham Lincoln si ribattezzarono
National Union Party per differenziarsi
dai gentiluomini che si erano riuniti a
Cleveland. Speravano anche che il
nuovo nome allettasse i War Democrats,
con cui volevano creare una coalizione.
Come loro, i War Democrats erano a
favore della guerra e volevano prendere
le distanze dai Peace Democrats, i
democratici contro il conflitto, e
sostenere un candidato che riflettesse le
loro opinioni, ma non potevano certo
votare per un repubblicano. Un
candidato del National Union Party,
invece, poteva essere accettabile.
E così i repubblicani e i War
Democrats si unirono e nominarono
Lincoln come loro candidato. L’unica a
opporsi a questa scelta fu una
delegazione di ventidue repubblicani
radicali del Missouri, che dapprima
scelsero come candidato il generale
Grant, e poi cambiarono il voto affinché
la scelta di Lincoln risultasse unanime. I
delegati stabilirono anche la linea
politica del partito: elogiarono il
presidente per il modo in cui conduceva
la guerra e chiesero di continuare il
conflitto finché la Confederazione non si
fosse arresa senza condizioni, un
emendamento costituzionale per abolire
la schiavitù, l’assistenza per i veterani
dell’Unione disabili e la costruzione di
una ferrovia transcontinentale.
Il passo successivo fu la scelta di un
vicepresidente. Lincoln aveva già
espresso il proprio desiderio di non
interferire, lasciando la decisione alla
convention, e una volta che le
discussioni iniziarono mantenne il suo
proposito. Il vicepresidente Hannibal
Hamlin avrebbe voluto ricandidarsi, ma
la situazione era cambiata troppo
dall’elezione del 1860, e questa volta la
sua candidatura non sollevò grande
entusiasmo. Molti delegati pensavano di
dover scegliere un War Democrat di uno
stato di confine per aumentare il
consenso. Dopo qualche discussione
scelsero infine Andrew Johnson,
governatore militare dell’Unione in
Tennessee, War Democrat e unionista
meridionale che stravinse alla prima
votazione.
Più tardi, quello stesso mese, il
viceministro del Tesoro diede le
dimissioni. Lincoln mise subito in chiaro
i criteri per la scelta del successore, ma
il ministro Chase ignorò le indicazioni
del presidente. Nella controversia che
seguì, Chase presentò le proprie
dimissioni per principio, come aveva
già fatto in molte altre occasioni, ma
questa volta il presidente lo stupì
accettandole.
Elizabeth si aspettava che la first
lady fosse entusiasta. Almeno due dei
suoi più grandi desideri si erano
realizzati: il marito si sarebbe
ricandidato all’elezione presidenziale di
novembre e Chase non faceva più parte
del governo. Le sue preoccupazioni
avrebbero dovuto ridursi almeno un po’,
e invece Mary Lincoln pareva più
agitata e ansiosa che mai. «Cosa pensate
dell’elezione?» chiese a Elizabeth un
caldo mattino di giugno mentre guardava
fuori dalla finestra verso il Potomac.
Elizabeth alzò gli occhi dal suo
lavoro, posò la stoffa in grembo ma
tenne in mano l’ago. «Penso che Mr
Lincoln resterà alla Casa Bianca altri
quattro anni».
Mrs Lincoln distolse lo sguardo dalla
finestra con in viso una strana miscela di
speranza e apprensione. «Cosa ve lo fa
pensare? Io ho imparato a temere la sua
sconfitta».
«Perché è stato messo alla prova e ha
dimostrato di tenere al bene del paese»
replicò Elizabeth. «Il popolo del Nord
lo considera onesto ed è disposto a
fidarsi di lui, almeno fino alla fine della
guerra. La gente del Sud ha preso la sua
elezione a pretesto per ribellarsi, e per
il Nord sostituirlo ora con qualcun altro,
dopo anni di guerra sanguinaria,
assomiglierebbe troppo a una resa».
La first lady sembrava sforzarsi di
crederle. «Pensate allora che sarà
rieletto?»
«Ne sono sicura» rispose con
decisione la sarta. «Rappresenta un
principio, e per conservare questo
principio il popolo leale degli stati leali
voterebbe per lui anche se non avesse
nessun altro merito».
Mrs Lincoln rifletté a lungo sulle sue
parole. «La vostra opinione mi pare
ragionevole, Elizabeth, e la vostra
sicurezza mi restituisce la speranza». La
sua espressione si velò nuovamente di
preoccupazione, contraddicendo le sue
parole. «Se dovesse essere sconfitto,
non so cosa sarebbe di noi. Lui non ha
idea di cosa rischiamo».
Elizabeth la guardò perplessa. «Cosa
intendete, Mrs Lincoln?»
La first lady esitò, trasse un respiro
profondo e disse tutto d’un fiato: «Ho
contratto grossi debiti dei quali mio
marito non sa nulla, e che non sarà in
grado di rimborsare se sarà sconfitto».
Elizabeth si sentì morire. Era molto
tempo che nutriva qualche sospetto. Si
fece forza e pose la domanda che
avrebbe forse dovuto rivolgerle mesi
prima: «Che debiti sono?»
Mrs Lincoln cominciò a camminare
avanti e indietro di fronte alla finestra
aperta torcendosi le mani. «Devo del
denaro soprattutto ai negozianti. Ho un
debito di circa ventisettemila dollari, e
il creditore più importante è Stewart’s a
New York».
Elizabeth lasciò cadere l’ago con il
filo e si accasciò contro lo schienale
della poltrona. Era una somma enorme,
superiore allo stipendio annuo del
presidente.
«Capite bene, Elizabeth, che Mr
Lincoln non ha idea di quanto costi il
guardaroba di una donna. Vede i miei
abiti splendidi ed è contento di pensare
che le poche centinaia di dollari che mi
elargisce bastino a soddisfare tutti i miei
desideri». Smise di camminare e lanciò
uno sguardo penetrante all’amica.
«Devo vestirmi con tessuti preziosi. La
gente studia nel minimo dettaglio ogni
mio accessorio. Il fatto che sia cresciuta
all’Ovest mi sottopone a uno scrutinio
anche maggiore. Per mantenere le
apparenze devo avere denaro, più di
quello che mio marito può darmi. È
troppo onesto per cercare di arricchirsi
al di fuori delle sue funzioni, e di
conseguenza non avevo e non ho
alternative: devo indebitarmi».
Scuotendo il capo incredula,
Elizabeth cercò di trovare un senso a
quei vaneggiamenti. «Vostro marito non
ha idea di quanto denaro dobbiate?»
«Certo che no!» esclamò. «E non
intendo destare i suoi sospetti. Se
sapesse quanti soldi devo restituire,
impazzirebbe. È così onesto e sincero
che gli inganni altrui lo sconvolgono.
Non sa nulla dei debiti, e tengo troppo
alla sua felicità, per non parlare della
mia, per rivelarglieli. Ecco cosa mi
turba tanto. Se è rieletto, posso tenerlo
all’oscuro delle mie faccende, ma se è
sconfitto riceveremo le fatture e scoprirà
tutto».
Si lasciò sfuggire un singhiozzo
isterico, ed Elizabeth si sentì costretta
ad assicurarle che Mr Lincoln sarebbe
stato eletto senza alcun dubbio. Era
anche tentata di avvertirla che la
rielezione del marito avrebbe solo
posticipato l’inevitabile, ma la first lady
era già in uno stato tale di disperazione
che la sarta non se la sentì di farla stare
peggio rivelandole altre verità dolorose.
Mormorò invece parole consolanti e
banalità sulla parsimonia, che sapeva
benissimo destinate a cadere nell’oblio.
L’argomento fu affrontato diverse
volte nel corso di quegli afosi giorni
d’estate, perché la first lady si faceva
prendere dal panico a ogni conto da
pagare che arrivava o a ogni evento
politico che rischiava di minare la
popolarità del presidente. A volte
temeva che i nemici del marito
scoprissero i dettagli dei suoi debiti e li
usassero contro di lui nella campagna
elettorale. Quando quella paura la
attanagliava, l’agitazione e la paura la
paralizzavano.
A volte sbandierava una possibile
soluzione che a Elizabeth, però, pareva
francamente irrealizzabile. «I politici
repubblicani devono pagare i miei
debiti» dichiarava. «Centinaia di loro si
stanno arricchendo moltissimo grazie
alla protezione di mio marito, e sarebbe
giusto che mi aiutassero a uscire da
questa situazione difficile. Glielo
chiederò, e quando avrò spiegato i fatti
non potranno rifiutarsi di anticiparmi il
denaro che mi serve».
Elizabeth pensava che non solo
potevano rifiutare, ma che con ogni
probabilità l’avrebbero fatto, e la first
lady avrebbe ottenuto un unico risultato:
sarebbe stata di nuovo l’oggetto di
pettegolezzi malevoli. La sarta cercò di
dissuaderla con molto tatto dal parlare
dei suoi debiti con chiunque, a parte suo
marito e le sue sorelle, ma non poteva
certo costringere la moglie del
presidente a darle ascolto su quel punto,
sulla pratica della frugalità o su
qualunque altro argomento. Ciò che
irritava Elizabeth più di ogni altra cosa
era che, pur continuando a tormentarsi
per i debiti, Mary Lincoln non smetteva
di spendere, acquistando scialli, guanti e
altri accessori costosi dei quali non
aveva alcun bisogno. Il piacere di
comprare ninnoli graziosi sembrava
aiutarla a dimenticare per un attimo il
suo tormento, ma non faceva che
peggiorare le cose.
Mai Elizabeth aveva conosciuto
donna più strana.
La prima settimana di luglio il
generale Sherman era a un punto morto
nelle sue manovre offensive per
espugnare Atlanta, e nella Shenandoah
Valley il tenente generale confederato
Jubal Early arrestò l’avanzata verso sud
del maggior generale unionista David
Hunter, poi condusse il suo esercito di
ribelli a nord, verso il Potomac.
Secondo i nordisti si trattava di una
delle tante incursioni estive e non vi
prestarono attenzione, ma l’Esercito
della Valle del generale Early continuò
ad avanzare, passando accanto ad
Harpers Ferry per attraversare il
Potomac a Shepherdstown ed entrando
nel Maryland. Le autorità degli stati di
New
York e
Pennsylvania
si
preoccuparono al punto che chiamarono
ventiquattromila membri della milizia a
difesa del territorio, ma a Washington la
fiducia nel generale Grant era tale che
nessuno credeva la città in pericolo.
Early prese Hagerstown e poi
Frederick, e pretese denaro, vestiti, cibo
e altri beni di prima necessità dai
cittadini. I soldati ribelli si dispersero
nella campagna, dove razziarono
bestiame e cavalli e si servirono dai
frutteti. Sembrava la dimostrazione che
lo scopo era solo un volgare saccheggio,
e il ministero della Guerra non si era
premurato di smentire.
Poi, però, cominciarono a circolare
voci preoccupanti sul fatto che il
generale Early avesse attraversato il
Potomac con quasi ventimila soldati e
che stesse marciando su Washington. I
giornali stamparono quelle notizie
allarmanti, che poi smentirono e
pubblicarono di nuovo: il generale Lee
aveva mandato a nord Early per
minacciare Washington e Baltimora
nella speranza di costringere Grant ad
allontanare delle truppe da Richmond
per difendere le due città. Early aveva
intenzione di rapire il presidente Lincoln
e tenerlo in ostaggio, costringendo così
l’Unione a capitolare. Early progettava
di invadere la capitale dell’Unione per
convincere i paesi stranieri a
riconoscere la legittimità degli stati
confederati. Mrs Lincoln si trovava con
la sua famiglia a Soldiers’ Home, quindi
Elizabeth non poteva avere conferme o
smentite di ciò che udiva per la strada.
Come chiunque altro, si riduceva a
raccogliere
le
informazioni
che
circolavano in giro e aspettava.
Il 9 luglio il governatore del
Maryland e il sindaco di Baltimora
dichiararono lo stato d’emergenza e
chiamarono i cittadini alle armi. «Non è
esagerato affermare che oggi serpeggia
una certa agitazione» scrisse il
corrispondente del New York Times a
Baltimora.
Il
maggior
generale
dell’Unione Lew Wallace, comandante
degli stati del Middle Department e
dell’Ottavo Corpo d’Armata, mosse le
sue forze poco nutrite – circa
seimilatrecento soldati, quasi tutti
“uomini dei cento giorni”, cioè volontari
arruolati per un breve periodo – per
resistere all’avanzata del generale Early,
pur non sapendo se intendesse dirigersi
a Baltimora o a Washington. I due
eserciti si affrontarono sulle sponde del
Monocacy, una cinquantina di chilometri
a nordovest della capitale, ma l’esercito
di Wallace era in minoranza numerica.
Quasi subito la popolazione delle
contee di Frederick e Montgomery si
mise in viaggio per sfuggire al conflitto
e arrivò a Washington su carri carichi di
oggetti domestici, con neonati in braccio
e il bestiame al seguito. Raccontavano
storie terrificanti di eserciti che
avanzavano e di fughe precipitose, e
presto si evinse che le forze del generale
Early si erano spinte fino a Rockville, a
soli trenta chilometri di distanza. Il
ministero della Guerra aveva evitato di
divulgare l’informazione per non
scatenare il panico, ma non era più
possibile fingere. Early stava arrivando,
e la città non era pronta a tenergli testa.
Anche se la capitale era circondata
da chilometri di trincee e terrapieni, i
soldati più esperti erano entrati a far
parte dell’Armata del Potomac per la
marcia di Grant su Richmond, e quelli
che restavano, quasi tutti membri della
Guardia Nazionale dell’Ohio, non erano
stati addestrati all’uso dell’artiglieria
pesante. Ogni cittadino abile fu chiamato
a difendere la città. I Pennsylvania
Bucktails, che montavano la guardia alla
Casa Bianca, lasciarono le postazioni
abituali per schierarsi in prima linea.
Gli
impiegati
della
fureria
imbracciarono le armi e integrarono i
ranghi dei difensori della città.
Milleottocento uomini dei campi di
convalescenza e tremiladuecento ex
combattenti disabili furono richiamati in
servizio. Quasi mille marinai e
meccanici dell’arsenale deposero gli
strumenti di lavoro per impugnare le
armi. I civili furono reclutati e
organizzati in una milizia chiamata Loyal
League, e decine di uomini di colore
furono ingaggiati per condurre i carri.
Il presidente Lincoln era a Fort
Stevens quando i difensori della città
cominciarono a sparare contro i
confederati che avanzavano; in seguito si
raccontò che era rimasto su un parapetto,
facile bersaglio per i proiettili che gli
sfrecciavano accanto, finché un soldato
non gli ordinò bruscamente di scendere
subito se non voleva farsi colpire alla
testa. Rischiando un potenziale disastro
come quello di Bull Run tre anni prima,
migliaia di civili curiosi – uomini,
donne e bambini – corsero al forte per
guardare lo spettacolo, e quando i
soldati li scacciarono, si arrampicarono
su steccati, alberi e colline per vedere
meglio.
Quando le forze del generale Early
arrivarono alle trincee di Fort Stevens e
lo stratega cominciò a preparare le
truppe per sferrare l’attacco decisivo,
iniziarono ad approdare in battello a
vapore, nella zona sudoccidentale della
città, i rinforzi del Sesto e del
Diciannovesimo Corpo ai comandi del
maggior generale Horatio G. Wright.
Questi veterani, di cui le forze
dell’Unione avevano un bisogno
estremo, erano poco numerosi, ma Early
lo ignorava, perché dopo due giorni di
schermaglie, durante le quali arrivarono
altre truppe unioniste a dar man forte
alle difese, si ritirò prima dell’alba del
13 luglio, in modo tanto discreto e
inaspettato che i nordisti non si
accorsero
della
scomparsa
dei
confederati fino a quando non si fece
giorno e la loro assenza non divenne
palese.
Esultanti, i difensori civili lasciarono
le fortificazioni e tornarono alla loro
vita normale, ma il presidente Lincoln fu
molto contrariato per il fatto che un altro
esercito sudista fosse riuscito a
scappare. Elizabeth era semplicemente
felice e molto sollevata che se ne
fossero andati.
Agosto, afoso e avvolto in un’umidità
soffocante, si avviava al termine con
poche buone notizie dai campi di
battaglia e ancora meno dalla campagna
presidenziale. A fine mese fu organizzata
la convention nazionale democratica a
Chicago; in quell’occasione fu nominato
l’ex comandante in capo dell’esercito
dell’Unione, il generale George B.
McClellan, caduto in disgrazia presso le
forze dell’Unione, con un programma
fautore della pace che prevedeva un
cessate il fuoco e la ricerca di un
accordo con la Confederazione. Ora che
Grant pareva incapace di marciare su
Richmond e Sherman era in una
situazione di stallo vicino ad Atlanta, la
guerra sembrava essere giunta a un
frustrante punto fermo.
Anche Mary Lincoln era scoraggiata.
Cominciò a far visita a Elizabeth nelle
sue stanze, ufficialmente per parlare di
scollature, bordi e strascichi; ma a
occupare il suo pensiero era soprattutto
l’elezione.
«Elizabeth» esordì Mrs Lincoln in
tono desolato, «dove pensate che sarò a
quest’ora la prossima estate?»
«Alla Casa Bianca, naturalmente».
«Non credo proprio». Le si
riempirono gli occhi di lacrime. «Non
ho speranze quanto alla rielezione di
mio marito. La propaganda è agguerrita,
la gente comincia a essere stanca del
conflitto e contro mio marito vengono
scagliate le accuse più assurde».
«Non importa» replicò Elizabeth
decisa. «Il presidente sarà rieletto. Ne
sono così sicura che sono perfino tentata
di chiedervi un favore».
Mrs Lincoln levò le sopracciglia.
«Un favore? Se restiamo alla Casa
Bianca potrò farvene molti di favori. Di
cosa si tratta?»
«Vorrei che mi regalaste il guanto
destro che il presidente indosserà al
primo ricevimento pubblico dopo la
seconda investitura».
Mrs Lincoln scoppiò a ridere,
sorpresa. «Sarà così sporco quando se
lo toglierà che mi verrà voglia di
prenderlo con le pinze e gettarlo nel
fuoco. Non capisco perché vorreste
tenerlo».
Sorridendo Elizabeth levò il capo,
ben decisa a non cedere. «Lo vorrei
come prezioso ricordo della seconda
investitura dell’uomo che ha fatto tanto
per la mia razza. È stato come Geova
per il mio popolo: l’ha salvato dalla
schiavitù e ha guidato i suoi passi
dall’oscurità
alla
luce.
Vorrei
conservarlo e trasmetterlo ai posteri».
La first lady scosse il capo. «Avete
idee strane, Elizabeth» commentò. «Ma
va bene, lo avrete, sempre che mio
marito sia ancora presidente dopo il 4
marzo prossimo».
«Ne sono certa!» esclamò la sarta
come aveva già fatto molte volte durante
quella lunga e calda estate. Mrs Lincoln
si limitò a sorridere, tesa e preoccupata.
Qualche giorno dopo, Sherman
espugnò Atlanta.
La notizia giunse a Lincoln tramite un
telegramma il 2 settembre. Il presidente,
trionfante, ordinò a ogni arsenale di
sparare cento colpi di fucile a salve in
onore del generale Sherman e a
Petersburg Grant omaggiò il compagno
d’armi ordinando a tutte le sue batterie
di sparare contemporaneamente contro il
nemico, cosa che fecero nel giro di
un’ora con grande gioia.
Gli abitanti degli stati del Nord erano
esultanti. Dopo un’estate deprimente,
fatta di stasi, sconfitte e scoramento, ora
l’esercito dell’Unione all’improvviso si
avvicinava alla vittoria, e lo stesso si
poteva dire per il presidente. Da un
giorno all’altro era diventato un
comandante supremo vittorioso, e nel
clima politico mutato il tentativo da
parte dei repubblicani radicali di
sostituirlo sembrava pericoloso e
imprudente. La possibilità che gli
elettori repubblicani dividessero i
propri voti tra Lincoln e il generale
Frémont,
permettendo
così
ai
democratici di impossessarsi della
presidenza, cominciò a preoccupare i
membri dei nuovi partiti National Union
e Radical Democracy. In settembre il
presidente chiese le dimissioni di Blair,
l’ufficiale in capo del servizio postale
nazionale, che fra tutti i membri del suo
governo era quello più inviso agli occhi
della fazione repubblicana radicale. Nel
frattempo, anche se nessuno poté
dimostrare un legame tra i due eventi,
Frémont si ritirò dalla corsa alla
presidenza.
La distinzione politica tra i due
candidati rimasti non poteva essere più
chiara: il presidente Lincoln, capo di un
esercito
vittorioso
e
salvatore
dell’Unione, e il generale McClellan, ex
leader militare popolare ma sempre
esitante, il cui partito insisteva per
intavolare un negoziato di pace nel quale
lui stesso non credeva.
Nelle settimane che precedettero le
elezioni, il ministro della Guerra Edwin
Stanton si assicurò che i soldati
potessero esprimere il loro voto per
corrispondenza, quando le leggi del loro
stato lo permettevano, o avessero una
licenza per tornare a casa a votare. Il
presidente Lincoln stesso scrisse a
diversi dei suoi generali per chiedere di
concedere una licenza ai soldati
originari degli stati in cui i due candidati
erano quasi in situazione di parità –
Indiana, Pennsylvania, Missouri, New
York –, presumendo che i militari
dell’Unione avrebbero sostenuto in
modo predominante il candidato
repubblicano proprio come avevano
fatto nelle elezioni amministrative. L’ex
ministro Salmon Chase cominciò a
elogiare il presidente Lincoln in
pubblico e poi a fare propaganda per lui
negli stati del Midwest, cruciali per la
vittoria. Il suo sostegno fu prezioso
anche se opportunistico, dal momento
che Chase aveva delle mire sulla
posizione, appena resasi vacante, di
presidente della Corte Suprema.
Sebbene le previsioni apparissero
favorevoli al marito, la first lady si
impegnò a sua volta per contribuire in
tutti i modi alla vittoria. Si fidava ormai
ciecamente del gusto e del giudizio di
Elizabeth, e le aveva chiesto di
accompagnarla a New York per
un’ultima spedizione autunnale a fare
spese. Quando Mrs Lincoln tornò a
Washington per l’elezione, la sarta
rimase a New York per fare acquisti,
procurarsi preventivi per i tessuti, fare e
disdire ordini, pagare conti in sospeso o
dilazionare i pagamenti e, in genere,
svolgere tutto quello che la first lady le
chiedeva di sbrigare, talvolta inviandole
diversi telegrammi al giorno.
Elizabeth restò a New York tutto il
mese di novembre, e quindi trascorse il
giorno delle elezioni non a casa sua,
nella capitale, come quattro anni prima,
ma nella metropoli frenetica e vibrante
dove i ricordi di violenti scontri negli
uffici di leva evocavano ancora
costernazione e dolore, e dove il
presidente Lincoln non aveva mai
goduto di grande popolarità.
Fu lì che Elizabeth apprese la
splendida notizia che Mr Lincoln era
stato rieletto con un vantaggio
schiacciante:
aveva
ricevuto
il
cinquantacinque percento dei voti del
popolo e ottenuto un margine enorme nel
collegio elettorale, con duecentododici
voti contro i ventuno del generale
McClellan.
Da sola nella stanzetta che aveva
preso in affitto, Elizabeth esultò, colta
da un’improvvisa e profonda nostalgia.
Tutte le sue previsioni si erano
avverate. Il popolo degli stati lealisti
aveva deciso saggiamente che Lincoln
doveva restare alla guida del paese.
11.
Dicembre 1864 - aprile 1865
«La guerra continua» fu l’esordio del
presidente Lincoln nel discorso annuale
che rivolse al Congresso in dicembre,
ma dopo quell’inizio cupo il tono si fece
risolutamente ottimista, molto più che
negli interventi analoghi fatti nei tre anni
precedenti. L’esercito dell’Unione stava
avanzando progressivamente, e i risultati
delle
elezioni
di
novembre
dimostravano che il popolo nordista era
deciso a proseguire con il conflitto fino
alla vittoria. Nonostante le gravi perdite,
il Nord aveva ancora più uomini e
risorse del Sud. Come se si aspettasse
che il suo discorso venisse letto anche
nella capitale della Confederazione – e
probabilmente sarebbe davvero stato
pubblicato sui giornali di Richmond nel
giro di pochi giorni – il presidente
Lincoln osservò che il Sud, ormai in
grande difficoltà, avrebbe potuto
ottenere la pace nel momento in cui
avesse deposto le armi e si fosse
sottomesso all’autorità federale. Ma non
dovevano aspettarsi alcun compromesso
in materia di schiavitù: in effetti il
presidente chiedeva alla Camera dei
rappresentanti
di
approvare
l’emendamento
costituzionale
per
l’abolizione della schiavitù che il
Senato aveva già votato. La fine della
schiavitù in tutto il paese era solo una
questione di tempo, disse Lincoln, e
prima accadeva, meglio era.
Qualche giorno dopo, mentre Salmon
P. Chase prestava giuramento come
presidente della Corte Suprema, giunse
notizia nella capitale che il generale
Sherman era arrivato all’Atlantico, al
termine della sua marcia attraverso la
Georgia. Domenica 25 dicembre mandò
al presidente un telegramma con auguri
natalizi piuttosto insoliti: «Desidero
offrirvi, in occasione del Natale, la città
di Savannah, con centocinquanta cannoni
e molte munizioni, e venticinquemila
balle di cotone».
Quell’anno gli abitanti di Washington
festeggiarono il Natale giubilando, e una
settimana dopo accolsero l’anno nuovo
con
speranze
rinnovate.
Quasi
quattromila cittadini parteciparono al
tradizionale ricevimento alla Casa
Bianca, riempiendo i saloni fino
all’inverosimile tanto che, al momento
di andarsene, alcuni degli ospiti più
agili uscirono da una finestra del primo
piano nell’East Room e si calarono giù
lungo una rampa di assi di legno.
Per Elizabeth l’ultimo giorno di
gennaio fu carico di buoni presagi più di
Capodanno, perché in quell’occasione la
Camera
dei
rappresentanti
votò
l’approvazione
del
Tredicesimo
Emendamento, che aboliva la schiavitù
in tutti gli Stati Uniti. Per la prima volta
i neri avevano il permesso di entrare
nelle zone del Congresso destinate al
pubblico, dove assistettero ai discorsi
conclusivi e alla votazione in un silenzio
assoluto, piangendo ed esultando subito
dopo l’esito positivo del voto. Anche se
tre quarti degli stati dovevano ancora
ratificarlo prima che entrasse in vigore,
i residenti neri di Washington
festeggiarono, certi che alla schiavitù
fosse stato inferto un colpo mortale.
Nonostante la guerra ancora in corso,
c’erano molti motivi di ottimismo in
quei primi mesi del 1865, ma la first
lady si ritrovò in preda a un profondo
scontento. Dopo la rielezione di Lincoln
e un giro di dimissioni e nuove
attribuzioni di cariche, Mrs Lincoln
operò a sua volta alcuni avvicendamenti
tra il personale, cominciando dal
licenziamento di Edward McManus, che
era stato per molto tempo portiere alla
Casa Bianca. Elizabeth non sapeva bene
il perché; apparentemente non aveva
consegnato dei documenti in tempo o
aveva divulgato un segreto che gli era
stato confidato dalla moglie del
presidente; gli altri domestici non ne
sapevano nulla e Mrs Lincoln non
voleva rivelarlo. Quando il presidente
lo venne a sapere, fece una litigata
terribile con la moglie al cospetto di uno
dei suoi amici di New York, mettendola
profondamente in imbarazzo. Peggio
ancora, McManus per vendicarsi
raccontò delle sue spese folli, degli
atteggiamenti ambigui e degli attacchi di
rabbia della first lady a Thurlow Weed,
direttore di un giornale newyorchese e
organizzatore politico, che Mrs Lincoln
disprezzava in particolar modo.
Cominciarono a circolare notizie
scandalose, che costrinsero la moglie
del presidente a scrivere una quantità di
lettere per difendersi agli occhi
dell’élite di New York e proteggere così
la propria reputazione.
Mentre Mrs Lincoln si batteva per
conservare il proprio status, il marito e
il figlio maggiore iniziarono una
campagna segreta per conto loro. Dopo
essersi laureato ad Harvard nel luglio
1864, Robert aveva chiesto ancora una
volta il benestare dei genitori per
arruolarsi, e sua madre si era di nuovo
opposta
strenuamente.
Robert,
inferocito, aveva dichiarato che, se non
poteva vivere come voleva, sarebbe
almeno fuggito dalla “serra” di
Washington; così era tornato a
Cambridge e si era iscritto alla facoltà
di diritto di Harvard. Sei mesi dopo,
quando ormai l’esercito dell’Unione
avanzava nel Sud senza più incontrare
ostacoli, il presidente decise di esaudire
il più grande desiderio del figlio. Senza
consultare sua moglie scrisse al generale
Grant e gli chiese di trovare a Robert un
posto lontano dalle prime linee, ma non
un ruolo prestigioso spettante a un
veterano che lo meritava davvero. Il
generale rispose per lettera che avrebbe
accolto con piacere il ragazzo nella sua
«famiglia militare» e così il 17 febbraio
Robert Todd Lincoln entrò nell’esercito
come capitano e assistente dell’aiutante
maggiore al seguito del generale Grant.
Mrs Lincoln cercò di dimostrarsi
coraggiosa, assicurando alla nazione che
era fiera del proprio figlio, ma confessò
a Elizabeth che era in ansia e spaventata,
anche se, vista la posizione di Robert,
suo figlio non avrebbe probabilmente
mai assistito neppure a una battaglia.
La sera prima del secondo
insediamento di Lincoln, una tempesta
terribile si abbatté su Washington.
Elizabeth si svegliò di soprassalto per il
rumore dei tuoni e della grandine sul
tetto, si rizzò a sedere sul letto con la
trapunta stretta addosso, il cuore che
batteva all’impazzata, finché non si
calmò abbastanza da tornare a sdraiarsi
per cercare di riaddormentarsi. Non si
trattava di un cattivo presagio, si disse
con fermezza. Era un temporale, ecco
tutto, forse solo più violento degli altri
in quell’umido inizio di primavera.
Il mattino dopo si svegliò e la
giornata era grigia. Aveva programmato
di assistere alla sfilata con Emma e due
delle altre sue assistenti, e poi di
raggiungere Virginia e Walker al
Campidoglio per vedere il giuramento e
il discorso inaugurale di Lincoln, ma la
pioggia torrenziale aveva trasformato le
strade di Washington in torrenti di fango
profondi più di venti centimetri, e lei
non aveva
nessuna
voglia
di
attraversarli al guado, disputandosi con i
molti altri spettatori i pochi fazzoletti di
terra asciutta. Sarebbe dovuta uscire più
tardi, per andare prima alla Casa Bianca
a vestire la first lady per il ricevimento,
e poi a una festa con i Lewis e altri
amici, ma con un po’ di fortuna per
quell’ora le strade sarebbero state più
asciutte.
«Oh, vieni!» protestò Emma quando
bussò alla porta di Elizabeth e lei
spiegò, scusandosi, che aveva cambiato
idea. «Come puoi rinunciare a venire
proprio oggi, quando i neri per la prima
volta hanno il permesso di entrare al
Campidoglio per l’insediamento di un
presidente? Le strade non sono in questo
stato dappertutto, e poi c’è pieno di
bambini».
I ragazzini più intraprendenti erano
felici quando le strade erano invase dal
fango, perché si portavano in giro delle
tavole di legno e si facevano dare
qualche spicciolo per trasformarle in
passerelle sulle quali le signore
potevano camminare senza sporcarsi.
«Va’ tu» le disse Elizabeth. «Poi mi
racconterai».
«Non ti dirò un bel niente» ribatté
Emma. «Restare a casa è una tua scelta,
e dovrai patirne le conseguenze».
«Se mi riferirai il discorso del
presidente»
continuò
Elizabeth,
«prometto di descriverti in ogni
dettaglio l’abito che Mrs Lincoln
indosserà al ballo, e ti spiegherò come
ho confezionato lo strascico».
Emma esitò, tentata, ma quando si
voltò per andarsene alzò il capo e con
sussiego si limitò a promettere: «Ci
penserò».
Il desiderio di imparare una nuova
tecnica prevalse, e appena tornò alla
pensione nel primo pomeriggio Emma si
recò in camera di Elizabeth, con gli
occhi che brillavano e piena di
entusiasmo.
La parata era stata splendida
nonostante il fango, con uomini e cavalli
che marciavano fieri e bande che
suonavano musiche più allegre che mai.
Un gruppo di uomini tirava un modello
in scala ridotta di cannoniera con tanto
di torretta girevole che incantò i presenti
sparando a salve mentre scendeva lungo
Pennsylvania Avenue. Gli elegantissimi
rappresentanti
dei
pompieri
di
Washington e Filadelfia, organizzazioni
di cittadini e associazioni di tutto il
Nord marciavano orgogliosi con
bandiere e striscioni. Uno stampatore
locale aveva issato un torchio
tipografico su un carro, e avanzando
stampava e distribuiva volantini agli
spettatori. Ma la cosa più bella era che
per la prima volta gente di colore aveva
preso parte alla parata, un battaglione di
soldati neri oltre ai responsabili delle
principali associazioni per i diritti
civili. Le persone della loro razza erano
finalmente incluse nella cerimonia
dell’insediamento, parte integrante della
celebrazione e della cerimonia, non solo
spettatori che osservavano in mezzo alla
folla o lavoratori invisibili che
preparavano da mangiare e alla fine
pulivano.
Più tardi, sul terreno fangoso attorno
al Campidoglio, Emma e i suoi amici
avevano aspettato in mezzo a migliaia di
altre persone, sotto un cielo greve di
pioggia, che il presidente Lincoln
uscisse e prendesse il suo posto sotto il
Portico Est, sullo sfondo della cupola
appena ultimata. «E a quel punto è uscito
con un foglio di carta in mano» disse
Emma, ancora commossa dal ricordo.
«Non appena la gente l’ha riconosciuto,
è esplosa in un grido gioioso di
benvenuto, e proprio allora – oh, avresti
dovuto vederlo, Elizabeth! –, nel
momento in cui ha preso posto, le nubi si
sono squarciate ed è apparso il sole; un
raggio luminoso l’ha colpito dall’alto,
come una benedizione dal cielo».
Elizabeth si sporse in avanti,
affascinata dal racconto. «E cos’ha
detto?»
«Non me lo ricordo» rispose la
ragazza facendo spallucce. «Lo leggerai
domani sul giornale».
«Emma!»
La giovane rise. «Ti sto solo
prendendo in giro, ma te lo meriti. Oh, è
stato un discorso magnifico. Breve, ma
forse per questo anche migliore,
secondo me».
La sarta annuì. «La brevità è una sua
caratteristica anche nelle conversazioni
quotidiane, a meno che non stia
raccontando una storia o leggendo ad
alta voce uno dei suoi autori preferiti».
Non appena ebbe finito la frase la
rimpianse amaramente, perché le pareva
di essere presuntuosa sottolineando la
sua familiarità con il presidente.
Se Emma pensava che si desse delle
arie, non lo diede a vedere. «È stato un
bel discorso, chiaro, triste e caloroso,
con tante parole di perdono e di
riconciliazione» dichiarò. «Ha parlato
della guerra, del fatto che sia stata
causata dalla schiavitù e che quattro
anni fa tutti, il Nord come il Sud,
avessero voluto evitarla, ma l’uno
preferiva la guerra alla sopravvivenza
della nazione, l’altro accettava la guerra
pur di non vederla deperire. Ha anche
parlato del Signore, e di quanto sia
strano che ognuna delle due fazioni
preghi lo stesso Dio e invochi il Suo
aiuto contro l’altra».
Elizabeth annuì. Ci aveva pensato
spesso nei mesi dopo la morte di
George. Aveva pregato per suo figlio
ogni giorno e ogni notte quando era in
guerra e, ovunque si trovasse, anche la
madre del ragazzo che aveva ucciso
George aveva pregato per il proprio
figlio.
A un tratto si rese conto che dopo
tanti anni di guerra il ribelle che aveva
ammazzato suo figlio poteva essere
morto a sua volta per colpa di una
pallottola, una malattia o un terribile
incidente. Un’altra donna avrebbe potuto
provare un senso di soddisfazione a quel
pensiero, ma Elizabeth sentì solo pena.
«Il presidente Lincoln ha suggerito
che il Signore ci abbia mandato questa
terribile guerra come punizione per
avere
commesso
l’offesa
della
schiavitù» continuò Emma, «e che la
guerra sia un flagello per liberarcene».
«Forse» convenne l’amica.
«E ha concluso con parole così
profonde che me le sono scritte appena
ha finito». Emma si tolse un foglietto di
carta dalla tasca e lo aprì. «Ha terminato
dicendo queste parole, più o meno:
“Con cattiveria verso nessuno, con
carità per tutti, con la sicurezza di essere
nel giusto come Dio ce lo mostra,
cerchiamo di finire il lavoro cominciato,
di chiudere le ferite della nazione, di
prenderci cura di chi ha dovuto
combattere, della sua vedova e del suo
orfano, di fare tutto ciò che può
procurare e coltivare una pace giusta e
duratura al nostro interno e con tutti gli
altri paesi”». Emma sorrise un po’
imbarazzata, ripiegò il foglietto e se lo
rimise in tasca alzando le spalle.
«Probabilmente non gli ho reso giustizia.
Tutto il discorso sarà sul giornale di
domani, e potrai leggerlo per bene».
«Sono sicura che ne hai colto lo
spirito, se non le singole parole». La
sarta si sentì stringere la gola per la
commozione e sbatté le palpebre per
mandare via le lacrime. «Sono contenta
di non aver dovuto aspettare domani per
sentire queste parole». Piene di
compassione, autentiche, proprio come
l’uomo che le aveva pronunciate.
«Avresti dovuto esserci anche tu» la
rimproverò
affettuosamente
Emma
scuotendo il capo.
«Rimpiango di non esserci stata,
nonostante il fango e la folla. E ora,
Emma» sussurrò con voce da
cospiratrice Elizabeth, «vorresti essere
l’unica persona a Washington, o meglio
degli Stati Uniti – oltre a Mrs Lincoln e
a me –, a sapere cosa indosserà al ballo
dell’insediamento?»
Il viso di Emma si illuminò di gioia
mentre la sarta descriveva il raso
prezioso, di un bianco candido, lo
scialle di pizzo, i drappeggi eleganti e
gli splendidi smerli. Emma pendeva
dalle sue labbra, come se pensasse di
dover poi confezionare lo stesso abito
affidandosi alla memoria. Sapeva già
come cucire le piegoline verticali sulla
parte posteriore del mantua per farla
aderire alla perfezione; Elizabeth stessa
le aveva insegnato a dare quei punti
minuscoli e incrociati che riuscivano a
resistere alla pressione del corpo
strizzato nel tessuto e a evitare pieghe
inopportune causate dalla necessità di
lasciare un po’ di agio nella stoffa.
Aveva anche mostrato a Emma come
praticare punti più lunghi e allentati per
le gonne, in modo che le cuciture non
rattrappissero il tessuto e non
rovinassero la linea dell’abito, e dopo
molta pratica la ragazza sapeva farlo
alla perfezione.
Emma stava diventando molto brava,
ma Elizabeth aveva ancora parecchio da
insegnarle. Con il suo talento naturale, la
mente pronta e le dita agili la giovane
avrebbe saputo padroneggiare qualunque
tecnica, e con il passare del tempo
sarebbe potuta diventare brava quanto la
sua insegnante, se non di più.
Elizabeth trovava che una studentessa
in grado di superarla sarebbe stata
un’ottima eredità da lasciare ai posteri,
più preziosa, duratura e gratificante di
tutti gli abiti meravigliosi che aveva
creato per le signore di Washington,
perfino di quelli che aveva confezionato
per la first lady.
Più tardi, quella sera, percorse le
strade fangose diretta alla Casa Bianca,
dove trovò Mrs Lincoln in uno stato di
nervosismo e di agitazione. «Sono
sicura di non essere la prima a farvi le
congratulazioni in questo giorno
solenne» esordì la sarta calorosamente,
«ma ve le faccio lo stesso, dal profondo
del cuore».
«Grazie, Elizabeth» rispose la
signora con un sospiro, «ma ora che ce
l’abbiamo fatta vorrei quasi che non
fosse accaduto. Il povero Mr Lincoln ha
l’aria così affranta, esausta. Ho paura
che non sia in grado di affrontare i
prossimi quattro anni».
«Certo che è in grado» rispose la
sarta risolutamente. «La campagna
elettorale l’ha stancato molto, ma adesso
è finita, è arrivata la primavera e le
notizie dal fronte non sono mai state
tanto buone».
«Questo è vero» ammise Mrs Lincoln
senza però sembrare rincuorata. «Se
almeno questa guerra terribile finisse!
Confesso che vivo nell’apprensione che
la cerimonia dell’insediamento finisca,
perché quando accadrà Robert dovrà
tornare in guerra».
«Credevo che la sua posizione non
comportasse pericoli».
«Non marcia con la fanteria, se è ciò
che intendete, ma segue il generale
Grant, e il generale è al fronte».
Le si ruppe la voce per la paura e la
preoccupazione, ed Elizabeth provò un
impeto di compassione per lei. La
guerra sarebbe presto finita, stava per
dire, ma si trattenne perché la gente lo
ripeteva da tanto di quel tempo che
ormai quelle parole erano prive di
significato. Ora, però, dopo tante false
speranze e delusioni, finalmente la frase
conteneva qualche verità. I confederati
stavano perdendo terreno in ogni punto
del teatro bellico, e le linee delle
uniformi blu dell’Unione avanzavano
trionfanti. Quasi ogni giorno la sarta
poteva guardare fuori dalla finestra e
vedere l’artiglieria passare per la strada
per andare a sparare colpi a salve in
onore
di
una
nuova
vittoria.
Ciononostante, capiva perché la first
lady fosse in preda all’ansia finché il
conflitto non fosse terminato e Robert
non avesse cessato di correre pericoli.
Le parve che la moglie del presidente
si stesse chiudendo in se stessa,
pensierosa; allora cercò di distrarla
chiedendole le sue impressioni sulla
cerimonia
dell’insediamento.
«Il
presidente ha tenuto un discorso
encomiabile» replicò Mrs Lincoln,
rasserenandosi un poco. «Sapete che si è
perso tutta la parata?»
«No!»
«È così, invece. Aveva tanto di quel
lavoro da sbrigare che è andato in
Campidoglio con il suo calesse prima
degli altri, ed è rimasto lì a firmare
progetti di legge fino all’ultimo minuto».
Fece una risatina, un segnale
incoraggiante. «Così tutte le persone
lungo la strada che lo acclamavano al
passaggio della carrozza, in testa alla
parata... ecco, acclamavano solo me.
Dubito che lo avrebbero fatto se lo
avessero saputo».
Elizabeth sorrise. «Sono sicura che
molti
vi
avrebbero
festeggiata
ugualmente».
La first lady fece un altro risolino
quasi per schermirsi, ma si vedeva che
era compiaciuta. «Oh, Elizabeth, quel
piccolo inganno non è stato l’episodio
più grave della cerimonia». Fece una
pausa
a
effetto.
«Quando
il
vicepresidente designato è arrivato per
il giuramento, era ubriaco».
«No!»
«Sì, vi dico, e ha tracannato quasi
due bicchieri di brandy proprio lì, al
Senato». Mrs Lincoln si infervorava a
mano a mano che parlava. «Mr Hamlin
ha parlato benissimo per introdurre il
suo successore, e a quel punto Johnson
si è fatto avanti e ha cominciato ad
arringare la folla in modo incoerente...
terribile. Non avevo mai assistito a
un’orazione del genere».
«Che orrore» commentò Elizabeth.
«Cosa gli è venuto in mente?»
«Credo non lo sapesse neppure lui.
Era rosso in viso, riusciva a malapena a
parlare, e quando il segretario del
Senato ha cercato di mettere fine a
quell’esibizione
vergognosa,
il
vicepresidente Johnson ha insistito per
continuare. Sembrava uno squilibrato».
Mrs Lincoln scosse il capo. «Il mio
povero marito è arrivato nel bel mezzo
di questo disastro ed è rimasto lì a capo
chino, a sopportare l’imbarazzo in un
silenzio
dignitoso,
aspettando
pazientemente che Johnson finisse e
prestasse giuramento».
«Non era il presidente a dover essere
imbarazzato, ma Johnson» osservò la
sarta.
«Certo, ma ha comunque rovinato il
momento». La first lady strinse le labbra
e scrollò il capo. «Che pessimo inizio.
Dubito che ci si potrà passare sopra.
Nessuno dei presenti se lo scorderà
mai».
Elizabeth capì
dall’espressione
accigliata di Mrs Lincoln che neanche
lei l’avrebbe mai perdonato.
La sarta stava acconciando la signora
quando entrò il presidente; gli si
avvicinò, tese la mano e gli fece i suoi
complimenti più sinceri. «Grazie» disse
lui, afferrando cordialmente la sua mano
e stringendogliela. «Ebbene, madame
Elizabeth, non so se dovrei sentirmi
riconoscente oppure no. È un ruolo irto
di difficoltà il mio. Non sappiamo cosa
ci aspetta, ma Dio è con noi. E io ho
fiducia in Dio». Le lasciò andare la
mano e attraversò la stanza per sedersi
sul divano con espressione solenne.
Elizabeth avvertì una compassione
profonda per entrambi, la first lady e il
presidente. Da ogni parte della nazione
divisa arrivavano ottime notizie sui
successi dell’esercito dell’Unione,
eppure i Lincoln, nell’intimità dei loro
appartamenti
privati,
apparivano
stremati, tristi e preoccupati nel giorno
che avrebbe dovuto segnare il loro
trionfo. Con la discrezione che la
contraddistingueva, Elizabeth cercò di
distrarli con una conversazione leggera,
e quando ebbe finito di vestire Mrs
Lincoln le parve che fosse un poco più
serena. La first lady prese il braccio del
marito e, mentre il presidente la
conduceva al piano inferiore dove
migliaia di cittadini li stavano
aspettando, le disse da sopra la spalla:
«Vi darò quel guanto lunedì sera,
Elizabeth, quando verrete a vestirmi per
il ballo dell’insediamento».
La sarta sorrise, felice che se lo fosse
ricordata.
Mentre i Lincoln accoglievano il
pubblico e accettavano con buona grazia
le congratulazioni, nascondendo la
stanchezza e l’ansia per non sciupare
l’occasione per tutti i presenti venuti a
felicitarsi con loro, Elizabeth partecipò
a un altro incontro, in scala minore ma
non per questo meno festoso, con l’élite
nera di Washington. Con uno sforzo mise
da parte per il momento la sua
preoccupazione per i Lincoln, e si unì ad
amici e conoscenti nel celebrare la
vittoria del presidente, certa che
avrebbe compiuto grandi imprese per la
nazione e per la popolazione nera
durante il secondo mandato. Era
presente anche Frederick Douglass, e la
sarta, da tempo sua ammiratrice, fu
felice di avere l’occasione di parlargli.
Questi raccontò al gruppo di persone
che lo circondavano di un incidente
avvenuto alla Casa Bianca nemmeno due
ore prima. Molti neri erano andati a
Washington per l’insediamento, e decine
di loro avrebbero voluto partecipare al
ricevimento, ma non avevano avuto il
permesso di entrare. Douglass era
rimasto in disparte, preparando già
mentalmente una lettera indignata di
protesta, quando un membro del
Congresso, vedendolo, aveva fatto
qualche commento sulla calca e gli
aveva chiesto: «Voi entrate, vero?» Mr
Douglass aveva risposto che purtroppo
non sarebbe stato presente, e il politico
aveva esclamato: «Non venite a
stringere la mano al presidente! E
perché mai?»
«Per la migliore ragione del mondo»
aveva risposto Douglass, in tono fiero
ma ironico. «Sono stati diramati ordini
severi per impedire l’ingresso alla gente
di colore».
Elizabeth non riusciva a credere che
il presidente avesse dato un ordine del
genere proprio quel giorno, e si chiese
quale dei ministri avesse preso tale
iniziativa, o se ci fosse stato un
malinteso tra la folla e i portieri.
Proprio mentre la sarta stava per
suggerire a Mr Douglass di tornare alla
Casa Bianca e di provare a entrare di
nuovo, questi riprese il racconto,
spiegando che il membro del Congresso
era rimasto molto turbato nello scoprire
che il suo interlocutore non era potuto
entrare. Aveva allora accompagnato
dentro lui stesso il celebre oratore,
aveva attraversato la folla fino al
presidente, e aveva chiesto il permesso
di presentarglielo. Lincoln aveva
accettato prontamente, e Mr Douglass si
era così ritrovato faccia a faccia con il
presidente, che gli aveva stretto la mano
dicendo: «Mr Douglass, sono felice di
conoscervi. Ammiro da lungo tempo le
vostre iniziative e vi stimo molto».
Mr Douglass era palesemente fiero
dell’accoglienza
riservatagli
dal
presidente, e gli astanti condivisero la
sua fierezza, sentendosi felici perché il
presidente aveva tributato un tale
rispetto e interesse a uno dei loro leader.
Elizabeth non era sorpresa, non solo
perché aveva visto molte volte il
presidente alle prese con gli ospiti e
sapeva che era sempre cortese con tutti,
ma anche perché lei stessa aveva fatto
un favore a un’amica organizzando un
incontro tra il presidente e l’ex schiava
e abolizionista Sojourner Truth l’ottobre
precedente. Non aveva assistito alla
loro conversazione, ma più tardi aveva
saputo che Sojourner aveva parlato bene
del presidente ed era stata onorata e
soddisfatta dell’accoglienza. Mr Lincoln
non poteva vantare un passato di
rapporti perfetti con la comunità di
colore, e lei sarebbe stata la prima ad
ammetterlo, ma stava imparando, ed
Elizabeth era sicura che il suo
atteggiamento compassionevole nei
confronti del prossimo lo avrebbe
portato a una comprensione anche
maggiore degli interessi e delle speranze
dei neri.
Anche se non avrebbe mai esagerato
il proprio ruolo spacciandosi per
consigliera, Elizabeth amava pensare di
aver avuto anche lei un piccolo ruolo
nell’aiutare il presidente Lincoln a
conoscere meglio i desideri e le paure
della sua gente. Sperava di aver usato il
rapporto privilegiato con Abraham
Lincoln e il tempo che trascorreva alla
Casa Bianca per il bene della sua razza,
e di continuare a farlo.
La folla di persone arrivata nella
capitale in occasione del secondo
insediamento del presidente si disperse
poco dopo le cerimonie, ma la città
rimase piena di stranieri, le cui fila si
infoltivano ogni giorno che passava. I
soldati
confederati
stavano
abbandonando l’esercito del generale
Lee; molti andavano a casa, altri
attraversavano le linee nemiche e si
arrendevano. Alcuni si trascinavano fino
a Washington a piedi, con l’uniforme
grigia o marrone a brandelli sul corpo
gracile, ma quasi tutti arrivavano ogni
pomeriggio alle quattro sul “treno dei
disertori”, e scendevano sulla banchina
a cento o duecento per volta. Giunti
nella capitale dell’Unione prestavano
giuramento di fedeltà e venivano
mandati a lavorare in fattorie, fabbriche
o alla frontiera occidentale. Fino al
momento di essere assegnati alle loro
nuove funzioni avevano il permesso di
stazionare
in
città,
facendo
conversazione e spartendosi il tabacco
con soldati dell’Unione che erano stati
loro nemici giurati fino a poco prima;
all’inizio le loro uniformi sudiste
attiravano sguardi curiosi e diffidenti,
ma la gente si abituò presto. In effetti
quegli ex ribelli emaciati diventarono
tanto numerosi a Washington che almeno
un giornalista ventilò l’ipotesi che si
trattasse di una sorta di invasione velata:
il nemico, insomma, avrebbe ammassato
i propri uomini in città in attesa
dell’ordine di sferrare l’attacco al cuore
dell’Unione dall’interno. La verità era
molto più semplice. I soldati confederati
stavano morendo di fame, e avevano
capito che un esercito che non era più in
grado di dare da mangiare ai suoi
uomini non era nemmeno capace di
tenere testa al nemico. Erano affamati,
esausti e stanchi del conflitto, e molti
non sopportavano più di continuare
quella che chiamavano la “guerra dei
ricchi combattuta dai poveri”. E così
avevano disertato, sperando di non
essere catturati o, se lo fossero stati, di
non essere fucilati per il crimine
commesso. A parere di Elizabeth non
restavano
abbastanza
soldati
nell’esercito sudista per fucilare tutti i
disertori.
In seguito la sarta si chiese se la
nuova iniziativa del governo confederato
per aumentare gli arruolamenti non fosse
stata la causa di quell’ondata di
diserzioni. Poco dopo l’insediamento di
Lincoln,
i
giornali
del
Nord
annunciarono che il Congresso degli
stati confederati aveva votato una legge
per permettere agli schiavi di arruolarsi
nell’esercito dei ribelli e conquistarsi
così la libertà. Elizabeth e tutte le
persone di colore di sua conoscenza,
dagli altri residenti nella pensione ai
frequentatori della sua chiesa, agli ex
schiavi che assisteva nei campi, si
chiedevano come un nero potesse
accettare di combattere per proteggere
l’istituzione stessa che lo privava della
libertà e manteneva lui e la sua famiglia
in uno stato di degrado. Erano rimasti
scandalizzati scoprendo che solo nove
giorni dopo la promulgazione della
legge da parte di Jefferson Davis tre
compagnie di soldati neri confederati
avevano cominciato ad addestrarsi nella
piazza del Campidoglio di Richmond.
Elizabeth si sentiva profondamente
tradita quando pensava a soldati neri
con l’uniforme grigia dei ribelli, ma era
anche molto dispiaciuta. Certo non
capivano cosa stava accadendo nel resto
del paese, altrimenti non avrebbero mai
compiuto una scelta tanto assurda o,
come Virginia la definiva senza tanti giri
di parole, un simile patto col diavolo.
L’insediamento del presidente portò
nuovi arrivati anche nei circoli più
esclusivi di frequentatori della Casa
Bianca; in effetti tra l’elezione di
novembre e l’inizio vero e proprio del
secondo mandato del presidente Lincoln
diversi suoi ministri diedero le
dimissioni e altri furono nominati al loro
posto. Il senatore dell’Iowa James F.
Harlan assunse le funzioni di ministro
dell’Interno, un cambiamento che
sembrò risultare congeniale a Robert
Lincoln, il quale – forse con meno
discrezione del dovuto – corteggiava la
figlia di Harlan, Mary. Anche Elizabeth
era soddisfatta di quella promozione,
perché la moglie di Harlan, una donna
dolce e buona, era una delle sue clienti
preferite, e la sarta era felice per lei.
Il 3 aprile, un lunedì, Mrs Harlan si
recò da Elizabeth alla pensione con il
materiale per un nuovo abito, una
splendida seta a righe bianche e verdi.
«Non sono sicura del colore» commentò
Mrs Harlan mentre la sarta esaminava la
stoffa. «Ho paura che mi renda
l’incarnato giallognolo».
«Oh, non penso proprio». La sarta la
fece avvicinare alla finestra, dove le
posò la seta sulle spalle e il petto e fece
qualche passo indietro per studiare
l’effetto. «Credo che vi doni molto,
invece, e che si intoni al vostro colore
di occhi e capelli».
«Mr Harlan ama vedermi vestita di
verde». La cliente dovette alzare la voce
per sovrastare un fracasso improvviso
proveniente dalla strada, una cacofonia
provocata da artiglieri di passaggio.
«Ragione di più per vestirvi spesso
di quel colore» replicò Elizabeth,
trovandosi anche lei a urlare per farsi
udire tra fischi e schiamazzi.
«Cosa sta succedendo là fuori?» si
chiese Mrs Harlan, sbirciando dalla
finestra.
«Staranno andando a sparare dei
colpi a salve per festeggiare una
vittoria. Ormai ci siamo abituati» disse
Elizabeth. Poi, aggrottando la fronte,
aggiunse: «Ammetto però che c’è più
baccano del solito».
Mrs Harlan sgranò gli occhi.
«Devono essere buone notizie, allora».
«Di sicuro».
Tra loro passò uno sguardo d’intesa,
e insieme corsero fuori. «Scusate,
signore» chiese Elizabeth a un uomo che
fischiettava
allegro
seguendo
l’artiglieria. «Cos’è successo? Che
novità ci sono?»
«Che novità, dite?» L’uomo fece un
grido esultante e gettò in aria il
cappello. «Richmond è caduta, ecco
cos’è successo!»
Quando l’uomo tornò indietro a
raccogliere il cappello per unirsi al
corteo improvvisato, Elizabeth si lasciò
sfuggire un’esclamazione soffocata, la
moglie del ministro cacciò un urlo e si
presero per mano, girando in cerchio e
ridendo. «Devo dirlo alle ragazze!»
esclamò la sarta, e corse nel laboratorio
dall’altra parte della strada. «Emma,
ragazze!» gridò entrando nella stanza
dove erano al lavoro le sue assistenti.
«Richmond è caduta!»
«Abbiamo sentito! Lo sappiamo!»
Felice, Emma le gettò le braccia al
collo, e solo allora la sarta si accorse
che le sue assistenti stavano ridendo e
piangendo mentre si abbracciavano.
«Avete sentito la parte migliore? Sono
stati i soldati neri a prendere la città. I
nostri soldati!»
Elizabeth aveva il morale alle stelle.
Resa muta dalla gioia, si portò le mani
al cuore e rise.
«Anzi, la cosa migliore non è
neanche quella!» esclamò felice un’altra
sarta. «Il bello è che ci avete promesso
un giorno libero quando Richmond fosse
caduta!»
Scoppiarono tutte a ridere, Elizabeth
compresa, finché non riprese fiato e con
un gesto impose il silenzio, scuotendo il
capo. «Non posso mandarvi tutte a casa»
protestò. «Mrs Harlan sta aspettando
dall’altra parte della strada con la seta
per un nuovo abito».
Un coro di proteste accolse la
notizia. «Mrs Harlan non può fare le
prove per un nuovo abito proprio ora»
obiettò Emma. «Vorrà andare anche lei a
festeggiare».
Quando le altre sarte diedero man
forte alla collega, incitando Elizabeth a
provare almeno a parlare con la cliente,
la sua risoluzione vacillò. «Aspettate ad
andarvene» ingiunse, ma invece di un
tono severo le uscì un sorriso.
Attraversò la strada di corsa, e trovò
Mrs Harlan nel suo salotto, intenta a
raccogliere la seta che avevano fatto
cadere nell’emozione del momento.
«Mrs Harlan!» esclamò Elizabeth,
affrettandosi ad aiutarla. «Mi dispiace
molto. Dovevo dare la buona notizia alle
mie assistenti, che oltretutto la sapevano
già. E mi hanno ricordato una promessa
che ho fatto loro mesi fa: quando
Richmond fosse caduta, avrei concesso
loro un giorno libero, anche se mi rendo
conto che è un fastidio per lei...»
«Assolutamente no» le assicurò con
un sorriso la cliente. «Per un’occasione
così lieta sono ben contenta di aspettare
un giorno o due per il mio vestito.
Dovete mantenere la promessa. Date
alle vostre ragazze un giorno di vacanza,
fate loro questo regalo».
Elizabeth la ringraziò e promise di
cominciare a prendere le misure per la
fodera il giorno dopo. Mrs Harlan
accettò e, quando se ne fu andata, la
sarta ripose la seta verde e bianca in un
luogo sicuro, prese la cuffia e tornò nel
laboratorio. «Altre buone notizie...»
annunciò, ma non ebbe neppure il tempo
di finire la frase. Le ragazze la
implorarono di andare con loro, e
stavolta Elizabeth accettò. Prendendosi
a braccetto si unirono al corteo che si
stava già riversando per le strade, con il
cuore colmo di gioia, e vedendo la
propria felicità riflessa nei visi degli
altri passanti, impiegati, bottegai,
domestiche e camerieri, tutti con un
giorno libero inaspettato. Gli abitanti
appesero striscioni e bandierine alle
finestre, agli angoli delle strade e nei
parchi si formarono bande improvvisate
che suonavano marcette e altre musiche
allegre. Davanti alle case e agli uffici di
vari notabili si raccolsero drappelli di
persone che chiedevano un discorso, ma
solo quelli dalla voce più stentorea
riuscirono a farsi udire nel baccano. Una
scarica di ottocento colpi a salve scosse
la città, trecento per la caduta di
Petersburg, cinquecento per Richmond.
Durante il pomeriggio Elizabeth osservò
molti ragazzi – e molti uomini che non
avevano nemmeno la scusa della
giovinezza – festeggiare bevendo
quantità smodate di alcolici, e fu
scandalizzata e a tratti divertita nel
vedere vicini che reputava persone
responsabili e moderate nel bere
avanzare barcollando lungo la strada,
cantando e tessendo gli elogi del
presidente Lincoln, del generale Grant e
dell’esercito dell’Unione con voce
sguaiata. Il giorno dopo avrebbero
rimpianto gli eccessi, ma per il momento
nulla poteva placare la loro esultanza, o
quella di Elizabeth.
Il presidente Lincoln era in Virginia
dall’ultima settimana di marzo, e si
stava intrattenendo con il generale Grant
a Petersburg quando Richmond era
caduta. Decise che avrebbe ispezionato
la capitale sudista catturata il giorno
dopo, e quando Mrs Lincoln seppe del
progetto gli propose di incontrarlo a
City Point, sul fiume James, e di
accompagnarlo nella città conquistata.
Sarebbe stata la seconda visita della
first lady a City Point, il quartier
generale di Grant, nel giro di due
settimane. Lei e Tad c’erano stati la
settimana prima con il presidente e un
piccolo gruppo di accompagnatori, ma
lei era tornata prima del previsto, e da
sola, lasciando Tad con suo padre. Non
aveva
spiegato
perché
avesse
abbreviato la visita, e sebbene avesse
tagliato corto quando Elizabeth le aveva
chiesto notizie del viaggio, quel poco
che aveva rivelato bastava per dedurre
che era stato un disastro. Quando il
gruppo si era recato a passare in
rassegna le truppe, il presidente era
andato avanti a cavallo, accompagnato
dal generale Grant e dalle mogli di due
ufficiali, ma Mrs Lincoln e Mrs Grant
erano state costrette a seguirli a velocità
ridotta in un carro ambulanza, rallentato
dal fango che ricopriva la strada. Al suo
arrivo Mrs Lincoln aveva scoperto che
l’ispezione era già iniziata e che la bella
moglie del maggior generale Ord
cavalcava accanto al presidente al posto
d’onore che sarebbe spettato a lei. In
preda a una delle sue terribili crisi di
gelosia, aveva fatto una scenata alla
giovane Mrs Ord, insultato l’attonita
Mrs Grant e rimproverato il marito
davanti a tutti, chiedendo che licenziasse
immediatamente il maggior generale
Ord, ordine che il presidente aveva
ignorato. Elizabeth non sapeva se Mrs
Lincoln fosse tornata a Washington per
la vergogna o se fosse stato il marito a
cacciarla, ma a quanto pareva la pausa
di riflessione e la consapevolezza che
l’incidente le aveva impedito di vedere
il figlio Robert l’avevano placata.
Quando annunciò che intendeva
riprovare a vedere Richmond, Elizabeth
le chiese se poteva accompagnarla. Anni
prima aveva abitato a Petersburg, ed era
curiosa di vederla di nuovo, di
passeggiare lungo le sue vie come donna
libera.
Il 5 aprile, alle undici di mattina, Mrs
Lincoln, Tad, Elizabeth e il resto del
gruppo, che includeva il senatore
Charles Sumner, il ministro dell’Interno
James Harlan, Mrs Harlan, il cui abito
di seta verde e bianca era stato iniziato
da Elizabeth in ritardo, Miss Mary
Harlan, la signorina corteggiata da
Robert Lincoln, e diversi altri signori,
partirono da Washington a bordo della
nave a vapore Monohasset. Il mattino
dopo, arrivati a Fort Monroe, Mrs
Lincoln seppe che il presidente era
entrato a Richmond due giorni prima.
«Siete sicuro di aver voluto dire
proprio Richmond?» chiese la first lady
all’aiutante di campo mortificato.
Elizabeth sapeva che aveva insistito con
il marito perché la aspettasse per entrare
e visitare insieme la capitale caduta.
«Nel suo telegramma diceva che
sarebbe andato a Petersburg».
Ed era quello che aveva fatto,
assicurarono subito a Mrs Lincoln. Solo
il mattino successivo era entrato a
Richmond, appena un giorno dopo che
l’esercito dei confederati era stato
sgomberato,
mentre
le
fiamme
lambivano ancora le rovine. L’aiutante
di campo, apparentemente ignaro del
malumore crescente della first lady,
continuò a raccontare che alcuni
lavoratori neri avevano riconosciuto il
presidente da lontano e, mettendolo in
grande imbarazzo, avevano gridato:
«Gloria, alleluia!» al suo passaggio ed
erano caduti in ginocchio per baciargli i
piedi. «Vi prego, non inginocchiatevi
davanti a me» aveva detto loro il
presidente. «Dovete prostrarvi solo
davanti a Dio e ringraziarLo per la
vostra libertà». Scortato dal generale
Godfrey Weitzel, di origini tedesche,
Lincoln aveva visitato la Casa Bianca
dei confederati e si era seduto alla
scrivania di Jefferson Davis. Più tardi
lui e il suo accompagnatore erano
passati dalla famigerata prigione Libby,
dove migliaia di soldati dell’Unione
catturati avevano subito fame, malattie e
ogni sorta di torture, e della quale era
direttore il cognato del presidente, il
capitano sudista David Humphreys
Todd.
«Capisco» replicò seccamente Mary
Lincoln quando l’aiutante di campo
terminò il resoconto. Si precipitò subito
all’ufficio del telegrafo e inviò al marito
diversi messaggi urgenti implorandolo
di aspettarla e di permettere a lei e al
suo gruppo di salire a bordo del battello
presidenziale, giacché il loro era
estremamente scomodo e lei desiderava
ardentemente visitare Richmond in sua
compagnia. Dopo alcuni scambi furono
presi i necessari accordi, e presto il
gruppo della first lady fu a bordo della
River Queen del presidente, che risalì il
fiume James seguendo una rotta che fino
a poco tempo prima era stata preclusa
anche
alle
cannoniere
nordiste.
Elizabeth trascorse ore sul ponte,
appoggiata al parapetto e con il viso
rivolto al sole, a godersi il venticello e
l’aria fresca e pura. Il fiume scorreva
maestoso, e le sponde erano splendide e
profumate dei primi fiori della
primavera. Più oltre si stendevano i
campi, l’immagine stessa della ricchezza
in tempo di pace, ma spesso l’illusione
di prosperità era infranta da visioni
improvvise di accampamenti militari
abbandonati e di fortini diroccati, i resti
della guerra.
Elizabeth non vedeva da anni i campi
fertili e le verdi colline della sua
regione natia, e da molto desiderava
tornarvi. La Virginia le avrebbe
ricordato per sempre sua madre e suo
padre, le zie, gli zii e i cugini, il figlio
George, neonato, tra le sue braccia, i
baci affettuosi di sua madre, le ore
trascorse in compagnia delle persone
che amava di più. L’infanzia era stata
difficile per lei, piena di dolore e paura,
eppure serbava alcuni ricordi belli di
quegli anni. Quando era partita per City
Point, una parte di lei nascosta così in
profondità da risultarle sconosciuta si
era aspettata da quel viaggio una sorta di
ricongiungimento con tutto ciò che aveva
perduto. Mentre la River Queen la
trasportava lungo il fiume, la vera natura
delle sue attese le apparve chiara, e
avvertì una punta di rimpianto.
Forse non sarebbe dovuta andare.
Infine la River Queen giunse a
Richmond e la first lady con i suoi
accompagnatori, pieni di curiosità,
entrarono nella città ancora fumante.
Elizabeth non l’avrebbe mai ammesso
ad alta voce, ma avvertì anche un
brivido di apprensione. Le strade erano
insolitamente deserte, a eccezione di
alcuni abitanti che distoglievano subito
lo sguardo mentre li incrociavano a
passo veloce, presi della proprie
faccende, o di pattuglie occasionali di
soldati dell’Unione. Il Parlamento della
Virginia dove si era riunito il Congresso
dei confederati era in condizioni che
tradivano la paura e la fretta degli ultimi
istanti:
scrivanie
rotte,
carte
sparpagliate, sedie rovesciate come se
gli ultimi occupanti fossero fuggiti di
corsa. Mentre i suoi compagni
procedevano, osservando la desolazione
che i membri del Congresso si erano
lasciati alle spalle, Elizabeth sollevò le
gonne con una mano e si chinò per
raccogliere dei fogli. Scorse la prima
pagina, e la risata improvvisa che le
sfuggì quando si accorse cosa c’era
scritto indusse Mrs Lincoln e Mrs
Harlan a voltarsi a guardarla,
incuriosite. «È una risoluzione» spiegò
Elizabeth indicando le carte. «Proibisce
a tutti i neri liberi di entrare nello stato
della Virginia».
Il senatore Sumner scosse il capo
sbuffando, ma un altro gentiluomo del
gruppo, il marchese de Chambrun,
sorrise e disse: «Mia cara signora,
credo non dobbiate temere che qualcuno
venga ad arrestarvi».
«Grazie, signore» replicò lei.
«Confesso che l’idea non mi era neanche
passata per la testa».
«Conserverete quei documenti per
ricordo?» si informò la first lady.
Spesso canzonava Elizabeth per il suo
attaccamento a oggetti che le evocavano
ricordi piacevoli.
«Penso di no» rispose lei secca, e
lasciò cadere i fogli.
Passarono in Senato, dove Elizabeth
si sedette sulla poltrona del presidente
Jefferson Davis e si guardò attorno,
immaginando la sala piena di senatori
ribelli e pensando alle molte decisioni
che il presidente doveva aver preso
proprio in quel luogo, e a quanto fossero
costate a lui e a tutti loro. Quando si
spostò
verso
lo
scranno
del
vicepresidente per lasciare agli altri
l’opportunità di sedere al suo posto, il
pensiero le andò a Mrs Davis e ai suoi
figli. Li immaginò in fuga o nascosti,
diretti a sud nel rifugio non più sicuro
della loro casa in Mississippi o sotto il
tetto di un amico fidato. Ovunque
fossero, Elizabeth sperava che stessero
bene. Non avevano colpa, e pregò che
non accadesse loro nulla di male. Per
quanto riguardava Mr Davis, prima
della guerra lei lo aveva apprezzato,
considerandolo un gentiluomo, ma aveva
fatto le sue scelte e avrebbe dovuto
vivere con le conseguenze. Non gli
avrebbe mai augurato nulla di male, ma
riteneva improbabile che sarebbe uscito
indenne dalla guerra.
Più tardi il gruppo visitò la dimora
presidenziale dei ribelli in K Street,
chiamata anch’essa Casa Bianca
sebbene fosse di stucco grigio. Le
signore di Richmond incaricate di
custodirla li osservarono torve mentre
ne ispezionavano i tre piani eleganti, ma
non poterono certo impedire loro di
andare dove volevano. Elizabeth cercò
in giro per le stanze i segni della sua ex
cliente – un piumino abbandonato nella
nursery del secondo piano, un abito che
non era stato possibile infilare in una
borsa già traboccante – ma non trovò
nulla, e quella mancanza le diede una
strana sensazione di sconforto.
Con uno sforzo mise da parte la
tristezza e cercò di farsi contagiare
dall’allegra curiosità dei compagni di
viaggio. Alla fine riuscirono a tirarla su
di morale, e quando tornarono alla River
Queen, anche lei avvertì una vampata di
trionfo e la speranza che la fine della
guerra fosse ormai prossima.
Fu un’allegra comitiva quella che si
ritrovò la sera seduta attorno al tavolo
della cena. Per Elizabeth fu una gioia
vestire Mrs Lincoln per un evento al
quale partecipava anche lei. Furono fatte
le presentazioni e tutti si misero a
chiacchierare
piacevolmente
delle
diverse impressioni che Richmond
aveva prodotto su di loro, quando un
ospite, un giovane capitano appartenente
alla commissione sanitaria, si rivolse
alla first lady dicendo: «Mrs Lincoln,
avreste dovuto vedere il presidente
l’altro giorno, quando ha fatto la sua
entrata trionfale a Richmond. Tutti lo
guardavano. Le signore gli baciavano le
mani e lo salutavano agitando il
fazzoletto. Ha proprio l’aria di un eroe
quando è circondato da belle donne».
«Sì, lo immagino» replicò lei gelida.
Il sorriso del giovane ufficiale gli si
spense sul volto. «Sì, Mrs Lincoln. Un
vero eroe».
Elizabeth si mise in allarme, ma
prima che trovasse un modo educato per
cambiare argomento la first lady fissò il
giovane freddamente e chiese: «È
spesso così? Circondato da belle donne,
intendo?»
Il capitano arrossì. «No, Mrs
Lincoln, voglio dire...» Lanciò uno
sguardo disperato attorno al tavolo, ma i
suoi amici erano troppo stupiti per
andargli in soccorso.
«Cosa volete dire, esattamente?» lo
esortò in modo brusco la first lady.
Elizabeth soffocò un sospiro e
resistette alla tentazione di farsi piccola
sulla sedia e di fissare il piatto mentre
Mrs Lincoln incalzava il povero
giovane, che sicuramente non avrebbe
mai più dimenticato quella brutta serata
a
bordo
dell’imbarcazione
del
presidente. Mrs Lincoln fece una scenata
prima di esaurire la sua collera, ed
Elizabeth si sentì indignata e
imbarazzata osservando gli altri ospiti
che si scambiavano sguardi d’intesa e
fissavano la first lady con aria di
compatimento. Non capivano cos’avesse
patito in quei giorni, quanto fosse stanca
per i viaggi compiuti, altrimenti le
avrebbero dimostrato più comprensione.
A ogni modo le dispiaceva che la
moglie del presidente non sapesse
controllarsi, e che toccasse sempre agli
altri far buon viso alle sue scenate.
Il mattino dopo tutto il gruppo decise
di visitare Petersburg, ed Elizabeth fu
felice di accompagnarli. A mano a mano
che il treno speciale del presidente si
avvicinava alla città dove la sarta aveva
vissuto come schiava vent’anni prima, il
cuore prese a batterle più forte per
l’eccitazione e la paura. Non sapeva
cos’avrebbe trovato lì, se fosse rimasto
qualcosa della vita che aveva
conosciuto un tempo, né se desiderava
davvero trovare qualche elemento del
suo passato.
Quando scesero alla stazione
Elizabeth si separò dagli altri; mentre
loro andavano a visitare fortini,
ospedali da campo e a parlare con i
generali, lei si avventurò da sola in
cerca delle persone che conosceva tanto
tempo prima. La città era profondamente
familiare ai suoi occhi, ma anche assai
mutata. Molte case che un tempo aveva
ammirato erano trascurate ed erano state
danneggiate
dall’artiglieria; alcuni
negozi dove si recava per conto delle
sue padrone avevano le vetrine sbarrate
o nomi diversi sull’insegna o sulla
porta. Vide volti familiari tra i passanti,
che però la incrociarono senza
riconoscerla. Quasi controvoglia scese
verso la riva del fiume dove lei e James
avevano
passeggiato
un
tempo,
chiacchierando e condividendo speranze
e sogni (e bugie, nel caso di James). Il
cuore le si faceva più pesante a ogni
passo, e stava per tornare indietro verso
la stazione quando udì una donna dietro
di lei chiamarla: «Elizabeth? Lizzie
Hobbs?»
Con un sussulto Elizabeth si girò e
vide un viso che conosceva bene, di
vent’anni più vecchio, molto più magro,
con dell’argento nei capelli neri e le
rughe attorno alla bocca, ma che le era
caro come un tempo. «Martha? Sei
davvero tu?»
La donna annuì con le lacrime agli
occhi.
«Oh, mia cara amica!» esclamò
Elizabeth, correndole incontro per
abbracciarla. «Pensavo che non ti avrei
mai più visto».
«Anch’io». Martha la allontanò da sé
per guardarla, e quando sorrise
Elizabeth vide che le mancavano gli
incisivi inferiori. «Cosa diavolo ci fai
qui? Pensavo che ti fossi affrancata e
fossi scomparsa al Nord».
«Non sono scomparsa» replicò
Elizabeth ridendo tra le lacrime, e
cercando di nascondere il proprio
turbamento.
Martha
era
magra,
magrissima, e aveva l’abito liso e
rammendato. La sua amica, nata libera,
era una bravissima sarta, e aveva
lavorato nella merceria di Mrs Miller.
Anche se aveva cinque anni più di
Elizabeth, erano diventate ottime amiche
grazie al fatto che quest’ultima andava
spesso in negozio a comprare tessuto,
filo, aghi e altri prodotti per le sue
padrone. «Vivo a Washington da prima
della guerra. Faccio la sarta».
«Meraviglioso!» Martha scosse il
capo ammirata. «Hai sempre fatto
miracoli con la stoffa».
«Come sta tuo marito? È poi riuscito
a comprare quella terra a nord del fiume
cui teneva tanto?»
«Purtroppo no». Il sorriso di Martha
si spense. «È morto di vaiolo dieci anni
fa, ma le mie ragazze stanno bene. La
maggiore è sposata e ha due figli. E
George come sta?»
Elizabeth si conficcò le unghie nel
palmo della mano per trattenere il
dolore che era improvvisamente montato
in lei. «Se n’è andato. È rimasto ucciso
in guerra, nella battaglia di Wilson’s
Creek in Missouri».
«Oh, mio Dio. Era un soldato, allora.
Mi dispiace tanto che sia morto».
«Anche a me dispiace per te».
«Ma devi essere orgogliosa».
«Sì» si costrinse a dire Elizabeth.
«Molto orgogliosa».
Camminarono insieme per un po’, e
Martha le fece incontrare diverse
amiche comuni che erano rimaste in
città. Durante la guerra ognuna di loro
aveva sopportato difficoltà e privazioni
che Elizabeth non avrebbe neanche
potuto immaginare mentre viveva
comodamente nella sua bella pensione in
Twelfth Street, ma nessuna di loro si
lagnò o si attardò più del dovuto sulla
propria sofferenza. Ammirarono tutte il
suo vestito, che non era neanche il più
bello, ma era ben fatto e non
rammendato, e si dimostrarono felici,
senza neppure una traccia di invidia, per
il fatto che avesse fatto carriera. Lei ne
fu commossa, e avrebbe tanto voluto
aiutarle. Aveva con sé alcuni dollari
dell’Unione, che le donne all’inizio
rifiutarono, ma poi accettarono con
gratitudine quando parlò dei debiti che
aveva con loro dai tempi di Petersburg,
debiti che non ricordavano perché se li
era appena inventati. Congedandosi
dalle vecchie amiche, le esortò a
scriverle se avessero avuto bisogno di
qualunque cosa.
Si accomiatò da Martha per ultima e,
ricordando la sua abilità con ago e filo,
le propose di raggiungerla a Washington
se avesse potuto. «Ho troppi vestiti da
confezionare e non abbastanza mani»
disse. «Potresti guadagnare bene se
lavorassi con me».
Martha
avrebbe
tanto
voluto
accettare, o almeno così sembrava, ma
scosse il capo. «Le mie figlie hanno
bisogno di me» rispose, «e casa mia è a
Richmond. Non posso andarmene».
«Ma sarà dura per i neri al Sud dopo
la fine della guerra».
Martha fece un sorriso tirato. «È
sempre stata dura, e ce la siamo sempre
cavata».
Prima di separarsi, Elizabeth fece
promettere a Martha che avrebbe almeno
tenuto a mente la sua offerta, poi, con un
peso sul cuore, tornò nel luogo dove il
gruppo era d’accordo di ritrovarsi. Il
triste spettacolo di quel giorno si
mescolò con ricordi lontani in modo
tanto doloroso che avrebbe voluto salire
a bordo del treno e partire subito, ma il
presidente desiderava trattenersi ancora
un po’. In una visita precedente aveva
visto una quercia grande e dalla forma
strana che voleva mostrare agli altri,
così lo accompagnarono tutti verso la
periferia della città, dove la pianta
cresceva maestosa e solitaria. Solo
dopo averla ammirata – e anche
Elizabeth, nella sua malinconia, dovette
ammettere che si trattava di un
esemplare magnifico – tornarono alla
stazione per andarsene da Petersburg.
Alla sarta non dispiaceva lasciarsi
alle spalle la città, ma come
prendendosi gioco del suo desiderio di
allontanarsi il treno tornò a City Point a
passo d’uomo, per un motivo che
Elizabeth non comprese. Il convoglio
andava così lento che il presidente
Lincoln ebbe il tempo di osservare una
tartaruga d’acqua dolce che prendeva il
sole accanto alle rotaie. Chiese al
conducente di fermare il treno e a uno
dei frenatori di portargli la creatura, e
lui e Tad ci giocarono per tutto il
viaggio fino al fiume James, dove li
aspettava l’imbarcazione. Vedere il
presidente che ammirava i movimenti
lenti e poco aggraziati della tartaruga – e
la ridicola somiglianza fra il ritmo del
treno e quello dell’animale – rasserenò
Elizabeth, che al momento di salire a
bordo della River Queen si sentiva
meglio, anche se ancora un po’
malinconica.
Per una settimana la River Queen
restò sul fiume James, spesso ancorata a
City Point, offrendo una tregua
piacevole a tutti coloro che si trovavano
a bordo. Il generale Grant e sua moglie
fecero visita agli ospiti del battello
diverse volte, così come altri ufficiali e
dignitari, e quando il presidente non si
assentava per un’escursione restava con
gli altri, a suo agio come in mezzo a
vecchi amici.
Alla vigilia del ritorno a Washington,
Mr Lincoln andò a fare un’ultima
ispezione delle truppe, e la sera tornò
sul vapore esausto più che mai.
«Mamma» confidò a sua moglie, «ho
stretto tante di quelle mani oggi che mi
dolgono le braccia. Vorrei andare a letto
subito, se potessi».
Mrs Lincoln gli mormorò qualche
parola d’incoraggiamento e lo esortò a
scusarsi e a ritirarsi, ma il presidente
detestava deludere i compagni di
viaggio e restò con loro, mentre le luci
del crepuscolo si allungarono e le
lampade venivano accese. Quando i
lumi brillarono, Elizabeth si trovò ad
ammirare affascinata la nave che pareva
un palazzo galleggiante. A bordo c’era
anche una banda militare, e al calare
della notte si diffuse un’atmosfera
magica. Diversi ufficiali salirono a
bordo per accomiatarsi dal presidente, e
verso le dieci gli chiesero di tenere un
discorso. Con qualche sforzo lui si alzò
e disse: «Dovete scusarmi, signore e
signori. Sono troppo stanco per parlare
stasera. Martedì prossimo terrò un
discorso a Washington, e allora saprete
tutti cos’ho da dire. Per ora, per salutare
i valorosi soldati del nostro grande
esercito, chiedo alla banda di suonare
Dixie. È sempre stato uno dei miei brani
preferiti e, da quando abbiamo
conquistato il Sud, abbiamo tutto il
diritto di godercelo».
Non appena tornò a sedersi i
musicisti attaccarono a suonare, e
quando le ultime note si spensero gli
ascoltatori applaudirono. A Elizabeth il
loro atteggiamento parve quasi solenne,
come se capissero che il compito
fondamentale e ambizioso che li aveva
impegnati tanto a lungo era pressoché
compiuto, ma che li aspettava l’impresa
della ricostruzione dell’Unione.
Alle undici si scambiarono gli ultimi
addii, quelli che sarebbero rimasti
scesero a terra, le luci festive furono
staccate e la River Queen fece rotta su
Washington.
Per tutto il giorno successivo il
battello risalì lungo la baia e il Potomac.
Per evitare di parlare di ricostruzione
con il senatore Sumner, il presidente
lesse Macbeth ad alta voce, insistendo
sul tormento del re scozzese. Quando
l’imbarcazione passò davanti a Mount
Vernon, il marchese dichiarò che negli
anni a venire la casa del presidente
Lincoln nell’Illinois sarebbe stata
onorata quanto quella del presidente
Washington in Virginia. «Springfield»
disse Lincoln con una voce che a
Elizabeth sembrò piena di dolce
nostalgia. «Come sarò felice di tornare
lì fra quattro anni, a godermi pace e
tranquillità!»
Il battello arrivò nella capitale alle
sei di domenica pomeriggio, e i
viaggiatori scesero e andarono ciascuno
per la propria strada. Non era ancora
tramontato il sole, ed Elizabeth tornò a
casa a piedi per conto suo, godendosi la
solitudine dopo tanto tempo trascorso in
compagnia di altri. Il viaggio era stato
meraviglioso, istruttivo, ma lei non
vedeva l’ora di entrare nella propria
stanza e di dormire nel suo letto. Mentre
camminava si disse che c’era
un’agitazione non comune per una
domenica sera, soprattutto considerando
che era la domenica delle Palme; erano
anche stati accesi dei falò che
sembravano guidarla verso il ritorno a
casa. «Che sta succedendo?» chiese
Elizabeth a un vicino quando imboccò
Twelfth Street e lo vide osservare la
scena dai gradini della sua abitazione.
«Tutto questo è per accogliere il
presidente e la first lady di ritorno a
casa?»
«È una celebrazione» rispose lui «e
una veglia. Stiamo aspettando. Ormai
non manca molto».
La sarta avvertì un brivido di
trepidazione e di gioia, e immaginò di
sapere già la risposta quando gli chiese:
«Non manca molto a cosa?»
«Alla fine del conflitto!» le gridò lui
di rimando. «Il generale Grant ha
tagliato la strada a Lee che si stava
ritirando ad Appomattox Court House. I
ribelli sono circondati!»
12.
Aprile 1865
All’alba Elizabeth si svegliò al suono
dei cinquecento colpi a salve che furono
esplosi in segno di vittoria e che fecero
tremare il letto e le finestre. Attraverso
le pareti della pensione udì gli altri
residenti rispondere con acclamazioni
ancora impastate di sonno, e capì subito
che il generale Lee doveva essersi
arreso.
Si vestì rapidamente e scese
all’entrata della pensione, dove
Virginia, Walker, Miss Brown, Emma e
alcuni altri vicini si stavano radunando
per condividere le poche notizie che
avevano. «Significa che la guerra è
finita?» chiese Elizabeth, ma nessuno
poteva dirlo per certo. Nessuno sapeva
cosa stesse accadendo in North Carolina
tra il generale Sherman e il suo
avversario confederato, il generale
Johnston. Walker propose di dirigersi
all’ufficio del telegrafo per avere notizie
ufficiali, ma alla fine dei colpi a salve
erano iniziati i tuoni, e cadeva una
pioggia torrenziale. Elizabeth e Virginia
non avevano nessuna voglia di
avventurarsi sotto quell’acquazzone, ma
nulla avrebbe trattenuto Walker ed
Emma, che scoppiavano di curiosità, e
così andarono loro due da soli.
Guardando dalle finestre, Elizabeth
calcolò che dovevano essere migliaia le
persone riversatesi in strada nonostante
la pioggia, ridenti ed esultanti, a
scambiarsi abbracci. Si sentiva così
inebriata che temeva di scoppiare a
ridere o di mettersi a cantare, e non
appena la pioggia si calmò, lei e
Virginia presero con loro le ragazze
Lewis e si unirono alla celebrazione. Si
formarono cortei improvvisati, in cui i
civili presero a braccetto i soldati e
cantarono Rally Round the Flag e
inneggiarono
alle
buone
notizie
seguendo le bande musicali che
percorrevano le vie piene di fango. I
carri a vapore dei pompieri, adorni di
bandiere e banderuole, lanciavano in
aria il loro fischio penetrante. Soldati e
meccanici andarono a prendere una
batteria di sei obici all’arsenale e si
misero a sparare a salve. Elizabeth si
sentì trascinare dalla folla che si
dirigeva verso la Casa Bianca, dove unì
la propria voce al coro esultante e grato
che cantava The Star-Spangled Banner.
La calca vociferava chiedendo un
discorso del presidente. Un boato
accolse Tad che fece capolino da una
finestra, e le grida diventarono ancora
più forti quando il ragazzino agitò una
bandiera ribelle catturata per far
divertire la folla. Poco dopo apparve
anche il presidente Lincoln, accolto
dalle ovazioni del popolo e da centinaia
di cappelli gettati in aria. Quando il
baccano si calmò un poco il presidente
disse: «Sono molto contento di vedere
che è successo qualcosa di tanto bello
che non riuscite a contenere la vostra
gioia».
Elizabeth rise e applaudì con la folla.
«Immagino che si stia organizzando
una celebrazione più formale» rifletté ad
alta voce, «stasera o forse domani».
«Non possiamo aspettare!» gridò
qualcuno.
«Vogliamo festeggiare subito!» urlò
un altro, e immediatamente centinaia di
altre voci si unirono per manifestare il
proprio assenso.
«Se ci dev’essere una manifestazione
mi toccherà presenziare» protestò il
presidente, «e non avrò nulla da dire se
mi strappate le parole di bocca adesso».
Il pubblico, rapito, rispose con risate
e applausi.
Mr Lincoln scrutò la folla. «Vedo che
avete una banda musicale lì con voi».
«Ne abbiamo due o tre» gli rispose
qualcuno di rimando.
«Propongo di finire questo incontro
chiedendo alla banda di suonare un
pezzo particolare» decretò il presidente.
«Prima, però, vorrei spiegare il perché
di questa scelta. Ho sempre considerato
Dixie una delle canzoni più belle che
conosca. I nostri avversari hanno
cercato di appropriarsene, ma ieri ho
insistito nel dire che l’abbiamo
conquistata noi». Un grido potente della
folla gli diede ragione. «Ho sottoposto
la questione al procuratore generale, e
secondo la sua opinione legale si tratta
di un premio che ci siamo conquistati in
modo legittimo». Mentre le sue parole
venivano accolte da nuove risate e
applausi, il presidente levò la mano in
un gesto rivolto ai musicisti. «Ora
richiedo alla banda di eseguirla».
Elizabeth non aveva mai udito
un’interpretazione tanto gioiosa di quel
pezzo. Subito dopo la banda suonò
Yankee Doodle e la folla la accompagnò
battendo le mani.
Dopo le ultime note Mr Lincoln
disse: «E adesso, tre urrà per il generale
Grant e tutti i suoi uomini». La folla,
Elizabeth tra loro, eseguì subito. «Altri
tre urrà per la nostra valorosa Marina».
Anche a questo ordine obbedirono
immediatamente.
Poi, con un piccolo inchino, il
presidente scomparve dalla finestra, tra
lo scroscio di applausi e acclamazioni
degli astanti. Poco dopo si sparse la
voce che si doveva andare al ministero
della Guerra per chiedere un discorso
anche al ministro Stanton, ma Elizabeth,
Virginia ed Emma decisero di
abbandonare la folla e di portare a casa
le ragazzine.
Quella sera la sarta rifletté sul
discorso improvvisato del presidente
alla finestra, e si disse che in tanti anni
che lo conosceva, e dopo tante volte in
cui avevano chiacchierato insieme
mentre lei lavorava alla Casa Bianca,
non lo aveva mai sentito fare un
discorso pubblico. L’ultima sera a bordo
della River Queen, e di nuovo quel
giorno alla finestra della Casa Bianca,
aveva promesso un discorso formale per
il giorno successivo. Forse anche perché
rimpiangeva di essersi persa il suo
intervento
in
occasione
dell’insediamento, non vedeva l’ora di
ascoltare quel discorso, il primo dopo la
resa del generale Lee.
Il mattino seguente Mrs Lincoln passò
da Elizabeth alla pensione per parlarle
di un nuovo abito che le sarebbe
piaciuto. Mentre stava congedandosi, la
sarta le chiese se poteva andare alla
Casa Bianca, quella sera, per ascoltare
il discorso del presidente.
«Certo, Lizzie» rispose la first lady.
«Se vi interessano i discorsi politici,
siete la benvenuta».
«Grazie, Mrs Lincoln». Dopo un
attimo di esitazione aggiunse: «Posso
abusare ulteriormente della vostra
gentilezza e chiedervi di portare
un’amica con me?»
«Portatela pure» accettò di buon
grado la moglie del presidente,
aggiungendo poi, quasi se ne fosse
dimenticata: «Venite in tempo per
vestirmi prima del discorso».
«Certo» promise Elizabeth. «Potete
contarci».
Mrs Lincoln annuì e se ne andò.
Qualche istante dopo Elizabeth la
guardò dalla finestra uscire dalla
pensione e salire a bordo della carrozza
che la portò via.
La sarta pensò a Virginia e a Emma, e
le dispiacque di non avere chiesto alla
first lady di portare due amiche. Ormai
era tardi per rimediare, e decise di
invitare Emma. La sua giovane
assistente andava sempre ad ascoltare i
discorsi di Lincoln quando poteva, e
aveva udito anche il secondo discorso
inaugurale, che aveva riferito a
Elizabeth con dovizia di particolari.
Siccome era una fervente ammiratrice
del presidente, sembrava giusto offrirle
l’opportunità di ascoltarlo da un luogo
tanto privilegiato all’interno della Casa
Bianca.
Emma, emozionata, accettò subito
l’invito, e alle sette di sera entrarono
entrambe alla Casa Bianca dall’ingresso
principale, come la sarta aveva già fatto
tante volte prima di allora. Mentre
salivano agli appartamenti della first
lady, Elizabeth toccò il braccio della
ragazza per segnalarle di procedere
senza fare rumore. Quando passarono
davanti allo studio del presidente,
rallentarono e sbirciarono dalla porta
socchiusa. Abraham Lincoln era seduto
alla scrivania, riguardava i suoi appunti
e borbottava tra sé, con aria pensosa e
assente. La sarta si fermò un attimo a
guardarlo, sapendo che stava ripassando
e perfezionando le parole che presto
avrebbe pronunciato non solo davanti
alla folla radunata fuori, ma al cospetto
del paese intero e anche oltre, perché
tutti avrebbero letto il suo intervento sui
giornali nei giorni a venire. Quando il
presidente parlava, le sue parole
facevano il giro del mondo, cosicché
ognuna di esse andava scelta con
attenzione.
Quando giunsero alle stanze della
first lady, Emma aspettò fuori mentre
Elizabeth con mano esperta vestiva Mrs
Lincoln di seta gialla e le acconciava i
capelli infilandovi boccioli primaverili.
Il presidente apparve proprio mentre la
sarta stava dando gli ultimi ritocchi, ed
entrambi accettarono che Elizabeth
presentasse loro Emma. La sarta nascose
un sorriso quando la ragazza strinse loro
la mano e scambiò qualche frase educata
con entrambi, intimidita da quell’onore
inaspettato.
Una grande folla si era radunata
davanti alla Casa Bianca, e sulle note
della banda della Marina si udivano le
grida degli spettatori che chiamavano a
gran voce il presidente. Quando infine si
mostrò alla finestra centrale sopra la
porta, la calca ammassata nell’oscurità
sottostante esplose in un grido
entusiasta. Guardando da un’altra
finestra del secondo piano, dove lei ed
Emma si trovavano allo stesso titolo
delle dame e dei gentiluomini distinti
che le attorniavano, Elizabeth trattenne il
fiato per lo stupore. Non aveva mai
visto una tale quantità di gente: parevano
un mare nero e ondeggiante nella notte, e
il movimento della folla assomigliava
all’andirivieni della marea sulla sponda
dell’oceano. I visi nelle prime file erano
distinguibili, ma a mano a mano che si
spingeva lo sguardo oltre, si vedevano
solo sagome vaghe, spettrali. Ad
accrescere la bellezza surreale della
scena c’era il mormorio delle voci che
si levavano fino a loro, simili al
clamore lontano di una tempesta
sull’oceano o al vento che fischiava
attraversando una foresta buia e
solitaria. Era una scena grandiosa,
impressionante, e quando Lincoln la
osservò con occhi penetranti, pieni di
sentimento,
aspettando
che
le
acclamazioni si placassero, a Elizabeth
parve un semidio più che un semplice
mortale.
Ogni finestra della Casa Bianca era
illuminata da centinaia di piccole
candele disposte tre a tre su assicelle
sottili di legno, ma la luce delle candele
non dovette essere reputata sufficiente,
perché si udì subito il grido di qualcuno
che chiedeva altri lumi. Quando fu
portata la lampada, Elizabeth udì Tad
gridare: «La tengo io, papà! Lascia che
la tenga io!»
Mrs Lincoln fece un gesto e disse
qualcosa che Elizabeth non capì, ma
doveva avere chiesto di esaudire il
desiderio del figlio, perché il lume gli fu
affidato.
«Ci vediamo stasera non all’insegna
della tristezza ma della gioia» esordì il
presidente, e gli ascoltatori tacquero
all’istante. «L’evacuazione di Petersburg
e Richmond, la resa del principale
esercito di ribelli fanno sperare in una
pace giusta e rapida, che non può che
suscitare felicità in tutti noi».
Sì, pensò Elizabeth, sì, e la
compassione, la gratitudine nella voce
del presidente le toccarono il cuore
tanto da farla sentire trasportata verso
l’alto. Emma trasse un respiro tremante,
e l’amica capì che anche lei era
commossa
da
quello
spettacolo
impressionante: padre e figlio insieme,
in presenza di migliaia di cittadini
liberi, il più vecchio che parlava con
eloquenza del destino di una nazione, il
più giovane che lo osservava ammirato.
Elizabeth non era lontana dal
presidente e, dopo che questi ebbe
elogiato l’esercito e parlato dell’annoso
problema della ricostruzione, la luce del
lume di Tad lo colpì in pieno rendendolo
perfettamente visibile nella notte. Un
pensiero terrificante sfiorò allora la
sarta che, avvicinandosi a Emma,
sussurrò: «Come sarebbe facile uccidere
il presidente in questo momento!
Qualcuno nascosto tra la folla potrebbe
sparargli e non si scoprirebbe mai il
colpevole».
Emma annuì atterrita. Elizabeth riuscì
a malapena a seguire il resto del
discorso, temendo che uno degli uomini
malvagi che gli aveva scritto lettere
aggressive e minacciose si tenesse in
agguato tra le ombre in mezzo alla calca.
Solo pochi giorni prima Elizabeth aveva
udito Mrs Lincoln chiedere misure di
protezione supplementari per il marito, e
quasi subito agenti della polizia
metropolitana erano stati messi di
guardia alla Casa Bianca per sventare
eventuali
tentativi
di
incendio,
rapimento e altre minacce. Da allora,
però, la resa del generale Lee sembrava
avere alleviato almeno in parte gli
onnipresenti timori della first lady. La
sarta, tuttavia, avvertì un terribile
presentimento: sapeva che i nemici del
presidente non avevano smesso di
detestare Lincoln quando Lee era stato
sconfitto ad Appomattox.
A un tratto Emma la prese per un
braccio con un sorriso. Destata dalle sue
cupe fantasticherie, Elizabeth cercò di
ritrovare il filo del discorso del
presidente. «Alcuni sono scontenti che i
neri non godano del diritto di voto»
disse Lincoln, alludendo alle critiche
rivolte alla nuova costituzione dello
stato della Louisiana. «Io stesso
preferirei concederlo alle menti più
elevate o a coloro che hanno servito la
nostra causa combattendo».
Elizabeth soffocò appena in tempo
un’esclamazione di sorpresa. A meno
che le orecchie non l’avessero tradita, il
presidente aveva appena detto al mondo
che approvava la concessione del diritto
di voto ai soldati neri dell’Unione e ad
altri uomini di colore.
«Parla sul serio?» chiese Emma in un
sussurro. «Ai nostri uomini sarà
permesso votare?»
«Penso di sì» rispose l’amica
bisbigliando, mentre un brivido di
emozione le faceva tremare la voce.
Forse quello era solo l’inizio. Forse
anche le suffragette sarebbero riuscite
nel loro intento. Elizabeth riusciva a
immaginare gli ostacoli che cadevano
uno dopo l’altro come i libri da uno
scaffale troppo carico: dapprima
avrebbero ottenuto il diritto di voto i
soldati neri, poi gli altri uomini di
spicco,
quindi
tutti
i
neri,
successivamente le donne bianche e
infine le donne di colore come lei,
Emma e Virginia. Poteva accadere.
Qualcuno diceva che la schiavitù non
sarebbe mai scomparsa, invece era stata
abolita. La gente buona con convinzioni
forti poteva cancellare ogni ingiustizia
se non si dava per vinta. Pur sentendosi
rincuorata, Elizabeth non riusciva a
dimenticare che la marcia verso la
giustizia era sempre stata lunga e ardua,
e che i cambiamenti cui anelava
avrebbero potuto prodursi solo dopo la
sua morte.
Aveva già assistito a tanti eventi
notevoli da quando era giunta a
Washington.
Perché
il
suffragio
universale non poteva essere il
prossimo?
Quando tornò alla Casa Bianca il
sabato successivo Elizabeth aveva
ancora la mente piena delle splendide
immagini di quella serata; eppure, dopo
avere ringraziato Mrs Lincoln per avere
permesso a lei e a Emma di essere
presenti, qualcosa le suggerì di parlare
alla
first
lady
dell’apprensione
improvvisa che l’aveva attanagliata
quando il presidente si era presentato,
illuminato e vulnerabile, davanti alla
folla.
«Sì, sì, la vita di mio marito è sempre
in pericolo» convenne sua moglie con un
sospiro. «Ah, nessuno sa cosa significhi
vivere con la paura costante che accada
una tragedia. Il presidente è stato
minacciato tanto spesso che tremo per
lui a ogni occasione pubblica. Ho il
presentimento che avrà una morte
improvvisa e violenta».
«Immagino sia naturale che vi
preoccupiate»
ribatté
Elizabeth,
ripensando alle lettere terribili che il
presidente riceveva quasi ogni giorno.
Anche a sua moglie ne arrivavano, ma
non quante al marito.
La first lady scosse il capo. «Ho
detto presentimento. Non parlo di
preoccupazioni o paure normali che
chiunque proverebbe al mio posto, e che
assalirebbero qualsiasi donna con un
marito che si è fatto dei nemici. È una
sensazione ben più forte».
Mrs Lincoln sembrava così certa,
così abbattuta, che Elizabeth rimpianse
di averla incoraggiata quando aveva
consultato gli spiritualisti dopo la morte
di Willie. Sicuramente uno di loro le
aveva inculcato quelle idee così
pessimiste quando era in preda al
dolore.
Rimase in silenzio troppo a lungo,
perché Mrs Lincoln si accigliò e disse:
«Conosco quell’espressione. Pensate
che sia una stupida ma siete troppo
educata per dirlo. Ebbene, e se vi
dicessi che mio marito condivide la mia
opinione?»
«Io... non saprei cosa pensare»
rispose Elizabeth sorpresa.
«Lui stesso ha avuto diverse
premonizioni». Mrs Lincoln strinse le
labbra e respirò profondamente, mentre
una ruga le si formò tra le sopracciglia.
«La prima fu pochi giorni dopo
l’elezione del 1860, quando eravamo
ancora a Springfield. Cominciava ad
avvertire il peso delle nuove
responsabilità, e faceva fatica a
dormire. Era nel suo ufficio, sdraiato su
una chaise longue, quando gli cadde lo
sguardo sullo specchio e vide la sua
immagine riflessa in due volti, uno molto
più
pallido
dell’altro.
Rimase
profondamente
sconvolto
da
quell’episodio, e non mi stupisce.
Secondo me la visione significava che
sarebbe stato eletto due volte ma non
sarebbe vissuto fino alla fine del
secondo mandato».
Scossa, Elizabeth cercò di mostrarsi
scettica e chiese: «Siete sicura che il
presidente credesse a una visione e non
invece a uno scherzo della luce sullo
specchio e agli occhi stanchi?»
«Se non l’ha detto esplicitamente, è
apparso chiaro dal suo comportamento.
Ma vi sono stati anche altri episodi. Fa
sempre uno strano sogno prima di eventi
importanti. Si descrive a bordo di una
nave – non riesce a fornire i dettagli, ma
sa che è sempre la stessa imbarcazione –
che si muove velocemente verso una
riva buia e dai contorni imprecisi. Ha
fatto questo sogno prima di Antietam,
Murfreesboro, Gettysburg e Vicksburg».
«Santo cielo». La sarta rabbrividì
come se le parole di Mrs Lincoln le
avessero gelato il sangue. «Ma se questo
sogno è profetico, sembra annunciare
una vittoria, non la morte».
«Immagino di sì». Gli occhi di Mrs
Lincoln si riempirono di lacrime. «Ma
non vi ho ancora detto del sogno
peggiore. Vorrei che non me l’avesse
mai raccontato».
«Su, coraggio, Mrs Lincoln».
Elizabeth, allarmata, la prese per il
gomito e la accompagnò fino al divano
per farla sedere. «Forse ne abbiamo
parlato troppo a lungo».
«No, no. Ho iniziato e ora devo dirvi
il resto». La first lady estrasse un
fazzoletto, si asciugò gli occhi e
tormentò
il
tessuto
bianco
attorcigliandoselo in grembo. «Solo
pochi giorni fa io e il presidente
stavamo parlando con la sua guardia, Mr
Lamon, e qualcun altro quando la
conversazione si è orientata sulla
quantità di sogni presenti nella Bibbia.
“Se crediamo nella Bibbia” ha detto mio
marito, “dobbiamo accettare il fatto che
nei tempi antichi Dio e i Suoi angeli si
mostravano agli uomini nel sonno e si
manifestavano nei sogni”. Quando gli ho
chiesto il motivo di quel commento, ha
cominciato col precisare che non
credeva ai sogni, e poi mi ha descritto
un sogno fatto qualche notte prima e che
da allora non cessava di tormentarlo».
«Che sogno era?» chiese Elizabeth
preoccupata, anche se avrebbe preferito
non saperlo.
«Ha raccontato che dieci giorni
prima si era ritirato nella sua stanza
molto tardi perché era rimasto sveglio in
attesa di comunicazioni importanti dal
fronte. Si era coricato da poco quando
era crollato dal sonno e aveva
cominciato a sognare. Ha detto che si
sentiva avviluppato in un’immobilità di
morte, e che udiva singhiozzi sommessi,
di tante persone che piangevano. Nel
sogno si è alzato dal letto ed è sceso al
piano inferiore, dove il silenzio era rotto
dagli stessi singhiozzi straziati, ma le
persone afflitte erano invisibili.
Passando in rassegna una stanza dopo
l’altra non vedeva nessuno, ma i lamenti
funebri lo seguivano ovunque. Le stanze
erano illuminate, e ogni oggetto gli era
familiare, ma dov’erano tutte quelle
persone che piangevano come se
avessero il cuore spezzato? Si sentiva
perplesso e allarmato, e si è chiesto
quale potesse essere il significato di
tutto ciò. Deciso a trovare la
spiegazione per quelle circostanze tanto
misteriose che lo turbavano, ha
continuato a camminare finché non è
giunto nell’East Room, dove si è
imbattuto in una sorpresa sconvolgente.
Davanti a lui c’era un catafalco sul
quale era posato un cadavere in abito
funebre. I soldati stavano di guardia
tutt’attorno e una moltitudine di persone
fissava tristemente il morto, con il viso
coperto, mentre qualcuno piangeva. “Chi
è morto alla Casa Bianca?” ha voluto
sapere mio marito rivolgendosi a uno
dei soldati. “Il presidente” è stata la
risposta. “È stato ucciso da un sicario”.
Proprio allora un lamento straziante si è
sollevato dai presenti e l’ha svegliato».
«Che orrore!» esclamò Elizabeth.
Non c’era da stupirsi che il presidente
avesse l’aria così provata ed esangue, se
visioni tanto macabre lo tormentavano
nottetempo. «Mrs Lincoln, non dovete
temere che questo incubo si realizzi».
La first lady la guardò scettica. «Voi
stessa avete detto che sarebbe stato
facile per un assassino ucciderlo alla
finestra, ieri sera».
Quanto rimpiangeva quelle parole!
«Ciò che intendo dire è che si tratta di
brutti sogni e niente più. Non sono
eventi futuri. Sarebbe assurdo che il
presidente non avesse incubi, dopo tutte
le minacce ricevute; anzi, è prova della
sua forza d’animo il fatto che non ne
abbia anche di più».
Mrs Lincoln sembrava desiderosa di
crederle. «Ho ordinato di aumentare il
numero delle guardie, ma non so
cos’altro...»
Si interruppe di colpo quando la
porta si aprì ed entrò il presidente. La
first lady si ricompose, ma qualcosa
nell’espressione di Abraham Lincoln
rivelò a Elizabeth che aveva intuito il
suo stato d’animo in quel breve istante,
prima che lei cercasse di nasconderlo.
Le salutò, scrutandole incuriosito per un
istante, poi si avvicinò alla finestra e
guardò fuori sorridendo. «Madame
Elizabeth» esordì voltandosi. «Vi
piacciono gli animali?»
«Oh, sì, signore» rispose.
«Allora venite qui a vedere le mie
capre».
La sarta incrociò lo sguardo di Mrs
Lincoln, che le fece un cenno discreto
con la testa e le indicò di obbedire.
Quando fu al fianco del presidente,
questi le mostrò le capre che
scorrazzavano nel prato sotto di loro.
«Secondo me sono le capre più buone e
brave del mondo» dichiarò, con gli
occhi che gli luccicavano di gioia.
«Guardate come annusano l’aria
limpida, come saltano e giocano al sole.
Oh! Avete visto che salto?» esclamò
quando uno degli animali fece un balzo
sopra dei sassi. «Madame Elizabeth,
avete mai visto una capra tanto
esuberante?»
Lei sorrise. «Non che ricordi,
signore».
«Guardatela, si aggira nel suo
territorio non lasciandosi sfuggire nulla:
ha la determinazione di un bounty
jumper2» osservò. «Anzi, non rendo
giustizia alla capra paragonandola a
quegli individui. Preferirei portare le
corna e quella pelliccia che abbassarmi
al livello di chi saccheggia il Tesoro in
nome del patriottismo». Un’ombra gli
oscurò il viso. «L’uomo che si arruola
per ottenere un compenso e diserta nel
momento in cui viene pagato per
ricominciare tutto da capo è già
abbastanza reprensibile, ma gli uomini
che manipolano tutto il meccanismo e
che sono dietro ai bounty jumpers,
mettendo in piedi una frode colossale,
sono anche peggiori. Sono peggio dei
vermi che si annidano negli angoli più
bui della terra».
Prima che Elizabeth potesse replicare
che la coscrizione era terminata, e che i
bounty jumpers non avrebbero più
potuto approfittarne come prima,
entrambe le capre alzarono lo sguardo
verso la finestra e scossero il capo quasi
in un saluto amichevole. «Vedete,
madame
Elizabeth?»
riprese
il
presidente rasserenandosi. «I miei
animali mi riconoscono. Guardate che
aria seria. Eccole che ricominciano:
come si divertono!» Rise ad alta voce
quando gli animali ripresero a saltare,
dirigendosi all’altro capo del prato.
«Venite,
Lizzie»
la
chiamò
imperiosamente Mrs Lincoln. «Se voglio
essere pronta per stasera devo finire di
vestirmi, e voi dovete smettere di
guardare quelle stupide capre».
La sarta scambiò uno sguardo
d’intesa con il presidente prima di
affrettarsi a tornare dalla first lady, che
non amava molto gli animali, né capiva
la passione del marito per le capre.
Elizabeth non gliel’avrebbe mai detto,
ma pensava che Mrs Lincoln avrebbe
dovuto essere riconoscente per le poche
cose che distraevano il presidente dalle
sue preoccupazioni. Le capre, i suoi
scrittori preferiti, le conversazioni con
amici intelligenti, una serata a teatro di
tanto in tanto erano occasioni rare che
gli accordavano una pausa dalle
pressioni continue legate alle sue
funzioni.
Elizabeth finì di vestirla rapidamente,
senza curarsi della sua smorfia
indispettita. Le sarebbe passata presto, e
la sarta preferiva vederla irritabile
piuttosto che ansiosa o concentrata su
cupi presagi, nati da una mente in preda
a tensione, tristezza e sfinimento.
Qualche giorno dopo, la mattina del
Venerdì Santo, Elizabeth si recò di
buon’ora alla Casa Bianca con il
corpetto, la gonna e le maniche di un
nuovo abito estivo per Mrs Lincoln, una
mussola francese ricamata con maniche
ad aletta e un delicato bordo di pizzo
attorno alla scollatura. La first lady era
già impaziente di trasferirsi a Soldiers’
Home per l’estate, dove sperava che il
marito si riposasse e ritrovasse la salute
e il vigore. La guerra l’aveva messo a
dura prova, e la ricostruzione non
sarebbe stata da meno, ma il generale
Sherman avanzava nel North Carolina e
sembrava che il conflitto sarebbe finito
presto. Il peggio era ormai dietro di
loro.
La sarta imboccò Fifteenth Street
mentre un drappello di soldati di colore
transitava scortando colonne di truppe
ribelli catturate. I passanti non li
insultavano ma si limitavano a lanciare
loro occhiate di compatimento, o
fingevano di non notarli per non
aumentarne le sofferenze. Avrebbero
potuto coprirli di ingiurie – o anche
gettare loro dei mattoni, se avessero
avuto un profondo desiderio di vendetta
–, ma gli abitanti di Washington
sembravano pensarla quasi tutti come
Elizabeth: quegli sventurati prigionieri
volevano solo tornare a casa, proprio
come i padri di famiglia, i figli, i fratelli
e i fidanzati nordisti desideravano più di
ogni cosa tornare dalle loro famiglie.
Con la guerra ormai prossima alla
conclusione, e il suo esito ormai certo,
tutti volevano semplicemente che finisse
senza ulteriori spargimenti di sangue.
Quello dei soldati di colore che
facevano la guardia a prigionieri
confederati bianchi non era più uno
spettacolo strano, ma Elizabeth si fermò
ugualmente a guardare il passaggio delle
colonne di uomini con una traccia di
stupore. Com’era cambiata la città negli
ultimi quattro anni, e perfino nell’ultima
settimana... I festeggiamenti esaltati dei
primi giorni dopo la resa del generale
Lee si erano trasformati in un
atteggiamento più pacato di speranza,
gratitudine e pace, nonostante le
preoccupazioni onnipresenti su ciò che
sarebbe successo poi. Nei cuori di tutti,
a eccezione dei più vendicativi e
radicali, il recente discorso di Lincoln
aveva instillato un senso di perdono e
clemenza. Elizabeth ripensò alle vecchie
amiche che aveva rivisto a Petersburg la
settimana precedente, e a tutte le persone
che aveva conosciuto in Virginia, in
Missouri e perfino in North Carolina,
dove aveva subito tormenti di ogni tipo,
e sperava che il progetto del presidente
per la ricostruzione fosse clemente con
loro.
Alla Casa Bianca fu felice di trovare
Mrs Lincoln di buonumore. Il capitano
Robert Lincoln e il generale Grant erano
arrivati quel mattino dalla Virginia, e
durante la colazione Robert aveva fatto
ai genitori il resoconto di prima mano
della resa di Lee ad Appomattox.
«Un’occasione storica» osservò la first
lady mentre Elizabeth la aiutava a
indossare gonna e corpetto. «Ed è
appropriato che il figlio del presidente
fosse lì ad assistervi».
Mrs Lincoln era particolarmente
contenta non solo perché Robert era a
casa e al sicuro, e perché la notte prima
il presidente aveva di nuovo sognato
della nave che lo portava verso una riva
lontana, un sogno che presagiva,
secondo lui, l’imminente vittoria del
generale Sherman contro Johnston in
North Carolina. «Mio marito mi ha
mandato un biglietto stamattina»
confidò, «invitandomi a fare una gita
questo pomeriggio».
Elizabeth dovette sorridere. «Vi ha
mandato un biglietto? Non sarebbe stato
più rapido chiedervelo a voce, visto che
avete fatto colazione insieme?»
«Più rapido ma non altrettanto
romantico» replicò Mrs Lincoln. «Mi fa
tornare in mente i giorni in cui mi
corteggiava a Springfield. Ne abbiamo
passate tante da allora che è spesso
difficile ricordare com’eravamo da
giovani innamorati».
La sarta sorridendo le sistemò la
scollatura dell’abito, infilando due spilli
uno dopo l’altro. «Forse una bella
giornata insieme vi aiuterà a ricordare».
«Abbiamo entrambi bisogno di una
giornata piacevole e riposante per altre
ragioni, ma temo che non sarà tale per
mio marito».
«Perché no? Non può godersi un
giorno di vacanza il Venerdì Santo?»
«Se poteste persuaderlo a farlo,
avreste la mia gratitudine eterna. Dalla
colazione in poi ha avuto colloqui
continui con legislatori e altre persone
con richieste varie, e dopo dovrà
riunirsi con i suoi ministri. Penso che
non lo vedrò fino a questo pomeriggio, e
a quel punto dovrò insistere perché
faccia un pranzo vero e proprio prima
della nostra gita di questo pomeriggio
invece di una mela alla scrivania. È
sempre più magro e grigio e la gente
incolpa me, dicendo che non gli do
abbastanza da mangiare».
«Dovrebbero incolpare il cuoco
della Casa Bianca, non voi» osservò
Elizabeth. «Ma anche quello sarebbe
ingiusto».
Mrs
Lincoln
si
dichiarò
completamente d’accordo, ma la sua
delusione per il fatto che non avrebbe
potuto vedere il marito fino al
pomeriggio svanì, perché il presidente
entrò nella stanza proprio in quel
momento. «Sono stato al ministero della
Guerra» annunciò alla moglie dopo
averle salutate entrambe. «Ho visto il
generale Eckert, gli ho parlato del nostro
programma di andare a teatro stasera, e
l’ho invitato a venire con noi».
Mrs Lincoln sollevò le sopracciglia.
«Davvero? Ebbene, immagino che ci sia
abbastanza posto nel palco per lui, noi e
anche per il generale Grant e signora».
Lincoln si lasciò cadere sul divano.
«C’è posto, mamma, ma non ce ne sarà
bisogno perché il generale Eckert non
potrà essere dei nostri».
La risata della moglie recava una
traccia di esasperazione divertita. «E
allora perché parlarne?»
«Pensavo
desideraste
che
vi
raccontassi ogni dettaglio della mia
giornata».
Sembrava che il presidente volesse
continuare a canzonare la moglie, ma
proprio in quel momento entrò Robert
con un piccolo ritratto. «Eccolo, padre»
annunciò
Robert,
allungandogli
l’oggetto. «Il generale Robert E. Lee,
come promesso».
«Grazie, figliolo». Il presidente
Lincoln posò il ritratto sul tavolo
davanti a sé e studiò pensoso il viso del
generale. «È un bel volto; appartiene a
un uomo nobile, coraggioso».
«Mi pare che sia abbastanza
somigliante»
dichiarò
Robert,
palesemente soddisfatto di sé.
Il presidente annuì compiaciuto e lo
guardò da sotto le sopracciglia
sollevate. «Ebbene, figlio mio, sei
tornato sano e salvo dal fronte. Ora la
guerra è finita, e presto vivremo in pace
con gli uomini bravi e valorosi che
hanno combattuto contro di noi. Sono
sicuro che l’epoca dei buoni sentimenti
è tornata con la fine della guerra, e che
da questo momento vivremo in pace».
«Amen» mormorò Elizabeth, a voce
tanto bassa che neppure Mrs Lincoln la
udì.
«Ora ascoltami, Robert» continuò il
presidente. «Devi mettere da parte
l’uniforme e tornare all’università.
Vorrei che studiassi legge per tre anni, e
alla fine di quel periodo spero che
saremo in grado di capire se hai la stoffa
per diventare avvocato oppure no».
«Sissignore» rispose solennemente
Robert, e suo padre si alzò e gli strinse
la mano, più allegro di quanto Elizabeth
non l’avesse visto da parecchio tempo.
La sarta era contenta di vedere la
famiglia godersi un momento di armonia
domestica dopo tante preoccupazioni e
difficoltà. Fu un momento breve, perché
Abraham Lincoln dovette recarsi subito
alla riunione con il suo governo, e anche
Robert se ne andò, forse per raggiungere
il generale Grant. Di nuovo sole,
Elizabeth e Mrs Lincoln ripresero le
prove dell’abito, e non avevano ancora
finito quando arrivò una domestica con
un messaggio dal generale Grant e
signora, spiegando che avevano deciso
di far visita ai loro figli nel New Jersey
e non avrebbero potuto andare a teatro
con i Lincoln. «Peccato che abbiano
annullato all’ultimo momento» dichiarò
Mrs Lincoln, gettando la lettera sul
tavolo. «Di recente sembra che Mrs
Grant colga ogni occasione possibile
per evitare di trascorrere del tempo in
mia compagnia».
Elizabeth non poteva certo biasimare
la moglie del generale, visto come
l’aveva trattata Mrs Lincoln in carrozza
a City Point. «Non potreste invece
invitare un’altra coppia?»
«Sarebbe uno spreco di carta e
inchiostro. Chi sarebbe disponibile così
all’ultimo momento?»
«Chi non rinuncerebbe volentieri a un
altro programma pur di condividere il
palco presidenziale con i coniugi
Lincoln?»
«Il generale Grant e sua moglie, a
quanto pare» replicò Mrs Lincoln, ma
mentre Elizabeth continuava ad adattarle
e puntarle l’abito con gli spilli, ci
ripensò. «Immagino che potremmo
trovare altri ospiti, e in caso contrario
non mi dispiacerebbe tenermi mio
marito tutto per me, per cambiare».
«Per voi e per qualche altro centinaio
di spettatori» le ricordò Elizabeth, e fu
contenta di vedere la sua cliente
sorridere.
In seguito, mentre riponeva le sue
cose, la sarta chiese: «Volete che torni
più tardi per vestirvi per il teatro?»
«Ecco...» Mrs Lincoln esitò. «Penso
di no. Non sono sicura che andremo,
dopotutto. Sento che mi sta venendo mal
di testa, e Mr Lincoln è esausto per i
problemi incessanti. Immagino che
dovremmo decidere dopo la nostra gita,
ma non voglio tenervi impegnata
inutilmente».
«Se decidete che avete bisogno di
me» le ricordò Elizabeth, «sapete che
potete sempre mandarmi a chiamare».
La moglie del presidente sorrise con
gratitudine. «Sì, Elizabeth. Lo so».
Elizabeth si svegliò bruscamente nel
cuore della notte sentendo bussare forte
alla porta della sua stanza. «Mrs
Keckley!» la chiamava qualcuno. «Mrs
Keckley, si svegli!»
Disorientata, la sarta si rizzò a
sedere, afferrò alla cieca la vestaglia e
la indossò. I colpi e le voci
continuarono mentre si alzava e si
sbrigava ad andare ad aprire. «Miss
Brown?» chiese confusa, scoprendo la
sua vicina in corridoio. «Cos’è
successo? C’è un incendio?»
«No, no, non un incendio, ma notizie
terribili, terribili!» Miss Brown si
torceva le mani e aveva le guance rigate
di lacrime. «Hanno sparato al presidente
Lincoln, e tutti i suoi ministri sono stati
assassinati!»
A Elizabeth venne un colpo al cuore.
«Assassinati?» Le immagini degli
uomini che aveva visto nel corso degli
anni alla Casa Bianca – ridere,
accigliarsi, sussurrare con enfasi in un
angolo,
lavorare
con
estrema
meticolosità con Abraham Lincoln,
ridere dei suoi racconti – le
attraversarono la mente. Le parve che il
sangue le si gelasse nelle vene, e che i
polmoni,
privati
d’aria,
si
accartocciassero. «Mio Dio, tutti morti?
E il presidente Lincoln? È ferito in
modo grave?»
Miss Brown scosse il capo. «No,
grazie al cielo. Non ha ricevuto ferite
mortali».
«Dio sia lodato. E Mrs Lincoln?»
«Illesa. O, almeno, che io sappia».
Con il cuore che martellava,
Elizabeth ringraziò la vicina e tornò
subito in camera a vestirsi. Erano le
undici passate ma ormai non aveva più
sonno, e non riusciva a sopportare di
aspettare pazientemente in attesa di
notizie. La stanza la soffocava. Si
precipitò fuori, dove le strade erano
piene di gente perplessa e spaventata. Le
voci si diffondevano velocemente:
alcune confermavano il racconto di Miss
Brown, altre lo contraddicevano e altre
ancora annunciavano notizie sempre più
terribili. La sarta si sentì ancora più
frustrata e spaventata, finché la
preoccupazione non la indusse a tornare
dentro, dove svegliò Walker e Virginia e
riferì loro che qualcuno aveva sparato al
presidente. «Devo andare alla Casa
Bianca» dichiarò con la voce rotta.
«Non posso restare in questo stato
d’incertezza».
«Mia cara Elizabeth» esordì Virginia,
con il viso sconvolto sotto la cuffia da
notte di mussola. «Devi calmarti. Il
presidente si starà riprendendo,
altrimenti si sarebbero messe a suonare
le campane di tutta la città».
«Virginia ha ragione» disse Walker,
ma anche lui sembrava in ansia. «È stato
un brutto colpo. Torna a dormire. Andrai
a far visita a Mrs Lincoln domattina
presto».
«No, no». Elizabeth scosse il capo,
con il cuore che le si agitava in petto
come un uccellino intrappolato. «Devo
andare subito da lei. Anche se il
presidente è stato ferito solo
leggermente, Mrs Lincoln sarà molto in
apprensione e avrà bisogno di me».
I Lewis si scambiarono un’occhiata
silenziosa, e Walker concesse che
Elizabeth dovesse andare, ma non da
sola. La sarta camminò avanti e indietro
nell’ingresso mentre la coppia si vestiva
e raccomandava a Jane di occuparsi
delle sorelle più piccole. Le parve di
aver aspettato un’eternità, quando
finalmente Virginia e Walker la
raggiunsero e uscirono tutti e tre.
Attraversarono veloci la calca in attesa,
la moltitudine di gente confusa e
allarmata che si rivolgeva domande a
vicenda, ripeteva dicerie e di tanto in
tanto scoppiava in singhiozzi disperati.
In Lafayette Square oltrepassarono la
residenza del ministro Seward e furono
molto stupiti vedendola circondata da
soldati armati, con le baionette sguainate
per tenere alla larga gli intrusi.
Accelerando il passo per via del panico
che li attanagliava arrivarono infine alla
Casa Bianca, e scoprirono che anch’essa
era circondata da militari. Ogni ingresso
era custodito da una folta schiera di
soldati, che non lasciavano passare
nessuno.
La donna raddrizzò le spalle, si fece
forza e si rivolse a una delle guardie con
voce ferma. «Sono Mrs Elizabeth
Keckley, la sarta personale e amica
della first lady. Se sta male, avrà
bisogno di me».
Il soldato la ignorò, e continuò a
ispezionare la folla raccolta davanti alla
Casa Bianca stringendo il fucile. La
sarta sentì Virginia che le dava un
colpetto di gomito, quindi fece un altro
respiro e ci riprovò: «Chiedete al
portiere chi sono. Vengo alla Casa
Bianca diverse volte alla settimana. Lui
mi conosce».
Il soldato la ignorò di nuovo, ma un
altro che si trovava a pochi passi ebbe
pietà di lei. «Mi dispiace, signora, ma
nessuno ha il permesso di entrare
stasera».
Elizabeth, in preda alla disperazione,
attaccò subito discorso. «Potete
chiedere al portiere di dire a Mrs
Lincoln che sono qui? So che vi dirà di
lasciarmi entrare».
La guardia, un ragazzo con i capelli
rossi e le lentiggini, poco più vecchio di
quanto lo sarebbe stato George, scosse
il capo. «Non è qui, e neanche il
presidente è stato portato a casa».
La prima guardia fece un sibilo e
fulminò con gli occhi il soldato con i
capelli rossi, che distolse subito lo
sguardo da Elizabeth e si mise
sull’attenti. Si rifiutarono entrambi di
fornire altre informazioni, così il
terzetto, con riluttanza e un senso
crescente di panico, se ne andò dalla
Casa Bianca. Mentre tornavano verso la
loro abitazione tra la folla, la sarta si
sentiva venir meno per l’ansia e il
dolore. Dopo qualche isolato vide
passare un uomo anziano con i capelli
grigi, e qualcosa nella sua espressione
gentile e affranta la spinse a toccargli il
braccio e a chiedergli con voce
implorante: «Signore, mi sapete dire se
il presidente Lincoln è morto?»
«Non è morto» rispose quello, «ma
sta morendo. Che Dio ci aiuti!» E si
avviò con passo pesante e abbattuto.
«Non è morto, ma sta morendo»
ripeté Virginia con voce tremante.
«Allora abbiamo proprio bisogno che
Dio ci aiuti!»
Alla fine, lungo il tragitto che li
portava in Twelfth Street, raccolsero
racconti frammentari che permisero loro
di ricostruire l’accaduto. Il presidente
era mortalmente ferito, e si trovava
secondo qualcuno in una casa di fronte
al Ford’s Theatre, ma nessuno lo sapeva
per certo. Il popolare attore John Wilkes
Booth si era introdotto nel palco privato
del presidente mentre questi guardava la
rappresentazione con Mrs Lincoln e i
loro ospiti e gli aveva sparato alla nuca.
Si temeva che il presidente non sarebbe
sopravvissuto
fino
al
mattino
successivo.
Elizabeth, Virginia e Walker, distrutti
dalla notizia, tornarono a casa.
La sarta non riuscì a dormire.
Immaginava Mrs Lincoln pazza di
dolore, e voleva andare da lei, ma non
sapeva dove trovarla, e non ebbe altra
scelta che aspettare fino all’indomani.
Le ore notturne non le erano mai parse
tanto lunghe. Ogni minuto sembrava
un’eternità, ed Elizabeth non poteva fare
nulla se non camminare avanti e
indietro, aspettare e scrutare dalla
finestra il cielo verso est in attesa
dell’alba, stringendosi le braccia al
petto come per combattere un vento
gelido.
Infine arrivò il mattino, grigio e buio.
Alle sette e mezzo la campana di una
chiesa lontana cominciò a suonare,
seguita da un’altra e un’altra ancora,
finché tutte le campane di Washington
riecheggiarono dei rintocchi della
terribile notizia. Il presidente era morto,
si disse Elizabeth senza riuscire a
capacitarsene; le sfuggì un singhiozzo e
si gettò sul letto, disperata, in lacrime.
Si coprì le orecchie con i pugni stretti,
ma nulla riusciva a bloccare quel suono
lugubre.
Restò coricata, esausta e svuotata,
fino alle undici, quando una carrozza si
fermò davanti alla pensione e un
messaggero bussò alla sua porta. «Vengo
da parte di Mrs Lincoln» esordì. «Se
siete Mrs Keckley, venite subito con me
alla Casa Bianca».
Elizabeth infilò immediatamente la
cuffia e si strinse nello scialle, e dopo
qualche istante era seduta nella carrozza
che partì a tutta velocità per la Casa
Bianca sotto una pioggia fredda e
deprimente. A quell’ora di solito si
spegnevano le lampade a gas, ma quella
mattina le avevano lasciate accese. Le
strade erano calme in modo innaturale
per un sabato mattina. Le bandiere
pendevano tristi a mezz’asta, e qua e là
case e botteghe recavano drappeggi di
crespo nero. Una sentinella solitaria
marciava avanti e indietro davanti a una
casa, e lo stesso avveniva davanti a
un’altra residenza più distante; dopo un
attimo di perplessità, la sarta capì che si
trattava delle dimore dei membri del
governo. Miss Brown si era sbagliata
quando aveva detto a Elizabeth che
erano stati uccisi tutti, ma quasi nello
stesso momento in cui il presidente
Lincoln veniva assassinato il ministro
Seward era stato attaccato a casa
propria, nel suo letto, dove giaceva,
convalescente, dopo un incidente con la
carrozza. Se non fosse stato per
l’armatura che portava al collo per
guarire
dalle
lesioni
subite,
probabilmente sarebbe stato accoltellato
a morte. Invece era rimasto solo ferito,
anche se il peggio non era ancora
scongiurato, e nessuno poteva sapere
quali attentati contro gli altri ministri
fossero stati sventati, abbandonati o
soltanto rimandati.
La carrozza giunse rapidamente alla
Casa Bianca, dove c’erano centinaia di
neri, quasi tutti donne e bambini, che
piangevano la terribile perdita. A
differenza della sera precedente superò
con facilità l’ingresso e le guardie, ma
oltre la soglia, dentro la casa silenziosa
e buia, ebbe l’impressione che le
calasse sulle spalle una pesante coltre di
angoscia. Facendosi forza si tolse la
cuffia e corse di sopra, ma Mrs Lincoln
non era in camera sua né in salotto. Poco
dopo una domestica con gli occhi
cerchiati di rosso la guidò a una
stanzetta da letto che era stata preparata
per il presidente per l’estate, quando la
famiglia trascorreva quasi tutto il tempo
a Soldiers’ Home e lui si tratteneva solo
occasionalmente
a
dormire
alla
residenza presidenziale. «La first lady
ha rifiutato di entrare nelle camere da
letto abitualmente usate dalla famiglia»
le confidò la serva. Elizabeth pensò al
fatto che la sua cliente evitava ancora di
mettere piede nella stanza dove era stata
allestita la camera ardente di suo figlio
Willie, e capì che non era assolutamente
in grado di trascorrere del tempo nei
locali che aveva condiviso col marito.
Esitò con le dita sulla maniglia,
facendo respiri profondi per allontanare
il dolore che rischiava di sommergerla.
Quando fu riuscita a dominarsi entrò
nella stanza e si ritrovò immersa
nell’oscurità. Gli occhi si abituarono al
buio e lei vide la sagoma indistinta di
una donna che si agitava sul letto, e
un’altra seduta su una sedia accanto alla
finestra, dove le tende erano state
chiuse, lasciando filtrare solo un sottile
raggio di sole. Dopo un attimo
riconobbe Mrs Mary Jane Welles, la
moglie del ministro della Marina e sua
cliente. Le fece un cenno di saluto, poi
corse al capezzale di Mrs Lincoln e
mormorò il suo nome.
«Elizabeth?» La voce della first lady
era appena udibile. «Siete arrivata,
finalmente?»
La sarta le prese la mano. «Sì, Mrs
Lincoln. Sono qui».
La vedova si girò lentamente e lo
sguardo addolorato, gli occhi rossi e
gonfi, le guance pallide, l’espressione
sconvolta, distrutta. «Perché non siete
venuta ieri sera, Elizabeth? Vi ho
mandato a chiamare».
Elizabeth sbatté le palpebre per
cacciare via le lacrime. «Ci ho provato,
ma...» Lottò per mantenere la voce ferma
mentre posava la mano sulla fronte
dell’amica, che pareva febbricitante.
«Non sono riuscita a trovarvi».
«Ho mandato tre messaggeri».
«Mi dispiace». Elizabeth si sedette
sulla sponda del letto, stringendo la
mano dell’amica tra le sue. «Sono
venuta. Sono venuta qui, ma non
c’eravate».
«Non ci hanno portato qui». Parlava
con voce distante, incredula. «Hanno
trasportato mio marito di fronte al teatro,
nella pensione di Mr Peterson. Era
troppo alto per il letto, e hanno dovuto
coricarlo di traverso». Fu interrotta da
un singhiozzo e prese a gemere.
«Basta, ora» le disse Elizabeth
carezzandole la fronte. «Ssh».
Mentre si occupava di lei, Mrs
Welles, che aveva l’aria di stare male e
si era alzata dal letto dove giaceva,
malata, quando Mrs Lincoln l’aveva
mandata a chiamare, si congedò
discretamente e tornò a casa, affidando
la vedova alla sarta. Mary Lincoln era
consumata dal dolore, ma l’amica riuscì
a calmarla. Dopo che si fu
tranquillizzata, le chiese se poteva
andare a rendere omaggio alla salma.
Quando lei annuì, Elizabeth liberò la
mano e lasciò la stanza buia per
dirigersi nella camera degli ospiti, dove
era stata allestita la camera ardente.
Varcando la soglia, con il cuore che
martellava e le gambe che tremavano,
ripensò improvvisamente al piccolo
Willie Lincoln che riposava nella bara
proprio dove ora giaceva il corpo del
padre. Rivide il presidente che piangeva
dinanzi al visetto pallido e adorato del
figlio, e pensò alle parole gentili che
Abraham Lincoln le aveva rivolto
l’ultima volta che l’aveva visto vivo, e a
come avesse descritto con generosità e
rispetto lo sconfitto generale Lee. Il
Mosè del suo popolo era caduto nell’ora
del trionfo. La sua morte tragica era
ancora più insopportabile perché non
era vissuto abbastanza a lungo da
godersi la pace che aveva ottenuto con
tante battaglie.
Diversi membri del governo, alcuni
ufficiali dell’esercito e altri dignitari
erano raggruppati attorno al corpo del
loro capo deceduto; alcuni piangevano
senza nascondersi, ma al suo arrivo la
lasciarono passare. Lei tolse con un
gesto rispettoso il lenzuolo bianco dal
viso pallido dell’uomo che aveva tanto
ammirato; anzi, non solo ammirato, ma
addirittura idolatrato. Il cuore, che le
batteva veloce, le si calmò guardando il
suo volto; nonostante la violenza che
aveva subito scoprì qualcosa di bello, di
solenne nella sua espressione: la
dolcezza e innocenza dell’infanzia, la
maestosa dignità di un intelletto ispirato.
Lo osservò a lungo finché non fu
costretta a voltargli le spalle con le
lacrime agli occhi e la gola stretta dal
dolore.
Lottando per dominarsi tornò nella
stanza di Mrs Lincoln e la trovò di
nuovo in uno stato di agitazione estrema,
tra pianti, gemiti e convulsioni. Robert
era chino su di lei e le mormorava
qualche parola, con espressione
addolorata e vulnerabile, mentre il
piccolo Tad si era rannicchiato ai piedi
del letto con il viso stravolto dalla
sofferenza. Elizabeth andò subito da lei
e le bagnò la fronte di acqua fredda,
cercando di placare meglio che poteva
la violenta tempesta. Il dolore di Tad
non era certo minore di quello della
madre, ma gli scoppi di pianto di
quest’ultima l’avevano spaventato e
ridotto al silenzio. A un tratto le gettò le
braccia al collo. «Non piangere,
mamma!» la implorò con voce soffocata,
premendole il viso sul collo. «Non
piangere, o farai piangere anche me! Mi
spezzerai il cuore».
Mrs Lincoln non poteva sopportare di
sentir piangere il figlio più giovane, e
con un grande sforzo se lo strinse al
cuore e s’impose di calmarsi, ma non
riuscì a trattenersi a lungo, e poco dopo
esplose in un nuovo pianto, straziante e
spaventoso per i presenti.
Nei giorni che seguirono l’assassinio
del presidente, ogni stanza della Casa
Bianca rimase al buio, ogni parola fu
pronunciata sottovoce, ogni passo lento
e greve. La vedova si rinchiuse nella
stanzetta degli ospiti con le tende tirate,
a volte in silenzio, altre volte a piangere
o a gridare. Non sopportava di vedere il
corpo del marito, ma la costruzione di
un’alta piattaforma nell’East Room per
esporre la bara del presidente disturbò
il suo isolamento. «Quando finiranno?»
chiese a denti stretti, seduta a letto,
dondolando avanti e indietro in preda
allo strazio. «Ogni chiodo che
conficcano mi sembra un colpo di
pistola».
Il 17 aprile la bara del presidente fu
trasferita sul catafalco ultimato sotto un
tendone nero, con specchi e candelieri
coperti da crespo nero; le sedie per i
visitatori, poste su una piattaforma
rialzata, erano state ricoperte di tessuto
nero. Regnava un silenzio greve, e un
picchetto d’onore composto di due
generali e altri dieci ufficiali faceva la
guardia giorno e notte. Il giorno
successivo
quasi
venticinquemila
persone passarono nell’East Room per
rendergli omaggio, e il 19 aprile gli
invitati tornarono per il funerale. Mrs
Lincoln e Tad non furono in grado di
partecipare; Robert presenziò, unico
membro della famiglia. Elizabeth
avrebbe voluto vedere il presidente
un’ultima volta prima dell’inumazione,
ma Mrs Lincoln aveva troppo bisogno di
lei, così le rimase al fianco.
Dopo il funerale una processione
accompagnò le spoglie del presidente
fino al Campidoglio, dove furono
esposte nella rotonda e migliaia di
persone poterono sfilare e rendervi
omaggio. Venerdì 21 aprile, quasi una
settimana dopo la sua morte, un treno
funebre di nove carrozze decorato di
banderuole, crespo nero e un ritratto di
Abraham Lincoln sul cacciapietre della
locomotiva partì da Washington per un
viaggio di duemilasettecento chilometri
verso ovest, diretto a Springfield,
portando a bordo trecento passeggeri e
le spoglie del presidente e del figlioletto
Willie. Il treno manteneva una velocità
di crociera tra gli otto e i trenta
chilometri all’ora per rispetto nei
confronti di chi si era radunato lungo le
rotaie per rendere omaggio al
presidente, accendendo dei falò di notte.
Il convoglio si fermò come previsto in
dodici città, dove migliaia di persone
andarono a rivolgere l’estremo saluto al
loro capo defunto.
Per sei settimane Elizabeth rimase
alla Casa Bianca insieme alla vedova
distrutta dal dolore, dormendo su una
chaise longue in camera sua, e cercò di
consolarla e confortarla come meglio
poteva
durante
quelle
giornate
interminabili e tremende, senza mai
lasciarla sola. Le migliori amiche di
Mrs Lincoln a Washington, Mary Jane
Welles ed Elizabeth Blair Lee, di tanto
in tanto andavano a trovarla, ma lei non
voleva vedere nessun altro. Il nuovo
presidente, Andrew Johnson, non cercò
di farsi ricevere, e non mandò neppure
un biglietto di condoglianze. Si diceva
che in quella notte terribile avesse
cercato di entrare nella residenza dei
Peterson per vedere il presidente sul
letto di morte, ma che fosse stato
invitato ad andarsene perché la sua
presenza non turbasse la first lady. Per
quanto quel trattamento avesse potuto
offenderlo, secondo Elizabeth, l’unico
gesto sensato e dignitoso da fare era
accantonare l’offesa per rispetto nei
confronti della vedova in lutto.
All’inizio la sarta attribuì la sua assenza
alle responsabilità di capo dello stato
che erano ricadute improvvisamente su
di lui, ma a mano a mano che il tempo
passava e le sue condoglianze non
arrivavano,
l’incredulità
e
l’indignazione si fecero strada in lei.
Sperava solo che Mrs Lincoln nel suo
dolore
non
si
accorgesse
di
quell’affronto inspiegabile.
La sua cliente non parlava spesso di
Booth, l’assassino del marito, ma
Elizabeth sapeva che si interrogava su
chi potessero essere i suoi eventuali
complici. Un messaggero nuovo aveva
accompagnato i Lincoln a teatro quella
sera infausta, ed era stato di guardia
davanti alla porta chiusa del palco
durante lo spettacolo, impedendo
l’ingresso degli intrusi. Si scoprì
successivamente che si era messo a
guardare lo spettacolo trascurando di
custodire l’entrata per andare a seguire
la rappresentazione, lasciando così che
l’assassino penetrasse indisturbato nel
palco del presidente. Mrs Lincoln era
convinta che quell’uomo fosse implicato
nella congiura per eliminare il marito.
Una sera, Elizabeth era stesa sulla
chaise longue accanto al letto di Mrs
Lincoln quando una domestica entrò
nella stanza, e l’ex first lady le chiese
chi fosse di guardia quella notte.
«Mr Parker, signora» rispose la
cameriera. «Il messaggero nuovo».
«Cosa?» esclamò. «L’uomo che ci ha
accompagnato a teatro la notte in cui il
mio adorato marito è stato ucciso? Per
me anche lui è implicato. Mandatemelo
qui».
Dall’espressione diffidente e dagli
occhi sgranati di Mr Parker, apparve
chiaro che aveva udito le parole di Mrs
Lincoln da dietro la porta, che era stata
lasciata socchiusa.
«E così siete voi di guardia, stanotte»
esordì senza preamboli la signora. «Di
guardia alla Casa Bianca dopo aver
contribuito alla morte di mio marito!»
«Perdonatemi, ma non ho fatto nulla
per aiutare a uccidere il presidente»
protestò Parker tremante. «Non potrei
mai ammazzare qualcuno, men che meno
un uomo buono e illustre come il
presidente».
«Sembrerebbe proprio di sì, invece».
«No, no! Non dite una cosa del
genere!» la implorò. «Dio sa che sono
innocente».
«Non vi credo. Perché non eravate
sulla porta per bloccare l’assassino
quando è entrato nel palco?»
«Io... io ho sbagliato, lo ammetto»
balbettò, «e me ne sono pentito
amaramente, ma non ho aiutato
l’assassino del presidente. Non credevo
che qualcuno avrebbe provato a
uccidere un uomo tanto buono in un
luogo pubblico, e questa mia
convinzione mi ha reso poco prudente.
Ero assorbito dallo spettacolo e non ho
visto l’assassino entrare nel palco».
«Ma avreste dovuto vederlo,
invece!» sbottò Mrs Lincoln. «Non
dovevate essere imprudente. Per me
sarete sempre colpevole. Tacete!»
esclamò, quando lui tentò di ribattere.
«Non voglio ascoltare un’altra parola.
Adesso andate e fate la guardia per
davvero, stavolta». Lo congedò con un
gesto imperioso della mano. Mr Parker,
pallido e impacciato, si voltò e se ne
andò. Non appena si fu richiuso la porta
alle spalle, Mrs Lincoln si lasciò
ricadere sul cuscino, si coprì il volto
con le mani e scoppiò in lacrime.
Robert Lincoln era tenero e sollecito
con la madre tanto prostrata, ma il suo
aspetto provato rivelava che anche lui
soffriva molto e che le nuove
responsabilità di capofamiglia gli
pesavano, anche se di fronte alla madre
non mancava mai di mostrarsi forte e
sicuro. Sopportò le sue crisi di pianto
meglio del fratellino, che aveva già
perso un genitore e temeva di perdere
anche l’altro di crepacuore. Spesso di
notte, quando il povero Tad era
svegliato dai singhiozzi della madre, si
alzava e andava nella sua stanza per
infilarsi nel suo letto. «Non piangere,
mamma» diceva, abbracciandola forte.
«Non riesco a dormire se piangi! Papà
era buono ed è andato in cielo. Là è
felice. È con Dio e con mio fratello
Willie. Non piangere, mamma, altrimenti
piango anch’io». E la madre tentava
ancora una volta di controllarsi per
amor suo.
Elizabeth compativa il bambino. Lui
e il padre si adoravano, ma sebbene il
presidente avesse avuto un debole per
lui, soprattutto dopo la morte di Willie,
Tad non era viziato. Pur essendo ancora
piccolo, sembrava avere capito che era
il figlio di un presidente, e che ciò
comportava privilegi e responsabilità.
Un mattino presto la sarta passò davanti
alla sua stanza mentre la bambinaia lo
stava vestendo. «Papà è morto» lo sentì
dire alla donna. «Non riesco quasi a
credere che non lo vedrò mai più.
Adesso devo imparare a prendermi cura
di me».
La sarta, commossa, si avvicinò alla
porta per ascoltare.
«Sì, papà è morto» proseguì, triste
ma in tono pratico. «E adesso sono
semplicemente Tad Lincoln, il piccolo
Tad, uguale a tutti gli altri. Non sono più
il figlio di un presidente. Non avrò più
tanti regali». Sospirò da fare
compassione. «Cercherò di fare il bravo
e spero che un giorno raggiungerò papà
e Willie in cielo».
Elizabeth strinse le labbra e si
allontanò prima di scoppiare in lacrime.
Doveva essere coraggiosa. Il presidente
Lincoln avrebbe voluto vederla forte per
sostenere sua moglie e i suoi figli. Era
l’ultimo favore che poteva fargli, e non
intendeva fallire.
I figli di Abraham Lincoln capirono
dal punto di vista pratico la loro nuova
situazione prima della madre, nella
quale il dolore aveva annientato ogni
altro pensiero. Il presidente Johnson, in
un singolare atto di generosità, aveva
permesso alla famiglia in lutto di restare
alla Casa Bianca mentre lui continuava a
vivere, sotto scorta, in una residenza tra
Fifteenth Street e H Street, e lavorava in
un piccolo ufficio al ministero del
Tesoro. Alla fine, però, Mrs Lincoln
capì che la sua pazienza non sarebbe
durata per sempre, e dovette prepararsi
ad andarsene.
«Dio mio, Elizabeth!» esclamò un
giorno, quando finalmente comprese
cosa le restava da fare. «Che
cambiamento! Quale altra donna ha
dovuto soffrire tanto e affrontare un
simile capovolgimento? Ambivo a
diventare first lady, e il mio desiderio è
stato esaudito. Ora, però, devo scendere
dal piedistallo. Il mio povero marito! Se
non fosse diventato presidente, forse
oggi sarebbe ancora vivo. Ahimè, è tutto
finito!»
L’amica tentò di confortarla, ma le
sue parole suonavano vuote, e lo sapeva.
Mrs Lincoln incrociò le braccia e si
dondolò avanti e indietro. «Mio Dio,
Elizabeth, non posso certo tornare a
Springfield! No, mai, almeno finché non
sarò avvolta nel lenzuolo funebre per
giacere accanto a mio marito, e prego il
cielo perché quel giorno arrivi presto!
Dovrei voler vivere per i miei figli, ma
la vita mi è tanto penosa che preferirei
morire».
Gemendo si premette i pugni sugli
occhi e scoppiò in un pianto isterico.
Sebbene
la
sarta
desiderasse
disperatamente consolarla, sapeva che
non ci sarebbe riuscita, e che nessuna
parola le avrebbe dato la pace. Il tempo
avrebbe lenito i suoi dolori più di
quanto non potesse fare lei, si disse
Elizabeth abbattuta, mentre restava
accanto a Mrs Lincoln in attesa degli
sviluppi.
Durante la guerra di secessione i bounty
jumpers si arruolavano al posto di un altro in
cambio di un compenso, per poi disertare
prima di raggiungere il fronte (N.d.T.).
2.
13.
Maggio-giugno 1865
Mrs Lincoln non sopportava l’idea di
ritornare a Springfield, ma da qualche
parte doveva pur andare.
Alcuni amici del defunto presidente
la esortarono a tornare laggiù, dove
aveva ancora una casa, almeno finché
non fosse stato risolto il problema
dell’eredità del marito. Essendo morto
senza lasciare testamento, nonostante i
suoi beni fossero destinati a lei e ai
figli, non avrebbero ricevuto nulla
finché non fossero stati sbrogliati tutti i
cavilli legali. La vedova non voleva
sentire parlare di Springfield. Si era
bruciata troppi ponti alle spalle nella
sua città d’origine, ed era stata oggetto
di pettegolezzi. Aveva preso le distanze
dalle sorelle e sorellastre, perfino dalla
sorellina Emilie e dalla fedele Elizabeth
Edwards. E soprattutto, come confidò
all’amica, non poteva sopportare di
rimettere piede nella sua casa, un tempo
felice, che dava su Eighth Street e
Jackson Street, dove sapeva che sarebbe
stata tormentata dai ricordi dei primi
anni di matrimonio e del marito e dei
figli che aveva perso. Elizabeth capiva,
contrariamente
a
quei
signori
benintenzionati, che Mrs Lincoln doveva
trovare una dimora finanziariamente alla
sua portata, visto che i debiti contratti
nei negozi preferiti erano saliti a
settantamila dollari almeno. La sarta era
contenta che il presidente non fosse stato
a conoscenza di quei debiti prima di
morire, risparmiandosi così la collera e
l’imbarazzo inevitabili.
Nel frattempo continuavano ad
arrivare lettere di condoglianze da ogni
angolo del paese e dai capi di stato
stranieri. La vedova le leggeva tutte,
ripetendo ad alta voce a Elizabeth i
passaggi più affettuosi o commoventi, e
rispondeva a tutti nei limiti del
possibile, con le lacrime che le rigavano
il viso. Una lettera in particolare le fu
più cara delle altre.
Osborne, 29 aprile 1865
Cara signora,
anche se sono una sconosciuta per voi, non
posso restare in silenzio quando una simile
calamità si è abbattuta su di voi e il vostro
paese. Debbo quindi esprimere la mia
solidarietà più profonda e sincera per le
circostanze della vostra attuale tragedia.
Nessuno meglio di me, che sono affranta per la
perdita del mio adorato marito, la luce della
mia vita, il mio sostegno e tutto per me, può
capire il vostro dolore, e prego che siate
sostenuta da Colui al quale si debbono
rivolgere gli sciagurati in cerca di sostegno in
quest’ora di afflizione.
Rinnovandovi tutta la mia comprensione, cara
signora, vi trasmetto la mia amicizia.
Vittoria
«La regina capisce la mia sofferenza»
decretò Mary Lincoln la prima volta che
lesse la lettera, e continuò a ripeterlo a
ogni lettura successiva. Una volta,
infilando il foglio nella busta, aggiunse
che la sovrana era stata fortunata, perché
nessuno l’aveva cacciata di casa nel
momento in cui era rimasta vedova.
«Ah, Elizabeth» mormorò con un sorriso
triste fra le lacrime. «È ben diverso
restare vedova per la first lady degli
Stati Uniti d’America e per la regina
d’Inghilterra».
La sarta era lieta che l’amica avesse
trovato conforto nelle parole della
regina e, non volendo urtarla, non le fece
notare che nessuno l’aveva gettata fuori
di casa quando era diventata vedova.
Anzi, secondo l’opinione di Elizabeth il
presidente Johnson era stato fin troppo
paziente, permettendole di restare per
mesi e mesi, e rinunciando all’uso della
residenza, degli uffici e delle sale da
ricevimento della Casa Bianca che gli
sarebbero spettati di diritto. Ma da lei, a
parte quell’implicita ammissione, il
neopresidente non avrebbe avuto altro.
La vedova si era accorta benissimo che
Mr Johnson non aveva mandato un
biglietto di condoglianze né era venuto a
farle visita. Robert, che si era accollato
la responsabilità di comunicare con il
personale del nuovo presidente durante
la transizione, protestò indignato per la
mancanza di correttezza da parte di
Johnson, ma per la madre fu davvero un
duro colpo, che la demoralizzò non
poco. Se la regina d’Inghilterra trovava
il tempo di scrivere una lettera piena di
affetto, poteva trovarlo anche il nuovo
presidente, che doveva oltretutto
quell’incarico proprio alla morte del
suo predecessore. Era una vergogna,
dichiarò la vedova di Abraham Lincoln,
che ci mettesse meno tempo una lettera
ad attraversare l’oceano Atlantico che
Johnson ad attraversare la strada.
Però la Casa Bianca spettava a lui, e
sebbene Mrs Lincoln si aggrappasse più
a lungo che poteva a ciò che restava
della vita precedente, alla fine, pur con
riluttanza, decise di trasferirsi a
Chicago. Suo marito aveva avuto
l’intenzione di recarsi lì dopo la fine del
secondo mandato, spiegò Mary Lincoln,
e quella città gli era sempre stata
propizia. Era a Chicago che era stato
prescelto come candidato repubblicano
alla presidenza, e quindi il luogo
evocava il trionfo, non la disperazione.
Sarebbe stata anche relativamente vicina
alla tomba del marito a Springfield,
dove la vedova immaginava di cercare
conforto negli anni a venire.
Quasi subito, non appena presa la
decisione, Mrs Lincoln chiese a
Elizabeth di accompagnarla.
Sorpresa, la sarta restò senza parole
per un momento, perché non ne aveva
nessuna voglia. «Non posso venire a
ovest con voi, Mrs Lincoln».
«Ma dovete accompagnarmi a
Chicago, Elizabeth!» la implorò la
vedova. «Non posso stare senza di voi».
«Dimenticate forse il mio lavoro?»
Anche se ormai cominciava a conoscere
il temperamento della sua cliente, la
sarta era esterrefatta da quella richiesta.
«Non posso mollare tutto. Proprio
adesso devo preparare il corredo
primaverile per Mrs Douglas, e le ho
promesso di ultimarlo in meno di una
settimana».
Mrs Lincoln liquidò le sue obiezioni
con un gesto della mano. «Non importa.
Mrs Douglas potrà farselo fare da
qualcun altro». Vedendo che Elizabeth
non cedeva, cercò un argomento più
persuasivo. «Per voi partire potrebbe
risultare interessante anche dal punto di
vista economico. Ora sono molto
povera, ma se il Congresso stanzia dei
fondi per me sarete ricompensata».
«Non si tratta della ricompensa,
ma...»
«Non dite un’altra parola, se non
volete turbarmi». Mrs Lincoln stava già
stringendo la bocca, con occhi lacrimosi
e imploranti. «Ho deciso che verrete a
Chicago con me, e non potete fare
altrimenti».
Elizabeth aveva trascorso tanto
tempo con la sua cliente, e Mrs Lincoln
era diventata così dipendente da lei che
capì di non poter rifiutare. Si aggrappò a
un’unica speranza: che Mrs Douglas, la
graziosa vedova del defunto senatore
Stephen A. Douglas dell’Illinois, una
delle clienti preferite di Elizabeth,
insistesse per farla restare a Washington
per completare il suo corredo, come
pattuito. Ma quando apprese della
richiesta della ex first lady, la dolce Mrs
Douglas assicurò a Elizabeth: «Non
preoccupatevi per me. Fate tutto ciò che
potete per lei... mi fa tanta pena».
Mai come quella volta Elizabeth
avrebbe voluto imbattersi in una cliente
poco comprensiva ed egoista.
Rendendosi conto di non avere più
scuse, Elizabeth si preparò ad andare a
Chicago con Mrs Lincoln e i suoi figli,
preparò una borsa da viaggio, spiegò la
sua assenza a Virginia e Walker e pagò
alcuni mesi di affitto in anticipo, e
distribuì i vari ordini di sartoria tra le
ragazze.
Anche se Emma era stata una fervente
ammiratrice di Lincoln e pensava che la
vedova meritasse la comprensione e il
rispetto della nazione, riteneva che
Elizabeth stesse commettendo un
terribile errore. «Quando tornerai?»
«Non lo so». La sarta si guardò
attorno nel laboratorio e posò lo sguardo
sulle sue giovani assistenti, il cuore
stretto in una morsa di apprensione.
Voleva lasciare la parte più importante e
difficile del lavoro all’abilissima
Emma, ma sebbene la sua aiutante
preferita
godesse
di
un’ottima
reputazione e avesse assicurato a
Elizabeth di soddisfare tutte le richieste
delle clienti, la sarta era preoccupata. In
sua assenza le clienti più fedeli
avrebbero continuato a passare ordini a
Emma, confidando che l’assistente
avrebbe potuto sbrigare gli incarichi più
semplici fino al ritorno della principale
per le operazioni particolarmente
delicate, o avrebbero scelto invece
un’altra sarta, una delle sue concorrenti?
«Tornerò non appena Mrs Lincoln non
avrà più bisogno di me».
Emma fece una smorfia scettica. «In
altre parole non intendi più tornare, è
così?»
«Su, Emma...»
«Cosa devo dire alle clienti? Alcune
di loro insistono perché sia solo tu a
occuparti delle loro creazioni».
«Mostra alle signore come lavori.
Sono sicura che ti conquisterai la loro
fiducia».
«Devo pur dire qualcosa» insistette
Emma. «Torni tra una settimana? Un
mese? Due?»
«Di’ alle mie clienti...» Elizabeth
esitò. «Di’ loro che tornerò il prima
possibile».
Emma annuì e si trattenne dal fare
altri commenti, ma la sarta sapeva che
non era contenta, e che era preoccupata
quasi quanto lei per il futuro della loro
impresa.
Una volta che Mrs Lincoln si fu
rassegnata a partire da Washington, si
gettò anima e corpo nel fastidioso
compito di fare i bagagli, ma prima
diede via quasi tutto ciò che aveva un
legame con il suo defunto marito,
proprio come aveva fatto con le cose di
Willie dopo la sua morte. Non poteva
sopportare di circondarsi di oggetti che
le ricordavano il passato, e quindi,
usando Elizabeth come intermediaria, li
distribuì a coloro che considerava gli
ammiratori più convinti e sinceri di
Abraham Lincoln. Il suo fido
messaggero, William Slade, ricevette
uno dei molti bastoni da passeggio
dell’ex presidente e la sua mantella
grigia pesante, mentre a sua moglie donò
l’abito di seta a strisce bianche e nere
che la first lady indossava la notte
dell’assassinio. Mrs Lincoln mandò altri
bastoni da passeggio agli abolizionisti
di colore Frederick Douglass e il
reverendo Henry Highland Garnet,
pastore dell’esclusiva Presbyterian
Church di Fifteenth Street, che Virginia e
Walker frequentavano e dove Elizabeth
sperava un giorno di essere ammessa, se
la sua domanda e il successivo
colloquio avessero dato buon esito. Un
altro bastone fu fatto pervenire al
senatore Sumner, con un biglietto che
spiegava che «quel semplice cimelio»
era un ringraziamento per la sua
«gentilezza incrollabile nei confronti del
mio adorato marito e per la grande stima
che nutriva nei vostri confronti». Diede
gli abiti che il marito indossava al
momento dell’assassinio a una delle
guardie preferite della Casa Bianca, e
l’ultimo cappello che il marito aveva
portato al reverendo Gurley, che aveva
celebrato i funerali di Abraham Lincoln
e del figlio Willie. Le capre che
avevano fatto tanto divertire il
presidente andarono a Elizabeth Blair
Lee, una delle poche amiche che si
erano occupate della signora nei giorni
tremendi successivi all’attentato. A
Elizabeth l’amica donò la cuffia e la
mantella che aveva indossato quella
sera, macchiate del sangue del
presidente, oltre alle soprascarpe, al
pettine e alla spazzola che la sarta aveva
spesso usato per acconciare colui che
era stato alla guida del paese. Erano
ricordi preziosi del grand’uomo, ed
Elizabeth li accettò con profonda
gratitudine. La sua promessa di
conservarli sempre suscitò un raro
sorriso sulle labbra di Mrs Lincoln.
Gli oggetti che non erano stati
distribuiti come reliquie e ricordi furono
imballati in cinquanta o sessanta scatole
e in parecchi bauli. Elizabeth pensava
che molte delle cose che l’ex first lady
si ostinava a voler portare con sé
fossero inutili, ma non si oppose quando
vide che la lunga opera di selezione e
preparazione dei bagagli occupava a tal
punto la sua amica da non lasciarle più
molto tempo per lamentarsi.
Furono imballate insieme al resto
tutte le cuffie che Mrs Lincoln aveva
portato con sé da Springfield quattro
anni prima, oltre a tutte quelle che aveva
acquistato da quando era arrivata a
Washington. «Può darsi che un giorno la
stoffa mi serva» rispose quando
Elizabeth le chiese, con tatto, se voleva
proprio tenere anche quelle che non
erano più di moda e che non indossava
da anni. «È prudente pensare al futuro».
Elizabeth, ancora infastidita dalla
decisione, presa suo malgrado, di
accompagnare Mrs Lincoln, si trattenne
dal commentare che avrebbe potuto
usare la stessa prudenza e parsimonia
anche in passato, invece di applicarla
alle cuffie vecchie. Pazienza, si disse.
Sapeva di essere stanca e contrariata, e
anche lei era in lutto, a modo suo. La ex
first lady aveva bisogno di un sostegno
affidabile e pieno di buonsenso. Lei o la
regina d’Inghilterra erano libere di
abbandonarsi al dolore, ma le donne
come
Elizabeth
non
potevano
permetterselo.
Durante il periodo trascorso alla
Casa Bianca, Mary Lincoln e i suoi figli
avevano ricevuto molti doni da
ammiratori e dignitari, e anche quelli
furono impacchettati per Chicago. Non
portò invece con sé nessun mobile,
salvo una toilette che il marito aveva
amato
particolarmente
e
che
l’amministratore dell’eredità le aveva
concesso di tenere per Tad. La vedova
la sostituì con un altro mobile dello
stesso valore, ma Elizabeth si accorse
della scomparsa di altri elementi
dell’arredamento, portati via dalla Casa
Bianca da domestici e visitatori dopo
che il maggiordomo era stato licenziato
e non era rimasto più nessuno a
sorvegliare. La sarta fu addolorata nel
vedere che gli accessori nuovi e costosi,
tanto voluti da Mrs Lincoln, venivano
sottratti giorno dopo giorno, ma l’ex first
lady sembrava troppo affranta per
curarsene.
Robert si recava spesso nella stanza
dove sua madre ed Elizabeth stavano
preparando i bagagli, e non si stancava
di affermare che tutta quella vecchia
roba andava bruciata, o se non altro
lasciata dov’era. «Cosa farai con quel
vecchio abito, mamma?» chiese
accigliato, colpendo uno scatolone con
la punta dello stivale mentre lei piegava
l’ennesimo capo e lo riponeva.
«Non preoccuparti, Robert» replicò
lei. «Mi tornerà utile. Tu non le capisci
queste cose».
«Spero di non doverle mai capire»
ribatté lui, indicando con insofferenza le
pile di indumenti. «Mi auguro che la
vettura destinata a trasportare tutta
questa roba a Chicago si incendi, e che
tutto il tuo malloppo vada bruciato».
Girò sui tacchi e se ne andò a grandi
passi.
Elizabeth aveva osservato la scena
con la coda dell’occhio. Era d’accordo
con lui sul fatto che la madre non
avrebbe probabilmente mai usato quei
vecchi abiti, ma disapprovava quel suo
tono arrogante e irrispettoso.
«Robert è così impulsivo...» disse
Mrs Lincoln come per scusarlo, quasi
avesse letto il pensiero della sarta.
«Non pensa mai al futuro. Spero che con
il passare del tempo maturerà anche
lui».
«Sono certa che non vi parlerebbe in
questo modo se non stesse soffrendo a
sua volta».
«Sono anni che mi parla così» le
ricordò la signora con un sospiro.
«Elizabeth, forse un giorno sarò
costretta a vendere una parte del mio
guardaroba».
«Cosa intendete?»
«Se il Congresso non prende delle
misure a mio favore, gli abiti mi
serviranno forse per pagare da mangiare
per me e per i miei figli».
«Non si arriverà a tanto» cercò di
rassicurarla subito la sarta. Non le
piaceva pensare che si mercanteggiasse
sugli abiti da lei confezionati con tanta
cura e passione come se fossero mele al
mercato, da vendere in tutta fretta prima
che si guastassero.
Più tardi, riflettendoci, si disse che
forse Robert invece era maturato. Certo
era cambiato parecchio nelle settimane
trascorse dall’assassinio del padre. Il 14
aprile era un orgoglioso ufficiale
dell’Unione, faceva la corte alla
graziosa Mary Harlan e intendeva
studiare diritto. Ora era il capofamiglia,
progettava di abbandonare Washington
per trasferirsi a Chicago e, proprio
come lei, non sapeva per quanto tempo.
Oltre all’inevitabile dolore doveva
sentirsi
terribilmente
deluso,
responsabile per l’unico fratello
superstite e preoccupato per la madre
instabile. Questo non giustificava la sua
impertinenza, ma la rendeva più
comprensibile e perdonabile.
Alla fine tutto, oggetti inutili e
preziosi, fu imballato, e arrivò il giorno
della partenza. Mentre usciva con Mrs
Lincoln dalla Casa Bianca, Elizabeth fu
molto colpita dalla differenza enorme
rispetto all’uscita di scena del
presidente Lincoln, quando la sua bara
era stata trasportata fuori dall’ingresso
principale in pompa magna. Migliaia di
persone si erano raccolte per chinare il
capo con reverenza mentre il carro
funebre ornato di piume l’aveva
condotto fino alla rotonda del
Campidoglio circondato dai militari in
tutto il loro splendore: battaglioni con le
armi rovesciate, il cavallo senza
cavaliere con gli stivali rovesciati nelle
staffe, bandiere a mezz’asta, le note
malinconiche delle marce funebri. La
partenza di Mrs Lincoln, invece,
avvenne nell’indifferenza più completa,
con il cinguettio degli uccelli come
unico accompagnamento, e quasi
nessuno a dirle addio. Il silenzio era
quasi doloroso.
Sulla soglia la vedova si fermò per
un attimo, trasse un respiro profondo e
tremante e prese la mano di Tad tra le
sue. «Vieni» lo esortò, con gli occhi
fissi davanti a sé. Se ne andò dalla Casa
Bianca senza voltarsi indietro, salì a
bordo della carrozza, si sistemò mentre
il resto dei viaggiatori prendeva posto
accanto a lei e non disse nulla mentre si
recavano alla stazione da dove sarebbe
partito il vagone privato verde che tanto
spesso aveva trasportato Mrs Lincoln a
New York e ritorno.
Di lì a poco il treno partì sbuffando e
sferragliando dalla stazione. Finché non
furono usciti dalla città ogni sbuffo di
vapore parve a Elizabeth un sospiro di
sollievo: Washington era felice di veder
partire Mrs Lincoln, che non era mai
stata all’altezza del loro grande
presidente martire e che ora poteva
essere dimenticata.
Erano un gruppo sparuto: la vedova,
Robert e Tad; Elizabeth; il dottor Anson
Henry, amico di lunga data della
famiglia ed ex medico personale del
presidente; Thomas Cross e William
Crook, due guardie della Casa Bianca
che erano state incaricate di scortare la
famiglia Lincoln in Illinois. Poco tempo
dopo che il treno fu partito verso ovest,
Mrs Lincoln cominciò a lamentare una
delle sue tremende emicranie, così il
dottor Henry le somministrò il laudano
ed Elizabeth le bagnò le tempie con
acqua fresca. «Lizzie, siete la mia amica
più cara e affezionata» le disse lei con
aria intontita, reclinando il capo
all’indietro con gli occhi chiusi. «Vi
voglio bene, siete la mia migliore amica.
Vorrei potervi evitare ogni apprensione
per il futuro».
«Siete molto gentile, Mrs Lincoln»
ribatté Elizabeth, commossa. «Pensiamo
a voi, intanto».
La signora le afferrò un braccio. «Se
il Congresso si occuperà di me non
temete, vi aiuterò».
La sarta le carezzò il braccio con
trasporto, la ringraziò esortandola a
riposare.
La vedova dormì profondamente
quella notte, e il mattino dopo si sentiva
abbastanza bene da stare seduta per
guardare fuori dal finestrino. Per ore
parve assente, intontita, mentre l’amica
le sedeva accanto cucendo e tenendola
d’occhio.
«Cosa state facendo?» chiese a un
tratto Mrs Lincoln. «Una trapunta?»
«Sì». Elizabeth si posò in grembo
l’ago e gli scampoli di tessuto e le
allungò una delle porzioni che aveva già
completato, sette pezzetti cuciti insieme,
un esagono centrale chiaro circondato da
sei più scuri. «Ho appena cominciato.
Sapete che non sono abituata
all’inattività, e confezionare abiti è
impossibile con i movimenti del treno».
«Che pezzetti piccoli! E che punti
minuscoli!» Guardò più da vicino.
«Questi tessuti hanno l’aria familiare».
«Sono ritagli avanzati dai vostri
abiti» rispose Elizabeth. «Sono contenta
che li riconosciate. Ciascuno di loro è
per me come un vecchio amico, e
quando lo sguardo mi cade su uno di
essi, ricordo l’abito confezionato con la
stessa stoffa, e l’occasione solenne per
la quale era stato fatto».
«Che bella idea». Mrs Lincoln le
restituì i frammenti di stoffa e tornò a
guardare fuori dalla finestra. «Un album
di ricordi fatto di tessuto. Perfetto».
Tacque tanto a lungo che Elizabeth
pensò che avesse finito, invece aggiunse
in un soffio appena percettibile: «A
meno che il ricordo non bruci troppo».
Cinquantaquattro ore dopo essere
partito da Washington, il treno giunse a
Chicago. Nessuno li accolse alla
stazione, e del resto Elizabeth non
sapeva chi sarebbe potuto andare, anche
se fosse stato al corrente del loro arrivo.
Mrs Lincoln aveva prenotato delle
stanze al Tremont House, un albergo
lussuoso all’angolo tra Lake Street e
Dearborn. «Mio marito cominciò la sua
campagna elettorale per il Senato da
quel balcone» dichiarò scendendo dalla
carrozza e indicando il luogo con un
cenno del mento. «Nel 1860 era il
quartier
generale
del
partito
repubblicano dell’Illinois durante la
convention nazionale dei repubblicani.
Pendevano tutti dalle labbra di mio
marito, a quei tempi!»
Robert lanciò un’occhiata all’edificio
imponente, tormentandosi l’orecchio con
aria pensosa. «Non è qui che è morto il
senatore Douglas?»
Sua madre strinse le labbra. «Sì»
rispose sbrigativa. «Anche quello».
Entrò senza aggiungere una parola, e tutti
gli altri la seguirono.
Elizabeth rimase interdetta per il
lusso della sua stanza. Non aveva mai
soggiornato in un luogo tanto elegante, e
si sentì morire pensando a quanto
costava. Mrs Lincoln si era abituata ai
fasti
della
Casa
Bianca,
e
apparentemente contava di continuare a
vivere in quel modo. In veste di
accompagnatrice e amica, spettava a lei
ricordarle che sarebbe rimasta senza un
soldo in poco tempo se non avesse
cominciato a rinunciare a quei lussi.
Proprio mentre racimolava il coraggio
per parlarle, la sua amica le risparmiò
quel compito gravoso giungendo da sola
alla stessa conclusione. «Qui è tutto
tanto elegante e tanto caro» confessò
alla sarta con un sospiro profondo. «Non
possiamo restare. Non posso aggravare i
miei problemi economici».
Mandò Robert a cercare una
sistemazione meno costosa, e nel giro di
una settimana il figlio le propose di
trasferirsi all’Hyde Park Hotel, un
albergo tranquillo a dieci chilometri dal
centro, sulla sponda del lago Michigan,
in Fifty-third Street. Il borgo di Hyde
Park, con una popolazione di
cinquecento anime, era un luogo
piacevole e fresco, diventato una
popolare località di villeggiatura per gli
abitanti agiati di Chicago. Il proprietario
dell’hotel, Paul Cornell, avvocato e
imprenditore edile di Chicago per il
quale un tempo Abraham Lincoln aveva
sbrigato delle pratiche legali, disse a
Robert che sarebbe stato un grande
onore per lui ospitare Mrs Lincoln.
E la vedova accettò.
Viaggiarono in treno, arrivando a
Hyde Park verso le tre del pomeriggio
di un sabato. Elizabeth fu colpita
dall’aspetto nuovo dell’albergo, che
aveva aperto solo l’estate prima e che
odorava ancora di legno di pino.
L’alloggio era di un livello ben diverso
rispetto al Tremont House, le stanze
erano confortevoli ma piccole e arredate
in modo spartano. La maggior parte del
bagaglio di Mrs Lincoln era stato messo
in un deposito al loro arrivo, e disfecero
quello che aveva con sé. Elizabeth aiutò
l’amica a sistemare gli abiti negli
armadi, poi diede una mano a Robert a
riporre sugli scaffali della sua stanza i
libri. Chiacchierarono amabilmente
mentre si davano da fare, e quando
ebbero finito Robert incrociò le braccia,
rimase immobile accanto al camino e
fissò lo sguardo su un punto lontano,
come se l’entità del cambiamento, il
contrasto drammatico tra il passato e il
presente gli apparissero reali solo in
quel momento. «Allora, Mrs Keckley»
chiese infine, «cosa pensa di questa
nuova sistemazione?»
«È un posto delizioso» rispose
Elizabeth, «e penso che vi troverete
bene».
Lui la studiò per qualche istante con
aria interrogativa, come se si fosse
aspettato una risposta diversa. «Un
posto delizioso, dite. Forse». Si guardò
attorno nella stanza piccola ma pulita, e
la donna si rese conto che il giovane
doveva vederla in modo diverso da lei,
considerandola angusta e spoglia.
«Siccome a voi non tocca stare qui,
potete felicitarvi quanto volete della
bellezza del posto. Presumo, invece, che
io dovrò subire la situazione, visto che
il bene di mia madre dev’essere
anteposto al mio. Sinceramente, però,
preferirei quasi morire piuttosto che
essere costretto a restare tre mesi in
questo posto squallido».
Se non avesse detto “quasi”, pensò
Elizabeth risentita, lo avrebbe accusato
di esagerare. Lo osservò mentre si
avvicinava alla finestra e studiava il
panorama con espressione infastidita e
scontenta. Soffocando un sospiro se ne
andò, lasciandolo al suo malumore, e si
recò da Mrs Lincoln, che era andata a
riposare prima di ordinare la cena. La
sarta sentiva piangere la vedova da otto
settimane, quindi non fu sorpresa
trovandola sdraiata sul letto a
singhiozzare disperata. Stava tornando
silenziosamente
sui
suoi
passi,
chiudendosi la porta alle spalle, ma la
vedova l’aveva sentita entrare e si girò
per vedere chi l’avesse disturbata.
«Che posto orribile, Elizabeth!» si
lamentò, sollevandosi su un gomito e
asciugandosi le lacrime con l’altra
mano. «E dire che dovrò rassegnarmi a
vivere qui perché non posso permettermi
di andare ad abitare altrove. Ah! Che
brutto cambiamento per tutti noi».
«Non è tanto male» ragionò
Elizabeth, sedendosi sulla poltroncina
accanto al letto. «Il panorama è bello, la
brezza che sale dal lago è fresca». Tese
una mano. «Venite a guardare con me».
Mrs Lincoln scosse il capo e si
lasciò ricadere sui cuscini. «Non potrei
sopportarlo. Come faccio a godermi un
bel panorama mentre mio marito giace
nella tomba e io non so cosa sarà di me
e dei miei figli?»
La sarta fece un sospiro lieve.
«Molto bene. Come desiderate». Si
congedò, trovò Tad che giocava in
camera sua e lo portò fuori. Il bambino
la prese per mano e parlò animatamente
mentre si avviavano verso la riva del
lago, e una volta lì corse subito vicino
all’acqua gridando e ridendo. Insieme
passeggiarono lungo la spiaggia,
raccogliendo pietre tonde e lisce,
ammonticchiando le più belle vicino
all’erba per riportarle in camera e
gettando invece le altre nel lago, una a
una, producendo dei bei tonfi.
La domenica mattina giunse serena e
tranquilla. Dalla sua finestra Elizabeth
osservò lo splendido lago, uno dei tanti
bellissimi panorami di cui si godeva
dall’hotel. Il vento increspava la vasta
superficie azzurra, e i raggi del sole
facevano brillare le onde come gioielli.
Qua e là una barca a vela scivolava
silenziosa sui flutti e scompariva oltre la
linea blu dell’orizzonte appena visibile.
Si mise a riflettere sul regno dei Cieli,
dove un giorno le sarebbe piaciuto
essere accolta: i raggi del sole
sull’acqua facevano pensare alle corone
tempestate di gioie della vita eterna.
Non riusciva a concepire che si potesse
considerare squallido Hyde Park,
quando pulsava di luce e vita a quel
modo. Sarebbe stata ben felice di poter
restare lì a riposare. Aveva attraversato
tante difficoltà e ora era stanca, e sapere
di dover aiutare Mrs Lincoln a superare
quella prova la rendeva ancora più
esausta, e riluttante a uscire dalla sua
stanza per affrontare la giornata.
Avrebbe quasi preferito incrociare le
braccia e lasciarsi cadere in un sonno
eterno, per soddisfare infine il profondo
desiderio di riposo della sua anima.
Robert trascorse la giornata nella sua
stanza a leggere, mentre Elizabeth tenne
compagnia alla vedova, descrivendole
tutti i lati positivi della loro nuova
residenza. Le suggerì che forse non
aveva avuto modo di osservare i
dintorni, tutta presa dal proprio dolore,
e che sebbene la situazione attuale fosse
ben diversa da quella alla quale si era
abituata, bisognava comunque guardare
al futuro. Ma Mrs Lincoln rifiutava di
fare programmi dopo l’estate, e
insisteva nel voler vivere reclusa nei
mesi a venire. «Le vecchie facce mi
faranno ripensare a scene che preferisco
dimenticare» dichiarò, «e le persone
nuove non capirebbero nulla del mio
dolore, né potrebbero migliorare la mia
situazione».
La sarta non era d’accordo, ma non
riuscì a persuaderla del contrario. Nel
corso della notte, però, la vedova
dovette riflettere almeno sul futuro di
Tad, perché il lunedì mattina, dopo che
Robert si fu recato a Chicago per certe
faccende da sbrigare, disse a Tad che
avrebbe avuto una lezione ogni giorno a
cominciare da quel giorno stesso.
Tad protestò affermando che non
voleva nessuna lezione, ma la madre
obiettò che così facendo sarebbe
cresciuto ignorante. «Devi fare quello
che ti dice la mamma» sottolineò Mrs
Lincoln. «Sei grande, ormai, in autunno
inizi la scuola. Non vorrai cominciare
senza neanche saper leggere».
Tad meditò sulle sue parole, forse
immaginando l’umiliazione dell’essere
l’unico bambino in classe incapace di
leggere, quindi balzò in piedi
dichiarando che era d’accordo a seguire
una lezione e che gli serviva il libro per
cominciare subito. Elizabeth rimase a
guardare divertita mentre la madre si
sedeva in poltrona e il bambino
avvicinava la sua seggiolina con il libro
sulle ginocchia. Quella scena sarebbe
piaciuta molto al defunto presidente, si
disse la sarta. Tad era sempre stato
accontentato e viziato dai genitori,
soprattutto da suo padre. Aveva un
difetto di pronuncia e non era mai andato
a scuola, così non conosceva bene
l’abbecedario. La sarta non era mai
riuscita a capire come due genitori che
davano tanta importanza al sapere e
all’apprendimento
potessero
aver
trascurato fino a quel punto l’educazione
del figlio, ed era contenta di vedere che
la madre intendeva recuperare il tempo
perduto. Era un progetto che Elizabeth
approvava perché non avrebbe fatto del
bene solo a Tad. Lui doveva imparare a
leggere e scrivere, ma sua madre aveva
bisogno di un’attività per occupare il
tempo e i pensieri.
Tad aprì il libro e cominciò a leggere
la prima parola. «A, P, E».
«Bravo» lo incoraggiò la madre.
«Che parola è?»
Tad guardò l’immagine sopra la
parola. «Vespa».
«Niente affatto!» esclamò Mrs
Lincoln. «A, P, E non è vespa».
«Sì, invece. Vespa! Guarda!» le
disse, indicando l’immagine con aria
trionfante. «Non è una vespa?»
«No, non è una vespa».
Tad spalancò la bocca incredulo.
«Non è una vespa! Cos’è, allora?»
«Un’ape».
«Un’ape? Non è un’ape. Non pensi
che sappia riconoscere una vespa
quando la vedo?»
«No, se sostieni che quella sia una
vespa».
«La riconosco, la vespa» insistette.
«Ne ho viste tante in giardino. Le
conosco meglio di te, perché ho passato
tanto tempo a giocare fuori».
«Ascoltami, Tad. Una vespa e un’ape
si assomigliano ma non sono identiche».
«E
allora
non
dovrebbero
assomigliarsi. Guarda, Yib». Era il
nomignolo che aveva dato a Elizabeth
anni prima, quando il suo difetto di
pronuncia gli rendeva impossibile dire
il suo vero nome. «È una vespa, no? E
A, P, E messe insieme non danno la
parola vespa? La mamma non ci capisce
nulla». Mentre parlava mise il libro in
mano a Elizabeth, tutto serio e
impaziente.
La sarta non riuscì a trattenersi e
scoppiò a ridere. Tad si ritrasse,
mortalmente offeso. «Scusami, Tad»
boccheggiò, cercando di soffocare
quella crisi di ilarità. «Spero che
perdonerai la mia scortesia».
Lui chinò il capo, scusandola con il
sussiego di un piccolo lord, ma tornò
all’attacco ripetendo: «Non è una
vespa? A, P, E non fanno vespa?»
«No, Tad» lo corresse con dolcezza.
«Tua madre ha ragione. A, P, E danno
ape».
«Ne sai quanto mia madre».
Indignato, Tad chiuse il libro di scatto.
«Non sapete nulla, nessuna delle due».
In quel momento tornò Robert da
Chicago e Tad gli rivolse subito la
stessa domanda. Ci volle un po’, ma alla
fine il fratello riuscì a convincerlo del
fatto che le due donne sapevano il fatto
loro, e che le lettere A, P, E non
significavano vespa. Una volta che Tad
ebbe accettato questa verità irrefutabile,
il resto della lezione procedette senza
intoppi.
Elizabeth seguì con la coda
dell’occhio mentre cuciva la trapunta,
mordendosi le labbra per non ridere. Poi
si disse che se Tad fosse stato un
bambino di colore invece del figlio di
un presidente, e un insegnante avesse
trovato simili difficoltà nello spiegargli
una lezione, sarebbe stato ridicolizzato
come somaro, e la sua ostinazione
sarebbe stata sbandierata come esempio
dell’inferiorità della sua razza. Tad era
intelligente, lei lo sapeva bene, ed era
sicura che con un’istruzione adeguata e
qualche sforzo si sarebbe manifestato
anche in lui il genio del padre. Ma
Elizabeth conosceva molti bambini neri
suoi coetanei che scrivevano e
leggevano correttamente, e nonostante
ciò il mito dell’inferiorità continuava a
regnare. L’ingiustizia di quei pregiudizi
faceva male. Se un bambino bianco
sembrava poco sveglio, la colpa veniva
imputata alla sua mancanza di
intelligenza individuale o di istruzione,
ma se un bambino nero pareva sciocco
tutta la sua razza era bollata come stolta.
Alla sarta sembrava che se una razza
non si poteva giudicare sulla base di un
solo esempio, lo stesso doveva valere
per le altre.
Thomas Cross e William Crook
tornarono a Washington per riprendere
le loro funzioni alla Casa Bianca,
portandosi con sé le ultime vestigia del
rango di Mrs Lincoln. Con il passare dei
giorni, dopo avere perso il marito e il
prestigio, la vedova fu assillata dal
terrore della povertà. Era già stato
abbastanza demoralizzante per lei
lasciare l’elegante Tremont House
perché non poteva permettersi di vivere
in
quel
lusso,
ma
trovarsi
all’improvviso così in basso le fece
l’effetto di un vergognoso esilio.
All’inizio le conoscenti tentarono di
farle visita all’Hyde Park Hotel, ma Mrs
Lincoln non poteva sopportare di essere
vista in quella condizione di ristrettezze
economiche, così rifiutò di incontrare
chiunque.
«Avevo
sperato
in
un’accoglienza ben diversa quando ho
deciso di venire a trasferirmi qui»
confidò all’amica. Si era aspettata che
l’élite di Chicago l’avrebbe accolta a
braccia aperte, coprendola di attenzioni
in virtù del suo ruolo di vedova del
presidente ucciso. Elizabeth sospettava
anche che si fosse aspettata, da parte di
un ricco benefattore repubblicano, la
proposta di insediarla in una residenza
degna del suo rango, accollandosi le
spese. Invece non era apparso nessun
angelo custode, non era giunta nessuna
proposta. Mrs Lincoln continuava a
sperare che uno o l’altro dei sostenitori
più facoltosi di suo marito o degli amici
che si erano arricchiti grazie a lui le
venissero in aiuto, e ogni volta le sue
speranze si rivelavano vane.
Umiliata, la vedova si isolava
sempre più, non voleva vedere nessuno
e riversava il suo dolore e le sue
preoccupazioni in lunghe missive. Il
peso dei debiti minacciava di
schiacciarla, ma era decisa a ripagare
ogni centesimo. Scriveva lunghe
richieste di risarcimento rivolte al
governo, in virtù del sacrificio compiuto
dal marito per la nazione, e chiedendo
per sé tutto lo stipendio che avrebbe
dovuto guadagnare durante il secondo
mandato da presidente. Quando il
Congresso non fu sollecito nel versarle
un appannaggio, decise di scrivere
direttamente ad alcuni degli uomini più
influenti che si erano arricchiti in fretta
grazie agli incarichi attribuiti loro da
Lincoln, nella speranza che ricordando
quel debito l’avrebbero aiutata. Sarebbe
forse riuscita nel suo intento se i giornali
non avessero scritto che Lincoln aveva
lasciato un’eredità di settantacinquemila
dollari. Naturalmente era ancora tutto
bloccato per via dei cavilli legali e in
ogni caso sarebbe stato diviso in tre, fra
la vedova e i figli, e anche quando Mary
Lincoln avesse ereditato non avrebbe
potuto usare il capitale per mantenersi,
ma solo gli interessi annui. Siccome i
giornali omisero questi particolari,
nessuno le credette quando cominciò a
piangere miseria. Nessuno, neppure gli
amici più stretti e i più grandi
ammiratori del marito, si degnò di
riservarle comprensione e men che meno
carità, giacché le sue lamentele
sembravano dipingere un ritratto falso
della situazione.
A peggiorare le cose vi fu il fatto che,
quando la famiglia Johnson prese
possesso della Casa Bianca, trovò la
dimora sottosopra, senza quasi più
mobili. Anche se i colpevoli erano stati
visitatori senza scrupoli e domestici
infedeli, si mormorava che la
responsabile fosse Mrs Lincoln, e che il
maltolto si trovasse in tutti i bauli e le
casse che, si sapeva, aveva portato con
sé a Chicago. Mentre la vedova
trascorreva giorni tristi a Hyde Park,
sentendosi abbandonata e povera, la
gente si vedeva propinare una nuova
campagna denigratoria su di lei, e
beveva qualunque menzogna, anche la
più sordida, che sarebbe apparsa
improbabile a lettori più accorti.
L’idea negativa che il pubblico si era
fatto di lei spinse Mrs Lincoln a
rifugiarsi nell’autocommiserazione e
nella disperazione. Ignorò le insistenze
dell’esecutore testamentario del marito
– il giudice David Davis, responsabile
della campagna elettorale del 1860 e
candidato da Lincoln alla Corte
Suprema nel 1862 – che le ricordava
che avrebbe potuto vivere agiatamente
con le sue risorse se si fosse trasferita a
Springfield. Implorò invece gli amici di
scrivere ai membri del Congresso da
parte sua affinché usassero la propria
influenza per garantirle l’appannaggio di
cui aveva tanto bisogno. Come vedova
del presidente riteneva che il suo
sacrificio dovesse essere riconosciuto
dal governo oltre che dal pubblico, e
impedirle di sprofondare nell’indigenza
era il minimo. Le lettere continue e
instancabili
sembravano
essere
diventate una vera e propria crociata per
riabilitare la sua reputazione, per
recuperare il prestigio perduto, per
ricevere gli onori che riteneva di
meritare, e per preservare l’eredità del
marito. Lesse i giornali da cima a fondo
per restare informata su ciò che si
diceva sull’ex presidente, e riempì le
sue missive di osservazioni pertinenti su
politica e attualità. Qualunque tipo di
onore o di emolumento assegnato ad
altri rappresentava ai suoi occhi un
terribile affronto, perché riteneva che
non venissero attribuiti onori sufficienti
al presidente assassinato al quale
dovevano tutto.
Celebrare la memoria del presidente
Lincoln divenne la sua grande causa,
insieme al desiderio di crescere Tad e di
vedere Robert indipendente, realizzato e
soddisfatto. Spesso confessava a
Elizabeth che non fosse stato per i suoi
figli avrebbe preferito togliersi la vita.
Mentre Mary Lincoln scriveva una
lettera dopo l’altra, anche Elizabeth
coltivava le proprie relazioni epistolari,
inviando lettere cortesi alle clienti
preferite che si informavano sul suo
ritorno, oltre a missive più intime a
Virginia ed Emma, alle quali confidava
le sue preoccupazioni riguardo a Mrs
Lincoln e alla propria attività
professionale. Virginia si dimostrava
comprensiva, invitandola però a tornare
a casa il prima possibile, mentre Emma
le comunicò senza mezzi termini che in
sua assenza le cose stavano andando
male. Lei e le altre assistenti avevano
terminato gli abiti che Elizabeth aveva
iniziato prima della partenza, ma i nuovi
ordini erano stati scarsi quando si era
sparsa la voce che non sarebbe stata la
famosa madame Keckley a realizzare le
creazioni. Emma era stata costretta a
licenziare metà delle assistenti perché
non c’era lavoro per tutte. «Le clienti
vogliono sapere quando rientri» scrisse
Emma. «Se ti sbrighi, penso che
riusciremo a farle tornare e a
confezionare loro abiti per la prossima
stagione dei balli, ma se resti lontana
troppo a lungo troveranno qualcun altro
che le vestirà. Non saranno altrettanto
graziose, ma devono pur indossare
qualcosa».
I più cupi timori di Elizabeth si
stavano realizzando. Aveva investito
ogni cosa nel laboratorio di sartoria –
denaro, tempo, fatica – e ora le pareva
che tutto si stesse sgretolando. I Lincoln
erano insediati nella loro nuova dimora,
anche se meno felicemente di come lei
avrebbe voluto, e cominciò a chiedersi
quanto tempo ancora si sarebbe dovuta
trattenere. Il governo aveva accordato
alla vedova una piccola somma per
ingaggiare Elizabeth come compagna
remunerata – trentacinque dollari a
settimana per i suoi servizi, cento
dollari per le spese di viaggio e di
alloggio, cinquanta dollari per gli abiti
da lutto –, ma i soldi che perdeva
trascurando la propria attività a
Washington erano molti di più di quelli
che guadagnava a Chicago. Inoltre, pur
non volendo certo turbare la sua amica
con domande del genere, era certa che
non restasse quasi più nulla di quel
gruzzoletto.
Elizabeth continuava anche a leggere
i giornali, sebbene non con la stessa
determinazione di Mrs Lincoln, che ogni
giorno divorava diversi quotidiani di
New York, Washington e Chicago, e
trattenne il fiato quando le cadde
l’occhio su un articolo su John Wilkes
Booth e i suoi complici. La vedova era
parsa fin da subito stranamente
indifferente alle notizie sulla morte
dell’assassino del marito, la ricerca dei
congiurati e il loro processo imminente,
ma Elizabeth ne lesse ogni parola. Si
scoprì anche a cercare sui giornali
notizie su Jefferson Davis e sua moglie,
che erano fuggiti nel profondo Sud
finché non erano stati catturati con i loro
pochi accompagnatori un mattino di
maggio vicino a Irwinville, in Georgia. I
giornali affermavano che quando i
fuggitivi avevano udito i soldati
dell’Unione
avvicinarsi
al
loro
accampamento, Davis aveva indossato
un abito della moglie nel tentativo di
camuffarsi e si era inoltrato nella
foresta. Ma un caporale dotato di spirito
di osservazione aveva notato quella
donna eccessivamente alta, con indosso
stivali da uomo, e aveva intimato l’alt,
mentre un altro soldato aveva
imbracciato il fucile. Ancora in camicia
da notte, la moglie era corsa dal marito
e gli aveva gettato le braccia al collo: il
soldato, restio a sparare a una donna
alle spalle, aveva abbassato l’arma.
Elizabeth sapeva che Varina Davis
aveva probabilmente salvato la vita del
marito, giacché gli ufficiali avevano
l’ordine di catturare il presidente della
Confederazione vivo o morto.
La sarta avrebbe tanto desiderato
scrivere una lettera affettuosa a Mrs
Davis, che le era sempre stata simpatica
nonostante le opinioni divergenti in fatto
di schiavitù e secessione, ma non sapeva
dove indirizzargliela. Secondo i giornali
il marito era imprigionato a Fort
Monroe, ma era impossibile scoprire
che fine avessero fatto moglie e figli.
L’ultima settimana di maggio,
Elizabeth lesse che Chicago avrebbe
presto ospitato la seconda Great
Northwestern Sanitary Fair. Nel corso
della guerra, la Commissione sanitaria
degli Stati Uniti e le sue varie
diramazioni in tutto il Nord avevano
raccolto fondi essenziali per la guerra, e
i volontari organizzavano numerose
manifestazioni per trovare il denaro
necessario per l’acquisto di cibo,
coperte, bende, uniformi, lenzuola e tutto
quanto fosse vitale per i soldati. Anche
se il presidente Johnson aveva
dichiarato ufficialmente conclusi i
combattimenti,
l’opera
della
Commissione sanitaria continuava,
perché i bisogni dei soldati, sebbene di
natura diversa, non erano meno
impellenti. Il ricavato dell’evento di
Chicago sarebbe stato devoluto ai
veterani ridotti in povertà, ai soldati
feriti che non potevano lavorare, e alle
vedove e agli orfani dei soldati uccisi in
battaglia.
Per la prima Sanitary Fair
dell’autunno 1863, il presidente Lincoln
aveva donato l’originale del Proclama
di Emancipazione, che era stato venduto
per tremila dollari. Il presidente Johnson
o uno dei suoi consiglieri doveva avere
deciso che ci si aspettava un gesto
simile da parte sua, perché Elizabeth
scoprì che il catafalco che aveva
sorretto la bara del presidente Lincoln
era stato fatto arrivare da Washington. Si
sperava che la vendita dei biglietti per
vedere la mostra, che avrebbe incluso
altri cimeli della guerra, avrebbe
permesso di raccogliere una somma
importante per una causa meritevole.
La sarta, incuriosita, decise di
partecipare, ma non riuscì a convincere
Mrs Lincoln ad accompagnarla.
«Un’uscita vi farebbe bene» la esortò
l’amica, «e so che la causa dei soldati
dell’Unione vi sta molto a cuore».
Mrs Lincoln rabbrividì. «I soldati mi
sono effettivamente molto cari, ma
neppure per loro accetterò di vedere
qualcosa di così intimamente legato alla
morte di mio marito».
«Il padiglione è talmente vasto che,
anche se non vi avvicinate, avrete molte
altre cose da vedere».
«E cosa direbbe la gente se mi
rifiutassi di andare vicino al catafalco di
mio marito?» ribatté Mrs Lincoln.
«Direbbero che non gli dimostro un
rispetto adeguato. Affermerebbero che
non piango la sua morte e che il suo
ricordo mi lascia indifferente. Tali
menzogne riempirebbero i giornali di
domani. No, Elizabeth, non desidero
essere vista da quelle parti, e anche se
portassi
un
velo
pesante
mi
riconoscerebbero».
La sarta era delusa ma la capiva, e
decise quindi di andare da sola. Prese il
treno diretto a nord, e dopo un breve
tragitto verso il centro città scese alla
stazione e andò a piedi a Trophy Hall in
Michigan Avenue, dove si svolgeva la
manifestazione. Pagò il biglietto
d’ingresso e cominciò a fare il giro
della mostra, leggendo le didascalie e
osservando gli oggetti. Scelse un
percorso che le permettesse di arrivare
al settore dedicato a Lincoln per ultimo,
e a ogni passo si sentiva il cuore più
pesante.
Il catafalco era identico a come lo
ricordava nell’East Room, ma sembrava
piccolo e fuori luogo in quel padiglione
estraneo e pieno di rumore. Il feretro era
lungo poco più di due metri, largo
settanta centimetri e alto mezzo metro
abbondante, coperto di seta nera bordata
di bianco, con pesanti fiocchi neri ai
quattro angoli, ampi festoni di seta lungo
i lati e una lunga frangia tutto attorno.
Era coperto da una cupola di vetro
cosparsa di stelle, e alla base erano stati
disposti ricordi della schiavitù presi
dalle piantagioni del Sud durante la
guerra: una palla con la catena enormi,
un paio di ceppi pesanti, una serie di
fruste e altri oggetti che ricordarono in
modo così doloroso a Elizabeth la
propria giovinezza da costringerla a
guardare altrove. Ricordò quanto era
rimasta sconvolta Mrs Lincoln durante
la costruzione del catafalco nell’East
Room, perché ogni colpo di martello su
un chiodo le pareva uno sparo di pistola.
Come era stata sciocca a proporle di
accompagnarla alla fiera! Perché mai
una vedova in lutto avrebbe dovuto
subire la vista del catafalco sul quale
era stata posata la bara del marito?
Scuotendo il capo e rimproverandosi
silenziosamente, Elizabeth si allontanò
da quegli oggetti legati all’ex presidente.
Aveva visto quasi tutto ciò che le
premeva e stava per andarsene, quando
notò un assembramento davanti a un
oggetto esposto all’altro capo della sala.
Incuriosita si avvicinò e vide una
campana di ferro con un cartello che
spiegava che era stata presa dalla
piantagione di Jefferson Davis in
Mississippi; ma non era quell’oggetto ad
aver attirato la folla. Stavano invece
aspettando tutti di pagare venticinque
cent per vedere una figura di cera di
Jefferson Davis al momento della cattura
in Georgia.
Elizabeth non riuscì a resistere. Si
mise in fila, pagò il biglietto e quando
arrivò il suo turno oltrepassò una tenda
con alcuni altri spettatori. Una statua di
cera, abbastanza somigliante a Mr
Davis, si trovava su un piedistallo, con
addosso un abito da uomo e sopra un
vestito da donna a fiori. Un indumento
stranamente familiare...
«Oh, mio Dio!» esclamò Elizabeth.
«È uno degli abiti da casa di chintz di
Mrs Davis!»
Gli altri visitatori del gruppo la
guardarono dopo quell’uscita inattesa.
«Come avete detto?» si informò un
signore mentre tutti gli occhi si giravano
verso di lei.
Elizabeth, senza lasciare l’abito con
lo sguardo, fece un gesto incredulo. «È
uno degli abiti di chintz che ho
confezionato per Mrs Davis nel gennaio
1861, subito prima che lei e il marito se
ne andassero da Washington». Con la
coda dell’occhio vide due signore che la
guardavano attonite, bisbigliando tra
loro. «Sono sarta» spiegò. «Vengo da
Washington dove ho un laboratorio di
sartoria. Mrs Davis era una delle mie
clienti, così come lo era, anzi lo è, Mrs
Lincoln».
Non sapeva bene perché aveva
aggiunto
anche
quell’ultima
precisazione: forse perché il loro
sguardo dubbioso la turbava. Si accorse
allora degli altri visitatori che
sbirciavano da dietro la tenda, attratti
dalle sue esclamazioni o desiderosi di
vedere cosa ritardasse l’avanzamento
della fila.
Il primo gentiluomo che le aveva
parlato rivelò loro: «Questa donna di
colore afferma di avere confezionato
l’abito per Mrs Davis».
Il pubblico mormorò eccitato, e
qualcuno cercò di avanzare mentre altri
facevano capolino da dietro la tenda.
Elizabeth d’istinto fece un passo
indietro.
«Davvero?» chiese una donna
emozionata. «Potete provarlo?»
Altri si unirono al coro per chiederle
di dimostrare le sue affermazioni, e la
sarta spostò lo sguardo dall’uno all’altro
di loro, smarrita, desiderando fuggire.
«Come?»
disse.
«Come
posso
provarlo?»
«Diteci come l’avete confezionato»
la esortò una donna anziana.
Quello non era un problema. Traendo
un respiro profondo per darsi coraggio,
Elizabeth si avvicinò alla figura di cera
e spiegò che Mrs Davis aveva comprato
lei stessa la stoffa, spendendo meno del
solito perché la guerra la costringeva a
fare delle economie, e aveva chiesto
alla sarta di fabbricare velocemente gli
abiti perché prevedeva – un’ipotesi che
si era rivelata corretta – che suo marito
avrebbe deciso di partire da Washington
di lì a breve. Le prime frasi le uscirono
a fatica, poi cominciò a spiegare come
aveva confezionato l’abito, usando una
tecnica che era il suo segno di
riconoscimento, e quella parte le venne
con facilità.
Mentre parlava la tenda fu aperta per
permettere a più persone di radunarsi
attorno a lei. Il pubblico cresceva a
vista d’occhio via via che Elizabeth
dimostrava meglio che poteva di
conoscere di prima mano l’indumento
appartenuto a Mrs Davis, perché era
stata lei stessa a confezionarlo. Era
consapevole che le sue parole non erano
una prova – per quello che ne sapevano
i suoi ascoltatori, poteva essere una
buona attrice o un’eccellente bugiarda –
ma la sua sicurezza e le descrizioni
precise dei minimi dettagli del vestito
sembrarono convincerli che diceva il
vero.
«Questa donna afferma di avere fatto
l’abito indossato da Jeff Davis al
momento della cattura!» gridò un uomo
voltandosi, facendo cenno agli altri di
avvicinarsi.
«Non ho mai detto niente del
genere!» protestò lei. «Intendo dire che
ho effettivamente fatto l’abito per Mrs
Davis, ma non so se il marito l’abbia
davvero indossato per travestirsi. Mi
sembra poco probabile, perché lui ha le
spalle troppo larghe e il corpetto gli
sarebbe stretto...»
Interruppero le sue spiegazioni con
grida di protesta, accusandola di volerlo
difendere, così cambiò subito discorso,
tornando a descrivere l’abito. Nel
frattempo qualcuno era andato a cercare
la responsabile della fiera, che si era
trattenuta lì in mezzo alla folla ad
ascoltare come gli altri. Gli spettatori si
erano aspettati di trovare reperti
interessanti all’esposizione, ma certo
non pensavano di assistere a una scena
del genere, e non avevano neanche
dovuto pagare i venticinque cent
dell’ingresso.
«Siete pronta a giurarlo?» chiese
qualcuno quando ebbe terminato. La
folla premeva da dietro e lei cominciava
a sentirsi a disagio.
Elizabeth accettò, solo perché non
sapeva come avrebbe reagito la calca se
avesse rifiutato. La responsabile
dell’esposizione, Mrs Bradwell, andò a
cercare un notaio e nell’attesa la sarta
rispose ad alcune domande e ne evitò
altre a proposito della famiglia Davis e
dei Lincoln. Alla fine Mrs Bradwell
fece ritorno con un signore basso,
corpulento e con i capelli scuri che
estrasse subito carta, penna e i sigilli
ufficiali. Lui e Mrs Bradwell le
consigliarono cosa scrivere, ma lei
cambiò leggermente la formulazione.
La sottoscritta Elizabeth Keckley dichiara di
essere stata la sarta della moglie di Jefferson
Davis e, più di recente, della moglie del
presidente Lincoln e di avere accompagnato
quest’ultima da Washington a Chicago; dichiara
inoltre di avere visto l’effigie di cera di
Jefferson Davis esposta al Trophy Hall e di
riconoscere l’abito indossato da detto
personaggio di cera come un indumento
realizzato dalla sottoscritta per la moglie di
Jefferson Davis e da lei indossato.
Elizabeth Keckley
Chicago, 6 giugno 1865
Tre testimoni, inclusa Mrs Bradwell,
firmarono il documento dopo di lei, il
notaio lo stampigliò e lo sigillò,
mostrandolo ai presenti. Esultarono tutti,
e in mezzo alla confusione Elizabeth
riuscì a defilarsi, agitata e senza fiato,
non prima di aver visto Mrs Bradwell
che attaccava il documento firmato e
autenticato sulla teca.
Il giorno dopo rimase sorpresa e
addolorata leggendo il resoconto della
sua avventura sull’Evening Journal di
Chicago. La dichiarazione di Elizabeth
era stata riportata per intero, e l’articolo
diceva che, dopo la sua conferma circa
l’autenticità
dell’abito,
diecimila
visitatori avevano speso un totale di
duemilacinquecento dollari in biglietti
della lotteria per sperare di vincere
l’indumento.
«Duemilacinquecento dollari» ripeté
ad alta voce Elizabeth, colpita. Decise
che il suo breve imbarazzo era andato a
buon fine, perché aveva contribuito a
raccogliere una bella somma di denaro
per una buona causa.
Verso la metà di giugno il denaro che
era stato versato a Mary Lincoln per
pagare i servizi di Elizabeth si esaurì, e
la vedova non poté più provvedere al
vitto e all’alloggio dell’amica. La
implorò di restare ancora un po’, ma la
sarta, che aveva nostalgia di casa ed era
preoccupata per la sua attività, era
segretamente sollevata che quei soldi
fossero finiti.
Nel frattempo era riuscita a
convincere Mrs Lincoln a lasciare di
tanto in tanto le sue stanze per prendere
un po’ d’aria, e mentre il giorno della
partenza si avvicinava passeggiavano
insieme in un parco non lontano al quale
la vedova Lincoln si era affezionata,
oppure sul lungolago, dove tirava un bel
venticello fresco.
L’ultimo giorno che trascorsero
insieme Mrs Lincoln era malinconica e
incline al pianto, e siccome Elizabeth
sapeva che nulla di ciò che avrebbe
potuto dire avrebbe attenuato il suo
dispiacere, parlò poco, limitandosi ad
ascoltare le lagnanze dell’amica. «Mi
sembra quasi di trovarmi in riva al
mare» commentò con voce triste Mrs
Lincoln guardando il lago. «Quanto è
largo, secondo voi?»
«Credo più di cento chilometri».
«Non c’è da stupirsi allora che non
riesca a vedere la sponda opposta». Mrs
Lincoln
sospirò
profondamente,
abbattuta. «Le mie amiche pensavano
che qui sarei stata più tranquilla che in
città, nei mesi estivi, e avevano ragione,
ma sarà fin troppo calmo senza di voi,
Lizzie».
«Se potessi restare, lo farei».
Elizabeth era sincera. E non era
necessario ferire l’amica aggiungendo di
sentirsi sollevata sapendo che sarebbe
stato impossibile.
«Ditemi, come posso continuare a
vivere senza mio marito?» esclamò a un
tratto. «È il mio primo pensiero ogni
mattino, e quando guardo le onde del
lago turbolento sotto le nostre finestre
talvolta mi dico che mi piacerebbe
inabissarmi».
Elizabeth avvertiva un brivido ogni
volta che Mrs Lincoln parlava in quel
modo, ma ribatté con fermezza:
«Pensavate di non poter continuare dopo
la morte di Willie, invece ce l’avete
fatta. Avete Tad e Robert che vi danno
una ragione per vivere, anche se non vi
va più di farlo per voi stessa. Dovete
pensare ai vostri figli ed essere forte».
Mrs Lincoln respirò profondamente e
rabbrividì. «Siete l’unica persona a
parlarmi in questo modo. Tad si
spaventa quando mi faccio prendere
dalla disperazione, e Robert perde la
pazienza. Siete l’unica amica buona e
dolce che mi è rimasta, e non so come
farò senza di voi».
«Forse avreste più amici se
permetteste loro di venirvi a trovare,
invece di mandarli via».
La vedova restò in silenzio per lunghi
istanti. «Immagino che non abbiate
torto». Lanciò un’occhiata implorante
all’amica. «Promettetemi che se il
Congresso mi concede una pensione che
mi consenta di pagarvi le spese, verrete
con me a rendere visita alla tomba di
mio marito il primo anniversario della
morte».
«Ve l’ho già promesso» le ricordò
Elizabeth con un sorriso affettuoso, «ma
se vi solleva sentirmelo dire di nuovo,
ve lo ripeto. Lo prometto».
«E promettete di scrivere».
«Sì,
ma...»
La
sarta
ebbe
un’esitazione. «Confesso di non essere
brava in questo».
«Lo credete voi, ma non è vero»
dichiarò la vedova con una traccia della
determinazione di un tempo, «e
comunque è lo stesso. Scrivete ogni
volta che potete».
Elizabeth promise.
14.
Giugno 1865 - settembre 1866
A metà giugno Elizabeth tornò a
Washington accompagnata dai migliori
auguri di Mrs Lincoln per la ripresa
della sua attività commerciale. L’ex first
lady inoltre assicurò all’amica che la
considerava ancora la sua sarta
personale,
sebbene
centinaia
di
chilometri le separassero. «Conoscete il
mio corpo quanto me, ormai» osservò la
vedova. «Vi chiederò ancora di
confezionarmi degli abiti, quando ne
avrò l’occasione e quando potrò
permettermelo. Devo insistere perché
siate voi l’unica a metterci mano, come
avete sempre fatto; non sarò più la first
lady, e sono sicura che le vostre
assistenti siano bravissime, ma certo non
sono in grado di eguagliarvi».
«Considererò sempre un grande
privilegio occuparmi personalmente dei
vostri abiti» le assicurò la sarta.
Il viaggio in treno verso est fu lungo e
faticoso, ma ogni chilometro la
avvicinava a casa. Vedere la porta
d’ingresso della pensione di Twelfth
Street la riempì di gioia, e quando si
avvicinò Virginia e Walker corsero fuori
a salutarla, prendendole la borsa da
viaggio, abbracciandola e dicendole
quanto fossero contenti di rivederla.
Dopo che ebbe ripreso possesso della
sua stanza, che Virginia aveva
gentilmente arieggiato e ripulito in
previsione del suo arrivo, accettò
l’invito della coppia e si unì a loro per
la cena.
Quando ebbero finito di mangiare e i
bambini si furono alzati da tavola, la
piccola Alberta in braccio a Jane e Lucy
al seguito, Virginia e Walker
interrogarono Elizabeth sul periodo
trascorso a Chicago e sui suoi
programmi. «Per prima cosa intendo
salvare la mia attività di sartoria» disse.
«Devo sbrigare alcune faccende alla
Casa Bianca per conto di Mrs Lincoln, e
naturalmente voglio riprendere il lavoro
alla Freedmen and Soldiers’ Relief
Association».
L’organizzazione
caritatevole che aveva fondato per
aiutare gli ex schiavi rifugiatisi a
Washington aveva cambiato nome nel
1864, per tener conto dei mutamenti
intervenuti e dell’emancipazione.
«Hai mandato un biglietto da visita
alla famiglia del presidente Johnson?» si
informò Walker. «O forse coglierai
l’opportunità quando passi alla Casa
Bianca per sbrigare gli incarichi che ti
ha assegnato Mrs Lincoln?»
«Non intendo proprio farlo» ribatté
Elizabeth. «Non ho nessun desiderio di
lavorare per la famiglia del nuovo
presidente».
«Perché no?» chiese Virginia. «Mrs
Lincoln era la tua cliente migliore.
Perché non dovresti voler lavorare per
la nuova first lady?»
«Anzi, per tutte e tre» puntualizzò
Walker. «Si dice che Mrs Johnson sia
spesso indisposta, e che siano le sue due
figlie a svolgere le funzioni di
rappresentanza alla Casa Bianca».
«È forse questo il problema?» chiese
Virginia, sorridendo quasi a mostrare
che stentava a crederci. «Troppe first
lady da compiacere e troppo lavoro?»
«No, non è per questo». Com’era
bello ritrovarsi tra amici e lasciarsi
canzonare... «Mr Johnson non è mai
stato un amico per il presidente Lincoln,
e non ha riservato alla vedova Lincoln
la benché minima cortesia nel momento
della tragedia».
«Non devi mica cucire per lui»
osservò Walker. «Sua moglie e le sue
figlie non hanno fatto nulla di male».
Elizabeth esitava. Walker aveva
ragione, ma lei non riusciva a vincere la
propria riluttanza. Si sarebbe sentita
sleale nei confronti di Mrs Lincoln se
avesse lavorato per colei che aveva
preso il suo posto. Inoltre, se avesse
ripreso a fare la sarta alla Casa Bianca,
era probabile che incontrasse il
presidente Johnson con la stessa
frequenza con cui aveva incrociato il
presidente Lincoln, mentre non aveva
nessuna voglia di trascorrere del tempo
con lui.
Si concesse un giorno per riposare e
riprendersi dal viaggio, poi si recò alla
Casa Bianca per occuparsi delle
faccende di Mrs Lincoln. Oltrepassò la
porta principale con il cuore colmo di
ansia, perché ogni immagine, ogni odore
le ricordavano intensamente il passato.
Dentro, scoprì che i nuovi occupanti
avevano già cambiato l’arredamento, e
che erano in corso altri lavori di
restauro. Nuove tinteggiature da una
parte, nuova carta da parati dall’altra.
L’imbottitura rovinata o macchiata di
certi mobili era stata nascosta sotto
fodere di lino. I pavimenti, le porte e i
rivestimenti delle pareti di legno erano
stati lucidati e ridipinti. Osservando la
scena, Elizabeth ricordò gli sforzi fatti
da Mary Lincoln per abbellire e
rimodernare la residenza; tutto quel
lavoro era stato vanificato da personale
senza scrupoli e visitatori avidi che si
erano portati via dei tesori.
Quando la sarta ebbe svolto il
proprio compito, cosa che fece il più
rapidamente possibile, se ne andò,
sperando di avere varcato per l’ultima
volta quell’ingresso.
Elizabeth aveva promesso a Mrs
Douglas che le avrebbe creato il
corredo primaverile tanto atteso non
appena fosse tornata da Chicago, e così,
dopo aver incaricato Emma di portare
messaggi alle sue clienti preferite per
informarle del suo ritorno al lavoro,
passò da Mrs Douglas per avvisarla che
contava di mantenere la parola data e
mettersi al lavoro. La cliente parve
felice di vederla, ma anche sorpresa.
«Mrs Keckley!» esclamò. «Siete
davvero voi? Non sapevo che avreste
fatto ritorno tanto presto. Si diceva che
sareste rimasta con Mrs Lincoln tutta
l’estate».
Elizabeth ammise che avrebbe dovuto
trattenersi più a lungo. «La vedova
sarebbe stata contenta di tenermi con sé
ancora, se avesse potuto».
«Se avesse potuto?» le fece eco la
donna. «Cosa intendete?»
«Solo che si trova in condizioni
economiche particolarmente difficili, e
che riusciva a malapena a pagare le
spese per me ma non a remunerarmi».
«Ciò che dite mi sorprende. Credevo
che avesse tutto il necessario».
«Lo credono in molti, purtroppo»
ribatté Elizabeth con aria triste. «Vi
assicuro che deve fare economie su
tutto». Raccontò degli sforzi vani, da
parte dell’ex first lady, per ottenere una
pensione dallo stato, e dei ritardi
amministrativi che le impedivano ancora
di entrare in possesso dell’eredità.
Nei giorni e nelle settimane a venire
Elizabeth avrebbe raccontato le
disgrazie di Mrs Lincoln a conoscenti
comuni e clienti comprensive: a Mrs
Lee, a Mrs Welles, a chiunque fosse
abbastanza disponibile da stare ad
ascoltare e da difendere la sua causa
presentandola a mariti o amici potenti.
Se la verità sulla situazione della
vedova Lincoln fosse diventata di
pubblico dominio, forse il Congresso si
sarebbe sentito costretto a prendere
posizione e ad accordarle una pensione.
Dopo avere iniziato a lavorare al
corredo di Mrs Douglas, Elizabeth
radunò le sue assistenti, lucidò la targa
e, con suo grande sollievo, diede nuovo
impulso alla sua attività, che riprese al
ritmo di prima. Quando a Washington si
diffuse la notizia del suo ritorno,
cominciarono ad arrivare più ordini di
quanti la sarta non riuscisse a evaderne.
Un giorno di fine giugno, la ragazza
incaricata di aprire la porta andò a
cercare Elizabeth nella stanza riservata
al taglio dei tessuti, dove stava tagliando
la stoffa per uno splendido abito di seta
rosa. «Mrs Keckley» esordì la sua
assistente più giovane, «c’è giù una
signora che desidera parlarvi».
Interrotta
in
un
momento
particolarmente difficile del taglio, la
sarta portò a termine l’operazione prima
di rispondere. «Chi è?»
«Non lo so. Non mi ha detto il
nome».
Non amava interrompersi a quel
punto del lavoro, ma non voleva
nemmeno rischiare di offendere una
cliente importante. «Il suo viso è
familiare? È una cliente abituale?»
La ragazza scosse il capo. «No, non
l’ho mai vista. Credo che non sia mai
venuta. È in una carrozza scoperta, con
una serva nera».
«Potrebbe essere la moglie di uno dei
nuovi ministri di Johnson» ipotizzò
Emma.
«Andate a vedere, Mrs Keckley» la
esortò un’altra aiutante.
La loro curiosità aveva stimolato
anche la sua, così posò le forbici, tolse i
fili che le si erano appiccicati alla gonna
e scese. Quando entrò in salotto, una
donna alta, bruna, vestita con semplicità
si alzò e chiese: «Siete la sarta, Mrs
Keckley?»
«Sì» replicò lei. «Sono io».
«Eravate la sarta di Mrs Lincoln,
vero?»
«Sì, ho lavorato per lei».
La donna sorrise. «Siete molto
occupata ora?»
Elizabeth allargò le braccia e
scoppiò a ridere, indicando il
laboratorio dietro di lei, dove il suono
prodotto dalle sue assistenti che
lavoravano non lasciava adito a dubbi.
«Molto».
«Potete fare qualcosa per me?»
«Dipende da cosa e da quando vi
serve».
La donna si picchiettò sul mento con
l’indice, pensando. «Mi occorrerebbe un
vestito ora, e diversi altri fra qualche
settimana».
Elizabeth ripassò mentalmente gli
impegni che si era già assunta. «Posso
farvi un vestito ora, ma non di più»
rispose con una traccia di dispiacere
nella voce. «E non sarà pronto prima di
tre settimane».
«Andrà bene» dichiarò la donna con
voce allegra e sicura di sé. «Sono Mrs
Patterson, la figlia del presidente
Johnson. Aspetto mia sorella, Mrs
Stover, fra tre settimane, e il vestito è
per lei. Abbiamo la stessa taglia, quindi
vado bene io per le prove».
Per un attimo Elizabeth rimpianse di
non averle chiesto il nome prima di
accettare di lavorare per lei, ma presto
giunsero a un accordo soddisfacente per
entrambe. Dopo che la sarta le ebbe
preso le misure, la nuova cliente le
augurò buona giornata, risalì in carrozza
e se ne andò.
Quando
Elizabeth
tornò
in
laboratorio, le sue assistenti erano
ansiose di sapere chi fosse la visitatrice.
«Era Mrs Patterson» rispose. «La figlia
del presidente Johnson».
«Cosa?» esclamò una delle ragazze.
«La figlia del nostro buon Mosè?3
Intendete lavorare per lei?»
Quando Elizabeth parlò, le parve
un’ammissione di colpevolezza. «Ho
accettato l’ordine».
«Temo che Johnson sarà un Mosè
molto
scadente»
decretò
Emma
accigliata, «e se fosse per me non
lavorerei per nessun membro della sua
famiglia».
Diverse altre assistenti mormorarono
il proprio assenso. Fino a quel momento
Elizabeth non si era resa conto di quanto
poco fosse amato il successore del
presidente Lincoln. Che l’ex first lady
non lo apprezzasse lo sapeva bene, e
tutta Washington pensava che avesse
fatto una pessima impressione arrivando
ubriaco al proprio insediamento. Ma da
quando era diventato presidente, la sarta
era rimasta chiusa con la first lady in
lutto nelle sue stanze della Casa Bianca
oppure a centinaia di chilometri di
distanza. Sapeva ben poco delle
iniziative che aveva preso o dei discorsi
che aveva tenuto nelle ultime settimane,
ma chiaramente non era riuscito a
conquistarsi le simpatie delle donne che
lavoravano per lei.
Si chiese se si sarebbe rivelato un
capo poco carismatico come Emma lo
aveva dipinto, oppure se le sue aiutanti
avevano semplicemente dei pregiudizi
nei suoi confronti perché non era
Lincoln, il “grande emancipatore” che
avevano tutte ammirato e rispettato.
Quello, si disse con un senso di pietà nei
suoi confronti, non era colpa sua, e non
andava condannato per tale motivo.
In breve tempo finì l’abito per Mrs
Patterson – o meglio, per la sorella – e
fu felice che venisse apprezzato. Accettò
di confezionare altri vestiti per le due
sorelle, e durante l’estate scoprì che
Mrs Patterson e Mrs Stover erano
entrambe gentili, semplici e modeste,
che non avevano alcuna pretesa di
eleganza. Un giorno, presentandosi alla
Casa Bianca, trovò Mrs Patterson al
lavoro con la macchina da cucire.
Quella novità la stupì perché, sebbene
Mrs Lincoln sapesse cucire e avesse
posseduto una bella macchina in una
robusta custodia di sequoia, placcata
d’argento e con intarsi di madreperla e
smalto, Elizabeth non l’aveva mai vista
usarla, né ricordava di aver sorpreso
l’ex first lady con un ago in mano.
Ma per quanto le due sorelle fossero
gentili e amabili con lei, Elizabeth non
si sentì mai a suo agio a lavorare per
loro. Vedeva solo di rado Mr Johnson,
quindi non era lui il problema, sebbene
non riuscisse a dimenticare lo sgarbo
che aveva fatto a Mrs Lincoln quando
non le aveva fatto le condoglianze dopo
la morte del marito. Non riusciva a
varcare la soglia della Casa Bianca
senza ricordare le ore piacevoli
trascorse fra quelle mura, o la calorosa
familiarità che il presidente le aveva
sempre dimostrato. Le mancava il
momento in cui cominciava a progettare
con Mrs Lincoln un nuovo abito
favoloso, perché le due sorelle non si
interessavano alla moda e preferivano
vestiti semplici a maniche lunghe, privi
di scollatura e con pochi abbellimenti.
Le mancava sentirsi chiamare “madame
Elizabeth” dal presidente Lincoln, o
sentirsi chiedere di domare la sua
chioma ribelle prima di scortare la
moglie a una serata di gala. Aveva
perfino nostalgia delle sue stupide capre
ribelli. La Casa Bianca evocava tante di
quelle associazioni vivide per lei che a
ogni passo, a ogni occasione le tornava
in mente il ricordo di un passato
migliore del presente. La faceva soffrire
trovarsi lì, ora che non c’erano più i
coniugi Lincoln.
In agosto, Elizabeth aveva appena
finito due abiti leggeri di lino, uno per
ciascuna delle due sorelle, quando Mrs
Patterson le mandò un biglietto
chiedendole di andare alla Casa Bianca
per confezionare un altro abito più
pesante in previsione dell’autunno. In
quel momento le venne uno strano
impulso: scrisse di rimando un
messaggio sbrigativo per comunicare
che non lavorava mai fuori dal suo
laboratorio. Questo mise fine alle
relazioni di lavoro con le figlie del
presidente.
Emma lanciò a Elizabeth uno sguardo
strano quando la sua datrice di lavoro
spiegò perché non avrebbero più
lavorato per le occupanti della Casa
Bianca. «Hai detto loro che non svolgi
mai lavori di sartoria fuori dal
laboratorio, ma per Mrs Lincoln lo
facevi».
«Sì, di tanto in tanto, ma la signora
non protestava mai quando si trattava di
venire qui. Anzi, credo che le piacesse,
e perfino che lo preferisse».
«Me lo ricordo». Emma la guardò
con aria interrogativa. «Ricordo anche
di averti sentito ripetere che non amavi
che la famiglia del presidente venisse
qui da te. Era più consono al loro rango
che fossi tu a spostarti».
«Ebbene...» Elizabeth fece una pausa,
riflettendo, ma non trovò una risposta
convincente. «Hai ragione. L’ho detto
perché lo pensavo. Anzi, lo penso
ancora. Non riesco a spiegare perché ho
risposto in quel modo a Mrs Patterson».
«Io sì, invece!» esclamò Emma, come
se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Non vuoi lavorare per loro ma non
sapevi come rifiutare».
«Devo essere impazzita per fare una
cosa del genere» commentò Elizabeth
portandosi una mano alla fronte. «Sono
clienti gentilissime. Chi mai rifiuta di
lavorare per le figlie del presidente?»
«La sarta più popolare di
Washington, ecco chi». Emma indicò con
un gesto il laboratorio in pieno fermento,
dove tutte le assistenti stavano cucendo,
sedute dritte come la titolare aveva
insegnato loro, per evitare dolori alla
schiena e al collo. «Non sei pazza né ti
sei comportata in modo impertinente.
Non hai rifiutato di lavorare per Mrs
Patterson; hai accettato, purché il taglio
del tessuto e le prove avvenissero qui, e
lei ha rifiutato».
Elizabeth sospirò. «Immagino che sia
un modo di vedere la situazione».
«È l’unico modo». Emma le sorrise
teneramente e scrollò il capo. «Puoi
sceglierti le clienti, Elizabeth, e
permetterti di essere schizzinosa».
Guardandosi attorno nel laboratorio,
si disse che forse era vero.
A fine estate l’attività si era
sviluppata a tal punto che Elizabeth aprì
una seconda bottega. La fitta
corrispondenza con Mrs Lincoln
rivelava che per lei le cose andavano
molto meno bene. Non fece quasi
nessuna allusione al processo di giugno
e all’esecuzione, in luglio, dei quattro
cospiratori condannati all’impiccagione
per il ruolo avuto nell’assassinio del
marito, mentre si dilungò nel parlare
all’amica della morte del dottor Anson
Henry, uno dei pochi amici dei tempi di
Springfield a non averla abbandonata.
«Non dimenticherò mai le sue attenzioni
e la sua sollecitudine nell’occuparsi di
me nelle settimane seguenti la morte del
mio adorato marito» scrisse abbattuta.
«Pensare che sia scomparso anche lui mi
è quasi insopportabile».
Mrs Lincoln vedeva allontanarsi
anche la prospettiva di poter esercitare
un controllo sul retaggio lasciato dal
marito. Aveva vinto una prima battaglia
significativa quando, contro il parere dei
dignitari dell’Illinois, aveva imposto lei
il luogo del memoriale e della tomba
dell’ex presidente, ma si stava
preparando una nuova prova, contro un
avversario che Mary Lincoln non aveva
saputo prevedere. L’ex socio del marito
a Springfield, l’avvocato William H.
Herndon, aveva in mente di scrivere un
libro pieno di rivelazioni sulla “vita
interiore” del presidente, e si era messo
a fare domande ad amici e conoscenti di
Abraham
Lincoln
per
ottenere
confidenze. La vedova rimase male
quando
seppe
dell’iniziativa
di
Herndon, ma suo figlio Robert fu
profondamente scandalizzato. Un conto
era sottoporre a scrutinio un politico,
dichiarò, perché esporre la propria vita
agli sguardi della gente era il prezzo da
pagare quando si desiderava ricoprire
una carica pubblica di quella portata.
Un’altra cosa era sottoporre moglie e
figli a un esame minuzioso e
inopportuno, costringerli a vivere “sotto
vetro”.
Nel frattempo, Mrs Lincoln non
aveva subito minimamente il fascino di
Hyde Park. «Sono depressa» scrisse a
fine luglio. «Resto chiusa nelle mie
stanze, dalle quali esco solo per una
passeggiata nel parco, ogni tanto, e
naturalmente non vedo nessuno, essendo
relegata sulle sponde remote del lago
Michigan». In agosto lasciò l’Hyde Park
Hotel per trasferirsi a Clifton House, un
residence rispettabile nel centro di
Chicago, tra Wabash Avenue e Monroe
Street. Tad fu iscritto a scuola ed era
deciso a colmare il ritardo accumulato
rispetto ai suoi coetanei, e Robert
diventò praticante da Scammon, McCagg
& Fuller, un importante studio legale.
Qualunque soddisfazione procurata dalla
nuova residenza e dai successi dei figli
era obnubilata dalla sofferenza che la
attanagliava. Abbattuta e sola, Mrs
Lincoln era terrorizzata dalla minaccia
della povertà e dei debiti, e sembrava
che non riuscisse a pensare a nient’altro.
I suoi creditori avevano esitato a
sollecitarla per i conti in sospeso finché
era stata first lady, ma di recente
cominciavano
a
minacciare
di
denunciarla e di pubblicare sul giornale
le liste dei suoi debiti. Scrisse agli
amici, agli ex dipendenti della Casa
Bianca, ai membri della Camera dei
rappresentanti perorando la sua causa e
chiedendo loro di usare la propria
influenza per aiutarla; Elizabeth
immaginava benissimo il tono ora
disperato,
ora
arrogante,
ora
carezzevole, ora insistente delle sue
lettere. Anche se Horace Greeley,
direttore del New York Tribune e critico
frequente del marito, l’aveva stupita
promuovendo una sottoscrizione per
raccogliere fondi per «la vedova
inconsolabile del defunto presidente e
per i suoi figli rimasti orfani di padre»,
tutti i suoi sforzi parvero vani.
Nelle sue lettere, Elizabeth offriva a
Mrs Lincoln tutto l’incoraggiamento e il
conforto che poteva, ma non bastava
mai. Era una vergogna nazionale,
pensava indignata, che lo stato non si
occupasse in modo adeguato della
vedova del presidente Lincoln. Questi
aveva dato la vita per il suo paese alla
stregua di un soldato, proprio come il
suo George, e il minimo che lo stato
doveva fare era provvedere al
sostentamento della vedova e dei figli,
come faceva per i suoi soldati.
In autunno una donna – una
sconosciuta, pensò Elizabeth – andò a
trovarla alla pensione. «Siete sorpresa
di vedermi, lo so» esordì la donna
allegramente. Non era una cliente, né
qualcuno che avesse conosciuto a
Washington, eppure il suo viso era
familiare. «Arrivo ora da Lynchburg, e
quando ho lasciato mia cugina Anne le
ho promesso di venire a trovarvi se
fossi arrivata a Washington». La donna
fece un sorriso radioso, allargando le
braccia. «Ed eccomi qui, come
promesso».
«La cugina Anne?» ripeté Elizabeth
smarrita. «Scusatemi, ma...»
«Oh, non mi avete riconosciuto»
comprese lei. «Sono la moglie del
generale Longstreet, ma da ragazza mi
conoscevate come Bettie Garland».
«Bettie Garland!» esclamò la sarta.
Era la cugina del suo ex padrone, Hugh
Garland, e andava spesso a trovare la
famiglia nella loro casa vicino a
Dinwiddie Court House in Virginia.
«Siete davvero voi?»
La donna annuì raggiante, e si
strinsero le mani, felici entrambe per
quell’incontro inaspettato.
«Sono così contenta di vedervi»
disse Elizabeth, offrendo una sedia alla
sua ospite e sedendosi pure lei. Dopo
essersi affrancata era rimasta in contatto
con l’ex padrona e i suoi figli –
soprattutto con le figlie femmine, che
aveva allevato e alle quali si era molto
affezionata –, ma i rapporti si erano
interrotti allo scoppio della guerra. La
sarta si era chiesta spesso che fine
avessero fatto, anche se, quando li
nominava preoccupandosi per la loro
sorte, gli amici del Nord alzavano gli
occhi al cielo, domandandosi come
facesse ad avere pensieri gentili per
coloro che l’avevano tenuta in catene.
Elizabeth, per quanto ci avesse provato,
non riusciva a far capire loro che,
nonostante le gravi ingiustizie subite, e
pur senza perdonarle, provava un affetto
profondo e duraturo per alcuni membri
delle famiglie che l’avevano tenuta
come schiava, anche se non per tutti.
«Dove vive ora Miss Anne?»
«Ah! Ero sicura che non vi sareste
dimenticata dei vecchi amici» disse Mrs
Longstreet. «Mia cugina Anne vive a
Lynchburg. Tutta la famiglia è in
Virginia. Si sono trasferiti lì durante la
guerra». Poi la sua allegria si spense.
«Fannie è morta. Nannie è diventata una
donna e si è sposata con il generale
Meem. Hugh Junior è rimasto ucciso in
guerra, e ora restano solo Spotswood,
Maggie e Nannie».
«Fannie è morta?» Fannie era la terza
figlia dei Garland ed era stata molto
legata alla madre di Elizabeth, che le
aveva fatto da bambinaia. «E povero
Hugh! Portate notizie tristi oltre che
liete». Pensò a Nannie, della quale si
era occupata lei personalmente. Aveva
condiviso il letto di Elizabeth, ed
Elizabeth l’aveva accudita come se
fosse stata sua figlia. «Non riesco a
crederci. Era solo una bambina l’ultima
volta che l’ho vista».
«Sì, Nannie è sposata con un
gentiluomo. Il generale Meem appartiene
a una delle migliori famiglie della
Virginia. Ora vivono a Rude’s Hill,
dopo Winchester, nella Shenandoah
Valley. Desiderano tutti vedervi».
«Sarei felice di andare a trovarli»
dichiarò Elizabeth. «Miss Bettie, non
riesco a credere che siate la moglie del
generale Longstreet. Pensate, in questo
momento sedete proprio sulla sedia e
nella stanza dove è venuta spesso Mrs
Lincoln!»
«È stato un grosso cambiamento,
Lizzie» ammise con un sorriso amaro.
«Non si sa mai cosa porti il domani.
Dopo aver combattuto tanto a lungo
contro gli yankee, oggi mio marito è a
Washington a chiedere perdono, e a
proporre di vivere in pace con gli Stati
Uniti».
Elizabeth era molto felice di saperlo.
Aveva molte domande sui vecchi
amici, e il tempo passò veloce, ma
presto la visita di Mrs Longstreet giunse
al termine. Prima di andarsene diede a
Elizabeth l’indirizzo dei Garland, e
l’indomani la sarta scrisse loro,
raccontando della sua vita a Washington
ed esprimendo la speranza di vederli
presto.
Quando raccontò a Virginia e a Emma
della visita di Mrs Longstreet e delle
lettere che aveva spedito a Miss Anne e
alle sue figlie, Emma scosse il capo
incredula, accigliandosi. «Non capisco
perché ti manchino tanto. Io non vorrei
vedere mai più i miei padroni, uomini o
donne».
«Non provo il desiderio di rivedere
tutti i miei padroni» le fece notare
Elizabeth. «Alcuni di loro non riesco a
perdonarli. Ma capisco come ti senti,
Emma. La separazione dai tuoi ultimi
padroni
è
stato
un
momento
particolarmente
doloroso.
Non
avrebbero mai dovuto rifiutare di
adeguarsi alle ultime volontà della
vostra proprietaria, e se li avete
trascinati in tribunale la colpa è solo
loro. Io me la sono comprata, la libertà.
Forse la differenza sta lì».
«Spero che non rimarrai delusa,
Elizabeth» disse Virginia, prendendo
un’aria preoccupata. «Ho paura che la
tua vecchia padrona e le sue figlie ti
abbiano dimenticata. Sono tutte uguali,
troppo egoiste per pensare a te, ora che
non sei più la loro schiava».
«Forse» concesse la sarta, «ma
voglio crederci. In fin dei conti, hanno
chiesto a Miss Bettie di prendere mie
notizie. Non conoscete bene quanto me
la gente del Sud. Pur in un rapporto di
padrone e schiava, eravamo legati da
affetto sincero».
Virginia ed Emma si scambiarono
uno sguardo dubbioso, ed Elizabeth
sospettava che avrebbero potuto
dibattere sull’argomento all’infinito
senza che le sue amiche capissero il suo
punto di vista. «Hai idee strane,
Elizabeth» osservò Emma scuotendo il
capo.
Di tutte le sue conoscenze, solo Mrs
Lincoln
sembrava
comprendere
quell’affetto duraturo. «Ma certo che i
Garland non vi hanno dimenticato»
scrisse a Elizabeth dopo che la sarta le
ebbe raccontato della visita di Mrs
Longstreet. «Io non ho mai scordato la
mia amata Sally, e quanto si sia occupata
di me quando ero piccola. Non intendo
parlare male di mia madre affermando
che fu Sally a crescermi. Dopo la morte
di mia madre, non so cos’avrei fatto
senza di lei, perché la nuova moglie di
mio padre considerava noi figli acquisiti
come un peso, e si occupava
esclusivamente della propria prole. No,
Elizabeth,
non
possono
avervi
dimenticato».
Rincuorata,
la
sarta
aspettò
ansiosamente una risposta alle sue
lettere, e non dovette attendere molto. Si
sentì felice ricevendo la prima di molte
e lunghe missive che le giunsero da
parte di vari membri della famiglia, tutte
traboccanti d’affetto. Per mesi si
scambiarono lettere, e l’inverno
seguente Miss Nannie – ora moglie del
generale Meem – le scrisse dicendo che
lei e il marito sarebbero stati molto
contenti di ospitarla l’estate successiva.
«Dovete venire da me, cara Elizabeth»
la implorava Nannie. «Muoio dalla
voglia di vedervi. Ora viviamo a Rude’s
Hill. Ma, Maggie, Spot e Minnie, la
figlia di mia sorella Mary, sono con me.
Mancate solo voi per chiudere il
cerchio. Venite, non accetterò una
risposta negativa».
Elizabeth fu felice di accettare, e
dopo essersi consultata con Emma e
aver calcolato lo stato degli ordini nei
mesi a venire, rispose a Nannie
dicendole che sarebbe andata da loro in
agosto.
Mrs Lincoln era felice per lei, ma
delusa per il fatto che qualcun altro si
apprestasse a godere della compagnia
dell’amica. Nel corso dell’autunno
aveva tentato di vendere alcuni gioielli e
vari oggetti preziosi, e di restituirne altri
nei negozi dove erano stati acquistati,
ma era stato tutto inutile. Poco prima di
Natale, il Congresso la informò che non
le avrebbe elargito tutto lo stipendio del
secondo mandato del defunto marito,
come lei aveva chiesto, ma solo il
salario di un anno, che dopo le
deduzioni ammontava a poco più di
ventiduemila dollari, una piccola
frazione dei suoi debiti. Più tardi,
quell’inverno, il Congresso accordò al
presidente Johnson settantacinquemila
dollari per arredare la Casa Bianca, e
sul World, giornale di New York,
apparvero critiche umilianti nei
confronti di Mrs Lincoln che, si diceva,
si era lasciata dietro una villa svaligiata
e una montagna di debiti presso molti
negozianti della città. Mr Herndon,
intanto, era riuscito ad accumulare
lettere, interviste e dichiarazioni da
persone che avevano conosciuto il
presidente Lincoln – alcune bene, altre
quasi per niente – e stava tenendo
conferenze basate sul materiale raccolto,
che sperava di pubblicare in forma di
libro. Confidando ancora di riuscire a
intervistare la vedova Lincoln, aveva
mandato la sua richiesta a Robert, ma lui
e la madre erano rimasti perplessi di
fronte alla formulazione: «Intendo
renderle
completamente
giustizia,
affinché il mondo comprenda meglio la
situazione. Voi mi capite». Mrs Lincoln
non capiva nulla, invece, confessò
agitata a Elizabeth. «Ha un tono
minaccioso che non mi piace per niente.
Eppure, forse dovrò risolvermi a
parlargli. Se non gli racconto la mia
verità, potrebbe inventarsi qualcosa da
solo».
Ancora peggiori erano stati gli
anniversari che evocavano tristi ricordi
per la vedova: 4 novembre, primo
anniversario di nozze senza suo marito;
13 dicembre, il suo quarantasettesimo
compleanno; 21 dicembre, compleanno
di Willie; 1° gennaio, che segnava
l’inizio di un nuovo anno senza le
persone care di cui piangeva la morte;
1° febbraio, data della morte del figlio
Eddie; 12 febbraio, compleanno di
Abraham
Lincoln.
Tutte
queste
ricorrenze dolorose erano solo la
preparazione per il giorno peggiore di
tutti, quello più straziante: il 15 aprile,
data dell’assassinio del marito. Soffrì
molto anche il 30 marzo, Venerdì Santo,
perché il presidente era stato assassinato
proprio la sera del Venerdì Santo. «Sono
desolata e non penso che riuscirò a
superare questa giornata senza avervi al
mio fianco» scrisse a Elizabeth mentre
la fine di marzo si avvicinava. Ricordò
alla sarta la promessa fatta al momento
della partenza da Chicago: se il
Congresso le avesse accordato una
pensione in quanto vedova, l’amica
sarebbe
tornata
e
l’avrebbe
accompagnata a Springfield a visitare la
tomba del marito per l’anniversario
della sua morte. Il denaro non le fu
accordato, quindi Elizabeth non poté
andare. La vedova fece il pellegrinaggio
con Tad, organizzando il viaggio a orari
strani e lungo strade secondarie per
evitare di imbattersi in vecchi amici.
Elizabeth non poté andare in Illinois
quella primavera, ma andò in Virginia
d’estate. Il 10 agosto, il quarto
anniversario della morte di suo figlio
George, salì a bordo del treno diretto ad
Harpers Ferry, ansiosa di ritrovare la
famiglia Garland. Il viaggio non fu privo
di inconvenienti. Il treno arrivò ad
Harpers Ferry di notte; Elizabeth
dormiva quando entrò in stazione, si
ritrovò alla fermata successiva e dovette
aspettare un altro treno che la riportasse
indietro. A quel punto avrebbe dovuto
prendere la coincidenza per Winchester,
ma l’aveva persa e dovette aspettare un
altro giorno. Giunta infine a Winchester,
scoprì che l’unico modo per arrivare a
Rude’s Hill era prendere una serie di
diligenze. Il tragitto iniziò di sera e
sarebbe durato tutta notte, ma la sarta
era così stanca che faticava a tenere gli
occhi aperti. Un giovane gentiluomo a
bordo della stessa diligenza disse a
Elizabeth che conosceva bene il
generale Meem e che le avrebbe
indicato il punto dove scendere.
Rassicurata, la donna si abbandonò al
sonno.
«Signora». Qualcuno la stava
scuotendo. «Signora, non dovevate
scendere a Rude’s Hill?»
«Sì». Si rizzò a sedere strofinandosi
gli occhi. «Siamo arrivati?»
Mentre parlava, le cadde lo sguardo
sul giovane che aveva promesso di
svegliarla, e scoprì che stava russando
piano.
«A dire il vero» rispose l’uomo che
l’aveva destata, «l’abbiamo passata da
un po’».
«Passata?»
«Sì, dieci chilometri fa. Non avreste
dovuto dormire tanto profondamente,
signora».
«Perché non me l’avete detto prima?»
chiese lei risentita. «Ho fretta di
arrivare».
«Me lo sono dimenticato» rispose lui
con un’alzata di spalle. «Ma non c’è
problema. Scendete in questo villaggio e
troverete un mezzo per tornare indietro».
Elizabeth non aveva scelta e dovette
fare così. La cittadina, New Market, era
in uno stato di triste abbandono, che
tradiva la distruzione operata dalla
guerra. Dopo essere scesa e avere
recuperato la sua borsa da viaggio,
trovò un albergo, poco più che una casa,
dove poté prendere un caffè e fare mente
locale. Quando si informò su come
arrivare a Rude’s Hill, il proprietario le
disse che la diligenza sarebbe tornata
quella sera.
«Questa sera?» Si sentì in preda allo
sconforto. Era solo l’alba. «Voglio
andarmene il prima possibile. Morirò,
se mi tocca restare tutto il giorno in
questo posto desolato».
Non intendeva insultare i residenti
del borgo, ma fortunatamente ben pochi
di loro erano presenti e poterono sentire.
Il proprietario alzò le spalle dicendo di
non poter fare nulla per lei, così
Elizabeth si preparò a una lunga attesa,
profondamente delusa.
Era lì da poco, a sorseggiare il caffè
ormai quasi freddo, quando il nero
dietro il banco le si avvicinò. «Mi
dispiace per l’inconveniente, signora».
Riuscì a fargli un debole sorriso.
«Molto gentile da parte vostra».
«Conosco la proprietà del generale
Meem. Posso accompagnarvici tra
un’ora circa».
Elizabeth colse l’occasione al volo.
«Davvero? È la migliore notizia che
abbia avuto da diversi giorni a questa
parte».
L’uomo le assicurò che sarebbe stato
un piacere, e lei lo ringraziò e lo pregò
di partire il prima possibile.
Finì il caffè e attese fuori dalla porta
dell’hotel
che
il
generoso
accompagnatore andasse a prendere il
carro. Mentre aspettava, lottando per
nascondere l’impazienza, una donna
anziana e corpulenta la vide dall’altro
lato della strada e si avvicinò
arrancando per salutarla. «Non siete
Elizabeth?»
«Sì, sono io» rispose, stupita che la
sconosciuta sapesse il suo nome.
«Come pensavo». La donna sorrise,
mostrando che le mancavano diversi
denti. «Vi aspettano da due settimane, a
Rude’s Hill, e non parlano che di voi.
Mrs Meem era in città ieri, e diceva che
sareste arrivata certamente questa
settimana. Saranno felici di vedervi».
A quelle notizie Elizabeth si
rincuorò. «E io sarò ancora più lieta di
vedere loro».
«Questo non lo so» ribatté la donna
con un riso chioccio. «Hanno tenuto
acceso un lume alla finestra davanti per
dieci notti, in modo che vedeste
facilmente la casa se foste arrivata di
notte».
«Grazie!»
esclamò
la
sarta,
sentendosi molto meglio. «Fa piacere
sapere di essere attesi. Mi sono
addormentata nella diligenza e non ho
visto la luce, e così mi trovo qui invece
che a Rude’s Hill, dove dovrei essere».
Mentre la donna ridacchiava
solidale, l’uomo dell’hotel giunse con il
carro. Elizabeth salì a bordo e
imboccarono la strada verso la
residenza di campagna del generale
Meem. «Ecco Rude’s Hill» annunciò
l’uomo, indicando con un cenno
un’altura verde circondata dagli alberi.
La sarta si schermò gli occhi con la
mano mentre risalivano lungo il pendio,
ansiosa di vedere al più presto le sue
vecchie conoscenze. Scorse un ragazzo
nel cortile davanti alla residenza, fece
un rapido calcolo e capì che doveva
essere Spotswood, o Spot, come lo
chiamavano tutti. Non lo vedeva da otto
anni, ma quando gli fece un cenno lui
cacciò un grido di gioia e si avvicinò di
corsa. Il suo urlo esultante attirò
l’attenzione del resto della famiglia, che
si trovava in attesa dinanzi alla finestra
o sulla veranda ma che si precipitò
subito verso il carro. «È Elizabeth! È
Elizabeth!» li udì gridare felici, e
ansiosa di riunirsi a loro fece un passo e
raggiunse la cima della scaletta. Quando
volle saltare, però, il cerchio della
sottogonna si impigliò in uno dei pioli e
lei rovinò a terra.
«Elizabeth!» esclamò qualcuno. Le
bruciavano i palmi delle mani e il
ginocchio le doleva per il colpo subito,
così rimase lì qualche istante, un po’
stordita, assorbendo l’odore della terra
fresca della Virginia con un lieve
sentore pungente di letame.
Spot la raggiunse per primo e la aiutò
ad alzarsi, e un attimo dopo la sarta si
trovò fra le braccia di Nannie, Maggie e
Mrs Garland. Non ebbe quasi il tempo
di ringraziare in modo adeguato il suo
accompagnatore perché la trascinarono
in casa, si occuparono di pulirle le mani
e la gonna sporca, e la fecero sedere in
poltrona davanti al focolare. Nel
frattempo i domestici stavano a guardare
allibiti.
Nannie, con un’espressione felice, le
si aggrappò alla mano come se non
volesse più lasciarla andare. «Elizabeth,
non siete cambiata neanche un po’»
dichiarò baciandola ancora una volta
sulla guancia, gli occhi colmi di lacrime
di felicità. «Sembrate giovane come
quando ve ne siete andata da Saint
Louis, anni fa».
«Non posso dire lo stesso di voi»
replicò Elizabeth ridendo, «perché siete
cresciuta parecchio!»
Nannie sorrise orgogliosa e fece un
cenno a una donna alta e aggraziata.
«Elizabeth, questa è Minnie, Minnie
Pappan, la figlia di mia sorella Mary.
Avete visto com’è diventata grande?»
«Minnie!»
esclamò
Elizabeth
tendendo la mano alla donna, che
sorrise, gliela strinse e si sedette su uno
sgabello. «Non riesco a crederci.
Eravate neonata l’ultima volta che vi ho
visto. Mi fa sentire vecchia vedere come
siete cresciuta. Miss Minnie, voi siete
più alta di vostra madre, la vostra cara
mamma che ho tenuto tra le braccia
quando è morta». La sarta dovette tacere
qualche
istante
per
ricomporsi,
asciugandosi una lacrima.
«Avete fatto colazione, Elizabeth?»
chiese Mrs Garland.
Quando Elizabeth scosse il capo i
figli risposero in coro che bisognava
rimediare subito. «Non è necessario che
ci andiate tutti» protestò Mrs Garland
ridendo, quando Nannie, Maggie e
Minnie si precipitarono in cucina. «C’è
la cuoca, preparerà lei da mangiare».
Ma le tre giovani non le diedero
retta. Corsero in cucina e poco dopo
tornarono portando un vassoio con una
colazione calda per la loro ospite.
Mentre Elizabeth mangiava, la cuoca
osservava tutto quel pandemonio dalla
soglia, allibita. «Non ho mai visto nulla
del genere» dichiarò. «Se me ne andassi
per due o tre anni, mi riempireste allo
stesso modo di baci e abbracci al mio
ritorno?» Le Garland la presero in giro
ridendo e dicendo che avevano troppo
bisogno di lei per permetterle anche
solo di provarci.
Poco dopo colazione arrivò il marito
di Miss Nannie. «Elizabeth, sono molto
lieto di conoscervi» la salutò. «Ho
l’impressione che siate una vecchia
amica, perché mia moglie parla sempre
tanto di voi».
«Anch’io» intervenne Maggie.
Il generale Meem sorrise. «Sì, anche
tu, e tua madre. Benvenuta a Rude’s Hill,
Elizabeth».
Nei giorni seguenti l’ospite apprese
che durante la guerra il generale
Stonewall Jackson aveva usato Rude’s
Hill come quartier generale, e aveva
dormito nella stanza che era stata
assegnata a Elizabeth come salotto
privato. Il generale Jackson incarnava
l’ideale sudista di soldato, e gli
ammiratori venivano da ogni dove per
rendere omaggio al loro eroe caduto e
per visitare i luoghi dove aveva vissuto.
Elizabeth osservò che quasi ogni
visitatore staccava una scheggia dai
muri o dalle finestre del suo salotto, che
si portava via come reliquia di valore
inestimabile. La piantagione dei Garland
era bella, ma le cicatrici lasciate dalla
guerra erano visibili dappertutto, in casa
e nel paesaggio. Il generale Meem aveva
cominciato a piantare diverse specie
vegetali, e impiegava molti braccianti
nei campi e servitori in casa.
La sarta scoprì di essere diventata
oggetto di grande curiosità nei dintorni.
La sua associazione con il presidente
Lincoln, l’attaccamento ai Garland, i
suoi ex proprietari, la facevano apparire
come l’eroina tragica di un romanzo
sentimentale. Elizabeth trovava che
fosse stupido, ma non si lamentava. Si
trovava bene a Rude’s Hill e i Garland
la
coprivano
di
attenzioni.
Trascorrevano la giornata cucendo
insieme o parlando dei vecchi tempi, e
ogni giorno facevano gite in carrozza o a
cavallo.
Elizabeth e Mrs Garland – che per lei
sarebbe sempre stata Miss Anne –
ebbero molte conversazioni a tu per tu.
Per la prima volta Elizabeth osservò
bene il viso della sua padrona di un
tempo e scoprì lineamenti simili ai suoi.
Si chiese se le lunghe occhiate
silenziose che le rivolgeva spesso Miss
Anne
giungessero
alla
stessa
conclusione. Avevano solo otto anni di
differenza, erano figlie dello stesso
padre ma le loro vite non avrebbero
potuto essere più diverse.
Una volta, mentre passeggiavano nel
nuovo giardino fiorito che Miss Anne
aveva appena cominciato a coltivare,
Elizabeth le chiese che fine avesse fatto
zia Charlotte, l’unica sorella di sua
madre. Era stata la cameriera di Mrs
Burwell, la madre di Anne.
«È morta, Lizzie» rispose Anne
dolcemente. «Diversi anni fa». Sospirò
e sembrò tornare al passato con lo
sguardo. «Una serva, allora, era ben
diversa da una serva ai nostri tempi.
Vostra zia puliva il pavimento e
mungeva le mucche di tanto in tanto,
oltre a sottostare agli ordini di mia
madre».
«Me lo ricordo» disse Elizabeth,
avanzando con le mani dietro la schiena.
Pensava di conoscere meglio della sua
ex padrona le mansioni svolte dalla zia.
«Mia madre era severa con gli
schiavi, sotto certi punti di vista, però
aveva anche il cuore pieno di bontà».
Elizabeth rifletté sulle sue parole.
«Pare anche a me».
«Un giorno punì vostra zia...»
«Per quale motivo?»
«Non ricordo cosa avesse o non
avesse fatto» ammise Miss Anne, «ma
mia madre la punì. Poi però, stanca
delle sue occhiate meste, le fece due
promesse molto generose, a condizione
che ritrovasse il buonumore e non le
tenesse il broncio».
Dentro di sé, Elizabeth si esaltò per
la cocciutaggine della zia. «Cosa
promise?»
«Primo, che Charlotte sarebbe potuta
andare a messa la domenica successiva,
e secondo che mia madre le avrebbe
regalato per quell’occasione il suo abito
di seta».
«Davvero
generosa»
osservò
Elizabeth. «Mia zia accettò, immagino».
«Oh, certo. Mia madre possedeva un
solo abito di seta, perché allora quella
stoffa era difficile da trovare, eppure lo
diede alla sua serva per fare la pace».
Miss
Anne
scoppiò
a
ridere
compiaciuta.
«L’idea di vostra madre funzionò?»
chiese l’ospite. «Tornarono a essere
amiche?»
«Oh, sì, l’idea funzionò, e
fortunatamente per mia madre. Due
settimane dopo fu invitata a passare la
giornata a casa di una vicina, ma quando
ispezionò il guardaroba scoprì di non
avere nulla da mettere».
Elizabeth sentì un sorriso che le
spuntava sulle labbra. «Davvero?»
Miss Anne annuì divertita. «Aveva
una sola alternativa: affidarsi alla
generosità di vostra zia Charlotte.
Quest’ultima fu convocata, le fu spiegato
il problema e la serva propose di
prestare l’abito di seta alla sua padrona,
che fu ben felice di accettare. Mia madre
si presentò quindi indossando l’abito di
seta che la sua serva aveva messo in
chiesa la domenica precedente».
Risero insieme dell’episodio, anche
se forse non per le stesse ragioni.
«Elizabeth...» cominciò Miss Anne
ma poi si interruppe, e camminarono per
un po’ in silenzio prima di riprendere il
discorso. «Per tutta la guerra ho pensato
a voi ogni giorno, e desideravo tanto
rivedervi. Quando ho saputo che eravate
con Mrs Lincoln, tutti mi dicevano che
ero sciocca a pensare che vi avrei
rivisto, perché quell’ambiente doveva
avervi dato alla testa».
«E naturalmente avrete creduto a
loro» disse Elizabeth in tono leggero,
«perché chi non mi ha mai incontrato sa
giudicarmi con saggezza».
«Certo che no» protestò Miss Anne.
«Vi conoscevo bene, e non potevo
credere che ci avreste dimenticato. Ho
continuato a pensare che un giorno
sareste venuta a trovarci».
«Come potevo dimenticare le
persone con cui sono cresciuta da
quando ero neonata?» chiese lei. «I miei
amici del Nord mi ripetevano che mi
avreste scordato, ma io sostenevo che
avessero torto e non ho mai perso le
speranze».
«L’affetto è troppo forte per essere
spazzato via come una ragnatela»
sentenziò Miss Anne. «La catena è tanto
forte da legarci anche nell’aldilà». A un
tratto si arrestò e posò una mano sul
braccio della compagna per indurla a
fermarsi. «Elizabeth!» esclamò agitata.
«Avete qualcosa da rimproverarmi?»
La sarta scelse con cura le parole.
«Per essere sincera, Miss Anne, una
sola cosa: che non mi abbiate permesso
di istruirmi come avrei tanto desiderato.
Tutto ciò che so, l’ho imparato da
adulta».
La sua ex padrona strinse le labbra e
annuì. «Avete ragione» ammise contrita.
«Allora non ragionavo come adesso. Ho
sempre rimpianto di non avervi dato
un’educazione quando eravate ragazza».
Tacque, poi fece un sorriso fiacco. «Ma
non ne avete risentito troppo, perché in
fondo ve la siete cavata meglio di noi
che abbiamo ricevuto un’ottima
istruzione».
Elizabeth non la contraddisse. Miss
Anne era vedova e dipendeva dalla
generosità del cognato, mentre lei, pur
essendo vedova, era indipendente e
autonoma, un’imprenditrice di successo.
Aveva vissuto a stretto contatto con i
Lincoln, aveva frequentato la Casa
Bianca e, a eccezione della morte del
figlio, non aveva sofferto per la guerra
come i Garland, i Meem e i Pappan.
Non avrebbe mai voluto scambiare la
sua vita con quella della padrona di un
tempo, si disse, nonostante i privilegi e i
vantaggi di cui godeva Miss Anne. Era
orgogliosa di tutto ciò che era riuscita a
fare basandosi sulle sue sole forze, ed
era orgogliosa della donna che era
diventata.
Elizabeth rimase a Rude’s Hill per
cinque settimane, e si accomiatò da Miss
Anne e dai suoi figli nella speranza,
condivisa da tutti, di rivedersi un giorno.
3.
Riferimento a un discorso tenuto in
Tennessee dal presidente Johnson in cui la folla
di neri inneggiava a lui come al nuovo Mosè
(N.d.T.).
15.
Ottobre 1866 - febbraio 1868
Di ritorno a Washington, Elizabeth
aveva molte faccende da sbrigare e
parecchia corrispondenza da evadere.
Gran parte delle lettere venivano da Mrs
Lincoln, che era sola e depressa più che
mai. Durante l’estate la vita nella
pensione le era venuta a noia a tal punto
che aveva speso quasi tutto ciò che
restava dello stipendio del 1865 del
marito, accordatole dal Congresso, per
acquistare una lussuosa dimora di pietra
in West Washington Street. Si era
insediata in quel quartiere molto in voga
vicino a Union Park insieme a Tad,
mentre Robert si era trasferito in un
appartamento per conto suo, dove era
senz’altro più sereno.
Dopo lunghe riflessioni aveva infine
accettato, pur con molte riserve, di
parlare con Mr Herndon, ma quando si
erano incontrati a Springfield in
settembre aveva cercato, con moine e
adulazione, di convincere l’aspirante
biografo del marito a non parlare di lei
nel suo libro. «Gli ho detto che non era
raro alludere all’esistenza di una
moglie, nella biografia del marito,
menzionando semplicemente il luogo e
la data del matrimonio» scrisse a
Elizabeth. «Vorrei che non dicesse nulla
di me, ma spero che si limiterà a quello.
Non so se le mie preghiere l’hanno
convinto. Gli sono antipatica fin da
quando ci conoscemmo a un ballo in
casa del colonnello Robert Allen, poco
dopo il mio arrivo a Springfield. Mi
chiese di ballare, e mi disse che avevo
danzato con la grazia di un serpente. Di
un serpente, Elizabeth! Gli risposi,
offesa: “Mr Herndon, il paragone con un
serpente non è dei più felici, soprattutto
riferito a una nuova arrivata” e me ne
andai. Credo che da allora ce l’abbia
con me, ma siccome era il socio di mio
marito capitava spesso che ci
vedessimo, e le nostre relazioni erano
civili, se non amichevoli. Posso solo
contare sull’affetto che lo lega alla
memoria del mio congiunto, sperando
che non sfoghi il suo risentimento nei
miei confronti. Credo che abbia
intenzione di dipingere un ritratto
lusinghiero di mio marito, e in questo
caso è mio dovere di vedova
condividere con lui i miei ricordi, che
sono più intimi di quelli di chiunque
altro».
Elizabeth ricevette la lettera troppo
tardi per rispondere consigliando di
rinunciare all’intervista, ma si consolò
dicendo che sarebbe stato probabilmente
inutile. Mrs Lincoln avrebbe potuto
ignorare i suoi avvertimenti, oppure
Herndon avrebbe potuto scrivere ciò che
più gli aggradava senza neanche
consultarsi con la vedova. La sarta
sperava che, qualunque cosa avesse
deciso di fare il biografo, le sue
iniziative non avrebbero destato
l’interesse del pubblico e che nessuno
ne avrebbe parlato. Ma rimase delusa. In
novembre Herndon tenne un’altra
conferenza,
diffondendone
precedentemente il contenuto tramite
volantini. I dettagli furono pubblicati su
tutti i giornali. Nella sua relazione il
perfido Mr Herndon affermava che
Lincoln non aveva mai amato la moglie,
ma che spasimava invece per Ann
Rutledge, alla quale era stato fidanzato
fino alla morte prematura della
fanciulla, nel 1835. Dopo di lei, non
aveva più provato amore e neppure
affetto per un’altra donna. Aveva perfino
firmato le lettere a Mary Todd
scrivendo: «Il vostro amico Abraham
Lincoln», e alla fine l’aveva sposata
solo per dovere. Mary Lincoln, quindi,
non aveva colpa per i problemi, noti a
tutti, del loro matrimonio, giacché il
marito non l’aveva mai amata.
Quando Elizabeth lesse quelle
dichiarazioni scandalose provò grande
compassione per la sua amica. Se
Herndon aveva avuto l’intenzione di
ferire la vedova in lutto, non avrebbe
potuto scegliere tattica migliore. Nel
primo anniversario della morte del
marito, Mrs Lincoln aveva scritto alla
sarta: «Era sempre una musica per le
mie orecchie, prima e dopo il
matrimonio, sentirgli dire che ero
l’unica a cui pensava, l’unica a cui
voleva bene. Questo mi sarà di
consolazione fino alla morte». E ora Mr
Herndon le aveva portato via anche
quella consolazione. E su che basi
discutibili. Forse l’oratore era restato al
fianco di Lincoln giorno e notte, anno
dopo anno, per poter confermare con
certezza che l’unica destinataria del suo
amore e del suo affetto era stata Ann
Rutledge? Aveva letto ogni lettera scritta
da Lincoln a sua moglie, aveva udito
ogni parola che lei gli aveva dedicato?
Elizabeth non poteva tenere il conto di
tutte le frasi dolci e affettuose che aveva
sentito dire dal presidente alla moglie
nel corso degli anni. Era vero che di
tanto in tanto avevano litigato, ma questo
accadeva a ogni coppia di sua
conoscenza, e per quanto ci fossero stati
momenti di irritazione e tensione
estrema tra di loro, entrambi avevano
sempre avuto fretta di riappacificarsi.
Non fu di grande consolazione per la
sarta – e di nessuna consolazione per
Mrs Lincoln, come apprese nelle sue
lettere – che Mr Herndon fosse stato
aspramente criticato dopo le sue
conferenze. Il pubblico era scandalizzato
e indignato per quella violazione di ogni
forma di decoro, che toccava dettagli
tanto intimi della vita del presidente
assassinato, e molti erano certi che
quella Miss Rutledge fosse solo frutto
della sua immaginazione. Robert
Lincoln, furioso, prese tutte le misure
necessarie per screditare e mettere a
tacere
l’aspirante
biografo,
avvertendolo che l’argomento della
famiglia Lincoln era assolutamente da
evitare nel suo manoscritto in fase di
redazione. Il pastore dei Lincoln dei
tempi di Springfield, James Smith,
scrisse una replica feroce, indirizzata a
Mr Herndon ma pubblicata da molti
giornali, incluso il Chicago Tribune,
che passò anche per le mani di Mrs
Lincoln. Il pastore aveva letto il testo
della conferenza di Herndon «con
sentimenti di indignazione e insieme di
dispiacere, perché venendo da un suo
amico intimo ed ex socio intendeva
arrecare danni terribili all’immagine di
quell’uomo bravo e onesto, ferire
profondamente i sentimenti della sua
vedova inconsolabile e dei suoi figli
orfani, e mettere in pessima luce, agli
occhi del pubblico, tutti i componenti
della famiglia, vivi e morti, e le
relazioni tra loro». Proseguì dichiarando
con grande enfasi che nessuno poteva
affermare di conoscere il cuore del
presidente Lincoln meglio del suo
pastore, stimato e rispettato dai
familiari, incaricato della salvezza delle
loro anime, ottimo conoscitore delle
gioie e dei dolori della loro esistenza,
prezioso per i suoi consigli e la guida
che forniva. «Durante i sette anni in cui
abitavamo a Springfield» scrisse «era
raro che passassero due settimane senza
che trascorressi una serata piacevole in
loro compagnia». L’intimità del pastore
Smith con la famiglia Lincoln gli dava la
certezza che il presidente fosse
«assolutamente incapace di privare la
sposa che conduceva all’altare di ciò
che le spettava, donandole un cuore
ormai morto e sepolto nella tomba di
un’altra; con tutta la sincerità di cui era
capace il suo animo, invece, le diede un
cuore traboccante di amore e affetto».
Era certo che Abraham Lincoln «fosse
nei confronti di sua moglie un marito
fedele, amorevole e affettuoso».
La vedova Lincoln dovette trarre una
certa soddisfazione e sentirsi vendicata
quando la guida spirituale del marito
confermò l’amore di quest’ultimo nei
suoi confronti, ma le illazioni di
Herndon le avevano comunque inflitto
un colpo durissimo. «Ogni giorno che
passa mi convinco che si tratta di un
terribile incubo» si disperò per iscritto
con Elizabeth. «Nel mio stato
confusionale mi capita di pensare che il
mio amatissimo marito finirà per tornare
dai suoi cari che lo piangono. So che
non accadrà mai in questo mondo, e se
non fosse per Tad non tarderei a
raggiungerlo nell’aldilà».
Nelle prime settimane del 1867 le
lettere di Mrs Lincoln alludevano spesso
al terrore di non potersi più permettere
la casa di West Washington Street, di
dover cercare un alloggio meno costoso
per sé e Tad, affittare la casa e vivere
grazie a quella rendita. In marzo scrisse
di nuovo, confessando che tale paura era
diventata una certezza. Aveva lottato fin
troppo a lungo per mantenere le
apparenze, ma alla fine aveva dovuto
sbarazzarsi di quella maschera perché le
sue scarse entrate non le bastavano. «Ho
molti effetti personali costosi che non
userò più» scrisse. «Tanto vale che li
trasformi in denaro, per aumentare le
mie rendite e facilitare le nostre
condizioni di vita. È umiliante trovarsi
in questa situazione, ma siccome mi ci
trovo devo destreggiarmi meglio che
posso. Ora, Elizabeth» proseguiva,
«vorrei chiedervi un favore. Devo
assolutamente fare qualcosa per
risolvere i miei problemi, e vorrei che
mi raggiungeste a New York fra il 30
agosto e il 5 settembre prossimi per
aiutarmi a vendere parte del mio
guardaroba».
La sarta sapeva che le entrate di Mrs
Lincoln
erano
modeste,
solo
millesettecento dollari all’anno, e che la
sua collezione di abiti eleganti,
rinchiusa nei bauli fin dal momento del
trasloco da Washington, non le era più di
alcuna utilità, visto che era quasi certa
di non avere più l’occasione di
indossarli. Elizabeth decise che,
siccome la sua amica aveva fretta,
sarebbe stato prudente cercare di
venderli con discrezione, e che New
York era il posto ideale per portare a
termine quel progetto delicato.
«Perché te ne fai carico?» chiese
Emma quando Elizabeth spiegò il
motivo per cui doveva affidarle
l’attività sartoriale oppure interromperla
del tutto mentre viaggiava per conto di
Mary Lincoln. «Hai già fatto tanto per
lei, ma non ha saputo trarne nessun
vantaggio».
«Credo che le faccia piacere sapere
di poter contare su di me» ribatté la
sarta.
«Tutti
gli
altri
l’hanno
abbandonata o tradita, a eccezione dei
suoi figli. Non bisognerebbe chiedersi
perché io l’aiuti tanto, ma perché tanti
altri l’aiutino così poco». Mrs Lincoln
era
la
moglie
del
“grande
emancipatore”, il presidente martire che
aveva fatto tanto per la loro razza. Come
poteva Elizabeth rifiutarsi di fare
qualcosa per aiutarla?
Il 15 settembre ricevette una lettera
da parte della vedova Lincoln con cui le
annunciava che sarebbe arrivata a New
York la sera del 17. Chiese alla sarta di
arrivare prima e di prenotare le stanze
per entrambe al St Denis Hotel a nome
di Mrs Clarke, uno pseudonimo che
aveva usato talvolta quando viaggiava
come first lady.
Elizabeth, stupita, lesse di nuovo la
lettera per essere sicura di non avere
capito male. Non aveva mai sentito
parlare del St Denis Hotel, il che
suggeriva che non si trattava di un
alloggio prestigioso e che quindi non
sarebbe stato all’altezza delle pretese di
Mrs Lincoln. La lasciò perplessa anche
la scelta di viaggiare con un nome falso,
che l’avrebbe costretta a rinunciare alla
fiducia e al rispetto associati al suo
ruolo di ex first lady. Soprattutto, sapeva
che sarebbe stato difficile, se non
impossibile, per lei che era nera,
prenotare stanze in un hotel sconosciuto
per una persona che non era una cliente
abituale.
«Cosa le è venuto in mente?»
mormorò Elizabeth, scuotendo il capo
mentre rileggeva la lettera. Magari
avesse potuto chiederglielo! Mrs
Lincoln, invece, doveva già essere in
viaggio per New York prima di poter
ricevere una lettera a Chicago, e un
telegramma era escluso, perché avrebbe
esposto il delicato problema a tutte le
operatrici curiose con cui avesse avuto a
che
fare.
Non sapendo
come
comportarsi, non le restò che sperare
che Mrs Lincoln le facesse sapere di
aver cambiato idea. Così Elizabeth restò
a Washington, in attesa di una lettera o di
un telegramma, con l’ansia che
aumentava ogni giorno. Quando, il 18
settembre, il giorno successivo a quello
in cui la vedova sarebbe dovuta
arrivare, Elizabeth non ricevette notizie,
telegrafò subito a “Mrs Clarke” al St
Denis Hotel, facendo sapere che sarebbe
arrivata al più presto.
Prese il primo treno per New York e
arrivò in albergo, un edificio a sei piani
tra Broadway e East Eleventh Street.
Dopo
aver
suonato
all’ingresso
riservato alle signore, chiese al ragazzo
che venne ad aprire se ci fosse tra i
clienti una certa Mrs Clarke. Lui non lo
sapeva, andò a informarsi e al ritorno
confermò che Mrs Clarke era una dei
loro ospiti. «Desiderate vederla?»
domandò.
«Sì».
«Venite per di qua, allora». Fece un
gesto in una direzione vaga. «È laggiù,
adesso».
Esitando, e pensando che forse Mrs
Lincoln fosse nella lobby con qualcuno,
la sarta gli consegnò uno dei suoi
biglietti da visita. «Portatele questo, per
favore» chiese, ma proprio in quel
momento
la
vedova
apparve
nell’ingresso, attratta dal suono della
sua voce familiare.
«Mia cara Elizabeth, sono così
contenta
di
vedervi!»
esclamò
attraversando l’atrio e stringendo la
mano all’amica. «Ieri sera, quando sono
arrivata e ho visto che non c’eravate,
ero disperata».
La sarta non vedeva Mrs Lincoln da
più di due anni, e il suo viso pallido e
tirato la lasciò per un istante senza
parole. «Vi ho spedito un telegramma»
riuscì a balbettare.
«Sì, ma l’ho ricevuto solo ora. È
arrivato stamattina, ma me l’hanno dato
stasera. Venite, andiamo a informarci
sulla vostra stanza».
Condusse Elizabeth dall’impiegato
che, come tutti gli impiegati degli
alberghi più moderni, era azzimato,
profumato e troppo presuntuoso per
essere cortese. Guardò Elizabeth con
sufficienza mentre Mrs Lincoln si
avvicinava. «Questa è la signora di cui
vi ho parlato» esordì. «Voglio per lei
una buona stanza».
L’impiegato sollevò le sopracciglia.
«Non abbiamo stanze per lei, signora».
«Ma ha bisogno di una stanza. È mia
amica e voglio che abbia una camera
accanto alla mia».
«Non abbiamo posto per lei al vostro
piano» rispose brusco.
Elizabeth capì perfettamente cosa
intendeva, e lo guardò fisso, serbando un
dignitoso silenzio. Non avrebbe chiesto
di meglio che andarsene e trovarsi una
stanza in un hotel appartenente a un nero
più cortese, ma ormai faceva buio e non
osava tornare fuori, né poteva lasciare
sola Mrs Lincoln.
La vedova si accigliò. «Che strano,
signore. Vi dico che è mia amica, e sono
sicura che non potreste trovare persona
più affidabile a cui affittare una stanza».
«Amica vostra oppure no, vi ripeto
che non abbiamo stanze per lei al vostro
stesso piano». Fece una pausa e
aggiunse riluttante: «Posso trovarle un
posto al quinto piano».
«Immagino che sia anche migliore del
piano dove si trova la mia stanza»
commentò Mrs Lincoln in tono
minaccioso. «Ebbene, se lei va al quinto
piano, ci andrò anch’io. Ciò che va bene
per lei, va bene anche per me».
«Benissimo, signora». L’impiegato
fece un sospiro e controllò il registro e
le chiavi. «Volete stanze adiacenti e vi
faccio portare di sopra il bagaglio?»
«Sì, e di corsa, anche. Chiedete al
ragazzo di accompagnarci. Venite,
Elizabeth». Dopo un’ultima occhiata
sdegnata, Mrs Lincoln voltò le spalle
all’impiegato. Il ragazzo che le aveva
aperto la porta all’arrivo fece loro
strada su per le scale; salirono e
salirono, e la sarta temette che non
sarebbero mai arrivati in cima. Quando
arrivarono a destinazione, e il fattorino
aprì le porte delle loro stanze, la sarta
non avrebbe saputo dire chi restò più
interdetta. Avevano ricevuto camere
piccole,
squallide,
scarsamente
ammobiliate, nella soffitta destinata ai
servitori che puzzava di polvere, umido
e sudore. Mai in vita sua Elizabeth
avrebbe immaginato la vedova di un
presidente in un alloggio tanto umile.
«Che provocazione!» esclamò Mrs
Lincoln, lasciandosi cadere su una sedia
e ansimante dopo tutte quelle scale. «Vi
assicuro che non ho mai visto gente così
poco amabile. Pensate un po’, ci hanno
mandato in soffitta. Domani darò loro
una bella strigliata».
«Dimenticate che non vi conoscono»
le ricordò Elizabeth. «Mrs Lincoln
sarebbe trattata in modo diverso da Mrs
Clarke».
«È vero, me l’ero dimenticato.
Ebbene, dovrò sopportare i disagi».
Prese poi un’aria afflitta. «Perché non
siete venuta ieri, Elizabeth? Ero folle di
apprensione ieri sera quando sono
arrivata e ho scoperto che non eravate
qui. Mi sono messa subito a scrivervi
chiedendovi di raggiungermi. Stavo
davvero male».
«Pensavo che forse avreste cambiato
idea» ammise la sarta. «Sapevo anche
che avrei avuto grossi problemi a
prenotare delle stanze per “Mrs
Clarke”».
«Ebbene, da quello che abbiamo
visto finora posso affermare che i vostri
timori erano fondati». Poi sussultò. «Ma
non avete cenato, Elizabeth. Avrete
fame. Me l’ero quasi dimenticato, presa
com’ero dalla gioia di ritrovarvi.
Dovete andare subito a tavola».
La sarta era effettivamente affamata,
ma il pensiero di un buon pasto la
rianimò. Mrs Lincoln suonò il
campanello e, quando apparve un
cameriere, gli ordinò di servire la cena
alla sua amica. Elizabeth lo seguì da
basso, dove la condusse in sala da
pranzo e la fece sedere a un tavolo
d’angolo. Stava ordinando quando
arrivò il maître. «Siete nella sala
sbagliata» sbottò burbero.
Lei lo guardò senza scomporsi. «È
stato il cameriere a farmi accomodare
qui».
«Non importa. Vi troverò un altro
posto per cenare».
A Elizabeth brontolava lo stomaco
quando si alzò da tavola per seguirlo
fuori dalla sala da pranzo. «È molto
strano» gli fece notare piccata quando
arrivarono nell’atrio «che mi permettiate
di sedermi in sala da pranzo solo per
chiedermi di andarmene subito dopo».
Il maître si fermò e le lanciò uno
sguardo da sopra la spalla. «Non siete la
domestica di Mrs Clarke?»
«Sono con Mrs Clarke» rispose lei,
come a sottolineare la differenza.
«È uguale». Si voltò e riprese a
camminare in corridoio. «I domestici
non hanno il permesso di mangiare nella
sala da pranzo grande. Ecco, per di qui.
Dovete cenare nella sala della servitù».
Umiliata e affamata, Elizabeth seguì
il maître lungo i corridoi di servizio
dell’hotel, sapendo che solo così
avrebbe potuto mettere qualcosa sotto i
denti. Giunti alla sala riservata alla
servitù, il maître girò la maniglia solo
per scoprire che la porta era chiusa a
chiave. La lasciò in corridoio intanto
che andava a informare l’impiegato.
Qualche minuto dopo quest’ultimo
arrivò di gran carriera, preceduto da una
zaffata del suo profumo. «Venite dalla
strada o dalla stanza di Mrs Clarke?»
«Dalla stanza di Mrs Clarke» rispose
lei
educatamente,
rifiutando
di
dimostrarsi scortese quanto lui.
«L’ora di cena è finita. La sala è
chiusa, e Annie è uscita con la chiave».
Per un attimo Elizabeth sperò che le
proponesse di tornare in sala da pranzo,
ma quando non aggiunse altro l’orgoglio
le impedì di trattenersi oltre lì in
corridoio.
«Benissimo»
concluse,
avviandosi verso la scala. «Dirò a Mrs
Clarke che non sono riuscita a cenare».
L’uomo si accigliò quando lei iniziò a
salire le scale. «Non c’è bisogno di
prendersela tanto!» le gridò dietro.
«Capisco bene la situazione!»
«Non credo proprio» commentò lei
sottovoce, arrivando al primo di
innumerevoli pianerottoli. «Se capiste
davvero bene la situazione» borbottò
ansimando «non mettereste la vedova
del presidente Lincoln in una stanza tutta
sbilenca nella soffitta di questo albergo
miserabile».
Mormorare tra sé ciò che non poteva
ripetergli ad alta voce la fece sentire
ancora peggio. Quando infine giunse
nella stanza di Mrs Lincoln, aveva la
visione offuscata da lacrime di
umiliazione e frustrazione.
Vedendo la sua aria abbattuta,
l’amica si accigliò preoccupata. «Cosa
succede, Elizabeth?»
«Non sono riuscita a cenare».
«Non siete riuscita a cenare? Cosa
volete dire?»
La sarta si lasciò cadere su una sedia
e raccontò tutto quello che era successo
da quando il cameriere l’aveva
accompagnata giù. «Che insolenza! Che
persone prepotenti!» esclamò Mary
Lincoln furiosa. Afferrò i braccioli della
poltrona e si alzò di scatto. «Non temete,
Elizabeth. Avrete la vostra cena. Mettete
la cuffia e lo scialle».
«Perché?»
«Perché?» Mrs Lincoln si aggiustò la
cuffia e si mise davanti allo specchio
allacciandosi il nastro. «Perché adesso
usciamo dall’hotel e andiamo a
mangiare in un posto dove sanno
comportarsi in modo civile».
Stancamente Elizabeth obiettò: «Non
vorrete uscire di sera».
«Sì, invece. Pensate che vi farò
patire la fame, quando possiamo trovare
qualcosa da mangiare a ogni angolo di
strada?»
«Dimenticate una cosa: siete qui
come Mrs Clarke, non come Mrs
Lincoln. Siete arrivata sola, e la gente
comincia già a sospettare che ci sia sotto
qualcosa di strano. Se uscite
dall’albergo di sera, offrirete loro una
nuova prova».
«Che sciocchezza. Pensate forse che
mi interessi ciò che pensano questi
poveri selvaggi? Avanti, vestitevi».
«No, Mrs Lincoln» dichiarò con
fermezza Elizabeth, anche se il suo
stomaco protestava. «Non intendo uscire
stanotte, perché capisco bene la vostra
situazione, a differenza di voi. Mrs
Lincoln non avrebbe motivo di curarsi
di ciò che questa gente dice di lei, ma
Mrs Clarke vuole restare in incognito,
quindi deve essere più prudente».
Con qualche difficoltà riuscì infine a
convincere Mrs Lincoln a usare
maggiore prudenza. Era così spontanea e
impulsiva che non si preoccupava mai di
come avrebbero potuto essere male
interpretate le sue parole e azioni.
Elizabeth le augurò la buonanotte e andò
in camera sua, e solo quando si fu messa
a letto ed ebbe spento la luce le venne in
mente che l’amica avrebbe potuto
ordinare la cena in camera fingendo che
fosse per sé, e la sarta non avrebbe
dovuto andare a dormire affamata.
Il mattino dopo Mrs Lincoln bussò
alla porta dell’amica prima delle sei.
«Avanti, Elizabeth, alzatevi!» la chiamò.
«So che dovete avere fame. Vestitevi
alla svelta e usciamo a fare colazione.
Non sono riuscita a dormire, stanotte,
pensando al fatto che avete dovuto
coricarvi senza cena».
Anche lei aveva dormito male in quel
letto scomodo e bitorzoluto, con lo
stomaco vuoto che protestava. Si vestì in
fretta, e di lì a breve uscirono a fare
colazione in un locale su Broadway a un
isolato di distanza dal St Denis Hotel.
Poi si incamminarono per Broadway ed
entrarono in Union Square Park, dove si
sedettero su una panchina sotto gli alberi
dai vivaci colori autunnali, guardarono i
bambini che giocavano e discussero del
progetto di vendere il guardaroba di Mrs
Lincoln. Questa raccontò a Elizabeth che
il giorno prima si era recata da un
commerciante di diamanti dopo aver
visto una pubblicità sull’Herald. «Ho
cercato di vendere loro parecchi
gioielli» spiegò la vedova del
presidente. «Ho detto di chiamarmi Mrs
Clarke. Il primo uomo con cui ho parlato
è stato gentile, ma non siamo riusciti a
metterci d’accordo sul prezzo. Si è
chiuso in ufficio per parlare con un altro
signore, e proprio mentre ho concluso
che stavano confabulando per mandarmi
via, è entrato un terzo uomo nel negozio.
Ha guardato i miei gioielli – solo dopo
ho scoperto che era Mr Keyes, un socio
silenzioso dell’azienda – e ha visto il
mio nome inciso all’interno di uno degli
anelli».
«Oh, cielo!» esclamò Elizabeth.
«Mi ero dimenticata dell’incisione»
confessò Mrs Lincoln. «Quando ho visto
che fissava l’anello con tanto interesse
gliel’ho strappato di mano e me lo sono
messo in tasca».
Elizabeth soffocò una risata. «Sono
sicura che questo non ha stuzzicato per
nulla la sua curiosità».
«Non volevo restare lì per vedere la
sua reazione. Ho raccolto le mie gioie in
fretta e furia, ma a quel punto erano
molto più interessati alla mia merce,
naturalmente. Ho lasciato il mio
biglietto da visita, a nome di Mrs Clarke
che alloggia al St Denis Hotel. Devono
passare stamattina, e inizieremo a
trattare».
«Siete sicura?» chiese Elizabeth
timorosa. «Ormai devono avere capito
che siete la vedova del presidente
Lincoln».
«O la sua serva ladra».
«Non credo». La sarta proseguì: «È
saggio affidarsi a una ditta mai sentita,
che avete conosciuto solo grazie a un
annuncio sul giornale, per una faccenda
tanto delicata? Non sarebbe più
prudente chiedere consiglio a qualcuno
che conoscete, o rivolgervi a un
gioielliere con cui avete già avuto
occasione
di
effettuare
delle
transazioni?»
«Più prudente sì, ma impossibile»
replicò Mrs Lincoln. «Non potrei
chiedere consiglio agli amici o
rivolgermi ai gioiellieri preferiti senza
espormi. Anche se Mr Keyes ha capito
chi sono, il resto della città non deve
sospettare. Non potrei sopportare una
simile umiliazione».
Elizabeth si rassegnò e, dopo essersi
godute ancora un po’ il sole e la brezza
fresca, tornarono in hotel. Poco dopo il
loro arrivo giunse anche Mr Keyes; si
chiusero tutti e tre in salotto a discutere
e Mrs Lincoln confermò la sua identità.
Come Elizabeth sospettava sarebbe
successo, l’individuo ne fu entusiasta, e
ammirò a lungo scialli, abiti e pizzi
raffinati che l’ex first lady gli mostrò.
Quando gli spiegò perché era costretta a
vendere il suo guardaroba, Mr Keyes si
mostrò molto solidale e comprensivo, ed
ebbe parole dure nei confronti del
governo per la sua ingratitudine. Rimase
anche scandalizzato dal pessimo
trattamento ricevuto al St Denis, e
propose a Mrs Lincoln di trasferirsi
immediatamente in un altro hotel.
La signora accettò, e mentre si
recavano allo Union Place Hotel,
Elizabeth suggerì: «Forse all’arrivo
dovreste confidarvi con il proprietario e
dirgli il vostro vero nome, pur senza
metterlo per iscritto nei registri, in modo
che vi trattino con il dovuto rispetto».
L’amica acconsentì, pur con qualche
esitazione, ma quando giunsero in hotel
aveva già cambiato idea un’altra volta e
si presentò come Mrs Clarke. Anche
così, però, furono trattate con maggiore
cortesia, forse perché il vero nome di
Mrs Lincoln era leggibile su alcuni dei
bauli, se si guardava con attenzione, e il
personale sapeva chi fosse pur fingendo
di ignorarlo.
Dopo che ebbero preso possesso
delle nuove stanze, nei giorni successivi
ricevettero diverse visite da parte di Mr
Keyes e Mr Brady, perché c’erano
parecchi punti da discutere. Mrs Lincoln
aveva intenzione di vendere i suoi
oggetti personali e di tornare a Chicago
il più rapidamente e discretamente
possibile, ma quei signori avevano
progetti ben diversi, scoprì Elizabeth
costernata. «Affidatevi a noi» dichiarò
Mr Brady, «e vi faremo guadagnare
almeno centomila dollari nel giro di
poche settimane. La gente non
permetterà che la vedova di Abraham
Lincoln soffra. Verrà in suo aiuto quando
saprà che è in difficoltà».
Erano esattamente le rassicurazioni
che Mrs Lincoln cercava, in termini
economici ed emotivi, e così accettò di
lavorare con W.H. Brady & Co. Le
anticiparono seicento dollari per le
spese sostenute a New York, e le
assicurarono che il loro progetto, una
volta che l’avessero preparato nei
dettagli, avrebbe funzionato.
Lo Union Place Hotel era
confortevole, la sicurezza dei mediatori
rincuorante, ma anche così le due donne
erano molto timorose di farsi scoprire.
Una domenica fecero un giro in carrozza
per Central Park ma non ne trassero
nessun piacere, perché nonostante il
velo pesante che Mrs Lincoln indossava
per mascherare la propria identità non
poterono aprire i finestrini per paura di
essere riconosciute. Evitarono per un
pelo lo scontro con un’altra carrozza, e
si spaventarono molto non per gli
eventuali danni fisici che avrebbero
potuto subire, ma perché un incidente
avrebbe attratto l’attenzione e il loro
sotterfugio sarebbe stato scoperto.
A Elizabeth quelle menzogne
piacevano sempre meno ogni giorno che
passava, ma quando Mr Brady e Mr
Keyes presentarono alla vedova Lincoln
il loro progetto per la vendita degli
oggetti, cominciò a temere che
quell’idea fosse un disastro bello e
buono. Brady pensava che i repubblicani
più eminenti, che dovevano la propria
fortuna a Lincoln, sarebbero stati
disposti ad anticiparle del denaro pur di
evitare che si sapesse in giro delle
condizioni disperate in cui versava, che
la costringevano a vendere il proprio
guardaroba. Per questo chiese a Mrs
Lincoln di scrivere delle lettere
descrivendo
le
sue
difficoltà
economiche, indirizzandole a lui ma
retrodatandole, come se le avesse
vergate qualche settimana addietro,
quando era ancora a Chicago. I
mediatori le chiesero di dare a intendere
che aveva tenuto da parte lettere
compromettenti per diversi politici e
uomini d’affari che avevano tratto
vantaggio dai contratti stipulati in tempo
di guerra. Brady e Keyes avrebbero
mostrato le lettere ai signori in
questione, sperando di metterli in
imbarazzo e di costringerli così a
versarle dei soldi. Se il progetto falliva
– se la sua richiesta di aiuto, la loro
lealtà nei confronti del partito
repubblicano, e il proprio istinto di
conservazione non fossero bastati a
convincerli – Mr Brady avrebbe
minacciato di pubblicare le lettere.
A Elizabeth pareva un ricatto puro e
semplice, e non appena i due uomini se
ne andarono esortò l’amica a lasciar
perdere. «Non penso che la disonestà e
le minacce possano portare qualcosa di
buono» dichiarò. «Volevate vendere il
vostro guardaroba rapidamente e in tutta
discrezione. Ho paura invece che queste
lettere non facciano che attirare
l’attenzione su di voi».
«Sono stata ignorata fin troppo a
lungo». Mrs Lincoln si sedette al
tavolino ed estrasse penna, inchiostro e
carta. «Mr Brady e Mr Keyes sono
convinti che debba fare qualcosa per
attirare l’attenzione dei gentiluomini che
sarebbero le persone più indicate per
aiutarmi».
«Attirerete la loro attenzione, questo
è certo, ma anche l’attenzione di tutti gli
altri». Elizabeth non pensava di riuscire
a convincerla, ma ci provò comunque,
rifiutando di restare in silenzio. «Il
peggio di ciò che i giornali hanno scritto
su di voi in passato non sarà nulla
rispetto al disprezzo e alle critiche che
vi attirerete con questa storia».
«“Caro signore”» sillabò Mrs
Lincoln cominciando la prima lettera,
ignorando platealmente i consigli di
Elizabeth in un modo che a quest’ultima
parve scortese. «“Vi scrivo perché ho
letto un annuncio che dice che vendete
oggetti di valore dietro versamento di
una commissione”. Vedete, Elizabeth,
l’inizio è onesto. Non potete criticarmi
se seguo i consigli di Mr Brady quando
nulla di ciò che scrivo è falso».
«La data e il luogo». La sarta le
indicò con un cenno il foglio,
controllando ormai a stento la propria
irritazione. «Chicago, settembre 1867.
Cominciate subito con delle menzogne».
«Sono
piccoli
dettagli
senza
importanza».
La sarta soffocò un sospiro e
resistette alla tentazione di levare le
braccia in un gesto indignato. Sbirciò da
sopra la spalla dell’altra donna che
descriveva a Mr Brady il bisogno
urgente di disfarsi di doni preziosi
ricevuti da cari amici. Terminò quella
lettera e ne iniziò un’altra, datata 14
settembre, a Chicago. «Mio caro
signore» scrisse a Mr Brady. «Vi prego
di rivolgervi all’onorevole Abram
Wakeman. È in debito con me per aver
ottenuto
la
carica
estremamente
redditizia che ha conservato per diversi
anni, e che gli ha consentito di
arricchirsi parecchio. Mi aiuterà nella
situazione dolorosa e umiliante in cui mi
trovo, prossima alla povertà pura e
semplice. So che non avrà esitazioni a
ricambiare, in misura minore, i molti
favori che io e mio marito gli abbiamo
sempre accordato. Mr Wakeman mi ha
sollecitato a più riprese perché
intercedessi per lui nell’ottenimento di
cariche per sé e per altri. Sarà quindi
ben felice di aiutarmi acquistando uno o
più degli articoli che mi farete la
cortesia di mostrargli».
Lo sconcerto di Elizabeth aumentava
a ogni tratto di penna di Mrs Lincoln. Mr
Wakeman era stato membro del
Congresso e ufficiale in capo del
servizio postale di New York, e il
presidente Lincoln lo aveva nominato
ispettore del porto di New York, il ruolo
più
ambito
dell’amministrazione,
secondo solo a quello di ispettore
generale della dogana. Era anche un
politico abile e opportunista, ed
Elizabeth non credeva che si sarebbe
lasciato mettere in imbarazzo né
minacciare da un mediatore di diamanti
dall’etica discutibile.
«Vi prego, pensateci bene» esortò
l’amica. «Se insistete nello scrivere
queste lettere, esprimetevi almeno in
termini diplomatici».
«Non preoccupatevi, Elizabeth!»
esclamò la donna firmando. «Va bene
tutto, pur di sollevare un po’ di
polverone. Tanto vale chiamare le cose
col loro nome».
La sarta sospirò e non aggiunse altro,
neppure quando Mrs Lincoln cominciò
una nuova lettera scrivendo: «Affermate
che i giornalisti vi assillano con
domande sui miei oggetti depositati
presso di voi, e temete che scoprano la
verità dolorosa sul motivo per cui vi ho
affidato questi effetti personali e che se
ne
servano
per
danneggiare
politicamente il partito repubblicano».
Lei non avrebbe fatto mai nulla per
arrecare danno alla loro causa, scrisse,
«sebbene gli uomini per i quali il mio
nobile marito si adoperò tanto senza
esitazioni mi abbiano privata di ogni
mezzo di sostentamento, lasciandomi in
condizioni
pietose».
Le
frasi
intendevano instillare nel cuore di quei
signori la paura delle rivelazioni alla
stampa, oltre a suscitare in loro il senso
di colpa per le condizioni in cui versava
la vedova, ma Elizabeth era sicura che
personaggi tanto potenti non si
sarebbero abbassati a elargire qualche
soldo alla signora per scongiurare lo
scandalo. Era più probabile che
buttassero fuori dai loro uffici Mr Brady
riempiendolo di insulti.
La sua amica, però, non le dava
ascolto.
Le lettere furono scritte e consegnate
a Mr Brady e Mr Keyes, che
cominciarono subito a mostrarle agli
individui indicati da Mrs Lincoln. Poco
dopo la vedova si disse che il piano dei
due intermediari non prevedeva, in
fondo, la vendita del suo guardaroba, e
quindi decise di disfarsene in un altro
modo. Chiese a Elizabeth di prendere
appuntamento con diversi rivenditori di
abiti di seconda mano, convocandoli
allo Union Place Hotel a nome di Mrs
Clarke; ma anche se quelli si
presentarono
come
convenuto
e
sembravano interessati agli articoli, non
riuscirono a mettersi d’accordo sul
prezzo. Nonostante questo ostacolo le
due non si diedero per vinte: qualche
giorno dopo misero un fascio di abiti e
scialli in una carrozza e percorsero
Seventh Avenue, fermandosi in un
negozio dopo l’altro in cerca di
acquirenti. Scoprirono quasi subito che i
commercianti erano disposti a comprare
gli indumenti solo per pochi spiccioli e,
sebbene Mrs Lincoln fosse abile a
trattare, la sua accortezza e parlantina
non le fruttarono nulla. Scoraggiate,
tornarono in albergo con tutta la loro
roba, decise a non rinunciare.
Nel frattempo il loro strano
comportamento
aveva
attirato
l’attenzione del personale e degli altri
clienti dell’hotel, che lanciavano loro
occhiate curiose ogni volta che
passavano. I grossi bauli in cui era
conservato il guardaroba di Mary
Lincoln erano stati lasciati nell’atrio
dell’hotel invece di essere portati di
sopra, ed erano diventati oggetto di
curiosità e di congetture. Prima un
reporter, poi un altro notarono la traccia
del nome di Mrs Lincoln sul coperchio
di uno dei bauli, sebbene le lettere
fossero state cancellate. Le due donne si
sentirono sempre più a disagio sotto
quegli sguardi inquisitori e quella
pioggia di bisbigli, finché la vedova non
decise finalmente che dovevano
andarsene. Presero con loro i bagagli
meno ingombranti, fecero consegnare le
casse più grandi agli uffici di W.H.
Brady & Co. al 609 di Broadway,
pagarono il conto e scapparono subito in
campagna, dove restarono tre giorni per
far perdere le tracce ai giornalisti.
Quando tornarono in città, la sarta
suggerì alla sua compagna di alloggiare
al Metropolitan Hotel, dove era già
stata, e di affidarsi alla discrezione del
proprietario, che era sempre stato
cortese e rispettoso nei suoi confronti.
Mrs Lincoln rifiutò. Si stabilirono
invece al Brandreth House, dove la
vedova del presidente dichiarò di
chiamarsi “Mrs Morris”.
Elizabeth si era stancata dei nomi
falsi e di quella vita clandestina, ma
portò pazienza, cercando di convincersi
che avrebbe giovato alla sua ex cliente.
Con il passare delle settimane, perse le
speranze sul buon esito dell’iniziativa,
ma non provò nessuna soddisfazione
quando, come aveva previsto, Keyes e
Brady furono costretti ad ammettere che
il loro progetto era fallito. Avevano
mostrato le lettere a parecchi
repubblicani importanti, ma nessuno di
loro aveva reagito nel modo sperato. A
eccezione di alcuni abiti, venduti a
basso prezzo a rivenditori di seconda
mano, il guardaroba di Mrs Lincoln era
ancora chiuso nei bauli. I seicento
dollari che gli intermediari le avevano
anticipato erano stati spesi quasi tutti, e
quel periodo trascorso a New York non
le aveva fruttato nulla; anzi, con i
pettegolezzi che circolavano riguardo
alla misteriosa vedova nascosta dal velo
che cercava di vendere il proprio
guardaroba, sarebbe stato corretto dire
che la situazione era peggiorata da
quando era partita da Chicago.
Nella prima settimana di ottobre,
rimasta a corto di denaro e di pazienza,
accettò con riluttanza di permettere a Mr
Brady di esibire il suo guardaroba nel
loro salone da esposizione per venderlo,
dando ampio risalto al fatto che
appartenesse a lei. «Chi non era
interessato ai vestiti di Mrs Clarke sarà
ansioso di acquistare gli abiti di Mrs
Lincoln» dichiarò Brady, ma Elizabeth
non si sentiva tranquilla. Inoltre l’ex
first lady accettò che gli intermediari
pubblicassero le sue lettere sul World
newyorchese, un quotidiano democratico
ben contento di coprire di ridicolo i
repubblicani. Dopo essersi rassegnata al
nuovo progetto, scoraggiata, ansiosa e in
preda a una gran nostalgia di Tad, Mrs
Lincoln lasciò New York la stessa
mattina della pubblicazione delle lettere
sul giornale, affidando a Elizabeth il
resto dell’operazione.
Anche la sarta desiderava tornare a
casa e riprendere il lavoro. L’amica le
aveva promesso una commissione sulla
vendita del guardaroba, ma se non
avesse venduto nulla non avrebbe
guadagnato
nulla.
Non
poteva
permettersi un albergo, così trovò una
stanza in affitto in una casa, ridusse le
spese al minimo e sperò che esporre gli
abiti dell’ex first lady avrebbe suscitato
interesse e favorito le vendite.
Alla fine, ricevette solo parte di
quello che aveva sperato.
Le prime avvisaglie del disastro le
furono annunciate non dal numero 609 di
Broadway o dalla stampa, ma da Mrs
Lincoln che le scrisse poche ore dopo
essere tornata a Chicago. Sul treno si era
trovata in una situazione molto
imbarazzante: era seduta dietro due
signori che avevano appena letto le
lettere sul World e stavano parlando
delle sue difficoltà economiche. Più
tardi si era recata nel vagone ristorante
ed era stata accompagnata a un tavolo
dove sedeva nientemeno che il suo
amico di Washington, il senatore Charles
Sumner, che la riconobbe subito
nonostante il velo nero che le celava il
viso. La pietà che traspariva dalla sua
espressione era tale che capì subito che
anche lui stava pensando alle lettere e
all’esposizione del suo guardaroba; ne
fu così ferita che si inventò un’amica
malata che aveva bisogno di lei e
abbandonò il tavolo. Più tardi, quando il
senatore premuroso le portò una tazza di
tè nella sua carrozza, pianse per
l’imbarazzo. In una seconda lettera,
scritta poche ore dopo la prima, Mrs
Lincoln si lamentava: «Vi scrivo
stamattina con il cuore a pezzi dopo una
notte insonne passata a torturarmi. R è
venuto ieri sera e pareva impazzito, ha
minacciato quasi di uccidersi, ed era
devastato perché le lettere del World
sono state pubblicate sul giornale di ieri.
Non ho saputo trattenere le lacrime
quando l’ho visto tanto abbattuto».
Elizabeth impiegò qualche istante per
capire il significato di quelle parole, e
quando comprese che le lettere false
erano state pubblicate anche sui giornali
di Chicago fu colta da una specie di
vertigine. Avrebbe dovuto aspettarselo:
lo scandalo era troppo importante e
troppo interessante per restare confinato
a New York.
«Piango mentre vi scrivo» continuava
la missiva. «Prego che la morte mi colga
stamattina stessa. Solo il caro Taddie mi
impedisce di togliermi la vita». Stava
quasi perdendo la ragione, concluse, e
chiese a Elizabeth di dire a Brady e
Keyes di non far pubblicare più nulla a
suo nome.
Nelle settimane seguenti giunsero
molte altre lettere da Chicago e, sebbene
Mrs Lincoln implorasse Elizabeth di
scriverle ogni giorno, la sarta trovava a
malapena il tempo di occuparsi delle
incombenze che le erano state affidate. I
visitatori, qualcuno curioso, qualcuno
carico di disprezzo, si recarono negli
uffici di W.H. Brady & Co. per
esaminare abiti ammonticchiati su un
tavolo lungo, scialli appesi sullo
schienale delle sedie, pellicce, pizzi e
gioielli esposti in una vetrina. La
pubblicazione delle lettere aveva
effettivamente suscitato un certo
interesse, ma se molti curiosavano,
nessuno comprava. Come commentò
sprezzante un giornalista dell’Evening
Express, alcuni degli abiti «non sono
stati portati molto ma hanno l’aria
vissuta; sono strappati sotto le braccia e
lungo l’orlo della gonna, la fodera è
macchiata e hanno altri difetti». I prezzi
esosi scritti sulle etichette, continuava il
reporter, erano senz’altro stati suggeriti
dai sarti, fin troppo fieri del proprio
operato. «La particolarità degli abiti»
aggiunse «è che sono quasi tutti molto
scollati, caratteristica che alcune signore
attribuiscono all’orgoglio provato da
Mrs Lincoln per il proprio petto».
E gli articoli, su quel giornale e su
altri, andarono peggiorando. I giornalisti
e i pettegoli cominciarono a parlare
della situazione definendola «lo
scandalo degli abiti vecchi di Mary
Lincoln». I democratici
colsero
l’occasione per insultare gli avversari
affermando che le lettere del World
erano la prova che i repubblicani
avevano comprato favori dalla Casa
Bianca durante il mandato di Lincoln.
Per tutta risposta, i giornali repubblicani
denunciarono
l’operato
irruente,
indelicato e inopportuno dell’ex first
lady e fecero a gara nel rinnegarla.
«Sembra che siano stati sguinzagliati i
segugi, perché i giornali repubblicani mi
stanno facendo a pezzi qui a ovest, in
questa ruffiana città di frontiera» scrisse
Mrs Lincoln a Elizabeth il 9 ottobre. «Se
avessi commesso un omicidio in ogni
città di questa benedetta Unione, non
sarei stata più calunniata di così. E
sapete bene quanto sia innocente; non ho
agito animata da cattive intenzioni».
Elizabeth, però, non riusciva a
considerarla del tutto innocente, perché
aveva accettato di scrivere le lettere
false. Voleva convincersi che le sue
intenzioni fossero buone, ma questa
volta non ne fu in grado.
Mentre Mrs Lincoln leggeva con
apprensione i giornali, cercava di farsi
perdonare da Robert e si lagnava del
trattamento subito nelle lettere a
Elizabeth
e
ad
altre
amiche
comprensive, la sarta rimase a New
York, aiutando gli intermediari come
poteva, cercando di evitare che la
reputazione della sua amica venisse
ulteriormente infangata. Alla fine lo
scandalo si trascinò per tanto di quel
tempo, furono fatte circolare tante di
quelle notizie false che Elizabeth, dietro
suggerimento della vedova, concesse
interviste all’Herald e all’Evening
News, che parevano stare dalla loro
parte, per ristabilire la verità. Ma non
cambiò nulla. I commenti acidi non
fecero che aumentare, il guardaroba,
palpeggiato senza ritegno, rimase a
impolverarsi al 609 di Broadway, ed
Elizabeth era sfinita a forza di darsi da
fare. Cominciò a cucire per sbarcare il
lunario, ma incarichi saltuari del genere
le procuravano compensi irrisori, niente
a che vedere con ciò che aveva
guadagnato con la propria attività a
Washington. Si trasferì in una pensione
di Broome Street, la cui proprietaria,
Mrs Bell, era cugina di William Slade,
ex messaggero del presidente Lincoln.
Ma non bastò.
Elizabeth restò a New York per tutto
l’autunno e l’inverno, cercando di curare
gli interessi della sua ex cliente mentre
trascurava i propri. Nei momenti di
maggiore scoramento si chiedeva a cosa
giovasse insistere quando aveva perso
quasi ogni speranza di successo. In
novembre si sentiva molto depressa e fu
sul punto di tornare a Washington, ma
Mrs Lincoln le chiese di trattenersi a
New York ancora un poco. Forse più
tardi, suggerì, quando tutta quella
sciagurata vicenda fosse finita, la sarta
si sarebbe potuta trasferire da lei a
Chicago. «Non sarebbe meglio che
veniste a condividere la mia sorte per
almeno un anno?» implorava, senza
pensare
all’esistenza
piacevole,
produttiva, piena di soddisfazioni che
Elizabeth conduceva nella capitale e
alla quale desiderava tornare.
Il senso del dovere spinse la sarta a
restare per aiutare Mrs Lincoln come
poteva. Usando i contatti che si era
creata attraverso la Contraband Relief
Association, scrisse ai leader della
comunità nera proponendo che le
collezioni di abiti dell’ex first lady
fossero esposte nelle chiese nere. L’idea
ricevette
un’accoglienza
calorosa,
perché i neri nati liberi e gli schiavi
affrancati
riconoscevano
Abraham
Lincoln come loro alleato, ed erano
ansiosi di contribuire al benessere della
sua famiglia in modo più concreto e
determinante di quanto si potesse fare a
parole. «Mi avete giudicato bene»
rispose in una lettera Frederick
Douglass. «Sono disposto a fare il
necessario per mettere in una situazione
di tranquillità economica la vedova del
nostro presidente martire in virtù del suo
legame con lui e con il nostro paese». A
quello scopo propose di organizzare una
serie di conferenze tenute dai migliori
oratori del paese, alle quali lui stesso
sarebbe stato onorato di partecipare. Il
denaro raccolto in questi eventi e le
donazioni generose da parte della
comunità di colore avrebbero alleviato
finalmente le difficoltà economiche di
Mrs Lincoln, permettendole di vivere in
modo agiato.
Sollevata, Elizabeth le scrisse del
progetto, felice di avere finalmente
buone notizie. Con sua costernazione,
però, si sentì rispondere dalla vedova
Lincoln che si opponeva all’idea. Per
quanto fosse in una situazione disperata,
non voleva accettare l’aiuto da parte dei
neri. «Non desidero che Mr Douglass o
Mr Garnet tengano conferenze per me»
decise irrevocabilmente il 2 novembre.
Elizabeth, sbalordita e delusa, non ebbe
altra scelta: dovette informare Frederick
Douglass dei desideri di Mrs Lincoln, e
il progetto fu subito abbandonato. Meno
di due settimane dopo la vedova cambiò
idea, ma il suo rifiuto iniziale aveva
sorpreso e contrariato i leader della
comunità nera, e la loro disponibilità ad
aiutarla si era notevolmente raffreddata.
«Scrivetemi, mia cara, la vostra
opinione sincera su tutto» la implorò
Mrs Lincoln mentre lo scandalo
imperversava.
«Prego
Dio
che
riusciremo nel nostro intento» scrisse
un’altra volta, «anche se, cara Elizabeth,
detto tra noi, temo di essere finita tra le
mani di persone senza scrupoli».
«Ahimè! Ahimè!» si lamentò il
giorno successivo. «Che errore terribile
è stato tutto ciò!» Mrs Lincoln chiese a
Brady e Keyes di restituirle il
guardaroba e ordinò a Elizabeth di
recuperarlo, ma ogni volta i due
intermediari eludevano la sua richiesta.
A mano a mano che la vedova si
scoraggiava, anche la sarta aveva
sempre più difficoltà a mantenere alto il
morale.
Ai primi di gennaio, in un ultimo,
disperato tentativo di raccogliere denaro
grazie ai vecchi abiti, Brady e Keyes
portarono parte del guardaroba a
Providence, con l’intenzione di esporlo
a Remington’s Hall, chiedendo la
“modica somma” di venticinque
centesimi all’ingresso. «La mostra
permetterà di guadagnare dei soldi»
disse Mr Keyes a Elizabeth, «e siccome
il denaro ci serve, questa è l’ultima
spiaggia». Presumeva che Mrs Lincoln
avrebbe approvato, ed Elizabeth dava
per scontato che l’intermediario
l’avesse consultata prima di lanciarsi
nell’iniziativa, ma avevano entrambi
torto. «Perché non avete impedito loro
di portare la mia roba a Providence?»
volle sapere Mrs Lincoln a giro di posta
quando fu informata del progetto,
peraltro già in via di realizzazione. «Per
l’amor del cielo, parlate con K & B non
appena ricevete questa lettera, e fatemi
avere indietro la mia roba con il loro
conto». Anche se apparvero degli
annunci sul Providence Journal per
pubblicizzare la mostra, questa non aprì
mai, perché i membri del consiglio di
contea di Providence rifiutarono di
accordare una licenza ai due mediatori.
Ma Mrs Lincoln non si rabbonì.
Poco dopo la sarta la fece arrabbiare
di nuovo senza volere. I bisogni della
sua razza, in particolare per quanto
riguardava l’educazione, erano sempre
al centro dei suoi pensieri, e
l’addolorava che l’università di
Wilberforce, l’ateneo frequentato da suo
figlio, fosse bruciato il giorno
dell’assassinio del presidente Lincoln.
Anche se era assorbita dall’incarico
assegnatole dalla signora, aveva
accettato di organizzare una raccolta di
fondi per ricostruire l’università. Si era
accordata con il reverendo Daniel
Payne, uno dei fondatori dell’ateneo che
aveva oltretutto testimoniato per farle
avere la pensione, per prestare alcune
delle reliquie dei Lincoln – il cappello,
il mantello, i guanti, la spazzola e il
pettine del presidente, oltre alla cuffia e
al mantello macchiati di sangue di sua
moglie – per una mostra itinerante che
avrebbe fatto un giro dell’Europa. Alla
notizia di un’altra mostra legata al suo
nome,
Mrs
Lincoln
diede
in
escandescenze. «La lettera con cui mi
annunciate che i miei vestiti saranno
portati in giro per l’Europa – i vestiti
che vi ho dato io – mi ha quasi fatto
uscire di senno» rispose subito. «Robert
andrebbe fuori di sé se sapesse di una
cosa del genere. Se vi resta un briciolo
di considerazione per la nostra sanità
mentale, vi prego di scrivere al vescovo
chiedendo di annullare tutto. Non
immaginavo certo che avreste fatto una
cosa del genere; non potete immaginare
quanto nuocerebbe alla mia situazione
già disperata. Che il cielo vi illumini...
Per il bene dell’umanità, se non della
sottoscritta e dei miei figli, non
esponete quegli abiti tristi. Quel
pensiero mi ha fatto quasi venire tutti i
capelli bianchi».
L’aspro rimprovero risultò molto
penoso a Elizabeth, che obbedì subito al
volere di Mrs Lincoln.
Con ormai poche speranze di
recuperare una commissione dalla
vendita del guardaroba della vedova
Lincoln, e sempre più preoccupata per i
danni alla sua reputazione arrecati dal
suo ruolo pubblico nello “scandalo degli
abiti vecchi”, la sarta capì di dover fare
qualcosa per sé, senza più affidarsi ad
attese poco realistiche.
Aveva cominciato a tenere da parte
diversi suoi scritti dal giorno d’estate in
cui aveva scoperto che la donna cui
aveva fatto visitare i campi di schiavi
scappati a Washington era Harriet
Jacobs, la schiava fuggita dal North
Carolina che aveva coraggiosamente
pubblicato la propria autobiografia nel
1861, usando uno pseudonimo per
sfuggire alla cattura ed evitare di essere
restituita al suo padrone violento. Molti
altri ex schiavi avevano scritto la storia
della propria vita, compreso Frederick
Douglass, che lei ammirava molto.
Essendo analfabeta, Sojourner Truth
aveva dettato le sue memorie a
un’amica, e il libro aveva avuto grande
successo. Perché Elizabeth non poteva
fare lo stesso? Mrs Lincoln e Frederick
Douglass, oltre ai Garland, si erano
complimentati con lei per come
scriveva. Perché non poteva raccontare
anche lei la sua storia?
Così riprese i propri appunti e
cominciò a lavorarvi per trasformarli in
un libro di memorie. Intendeva fare in
modo che il suo scritto ripercorresse la
vita dalla nascita da schiava, attraverso
gli anni dolorosi della giovinezza fino
alla gioia legata all’ottenimento della
libertà. Avrebbe descritto gli anni
trascorsi come sarta personale di Mary
Lincoln, la frequentazione della Casa
Bianca e le sue osservazioni sull’illustre
presidente assassinato. Sperava di
gettare una luce migliore sulla vedova
rivelando i motivi innocenti che
l’avevano spinta ad azioni spesso
travisate. Infine avrebbe fatto un
resoconto
particolareggiato
del
cosiddetto “scandalo degli abiti vecchi”
per riabilitare il proprio nome oltre a
quello di Mary Lincoln.
«Fate tutto ciò che potete, cara Mrs
Keckley» l’aveva esortata Mr Douglass
mentre progettavano le conferenze, poi
andate a monte, per la raccolta di fondi
per l’ex first lady. «Nessuno meglio di
voi può rimuovere le montagne di
pregiudizi nei confronti di quella brava
signora».
Secondo Elizabeth aveva ragione.
Nessuno conosceva Mrs Lincoln quanto
lei, e nessuno era in grado di spiegare e
giustificare le sue azioni meglio di lei,
amica e confidente che capiva le sue
buone intenzioni.
Poteva ben farlo per la sua amica, e
siccome nessun altro si faceva avanti,
sarebbe toccato a lei. Lo doveva alla
vedova in lutto, ma lo doveva in primo
luogo alla memoria del nobile
presidente assassinato, che tanto aveva
fatto per la sua razza. Decise di provarci
per entrambi.
16.
Marzo-giugno 1868
All’inizio
Elizabeth
era
troppo
imbarazzata
per
confidare
alle
conoscenze newyorchesi che stava
scrivendo le proprie memorie, sebbene
molti amici e clienti nel corso degli anni
l’avessero incoraggiata a farlo, giacché
aveva avuto fino a quel momento
un’esistenza straordinaria. Ma quando le
pagine cominciarono ad aumentare,
parlò del manoscritto con un amico, poi
un altro, e infine la storia giunse alle
orecchie di James Redpath, amico di
Frederick Douglass, che lavorava nella
casa editrice G.W. Carleton & Company.
Elizabeth l’aveva già conosciuto ma
solo superficialmente. All’epoca in cui
viveva a Saint Louis alcuni suoi amici
avevano parlato con Redpath, convinto
abolizionista, quando era andato in città
a intervistare degli schiavi per un libro
che stava scrivendo. Si era recato anche
spesso alla Casa Bianca per consigliare
il presidente Lincoln sulle questioni di
Haiti, ma sebbene lei lo avesse visto
nella dimora presidenziale, non si erano
mai parlati. Avendo però saputo del suo
libro di memorie in preparazione,
l’editore voleva conoscerla, e amici
comuni li presentarono.
Lo scozzese dai capelli rossi passò
da lei nella pensione di Broome Street,
dove Elizabeth sedeva in preda al
nervosismo di fronte a lui mentre l’uomo
leggeva il primo capitolo del libro, la
storia della sua nascita e prima infanzia.
Trattenne il fiato in attesa del suo
verdetto, finché Redpath non si posò in
grembo le pagine scritte a mano e
commentò: «L’inizio è promettente».
La sarta fece un sospiro di sollievo.
«Grazie, signore».
«La storia di Little Joe venduto a
peso e della sua povera madre che corre
dietro al carro che si allontana dalla
piantagione...» Mr Redpath scosse il
capo con aria grave. «Tragico.
Commovente. Immagino che non
sappiate se ce l’abbiano mai fatta a
ritrovarsi».
«Vorrei tanto saperlo» ribatté
Elizabeth. «Forse dopo la guerra
ritrovarono le tracce l’uno dell’altra, ma
Little Joe aveva solo quattro anni
quando era stato venduto al negriero di
Petersburg. Immagino che sarebbe stato
difficile per lui ritrovare le tracce della
prima infanzia tra i ricordi ormai
sbiaditi».
Mr Redpath fece una specie di
grugnito e annuì. «Tragico, davvero».
Agitò le pagine del manoscritto. «Come
procede la storia da questo punto in poi,
e dove intendete arrivare?»
Spiegò il suo progetto per il libro, e
gli occhi dell’editore si illuminarono di
interesse quando Elizabeth annunciò che
intendeva consacrare una porzione
significativa della narrazione agli anni
della Casa Bianca e allo “scandalo degli
abiti vecchi di Mrs Lincoln”. Intendeva
dividere i proventi del libro con l’ex
first lady, e rivelare la verità, nel bene e
nel male, in modo che il mondo capisse
meglio la vedova Lincoln, ingiustamente
calunniata da molti.
«Ammiro la vostra lealtà» osservò
Mr Redpath. «Siate certa che Carleton &
Company desidera quanto voi presentare
al mondo la verità, nel bene e nel male».
Nel giro di qualche giorno Mr
Redpath propose a Elizabeth di firmare
un accordo con la casa editrice,
dicendole che voleva pubblicare il suo
libro di memorie il più presto possibile,
non oltre la primavera. «Ma sono
arrivata solo al punto in cui mi compro
la
libertà!»
protestò
Elizabeth,
frastornata e combattuta tra la gioia e
l’apprensione.
L’uomo le assicurò che l’avrebbe
aiutata, e così si accordarono per
vedersi diverse volte a settimana –
anche quotidianamente, all’avvicinarsi
della scadenza – per procedere nella
stesura del manoscritto.
Da quel momento in poi Elizabeth
cominciò a occuparsi degli affari di Mrs
Lincoln e a mantenersi cucendo di
giorno, mentre di notte scriveva nel
silenzioso isolamento della sua soffitta.
Di sera Mr Redpath passava da lei alla
pensione, e nel salotto comune
analizzavano il lavoro della notte
precedente. Talvolta la necessità e
l’urgenza le imponevano di buttare giù
di fretta i ricordi invece di scrivere
lunghi paragrafi eleganti. In queste
occasioni leggeva ad alta voce i suoi
appunti, sviluppandoli oralmente quando
necessario, mentre Redpath faceva a sua
volta delle annotazioni che riportava in
ufficio, combinava con le sue e poi
sistemava.
Elizabeth trascorse il cinquantesimo
compleanno lavorando con l’editore al
dodicesimo capitolo del libro, che
descriveva la partenza di Mrs Lincoln
dalla Casa Bianca dopo l’assassinio del
marito. Il giorno seguente ricevette una
lettera dall’ex first lady, molto abbattuta
perché aveva dimenticato il portafoglio,
con tutti i soldi del mese, sul tram a
cavalli. «È la perdita che merito per
essere stata tanto distratta» si lagnò, «ma
arriva proprio al momento sbagliato.
Problemi e sventure si accumulano;
possa la fine arrivare al più presto».
Mrs Lincoln aveva ripetuto tante di
quelle volte che solo la presenza di Tad
le impediva di togliersi la vita che
Elizabeth non capì se con “la fine”
intendesse la fine dei suoi guai o la fine
di tutto. Dopo averle lette e sentite tante
volte, lamentele del genere non
avrebbero più dovuto turbare Elizabeth,
che invece restava sempre sconcertata.
Dopo che ogni altro progetto era
fallito, Brady e Keyes decisero di
mettere all’asta ciò che restava del
guardaroba di Mrs Lincoln, cioè quasi
tutto. Restia a vendere in quel modo i
suoi beni, la vedova insistette perché i
due mediatori restituissero ogni cosa a
Elizabeth e le facessero avere il conto.
Ci misero parecchio tempo, ma alla fine
permisero alla sarta di recuperare la
merce invenduta e le presentarono un
conto di ottocentoventi dollari, in
cambio dei loro servizi. Si tennero
anche altro denaro, alcune centinaia di
dollari, frutto della vendita dell’anello
di diamanti di Mrs Lincoln e di alcuni
altri oggetti per coprire le spese.
Elizabeth imballò subito il tutto e lo
spedì a Chicago, e quando l’amica le
mandò l’assegno per saldare il conto, lo
consegnò di persona a Mr Keyes.
Uscendo dal suo ufficio il 4 marzo,
ricevuta alla mano, avvertì un’ondata di
sollievo, rassegnazione e disgusto. Tutta
quella brutta faccenda, che del resto era
nata male, si era finalmente conclusa.
Purtroppo non solo non aveva procurato
a Mrs Lincoln il denaro necessario per
il suo sostentamento, ma le era costata
centinaia di dollari di commissioni e
danni incalcolabili alla sua reputazione.
Ma almeno era finita.
Sebbene le mancassero casa sua e gli
amici di Washington, e fosse ormai
diventato urgente tornare ad aprire il
proprio laboratorio di sartoria, decise di
fermarsi a New York fino al
completamento
del
manoscritto.
Siccome non le serviva più vivere dalle
parti di W.H. Brady & Co. si trasferì in
una stanzetta meno costosa, al quarto
piano al numero 14 di Carroll Place, in
casa di Amelia Lancaster, parrucchiera
delle
signore
dell’alta
società
newyorchese.
A mano a mano che si avvicinava agli
ultimi capitoli del libro, una certa
inquietudine spinse Elizabeth a scrivere
a Mrs Lincoln per parlarle del progetto.
Dopo le conferenze dal contenuto
sconvolgente di Mr Herndon, la sarta
temeva che la vedova fosse restia,
quindi si dilungò nel sottolineare che
ogni parola scritta da lei voleva mettere
nella miglior luce possibile l’amica.
Mary Lincoln fece un unico commento
alla confessione della sarta nella sua
lettera successiva: «Sembra che
chiunque sia passato dalla Casa Bianca
durante il mandato del mio adorato
marito debba scrivere un libro di
memorie. Non posso che auspicare che
la mia più cara amica non scriva nulla di
sconveniente né divulghi informazioni
riservate». Elizabeth aveva sperato in un
appoggio più esplicito al suo progetto,
ma accettò i commenti della vedova
come una tacita autorizzazione a
procedere.
Non avrebbe
potuto
comunque abbandonare il progetto; vi
aveva investito, insieme a Mr Redpath,
troppo tempo e troppa energia.
Qualche giorno più tardi la sarta finì
di scrivere il resoconto del tentativo
disastroso di vendere il guardaroba di
Mrs Lincoln, che costituiva l’ultimo
capitolo del libro. Dopo che Mr
Redpath l’ebbe letto, la elogiò per la sua
franchezza e onestà incrollabili nel
descrivere quello che doveva essere
stato un episodio imbarazzante per lei
come per la vedova del presidente.
«Incrollabili?»
gli
fece
eco
Elizabeth. «Al contrario, ho rischiato
spesso di crollare, mentre scrivevo.
Devo confessarvi che sono molto
perplessa circa l’opportunità di
divulgare al pubblico le conversazioni e
considerazioni private della signora».
Mr Redpath la rassicurò. «Capisco
perfettamente. Vi prometto che non sarà
pubblicato nulla che rischi di arrecare
danno a Mrs Lincoln».
Elizabeth fu sollevata. «Ne sono
felice».
«Avete quasi finito» osservò
l’editore, radunando il lavoro di quel
giorno e raccogliendolo in una pila
ordinata. «Non vedrete l’ora di
terminare il manoscritto e di tornare a
Washington».
«È così» confermò la sarta un po’
perplessa. Per lei, infatti, il manoscritto
era finito del tutto.
«Cos’altro desiderate che aggiunga?»
«Ci sarebbe la prefazione, con cui
spiegate il vostro scopo e le vostre
qualifiche per scrivere un libro di
questo genere».
«Oh, sì, certo. Comincerò subito».
«Mi è venuta in mente anche un’altra
cosa. Le lettere di Mr Douglass e delle
signore Garland sono molto utili. Non
avete qualche lettera di Mrs Lincoln?
Sono sicuro che i vostri lettori le
troverebbero affascinanti».
Elizabeth avvertì un brivido di
eccitazione e paura quando lo sentì
parlare dei lettori, come se fossero già
un
gruppo
concreto,
numeroso,
impaziente di leggerla. «Ne ho molte,
ma non le posso includere nel libro,
affascinanti o meno che siano. Mrs
Lincoln non approverebbe».
Mr Redpath alzò le spalle,
pensieroso. «Ha permesso che fossero
pubblicate diverse lettere sul World».
«Sì, e se n’è pentita amaramente,
dopo».
«Ah». L’editore annuì, riflettendo, e
poi suggerì: «Non potreste farmele
leggere?»
«Siete semplicemente curioso?»
«Sono
molto
curioso,
non
semplicemente curioso. Leggere le
lettere di Mrs Lincoln mi permetterebbe
di capire meglio il suo stato d’animo, le
sue inclinazioni, e ciò mi sarebbe molto
utile durante la revisione del
manoscritto. Anche i fatti inclusi nelle
lettere mi aiuterebbero a verificare le
date e i dettagli che mi avete fornito. E
poi c’è la questione della vostra
credibilità.
Alcuni
sciocchi
affermeranno che un’ex schiava non
potrebbe mai essere l’autrice di un libro
tanto bello, né avere avuto un accesso
tanto privilegiato alla Casa Bianca. Non
sottolineerò
mai
abbastanza
l’importanza
della
corrispondenza
personale nell’attestare l’autenticità di
una biografia».
«Capisco» disse Elizabeth. Aveva
sentito raccontare di altre autobiografie
di ex schiavi liquidate, ingiustamente,
come opere di fantasia, e conosceva
molte persone che, dopo averla
conosciuta, affermavano che fosse
troppo distinta e abile per essere stata
una schiava. Non poteva sopportare che
la sua integrità fosse messa in dubbio,
ma tali accuse erano probabilmente
inevitabili. Se poteva impedirle o
almeno ridurne il numero condividendo
con il proprio editore le lettere di Mrs
Lincoln, avrebbe fatto bene ad agire in
questo senso.
Salì nella sua stanzetta sotto i tetti e
tornò con un pacco di lettere dell’ex first
lady, legate con un fiocco nero avanzato
dal bordo di una delle sue molte cuffie.
Le consegnò a Mr Redpath precisando
che si trattava di ricordi preziosi e che
voleva recuperarle intatte quando avesse
finito di consultarle, e che dovevano
aiutarlo nella revisione del manoscritto,
ma in nessun caso avrebbero dovuto
essere incluse nel libro.
L’editore le assicurò che non avrebbe
inserito nulla delle lettere di Mrs
Lincoln che potesse metterla in
imbarazzo, e lasciò Elizabeth alla
prefazione.
Da sola, in camera sua, tenne la
penna sospesa sulla pagina, incapace di
cominciare. Fu colpita da un dubbio
improvviso: chi era lei per credersi
capace di scrivere un libro? Scacciò
subito quel pensiero, infastidita dalla
propria timidezza. Chi era? Questa era
la vera domanda. Il libro l’aveva scritto,
quindi la domanda sulla capacità o meno
di farlo aveva appena avuto risposta.
Ora restava da capire perché l’avesse
fatto, e cosa si fosse proposta.
«Spesso mi è stato chiesto di
raccontare per iscritto la mia vita,
giacché chi mi conosce sa che è stata
ricca di eventi» scrisse. «Ho finito per
cedere alle insistenze dei miei amici, e
ho buttato giù in fretta alcuni degli
eventi più importanti che hanno fatto di
me quella che sono. La mia esistenza
tanto avventurosa può parere inventata a
un lettore imparziale, ma tutto ciò che ho
scritto è vero; ho omesso parecchio, ma
non ho ingigantito nulla».
Fece una pausa. Ebbe una visione
improvvisa: Mrs Lincoln che prendeva
in mano il libro, esaminava la copertina
e cominciava a sfogliarlo, con aria
sempre più accigliata a ogni paragrafo
che leggeva. Trasse un sospiro
profondo, soffiò fuori piano l’aria e
intinse di nuovo la penna nell’inchiostro.
«Scrivendo come ho fatto, so che le
critiche non mancheranno». Avrebbe
potuto stendere una lista accurata dei più
accaniti detrattori. «Ma prima di
giudicarmi con severità, i critici leggano
e valutino con attenzione le mie
spiegazioni».
I
suoi
denigratori
avrebbero
probabilmente rifiutato di farlo, ma
chiederlo non costava nulla.
Elizabeth si mise poi a riflettere sul
tema della schiavitù, sul quale si
sarebbe soffermata in termini più
personali e profondi all’inizio del libro.
Poi ripensò a Mrs Lincoln. «Sarò forse
accusata di avere scritto con troppa
libertà su alcune questioni, in
particolare legate a Mrs Lincoln»
riconobbe. «Io non lo credo, o almeno,
se l’ho fatto, sono stata animata dalle
ragioni più nobili. Mrs Lincoln con il
suo stesso comportamento ha attirato su
di sé l’attenzione del pubblico. Ha
superato il limite che protegge
l’inviolabilità della vita privata e, così
facendo, si è esposta alle critiche da
parte dell’opinione pubblica».
Era giusto esprimersi in quel modo?
Il dubbio si insinuò nella sarta, che
smise di scrivere. Mary Lincoln non si
era candidata e non era stata eletta first
lady; quel ruolo le era stato attribuito in
virtù delle scelte e azioni di suo marito.
Era, bisognava ammetterlo, un ruolo che
aveva amato, un titolo al quale aveva
aspirato fin dall’infanzia. Aveva adorato
l’attenzione della gente, fino a quando
quest’attenzione era stata positiva, e
aveva certamente apprezzato i vantaggi e
i privilegi dell’essere, come lei stessa
talvolta si era definita, “Mrs President”.
Quindi, decise Elizabeth, era giusto
affermare che Mrs Lincoln avesse scelto
una vita pubblica.
Ciononostante, era stata giudicata con
troppa severità. «La gente ignora del
tutto la storia segreta delle sue
transazioni, limitandosi a giudicarla
sulla base di ciò che era apparso in
superficie». La scrittrice, indignata,
rimproverò alcuni personaggi in vista
che erano stati particolarmente duri con
lei e certi giornali che avevano usato
uno scherno eccessivo nell’esporre le
colpe della vedova del presidente, ma
poi ci ripensò e cancellò quelle righe.
«Mrs Lincoln può essere stata
imprudente, ma siccome le sue
intenzioni erano buone dovrebbe essere
giudicata con più clemenza».
Se fosse riuscita a convincere i suoi
ipotetici lettori di questo, si sarebbe
ritenuta soddisfatta. A un tratto si chiese
se Mr Herndon avesse coltivato le
stesse speranze quando scriveva il testo
delle sue conferenze.
Per un istante si sentì profondamente
demoralizzata, ma poi ricordò con
fermezza a se stessa che le farneticazioni
di Herndon non avevano nulla in comune
con il suo libro, se non il fatto che
riguardavano anch’esse i coniugi
Lincoln. Le loro motivazioni – e l’onestà
dei loro scritti – non potevano essere
più diverse.
Eppure
continuava
a
essere
preoccupata. Mrs Lincoln sarebbe stata
del suo stesso avviso?
«Se ho tradito la fiducia di qualcuno
in ciò che ho scritto, l’ho fatto solo allo
scopo di presentare Mrs Lincoln sotto
una luce migliore agli occhi del mondo»
scrisse
con
mano
ferma.
«Un’indiscrezione di questo tipo, se così
la si può definire, è sempre
perdonabile». Trasse un respiro
profondo e si fece forza; la confessione
successiva non era facile. «È in gioco la
mia reputazione, oltre a quella di Mrs
Lincoln, perché sono stata al suo fianco
nei momenti più importanti della sua
vita. Sono stata la sua confidente e, se
lei è accusata di qualcosa, le stesse
critiche vanno rivolte a me, che ho
contribuito a tutte le sue iniziative».
Per difendersi doveva difendere la
signora per la quale si prodigava, e
scrivendo tali parole Elizabeth si rese
conto che proprio quello l’aveva indotta
a scrivere l’autobiografia. Era stata
molto ammirata per la sua integrità e
dignità, ma le sfortunate vicende legate
al 609 di Broadway avevano gettato
l’ombra dello scandalo anche sulla sua
reputazione fino ad allora irreprensibile.
Doveva redimersi, e non poteva farlo se
non riscattando al contempo anche la
vedova del presidente.
Elizabeth finì la prefazione, sperando
di avere scritto tutto ciò che desiderava
Mr Redpath e che era necessario
precisare. I lettori potevano sempre
ignorare la sua lunga spiegazione e
concludere per conto loro che le sue
ragioni non erano oneste, ma almeno lei
sapeva la verità. Sapeva anche che nulla
di ciò che aveva scritto poteva mettere
in cattiva luce Mrs Lincoln più di quanto
non lo fosse già, e quindi i segreti che
rivelava non potevano essere dannosi.
«Non intendo difendere a spada tratta
la vedova del nostro compianto
presidente» sottolineò. I lettori più
diffidenti avrebbero affermato che le sue
parole sulle colpe dell’ex first lady non
erano sincere perché loro due erano
amiche. Doveva convincerli del
contrario. «Vorrei che il mondo la
giudicasse com’è davvero, libera dalle
esagerazioni degli elogi e degli
scandali. Il lettore delle pagine che
seguono scoprirà che ho scritto su di lei
con estrema franchezza, esponendo le
sue colpe oltre che riconoscendole le
motivazioni oneste che la animavano».
Aveva peccato in un senso o
nell’altro senza volere? Il dubbio
l’aveva tormentata a ogni parola che
scriveva. Aveva cercato in ogni modo di
essere giusta, e Mr Redpath le aveva
assicurato che ci era riuscita. Sperava
che il mondo fosse d’accordo, e
soprattutto che lo fosse Mrs Lincoln.
Il 1° aprile, Mr Redpath le portò una
copia dell’American Literary Gazette
and Publishers’ Circular, gliel’aprì a
una pagina che aveva contrassegnato e le
indicò una pubblicità in cima alla
colonna sinistra. «Io e Mr Carleton,
oltre a tutti gli altri dipendenti della casa
editrice, siamo estremamente orgogliosi
di avervi come nostra autrice» dichiarò.
«Ci aspettiamo che il libro abbia grande
successo».
Elizabeth distolse lo sguardo dalla
pagina per ringraziarlo, ma tornò subito
a fissare l’annuncio.
G.W. Carleton & Co.
pubblicherà ai primi di aprile
un libro eccezionale intitolato
Dietro le quinte
L’autrice è Mrs Elizabeth Keckley, schiava per
trent’anni di famiglie sudiste tra le più illustri.
Dopo aver acquistato la libertà, durante
l’organizzazione della ribellione divenne
confidente della moglie di Jefferson Davis, e
fu allora che, stando “dietro le quinte”, udì per
la prima volta il mormorio di quel mostro, la
secessione. Dall’inizio della ribellione fino a
oggi è stata la sarta, confidente e tuttofare della
vedova di Abraham Lincoln. Ha trascorso
molto tempo alla Casa Bianca, a stretto
contatto con la famiglia del presidente.
Conoscendo intimamente Mrs Lincoln e tutta
la sua famiglia, oltre a una varietà di membri
illustri della società di Washington, ha molti
commenti interessanti da fare su uomini e
situazioni della Casa Bianca, del Congresso, di
Washington e di New York. Nel libro rivela i
retroscena dello sfortunato tentativo di vendere
il proprio guardaroba da parte di Mrs Lincoln,
che dissiperanno molte impressioni errate
nella mente del pubblico e porranno la vedova
del presidente in una luce migliore.
Il libro è ricco di episodi emozionanti e tragici
lungo un arco di tempo di quarant’anni. È
scritto con passione e sincerità e, insieme alla
sua autrice, coscienziosa e piena di talento, non
mancherà di suscitare scalpore a livello
mondiale. Tutto ciò che è scritto corrisponde al
vero. Volume di 400 pagine. Rilegato in tela.
Illustrato con un ritratto dell’autrice. Prezzo: 2
dollari.
«Cosa ne dite?» chiese Mr Redpath
sorridendo.
«Dico che è meraviglioso» rispose
lei, con un sorriso incerto. Anche se
erano mesi che lavorava alla sua
autobiografia, la pubblicità gliel’aveva
fatta apparire reale, concreta, tangibile.
Domandò con qualche esitazione: «Dice
che sono stata una schiava per trent’anni,
ma in realtà sono stata in schiavitù
trentasette anni, quasi trentotto».
«Una differenza insignificante» le
assicurò l’editore. «Trenta è cifra tonda,
sta meglio. Anche se avete ragione
nell’affermare che non è del tutto
accurato,
suona
meglio
nella
pubblicità».
«Certo»
convenne
Elizabeth,
rimpiangendo la sua critica. «Grazie per
le parole di encomio nei confronti miei e
del libro. Lo fate apparire tanto
interessante che, se non l’avessi scritto
io, sarei la prima a mettermi in fila per
comprarlo».
Mr Redpath sorrise. «Ve li meritate i
complimenti. Il libro è eccezionale, e la
sua autrice ancora di più». Lei rimase
allibita quando le prese la mano e se la
portò alle labbra. «È stato un onore
lavorare con voi, Mrs Keckley. Il
privilegio non sarebbe stato maggiore se
avessi avuto a che fare con la first lady
in persona».
«Non diteglielo mai» lo avvertì
subito la sarta senza riflettere. Redpath,
ridendo, le assicurò che non l’avrebbe
fatto.
Qualche giorno dopo l’editore si recò
di nuovo da lei e le consegnò una copia
del libro. Per un attimo Elizabeth lo
tenne in mano senza muoversi, incredula.
«Impara a leggere e scrivere bene»
l’aveva esortata suo padre. Come
sarebbe stato orgoglioso di lei, sapendo
che era diventata un’autrice.
Le mani le tremavano e, mentre Mr
Redpath la osservava con un sorriso,
aprì la copertina di tela rossa e voltò le
prime pagine vuote. Si soffermò
sull’incisione che raffigurava l’autrice, e
che non le parve molto somigliante. Ma
non importava. Poi giunse alla pagina
del titolo.
Dietro le quinte
di
Elizabeth Keckley,
ex schiava divenuta sarta
e amica della moglie di Abraham Lincoln,
ovvero
trent’anni da schiava e quattro anni alla Casa
Bianca.
E così Carleton & Company non aveva
corretto il numero di anni in cui era stata
in schiavitù. Ebbene, si disse, dopotutto
che male c’era se la gente la credeva un
po’ più giovane?
«Come vi sentite a vedere le vostre
parole stampate per la prima volta?» le
chiese lui.
«È magnifico» rispose Elizabeth. Il
cuore le batteva tanto veloce che dovette
trarre un respiro profondo per calmarlo.
Giunse alla prefazione e lesse di nuovo
le parole familiari che fino ad allora
aveva visto scritte solo nella sua grafia
irregolare. Poi un’espressione insolita la
colpì, quindi un’altra. Le sue brevi
digressioni sulla schiavitù erano state
pesantemente rimaneggiate. Il senso
generale era rimasto, ma il linguaggio
era troppo elaborato per essere di suo
gradimento. Avvertendo lo sguardo di
Mr Redpath su di lei, ebbe l’accortezza
di non lasciar trapelare la sorpresa e la
delusione. Lo sapevano tutti che gli
editori cambiavano le parole degli
autori, si rimproverò. E l’autore di un
primo libro aveva bisogno di un
intervento
anche
più
cospicuo,
soprattutto se proveniva da un editore
tanto esperto.
Sfogliò attentamente il libro, e tornò
felice quando vide che il resto
dell’autobiografia non aveva subito
cambiamenti altrettanto pesanti. Poi
giunse alla fine della narrazione e trovò
un’appendice che non si aspettava.
La gioia si trasformò in stupore
atterrito quando scoprì le lettere di Mrs
Lincoln che aveva prestato all’editore
per la revisione del manoscritto. Erano
state riprodotte quasi parola per parola,
con la semplice omissione di qualche
frase senza importanza. Ironicamente
l’avvertimento di Mrs Lincoln che le
aveva chiesto di non divulgare
«informazioni riservate» era stato
rispettato, visto che quella frase era
stata riportata addirittura in stampatello.
Ebbe l’impressione che i polmoni le
si svuotassero d’aria. «Mr Redpath»
riuscì a balbettare con voce strozzata.
«Le lettere private di Mrs Lincoln...»
«Sì.
Abbiamo
pensato
che
contribuissero
all’autenticità
della
vostra opera».
«Ma io ve le ho prestate solo perché
vi fossero di aiuto nella revisione»
protestò Elizabeth sconvolta. «Avevate
promesso di non pubblicarle».
Mr Redpath si accigliò. «No, Mrs
Keckley, no» obiettò, scuotendo il capo.
«Abbiamo convenuto di non pubblicare
nessuno stralcio delle lettere che
avrebbe imbarazzato Mrs Lincoln».
Lei gli tese il libro, sfogliando
velocemente l’appendice. «Vi assicuro
che tutto questo la imbarazzerà!»
«Non sono d’accordo» obiettò lui.
«Le lettere rivelano il suo pensiero, i
motivi alla base delle sue azioni.
Avevate sempre detto che, se la gente
avesse capito le sue buone intenzioni,
sarebbe stata più comprensiva nei
confronti
delle sue scenate e
disavventure. Non capisco quindi come
potrebbe essere imbarazzata».
Non riusciva a capirlo perché non
voleva. Elizabeth, sentendosi male, si
accasciò su una sedia con il libro in
grembo. Mary Lincoln avrebbe visto la
pubblicazione della sua corrispondenza
privata come il tradimento peggiore.
Non l’avrebbe mai perdonata.
«Mrs Keckley, non preoccupatevi».
James Redpath era davvero sorpreso
della sua reazione, oppure era un ottimo
attore. «Queste lettere – anzi, tutto
quanto
il
libro
–
serviranno
perfettamente allo scopo. Indurranno i
critici della vedova ad abbandonare i
propri pregiudizi e a essere solidali con
lei. Siatene certa».
Lei strinse le labbra e annuì,
sperando che avesse ragione. In ogni
caso non serviva a niente discutere con
lui. Quello che era fatto, era fatto. Non
poteva certo passare da una libreria
all’altra, da un chiosco di giornali
all’altro, a strappare l’appendice da
ogni copia di Dietro le quinte.
In realtà la predizione dell’editore si
rivelò in certa misura azzeccata, ma non
nel modo in cui l’aveva intesa lui.
Il 12 aprile una donna per la quale di
tanto in tanto svolgeva lavori di cucito,
originaria di Boston, l’accolse con il
misterioso commento: «Sono contenta di
vedere che state bene. Non dovreste
curarvi di ciò che dicono a Springfield».
Elizabeth sentì il cuore in gola e
pensò subito a Mrs Lincoln. «Cosa
dicono a Springfield?»
L’espressione sorpresa della cliente
rivelò che pensava lo sapesse già.
All’inizio non glielo volle spiegare, ma
dopo molte insistenze raccontò a
Elizabeth che era apparso uno stralcio
del libro sullo Springfield Daily
Republican. Sebbene la sarta fosse
sollevata nello scoprire che la donna
alludeva
a
Springfield
nel
Massachusetts, e non alla residenza
della famiglia Lincoln, si dovette
comunque fare forza per chiedere alla
cliente di portarle l’articolo.
Il titolo era Lettura da cucina e da
letto, e la critica – se aveva un senso
chiamarla critica, giacché il libro
doveva ancora essere pubblicato – era
peggiore
di
quanto
Elizabeth
immaginasse.
Una casa editrice di New York dalla dubbia
moralità ha annunciato la prossima uscita di un
libro intitolato Dietro le quinte di Elizabeth
Keckley, che afferma di essere stata la
domestica e confidente della moglie di Jeff
Davis durante le fasi preparatorie della
ribellione, e la sarta della moglie di Lincoln
durante la secessione. Può darsi che questo
libro sia di buon livello, interessante, istruttivo
e dignitoso; ma è molto più probabile che sia
un’opera sensazionalistica del tipo peggiore,
scritto per ordine del servizio segreto del
generale Baker, immorale, falso, scandaloso e
indecente. L’idea stessa di servitori che
vengono convinti a scrivere libri sui loro datori
di lavoro, istruiti su cosa dire fino al
rimbambimento da parte di editori senza
scrupoli, aiutati nella prosa zoppicante e poco
sciolta forse dagli stessi uomini che
pubblicano i giornali scandalistici nelle nostre
città, è ripugnante a chiunque abbia un minimo
di educazione. Speriamo che si riveli un buon
libro. Temiamo però che sia pessimo.
All’inizio
Elizabeth
era
troppo
sbalordita per parlare. «Non dovrebbero
leggere il mio libro prima di
condannarlo?»
riuscì
infine
a
mormorare. «Indecente? La mia
autobiografia? Cosa mi avrebbero
suggerito di scrivere gli “editori senza
scrupoli”? Possibile che credano a tutti
quegli orrori?»
«Mi dispiace molto» disse la sua
cliente, profondamente desolata. «Vorrei
non averne parlato».
«Non avete nessuna colpa». La sarta
inghiottì lacrime di rabbia e lottò per
mantenere il controllo. «Siete solo la
messaggera di cattive notizie. Non le
avete scritte voi, quelle crudeltà».
«I giornalisti si rimangeranno tutto
dopo avere letto il libro» la consolò
l’altra donna. «Per quanto mi riguarda, il
tentativo di dissuadermi non ha fatto che
aumentare in me la voglia di leggerlo».
Elizabeth riuscì a fare un sorriso
amaro. «Forse, ma voi mi conoscete».
«Pensateci, però» rifletté ad alta
voce la donna. «Il Republican potrebbe
avervi fatto un favore».
«In che senso? Non capisco».
«Hanno sollevato curiosità intorno
alla vostra storia. Ora tutti vorranno
comprare il libro. Lo leggeranno e si
faranno
un’opinione
personale.
Vedrete».
La sarta sperava che avesse ragione,
ma una nube pesante di cattivi presagi
sembrava oscurare il sole, gettando
un’ombra su quello che doveva essere
un giorno radioso e felice.
I suoi amici di New York non si
lasciarono scoraggiare dalle previsioni
pessimiste del giornale, e si sentirono
invece immensamente fieri di lei ed
emozionati per il libro, tanto che la sua
padrona di casa organizzò una festa il
giorno della pubblicazione. Emma, i
Lewis e altri amici inviarono
telegrammi di congratulazioni da
Washington. Il loro entusiasmo rincuorò
un poco Elizabeth, ma Mrs Lincoln non
aveva risposto alla lettera con cui la
sarta
le
aveva
confessato
la
divulgazione pubblica della loro
corrispondenza privata, e il silenzio da
parte di una scrittrice tanto prolifica non
parve di buon auspicio.
Il 15 aprile apparve una nuova
pubblicità
sull’American
Literary
Gazette and Publishers’ Circular,
stavolta con un nuovo titolo destinato a
fare
colpo
che
descriveva
l’autobiografia come «un cataclisma
letterario». Il resto della descrizione era
più o meno uguale, anche se quello che
Elizabeth aveva da dire «riguardo a
persone e situazioni nella Casa Bianca»
non era più descritto semplicemente
come «interessante», ma «stupefacente».
«Oh, no, no, no» mormorò, mettendo
da parte il giornale. Il suo libro di
memorie, introspettivo e vibrante, era
stato trasformato in una pagliacciata.
Dietro le quinte scandalizzò la
stampa, che fu subito implacabile e
feroce nelle critiche.
Il Citizen di New York: «Il pubblico
americano non si ribella a essere
considerato tanto plebeo nei gusti
letterari da tollerare le chiacchiere
clandestine delle serve nere?»
Il
National
Intelligencer
di
Washington: «Dove andremo a finire?
Quale famiglia con della servitù non
rischia di veder distruggere la propria
pace e serenità da creature traditrici
come la Keckley?»
Il New York Times, dopo aver
presentato tre colonne di citazioni e aver
osservato che Mrs Lincoln era in
ristrettezze economiche: «Mrs Keckley,
apprendiamo, è anch’essa in difficoltà.
Mrs Lincoln non può pagarla, e si
mantiene facendo lavoretti di cucito e
scrivendo un libro. Avrebbe fatto meglio
a limitarsi ad ago e filo. Non possiamo
evitare di considerare molte rivelazioni
del libro come frutto di un’indiscrezione
assoluta. Mrs Lincoln apparentemente si
fidava di lei, e quella donna, senza
dubbio mal consigliata, ha tradito tale
fiducia. Ma ricordiamo che il libro può
solo in parte essere considerato suo. Si
individua in ogni sua pagina la mano di
uno scrittore esperto, che ha conti da
saldare e pregiudizi da alimentare.
Come testo scandalistico, il libro è un
fallimento totale. Mrs Keckley sa ben
poco della vita alla Casa Bianca, e
arricchisce gli scarsi aneddoti ed
episodi con citazioni dai giornali,
riflessioni morali e altri espedienti di
quel tipo. Il pubblico sarà deluso
quando leggerà il libro. Lo troverà meno
piccante, meno scandaloso di quanto se
lo aspetti, considerando la fonte, mentre
dal punto di vista letterario ha ben poca
levatura».
E lo Springfield Daily Republican
sembrò fin troppo felice di confermare
che le previsioni catastrofiche sulla
qualità del libro si erano dimostrate
giuste. «Si potrebbe immaginare che al
pubblico
siano
state
propinate
informazioni su Mrs Lincoln e sulle sue
faccende
ad
nauseam»
scrisse
sprezzante il giornalista, «ma lo
scandalo è una merce che incontra
sempre, e questo libro ne è pieno».
Le teorie sulla diffusione del sapere e
l’educazione delle masse vanno benissimo, ed
entro certi limiti funzionano perfettamente.
Non è piacevole, questo è certo, avere una
cuoca tanto interessata alla letteratura da
portarsi in cucina tutti i vostri libri preferiti, o
da insistere per leggere per prima il giornale
mentre fa colazione, al mattino; o una serva che
preferisce soffermarsi sulle vostre lettere
invece di svolgere le sue normali mansioni. Ma
tutto ciò è anche sopportabile, armandosi di
pazienza, se si pensa ai molti vantaggi che un
briciolo di istruzione può portare a Bridget o
Dinah. Ma quando Bridget o Dinah si mettono a
scrivere libri invece di leggerli, e scelgono per
argomento le conversazioni e gli eventi che si
verificano nell’intimità della cerchia familiare,
suggeriamo, con tutto il rispetto, che si stia
esagerando. A un certo punto bisogna dire
basta, e sosteniamo che lo si debba dire prima
che tutte le serve vengano educate al punto da
divulgare per iscritto la storia privata delle
famiglie per cui lavorano.
Tali accuse ferivano e disgustavano
Elizabeth, eppure non riusciva a
smettere di leggere, né riusciva a
ignorare altre critiche e condanne che
minacciavano di seppellirla sotto una
valanga di carta e inchiostro. Le
recensioni erano sempre cariche di
scherno e di condanna, e spesso
contraddittorie: Dietro le quinte era
scritto male, ma era anche scritto così
bene che non poteva scaturire dalla
penna di una «serva nera sleale». La sua
autobiografia era spazzatura senza
valore, eppure le citazioni occupavano
diverse colonne dei giornali. A parte il
Chicago Tribune, che enfatizzò la
presenza nel libro di figure di spicco
dell’Illinois, definì alcuni capitoli
«interessanti» o «toccanti» e concluse
che l’autrice era una donna «di
intelligenza superiore al normale», le
recensioni erano unanimi nella loro
indignazione e nel loro giudizio
sprezzante,
e
sembravano
meno
interessate a commentare il libro che a
mettere alla berlina Elizabeth per averlo
scritto. Con suo stupore gli stessi
giornali che negli ultimi otto anni si
erano scagliati contro Mrs Lincoln ora
divennero suoi strenui difensori contro
la malvagia «spiona della Casa Bianca»
alla quale aveva incautamente dato
fiducia.
In quel senso, la previsione di Mr
Redpath, secondo cui Dietro le quinte
avrebbe spinto l’opinione pubblica ad
appoggiare Mrs Lincoln, si avverò.
Mr Redpath non andava più a
trovarla al 14 di Carroll Place,
probabilmente perché si erano separati
con una certa freddezza dopo la stampa
delle lettere dell’ex first lady, ma
quando gli attacchi contro di lei e il suo
libro
divennero
insopportabili,
Elizabeth gli fece visita in ufficio e gli
chiese come doveva comportarsi
riguardo a quelle recensioni tremende e
ingiuste. «Ignoratele» si limitò a
consigliarle.
«Non posso» obiettò la sarta. «E non
dovrei. Hanno torto. Questi critici non
sono in grado di citare esempi concreti
di scrittura scadente nel mio libro. Sono
solo capaci di affermare che non vale
nulla, restando sul vago, e mi attaccano
in quanto persona. E continuano a
parlare di me come della servitrice nera
di Mary Lincoln, come se fossi una
cameriera o una sguattera e non una sarta
rinomata. Dicono che ho infangato la
memoria del presidente Lincoln, un
uomo che ammiravo e rispettavo con
tutto il cuore. Non posso restare a
guardare senza reagire».
Vedendo che era decisa, Mr Redpath
le suggerì con riluttanza di scrivere una
replica, che avrebbe lui stesso
trasmesso al direttore del Citizen di
New York, uno degli autori più celebri
che pubblicava le sue opere presso G.W.
Carleton & Company. Immediatamente
Elizabeth impugnò la penna per scrivere
la propria difesa, chiedendo ai critici di
leggere il suo libro, oltre alle pagine e
pagine che giornali rispettati di tutto il
paese avevano dedicato alla «turpe
crociata» contro Mrs Lincoln. Chi di
loro, domandò, aveva davvero tradito e
offeso l’ex first lady? «È per via della
mia pelle nera e della condizione di ex
schiava che vengo messa alla gogna?»
chiese. «Sono nata schiava, non è colpa
mia; e dopo avere comprato onestamente
la mia libertà non mi è permesso di
esprimere, di tanto in tanto, un’opinione
da donna libera?»
La risposta unanime del pubblico
sembrava essere che no, non poteva.
Poco tempo dopo che la sua risposta
fu pubblicata sul Citizen, qualcuno le
lasciò un pacchettino piatto sulla soglia
della pensione, avvolto in carta da
pacchi con scritto in stampatello MRS
KICKLEY. Curiosa, Elizabeth lo aprì, e
scoprì che l’errore che compariva nel
cognome non era dovuto al caso. Il dono
del suo nemico anonimo era un opuscolo
intitolato: Dietro le finte, scritto da una
negra al servizio di Mrs Lincoln e Mrs
Davis. La presunta autrice, «Betsey
Kickley (negra)», aveva firmato con una
X, segno che era analfabeta.
Con il cuore che batteva forte lo aprì
e percorse le prime righe del testo,
abbastanza da capire che era una
parodia crudele del suo libro. Disgustata
lo buttò via, ma non riuscì a cancellare
dai suoi pensieri un’immagine che la
tormentava: pile e pile di quegli
opuscoli che venivano prelevati da
chioschi e scaffali di librerie, e lettori di
tutto il paese che se li gustavano con
feroce soddisfazione.
La sua autobiografia, non tardò a
scoprire, era diventata ben più difficile
da trovare. Le polemiche e l’accusa che
fosse un volume «indecente» avevano
scoraggiato molti librai dall’ordinarlo, e
con il passare del tempo Elizabeth sentì
voci, apparentemente affidabili, sul fatto
che Robert Lincoln, furioso, avesse
chiesto all’editore di ritirare il libro e,
quando non vi era riuscito, insieme ai
suoi amici aveva comprato tutte le copie
che era riuscito a trovare e le aveva
bruciate.
A Elizabeth pareva di vivere in un
incubo. Scrisse lettere appassionate di
scusa a Mrs Lincoln, ma non ricevette
mai la benché minima risposta. Quando
scoprì che Robert Lincoln si trovava in
città gli mandò un biglietto implorandolo
di riceverla, ma lui rifiutò. I bianchi
erano
solidali
nell’ostilità
che
mostravano a lei, donna nera che aveva
osato giudicare una persona in una
posizione sociale tanto più elevata della
sua, e perfino chi non provava simpatia
per l’ex first lady accusò la sarta di
averla tradita e di avere disonorato la
memoria di Abraham Lincoln rivelando
momenti intimi della loro vita familiare.
La comunità nera ce l’aveva con lei
perché temeva che i datori di lavoro
bianchi, prevedendo la pubblicazione di
libri che rivelassero i loro segreti,
sarebbero stati restii ad assumere
personale
di
colore.
Elizabeth,
demoralizzata, piena di indignazione,
delusa e imbarazzata continuò ad andare
avanti a testa alta, perfino quando
diverse delle sarte per le quali aveva
lavorato a un tratto smisero di affidarle
incarichi.
Le entrate diminuirono, e le vendite
del libro diventarono per lei più
importanti che mai. Quando andò a
trovare Redpath per chiedergli come
stessero andando, lui la informò che non
erano ancora stati venduti abbastanza
esemplari per coprire i costi di stampa e
distribuzione. Per aumentare le vendite
propose di organizzare delle conferenze
pubbliche, una a New York e una a
Boston, e se queste fossero andate bene
avrebbero pensato ad altre città.
«Chicago, magari?» suggerì lei,
desiderosa di un’opportunità per fare
visita a Mrs Lincoln e presentarle le
scuse e spiegazioni che meritava.
«Vedremo» rispose Mr Redpath
affabile.
Durante la terza settimana di giugno
Elizabeth lesse brani del proprio libro a
un pubblico di una trentina di persone in
una libreria di Manhattan; un terzo di
loro erano buoni amici venuti a
sostenerla. Gli altri, capì dalle domande
e dai commenti che fecero, potevano
essere divisi in tre gruppi: i curiosi,
attratti dalle accuse di indecenza e dalle
descrizioni scandalose di cui aveva
parlato la stampa, e speranzosi di
assistere in prima persona a entrambe;
gente che disprezzava Mrs Lincoln e che
era ben felice di vederla umiliata; e
secessionisti irriducibili e altri nemici
politici, che volevano trovare conferma
dei loro sospetti di tradimenti, indecenza
e
corruzione
nell’amministrazione
Lincoln. A fine serata, solo gli amici di
Elizabeth andarono a casa soddisfatti.
«Mrs Elizabeth Keckley, la spia della
Casa Bianca, cerca di aumentare le
vendite del suo libro scandaloso
leggendone dei brani in pubblico»
commentò perfido lo Springfield Daily
Republican due giorni dopo. «Ci ha
provato a New York due giorni fa, ma è
fallita miseramente nell’intento, come
ben meritava. Stasera ci riprova a
Boston. Legge peggio ancora di come
scrive, ed è tutto dire».
Sebbene l’annuncio del giornale
minacciasse di attrarre ancora una volta
uno stuolo di curiosi, il pubblico
all’evento di Boston presso Lee &
Shepard fu anche meno numeroso di
quello presente alla prima lettura, ma
composto dello stesso tipo di persone.
Elizabeth fu quindi sollevata, più che
delusa, quando Mr Redpath la informò
che Carleton & Company non intendeva
organizzare altre conferenze per lei,
sebbene la incoraggiassero a proseguire
su quella strada per conto suo, se lo
desiderava.
E
lei
non
lo
desiderava
assolutamente.
Aveva troppa dignità per lagnarsi
dell’ingiustizia della sua situazione.
Capiva
di
essere
ormai
irrimediabilmente invischiata nello
scandalo, e ogni movimento che faceva
per uscirne la precipitava sempre più
giù.
Era impossibile contare il numero di
volte in cui aveva osservato Mrs
Lincoln dibattersi in situazioni simili. Il
suo istinto le aveva suggerito di
combattere strenuamente per salvare la
propria reputazione mandando decine di
lettere per sollecitare un aiuto, evocando
il potere legato alla funzione del marito
che doveva procurarle, a suo dire, un
atteggiamento di deferenza, sfruttare
l’influenza che era in grado di esercitare
per stabilire alleanze e appianare i
contrasti; quando tutto il resto era fallito,
fuggiva e lasciava gli amici a
raccogliere i cocci al posto suo.
Le tattiche di Mrs Lincoln non
avevano mai funzionato, per quanto
Elizabeth riuscisse a ricordare.
Se l’esempio dell’ex first lady
doveva esserle di lezione, le aveva
mostrato che l’unico modo per
risollevarsi da uno scandalo consisteva
nel vivere un’esistenza esemplare da
quel momento in poi.
Ed era proprio ciò che intendeva
fare.
17.
1868-1893
Quando le acque si calmarono, Elizabeth
tornò discretamente a Washington, dove
Virginia, Walker ed Emma l’accolsero
con calore, senza accennare al libro o
allo scandalo. Riaprì il laboratorio di
sartoria, richiamò le assistenti e scrisse
alle clienti di un tempo annunciando il
proprio ritorno, ma durante la sua lunga
assenza molte delle sue aiutanti avevano
trovato un’altra datrice di lavoro o si
erano messe in proprio. Alcune delle
sue clienti preferite le ordinarono degli
abiti per la stagione sociale invernale,
ma molte non si fecero sentire. Sebbene
non lo dicessero, Elizabeth era certa di
averle perse per colpa del libro.
Scrisse di nuovo a Mrs Lincoln
chiedendole perdono, per farle sapere
che era tornata a Washington, se mai
avesse voluto rispondere. Se l’ex first
lady fosse tornata nella capitale, si
ripromise di scusarsi profusamente di
persona. E le avrebbe fatto un regalo
sincero al quale lavorava da tre anni e
che non era ancora finito: la trapunta che
aveva cominciato sul treno per Chicago,
quando aveva accompagnato la vedova
affranta al momento di lasciare la Casa
Bianca.
Composta di ritagli di seta avanzati
dagli abiti di Mrs Lincoln, nella trapunta
predominavano rosso, blu, oro e bianco,
ma apparivano anche altri colori come
beige, lavanda e rosa antico. Al centro
aveva collocato l’applicazione imbottita
di un’aquila calva ad ali spiegate che
stringeva una bandiera tra gli artigli, con
sotto ricamata la parola Liberty. Attorno
all’emblema centrale aveva cucito tre
bordi concentrici, il primo di seta dorata
ricamata con fiori lungo i lati e con
angoli di seta nera. Il secondo era più
semplice, con inserti beige in alto e in
basso e a strisce bianche e nere lungo i
lati. Poi aveva aggiunto dei bordi blu
scuro e grigio-blu, con angoli marrone
chiaro, decorati di fiori, rametti e altre
decorazioni. Aveva progettato di
incorniciare il medaglione centrale con
esagoni dal motivo floreale, raggruppati
sette a sette e separati da rombi dai
colori contrastanti, ma quella parte non
era ancora finita. E non pensava che si
sarebbe fermata lì; sarebbe stato
necessario aggiungere un altro bordo
concentrico o due, e forse un’altra
decorazione, come un bordo smerlato o
a frange, ma non aveva ancora deciso.
Per un po’ vi lavorò alacremente – meno
clienti significava meno abiti, e più ore
di inattività da occupare – sperando di
completarla in tempo per regalarla a
Mrs Lincoln la prossima volta che fosse
andata a Washington.
Ma anche se la vedova del presidente
tornò nella capitale in settembre per il
matrimonio del figlio Robert con Mary
Harlan, sembrava avere una vera e
propria avversione per Washington,
perché da quanto Elizabeth ne sapeva
non fece altre visite. Era sicura che
l’avrebbe saputo, in caso contrario,
perché i giornali continuavano a
informare il pubblico sui suoi
spostamenti, le sue difficoltà finanziarie
e i suoi tentativi di convincere il
governo ad aumentarle la pensione.
Fu dai giornali che seppe che era
partita insieme a Tad per l’Europa, che
progettavano di percorrere in lungo e in
largo. Mrs Lincoln dichiarò di voler
partire per migliorare il suo stato di
salute, che negli ultimi tempi non era
stato eccellente, e per riprendersi dalle
delusioni e umiliazioni subite in patria.
Alcuni burloni, citando la famigerata
autobiografia
della
sua
sarta,
ricordarono quanto da lei dichiarato un
tempo sul fatto che avrebbe preferito
lasciare il paese e assentarsi per tutto il
suo mandato se il generale Grant fosse
stato eletto presidente degli Stati Uniti.
Forse, suggerirono con insolenza, era
per quello che progettava un viaggio
tanto lungo. Elizabeth, invece, non
credette neppure per un attimo che Mrs
Lincoln avesse portato all’estero Tad
per evitare l’amministrazione di Grant.
Senz’altro voleva lasciarsi alle spalle il
dolore e i brutti ricordi, uno dei quali, la
sarta presumeva, era la brusca fine della
loro amicizia.
Con una stretta di rimorso e di
sofferenza,
Elizabeth
ripose
accuratamente la trapunta piegata nel
baule dove conservava i tessuti avanzati
dagli abiti di Mrs Lincoln. Non aveva
più voglia di lavorarci, senza sapere se
o quando avrebbe rivisto l’amica di un
tempo.
Perfino
vivendo
in
modo
estremamente frugale Elizabeth aveva
difficoltà a sbarcare il lunario. Il libro
che le era costato tanto non le aveva
fruttato niente in termini economici, e
così trascinò in tribunale, senza clamori,
G.W. Carleton & Company per ottenere
metà dei guadagni ottenuti grazie
all’autobiografia. Non vinse, e quindi
non ricevette neanche un centesimo, né
le furono mai restituite le lettere di Mary
Lincoln.
Di tanto in tanto vedeva scritto il
nome dell’ex first lady sui giornali e
leggeva dei suoi viaggi in Germania,
Scozia, Inghilterra, Francia e Italia. Nel
1870, mentre Elizabeth tentava tra mille
difficoltà di far decollare di nuovo la
propria attività, seppe che il senatore
Charles Sumner aveva fatto approvare
dal Congresso un provvedimento che
garantiva a Mrs Lincoln una pensione
annua di tremila dollari, che il
presidente Ulysses S. Grant aveva
prontamente firmato. Felice, la sarta
scrisse subito a Mrs Lincoln una lettera
di congratulazioni, esprimendo la sua
gioia per quel riconoscimento meritato e
perché finalmente era stata fatta
giustizia. Non accennò al loro litigio,
sperando che i lunghi mesi di lontananza
le avessero dato il tempo per riflettere
sulle molte occasioni in cui Elizabeth le
aveva manifestato lealtà e amicizia, e
che decidesse infine di perdonarla. Le
mandò le lettere alla residenza di
Francoforte sul Meno che appariva
come l’ultimo indirizzo riportato dai
giornali, ma non le giunse risposta. Poco
più tardi, nel maggio 1871, lesse che
Mrs Lincoln e Tad avevano lasciato la
Germania per recarsi in Inghilterra
qualche mese dopo che lei le aveva
scritto, e che era poi tornata a Chicago.
Si chiese, rattristata, se la sua lettera
fosse giunta troppo tardi, e se in quel
momento giacesse ancora chiusa, su un
tavolo nelle stanze affittate dall’amica in
Germania e ormai vuote. Come sarebbe
stato tragico, pensò, se quella lettera
avesse avuto il potere di provocare il
perdono tanto anelato e, per via della
mancata consegna alla destinataria, ogni
occasione di riappacificazione fosse
andata perduta...
Eppure, apprendere del ritorno
dell’amica negli Stati Uniti alimentò le
speranze di Elizabeth, inducendola a
riesumare la trapunta abbandonata e a
riprendere a lavorarci con impegno.
Anche se Mrs Lincoln si trovava a
centinaia di chilometri di distanza, da
anni non era tanto vicina a lei, e se fosse
tornata nella capitale – non era forse
probabile che alla fine dovesse venire
per qualche occasione ufficiale? – la
sarta voleva che la trapunta fosse pronta.
Dai giornali seppe, però, non di una
prossima visita a Washington di Mrs
Lincoln ma, con sgomento, della morte
di suo figlio Tad.
Pianse leggendo di quella triste
notizia. Quando madre e figlio erano
giunti
via
nave
in
America
dall’Inghilterra, affinché il diciottenne
Tad potesse proseguire gli studi, i
polmoni deboli del ragazzo avevano
sofferto parecchio per l’umidità costante
e le tempeste. Arrivato a Manhattan gli
fu diagnosticato un grave problema
respiratorio e fu messo a letto in un
hotel, in attesa che recuperasse le forze
per proseguire il viaggio in treno fino a
Chicago. Alla fine i medici dichiararono
che era pronto ad affrontare il tragitto, e
dopo quella lunga traversata sulle rotaie
che Elizabeth immaginava fin troppo
bene, avendola compiuta lei stessa, i due
erano giunti a Chicago e si erano
stabiliti nella nuova dimora che Robert
divideva con moglie e figlia. Poco dopo
Mrs Lincoln e Tad si trasferirono a
Clifton House, dove la madre poteva
accudire meglio il figlio malato. Ma fu
tutto inutile. Il 15 luglio, Tad Lincoln
morì di idropisia toracica.
Elizabeth
mandò
le
proprie
condoglianze, ma non si aspettava una
risposta che, infatti, non arrivò. Pregò
per la vedova e per Robert, ma
soprattutto per la sua amica. Non
ricordava quante volte, negli anni
intercorsi dall’assassinio del presidente
Lincoln, la vedova disperata avesse
dichiarato che, se non fosse stato per
Tad, avrebbe raggiunto volentieri suo
marito nella tomba. Per sua stessa
ammissione solo Tad e le responsabilità
nei suoi confronti l’avevano dissuasa
dal togliersi la vita.
Per cos’avrebbe vissuto ora?
Elizabeth conservò le sue amate
stanze nella pensione di Walker Lewis
ancora per un po’, ma poi le difficoltà
economiche la costrinsero a trasferirsi
altrove. Per alcuni anni alloggiò in una
stanza presso una famiglia, poi un’altra,
ma sempre nella capitale. In seguito la
sua cara amica Virginia morì, e lei tornò
ad abitare con Walker Lewis per
aiutarlo a occuparsi delle figlie più
giovani che abitavano ancora a casa: la
graziosa Alberta, la sua figlioccia, e la
dolce Elizabeth, nata dopo la guerra. Di
tanto in tanto cuciva, ma la moda era
cambiata, e altre sarte, compresa Emma
che ora era sposata e aveva un figlio e
una figlia, erano più richieste dall’élite
di Washington. Emma, pur essendo
diventata famosa, non aveva dimenticato
chi l’aveva formata e incoraggiata, e
dava spesso lavoro all’amica. Elizabeth
era grata dell’aiuto e molto fiera della
sua ex assistente più brava.
Da quel poco che scrivevano i
giornali, i suoi problemi non erano nulla
rispetto a quelli di Mrs Lincoln, il cui
comportamento instabile era andato
peggiorando dopo la morte di Tad. Nel
maggio 1875, dopo un processo che fece
scalpore e che venne riportato in ogni
disgustoso dettaglio dagli organi di
stampa, Robert Lincoln fece dichiarare
l’infermità mentale della madre e la fece
rinchiudere in un ospedale psichiatrico a
Batavia, nell’Illinois, una sessantina di
chilometri a ovest di Chicago.
Impossibilitata ad aiutare o confortare
l’amica di un tempo, Elizabeth seguì la
storia patetica sui giornali, inorridendo
alla notizia che la signora aveva tentato
di suicidarsi assumendo una dose
eccessiva di laudano il giorno prima
dell’annuncio del verdetto. Il tentativo
era stato sventato da un farmacista
accorto, che l’aveva riconosciuta e
aveva sostituito una miscela di zucchero
bruciato e acqua alla medicina che lei
domandava.
Per le settimane successive Elizabeth
fu tormentata da visioni di Mrs Lincoln
che languiva in un istituto freddo e tetro,
privo di calore umano e di comodità. La
immaginò lamentarsi senza sosta come
quando era morto Willie, urlare e
gemere come dopo l’assassinio del
marito. Lei era stata la sua più fida
compagna in quei giorni bui, ma non era
riuscita a offrirle nessun conforto alla
morte di Tad, né poteva fare nulla per lei
ora.
Poi ricordò la trapunta e si mise a
lavorarci con grande impegno. Finì i
bordi con gli esagoni simili a fiori,
aggiunse un’ultima decorazione di seta
avorio con quattro aquile orgogliose,
una su ogni lato a richiamare l’aquila
centrale scura con la bandiera, di seta
dorata, imbottita e ricamata con
complessi motivi floreali. Quando
l’ebbe quasi finita scrisse al dottor
Richard J. Patterson a Bellevue Place e
chiese se poteva fare visita a Mrs
Lincoln. «Le ho fatto un regalo
importante, che spero accetterà come
simbolo della mia amicizia e del mio
affetto imperituri» scrisse. «Spero tanto
che questa trapunta, fatta di tessuti che
non mancheranno di ricordarle felici
epoche passate, le procurerà distrazione,
consolazione, bellezza e conforto in
questo periodo di isolamento».
Si era a tal punto abituata a scrivere
in Illinois senza ricevere risposta che fu
quasi sorpresa quando il dottor
Patterson le rispose nel giro di due
settimane. Le offrì i suoi omaggi e disse
che era «molto lieto di constatare che la
vedova di Abraham Lincoln non era
stata dimenticata dagli amici di
Washington», ma che si vedeva costretto
a sconsigliarla di andare a trovare la
paziente, tanto più che si trattava di un
viaggio impegnativo, di centinaia di
chilometri. Spesso Mrs Lincoln stava
troppo male per ricevere visitatori e,
anche quando avrebbe potuto farlo,
rifiutava di vedere chiunque.
Ricordandosi di quando aveva
mandato via le molte persone andate a
trovarla a Hyde Park, poco dopo essere
rimasta vedova, Elizabeth fu delusa ma
non sorpresa.
Per quanto riguardava il regalo, il
dottor Patterson scrisse: «È con estrema
ammirazione nei confronti della vostra
generosità che vi invito a non inviare la
trapunta, che dalla descrizione mi pare
un vero capolavoro, finché Mrs Lincoln
non sarà in grado di apprezzarla
maggiormente. In questo momento
detesta qualunque cosa le ricordi il
passato. Oggetti, luoghi e anniversari
che evocano ricordi piacevoli per una
persona sana, per lei sono da bandire.
Sono sicuro che, per quanto la trapunta
sia splendida, Mrs Lincoln non vi
troverebbe
conforto
alcuno.
Vi
suggerisco di tenerla in serbo e di
donargliela quando starà meglio, e
allora sono sicuro che vi ringrazierà».
Non sarebbe accaduto, pensò
Elizabeth. Mai e poi mai. Non era un
sintomo della sua pazzia il fatto che non
sopportasse i ricordi del passato. Era
sempre stato così. Aveva dato via
subito, con impazienza, i giocattoli e i
libri di Willie dopo la sua morte. Si era
disfatta dei cimeli del presidente
Lincoln nelle settimane successive
all’assassinio, non solo per esprimere
gratitudine e rispetto per i suoi più cari
amici, ma per liberarsene e non doverli
vedere mai più.
La sarta, sbattendo le palpebre per
togliere via le lacrime, ripose la
trapunta, sapendo che sarebbe stata
l’ultima volta. Che sciocca era stata a
pensare che la sua amica avrebbe voluto
vedere i ritagli di abiti indossati
all’apice del suo trionfo come first lady,
vestiti dei quali aveva cercato di
disfarsi in quello che si era rivelato il
peggior
scandalo
in una
vita
burrascosa...
Che stupida era stata a pensare che
Mrs Lincoln avrebbe voluto qualcosa da
lei!
Di tanto in tanto qualche breve
trafiletto dava notizie sulla reclusione
della vedova Lincoln. Un giornalista del
Chicago Post and Mail che era andato a
visitare il sanatorio aveva ricevuto
inspiegabilmente il permesso di
intrattenersi con la vedova, e quando
Elizabeth seppe che l’aveva ricevuto
con un abito dimesso e con i capelli
ormai completamente bianchi, si sentì
morire. Il reporter raccontò che
farneticava, e che quando si trovava da
sola in camera sua parlava a personaggi
immaginari, e la sarta si sentì tanto
angosciata da non riuscire a proseguire
nella lettura. Temendo che il suo stato
fosse
destinato
a
peggiorare
irrimediabilmente, fu felice di sapere,
poco più di un mese dopo, che era
migliorata tanto da essere dimessa per
poter fare visita a sua sorella Elizabeth
Edwards a Springfield. «È probabile
che non torni più al Bellevue Asylum»
riferì il corrispondente di Chicago. «Sta
molto meglio, dorme e mangia bene, e
non mostra alcuna mania; se è
definitivamente guarita, solo la vita
attiva e il tempo lo dimostreranno».
Elizabeth si felicitò della buona
notizia, e lo stesso fece quando, nel
giugno 1876, i titoli dei giornali
riferirono che Mrs Lincoln era stata
dichiarata ufficialmente sana di mente.
Abitava con la sorella Elizabeth a
Springfield, dopo aver appianato, a
quanto pareva, i loro dissapori. La
debole speranza, coltivata dalla sarta,
che l’amica di un tempo decidesse di
perdonarla svanì un’altra volta quando
seppe che il 1° ottobre era salpata alla
volta della Francia e che probabilmente
avrebbe trascorso molti anni all’estero.
Mary Lincoln non rientrò negli Stati
Uniti fino all’autunno del 1880, e lo fece
solo perché, a sessantadue anni, era di
salute troppo cagionevole per stare da
sola. Andò a vivere con sua sorella, ed
Elizabeth seppe che non sarebbe mai più
tornata a Washington.
Il 2 luglio 1881 Robert Lincoln stava
attraversando con il neoeletto presidente
James Garfield una stazione ferroviaria
di Washington quando un uomo, deluso
per non essere riuscito a ottenere un
lavoro dal presidente, gli sparò due
colpi al torace. Garfield sopravvisse,
ma sul finire dell’estate fu colto da
un’infezione e deperì, soffrendo per
ottanta giorni fino alla morte, avvenuta il
19 settembre. Elizabeth, sconvolta e
inorridita quanto il resto del paese, non
riuscì a dormire pensando a Mrs
Lincoln, a come doveva essere
angustiata da quel fatto di sangue che
evocava certamente l’assassinio del
marito.
La sarta fu tentata di scriverle di
nuovo – per manifestarle la propria
comprensione, per assicurarle che aveva
ancora almeno un’amica che pensava a
lei in quei momenti difficili – ma rimase
seduta alla scrivania a fissare il vuoto,
incapace di trovare le parole. Alla fine
rinunciò senza avere scritto neppure una
riga.
Lesse altre due notizie sui quotidiani
nazionali a proposito dell’ex first lady.
La prima volta fu nel novembre di
quell’anno, poco dopo che il Congresso
aveva accordato alla vedova del
presidente Garfield una pensione annua
di cinquemila dollari, duemila più di
Mrs Lincoln. La campagna di
quest’ultima per ottenere un aumento
della propria pensione le fruttò nuovi
titoli sui giornali. Nel gennaio 1882 il
Congresso accettò e, in uno slancio di
generosità, le accordò anche gli arretrati
e un bonus di quindicimila dollari.
Elizabeth esultò per la decisione, felice
di sapere che finalmente Mrs Lincoln
sarebbe
stata
libera
dalle
preoccupazioni
economiche
che
l’avevano assillata per anni.
Ma la vedova Lincoln non poté
godersi a lungo il trionfo.
La volta successiva che Elizabeth
scoprì il suo nome sui giornali di
Washington fu il giorno dopo la sua
morte, a Springfield, il 16 luglio 1882.
Non avendo ormai alcuna speranza di
riconciliarsi, Elizabeth non aveva più
motivo di finire la trapunta, ma mentre la
nazione piangeva e celebrava l’ex first
lady, lei sentì l’impulso di estrarre la
sua creazione ancora incompiuta dal
baule. All’inizio pensò di aggiungere
una larga striscia di seta nera lungo il
bordo esterno, simbolo di lutto, ma poi,
proprio mentre si apprestava a tagliare
il tessuto, rinunciò. Mrs Lincoln aveva
trascorso quasi vent’anni in lutto, e
anche se Elizabeth si rendeva conto che
era un’idea strana, la sua, non
sopportava il pensiero di sottoporre la
trapunta allo stesso triste destino.
Applicò invece una frangia rossa, che le
ricordava l’eleganza e il patriottismo
dell’epoca migliore di Mrs Lincoln alla
Casa Bianca. Poi, per simboleggiare la
scomparsa dell’ex first lady, aggiunse
quattro nappe rosse, una in ogni angolo,
che le ricordavano le nappe applicate
sulla seta nera del catafalco del
presidente Lincoln. Fu l’unico simbolo
di lutto che usò per la trapunta, anche se
sapeva che nessuno guardando la sua
creazione l’avrebbe riconosciuto come
tale.
È finita, pensò quando ebbe dato
l’ultimo punto.
Aveva lavorato duro fino a quel
momento, tenendosi occupata per non
avere tempo di pensare, ma rendendosi
conto che era davvero finita perse quella
facciata di serena rassegnazione e tutto
il dolore scaturì da dentro, facendola
piangere.
Nel 1890, otto anni dopo la morte di
Mary Lincoln, che non si curava certo di
che fine facessero i cimeli donati a
Elizabeth, questa si trovò in tali
difficoltà finanziarie che fu costretta a
vendere i ricordi del presidente Lincoln,
dopo averli conservati e venerati per
venticinque anni. Vincendo la propria
avversione nei confronti dei mediatori,
si affidò a W.H. Lowdermilk & Co. e
vendette i suoi tesori a un certo Charles
F. Gunther di Chicago, fabbricante di
dolciumi e raccoglitore di curiosità. Mr
Gunther comprò il mantello macchiato di
sangue che Mrs Lincoln indossava la
sera dell’assassinio del marito, il guanto
destro che il presidente portava durante
il primo ricevimento aperto al pubblico
del secondo mandato, e tutto il resto. Le
uniche cose che Elizabeth conservò
furono un paio di orecchini di Mrs
Lincoln, i ritagli di tessuto avanzati dai
suoi abiti e la trapunta, che le pareva un
reperto risalente a quell’epoca, sebbene
l’avesse finita molto più tardi.
La notizia della vendita giunse fino
all’università di Wilberforce a Xenia,
nell’Ohio, dove dovette suscitare la
curiosità e anche la preoccupazione del
vescovo Daniel Payne. Non aveva
dimenticato che una volta Elizabeth
aveva promesso di donare tutte le sue
reliquie dei Lincoln all’università per
organizzare una mostra in Europa, per
raccogliere fondi e contribuire a
ricostruire
l’edificio
principale
dell’ateneo, raso al suolo da un incendio
il giorno dell’assassinio del presidente
Lincoln. La vedova si era opposta con
decisione, inducendo Elizabeth a ritirare
l’offerta con grande dispiacere, ma il
vescovo aveva capito il suo dilemma e
rispettato la decisione. Mrs Keckley
doveva essere in una situazione davvero
disperata per vendere quegli oggetti a
lei tanto cari.
La sarta fu piacevolmente sorpresa
ricevendo la lettera del vescovo Payne
che si informava della sua salute, e lesse
con gioia la rievocazione dei ricordi dei
tempi passati e la descrizione dei
cambiamenti intervenuti all’università
da quando vi aveva studiato George, suo
figlio. Poi le faceva una proposta che la
sconcertò a tal punto da obbligarla a
sedersi: le offriva di dirigere il
dipartimento di cucito ed economia
domestica dell’università.
Scrisse subito per ringraziare e
declinare. Lei non era una docente, gli
precisò. Era vero che aveva imparato a
scrivere da piccola, anche se era
illegale per lei leggere e scrivere, e
aveva tentato per tutta la vita di esaudire
il desiderio del padre, che non aveva
voluto che restasse analfabeta. Aveva
sempre amato leggere, soprattutto la
Bibbia, ma non aveva mai avuto
un’educazione regolare. Gli studenti
dell’università non si aspettavano forse
un docente più colto?
Assolutamente no, rispose con
prontezza il vescovo Payne. Gli studenti
del dipartimento di cucito ed economia
domestica volevano insegnanti che
conoscessero alla perfezione quella
disciplina e sapessero trasmetterla ad
altri. A Elizabeth quella descrizione
calzava a pennello, e la sua esperienza
come creatrice di mantua nei circoli più
esclusivi di Washington sarebbe stata
preziosissima. Il fatto che fosse riuscita
ad avere un tale successo senza godere
di un’istruzione regolare dimostrava
semplicemente la sua forza di carattere,
la sua determinazione, perseveranza e il
suo amore per il sapere, valori che
poteva tramandare ai suoi studenti.
Sebbene avesse insegnato il cucito a
ex schiave nei campi di neri e a ragazze
ambiziose nel proprio laboratorio, non
aveva mai tenuto lezione in un’aula.
Come sarebbe stato diverso, si disse
immaginandosi dinanzi a una classe di
studentesse smaniose, mostrare loro con
pazienza come creare pieghettature
perfette e spiegare la posizione da
assumere per evitare dolori al collo e
alla schiena.
Accettò di visitare l’università,
incontrare insegnanti e studenti e
saperne di più sul posto che le era stato
offerto. Fece il viaggio in treno e fu
ricevuta con tanta cordialità da tutti
coloro che incontrò sul posto che dopo
due giorni all’università di Wilberforce
accettò volentieri l’offerta generosa del
vescovo Payne. E fu così che, dopo
trent’anni passati a Washington, la
settantaquattrenne Elizabeth fece i
bagagli, disse addio a Walker Lewis,
alle sue figlie, a Emma e ai molti amici
della Presbyterian Church di Fifteenth
Street e si trasferì a ovest, in Ohio.
Mai, negli anni piacevoli e
gratificanti
che
seguirono,
ebbe
occasione di rimpiangere la sua
decisione.
Elizabeth adorava insegnare e fare
lunghe passeggiate in giro per il campus
chiacchierando con le sue studentesse
allegre, curiose e giovanissime, che
erano nate tutte dopo la guerra e non
avevano conosciuto un solo giorno di
schiavitù. La tecnica sartoriale era
cambiata dal periodo in cui i suoi abiti
erano in auge, ma si adattò e scoprì che
con l’esperienza si padroneggiavano
anche le trovate e le mode più bizzarre.
Le studentesse sussurravano tra loro
aneddoti sul suo conto e poi andavano
da lei, intimidite e ammirate, a chiederle
com’era il presidente Lincoln e se era
vero che sua moglie era pazza. Lei non
mancava mai di rispondere elogiando il
presidente e anche sua moglie, perché in
nessun caso avrebbe permesso a
qualcuno di parlare male dell’ex first
lady in sua presenza.
A volte invitava a casa sua un gruppo
di
studentesse
particolarmente
affezionate e promettenti e mostrava loro
sete, rasi e altri tessuti preziosi che le
erano avanzati dagli abiti di Mrs
Lincoln. Di tanto in tanto ricompensava i
successi con un pezzetto di quelle stoffe
preziose, che la fortunata ragazza poteva
usare per confezionare un puntaspilli, un
piccolo tesoro della Casa Bianca utile e
tutto per lei. Le sue studentesse, così
come alcuni docenti, ammirarono la
trapunta, e capirono il suo dolore
quando seppero che non era mai riuscita
a donarla a Mrs Lincoln come avrebbe
voluto.
Elizabeth trovava strano che nessuna
delle sue studentesse fosse al corrente
dello scandalo che aveva causato la
rottura con la vedova del presidente.
Qualcuna di loro sapeva che aveva
scritto un’autobiografia, ma nessuna
l’aveva letta; ciò non la stupì, visto che
Robert Lincoln aveva fatto di tutto per
togliere dalla circolazione ogni copia
che era riuscito a trovare.
Alla fine si disse che, forse, era
uscita vincente da quello scandalo.
Nel 1893, l’università di Wilberforce
prese parte alla World’s Columbian
Exposition a Chicago, una celebrazione
grandiosa
per
commemorare
il
quattrocentesimo anniversario della
scoperta del Nuovo Mondo da parte di
Cristoforo
Colombo.
Durante
i
preparativi, le proposte di oggetti da
esporre da parte di americani di colore
furono sistematicamente rifiutate, ma
dopo proteste risentite da parte della
comunità nera capeggiata da Frederick
Douglass e Ida B. Wells, gli
organizzatori cedettero e permisero loro
una partecipazione limitata, che
includeva disegni e lavori di cucito nel
padiglione delle donne. Sapere che
molti abili artigiani e scienziati della
sua
razza
erano
stati
esclusi
ingiustamente temperò l’entusiasmo di
Elizabeth per l’onore accordato alla
Wilberforce, e se fosse stato per lei si
sarebbe ritirata dall’esposizione per
solidarietà. Ma la decisione non
spettava a lei e, come disse a se stessa,
le sue studentesse tanto volonterose
meritavano di vedere esposta e
ammirata la loro opera. Solo prendendo
il ruolo che spettava loro in mezzo ai
bianchi e presentando le proprie
creazioni agli occhi di un pubblico
scettico potevano sperare di sconfiggere
i pregiudizi.
Elizabeth si sentì invadere dai ricordi
mentre insieme a diverse studentesse
viaggiava in treno alla volta di Chicago.
Quando chiuse gli occhi, vide la sua ex
cliente e amica come la ricordava in
quelle settimane dolorose a Hyde Park,
a lamentarsi da sola nella stanza buia,
guardando abbattuta la vasta distesa
azzurra del lago Michigan. Non aveva
mai cessato di sentirsi in lutto, Elizabeth
lo sapeva. Non aveva mai rimesso
insieme i cocci della sua vita spezzata,
trasformandoli
in
un’esistenza
sopportabile, se non felice. Anche se
Mrs Lincoln era ormai al di là della
sofferenza umana, e si era infine riunita
con i figli minori e con l’adorato marito,
provò di
nuovo un’ondata di
compassione per lei.
L’esposizione fu splendida. Elizabeth
aveva immaginato che assomigliasse
alla Great Northwestern Sanitary Fair
che aveva visto sempre a Chicago nel
giugno 1865, ma la World’s Columbian
Exposition era molto più ambiziosa. Vi
parteciparono cinquanta nazioni, e
quando non erano nel loro stand,
Elizabeth e le studentesse si aggiravano
tra edifici e padiglioni, ammirando
nuove,
ingegnose
invenzioni,
assaggiando cibi esotici e spesso
deliziosi, ascoltando musiche venute da
paesi lontani, di là dall’oceano.
Elizabeth si sentì invasa da una profonda
nostalgia mentre aspettava, al sicuro
sulla terraferma, le sue studentesse che,
incuranti del pericolo, fecero un giro su
uno strano apparecchio chiamato ruota
panoramica. La vasta zona adibita
all’esposizione era così vicina all’ex
residenza di Hyde Park di Mrs Lincoln
che Elizabeth avrebbe potuto andarci a
piedi, se avesse voluto; ma sapeva che
non
avrebbe
provato
alcuna
consolazione o soddisfazione nel
rivisitare quel periodo infelice della sua
vita.
Preferiva continuare a esplorare
l’esposizione,
che
sembrava
rappresentare il futuro con tutte le sue
novità, meraviglie e innovazioni, e
trascorrere ore piacevoli al padiglione
dell’università
di
Wilberforce,
solidamente ancorato nel presente. I loro
oggetti esposti erano nell’edificio
dedicato agli artigiani e alle materie
umanistiche, e nell’angolino che era loro
riservato nella grande area espositiva,
manichini di legno vestiti con abiti
disegnati e creati da Elizabeth e dalle
sue studentesse illustravano l’abilità e il
senso artistico del loro dipartimento,
mentre una vetrina girevole ospitava
fotografie e biografie delle ex
studentesse ormai laureate.
Osservando
i
passanti
che
ammiravano i manufatti, e guardando le
studentesse che rispondevano con
intelligenza, educazione e cortesia alle
domande dei visitatori, Elizabeth sentì
svanire la tristezza, sostituita da
un’ondata di gioia e orgoglio che
sembravano farle scoppiare il cuore.
Quella era la sua eredità, capì, non il
sontuoso guardaroba che aveva creato
per Mrs Lincoln o il libro che aveva
scritto, pur armata delle migliori
intenzioni. Quelle giovani donne, e le
apprendiste che aveva formato e
consigliato ai tempi di Washington, e le
nere fuggite o affrancate cui aveva
fornito i rudimenti per prendersi cura di
sé e della loro famiglia erano la sua
eredità. La loro riuscita, indipendenza e
sicurezza erano i doni più autentici che
lasciava al mondo.
Il suo retaggio più prezioso non si
misurava in indumenti o a parole, ma
nella saggezza che aveva impartito, nelle
esistenze migliorate grazie al suo
intervento.
18.
1901
Elizabeth osservò le strade di
Washington dal finestrino della carrozza,
pensando a quanto la capitale fosse
cambiata da quando vi si era stabilita,
giovane e ambiziosa, nel 1860. Con la
mente la vedeva ancora come un tempo:
la cupola del Campidoglio incompiuta,
le strade fangose, gli schiavi condotti in
catene dal porto alla zona di detenzione.
Com’era cambiato il mondo da
allora! Com’era cambiata anche lei...
Le gite in carrozza a cadenza
settimanale erano prescritte dal suo
medico, che insisteva perché uscisse per
irrobustirsi un po’. Da quando era
tornata a Washington, dopo che un
leggero ictus l’aveva costretta a dare le
dimissioni
dall’università
di
Wilberforce, abitava in una stanza nel
seminterrato della Casa per donne e
bambini di colore poveri in Fifteenth
Street. La divertiva parlare di quel
luogo come della sua casa, non solo
perché ci abitava, ma anche perché era
stata creata in parte grazie alle
donazioni della Contraband Relief
Association da lei fondata tanti anni
prima. Amava la sua stanzetta isolata,
piccola e in perfetto ordine, il tavolino
con una brocca e un catino in un angolo,
una sedia dallo schienale dritto
nell’altro, una sedia a dondolo vicino al
letto e il vecchio baule che conteneva i
suoi indumenti e quanto le restava dei
ricordi tanto amati. Sopra il cassettone
era appeso un ritratto di Mrs Lincoln e
dalla finestra Elizabeth vedeva uomini e
donne di colore che andavano e
venivano dai corsi all’università di
Howard. Nessuno, a eccezione del suo
sacerdote e di pochi amici, sapeva che
abitasse lì, chi fosse e che vita avesse
avuto. E a lei andava bene così.
Quando la carrozza si fermò davanti
a casa, scese lentamente, con prudenza,
accettando con gratitudine l’aiuto del
cocchiere. Alta e ben dritta, dimostrando
di non avere mai ceduto all’età o alle
malattie, varcò la soglia, scambiando
saluti educati con gli altri residenti e il
personale che incrociò. «Avete una
visitatrice nella sala comune» le
annunciò una donna, ed Elizabeth
percorse il corridoio, curiosa perché
non aspettava nessuno, altrimenti
sarebbe uscita prima per tornare più
presto.
Nella sala scoprì con gioia che si
trattava della sua figlioccia Alberta, o
Mrs Alberta Elizabeth Lewis-Savoy
come si chiamava ora, che conosceva da
quando era nata. «Mia cara ragazza!»
l’accolse
felice
Elizabeth,
abbracciandola e baciandola. Alberta
sarebbe sempre stata una ragazza agli
occhi di Elizabeth, anche se aveva
trentasette anni e dei figli. «A cosa devo
questo piacere inatteso? Non ti
aspettavo fino a domenica».
Alberta sorrise con calore, ma aveva
un’espressione cauta, esitante. «Ho
trovato un articolo di un certo interesse
sul giornale stamattina, e ho pensato che
volessi vederlo».
Estrasse un ritaglio dalla borsa e lo
consegnò all’anziana donna, che lo prese
senza aprirlo. «È così appassionante che
non sei riuscita ad aspettare pochi
giorni?»
Alberta fu sul punto di parlare, ma
poi scosse il capo, sorrise debolmente e,
quasi con aria di scuse, condusse
Elizabeth a una sedia. Lei si sedette
soffocando un sospiro, e chiedendosi di
cosa potesse mai trattarsi stavolta.
Avvicinandosi agli occhi l’articolo,
lesse il titolo ad alta voce: «Autori neri.
Mmm». A un tratto diffidente, alzò lo
sguardo su Alberta che le fece cenno di
continuare.
Autori neri
Trecento libri esposti a Buffalo
Buffalo, New York. Trecento libri circa scritti
da neri americani fanno parte della mostra dei
neri alla Pan-American Exposition. La
collezione comprende le migliori opere
letterarie scritte da autori di colore, ed è unica.
L’esame di questi libri fornisce nuovi dati che
permettono di giudicare la civiltà nera.
A quel punto Elizabeth sospirò e scosse
il capo.
Tanto vale che siamo subito onesti nel nostro
giudizio. È quasi tutto da buttare e non c’è nulla
di davvero meritevole.
Questo commento la fece ridere.
«Continua a leggere» la esortò
Alberta, e l’anziana donna obbedì
riluttante.
Non c’è stato nessun Omero, Shakespeare o
Dumas nero, nessun equivalente americano
dell’illustre mulatto francese. Molti di questi
libri, però, sono migliori di quanto si
sospetterebbe, ripensando alle loro origini. Il
pregio principale, che li rende degni
d’attenzione, non riguarda la loro forma
letteraria, ma va cercato nel fatto che si tratta
della testimonianza migliore al mondo
sull’evoluzione dei neri fornita dai neri stessi.
«Secondo te» chiese Elizabeth «quando
i nostri amici bianchi scrivono e parlano
in questo modo hanno idea di quanto ci
insultino?»
«Molti di loro no» rispose Alberta.
«E se anche lo sapessero, non se ne
curerebbero».
Elizabeth sospirò e continuò a
leggere, imbattendosi nelle recensioni
encomiastiche di poesie e lettere di
Phillis Wheatley, un opuscolo del
reverendo Daniel Crocker e diverse
opere erudite. Seguivano elogi per
l’opera eccezionale di Frederick
Douglass
e
del
professore
dell’università di Wilberforce W.E.B.
Du Bois; poi Elizabeth trattenne il fiato
vedendo il proprio nome nel paragrafo
successivo.
Come immaginabile, la collezione è ricca di
quelle che si possono definire curiosità
letterarie. Una di esse, Dietro le quinte di
Elizabeth Keckley, «ex schiava ma più di
recente sarta e amica della moglie di Abraham
Lincoln», era molto in voga all’epoca della
pubblicazione (1868) per via delle rivelazioni
esclusive.
«Molto in voga?» ripeté Elizabeth, non
sapendo se sentirsi divertita o allarmata.
A quanto pareva il giornalista non aveva
svolto bene le sue ricerche, altrimenti
avrebbe scelto parole diverse per
descrivere il libro.
«Credevo che dovessi sapere che il
tuo libro è esposto e sembra proprio
aver attirato l’attenzione» disse Alberta,
profondamente dispiaciuta. Conosceva
bene la storia dell’accoglienza riservata
al libriccino rosso di memorie di
Elizabeth quando era stato pubblicato.
Molto in voga, indubbiamente.
«Grazie, mia cara!» esclamò
Elizabeth prendendole la mano e
facendo un sorriso affettuoso. «Ora sono
avvertita. Speriamo che la cosa si fermi
qui. Fa piacere essere inclusi
nell’esposizione, ma il mondo è
cambiato, e sospetto che la mia
“curiosità letteraria” cadrà presto nel
dimenticatoio un’altra volta».
Ma si sbagliava.
Meno di una settimana dopo ricevette
una lettera da un giornalista, Smith D.
Fry. Aveva letto dell’esposizione dei
neri e, intrigato dalla breve descrizione
di Dietro le quinte, desiderava
intervistare l’autrice. «Ero solo un
ragazzo quando è stato pubblicata la
vostra autobiografia» ricordava, «ma
mia madre aveva una prima edizione.
Aveva la copertina rossa, ricordo, e lei
diceva che le descrizioni erano così
vivide che le pareva di trovarsi nella
stessa stanza con voi e Mrs Lincoln in
alcuni dei momenti più importanti,
tragici o felici, degli anni della guerra
civile».
Elizabeth scoprì di essere sensibile
alle lusinghe proprio come chiunque
altro, perché sebbene fosse stata decisa
a rifiutare l’intervista, quel paragrafo le
fece cambiare idea. Il dettaglio sulla
copertina rossa la convinse che l’uomo
descriveva un ricordo autentico, e non
un’invenzione buttata lì al solo scopo di
conquistarla. Il giornale non aveva fatto
menzione del colore della copertina del
libro, né era probabile che Mr Fry ne
avesse visto una copia di recente. Era
anche divertita e compiaciuta per il fatto
che avesse precisato che si trattava della
prima edizione, come se ce ne fosse
stata una seconda.
Si concesse comunque un giorno per
riflettere
prima
di
rispondere
affermativamente.
Il mattino del giorno convenuto, si
vestì con la consueta cura, con un abito
di seta nera e un foulard bianco sulle
spalle. Mr Fry la aspettava in salotto al
suo arrivo, si salutarono e lei ne
apprezzò la puntualità. Aveva una
cinquantina d’anni, era robusto con le
guance un po’ cascanti e quasi calvo, ma
cortese e piacevole; nei suoi occhi si
leggeva un’intelligenza acuta e il
desiderio di imparare tutto il possibile
sull’argomento del suo articolo, anche a
costo di dissezionarla. Avrebbe dovuto
stare in guardia.
Si accomodò in una poltrona
imbottita dallo schienale alto, prese
un’aria dimessa e aspettò la sua prima
domanda.
«Mrs Keckley» esordì il giornalista,
con carta e matita pronte. «Temo di
dover cominciare con una domanda
delicata».
Lei
si
preparò
al
peggio.
«Benissimo».
«I miei lettori lo vorranno sapere, ma
ho paura di chiedervelo». Esitò. «Posso
dire che avete ottant’anni?»
«Sì» rispose lei, anche se ne aveva
ottantatré.
Lui annuì e scrisse qualcosa sul suo
blocco. «Si dice che siate stata la sarta
di Mary Lincoln, ma in realtà eravate
molto di più, vero?»
«Certo» replicò Elizabeth.
«Cucivate per lei e la vestivate per le
occasioni importanti, dico bene?»
Molto più di quello. «Vestivo Mrs
Lincoln per ogni cena di gala» rispose.
«Confezionavo tutto ciò che indossava.
La pettinavo. La aiutavo a indossare
gonne e abiti. Preparavo i bouquet di
fiori che portava, controllavo che i
guanti stessero bene e restavo con lei
ogni sera fino a quando Mr Lincoln non
veniva a prenderla. Le mie mani erano
le ultime a toccarla prima che prendesse
il braccio del marito per andare a
incontrare gli ospiti, uomini e donne, in
quelle grandi occasioni».
«Immagino che abbiate visto spesso
il presidente, allora».
«Sì».
«Vi consideravano parte della
famiglia?»
Elizabeth rifletté brevemente sul
modo in cui Mary Lincoln aveva trattato
le donne della sua famiglia. «Non
arriverei a tanto. Direi che ero un’amica
cara e fidata».
«Per Mrs Lincoln?»
«Per entrambi, anche se ero molto
più in confidenza con la signora». Per un
attimo si perse dietro ai suoi pensieri,
ma poi tornò a fissare Mr Fry e spiegò:
«Il presidente Lincoln era un buon amico
per me, ma non seppe mai quanto io
fossi e sia tuttora una buona amica per
lui». Quando il giornalista la fissò
speranzoso, in attesa che proseguisse,
lei gli spiegò: «Ero, e sono ancora oggi,
amica di Abraham Lincoln, e proteggerò
sempre il suo ricordo tenendo la bocca
chiusa riguardo le molte cose che
purtroppo sospettava o immaginava che
accadessero alle sue spalle a livello
ufficiale e personale».
«Immagino vi sentiate molto leale nei
suoi confronti» osservò Fry. «Avviene lo
stesso per molte persone di colore, o
così mi dicono, perché lui era il “grande
emancipatore”».
Elizabeth si chiese dove volesse
andare a parare. Pensava fosse venuto
per discorrere del libro, ma sembrava
più interessato al presidente Lincoln.
Lei non aveva nulla in contrario. Anzi,
preferiva parlare del grande presidente,
ma se Mr Fry coltivava la speranza che
gli rivelasse qualche pettegolezzo
scottante, sarebbe rimasto molto deluso.
«Sono nata schiava, ma ho comprato la
mia libertà e non devo quindi la mia
emancipazione a Lincoln» puntualizzò.
«Però gli volevo bene per la sua
gentilezza nei miei confronti e per avere
compiuto un gesto splendido: concedere
la libertà al mio popolo. So cos’è la
libertà perché ricordo cosa fosse la
schiavitù». Sorrise, e per un attimo si
sentì dispiaciuta per il giornalista, che
probabilmente aveva figli e forse anche
nipoti, ma a lei pareva molto giovane.
«Voi che non avete mai sofferto non
potete capire pienamente il significato
della libertà».
«No»
ammise
lui
pensoso.
«Immagino di no. Non possiamo».
A un tratto provò uno slancio di
simpatia per lui, sebbene non riuscisse a
fidarsi fino in fondo di un giornalista.
«Ero quasi in adorazione di Abraham
Lincoln» ammise. «Era dolce e sensibile
con me, e mi trattava come tutti i bianchi
che venivano alla Casa Bianca. In quello
si dimostrò coerente con la sua
convinzione che tutti gli esseri umani
siano uguali al cospetto di Dio».
A differenza del suo successore,
pensò Elizabeth ma non lo disse ad alta
voce. Mrs Lincoln aveva giudicato
correttamente la personalità del
presidente Johnson fin dall’inizio,
quando si era presentato davanti alla
nazione ubriaco. Aveva annullato molte
delle riforme fatte da Lincoln, e le sue
decisioni avevano creato ostacoli al
cammino dei neri verso l’uguaglianza.
Molte delle conquiste risalenti al tempo
della guerra erano state vanificate sotto
la presidenza di Johnson, ma il
progresso è inarrestabile, ed Elizabeth
non aveva perso la speranza per un
futuro migliore per la sua razza.
«La pensavate allo stesso modo nei
confronti di Mrs Lincoln?»
Elizabeth rifletté. «Era molto diversa
da suo marito. Lui era un uomo
straordinario, il più grande che abbia
mai conosciuto. Se dovessi usare lui
come pietra di paragone per giudicare
Mrs Lincoln o chiunque altro, me
inclusa, nessuno sarebbe all’altezza».
«Nessuno, avete ragione». Gli occhi
di Mr Fry erano fissi sul blocco mentre
la matita correva su e giù lungo il foglio.
«Non avete mai l’impressione di avere
tradito la fiducia che i Lincoln avevano
riposto in voi?»
«Non ho mai tradito un segreto
all’epoca in cui i segreti valevano oro, e
l’oro era raro» rispose Elizabeth
leggermente infastidita.
«Però c’è la faccenda del libro».
Allora era al corrente della
controversia. «Sì» rispose lei senza
scomporsi. «Ho scritto un libro sulla
mia vita che includeva anche gli anni
alla Casa Bianca. L’ho fatto animata
dalle migliori intenzioni ma, come
senz’altro già sapete, le cose non sono
andate come mi aspettavo».
Lui la studiò per qualche istante con
la fronte corrugata, poi chiese: «Vi ha
dato fastidio, dopo, sapere di avere
tratto vantaggio dalla divulgazione dei
capricci di Mrs Lincoln?»
«Purtroppo, i suoi capricci erano ben
noti molto prima che li descrivessi io».
A un tratto Elizabeth si sentì estenuata.
«Per quanto riguarda i vantaggi, sappiate
che non ho mai ricevuto un dollaro per
la pubblicazione del libro. Si sono tenuti
tutto quanto. Però non lo rimpiango,
perché hanno stampato molti particolari
che non avrebbero dovuto divulgare,
particolari che hanno causato tanto
dolore perché non erano veri». Sospirò
e distolse lo sguardo, sentendosi
prossima al pianto. «Il libro è stato
stampato, e il mio nome era sulla pagina
del titolo come autrice di tutto ciò che
era contenuto tra la prima e l’ultima
pagina di copertina».
«Invece non lo eravate?» chiese il
giornalista, che si permise di incalzarla
dopo che era rimasta in silenzio per un
po’.
«No». Capì dalla sua espressione che
voleva un esempio. Oh, come esulta la
stampa quando le date abbastanza corda
da permetterle di impiccarvi! Ma forse
era ingiusta. Quell’uomo non aveva mai
scritto una parola critica nei suoi
confronti. Era sbagliato considerarlo
responsabile per le azioni dei suoi
colleghi. «Hanno raccontato la storia di
come Mrs Lincoln avesse cercato invano
di vendere il suo prezioso guardaroba a
New York, ma hanno travisato la verità.
Ero con la signora in quel periodo, e ho
fatto del mio meglio per aiutarla a
disfarsi dei suoi beni più preziosi...» A
un tratto la prudenza prevalse in lei, e
decise di non raccontare che Mr
Redpath si era allontanato dalla sua
versione dei fatti. «Ma ormai non serve
più a niente raccontare i dettagli di
quell’impresa. Ne parlo solo perché li
hanno inseriti in un libro che ha fruttato
loro del denaro, la pubblicazione del
quale non mi ha arricchita ma in
compenso mi ha inimicato gente che mi
era amica».
Si sentì sprofondare in una triste
fantasticheria, ma dopo un po’ Mr Fry
chiese: «Avete confezionato abiti anche
per altre dame celebri, vero?»
Elizabeth annuì. «Ho fatto abiti per
Mrs Lincoln, e per le signore della
famiglia del presidente Andrew Johnson
e anche di Grant. E, prima della
secessione, anche per la moglie di
Jefferson Davis». Ricordò che Mrs
Grant e Mrs Davis erano diventate
buone amiche dopo la guerra. Allora
aveva pensato che, se le mogli del
generale unionista Grant e del presidente
confederato Davis potevano stringere
amicizia, anche lei e Mrs Lincoln
avrebbero potuto riconciliarsi. Ma il
destino aveva voluto altrimenti.
«Dovevate essere molto celebre nel
vostro periodo migliore».
Lei lo guardò con aria scettica.
«Conoscevo gente celebre. Ciò non
significa che lo fossi diventata anch’io».
«Mrs Keckley, credo siate troppo
modesta» protestò lui con un sorriso.
«Dovreste essere orgogliosa della
vostra fama».
Era proprio giovane se non capiva
quanto fosse stupido essere orgogliosi di
qualcosa di volubile ed effimero come
la fama. «Nel mio campo sono stata
famosa per molti anni» riconobbe. «Ero
orgogliosa; certo, molto orgogliosa. Ma
la fama e l’orgoglio non durano, come
ho scoperto a mie spese. Non danno da
mangiare a una vecchia quando viene
dimenticata da tutti o quando i suoi
amici sono morti».
Tacque di colpo. Non aveva avuto
intenzione di intavolare quel discorso
penoso, né voleva riprendere il filo,
anche se Mr Fry avesse continuato a
fissarla con i suoi occhi feriti e
speranzosi da cucciolo sotto le
sopracciglia aggrottate. «Mi pare di
capire che siete in difficoltà» disse
infine con franchezza.
Traendo un lungo sospiro, Elizabeth
annuì. Non voleva la sua pietà. «Quando
mi trovo in difficoltà» riprese con uno
sforzo, mantenendo la voce calma e
pacata, «penso a quello che diceva
spesso il presidente Lincoln a sua
moglie: “Non preoccupatevi, mamma,
perché andrà tutto bene. Dio decide il
nostro destino”».
La matita di Mr Fry restò sospesa
sopra il foglio. «Lo disse davvero? Ci
credeva?»
Elizabeth annuì. «Molte volte gli ho
sentito dire quelle parole, quando gli
eserciti dell’Unione subivano perdite
disastrose e anche in presenza di
difficoltà domestiche». Le sue parole
avevano confortato Mrs Lincoln e anche
Elizabeth, sebbene non fossero state
rivolte a lei. «Sì, il ricordo di quel buon
uomo mi aiuta, perché tengo a mente
molti dei suoi modi di dire che
denotavano fede in Dio e nella Sua
bontà».
«Fa bene trovare consolazione nei
ricordi» convenne con tatto Mr Fry.
«Sì» disse lei con aria nostalgica, lo
sguardo assente. «L’ho sempre pensato».
Chiacchierarono ancora un po’, ed
Elizabeth cercò di non far pesare troppo
la povertà, o la solitudine per il fatto di
essere sopravvissuta a molti dei suoi
amici. Quando cominciò a sentirsi
stanca Mr Fry se ne accorse e si alzò
subito, le strinse la mano, la ringraziò
molto e se ne andò.
L’anziana
donna
si
chiese,
guardandolo allontanarsi, cosa avesse
visto il giornalista di ciò che lei aveva
voluto celargli. Si domandò se avrebbe
inventato dialoghi, sospiri e lunghe
occhiate tristi per riempire i vuoti della
storia che aveva di certo già creato nella
mente prima ancora che lei cominciasse
a parlare, vuoti che lei non aveva
colmato perché non aveva le tessere
necessarie al completamento del
racconto. Perché avrebbe dovuto
scrivere una vicenda che si attenesse ai
fatti, si chiese sarcastica, quando nulla
era più facile che inventarsi i fatti per
disegnare i contorni di una storia più
piccante?
Sospirò, alzandosi a fatica, e si avviò
da sola verso la propria stanzetta. Presto
avrebbe scoperto cosa pensava di lei Mr
Fry, e dopo che il suo articolo sarebbe
apparso sul giornale era possibile che
un nuovo lampo di popolarità
illuminasse la sua vita discreta prima di
ridursi ancora una volta in cenere. E
quando se ne fosse andato, non ci
sarebbe stato modo di ravvivarlo. Tale
era la natura della fama. Presto sarebbe
stata dimenticata di nuovo, se non dai
pochi cari amici ancora in vita che
contavano per lei.
La sua vita si era notevolmente
ridotta rispetto a quando si era trovata
all’apice del successo e della fama
come sarta di Mary Lincoln, ma ora era
più vecchia e più saggia, e anche le sue
pretese si erano molto ridotte.
Era una donna libera in una nazione
unita e in pace. Aveva vissuto
un’esistenza piena e appassionante.
Aveva conosciuto i personaggi più
importanti dei suoi tempi, non aveva mai
rifiutato il suo aiuto ai più umili e
derelitti. Nonostante le delusioni, le
perdite e i dolori, non avrebbe voluto
vivere un giorno di meno, né, quando
fosse arrivato il momento di riunirsi con
i molti amici e i cari che se n’erano
andati prima di lei, avrebbe chiesto
un’ora di più.
Era pronta a disfarsi del proprio
fardello e a riposare, e forse a trovare in
cielo il ricongiungimento e la
riconciliazione che le erano sfuggiti
sulla terra.
Nota dell’autrice
Elizabeth Hobbs Keckley visse gli anni che le
restavano a Washington, DC, nella Casa per
donne e bambini di colore poveri. Dopo una
breve malattia, morì nel sonno per un ictus il
26 maggio 1907, all’età di ottantanove anni.
Secondo John E. Washington, autore di They
Knew Lincoln (Dutton, 1942) fu sepolta nel
Columbian Harmony Cemetery «su una bella
collina, affacciata a est, sotto un grande olmo»
tra «i neri più illustri che avevano amato e
servito Lincoln quando era a Washington».
La controversia sull’autobiografia di
Elizabeth Keckley non si esaurì dopo la sua
morte. Nel 1935 David Rankin Barbee, storico
della guerra civile e giornalista che si
autodefiniva «sudista reazionario», affermò che
non solo Elizabeth Keckley non aveva mai
scritto Dietro le quinte, ma che una donna con
quel nome non era mai esistita. Il libro era un
falso, insistette, un’invenzione creata da Jane
Swisshelm, «autrice di storie strappalacrime e
abolizionista», corrispondente da Washington.
Barbee apparentemente non aveva calcolato
quanti amici e conoscenti di Elizabeth Keckley
fossero ancora vivi, ed è facile immaginare
come ci rimase quando questi si fecero avanti
per testimoniare che era esistita, eccome. Di
fronte a un’opposizione tanto tenace, Barbee
ritrattò in parte le sue affermazioni, spiegando
che aveva voluto dire che «una persona come
Elizabeth Keckley» non poteva avere scritto un
libro del genere. «Gli eruditi, dei quali non
posso considerarmi parte, si sono interrogati a
lungo sulla paternità del libro» affermò
sull’Evening Star del 26 novembre 1935.
Nonostante i tentativi di Barbee e altri di
negare che il libro fosse opera di Elizabeth
Keckley e di cancellarla dalla memoria,
l’autobiografia, tanto denigrata all’epoca della
pubblicazione, è oggi considerata un
documento storico importante che offre
dettagli fondamentali sulla Casa Bianca
all’epoca di Lincoln e sulla vita privata di
Abraham e Mary Lincoln.
La provenienza dell’eccezionale trapunta
attribuita a Elizabeth Keckley è meno certa di
quella del libro. Da quanto so mentre scrivo, la
prima apparizione documentata della trapunta di
Mary Todd Lincoln risale al 1954, quando la
proprietaria, la fabbricante di trapunte e
scrittrice Ruth Ebright Finley, ne fece
menzione in una conferenza. La Finley disse
che Elizabeth Keckley aveva fabbricato la
trapunta usando ritagli di tessuto avanzati dagli
abiti che aveva confezionato per Mary Lincoln,
e che ne aveva fatto omaggio alla first lady, la
quale l’aveva usata come copriletto alla Casa
Bianca e l’aveva presa con sé quando se n’era
andata dopo l’assassinio del marito. Alla morte
della Finley, nel 1955, la sua collezione di
trapunte fu ereditata dal nipote, Bill Dague, che
tenne l’oggetto fino al 1967, quando lui e sua
moglie la vendettero a un mercatino di oggetti
usati tenutosi nella loro fattoria a Sharon, in
Ohio. La trapunta fu acquistata da Ross Trump,
collezionista e commerciante di oggetti antichi
e amico di famiglia dei Finley e dei Dague. Nel
1994, Trump donò la trapunta al Kent State
University Museum, dove si trova ancora oggi.
Altre testimonianze, però, mettono in dubbio
che fosse stata donata a Mary Lincoln da
Elizabeth Keckley, o che fosse stata
quest’ultima a confezionarla. Non sono riuscita
a rintracciare la provenienza del reperto prima
che Ruth Ebright Finley ne entrasse in
possesso, e così, in assenza di certezze, ho
inventato una storia che si armonizzasse con il
mio testo.
Negli anni Cinquanta, dopo un lungo periodo
di abbandono, il Columbian Harmony Cemetery
fu venduto a un promotore immobiliare, e i
resti di circa trentasettemila persone – inclusa
Elizabeth Keckley – furono trasferiti nel nuovo
National Harmony Memorial Park Cemetery di
Landover, in Maryland. Per trascuratezza o per
malasorte, le lapidi non furono trasferite
insieme alle spoglie dei defunti, e così i resti
di Elizabeth Keckley furono sepolti in una
tomba anonima. Per decenni gli storici
temettero che il luogo della sua sepoltura
sarebbe rimasto ignoto per sempre, ma nel
2009 Richard Smyth, autodefinitosi storico
dilettante, stava compiendo ricerche sulle
tombe più antiche consultando archivi e registri
quando scoprì la zona e il settore in cui era
stata sepolta Elizabeth Keckley. Per due anni
Smyth lavorò con il National Harmony
Memorial Park e diverse altre organizzazioni,
incluse Surratt Society, Black Women United
for Action, Lincoln Forum, Ford’s Theatre
Society, per raccogliere fondi per la
costruzione di un memoriale che onorasse il
ruolo di Elizabeth Keckley nella storia dei
presidenti americani. Il 26 maggio 2010, nel
centotreesimo anniversario della morte, fu
inaugurata la nuova lapide di bronzo e granito.
La lapide reca la seguente scritta:
ELIZABETH KECKLEY
1818-1907
EX SCHIAVA, SARTA, CONFIDENTE
Nata in schiavitù, Elizabeth Keckley acquistò la
libertà grazie alle sue eccezionali doti di sarta.
Dopo avere creato la propria attività, lavorò
come sarta per Mary Lincoln, diventando sua
intima amica e confidente. L’autobiografia di
Mrs Keckley, Behind the Scenes [Dietro le
quinte], fornisce dettagli intimi sulla vita alla
Casa Bianca durante i mandati di Lincoln.
Ringraziamenti
Un grazie di cuore a Denise Roy, Maria
Massie, Liza Cassity, Christine Ball, Brian Tart,
Kate Napolitano e l’eccezionale team di Dutton
e Plume per l’aiuto fornitomi e il loro
contributo a La sarta di Mary Lincoln.
Ho un debito di gratitudine anche nei
confronti delle persone che mi hanno assistito
durante le ricerche e la stesura del romanzo.
Geraldine Neidenbach, Heather Neidenbach,
Marty Chiaverini e Brian Grover sono stati i
miei primi lettori, e i loro commenti e dubbi si
sono rivelati preziosissimi durante il lavoro di
scrittura. Nic Neidenbach è sempre stato
pronto a rispondere alle mie domande
angosciose quando la tecnologia mi tradiva,
dimostrandomi ancora una volta quanto sia utile
avere un esperto di informatica in famiglia.
Apprezzo sempre l’aiuto e gli incoraggiamenti
di Marlene e Len Chiaverini, e l’entusiasmo di
Marlene per questa storia è stato molto
confortante per me. Karen Roy e Alyssa
Samways hanno compiuto spedizioni in
biblioteca per effettuare ricerche per conto
mio, e mi hanno inviato copie di documenti
storici fondamentali che non sarei riuscita a
ottenere da sola; Sara Hume, del Kent State
University Museum, non solo mi ha mostrato
in privata sede la trapunta di Mary Todd Lincoln
con tutte le spiegazioni del caso, ma mi ha
anche fornito risposte esaurienti e interessanti
alle molte domande che mi sono sorte dopo la
visita. Un grazie enorme a voi tutti.
Sono molto fortunata a vivere vicino alla
Wisconsin Historical Society, dove i
bibliotecari, gli altri dipendenti e gli eccellenti
archivi sono diventati fondamentali per il mio
lavoro. Delle molte fonti consultate, le
seguenti si sono rivelate particolarmente
preziose e istruttive: Jean H. Baker, Mary Todd
Lincoln: A Biography (Norton, New York
1987); Joan E. Cashin, First Lady of the
Confederacy: Varina Davis’s Civil War
(Belknap Press of Harvard University Press,
Cambridge, M A, 2006); Catherine Clinton, Mrs.
Lincoln: A Life (HarperCollins, New York
2009); Daniel Mark Epstein, The Lincolns:
Portrait of a Marriage (Ballantine Books,
New York 2008); Jennifer Fleischner, Mrs.
Lincoln and Mrs. Keckly: The Remarkable
Story of the Friendship Between a First Lady
and a Former Slave (Broadway Books, New
York 2003); Ernest B. Furgurson, Freedom
Rising: Washington in the Civil War (Knopf,
New York 2004); Becky Rutberg, Mary
Lincoln’s Dressmaker: Elizabeth Keckley’s
Remarkable Rise from Slave to White House
Confidante (Walker and Company, New York
1995); Justin G. Turner e Linda Levitt Turner,
Mary Todd Lincoln: Her Life and Letters
(Knopf, New York 1972); John E. Washington,
They Knew Lincoln (Dutton, New York 1942).
Naturalmente nessun’opera è stata più
importante del libro scritto da Elizabeth
Keckley stessa, Behind the Scenes (G.W.
Carleton & Company, New York 1868). Anche
se mi dispiace per tutti i problemi che la
pubblicazione del libro le procurò, sono molto
felice che l’autrice ci abbia lasciato una
testimonanza tanto ricca e suggestiva della sua
vita.
Come sempre, e più di tutti, ringrazio mio
marito Marty e i miei figli Nicholas e Michael
per l’amore, il sostegno e l’incoraggiamento
continui. Vi dico ogni giorno quanto vi amo, ma
ci sono momenti in cui le parole non bastano, e
questo è uno di quelli.
Indice
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
Nota dell’autrice
Ringraziamenti
Scarica

La sarta di Mary Lincoln