LA GUERRA
DELLE IMMAGINI
Prefazione di Oliviero Ponte di Pino
Da sempre le guerre si combattono,
oltre che con le armi, con parole e
immagini: per incutere terrore al
nemico, per convincersi di essere nel
giusto. È ancora più vero per la Guerra
Fredda che ha visto contrapporsi le due
superpotenze tra la fne della Seconda
guerra mondiale e la caduta del muro
nel 1989, con il crollo dell’impero
sovietico. Il simmetrico ricatto nucleare imponeva di limitare l’uso delle
armi per evitare catastrofche escalation; micro-confitti devastavano zone
periferiche, lontano dal cuore delle
reciproche zone d’infuenza, ed erano
combattuti spesso per procura.
Guerra Fredda, ma totale. Ogni
dettaglio, ogni episodio poteva avere
un’importanza determinante.
Elfo ha costruito la sua Arte del
complotto partendo da una vicenda
in apparenza marginale: il sostegno
dato dai servizii segreti
seg ti statunitensi
tu
– insomma,
n m
dalla CIA – ad alcuni
lc
artisti, esponenti dell’arte
l e astratta
e dellaa ppop art.
Che i servizi segreti dei due
blocchi avessero sostenuto nei Paesi
del campo avverso alcune forze politiche (magari con qualche sfumatura
terroristica) e diversi intellettuali
(con le loro riviste) era noto da tempo.
Ma quello era il dominio della parola,
arma cruciale di ogni battaglia ideologica. Meno noto (e meno prevedibile) che il sostegno dei servizi segreti
americani sia andato anche ad alcuni
artisti visivi: e non per opere chiaramente propagandistiche o militanti,
ma per correnti artistiche in sostanza
a-ideologiche come l’action painting
o che parevano addirittura criticare
il consumismo made in USA, come
la pop art. Il calcolo deve essere stato
sottile, fondato su un’acuta consapevolezza storica.
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Quella che salutò con entusiasmo
e accompagnò i primi passi della
Rivoluzione d’Ottobre nel 1917 era
un’arte che si voleva rivoluzionaria,
avanguardistica e tendenzialmente
astratta. Il suo diapason fu il Quadrato
nero di Kazimir Malevič, dipinto
nel 1913, alcuni decenni prima che i
Rolling Stones si mettessero a cantare
Paint It Black:
anche nell’Italietta mussoliniana di
Strapaese e del ritorno al classicismo,
e nel Reich hitleriano con i roghi e le
persecuzioni dell’“arte degenerata”.
Ma non era solo questione di gusto:
per i custodi dell’ortodossia, il mondo
uscito dalla rivoluzione era perfetto e
rappresentava in sé un’opera d’arte che
si sovrapponeva alla quotidianità dei
cittadini: quadri, romanzi, flm, poesie non avrebbero potuto (e dovuto)
far altro che rifettere quel paradiso in
terra. Al massimo, gli artisti potevano
indicare la strada per compiere l’ultimo tratto del cammino verso l’ideale,
con opere opportunamente edifcanti,
propagandistiche, rassicuranti. Nella
Russia stalinista, la repressione contro le opere e gli artisti d’avanguardia,
accusati di “formalismo”, si fece presto
feroce. Il “futurista” Vladimir Majakovskij si suicidò nel 1930, decine
di artisti fnirono fucilati dal KGB o
nei gulag siberiani. La linea di partito
indicava un’altra strada, meno destabilizzante degli inquieti pruriti sperimentali: fu il “realismo socialista”
legittimato da Lukács e teorizzato da
Ždanov, arte ufciale dell’URSS per
decenni. Nell’Italia del dopoguerra,
il PCI di Togliatti si allineò senza esitazione nel sostegno al realismo (e al
neorealismo) contro le avanguardie
artistiche e teatrali, chiudendo una
rivista come “Il Politecnico” di Elio
Vittorini e attaccando gli intellettualismi cinematografci alla Antonioni...
I wanna see it painted, painted black,
black as night, black as coal
I wanna see the sun blotted out
fom the sky
I wanna see it painted, painted, painted,
painted black, yeah!
Quella stagione entusiasmante
durò poco: i rivoluzionari, quando
salgono al potere, hanno una tendenza (pare) inevitabile a scimmiottare l’arte che indorava l’ancien régime
che hanno appena abbattuto: è accaduto a Mosca negli anni Venti, come
nella Parigi napoleonica, è accaduto
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Sulla base del principio che
“i nemici dei miei nemici sono miei
amici” (che la CIA ha poi adottato
in altre occasioni, con risultati a volte
catastrofci), tra la fne degli anni
Cinquanta e l’alba dei Sessanta poteva
apparire logico sostenere un’arte che
cancellava ogni pretesa realistica nell’energia del gesto pittorico (come faceva
Jackson Pollock), o talmente “reale”
da azzerare la nozione stessa di realtà
(la scatola di zuppa Campbell trasformata in opera d’arte da Andy Warhol).
Era un’arte per pochi (almeno allora),
lontanissima dal gusto e dalle aspirazioni dell’americano medio, spesso
messa alle berlina dalle vignette umoristiche. Ma qualcuno considerò quelle
immagini un’arma strategica contro
l’Impero del Male.
La guerra delle immagini si era
così afancata a quella delle parole.
Parole vere e parole false venivano
abilmente mixate dalla propaganda
dei due blocchi. I due Poteri enormi
e contrapposti complottavano infaticabili per il dominio del mondo. Con
un’avvertenza, che Slavoj Žižek ha
ricavato dalla lettura del Processo di
Kafa: “Il vero complotto del Potere
risiede precisamente nell’idea di complotto, nell’idea che un Agente misterioso tiri le fla, nell’idea che dietro il
Potere visibile e pubblico operi un’altra struttura di potere oscena, invisibile, ‘folle’ […] I regimi ‘totalitari’ sono
stati particolarmente abili nel coltivare
il mito di un potere segreto parallelo,
invisibile e proprio per questo onnipresente […] per compensare la lampante
inefcienza del Potere ufciale, garantendo così il funzionamento armonioso della macchina sociale” (Slavoj
Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra
del materialismo dialettico vol. 2, Ponte
alle Grazie, 2014, p. 211).
Quello del complotto (anche nel
legame con il suo doppio, il segreto)
è uno dei temi chiave della nostra
epoca di poteri invisibili e di terrorismi mediatici: il suo enigma ossessiona da sempre un intellettuale come
Umberto Eco (dal Pendolo di Foucault,
1988, al Cimitero di Praga, 2010),
mentre le più strampalate teorie si diffondono in rete. E la rete diventa un
campo di battaglia, infammato da
allarmi isterici: da un lato si temono
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le presunte terribili trame del gruppo
Bilderberg (e di altre cricche multinazionali), dall’altro agiscono i presunti
vendicatori di Wikileaks, che rivelano
segreti di Stato e smascherano cabale e
intrighi.
La trovata narrativa di Elfo, la
chiave del suo dispositivo, è di non aver
messo al centro del suo racconto chissà
quale agente segreto o artefce del “vero
complotto del Potere”. Il Prete è certo
uno spione, un calunniatore e un ricattatore, ma di bassa lega. Opera in una
dimensione artigianale: distribuisce le
sue falsità e le sue mezze verità su scala
locale, non certo globale. Mette efettivamente in atto i suoi complotti –
trame occulte di corto raggio – ma non
partecipa certo ai segreti del Grande
Gioco. Se non fosse in fondo un
romantico che s’innamora della prima
ragazza che incontra, ricorderebbe per
certi aspetti J. Edgard Hoover, il primo,
potentissimo direttore dell’FBI, che fu
l’ombra oscura di diversi Presidenti, in
grado di ricattare i potenti con dossier
segreti, mentre dal canto suo amava
travestirsi da donna per orge omosessuali; o anche Roy Cohn, l’avvocato
maccartista e segretamente omosessuale dell’opera teatrale Angels in America, scritta tra il 1992 e il 1995 da Tony
Kushner. Con le sue micro-macchinazioni, il Prete è in grado di indurre paranoie nelle sue vittime, ma per quanto
lo riguarda questo lo vaccina dalle
paranoie: così non può vedere il “vero
complotto del Potere”. Alla fne – nella
parabola sapienziale di Elfo – questo
mite ma velenoso falsario diventa il
paradossale garante della verità, come
in una pièce di Pirandello.
Il gioco di specchi di questa ambigua macchina della verità non fnisce
qui. Non c’è solo il duello tra la verità
delle immagini “realistiche” e la verità
delle immagini “astratte”. Non c’è solo il
duello tra la verità delle parole del Prete,
la verità di quelle della propaganda e la
verità di quelle del Complotto. Elfo sceglie un terreno dove parole e immagini
s’incontrano e si scontrano: potrebbe
essere il cinema, è invece quello del
fumetto, il suo “genere” di riferimento.
Nel fumetto le parole e le immagini
paiono trovare un equilibrio essenziale.
Ma attenzione. Dietro a questo confronto tra piccoli e grandi complotti,
a questa lotta tra immagini realistiche e immagini astratte, nelle pagine
dell’Arte del complotto si combatte
anche un’altra guerra: quella tra le
immagini e le parole, un confronto che
ha una storia lunghissima, che afonda
le sue radici nella sfera del sacro.
Le immagini possono essere pericolose, possono incrinare la verità della
parola. Per questo diverse religioni
addirittura le vietano. Lo stesso cristianesimo, alle sue origini, è stato campo di
battaglia tra gli iconoclasti, che volevano
bandire le icone, e chi invece ne ammetteva l’uso, e magari lo incoraggiava.
Nella nostra era iconica, c’è un altro
metodo per neutralizzare le immagini:
la ripetizione. È accaduto per esempio
a partire dal 22 novembre 1963, con le
immagini dell’attentato al Presidente
Kennedy. Quel breve flmato in bianco
e nero, così “vero”, è stato replicato
all’infnito dalle televisioni di tutto il
mondo e si è inscritto nel nostro immaginario, tanto da diventare il fulcro di
decine di teorie del complotto, che sono
tracimate anche nei romanzi e nei flm.
Allora come restituire forza e verità
alle immagini? La soluzione di Elfo è
inscritta nella sua pratica artistica. Le
sue immagini diventano una leva per
“garantire” la verità del suo racconto:
la minuzia della documentazione che
sottende ciascuna delle sue vignette, a
partire da documenti d’epoca, dà concretezza e credibilità – e addirittura
legittimità – al racconto.
In altre opere i suoi disegni erano
leggeri e ironici, spesso allegramente
colorati. Tra le fgure che predilige da
sempre c’è la mappa, ovvero il tentativo
di comprendere e sintetizzare la totalità. In questo caso invece il suo è un
tratto che brucia la pelle della pagina,
che la ustiona e la ulcera. La New York
in bianco e nero dell’Arte del complotto,
certo un omaggio alle atmosfere
dell’epoca, è un cupo ammasso di tizzoni, come se la Catastrofe fosse già
avvenuta. Tra nostalgia e squarci profetici, in uno scenario labile e logoro,
tocca a ciascun lettore ritrovare una
sua verità, mettendo al lavoro la propria immaginazione.
Dai sogni di quegli artisti, dalla
loro ansia vitale e insieme autodistruttiva, stava nascendo proprio allora
il grande Sogno degli anni Sessanta,
che avrebbe colorato ogni luogo, da
New York alla California al mondo
intero. Prima di ripiombare nel grigio,
nel nero.
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A Folco
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