Didattica Speciale
La formazione è una categoria complessa e
problematica perché la questione educativa
che si pone è quella della persona, del
soggetto che si vuole formare, ma anche del
soggetto che si forma, si con-forma, si deforma. La formazione è, altresì, un processo
concreto, co-implicato nella prassi umana e
che comprende anche azioni ed eventi che
incidono sulla crescita ontologica e biopsichica
del soggetto.
(E’ necessario, dunque,) confrontarsi con il soggetto
in formazione considerato nella complessità della
sua esistenza, nella sua sostanza di carne e ossa,
nella sua problematicità ma anche nella ricchezza
del suo essere persona implicata in un contesto in
cui può trovarsi il luogo dell’emancipazione o
quello, al contrario, della reificazione e del
dominio. Questo lavoro comporta, dunque, la
chiarificazione di questioni relative all’uomo di cui
vogliamo promuovere l’emancipazione, oltre le
“stimmate” della disabilità, oltre qualsiasi altra
definizione preconcetta di diversità”[1].

[1] V. Burza, La formazione tra marginalità e
integrazione. Processi, percorsi, prospettive,
Periferia, Cosenza 2002 , p. 150.
La problematicità strutturale della
formazione, infatti, la si può evincere
dall’osservazione che la formazione è il
risultato mai compiuto di azioni
intenzionali e di eventi che si
sottraggono alla volontà del soggetto.
Basti riflettere sul fatto che noi siamo il
frutto di un incontro-evento tra le
persone che ci hanno generato e
queste a loro volta sono il frutto
dell’incontro-evento tra i loro genitori, in
una catena infinita.
Ogni storia di formazione inizia grazie
ad un evento destinale che è la
nascita che ci determina in maniera
significativa, evento in quanto noi non
godiamo della libertà di scegliere: non
scegliamo il dove, non il tempo, non
scegliamo la famiglia e il contesto
storico-culturale, non le qualità
specifiche genetiche e soprattutto non
scegliamo di nascere.
Se il primo evento destinale a condizionare la
nostra storia di formazione è la nascita,
l’ultimo evento per eccellenza è la morte o
meglio l’idea che l’individuo si fa della morte,
il modo che ha di concepirla, di immaginarla.
L’evento-morte è per la persona, gravida di
significato pedagogico e formativo. A
formarci non è la nostra morta, estrema
esperienza della nostra vita, ma l’idea che di
essa ci facciamo, il modo di concepirla, di
pensarla e di dirla. Nessuno sfugge all’idea
della morte neanche quando la nega, la
ignora, la rimuove. Si può dire che tutti quanti
noi siamo formati in qualche modo alla e
dalla idea della morte.
Odo Marquard in Apologia del caso ha
scritto “Il caso che ci coglie nella
maniera più carica di destino e più
dura, a meno che non lo si consideri
come la consolazione del non dovere
continuare all’infinito con i nostri
volteggi, è la nostra morte. Dalla
nascita, per un caso del destino, noi
siamo condannati a morte, vale a dire a
quella brevità della vita che non ci
lascia il tempo di liberarci a nostro
piacere di ciò che per caso già siamo”.
Jankélévitch in La mort scrive:
“La morte dà forma alla vita. In ciò
consiste la doppiezza del limite: nel
dire insieme si e no, e cioè nel rifiutare
affermando e nell’affermare rifiutando,
in quanto il termine diventa ciò che
determina e il limite risulta parte
integrante della forma”.
La morte è l’altra faccia della vita.
Vero è che nella morte dell’altro si annuncia
la nostra morte e porta via una parte di
noi, tutta quella parte di noi che gli
appartiene. Con lui muore tutto un
universo di possibilità. Perciò noi
sperimentiamo la morte come perdita in
tutto il corso della nostra vita: in un
obiettivo mancato, in un desiderio
inappagato, in un amore finito o mai
cominciato, in una malattia, in un lutto.
Ogni perdita rappresenta, in qualche
modo, una esperienza di morte. In ciò
consiste il nostro “ordinario morire”.
Su questo fatto che la morte può dare il via ad un
orizzonte di umanizzazione della vita, concorda
anche Ernesto de Martino, che mette in luce il
significato della morte e dell’elaborazione di
questa nei riti e nei lamenti funebri dell’antichità
del cristianesimo, come condizione della forza
rigenerante della cultura.
Di fronte al problema della morte di chi ci è caro,
abbiamo tre possibilità: dimenticarli e farli
morire in noi, farli rivivere continuando la
loro opera, perdere noi stessi morendo con
colui che muore. Ma questo è il rischio di chi è
disarmato di fronte al dolore e alla disperazione
e non riesce a riportare la morte da mero fatto
naturale a elemento di cultura, di civiltà, di
valore.
Alberto Granese definisce “destinazione originaria”[1]
della persona quella spinta naturale ma anche quel
diritto che appartiene ad
ogni essere umano, a divenire “ontologicamente
uomo”. La destinazione originaria è ciò che in
principio connota la persona, ma è anche e
soprattutto propria di ciascuna persona, di quella
determinata persona che ha progettato quel
determinato mondo ma che un’educazione
sbagliata, una patologia, un accidente del destino
che per fragilità emotiva non si è trasfigurato in
forma, una situazione sociale e culturale “difficile”
può portare a non realizzare, ad offuscare il tragitto
verso l’obiettivo di quel dispiegamento delle
“trame”della persona che ne rendono la forma
unica.

[1] Cf., A. Granese, Il labirinto e la porta stretta, La
Nuova Italia, Firenze 1992.
Diventa sempre più urgente, nell’ambito del
dibattito pedagogico contemporaneo,
interrogarsi su quella dimensione del rischio che
va sotto il nome di marginalità intendendo con
questo termine quel vasto ambito di esperienze
di vita segnato dal disagio, quel contesto
esistenziale di forte estraneità rispetto ai
processi sociali, culturali e politici delle società
organizzate, quegli spazi educativi in cui si
riscontrano i conflitti della società, al fine di
intervenire con particolari strategie forse diverse
dalle tradizionali vie educative, spesso
insufficienti a garantire il completo sviluppo delle
dimensioni della persona, del suo esistere.
Simonetta Ulivieri[1]sostiene che è estremamente
difficile dare una definizione teorica degli eventi
riguardanti la marginalità, perchè la marginalità si
identifica nello sguardo e nei vissuti degli individui
che la esprimono portandola con sé.
Il dato che rappresenta una sorta di costante tra i
numerosi “luoghi” della marginalità risiede, sempre
nell’ottica della Ulivieri, in una perversa dialettica
tra “centro” e “margine”.
[1] Cfr., S. Ulivieri, L’educazione e i marginali.
Storia, teorie, luoghi e tipologie dell’emarginazione,
La Nuova Italia, Firenze 1999.
I criteri di esclusione dei singoli individui,
dei gruppi umani di etnie diverse, hanno
visto nascere quella violenta dialettica di
quanti, riconoscendosi nei valori, negli
schemi, negli ideali sociali, si sono
collocati al “centro” della vita sociale e
culturale, relegando ai “margini” quei
vissuti “altri” che proprio perché “altri”,
considerati pericolosi, da controllare, da
eliminare dalla visibilità sociale.
Nel corso della periodizzazione della storia
della marginalità e nella elaborazione di un
immaginario sulla marginalità molti sono stati
i vissuti di persone considerate “depositarie”
di un modo di vivere “altro”, non
paragonabile ai vissuti delle persone
cosiddette “normali”.
Si tratta di persone la cui dolorosa esistenza è
stata vista e giudicata come eversiva,
inquietante, pericolosa, temuta perché
ritenuta in grado di generare quella forma di
paura ancestrale capace di “consumare”
l’identità delle persone “normali” che vivono
Leonardo Trisciuzzi[1] ha affermato che là dove ci
sono deboli, diversi, handicappati, stranieri, “il
centro” mette in moto dei meccanismi di difesa che
si traducono nell’emarginazione. Il problema della
marginalità è un problema di “evoluzionismo
sociale” nel senso che in un mondo ridotto a
“giungla”, sopravvive il più forte, il soggetto più
adeguato ad affrontare con cinismo le esperienze
della vita.
[1] Cfr., L. Trisciuzzi, Il centro e il margine.
Conformismo educativo e dissenso esistenziale, in
S. Ulivieri, L’educazione e i marginali. Storia, teorie,
luoghi e tipologie dell’emarginazione.
Il termine follia, da un punto di vista
etimologico, deriva dal latino follis, un
termine che approssimativamente
significava: “soffietto, vescica, sacca,
pallone, borsa, sacco gonfio d’aria”.
Intorno al VI secolo si verifica un
cambiamento di senso del termine “follia”
che passerà, così, ad indicare la scarsa
profondità d’intelletto di una persona,
dimensione simile a quella di un pallone
pieno d’aria.
Infatti cosa è “pieno d’aria”? La persona nella
sua totalità? La sua testa, vista nell’antichità
come il fulcro delle facoltà intellettive? Ma,
soprattutto, perchè “l’aria” dovrebbe essere
assimilata ad una dimensione di anormalità?
Per comprendere la complessità della dialettica
tra significato semantico del termine “follia” e
l’“oggetto” di tale significato, ovvero la
persona, basta riflettere sul numero
estremamente ampio di parole che la cultura
occidentale ha elaborato per definire una
condizione di follia.
La lingua latina impiegava il termine insania
per indicare la peculiarità patologica della
follia. Oltre a termini come “follia”, “pazzia”,
“insania”, la cultura occidentale si è servita
anche di termini come “alienazione”,
“demenza”, “disordine”, “mania”. Tutto questo
porta alla considerazione che il sapere antico
e moderno non ha mai saputo o voluto dare
una definizione univoca della follia e con
essa dei folli .
La follia è stata vista nel corso dei secoli, sia
come una condizione patologica, inferiore, e
sia come una condizione superiore in quanto
aperta a dimensioni “altre” dell’esistere,
diverse dallo stato di normalità. In numerose
comunità primitive, ancora oggi, colui che è
reputato “folle”, ben lungi dall’essere visto
come un deviato, viene spesso considerato
come un individuo mosso da forze particolari.
Nell’età antica la follia si vestiva di abiti simili,
in quanto veniva assimilata ad uno stato
privilegiato; chi era folle era in diretto
contatto con la divinità.
Il momento di passaggio storico che vede il
nascere di un nuovo modo di intendere la
follia, si ha tra il XVI e il XVII secolo,
quando scrittori e drammaturghi come
Cervantes, Shakespeare, Erasmo Da
Rotterdam si soffermano su quegli aspetti
della natura umana che devono fare i conti
con i nuovi equilibri sociali, politici e
simbolici di una realtà sociale che non
approva più la trasgressione come
momento necessario da circoscrivere in
un determinato lasso temporale e per
questo motivo, ritualizzabile e dominabile.
La coscienza occidentale ha definito, in molti
casi, la follia in modo non medico o
patologico ma, anzi, ne è prevalsa una
interpretazione della stessa come una
sorta di dimensione alternativa, di protesta
ad un mondo individuale e sociale per
molti versi insoddisfacente; nell’individuo
alienato, l’individuo “normale” sembra
riconoscere la persona in qualche modo in
grado di vivere fuori dal sistema, lontano
dalle sue regole.
Una diversa interpretazione della follia che si
fa avanti nell’Illuminismo, circoscrive questa
dimensione esistenziale dell’uomo
all’ambito della patologia e del disturbo. E’
nell’Illuminismo, infatti, che comincia a farsi
avanti una sorta di “naturalizzazione”
dell’uomo; si cominciarono ad accostare
fenomeni reputati come “devianti”, al
metodo empirico-analitico. Il sapere
illuministico, in tale senso, ricondurrà gli
stati di salute e di sofferenza mentale alla
dimensione corporea.
Sarà la scienza a ridurre la follia a malattia e
a creare pratiche di internamento e di
esclusione di tutte quelle manifestazioni
“altre” della natura umana.
Si fa avanti una diversa modalità di
intendere la follia, una nuova dimensione
che finirà con l’emarginare i folli
rinchiudendoli in strutture lontane dalla
società. Nella seconda metà del secolo,
uno dei padri fondatori della psichiatria
moderna, Philippe Pinel, affermerà che
l’uomo è un essere materiale e corporeo.
Di conseguenza tutte le caratteristiche
della vita dipendono dallo stato del suo
organismo.
Una parte della fama di Pinel è, comunque,
legata più che al suo pensiero scientifico, ad un
gesto simbolico: liberò i folli dalle catene con le
quali erano spesso legati.
Per comprendere appieno la rilevanza storica
della figura di Pinel, occorre tenere presente
che in quel momento storico i malati di mente
non erano visti come soggetti bisognosi di cure
particolari, quanto dei diversi studiati in rapporto
alla loro presunta condizione di pericolosità per
sé e per gli altri
Gli asili nei quali erano rinchiusi custodivano
anche delinquenti, prostitute, alcolizzati.
Dopo Pinel, i “folli” non saranno più accostati
ai delinquenti e l’intervento correttivo sarà
diversificato a seconda del disturbo. Per
Pinel la follia è una dimensione dell’esistere
caratterizzata dallo “smarrimento”, dalla
“perdita” di una equilibrata condotta di vita[1].
L’obiettivo di Pinel era quello di sollecitare
nella persona disturbata, la ripresa
dell’autocontrollo e del rispetto di sé.
[1] Cfr., P. Pinel, La mania (1801), Marsilio,
Venezia 1987.
L’aspetto interessante, ai fini del nostro
discorso, è relativo al fatto che la
dimensione della follia, nell’avvincendarsi
della storia dell’uomo, è stata percepita sia
nel suo aspetto clinico-patologico sia in
quello “culturale”, come una condizione di
assoluta diversità rispetto
all’omologazione del mondo. C’è la follia
della lunga storia della psichiatria, che dal
XVII sec. si è preoccupata a trattare i
pazzi da un punto di vista naturalistico, c’è
la follia dei manuali di psicopatologia, delle
scuole di pensiero clinico, delle istituzioni
totali.
Ma accanto a tutto questo c’è quella
dimensione della pazzia dei grandi testi
letterari e drammaturgici. La follia di Amleto,
ad esempio, è una follia che può e deve
essere anche “simulata” in quanto deve
mirare ad uno scopo, ovvero, “giustificare” la
vendetta di Amleto per la morte del padre.
Oppure, secondo un’analisi psicanalitica, è
una manifestazione della follia che altro non
è che una patologia che frantuma la
personalità, come la nevrosi o la
schizofrenia.
La follia, dunque, interpretata tra la clinica e
l’arte. La follia nell’arte svolge un ruolo
rivelatore di verità troppo a lungo taciute,
emblema di moti dell’animo che non
riescono, a causa della realtà circostante, a
trasfigurarsi in forma. Quando, infatti, i
personaggi della letteratura e dell’arte sono
folli, lo sono per indicare una verità o per
lanciare una richiesta d’aiuto. Certo è che
anche questa dimensione culturale della
follia è sinonimo di un profondo dolore, di un
mal di vivere provocato da una “esistenza
ferita”
questo lungo interrogarsi sulla dimensione
della differenza, letta nei termini ora di
follia, ora di devianza, di marginalità,
oppure, in estrema sintesi, come
manifestazione di “piaga” del corpo e
dell’anima, esprime una sorta di resistenza
nei confronti dei “diversi”, resistenza che
spesso si è tradotta e si traduce tutt’ora
nello sforzo di allontanare i diversi dalla
vita quotidiana, che altro non è che una
sorta di disagio dei cosiddetti normali.
E’ come se si scorgesse nel folle l’incarnazione
disinibita di desideri pulsanti, ma temuti e
censurati, nella coscienza di esseri “normali”;
come se si vedesse nel folle una libertà e una
potenzialità paventata e agognata[1]. Ma
l’orizzonte umano della follia è un orizzonte che
si manifesta lontano dall’offrire visioni di libertà.
Al contrario, la pazzia è una dimensione chiusa,
è prigionia, povertà relazionale, solitudine
sociale
[1]Cfr., S. Moravia, L’esistenza ferita. Modi
d’essere, sofferenze, terapie dell’uomo
nell’inquietudine del mondo, Feltrinelli, Milano
1999.
A volte il folle, il pazzo è colui che non è riuscito a
manifestare tutte le proprie funzioni vitali in
quanto non conoscendo se stesso e gli altri,
non riesce a portare avanti relazioni profonde
col mondo circostante. Altro caso è quando
vengono considerati “folli” quegli atteggiamenti
che hanno origine nella sofferenza di vivere. In
tale senso, pazzo lo si “diventa” a causa della
combinazione di diversi fattori individuali, sociali
e culturali come, ad esempio, una biografia
segnata da vicende dolorose di abbandoni e
violenze, una storia di legami sociali o
relazionali molto poveri.
Nei vari modi di intendere e trattare la follia, Moravia
riflette sul fatto che è come se vi fosse sempre
stata una sorta di costante, ovvero una continua
de-personalizzazione, o de-soggettivizzazione del
soggetto che soffre. “Accettata” in una struttura, la
persona sofferente viene spesso spogliata del suo
essere, della sua essenza di persona. Ma il
soggetto della cura non deve essere l’individuo
“spogliato” ma, invece, l’individuo compreso come
una persona che, varcando la soglia di un luogo
preparato ad accoglierla, porta con sé tutto il suo
esistere, quello sofferente e bisognoso d’aiuto e
quello sano, in quanto tutti i sofferenti conservano
zone e funzioni integre.
L’oggetto da curare, allora, non deve essere la
“sofferenza” ma il “sofferente” pronto ad
essere accolto, non accettato, al fine di
riuscire ad riattivare le sue potenzialità
umane latenti, sopite o bloccate. In tale
senso, l’internamento non è altro che un
luogo che recide i rapporti del sofferente con
l’esternità del mondo. E’ sicuramente vero
che il mondo non è di per sé “salvifico”, ma è
pur vero che solo il mondo è la dimora
dell’uomo, con le sue dimensioni di bene e di
male, di doni e abbandoni, di rischi e
sconfitte.
La persona separato dal mondo è un esule, uno
sradicato alla continua ricerca di un senso. E’ in
questa prospettiva, dunque, che Moravia
intende la negatività della dimensione
dell’internamento, in quanto l’istituzione nella
quale viene rinchiuso il soggetto che soffre,
potrà essere anche migliore del mondo, ma non
è il mondo reale, bensì solo un ambiente
artificiale: l’istituzione non potrà mai essere lo
spazio di una consapevolezza maturativa reale.
In questa ottica, si può comprendere come, a
partire dagli anni Sessanta, un settore degli
studi psicologici e psichiatrici definito
“antipsichiatria”, ha enfatizzato in modo totale la
provenienza sociale di molte malattie mentali,
compresa la follia. Il cosiddetto “folle” risulta
essere un potenziale avversario di una ben
precisa ideologia, in quanto si manifesta come
un ostacolo per lo sviluppo tecnologicoeconomico del Sistema. E’ così che molti
studiosi hanno criticato sia le violenze
commesse nei manicomi che la validità
scientifico-clinica dell’istituzione manicomiale.
Il movimento dell’antipsichiatria designa non
tanto una scuola unitaria e organica, quanto
una vivace e varia attività sia teorica che
pratico-politica delineatosi, a partire dagli
anni Sessanta, soprattutto in Inghilterra, negli
Stati Uniti, in Francia e in Italia. Uno dei
principi basilari di questo movimento
culturale, è stato la rivelazione della
negatività dei manicomi. Nei manicomi,
infatti, la vita fittizia e “manipolata” dei malati
era una vita separata dal resto del mondo,
dove tutto scorreva in una dimensione
temporale immobilizzata in un eterno
presente.
Intorno agli anni Sessanta, la denuncia contro
le strategie politiche che presiedevano alle
strutture manicomiali, è cresciuta in maniera
esponenziale giungendo, in molti paesi
occidentali, alla realizzazione di radicali
riforme dei manicomi, riforme conclusesi
come ad esempio in Italia con la legge 180,
con la loro soppressione.
Parallelamente a questa proposta di denuncia,
si sono mosse altre iniziative terapeutiche
che, ispirate da principi completamente
diversi, hanno affrontato la questione della
follia e dei folli.
Di rilevante valore è stato il pensiero dello
psichiatra Ronald D. Laing che nel 1965 fondò
la comunità di Kingsley Hall, una struttura dove
vigeva il principio del dialogo, del gioco, del
lavoro.
Lo psichiatra inglese, pur non negando
l’esistenza patologica di alcune malattie
mentali, ha comunque evidenziato come un
nutrito insieme di disturbi nervosi tragga in
realtà la sua origine da difficoltà relazionali,
dalla “crisi” di alcune istituzioni come la famiglia
e, più in generale, dall’aspetto repressivo che il
sistema sociale occidentale porta avanti.
Le modalità di vita condotte dai soggetti che soffrono
di tali disturbi non possono essere giudicate come
insensate o irrazionali in quanto, in realtà, sono
manifestazioni esistenziali di reazione ad un patire
oppressivo e alienante. Laing descrisse la malattia
mentale come una dimensione dell’esperienza
esistenziale che, in linea di massima, è
perfettamente comprensibile e dotata di senso.
Laing, avvicinandosi allo studio della psicosi
secondo un approccio non frammentario ma che,
anzi, si nutre di notevoli spunti filosofici, esistenziali
e politici, rifiuta a priori di considerare il malato
come un diverso in quanto, per comprendere gli
psicotici, bisogna trarre ispirazione dalla propria
psicosi.
Per Laing la “schizofrenia” non deve essere
intesa come una malattia, ma come una
dimensione dell’esperienza umana: “lo
schizofrenico è chi ha il cuore spezzato, ed
anche i cuori spezzati, come si sa, guariscono,
purché si abbia abbastanza cuore da lasciarli
guarire”. L’ultimo passo verso la psicosi si
verifica quando l’io si scinde completamente dal
corpo, che viene percepito come in possesso di
altri. Il soggetto schizofrenico vive le stesse
fratture del soggetto schizoide: 1) io interiore e
io corporeo; 2) il corpo viene avvertito come
estraneo all’io; 3) l’io continua ad agire nella
fantasia, oppure nei casi più gravi, smette
completamente di procedere.
Il movimento antipsichiatrico italiano è legato
alle opere e all’esperienza di Franco
Basaglia. Nel manicomio di Gorizia, che
Basaglia dirigerà per molti anni, erano
ricoverati all’incirca seicentocinquanta
pazienti. L’impatto con le drammatiche
condizioni della realtà manicomiale è stato,
per lo psichiatra italiano, decisivo. Basaglia
inizia, così, ad impegnarsi in una radicale
esperienza di trasformazione istituzionale; per
la salute dei soggetti internati non dovevano
esserci più solo terapie farmacologiche, ma
anche e soprattutto bisognava scommettere
sul valore dei rapporti umani anche con il
personale della ‘comunità terapeutica’
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