Viviana Farina
Riflessioni in margine
a due mostre sul paesaggio
Nature et Idéal. Le paysage à Rome. 1600-1650.
Claude Gellée dit Le Lorrain. Le dessinateur face à la nature.
Viviana Farina
Riflessioni in margine a due mostre sul paesaggio
© Viviana Farina
22 luglio 2011
www.ilseicentodivivianafarina.com
Grafica e impaginazione
Ivano Iannelli
Grafica web
Renato Caneschi
Viviana Farina
Riflessioni in margine a due mostre sul paesaggio
Nature et Idéal. Le paysage à Rome. 1600-1650
Paris, Grand Palais 9 marzo-6 giugno 2011;
Madrid, Museo Nacional del Prado 28 giugno-25 settembre 2011
Catalogo della mostra (Éditions de la RMN-Grand Palais, 2011), pp. 288, euro 42.
Claude Gellée dit Le Lorrain. Le dessinateur face à la nature
A cura di Carel van Tuyll van Serooskerken e Michiel C. Plomp assistiti da Federica Mancini
Paris, Musée du Louvre, 21 aprile-18 luglio 2011;
Haarlem, Musée Teyler, 28 settembre 2011-8 gennaio 2012.
Catalogo della mostra (Louvre éditions-Somogy éditions d’art, Paris 2011) pp. 312, euro 29.
1. Parigi è stato possibile visitare una mostra che ha spiccato nel fittissimo calendario
di eventi che oramai anche gli studiosi faticano a tenere d’occhio. Un’esposizione distintasi, innanzitutto, per il tema prescelto,
valutato sia in rapporto alle numerose manifestazioni organizzate per il quattrocentenario della morte di Caravaggio, sia in relazione
con la lunga serie di mostre pensate per illustrare, con più o meno coerenza e risultati
convincenti, lo sviluppo artistico di un solo
maestro. Messa da parte la monografia, si ha
avuto il coraggio di affrontare un argomento
delicato, più difficile per il gusto e, se vogliamo, meno interessante per il grande pubblico, quale la pittura di paesaggio, un genere
pittorico nato quale categoria autonoma a
Roma ad apertura del XVII secolo e pienamente affermatosi grazie alla preferenza accordata a questo tipo di decorazione profana,
ad affresco e su tela, nei palazzi aristocratici e
curiali e all’enorme successo commerciale ripagina
scosso presso i collezionisti europei. Accantonando i raggruppamenti tematici, molto amati
di recente (finanche nella mostra monografica
da ultimo dedicata a Salvator Rosa tra Londra
e Fort Worth), e che pure avrebbero potuto
proporsi, presentandosi a confronto dipinti
del medesimo soggetto eseguiti da mani differenti, si è meritoriamente preferito un criterio di esposizione del fenomeno in ordine
cronologico.
Stephane Loire e Andrés Úbeda de los
Cobos, curatori della pittura Italiana barocca,
rispettivamente, presso il Museo del Louvre e
il Museo del Prado, sono i commissari generali dell’evento, ma fondamentale è da ritenersi l’apporto di tre studiose italiane, da
tempo cimentatesi nell’analisi della pittura di
paesaggio, Francesca Cappelletti, Patrizia Cavazzini e Silvia Ginzburg, di cui vanno almeno
rapidamente qui ricordati gli importanti studi
su Paul Brill, Agostino Tassi e Annibale Carracci.
1
Fin dal titolo – Natura e Ideale – la mostra
richiama l’attenzione sul complesso rapporto
tra la nuova osservazione dal vero dei fenomeni naturali affermatasi sullo scorcio del
Cinquecento – una problematica tangente
con l’esplosione dell’arte di Caravaggio – e la
riproposizione di questi sulla tela in termini
che poterono essere più o meno realistici.
“Realistico” è però termine ottocentesco che
non si adatta alla nostra percezione della rappresentazione del dato naturale nel XVII secolo. L’abitudine di disegnare en plein air
proprio allora prendeva piede, sebbene tali
studi grafici venissero poi rielaborati in bottega sulla tela. La natura risulta così sempre
messa in posa, abbellita, composita di scelte
parti precedentemente selezionate secondo
un criterio di epurazione e di perfezionamento del reale che discende dal concetto di
Bello affermatosi nel corso del secolo precedente, secondo quanto attesta lo scritto di
Giorgio Vasari per eccellenza. E tuttavia, non
vi è dubbio che numerosi tra quei primi quadri, seppur raffiguranti scene di paesaggi architettati e abbelliti, furono resi con tinte più
vere e con una nuova sensibilità luministica
facendo sì che essi venissero percepiti dai contemporanei quali prove di realtà.
Nelle sale del Grand Palais più di ottanta
dipinti e circa trenta disegni dei maggiori protagonisti di quella importante stagione hanno
raccontato il differente e variegato apporto
alla nascita del genere. Abbiamo ammirato vedute ideali della campagna romana, raffigurazioni nordiche, in termini nostalgici o non,
della grandezza antiquaria della Roma antica,
marine, capricci architettonici, o paesaggi che
fanno da sfondo a scene mitologiche, storiche
o letterarie. Un percorso scandito da cinque
sezioni che, nel seguente ordine, hanno esemplificato: 1) le fondanti aperture offerte al
pagina
tema a Roma da Annibale Carracci e, già in
precedenza e con obbiettivi ben diversi, dall’anversese Paul Brill, l’arrivo nella città eterna
del geniale tedesco Adam Elsheimer; 2) l’evoluzione del paesaggio bolognese in senso
ideale (Domenichino, Francesco Albani, Giovan Battista Viola, Pietro Paolo Bonzi il
Gobbo dei Carracci, Giovanni Lanfranco e
Sisto Badalocchio); 3) l’evoluzione del paesaggio nordico e la creazione del cosiddetto
“paesaggio italianizzante” (Waals, Cornelis
van Poelenburgh e Bartholomeus Breenbergh
con il naturale inserto di Filippo Napoletano,
etc.); 4) i disegni; 5) gli inizi di Nicolas Poussin e di Claude Lorrain sulla scia di Agostino
Tassi; 6) il ciclo di paesaggi per il Palacio del
Buen Retiro di Filippo IV a Madrid e la piena
maturità di Poussin e di Claude.
In assoluta evidenza è stato posto il ruolo di
Annibale Carracci, testa d’ariete della prima
sezione, e dunque della mostra, con l’indimenticabile Paesaggio fluviale della National
Gallery di Washington (fig. 18). Un dipinto
che Silvia Ginzburg, contro una tradizione di
studi che lo vorrebbe uno spontaneo ricordo
di un pomeriggio estivo degli anni bolognesi
dell’artista fissato sulla tela dal caldo colore
veneziano, propone di posticipare dal
1589/1590 al 1599 incirca, mettendone in luce
la meditata e rigorosa composizione, frutto
dello studio condotto da Annibale a Roma
sulle prove paesaggistiche di Raffaello e
scuola, e su Polidoro da Caravaggio in particolare, insieme con una rinnovata riflessione
sulla tinta di Tiziano ispirata dai Baccanali di
Alfonso I d’Este, nel 1598 frattanto confluiti
nella raccolta capitolina di Pietro Aldobrandini (cat. n. 1). Circa nello stesso momento del
dipinto di Washington, precisamente nell’anno giubilare 1600, Paul Brill firmava e datava la Veduta di Campo vaccino del Museo di
2
Dresda (cat. n. 7). La prevalente componente
fantastica, sia compositiva che coloristica, tipica dell’arte del maestro, era all’epoca immensamente apprezzata; inoltre, la tranche de
vie della vendita del bestiame inserita tra le
rovine segnava gli inizi della grande fortuna
di tali scene di genere. Di certo, al passaggio
tra un sala e l’altra, il confronto con Annibale
risultava perdente in termini di modernità e
di anticipazione di motivi naturalistici affermatisi nell’Ottocento, ma non fu questo il
punto di osservazione dei contemporanei e
degli intendenti d’arte in particolare. Come ricorda anche Francesca Cappelletti in uno dei
saggi di catalogo (p. 30), è la celebre Lettera
sulla pittura del marchese Vincenzo Giustiniani, mecenate e collezionista di Caravaggio,
a restituirci la giusta chiave di lettura: il dipingere un “paese vicino, o lontano”, azione
posta dal nobiluomo al settimo grado di difficoltà artistica in una lista che prevede il suo
culmine al numero dodici, poteva realizzarsi
in due modi ben distinti dal punto di vista tecnico, ma ritenuti del tutto paritari quanto a
valenza del risultato: il primo, più sintetico e
consono agli italiani, ottenuto con il colore
“confuso” o dato a “macchie”, di cui i migliori esponenti risultano Tiziano, Raffaello,
Annibale e Guido Reni, il secondo, minuzioso
e diligente, tipico dei nordici come Brill, Jan
Brueghel e Herri Met de Bles il Civetta.
Più in generale, non è stato facile per il visitatore comune, soprattutto ignorante dei
cicli ad affresco realizzati da Brill a Roma –
dove questo era giunto prima del 1580 per rimanervi sino alla morte nel 1626 –, comprendere all’interno del percorso espositivo
l’importanza del contributo offerto dal fiammingo alla nascita del genere paesaggistico
nella città eterna, o anche nella vicina Napoli.
L’occhio più esperto ne riconosceva invece
pagina
già il frutto in sala grazie al piccolo gioiello
che è il Riposo durante la fuga in Egitto di
Giuseppe Cesari del Boston Museum, generalmente datato al secondo soggiorno partenopeo del Cavalier d’Arpino (cat. n. 17),
maestro che solo di rado nelle sue tele lasciò
ampio spazio alla scena paesaggistica. È varrà
dunque il caso di valorizzare in questo specifico contesto il Paesaggio con satiro e ninfa
(Giove ed Antiope?) già nella collezione Lodi
a Campione d’Italia, ora passato nuovamente
all’asta (Sotheby’s Milano 14 giugno 2011,
lotto 19; fig. 1), in cui l’ampiezza di respiro e
la qualità della veduta sono tali da avere
spinto H. Röttgen (Il Cavalier Giuseppe Cesari d’Arpino. Un grande pittore nello splendore della fama e nell’incostanza della fortuna,
Roma 2002, p. 460, n. 238 e p. 186, fig. 99) a
ipotizzare, prima, la collaborazione di Tassi,
poi, quella di Breenbergh o di van Swanevelt,
mentre forse è più semplicemente da cogliervi
(dato anche il formato ridotto della tavola) il
tentativo del Cesari (probabilmente un po’
prima degli anni Trenta, come vorrebbe lo
studioso tedesco) di cimentarsi in proprio sui
modelli di Elshemeir e Tassi, dopo la collaborazione intavolata, almeno una volta, con
Cornelis van Poelenburgh sui primi anni
Venti (cfr. il Paesaggio con Tobiolo e l’angelo
del Palazzo Imperiale di Pavlovsk, ivi, p. 187,
fig. 100).
All’alba del primo decennio, respiro nuovo
in termini di spazio, indagine luministica e
resa atmosferica aveva dato frattanto all’arte
di Paul Brill il tedesco Adam Elsheimer (la significativa Aurora di Braunschweig – cat. n.
12 – la si vede solo ora esposta a Madrid), offrendo spunti di grande importanza per le invenzioni di Carlo Saraceni (cat. nn. 15-16),
Orazio Gentileschi (ma il celebre rametto con
San Cristoforo di Berlino – cat. n. 18 – è an-
3
1. Giuseppe Cesari, Paesaggio con satiro e ninfa (Giove ed Antiope?),
già Campione d’Italia, collezione Lodi (Sotheby’s Milano 14 giugno 2011, lotto 19)
ch’esso visibile solo a Madrid), Jacob Pynas
(cat. n. 48), Pieter Lastmann (cat. n. 47), del
conterraneo Waals e di Filippo Napoletano,
questi ultimi quattro artisti tutti illustrati nelle
sale successive.
Più prolissa la seconda sezione della mostra, dedicata agli allievi di Annibale, dove il
solo, imponente, Paesaggio con la fuga in
Egitto di Domenichino del Louvre (cat. n. 22)
sarebbe stato sufficiente a illustrare il percorso seguito dallo Zampieri ad apertura degli
anni Venti, quando egli rielaborava gli schemi
compositivi di Annibale in direzione di una
maggiore monumentalità, poi presa ad esempio dal maturo Poussin; così come il meno
pagina
visto Paesaggio durante la fuga in Egitto del
Princeton Museum di Francesco Albani (cat.
n. 26; artista di cui si sono esposte opere che
ne mostravano lo sviluppo dal primo decennio sino al 1640 incirca), spettacolare prova
della vicinanza stilistica con il maestro Annibale, avrebbe potuto supplire alla presenza
dei più noti tondi della Galleria Borghese (cat.
nn. 27-28).
Pressappoco a un tempo con queste due ultime opere, verso il 1618, di tutt’altro significato per gli anni a venire fu la svolta impressa
al genere pittorico da Guercino, quando l’artista, cogliendo l’attimo, ritraeva con sensibilità di lume discendente dal veneziano
4
Domenico Fetti (coinvolto anch’egli con
Roma, ma non rappresentato in mostra) e da
Adam Elsheimer delle nude al fiume, acconciandole poi alla storia mitologica. Il bagno di
Diana (Rotterdam, Museum Boijmans, cat. n.
31), capolavoro di piccolo formato, nel clima
“di calma sospesa” che lo caratterizza (S. Ginzburg), rivelava il debito contratto dal Barbieri con la pittura nordica, attestando,
contemporaneamente, la maturazione di una
nuova sensibilità di sguardo costituente il filo
rosso che unisce le ricerche del pittore di
Cento a quelle di Pietro da Cortona.
Non sembra che quest’ultimo abbia fatto
scuola con i pochi esperimenti condotti sul
genere, eppure i minimi Paesaggi su legno
della Pinacoteca Capitolina (cat. nn. 50-51),
segnatamente quello a tema pastorale, apprezzabili in una sezione più avanzata del percorso espositivo, mostravano appieno come
intorno al 1625 Pietro, allora al servizio dei
Sacchetti, rappresentasse la prima personalità
artistica capace di rielaborare i modelli carracceschi e nordici e la freschezza di tocco di
Tiziano in una via di straordinaria modernità,
sino al punto da lasciare l’impressione di
avere dipinto tali tavolette d’après nature (P.
Cavazzini). Nel contesto delle sale parigine,
meno innovativo è apparso, viceversa, l’apporto al genere pittorico da parte di Sisto Badalocchio (cat. nn. 32-33), mentre probabili
necessità di allestimento hanno fatto sì che si
vedesse il Lanfranco del momento del Camerino degli Eremiti di Palazzo Farnese, del
1616-1617 (cat. nn. 34-35), solo nella penultima sala del percorso del primo piano, insieme con opere ben più avanzate nella
cronologia, quali quelle di Salvator Rosa e di
Diego Velázquez.
Sul finale del secondo decennio, Roma vide
il parallelo sviluppo di un secondo ed indipenpagina
dente filone di ricerca di aerea nordica e italiana, non interessato come quello bolognese al
processo di idealizzazione della natura osservata, bensì ad un studio realistico in cui la vera
protagonista, secondo la attestata tradizione
delle Fiandre, è la luce. Questo l’ambiente ricostruito nella terza sezione della mostra.
Non vi è dubbio che un esponente di punta
di tale corrente sia l’ancora misterioso pittore
tedesco Gottfried Wals, vissuto in Italia tra
Napoli, Roma e Genova, di cui abbiamo ammirato l’indimenticabile Strada di campagna
con case (Cambridge Museum, cat. n. 37,
fig. 2), uno dei più intensi rametti di formato
rotondo per cui il maestro divenne celebre.
Un’opera che mi sembra potere addirittura
precedere il Paesaggio con il riposo durante la
fuga in Egitto del Museo di Tokyo, recante sul
verso un’iscrizione non autografa, ma da ritenersi affidabile in rapporto all’analisi stilistica,
che lo colloca nel 1619 (cfr. A. Repp-Eckert,
Nachträge zu Leben und Werk des Goffredo
(Gottfried) Wals, in “Wallraf-RichartzJahrburch”, 67, 2006, p. 235). Nel rame di
Cambridge, la massa minuziosa degli alberi
stagliata sul cielo rivela l’eredità di Brill e di
Elsheimer, ma nuovissimi risultano il taglio
compositivo e lo sguardo silente e sintetico
del pittore, concentratosi non sulla figura
umana, che gli interessa appena, ma sull’alternanza tra l’ombra che divora i muri e la
luce quasi accecante che bagna il resto della
composizione: una lezione fondante per il napoletano Aniello Falcone (fig. 3), che giovanissimo ben dovette conoscere le opere del
tedesco allora numerose (sessanta ne elenca il
Capaccio nel 1630) nella raccolta partenopea
del mercante fiammingo e suo protettore di
eccellenza Gaspar Roomer.
Vicenda molto delicata da dirimere è il rapporto di dare e avere tra Filippo Napoletano
5
2. Gottfried Wals, Strada di campagna con case, Cambridge, The Fitzwilliam Museum
e Wals, figura a sé stante per la peculiare ricerca luminosa, fiaccata a torto dal trinciante
e recente giudizio di Marco Chiarini (Teodoro
Filippo di Liagnio detto Filippo Napoletano.
1589-1629, vita e opere, Firenze 2007, p. 29, in
particolare), che lo ritiene un semplice gregario del di Liagnio, sotto il nome del quale ha
preferito spostare una serie di dipinti in precedenza assegnati all’artista tedesco da Marcel Roethlisberger e Luigi Salerno. È il caso
eclatante de Le mura di Roma (in prestito permanente alla National Gallery di Londra; cat.
pagina
n. 38), che si vede ora a Madrid, da catalogare
più convincentemente sotto il nome di Wals
che sotto quello di Filippo (Chiarini 2007, p.
342, n. 125) e che Patrizia Cavazzini propone,
ragionevolmente, di datare sul 1620; come
anche quello della più matura veduta con una
Casa sulla montagna della Kunsthalle di
Brema (cat. n. 39; Chiarini 2007, p. 323, n.
104, la ritiene viceversa del Napoletano), brillante simbiosi tra realismo nordico e serenità
lirica in anticipo su Claude Lorrain, allievo di
Wals, e sul vedutismo di primo Ottocento.
6
3. Aniello Falcone, Scena di elemosina (L’elemosina di santa Lucia), Napoli, Museo di Capodimonte
La mostra francese, incentrata sul ruolo di
Roma, ha sfiorato solo tangenzialmente la
questione dell’andirivieni con Napoli di numerosi protagonisti di quella fruttuosa stagione storico-artistica, aspetto su cui è forse,
dunque, qui utile soffermarsi brevemente per
essere poi meglio indagato, tenendo presente
che la città vicereale rappresentò, insieme con
Roma e Firenze, una delle punte del triangolo
in cui questi artisti si mossero. Ricordo intanto che Filippo Napoletano e Gottfried
Wals dovettero incontrarsi proprio a Napoli
pagina
(ne fa cenno già P. Cavazzini in Agostino
Tassi (1578-1644). Un paesaggista tra immaginario e realtà, catalogo della mostra a cura
di P. Cavazzini, Roma 2008 p. 49), luogo
dove il primo si era formato, presumibilmente presso Carlo Sellitto, e il secondo era
giunto in data imprecisata (ignota è la cronologia dei suoi spostamenti, dedotta dalla testimonianza postuma del genovese Raffaello
Soprani e dalle smilze notizie di Filippo Baldinucci, Pellegrino Antonio Orlandi e Lione
Pascoli), di certo inserendosi nella folta colo-
7
nia dei fiamminghi e tedeschi stabilmente residenti in città. Al principio del 1615, quando
Filippo si era mosso alla volta di Roma (Chiarini 2007, p. 489), Wals vi era forse anch’egli
già giunto. Qui entrambi gravitarono nella
bottega di Agostino Tassi, dove il tedesco è
documentato alla fine del 1616 (Cavazzini
2008 p. 45), mentre la presenza del Napoletano è deducibile su base stilistica al tempo
della decorazione della Camera di San Paolo
al Quirinale, saldata al Tassi alla fine del
1617, ad ogni modo entro il giugno di questo
ultimo anno quando Filippo partiva per Firenze (ivi, pp. 39-40). Anche in seguito i due
maestri ebbero la possibilità di tenersi d’occhio. Tra il 1624 e il 1626, quando si ritiene
che il di Liagnio sia rientrato brevemente a
Napoli, Wals poteva ancora risiedervi, se era
qui tra il 1620 e il 1622, periodo in cui si
suole collocare l’alunnato di Claude Lorrain
che, secondo Baldinucci, proprio nell’atelier
partenopeo di Wals avrebbe appreso la pratica della prospettiva e del paesaggio. E se
anche solo di passata, ricordo come queste
prime aperture di Napoli alla pittura di architetture – che di fatto segnano l’introduzione in città della cultura di Agostino Tassi
e spiegano il successo della produzione di
François De Nomé – denotino un favore cittadino per il genere che annuncia, e in qualche modo giustifica, il più tardo e prolungato
trasferimento da Roma a Napoli di uno specialista assoluto quale Viviano Codazzi.
A Parigi, il mirabile Paesaggio fluviale con
viaggiatori di Palazzo Pitti (cat. n. 40) rendeva
perfettamente conto di questo intrigante momento dell’arte di Filippo Napoletano, in cui
innegabile è il nesso con le ricerche luministiche di Wals, ma anche con le tipologie di Cornelis van Poelenburgh (si confrontino tali
figure con le sagome della Veduta di Campo
pagina
Vaccino del museo del Louvre, iscritta dall’olandese nel 1620, cat. n. 43), ciò che induce
a preferire la proposta di datazione di Patrizia
Cavazzini sul 1619 a quella sul 1617 sostenuta
da Marco Chiarini (2007, p. 246), nonostante
sia più probabile il ruolo trainante di Filippo
Napoletano sul van Poelenburgh e non viceversa. Quest’ultimo maestro, negli antichi inventari indicato come Cornelio Satiro,
originario di Utrecht, la cui presenza a Roma
è documentata con continuità da disegni firmati dal 1619 al 1623, dové soggiornare anch’egli a Firenze nel corso del 1618 (Sandrart
lo dichiara al seguito del granduca ed amico
di Callot), quando non si hanno ulteriori
tracce dei suoi movimenti, ossia al momento
in cui pure Filippo Napoletano era al servizio
di Cosimo II. Stanno ad attestarlo, più dei dipinti entrati ab antiquo nelle collezioni medicee, i ricordi grafici del Bacco di Michelangelo
e dei perduti affreschi di Pontormo in San Lorenzo (A. Chong, The Drawings of Cornelis
van Poelenburch, “Master Drawings”, 25, 1,
1987, Appendix II e cat. n. 17v). Ed è qui che
la Napoli del secondo decennio può fare di
nuovo capolino.
Cornelis van Poelenburgh è infatti da identificare nel “Cornelio”, “il Fiamingo”, esperto
di paesaggio citato, insieme con Ribera, Battistello Caracciolo e l’oramai meno amato Fabrizio Santafede, in alcune lettere che del
febbraio al maggio del 1618 Cosimo del Sera,
agente mediceo, spediva da Napoli a Firenze
ad Andrea Cioli, segretario del granduca Cosimo II (A. Parronchi, Sculture e progetti di
Michelagenlo Naccherino, “Prospettiva”, n. ,
1980, p. 40), quale artista presente in città, intento ad un paesaggio – non ancora pronto il
1 di maggio – da inviare a Firenze (“e si vorra
pigliar il tempo di trovarlo fuor dallegria alla
quale egli e spesso sottoposto”), città dove il
8
maestro potrebbe quindi essere giunto nella
seconda parte del medesimo 1618. La notizia,
che colma innanzitutto la lacuna della biografia italiana di Cornelis, lascia intravedere
come Napoli, che il pittore dovette raggiungere poco dopo il suo arrivo a Roma, dove nel
1617 scriveva versi nell’Album amicorum di
Wybrand de Geest, offrisse evidentemente
più possibilità di lavoro e di successo di
quanto sia emerso sinora dagli studi. Non sappiamo quando i paesaggi di “Cornelio Satiro”
fossero entrati nella raccolta dell’anversese
Gaspar Roomer (Capaccio 1630), residente a
Napoli almeno dal 1616 e possessore di ben
459 quadri di tale tema (degli “infiniti paesi, e
… bellissimi”, tra cui alcuni di Brill e di Lorrain, riferiva Pietro Andrea Andreini a Leopoldo dei Medici il 4 aprile del 1675; cfr. R,
Ruotolo, Mercanti-collezionisti fiamminghi a
Napoli. Gaspare Roomer e i Vandeneyden, Ricerche sul ‘600 napoletano, 1982, p. 21, nota
23); né tantomeno è, forse, possibile identificare il dipinto a cui Poelenburgh lavorava a
Napoli al principio del 1618 per Cosimo II nel
Paesaggio con rovine nella campagna di Palazzo Pitti che si è visto esposto a Parigi (cat.
n. 42; fig. 4), uno dei rametti di cui è noto il
passaggio nella collezione del cardinale Giovan Carlo e poi di Ferdinando dei Medici. Ma
di certo il quadro rende conto dei primi esercizi del maestro (Francesca Cappelletti lo data
entro il 1620), intento all’aggiornamento del
rovinismo di marca nordica e del modello di
Paul Brill in particolare: la nuova monumentale incombenza del prisco edificio, a cui l’occhio dell’artista si accosta da presso, come
quello di Filippo Napoletano concentrato
nella ripresa di case e mulini, e il vigoroso
chiaroscuro ben si legano, infatti, al filone
paesaggistico e rovinista sviluppatosi a Napoli, circa dieci dopo, con Aniello Falcone
pagina
(fig. 5), e di qui dritto sino a Micco Spadaro e
a Salvator Rosa (fig. 6), nelle opere dei quali
databili al quarto decennio è giusto riconoscere le impronte dei modelli compositivi e figurativi e delle indagini luminose di van
Poelenburgh.
Meno chiari, invece, i rapporti dei napoletani con Bartholomeus Breenbergh, maestro
di Deventer residente a Roma tra il 1619 e il
1629 incirca, in principio collaboratore nell’ancora attiva bottega di Brill e poi membro
della Bent insieme con van Poelenburgh. Il
Paesaggio con il tempio di Minerva Medica del
museo di Würzburg (cat. n. 45), siglato “BB”,
ha messo in evidenza come la lezione dell’olandese, a sua volta improntata allo stile fiorentino di Filippo Napoletano, debba essere
inclusa tra le fonti di Domenico Gargiulo e
Salvator Rosa che dovettero ammirarne la
morbidezza atmosferica e il gioco contrastato
delle luci e delle ombre proiettate sul monumento. La cronologia del decennio italiano di
Breenbergh è abbastanza oscura. Tuttavia
sarei tentata di non avanzare il dipinto di
Würzburg sino al 1627 circa, una datazione
successiva a quella del Paesaggio con Cristo e
la Samaritana (collezione Tyssen-Bornemisza,
cat. n. 46), segnato 1625 (e distinto da tipi che
si rivelano più vicini ai modi di van Laer e
Cerquozzi che di Filippo Napoletano), e prossima a quella de La Villa di Mecenate, uno studio firmato e datato nel 1627 (Fondazione
Custodia, cat. n. 104) che si è potuto vedere a
Parigi nella sala dei disegni, sebbene esso costituisca un ragionevole punto fermo di confronto. È quest’ultimo foglio ad offrire pure
l’occasione di ricandidare il nome del Breenbergh per l’Accampamento di zingari tra le rovine della villa di Mecenate un tempo in
collezione Gualino a Roma, tela che si ritiene
dipendere, come anche il disegno della Fon-
9
4. Cornelis van Poelenburgh, Paesaggio con rovine nella campagna, Firenze, Galleria Palatina
dazione Custodia, dal quadro di analogo soggetto di Filippo Napoletano conservato al
Museo di Bordeaux, attribuito all’olandese da
Giuliano Briganti e da Marcel Roethlisberger,
poi conteso a Filippo Napoletano da Luigi Salerno e da Marco Chiarini e di nuovo al Breenbergh da Ludovica Trezzani (La pittura di
paesaggio. Il Seicento, a cura di L. Trezzani,
Milano 2004, pp. 172 e 174, con bibliografia).
Un’opera che, a latere, solleva intanto anch’essa la questione delle tangenze stilistiche
tra il pittore nordico e il Gargiulo dello scorcio del quarto decennio.
Poco felice è apparsa, invece, la scelta di
esporre a Parigi il pur pregiato rame di Digione con la Caduta di Simon Mago di Leonart
Bramer (cat. n. 49; pittore per altro ben copagina
nosciuto a Napoli grazie ancora a una volta
alle scelte à la page di Roomer), opera che,
nello specifico, non poteva illustrare il contributo offerto dall’artista di Delft allo sviluppo
del genere paesaggistico.
Altre osservazioni sono possibili relativamente alla penultima sala del percorso espositivo, accogliente dipinti di Salvator Rosa, i
già sopra menzionati di Pietro da Cortona e
di Giovanni Lanfranco e, ancora, la Veduta
del giardino di Villa Medici di Diego Velázquez (Madrid, Museo del Prado, cat. n. 57),
un miracolo di pittura del 1649/1650 che non
vedo possibile situare stilisticamente al tempo
del primo viaggio italiano del maestro di Siviglia, nonostante l’ipotesi abbia il sostegno autorevole di José Milicua.
10
5. Aniello Falcone, Il tempio di Venere a Baia, Madrid, Biblioteca Nazionale
6. Salvator Rosa, Paesaggio con il castello di Baia, Chicago, The Art Institute
Quanto alle opere scelte per illustrare al
pubblico la grande innovazione apportata al
tema dal napoletano Rosa, celebre pittore di
paesaggio dei suoi tempi, si sarebbe preferito
vedere esposta qualche primizia degli anni
tra Napoli e Roma, piuttosto che la Marina
delle Torri e il Ponte rotto di Palazzo Pitti, databili alla seconda parte del periodo fiorentino dell’artista (cat. nn. 55-56), e visti già tre
volte in esibizioni tenutesi tra il 2007 e il
2010. Nuovi spunti di riflessione ha, però, offerto il Paesaggio lacustre con armenti e rovine
del Museo di Cleveland (cat. n. 54; fig. 7),
questo non esposto in Italia dal 1998. Conservato nella galleria di Modena sino al 1868,
il dipinto è parte di un gruppo di tre quadri
– gli altri due raffiguranti il Paesaggio con Erminia che incide il nome di Tancredi e la Veduta di un golfo tutt’oggi alla Galleria Estense
(figg. 8-9) – a cui Salvatore lavorò nel corso
del 1640 a Roma per conto di Francesco I
d’Este duca di Modena. La serie, come è
noto, è stata identificata grazie ad una lettera
del 1 settembre di quell’anno, inviata da
Roma da Francesco Mantovani, agente granducale, che alla data spediva a Modena
(“mando”) quattro “paesi”, due di Rosa
(“che si conosceranno benissimo, poiché nell’aria hanno dello sfumato come il primo”),
uno di Hermann van Swanevelt ed uno di
François Perrier, andatisi ad aggiungere ad
altre due tele di Rosa e di van Swanevelt già
inviate in una data imprecisata. Il testo del
documento, generico circa la cronologia, non
rende dunque necessario retrodatare tale
prima spedizione sino al 1639 (Rosa era pittore in grado di realizzare ben più di tre tele
nel corso di un solo anno), secondo quanto
proposto da Anna Colombi Ferretti (in
L’arte degli estensi. La pittura del Seicento e
del Settecento a Modena e a Reggio, catalogo
pagina
della mostra, Modena 1986, pp. 266-268) ed
accettato nella letteratura successiva. A parere della studiosa, poi, il Paesaggio con Erminia che incide il nome di Tancredi sarebbe
la prima opera eseguita da Rosa, in gara nella
messa in scena del poema di Tasso con Hermann van Swanevelt, autore di una Erminia
tra i pastori anch’essa ancora conservata nelle
collezioni estensi (ivi, pp. 264-265, cat. n.
180); la Veduta di un golfo e il Paesaggio lacustre con armenti e rovine costituirebbero,
dunque, un’armoniosa coppia in pendant
spedita nel settembre del 1640. L’associazione di tali vedute, dove l’acqua rappresenta
l’elemento unificante, è, di fatto, di grande
suggestione; inoltre, posto il quadro di Cleveland alla sinistra della Veduta di un golfo, si
apprezza il contrasto tra il dolce declivio del
promontorio dipinto sul confine destro della
tela americana e il picco roccioso che apre sul
margine sinistro la composizione tutt’oggi
conservata a Modena. Ciò nonostante, il medesimo genere di congiunzione/opposizione
visiva si scopre anche una volta posizionato il
Paesaggio con Erminia che incide il nome di
Tancredi – dove pure è uno specchio d’acqua
dolce ritratto in secondo piano – alla sinistra
della Veduta di un golfo. Di recente Helen
Langdon (Salvator Rosa tra mito e magia, catalogo della mostra, Napoli 2008, p. 194, cat.
n. 56), pur riportando la tesi della Colombi
Ferretti, aveva intanto già sollevato un “leggero dubbio” circa la scelta di isolare il Paesaggio con Erminia che incide il nome di
Tancredi, che, viceversa, una volta ricongiunto alla Veduta di un golfo, evidenzierebbe meglio il tentativo di emulazione da
parte di Rosa dei contrastati abbinamenti tematici di Claude Lorrain. Sorge, però, pure il
sospetto che le tre opere, tutte di identiche
misure, fossero tra di loro in qualche modo
12
7. Salvator Rosa, Paesaggio lacustre con armenti e rovine, Cleveland, Museum of Art
intercambiabili, senza contare che le due spedite il 1 settembre del 1640 poterono anche
non essere concepite in pendant: il Mantovani è specifico solo al riguardo dell’alto gradimento riscosso dal primo dipinto inviato
da Salvatore rispetto a quello di van Swanevelt, sino al punto da farne richiedere altri
due al napoletano. Non mi sembra, dunque,
che le parole della lettera obblighino, come si
è accettato sinora, a ritenere l’Erminia la
prima delle opere eseguite da Rosa in virtù
dell’esistenza dell’Erminia tra i pastori di van
Swanevelt: la competizione sul tema tassesco,
se pure vi fu, non comporta necessariamente
tale conclusione; inoltre, non è dato di sapere
pagina
se la seconda tela compiuta dal pittore nordico per Francesco I, di cui rimane la descrizione di Mantovani (“contiene certe vaccine
rosse ed una donna vestita di turchino”), non
fosse stata la prima a giungere a Modena. Nel
riconsiderare le tre tele di Rosa, ed ora che
mi è stato possibile studiare il paesaggio di
Cleveland dal vero, ritengo che sia in esso
che vada riconosciuto il quadro di cui il Mantovani elogia lo sfumato: l’omaggio alla luce
dalle dolcissime inclinazioni e ai delicati effetti atmosferici di Claude Lorrain non è infatti paragonabile per intensità di risultati né
al Paesaggio con Erminia che incide il nome
di Tancredi, più vicino nel mood e nei tipi a
13
8. Salvator Rosa, Paesaggio con Erminia che incide il nome di Tancredi, Modena, Galleria Estense
van Swanevelt, né alla Veduta di un golfo, che
annuncia le grandi marine dipinte per Giovan Carlo dei Medici nel 1641. Seppure solo
di qualche mese, la priorità cronologica del
Paesaggio lacustre con armenti e rovine è comprovata dall’imprinting ancora napoletano
della tela, rivelato dal fresco e sciolto tocco
del pennello del maestro, in continua evoluzione stilistica dopo prove pittoriche del genere del Paesaggio con edificio antico, pastore
ed armenti del Museo di Chicago (fig. 6), da
me argomentato al 1638 incirca, ossia all’ultimo tempo partenopeo di Rosa (V. Farina,
Il giovane Salvator Rosa, 1635-1640 circa, Napoli 2010, pp. 88, 90, 92).
pagina
2. Nel passaggio dal primo al secondo
piano del Grand Palais, la bella idea di decorare l’androne con le riproduzioni fotografiche della Sala dei Palafrenieri di Palazzo
Lancellotti a Roma (fig. 10), uno dei laboriosi
cantieri a cui Agostino Tassi lavorò a partire
dal 1620 incirca, affiancato in alcuni ambienti
da Guercino e da Giovanni Lanfranco, permetteva al grande pubblico quanto meno di
intuire l’enorme importanza di questo caposcuola, sino a quel momento non rappresentato visivamente nelle sale del percorso. La
finta doppia loggia, che al piano inferiore
apre la vista a scene di terra e di mare, ben
metteva in evidenza il ruolo fondante di Tassi
14
9. Salvator Rosa, Veduta di un golfo, Modena, Galleria Estense
– già noto agli studi, ma ancora da puntualizzare – per la nascita della veduta marina di
Salvator Rosa e di Domenico Gargiulo. Ed è
proprio la parete della Sala dei Palafrenieri a
costituire il più interessante repertorio di motivi variamente utilizzati nei cicli ad affresco
realizzati a partire dal 1638 da Micco Spadaro nella Certosa di San Martino a Napoli
(fig. 11), finanche negli illusivi decori scultorei e architettonici, motivi che a loro volta costringono a chiamare in causa il bergamasco
attivo a Napoli Viviano Codazzi, di cui di recente e a ragione si è reclamata la dipendenza
culturale dal Tassi (R. Pantanella in La pittura
di paesaggio cit., p. 267). Né mi appare anpagina
cora messo in giusto rilievo l’apporto dei disegni a penna e inchiostro di Agostino (cat.
nn. 106-107; [si guardi soprattutto al Paesaggio costiero con figure esposto contemporaneamente alla monografica sul Lorrain presso
il museo del Louvre, fig. 12]) alla determinazione dello stile grafico di Domenico Gargiulo, forse ancor di più che di quello del
Rosa (il quale sembra, però, avere riapprezzato la maniera del maestro romano nel corso
della sua maturità).
Ad apertura della sezione del piano superiore naturale collocazione trovavano, dunque, altre opere di Tassi, quali il Paesaggio con
la scena di stregoneria (Baltimore, The Wal-
15
ters Art Gallery, cat. n. 58), tratto dalla celebre Circe di Dosso Dossi, vista dall’artista a
Roma in collezione Borghese, e il più tardivo
L’arrivo di Cleopatra a Tarso (Paris, Galerie
Canesso, cat. n. 59), entrambi utili a spiegare,
rispettivamente, l’origine della placida natura
boschiva di Claude Lorrain (si metta, ad
esempio, a confronto il Paesaggio con pastore
del Gelée di Londra, cat. n. 61) e gli albori
dell’attività del medesimo pittore francese,
che, come è occorso sopra di ricordare, aveva
frequentato la bottega di Tassi nel periodo intorno al 1622-1625. Il ratto di Elena di collezione privata inglese, attribuito da tempo al
pagina
giovane Claude allievo di Agostino (cat.
n. 60), lasciava frattanto qualche perplessità
circa il responsabile dell’esecuzione.
Questi gli inizi della quinta sezione della
mostra, da questo momento in poi meno capace di suscitare la curiosità dello specialista,
ma di certo utile ai più nell’ambizioso tentativo di raccontare la piena affermazione del
genere pittorico all’incirca tra il 1625 e il
1650, a partire dalle straordinarie riletture dei
miti bacchici di Tiziano da parte di Nicolas
Poussin (cat. nn. 63-65), giunto a Roma nel
1624, alle prove paesaggistiche di Lorrain elaborate sulla metà degli anni Trenta. Punto,
16
10. Agostino Tassi e aiuti, Decori della Sala dei Palafrenieri, Roma, Palazzo Lancellotti
11. Domenico Gargiulo, Paesaggio con santo eremita, Napoli, Certosa di San Martino, Quarto del Priore
questo ultimo, idealmente completato dall’esposizione monografica organizzata dal
Museo del Louvre in onore del Gellée,
aspetto su cui ritornerò dunque più avanti.
L’imponente richiesta di quadri di paesaggio da parte degli emissari di Filippo IV di
Spagna, per addobbare l’allora sorto complesso del Buen Retiro di Madrid, uno dei
grandi eventi del mondo artistico al passaggio
tra quarto e quinto decennio del Seicento, sanciva la piena affermazione di tale genere pittorico. Sommi rappresentanti politici del
sovrano, coadiuvati da agenti, si incaricarono
di coordinare la massiccia commissione di pitpagina
ture, provenienti dalle Fiandre e da Roma
(dove vennero coinvolti i migliori, nonché
emergenti specialisti allora disponibili: Poussin, Lorrain, Dughet, Lemaire, van Swanevelt,
Jan Both, Jan Asseljin), in un arco di tempo
che potrebbe cadere tra la fine del 1633 – il
palazzo veniva inaugurato nel dicembre di
quell’anno – e l’estate del 1641. Il tema, trattato da numerosi contributi specialistici seguiti
all’oramai celebre studio di apertura di Brown
ed Eliott (A Palace for a King. The Buen Retiro
and the Court of Philip IV, New-Haven, London, Yale 1980), e già sottoposto all’attenzione
del pubblico in occasione della mostra madri-
17
12. Agostino Tassi, Paesaggio costiero con figure, Paris, Musée du Louvre
lena specificamente dedicata alla ricostruzione
dei decori del Buen Retiro (El Palacio del Rey
Planeta. Felipe IV y el Buen Retiro, catalogo
della mostra a cura di A. Úbeda de los Cobos,
Madrid 2005), è stato ora ripresentato in due
delle sale del secondo piano del Grand Palais,
occupate da una scelta delle tele originariamente appartenenti al congiunto ed oggi di
pertinenza del Museo del Prado di Madrid. Mi
si offre così l’occasione di precisare alcuni
aspetti di tale intricata vicenda, ripercorsa con
ampiezza nei saggi ricostruttivi di Giovanna
Capitelli (ivi, pp. 241-261 e schede) ed in
quello in catalogo a firma di Andrés Úbeda de
los Cobos (Les tableaux de paysage destinés au
palais du Buen Retiro de Madrid).
pagina
Vorrei, innanzitutto, ricordare come vi sia
ancora incertezza circa la maggiore o minore
responsabilità assunta dai vari alti aristocratici, menzionati nella documentazione superstite, nel coordinamento della commissione,
come anche circa i tempi precisi di lavorazione dei quadri. Le poche tracce cartacee disponibili non aiutano molto in questa ultima
direzione: sappiamo solo che nel gennaio del
1639 ventiquattro dipinti giunsero da Roma a
Madrid e che una seconda e plausibilmente
decisiva consegna di diciassette casse di quadri, partiti dalla capitale via Napoli, cadde nel
settembre del 1641. Allo stato Andrés Úbeda
propone di non scindere la commissione di
tali paesaggi dalla richiesta, altrettanto nota,
18
del ciclo di Storie dell’antica Roma destinato al
medesimo palazzo a cui, sin dal 1633 e per
l’interessamento del viceré di Napoli conte di
Monterrey, lavorarono numerosi maestri attivi tra Roma e la capitale vicereale (Lanfranco, Domenichino, Poussin, Romanelli,
Camassei, Ribera, Stanzione, Artemisia Gentileschi, Finoglio, Cesare Fracanzano, Falcone, De Lione, Codazzi e Gargiulo e altri).
Nella cosiddetta Testamentaría del 1701
(l’unico inventario disponibile, sebbene tardivo, utile per la conoscenza delle collezioni
di Filippo IV) vengono elencati dipinti di paesaggio in numero ben superiore a quello delle
opere sinora ritracciate, così che l’ipotesi di
far risalire l’incarico della serie al 1633 può ritenersi attendibile a patto, però, di scinderla
dallo studio dei dipinti superstiti. Nessuno di
essi può, infatti, sostenere una cronologia così
precoce, tantomeno i quadri di formato orizzontale con santi eremiti generalmente ritenuti parte del primo incarico di ventiquattro
tele giunte a Madrid nel gennaio del 1639.
L’ipotesi di Úbeda assume dunque di valore
se integrata con un dato documentario noto
da tempo (M.T. Chaves Montoya, El Buen
Retiro y el conde-duque de Olivares, “Anuario
del Departamento de Historia y Teoría del
Arte” (Universidad Autónoma de Madrid),
IV, 1992, pp. 217-230), attestante come nel
dicembre del 1633 alcune sale del palazzo del
Retiro fossero già state decorate con una serie
di paesaggi con anacoreti che il conte di Monterrey aveva inviato da Napoli. La sola Giovanni Capitelli (2005, p. 244) ha proposto il
collegamento tra la notizia e un gruppo di sedici quadri rintracciabili nella Testamentaría
ai numeri 308-323, tutti precisati nel soggetto
sacro raffigurato e attribuiti in massa a “Campaño Napolitano”, ossia – ha osservato a ragione la studiosa – a Scipione Compagno,
pagina
petit maître attivo a Napoli negli anni Trenta
del XVII secolo. Rilevo frattanto a margine
come la notizia sveli, nuovamente, il ruolo, se
non proprio di leadership, ma di sicuro primo
piano, ricoperto dalla città vicereale nel processo di sviluppo e affermazione della pittura
di paesi nel primo Seicento.
Dinnanzi a tale penuria di sicuri punti di riferimento, la cronologia che si è attribuita all’intera prima serie di paesaggi per Filippo IV
si è sinora basata, in concreto, su quella assegnabile ai dipinti di Claude Lorrain. Secondo
Filippo Baldinucci, biografo dell’artista, proprio in occasione della realizzazione degli otto
quadri richiesti dal sovrano spagnolo (oggi se
ne conoscono solo sette), Claude avrebbe
dato inizio alla compilazione del cosiddetto
Liber Veritatis (Londra, The British Museum), un taccuino composto di 195 disegni
realizzati a posteriori delle proprie composizioni pittoriche al fine di difenderne la priorità inventiva (su di esso, cfr. principalmente
M. Kitson, Claude Lorrain. Liber Veritatis,
Londra 1978). Sul retro di cinque di questi
fogli (LV 32, 47-50), il pittore ha esplicitato la
destinazione al monarca di altrettante opere
oggi rintracciabili nelle collezioni del Museo
del Prado (inv. nn. 2258, 2252, 2253, 2254,
2255) e non altrimenti databili con certezza. Il
Liber Veritatis non riporta, però, date precise
sino al 1648, anno iscritto sul LV 117; la cronologia dei fogli che precedono questa ultima
carta, inclusi quelli riferibili ai quadri realizzati per Filippo IV, non è dunque fissabile ad
annum, ma deducibile in base all’ordine dei
disegni, inseriti nel volume in ordine progressivo (con qualche eccezione – Kitson 1978, p.
13), ordine a sua volta stabilito in base alle
possibili corrispondenze con tele che Claude
ha iscritto e datato. La cronologia assegnata
ai disegni ha permesso dunque di fissarne una
19
orientativa per alcuni dipinti e, viceversa, quadri datati hanno suggerito una più precisa
scansione dell’ordine dei fogli nel taccuino.
Va da sé che nel consultare i testi di Kitson e
di Marcel Roethlisberger (Claude Lorrain. The
Paintings, 2 voll., New Haven 1961), entrambi
costantemente utilizzati quali principali riferimenti bibliografici nella letteratura relativa
alla commissione del Buen Retiro, si possano
rinvenire numerose divergenze di opinione
circa tali questioni cronologiche.
Il preambolo è necessario al fine di mettere
in luce come attualmente non vi sia alcun elemento concreto che permetta di legare la
prima serie di paesaggi italianizzanti per Filippo IV – incluse le tele di Lorrain – al biennio 1635-1636, così come si trova riportato
nella bibliografia relativa al Buen Retiro, come
in quella specificamente dedicata al Gellée. Le
Tentazioni di sant’Antonio (Prado n. 2258;
cat. n. 68), uno dei tre quadri di formato orizzontale con santi eremiti del Lorrain che si sogliono ritenere parte della serie di opere
consegnate a Madrid nel gennaio del 1639,
nonché unico quadro di Claude, a differenza
del Paesaggio con santo eremita (già Onofrio;
P. 2256) e del Paesaggio con Maria Cervellón
(P. 2259), a ritrovarsi schizzato nel Liber Veritatis, non sembrano di fatto potere spettare
ad una data precedente al 1638 circa. Nel taccuino, la collocazione del disegno corrispettivo a carta 32 (cat. n. 108) circostanzia tale
datazione (già fissata da Michael Kitson), per
altro supportata dall’analisi dello stile della
tela, una volta verificato che il LV28, che precede l’LV32, è il disegno relativo alla celebre
Veduta di un porto con Villa Medici oggi agli
Uffizi, che da ultimo sappiamo con certezza
essere stata commissionata a Lorrain nella seconda metà del 1637 dal giovane Leopoldo
dei Medici con la mediazione dello zio cardipagina
nale Carlo (E. Fumagalli in “filosofico umore”
e “meravigliosa speditezza”. Pittura napoletana
del Seicento dalle collezioni medicee, catalogo
della mostra, Firenze 2008, p. 47).
È mia idea che l’analisi stilistica non obblighi ad anticipare al 1635-1636 il Paesaggio con
santo eremita (già Onofrio) e il Paesaggio con
Maria Cervellón (cfr. Capitelli 2005, pp. 250251, mantenendo la datazione di Roethlisberger), tele compagne delle Tentazioni di
sant’Antonio che, in tal modo, verrebbero a
precedere queste ultime non di poco nei
tempi della commissione; né, parallelamente,
mi sembra che il punto di stile costringa a tenere in questo medesimo biennio, piuttosto
che in quello 1637-1638 (cronologia di fatto
rintracciabile nelle singole schede delle
opere), i paesaggi di Poussin (P 2304; cat. 67),
di Dughet (P. 2305 – cat. 73 – e il Paesaggio
con san Giovanni Battista e Cristo di collezione privata londinese), di Lemaire (P. 2316,
cat. 74), né tantomeno i vari quadri di formato
orizzontale di van Swanevelt e di Jan Both che
da ultimo sono stati più genericamente inseriti
nel periodo “1634/36-1639” (T. Posada Kubissa, Museo Nacional del Prado. Catálogos de
la colección. Pintura holandesa, Madrid 2009,
pp. 204-221). Vorrei intanto rilevare a latere,
come la partecipazione al progetto da parte di
Jan Both cadrebbe meglio nel periodo 16371638, piuttosto che in quello 1634-1636, se si
ritrova il pittore iscritto all’Accademia di San
Luca – dunque affermatosi in via indipendente a Roma – solo nel 1638, senza tenere in
conto che la data di nascita, generalmente
posta tra il 1618 e il 1622, rende poco credibile un arretramento della sua autonomia lavorativa a prima dei vent’anni.
È così possibile individuare alcuni dati documentari che suggeriscono una datazione
per i primi dipinti della serie del Buen Retiro
20
non anteriore al 1637. In questo ultimo anno,
Claude Lorrain dedicava al marchese di Castel Rodrigo, ambasciatore del re di Spagna a
Roma sin dal 1632 e personaggio chiave per
il coordinamento della commissione in cui il
Gellée veniva coinvolto, una serie di tredici
incisioni realizzate per i festeggiamenti capitolini di Fernando III di Ungheria, allora incoronato “Rey de los Romanos” (e non mi
sembra questione di poco conto collegare la
notizia anche alla lavorazione delle Storie di
Roma antica dipinte dai napoletani Falcone e
Andrea de Leone a mio giudizio proprio intorno al 1637). Inoltre, solo nel 1637 il medesimo marchese di Castel Rodrigo vedeva
stanziato un ingente finanziamento di seimila
scudi annuali per coordinare il progetto dei
paesaggi (cfr. Úbeda de los Cobos, p. 72). Se
nel gennaio del 1639 venivano consegnati solo
ventiquattro quadri di tale tematica, si può
dedurre che gli artisti vi si fossero applicati nel
corso dell’anno precedente.
Nel 1640 tutti gli esperti del genere pittorico erano ancora a lavoro per conto di Filippo IV (è quanto emerge da una lettera
riguardante la cessione al sovrano spagnolo
dei quadri Ludovisi), tanto da rendere impossibile trovare a Roma chi si rendesse disponibile a dipingere paesaggi per il viceré
di Napoli duca di Medina de las Torres, che
all’uopo aveva mandato nella città pontificia
come suo agente Cosimo Fanzago (Farina
2010, pp. 31, 83). Tornerò in altra occasione
sull’episodio, che offre frattanto un’importante traccia documentaria utile a spiegare
il rapporto stilistico che mi sembra legare
van Swanevelt e Jan Both al napoletano
Micco Spadaro, nel 1640 già impegnato
nella decorazione paesaggistica della Certosa di San Martino proprio sotto la regia
del Fanzago.
pagina
Una seconda serie di tele, generalmente
identificata in alcune opere di formato verticale e nel gruppo dei Paesaggi bucolici oggi di
pertinenza del Museo del Prado, giunse poi,
come si è detto, a Madrid nel settembre del
1641. In questa seconda tornata si propone
ora di includere, secondo la proposta avanzata per prima da Helen Langdon (Salvator
Rosa, ed. by H. Langdon with X.F. Salomon
and C. Volpi, London 2010, pp. 129-130),
una grande Marina di Salvator Rosa (cat. n.
53, esposta solo a Madrid; figg. 13-14), siglata,
reduce dal prestito al Museo di Fort Worth,
sede americana della mostra monografica intitolata da ultimo al maestro.
Per motivi che saranno qui di seguito nuovamente enumerati e meglio argomentati, nel
recensire l’evento avevo espresso le mie perplessità a riguardo di tale identificazione (V.
Farina, Salvator Rosa. Story of a Myth in Yesterday’s and today’s England, in “Mas Arte”,
66, marzo-abril 2011, p. 18). Due punti in
particolare mi spingevano alla diffidenza: il
formato dell’opera (170x260 cm), maggiore
rispetto alle tele orizzontali rintracciabili
nella serie di tele oggi al Prado (mediamente
tutte di 155x235 cm), e il soggetto, mancando in essa qualsiasi riferimento eremiticoreligioso, né tantomeno potendo essa
rientrare nella categoria dei paesaggi bucolici. Devo alla generosità di Andrés Úbeda
l’avere avuto la possibilità di condurre una
nuova riflessione dal vivo (giugno 2011) su
questo pregevolissimo quadro, non esposto
a Parigi e a me noto grazie ad una prima visita nei depositi del Museo del Prado effettuata nel corso del 2009.
Non nutro più dubbi circa il fatto che risulti per esso del tutto incongrua la datazione
sul 1636-1638 proposta da Caterina Volpi (in
Salvator Rosa 2010, p. 136, cat. n. 9), che im-
21
13-14. Salvator Rosa, Marina, Madrid, Museo del Prado (intero e part.)
plicherebbe l’allineamento stilistico della tela
con le più acerbe prove degli anni napoletani
(fig. 6; né il Rosa nel 1638 aveva raggiunto la
fama necessaria per essere contattato dagli
agenti di Filippo IV), così come mi sembra
troppo alta la più ragionevole cronologia, sul
1638-1639, avanzata da Andrés Úbeda. In un
primo momento, mi ero persuasa che la Marina del Prado, riproponesse, in formato minore, lo schema messo a punto da Salvatore
nelle due enormi Marina del faro e Marina
delle Torri, eseguite a Firenze nella seconda
metà del 1641 (Fumagalli 2008, pp. 46, 48) ed
oggi a Palazzo Pitti. La vicinanza compositiva
e tipologica con queste ultime, sostenuta a suo
tempo già da Hermann Voss, è incontrovertibile, sebbene ora le marine di Pitti mi appaiano più evolute nel tentativo del maestro di
combinare gli schemi di Tassi con le ricerche
luministiche di Claude Lorrain. Nella tela di
Madrid l’occhio si allarga e si allunga in profondità sulla sinistra, dove le rovine antiche
retrostanti il porticato che lambisce l’acqua
evocano le fantasticherie dei romanisti e poi
di Brill più che l’attenta osservazione dal vero
del caposcuola Aniello Falcone. La freschezza
di tocco e il chiarore azzurrognolo, rivelati
dalla recente pulitura, allineano perfettamente l’opera del Prado con la Veduta di un
golfo di Modena del 1640, un affiancamento
che permette, inoltre, di sottolinearne la forte
sintonia registrabile nelle figure, segnatamente nei natanti, come nel chiarore prescelto
per lo sfondo, con l’arte di Hermann van
Swanevelt, al pari di Salvatore al tempo impegnato per il duca di Modena. Si potrà argomentare in altra occasione quanto il Rosa
abbia appreso o quanto abbia dato al più vecchio collega olandese (sul tema, si veda intanto Susan Russel, Salvator Rosa and
Hermann van Swanevelt, in Salvator Rosa e il
pagina
suo tempo. 1615-1673, a cura di S. EbertSchifferer, H. Langdon, C. Volpi, Roma 2010,
pp. 335-356), ma vorrei intanto almeno rilevare come l’ascendente degli azzurri sfumati
di van Swanevelt si ritrovi pure nel Paesaggio
boscoso con figure di Corsham Court (fig. 15),
quadro molto vicino nel punto di stile sia al
Paesaggio lacustre con armenti e rovine del
museo di Cleveland del 1640 (fig. 7) sia alla
Marina del Prado e che, grazie alla nota di pagamento che lo vede saldato nel settembre del
1641 dal fiorentino Filippo Niccolini (Riccardo Spinelli, Mecenatismo mediceo e mecenatismo privato: il caso Niccolini, in Firenze
milleseicentoquaranta. Arti, lettere, musica,
scienza, a cura di E, Fumagalli, A. Nova, M.
Rossi, Venezia 2010, p. 276), offre una solida
base di appoggio per meglio circostanziare la
cronologia della tela spagnola.
Quanto al collegamento di questa’ultima
con gli incarichi dei ‘paesi’ per il Buen Retiro,
sono possibili nuove osservazioni, innanzitutto relative alla misura che, come ho sopra
riferito, mi era sembrata anomala. Andrés
Úbeda mi ha suggerito di confrontarla con
quella di alcuni dei paesaggi olandesi che rientrarono nella medesima commissione. Scopro
così che ai tre tipi di formato generalmente segnalati nella bibliografia (orientativamente:
155x235 cm; 210x 155 cm; 186x185 cm) ve
ne è da aggiungere almeno un quarto di
175x278 cm, corrispondente a quello delle
due tele orizzontali di Jan Both (La strada di
montagna e La strada del Porto, inv. nn. P5442
e P5451; Posada Kubissa 2009, pp. 222-226),
che si ritengono parte integrante della seconda tornata dei paesaggi, eseguita tra il
1639 e il 1641. Scopro, ancora, che nonostante i quadri di Both risultino anche lievemente più grandi della Marina di Rosa, lo
scarto in centimetri non sembrò importante
23
15. Salvator Rosa, Paesaggio boscoso con figure, Corsham Court, Methuen collection
ai redattori della Testamentaría (1981, II,
p. 289, n. 154, p. 291, n. 180), che classificano
La strada di montagna e la Marina come identici (“tres varas menos quarta de largo y dos
varas de alto”). Se non vi è dubbio che questa
ultima fu parte della raccolta di Filippo IV –
il numero “180” relativo alla classificazione
della Testamentaría è rintracciabile segnato in
bianco in basso a sinistra –, resta però ancora
in evidenza la peculiarità del soggetto, come la
presenza di uno stemma dipinto (fig. 16), inserito a metà della fiancata della torre in dirupo posta sul confine destro della scena e
sormontante il nome di Filippo IV seguito da
una parola monca. Dobbiamo assumere che a
Salvatore fu richiesto di esibirsi in una tematica a lui particolarmente congeniale, quale la
veduta di mare, e che gli sia stato in qualche
modo concesso di distinguersi dalla serie tepagina
matica richiesta ai colleghi francesi e olandesi
presenti a Roma. Così come, ancora, che
andrà individuato il mediatore di tale commissione, difficilmente identificabile nel marchese di Castel Rodrigo, secondo quanto
suggerito da Andrés Úbeda, se nessun altro
dipinto oggi nelle raccolte del Prado reca le
medesime armi gentilizie. Queste sono allo
stato, purtroppo, semi illeggibili, sebbene sia
possibile ancora distinguere delle sfere in
stato larvale, e meglio una corona che sormonta l’intero stemma. In modo affine, nella
Veduta di un golfo di Modena (fig. 9) l’emblema di Francesco d’Este è inserito sopra
l’arco di accesso all’edificio in rovina sito sul
margine destro. Alcun dipinto della serie del
Buen Retiro esplicita il nome del monarca
ispanico come si trova nella Marina di Rosa,
rimanendo così il dubbio, già da me formu-
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16. Salvator Rosa, Marina, Madrid, Museo del Prado (part.)
Prado e la nomina di Giovan Carlo dei Medici a Generalissimo dei mari di Spagna nell’ottobre del 1638, evento che si ritiene essere
già alla base della realizzazione delle due
enormi marine di Palazzo Pitti (Fumagalli
2008, p. 48).
L’ultimo segmento della mostra di Parigi,
infine, dava ampio spazio alla piena affermazione dei paesaggi classici e ideali di Nicolas
Poussin e di Claude Lorrain, una scelta comprensibile in territorio francese. E tuttavia, la
sovrabbondanza di queste figure in termini
numerici mortificava in qualche modo il più
variegato inquadramento culturale del percorso del primo piano, decisamente più avvincente. Nell’intento di ricostruzione del
seguito romano del maturo Poussin, sarebbe
piaciuto vedere rappresentato non solo Gaspar Dughet (la cui identificazione nel cosiddetto Maestro G – come Gaspard –, autore di
un gruppo di disegni divisi tra varie istituzioni
museali, è sostenuta da Silvia Ginzburg – cat.
n. 118 – ma contrastata da Stéphane Loire –
cat. n. 117), ma anche almeno un foglio di Pietro Testa e del genovese Giovanni Benedetto
Castiglione, pur’egli a Roma nei primi anni
Trenta attratto da tali orientamenti culturali.
Il noto Viaggio pastorale, firmato e datato dal
maestro nel 1633 (già New York, collezione
privata; fig. 17), distinto da quinte arboree
che appaiono da sinistra inclinandosi verso il
centro di una scena boschiva immersa in una
calda luce estiva, avrebbe ben chiuso il cerchio iniziato con Annibale Carracci: esso appare di fatto una intelligente rilettura del
modello messo a punto dal bolognese nel Paesaggio fluviale della Washington National
Gallery (fig. 18).
lato (Farina 2011), tanto più sostenuto dalla
datazione sul 1640/1641 fissata per la tela, che
in questa vada identificato un omaggio al sovrano, credibilmente inviato quando Rosa era
già giunto a Firenze, dove egli risedette a cominciare dall’estate del 1640 (il 1 di settembre Francesco Mantovani lo attesta già partito
da Roma e il primogenito Rosalvo, figlio della
fiorentina Lucrezia Paolini, nasceva già nel
giugno del 1641). Ulteriori ricerche potrebbero fare luce, ad esempio, sulla possibile relazione della tela con l’ambiente mediceo: lo
stemma ben in vista su Il ponte rotto di Pitti,
diverso da quello qui preso in esame e caratterizzato da tre sfere e dalla tiara papale, dovrebbe alludere più genericamente ai tre papi
di casa Medici (Marco Chiarini). Ciò nonostante, sarebbe interessante potere riuscire a
3. Vengo ora ad alcune osservazioni relastabilire un collegamento tra l’opera del tive alla mostra monografica intitolata a
pagina
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17. Giovanni Benedetto Castiglione, Viaggio pastorale, già New York, collezione privata
18. Annibale Carracci, Paesaggio fluviale, Washington, National Gallery
Claude Lorrain dal Museo del Louvre, evento
di grande raffinatezza, come spesso accade
per le mostre pressoché interamente dedicate
all’illustrazione delle arti grafiche, e tuttavia
priva di grandi apporti dal punto di vista
scientifico, sia per ciò che attiene eventuali
nuove proposte attributive sia per possibili
precisazioni cronologiche. Un’esposizione destinata al gusto di un pubblico ancora più ristretto di quello possibilmente attratto
dall’evento del Grand Palais, ma resa maggiormente favorita nell’affluenza grazie alla
sede prescelta, già di per sé meta di numerosi
visitatori.
È dunque un vero peccato che il più
grande museo di Francia abbia perso l’occasione di mettere d’accordo un dipartimento
di disegni con uno di pittura. I lunghi tempi
di preparazione delle mostre sono noti a tutti,
eppure dispiace molto che due dipendenti
della stessa istituzione non abbiano tentato di
integrare il loro lavoro, e che si sia persa così
la grande occasione di restituire maggiore
corpo all’immagine di Claude nella Roma del
Seicento. L’esibizione del Louvre ha aperto
in un tempo successivo a quella del Grand
Palais e sarebbe stato bene realizzare dei pannelli didattici che coadiuvassero i profani,
come anche gli studiosi, a incrociare le notizie sul pittore ricavabili dalle due distinte sedi
espositive. Molto utile, ad esempio, sarebbe
risultata la richiesta di prestito da parte del
Louvre al British Museum dei quattro fogli
tratti dal Liber Veritatis relativi ai grandi paesaggi verticali del Lorrain provenienti dal palazzo del Buen Retiro e frattanto visibili al
Grand Palais, dove, a un tempo, l’esposizione
del già ricordato LV32 con le Tentazioni di
sant’Antonio avrebbe completato la serie. A
onor del vero, è l’esistenza medesima di questo importantissimo volume di disegni a espagina
sere rimasta in margine al percorso espositivo
del Louvre, luogo in cui i pur dettagliati pannelli didattici convogliavano piuttosto l’attenzione sugli altri due tomi di disegni redatti
dal Lorrain, i cosiddetti Libro di Tivoli e
Libro della Campagna. Contemporaneamente, il celebre Paesaggio con la vista del Castello della Crescenza (Metropolitain
Museum, fig. 19), capolavoro della fine degli
anni Quaranta che dà corpo alla testimonianza del biografo Joachim Sandrart circa
l’esistenza di esercizi pittorici realizzati da
Claude en plein air, nonché vero ed unico
corrispettivo di tutti i fogli disegnati dal maestro sur le motiv ed esposti nei corridoi del
Louvre, avrebbe trovato una sua più consona
collocazione in questa ultima sede piuttosto
che nel corposo nucleo di opere esposte al secondo piano del Grand Palais.
Ciò nonostante, non vi è dubbio che pregevolissima sia risultata la selezione dei circa
ottanta disegni prescelti – tutti, se della mano
di Lorrain, provenienti dalle collezioni del
Louvre e dal Teyler Museum di Haarlem –,
integrati da una ventina di dipinti e da alcuni
fogli di altri artisti, predecessori o contemporanei (Brill, Tassi, Wals, Poelemburgh,
Breenbergh, Poussin, van Swanevelt, rappresentati da un disegno ciascuno), atti a raccontare gli inizi italiani del maestro. Ed è
questa prima sezione ad avere brillato per risultato, nella scelta di testimoni grafici attestanti l’allora nata attenzione per la
rappresentazione di una natura boschiva e
rocciosa inondata dalla luce e dall’ombra, più
che l’esposizione di fogli di studio tratti dagli
edifici antichi in rovina, tematica, questa ultima, di altrettanto forte interesse per gli artisti stranieri giunti a Roma sin dal
Cinquecento. Nella sezione si sono potuti
così apprezzare vere primizie, tra cui meri-
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19. Claude Lorrain, Paesaggio con la vista del Castello della Crescenza, New York, The Metropolitan Museum of Art
tano una particolare valorizzazione le Rovine
sulla riva di un fiume di Wals (Museo del
Louvre; cat. n. 7; fig. 20), identificate da
Anne Sutherland Harris (A drawing by Goffredo Wals, “Master Drawings”, 16, 1978, pp.
399-404), allo stato unica prova disegnativa
del tedesco giunta sino a noi.
Lungo il percorso espositivo Claude è
emerso in tutte le sue eccezionali capacità grafiche, nonché maestro di grande inventiva, sia
compositiva che tecnica. Un foglio come il
Paesaggio boschivo con figura seduta (Haarlem, cat. 22; fig. 21), caratterizzato dall’estesa
macchia di bruno ottenuta acquerellando l’inchiostro, pone, ad esempio, la questione della
tangenza stilistica non solo con Breenbergh,
pagina
così come è stato già detto, ma anche, credo,
con la grafica di Guercino, nonché con quella
di Pietro Testa e di Pier Francesco Mola,
tanto per chiamare in causa due nomi di celebri paesaggisti non evocati da nessuna delle
due mostre qui analizzate. Così come le innovative, luminose acqueforti del maestro, quali
La mandria all’abbeveraggio, databile all’incirca sul 1635 (cat. 25; fig. 22), avrebbe potuto aprire l’interessante capitolo che vede
messa a confronto tale personale rilettura dell’Arcadia di Nicolas Poussin con la più vitalistica interpretazione offerta dal Grechetto
(fig. 17), anch’essa personalità mai ricordata
dai curatori della mostra.
Il grande protagonismo del Gelée è risul-
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20. Gottfried Wals, Rovine sulla riva di un fiume, Paris, Musée du Louvre
21. Claude Lorrain, Paesaggio boschivo con figura seduta, Haarlem, Teyler Museum
22. Claude Lorrain, La mandria all’abbeveraggio, acquaforte
tato, di fatto, il più grande limite dell’esposizione del Louvre, un limite messo in evidenza
dall’organizzazione medesima delle sale (e del
catalogo), in cui forte appare la demarcazione
con la prima sezione. Dopo gli iniziali tentativi
di rappresentare il contesto in cui l’artista
mosse i suoi primi passi, la mostra ha finito,
infatti, per soffermarsi esclusivamente sul racconto, in ordine cronologico, del percorso del
maestro – in verità, a partire dalla fine degli
anni Quaranta, ormai fermo su idee elaborate
in precedenza e riproposte e ricombinate in
vario modo –, nonché sul processo di elaborazione nel passaggio dal disegno alla pittura.
pagina
In questo pur encomiabile quadro, sala dopo
sala, abbiamo così assistito al giganteggiare
della figura di Lorrain e al suo conseguente
progressivo isolamento dal variegato e memorabile clima artistico della Roma tra gli
anni Quaranta ed almeno i Sessanta del Seicento. Sfumata è così l’occasione di illustrare
meglio, anche al pubblico specialistico, il giovanile legame con Sandrart e con Peter van
Laer il Bamboccio – una partita che in modo
originale si sarebbe dovuta giocare proprio sul
tema del disegno –, nonché di articolare meglio il confronto con la stella romana di Nicolas Poussin.
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pubblicato il
22 luglio 2011 su
www.ilseicentodivivianafarina.com
© Viviana farina
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Riflessioni in margine a due mostre sul paesaggio