/P.
Brown O. Capitani
F. Cardini M. Rosa
POVERTÀ E CARITÀ
DALLA ROMA TARDO-ANTICA
AL '700 ITALIANO
Quattro lezioni
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FRANCISCI EDITORE
DALLA PLEBS ROMANA ALLA PLEBS DEI:
ASPETTI DELLA CRISTIANIZZAZIONE DI ROMA
di Peter Brown
Scriveva San Gerolamo nel403: «Il campidoglio dorato
sta diventando sudicio per l'incuria. La fuliggine e le ragnatele hanno coperto tutti i templi di Roma. La città si sta indirizzando altrove - movetur Urbs sedibus suis- ed il popolo romano, riversandosi tra i templi semidiroccati, accorre alle tombe dei martiri». (Lettera 107, 1).
È una descrizione drammatica, scritta dalla Terra Santa,
cioè (come spesso per i vivaci quadri di vita romana di Gerolamo) scritta ad una bella distanza dalla realtà. Tuttavia essa offre un'efficace immagine di cambiamento, che è essenziale per la comprensione della natura della diffusione del
Cristianesimo a Roma: movetur Urbs sedibus suis -la città
si sta indirizzando altrove.
Il processo che chiamiamo «cristianizzazione di Roma»
non può essere ridotto alla somma totale delle conversioni
individuali dal Paganesimo al Cristianesimo nel corso del
quarto e quinto secolo. Poiché dietro a queste conversioni
soggiace un processo meno facile da cogliere per lo storico
- una trasformazione dello stesso paesaggio urbano. Gerolamo era abbastanza romano da rendersene conto, e da
aspettarsi che i suoi corrispondenti romani fossero d'accordo con lui - che era questo il nocciolo della questione. «Riversandosi ... verso le tombe dei martiri», il popolo romano
- questo egli sosteneva - aveva già «votato con i suoi pie-
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dh> per il Cristianesimo. Nel corso del quarto e del quinto
secolo, differenti luoghi della città assursero a posizioni di
preminenza, accanto e, alla fine, alle spese di più tradizionali centri pagani. Questo cambiamento è, soprattutto, uno
spostamento simbolico. Ancora non siamo di fronte alle
grandi dislocazioni della popolazione da una parte all'altra
di Roma (come avverrà nel Medio Evo e nel Rinascimento).
Piuttosto, alcuni foci in cui una certa definizione della comunità urbana romana (la Urbs formata dal Senato e dal
popu/us Romanus) si era un tempo estrinsecata nelle celebrazioni rituali e nelle distribuzioni di doni, vennero ad essere rimpiazzati, nel corso del quarto e quinto secolo, da altri
foci in cui poteva esprimersi in modo significativo una diversa concezione della natura della comunità urbana, mediante
differenti forme di cerimonia e, specialmente, mediante forme molto diverse di distribuzioni di doni. Di qui il titolo della mia conferenza: dalla plebs Romana (o popufus Romanus) alla plebs Dei. Di qui anche la mia accentuazione, in
pieno accordo con Gerolamo, sul profondo cambiamento
nell'autodefinizione della comunità romana implicito nella
preminenza cui giunge il culto cristiano alle tombe dei martiri, con le cerimonie ad esso relative. Di qui, anche, la mia
proposta di non considerare le pratiche caritative associate
alla devozione cristiana soltanto come un atto privato di misericordia (come potrebbe fare un cristiano moderno), e
neppure (come potrebbe fare un uomo politico moderno)
come una misura di assistenza economica: piuttosto, dovremmo guardare al fenomeno delle elemosine cristiane con
occhi tardoromani - dovremmo vederlo cioè come un catalizzatore simbolico, la cui vera forza sta meno nelle somme
elargite che nella definizione nuova di comunità urbana implicita nella definizione cristiana, tanto dei potenziali fruitori
quanto dei potenziali distributori di elemosine. Infine, vorrei indicare cosa significasse nella pratica questo cambiamento, per quei Romani di Roma del quinto secolo che ave-
lO
va acquisito un nuovo simbolismo del dono allo scopo di
esprimere nuovi legami di coesione nella loro città, nel turbolento secolo che vide la fine dell'Impero Romano d'Occidente.
Cominciamo da dove un Romano nel tardo Impero si
aspetterebbe che cominciassimo: il peso della pura e semplice dimensione fisica di Roma. Roma era stata fino a poco
prima - o forse nel quarto secolo lo era ancora- il maggior agglomerato umano dell'emisfero occidentale:
«Vi sono in essa XXIV chiese dei beati apostoli, chiese cattoliche; due basiliche grandi ove siede il re e si
raduna innanzi a lui ogni giorno il senato. Vi sono
CCCXXIV vie grandi e spaziose, II grandi capitoli',
LXXX dei grandi di oro e LXIV idoli d'avorio. Vi sono XL VI mila e seicentotre abitazioni di case (private)
e mille settecento novanta sette case di primati. .. Vi
sono tremilasettecentoottantacinque statue di bronzo
dì re e di prefetti».
Era una città che lasciava il visitatore sbalordito -- adtonitus. Eppure ciò che nel quarto secolo rendeva Roma eccezionale non era solo la vastità delle sue dimensioni: era il
fatto che essa era rimasta un gigantesco palcoscenico su cui
il passato della città, inestricabilmente intrecciato con la
gloria presente dell'Impero, veniva solennemente rappresentato. Queste cerimonie conferivano a tutti i loro partecipanti il senso dell'unicità del loro status all'interno dell'Impero Romano. Un piccolo gruppo dì nobili offriva i giochi
che caratterizzavano la maggior parte delle feste. Fino alla
fine del quarto secolo, un gruppo più ristretto dì pagani
controllava il clero ed orchestrava la vita rituale della città,
che veniva a coincidere quasi completamente con i giochi.
Mediante il loro ruolo in tali cerimonie, questi nobili mo-
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stravano di essere ancora l'antico Senato Romano. Le folle
che assistevano ai giochi ed alle feste pubbliche sottolineavano la loro partecipazione con solenni acclamazioni. Così
facendo, essi diventavano più che semplici spettatori: essi
erano la privilegiata plebs Romana.
Infatti, nel quarto secolo, la posizione della plebs Romana era riconoscibile ancora secondo gli antichi criteri. Ciascun cìvis riceveva una tessera che gli dava diritto a congrue
razioni di cibo - pane, vino e carne di maiale. Si calcola che
nel corso del quarto secolo avessero accesso a tali razioni fino a duecentomila cives. Questa annona civica, dobbiamo
ricordarlo, non era mai sufficiente, di per se stessa, a mantenere la popolazione di Roma. Ma non si trattava di rifornire
la città: piuttosto si trattava di render palese l'unicità della
posizione di Roma. Roma alloggiava la plebs Romana. Speciali forniture di cibo, pertanto, erano il segno tradizionale
della speciale attenzione dell'Imperatore per la sua «plebs»
nella sua città. Si trattava in vero di un segno di grande valore simbolico. Ogni anno, in un Mediterraneo attanagliato
dalla paura della carestia, il sicuro arrivo dell'annona civica
era considerato come la prova rassicurante - in un mondo
ben !ungi dall'esserlo- «della prerogativa antica della sicurezza del popolo Romano». La percezione dell'ampiezza
con cui questi ordinamenti, che risalgono al principato di
Augusto, si mantennero operativi nella Roma del quarto secolo è, forse, la scoperta più stimolante della recente storia
sociale del tardo Impero Romano.
La stessa continuità con il passato si riscontra nella vita
cerimoniale della città. A metà del quarto secolo, erano dedicati a feste pubbliche centosettantacinque giorni all'anno,
il doppio che nella Venezia del Rinascimento, allora rinomata come <<la cité la plus joyeuse et triomphante du monde». Dunque, l'utilizzazione del tempo nella città rifletteva
fedelmente la schiacciante presenza degli edifici pubblici.
Ciò che un Romano del quarto secolo faceva del suo tempo
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era un conglomerato del passato e del presente della città e
dell'Impero altrettanto quanto lo erano gli stupendi ammassi di pietra che si ergevano tutt'intorno a lui per ogni dove.
Possiamo rendercene conto osservando un Calendario
approntato nell'anno 354 per un certo Valentino, un agiato
residente di Roma.
La Roma di Valentino era una città permeata dal senso
della cerimonia a un punto per noi difficilmente immaginabile. Niente lo dimostra così chiaramente come la seconda
metà del Calendario di Valentino. Valentino era un Cristiano. Perciò le feste antiche sono integrate, nella seconda metà, dall'ulteriore elenco dei giorni festivi della chiesa cristiana. Pagano o Cristiano, un Romano di Roma si trovava
preso in una serica ragnatela di avvenimenti cerimoniali che
si dilatava con brevi pause dall'inizio alla fine dell'anno.
Il Cristianesimo, in effetti, presentava un profilo pubblico analogo a quello della vecchia vita cerimoniale della città. Sin dalla conversione di Costantino, nel312, esso fu una
religione che ogni Romano poteva senza esitazione riconoscere come tale: era una forma di culto pubblico, associato a
nuove costruzioni dall'aspetto sontuoso, alle quali eminenti
personaggi (il Papa, i diaconi ed il clero) si recavano in processione in solenne corteggio per parvi in scena rappresentazioni religiose non meno ricche di colori, suoni e movimenti (benché in un linguaggio assai differente) di qualsiasi
altra festa tradizionale.
Come il senato romano la Chiesa romana era convinta
che rappresentazioni e luoghi parlassero più efficacemente
delle parole. In un tempo in cui le basiliche di Milano, Costantinopoli, Antiochia, Ippona e Cartagine risuonavano
delle prediche di Ambrogio, Giovanni Crisostomo e Agostino, il vescovo di Roma non era rinomato per le sue prediche. Ciò che si ricordava, piuttosto, erano le esibizioni canore dei diaconi della chiesa romana, che riempivano le
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nuove spaziose volte del culto cristiano col loro solenne e cerimonioso salmodiare.
È per questo motivo che la cristianizzazione di Roma
può essere meglio compresa nei termini di un cambiamento
di significato, nel quarto, quinto e sesto secolo, di quella vita di fasto e di cerimonia che rese Roma unica tra le città
tardo antiche. Un tale approccio può aiutarci a mantenere il
senso delle prospettive. Poiché il problema di Roma nel
quarto secolo non era il conflitto del Cristianesimo col paganesimo. Il problema di Roma era Roma stessa. Vista
dall'esterno, Roma era virtualmente ingovernabile. Per gli
Imperatori della fine del terzo e del quarto secolo, questa
città allargatasi a macchia d'olio, con una popolazione che
non accennava a diminuire, abitata da una chiusa aristocrazia i cui palazzi rivestiti di marmo si innalzavano su quartieri sovraffollati in gran parte abbandonati al controllo di una
teppaglia vociante e bizzarra, poneva un problema di ordine
pubblico che essi preferivano non affrontare direttamente.
L'ossequio ufficiale alla «libertà» di Roma era dovuto in
larga misura a questa decisione prudenziale. Roma era come
un gigantesco congegno nucleare, ereditato da un'era più
prospera e previdente: doveva essere trattata con la massima
attenzione proprio perché le autorità avevano deciso di abbandonarla senza poter però mai rischiare, per trascuratezza, di farla esplodere.
Come risultato, l'aristocrazia residente a Roma era costretta ad occuparsi della sua città. I nobili salirono al ruolo
dell'Imperatore tenendo viva loro personalmente, con un sistema di rotazione degli obblighi di organizzazione dei giochi, la relazione cerimoniale altamente personalizzata che si
supponeva esistesse tra l'Imperatore e la plebs Romana. Armati di poco più che quella relazione, gli aristocratici di Roma furono lasciati dall'Imperatore a fronteggiare la più
grande città del Mediterraneo senza truppe e con la mera
parvenza di una forza di polizia.
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In qual modo specifico sì possa fare, col solo ricorso a
pubbliche cerimonie, «gentile violenza» agli abitanti di uria
grande città preindustriale, è un tema che ha cominciato ad
interessare gli storici dell'Impero Romano, di Bisanzio e
dell'Italia rinascimentale. Ciò che vorrei ora sottolineare è il
modo in cui, nelle centosettantacinque feste del Calendario
di Valentino, la comunità urbana romana e le relazioni idealì fra i suoi membri venivano ripetutamente messe in risalto.
Ad ogni occasione, la gerarchia della città era fastosamente
ostentata - nella designazione annuale dei maestri dei giochi, nella composizione e negli ordini di precedenza delle
pompae, le solenni processioni dai templi che inauguravano
la maggior parte dei giochi, nella distribuzione dei posti nel
Colosseo e nel Circo Massimo. Per tutto il giorno, e in molte occasioni, per più giorni consecutivi, la struttura sociale
di Roma era sia resa visibile che localizzata in un unico luogo. Il funzionamento dei vincoli che univano Roma all'Imperatore e la nobiltà alla plebs Romana veniva resa evidente
da ciò che si sperava fosse un dialogo euforico tra chi donava e chi riceveva.
Come risultato pratico, gratitudine, rassicurazione e lamentele in una città ingovernabile venivano espresse e, generalmente, contenute in una serie di scene di cerimonia, grazie al cielo limitate. La relazione intensamente personale,
faccia a faccia, che il Prefetto della città (un magistrato reclutato tra l'aristocrazia residente che restava in carica per
circa un anno) doveva instaurare con la p/ebs, condensava
un'intera strategia di controllo, condivisa dalle classi superiori della città nel loro insieme. Per il popolo di Roma il
Prefetto era la Città. Era contro di lui che inveiva quand'era
a corto di cibo; era sua la casa che andava a bruciare; era lui
che linciava: ma era anche la sua morte che poteva lasciare
la città «sconvolta dal dolore», ed era dietro la sua bara che
tutta Roma si sarebbe riversata piangendo a calde lacrime.
I visitatori stranieri non tardavano a rendersene conto.
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Roma era i suoi giochi. Nel quarto secolo, uno straniero
acuto come Ammiano Marcellino poteva osservare:
«ed è assai rimarchevole vedere un'innumerevole folla
di plebei, lo spirito pieno di un misterioso ardore, che
aspetta con ansia il risultato della corsa».
E aggiungeva acutamente:
«queste e simili cose impediscono che a Roma avvenga alcunché di memorabile o serio». (Ammiano Marcellino, Res gestae XIV, 6, 26)
Vedendo come il resoconto di Ammiano prosegua, nel capitolo successivo, con una descrizione da far rizzare i capelli
di rivolte, linciaggi, epurazioni e incendi nella città di Antiochia, l'attenzione riposta nel mantener viva la «cerimonializzazione» dell'aristocrazia e del popolo di Roma dovrebbe
apparire giustificata. Data la natura esplosiva della vita tardo romana, «felice era la città senza storia». Gli Imperatori
e la nobiltà residente erano ben decisi a far sì che tale fosse il
caso di Roma.
Le relazioni tra i membri pagani e quelli cristiani
dell'aristocrazia romana, e l'impatto del Cristianesimo sulla
vita pubblica di Roma, dovrebbero essere considerati in
questo contesto. Vivendo in una città di subbuglio, il cui
controllo era stato attribuito ad essi da un imperatore lontano, i senatori di Roma, per tutto il IV e V secolo erano in
primo luogo una classe di governo e solo secondariamente
pagani e cristiani.
Possiamo cogliere bene l'enorme benché in gran parte
inespresso peso della situazione, la cui pressione si esercitava ugualmente sui nobili cristiani e su quelli pagani, osservando brevemente le ininterrotte testimonianze di apparente
distacco tra fede privata e contegno pubblico dei senatori
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cristiani, dal IV secolo fino alla fine del V. Non solo è noto
che le famiglie pagane e quelle cristiane combinavano matrimoni tra di loro con apparente disinvoltura nel corso del IV
secolo e ancora agli inizi del V. Esse agivano in tal modo
perché si sentivano accomunate da uno stesso ethos, in gran
parte determinato da una comune interpretazione del loro
ruolo nella città. Per gli aristocratici cristiani, come Valentino, queste cerimonie, benché ereditate palpabilmente e direttamente da un passato pagano, e benché investite dai loro
colleghi pagani di un massiccio carico di religiosità pagana,
non parlavano di dei: parlavano invece di loro stessi. Esse
ratificavano la speciale posizione di Roma come la città in
cui le classi dirigenti dell'Impero- a prescindere dalla loro
fede - potevano partecipare con imperturbato entusiasmo
alla grande rappresentazione del quarto secolo della securitas saeculi- l'ininterrotta sicurezza del loro mondo. Invicta Roma, Felix Senatus ... - le parole incise sulle medaglie
che circolavano a Roma in occasione dei giochi - erano ciò
che la loro posizione sociale li portava a prevedere e a desiderare che continuasse. Le differenze di fede religiosa vennero perciò a scomparire in un comune linguaggio di status
sociale. Così, i contorniati, medaglie commemorative distribuite dai senatori ai giochi, hanno un'iconografia tanto
strettamente connessa al passato pagano da essere stati interpretati come «strumenti trascurati della propaganda senatoria (pagana)». Ma questi contorniati recano i nomi di
famiglie cristiane non meno che di quelle pagane. È più che
probabile che Alipio, il Prefetto della città che ordinò l'immediata esecuzione di Almachio, il monaco cristiano che nel
391 aveva tentato di interrompere i giochi gladiatori, fosse
egli stesso un cristiano ed un corrispondente di Sant' Ambrogio; certamente, un Senato nella maggioranza cristiano
tenne in vista queste truci manifestazioni fino al 430 circa. E
ancora nel 496 i senatori cristiani celebravano i Lupercalia.
Tutto sommato, nel linguaggio pubblico del ceto patrizio a
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Roma non risuonano accenti cristiani fino a quando questo
ceto s~esso viene ad estinguersi. Ciò che essi credevano in
privato era un altro discorso. Un buon senatore cristiano
della fine del quinto secolo, Turcio Rufio Aproniano Asterio, console per il 494, nel chiuso del suo studio poteva scrivere «non confidando in me stesso, ma in Lui al Cui volere
io sono soggetto in tutte le cose». Eppure, ciò che egli produce è un'edizione di lusso delle Egloghe di Virgilio, da donare ai suoi amici in occasione dei giochi consolari in cui orgogliosamente annuncia di aver dissipato una fortuna «come prezzo della fama». Insediato al Colosseo tra i suoi pari,
acclamato dalla p/ebs Romana, Asterio non apparteneva né
a Cristo né agli dei pagani, bensl, senza alcuna remora, a
Roma.
Alla luce di tali testimonianze sulla sopravvivenza a Roma di una vita cerimoniale lasciata intatta dal Cristianesimo, non si può affermare che Roma cessò di essere «pagana» quando la maggior parte dei senatori, individualmente
presi, divennero cristiani. Ciò di cui ci occupiamo, piuttosto, è la tenace sopravvivenza di un particolare modo simbolico di esprimere l'identità di Roma, ed il continuo, quasi
pressante attaccamento ad esso, come ad un bene collaudato strumento di controllo sociale. Il simbolismo della comunità urbana continuò senza fratture ad attingere al passato
pagano anche quando, nel quinto secolo, esso passò sotto il
controllo di nobili notoriamente cristiani. Il reale cambiamento nella vita pubblica di Roma si verifica quando questa
particolare forma di espressione della comunità urbana viene a scontrarsi e, in larghe aree della vita quotidiana, ad essere sostituita da un'alternativa. Nel 354, quando il cristiano Valentino leggeva il suo Calendario, era difficile pensare
che le celebrazioni associate alla plebs Dei cristiana potessero mai assumere una valenza simbolica atta ad esprimere la
natura della comunità romana nel suo insieme, e ancor meno che potessero svolgere una qualche funzione di controllo
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sociale simile a quella assoc::ialla alme~ cerimonie della
città. Dentro Roma, la popollaziomre n::spiilr.ava ancora l'aria
di un mondo antico che si ll13llllife5ìU:lB.a JOdllle immagini pagane, così come noi abitanti drdllla Tenra respiriamo ossigeno.
Non c'erano alternative.
Davvero, si può dire andlte rdiD. piùì: 11111 *'vuoto» enorme
nella cristianizzazione della cittltit ...ame reso quasi inevitabile
dal fatto che i dirigenti della Ouil:sa (m Oocidente, almeno
fuori di Roma, molto rigomri rdiD. dìroolte alme cose del saeculum) non volevano offrire ai cn:dmtti medii una vita rituale
atta ad esprimere preoccupaziooi per il ~in o collettivo di
qualsiasi comunità fuori della Cllniesa stessa - né dell'Impero, né dell' Urbs. La lunga storia dd! catt.ollicesimo «Comuni-,
tarlo» medioevale non dovrebbe f.m:i dimenticare questa lacuna straordinaria della mmtalliuà cllericale del quarto secolo, né la lentezza con cui ques11a 11acuuma vemne colmata. I nostri romani lo sentivano bene. Rcuiimai quasi viscerali che si
scatenarono nel corso dd quimo cd aDChe del sesto secolo in
ogni momento di vera milla!l'llia alllla atta (reazioni che abbiamo tendenza a designare ~nte «reazioni pagane», guardando di solito a llll1IJN:Ik:i arisìil:ocratici pagani)
erano spesso, in realtà, reazicDi OOJIIIIfuse (((Collettive» nelle
quali vennero coinvolti credcmltti aHttDani e forse anche membri del clero. Quando 1JisognDa tJlCliD.'Ii3l"e alla comunità urbana nel suo insieme, cioè aDa.5l118&1s Urbis, .si pensava ancora, istintivamente, alla pagana. ~te, però, il senso stesso della comunità divcone più aistianizzato. Nel494,
quando il cristiano Asterio ~nel Colosseo ali' antico dialogo con la plebs ROIIIIIIIIL, a questo dialogo si era affiancata e, in larga misura, sm1iU ..ila una forma assai diversa di relazioni, espressa dalla disllribuzione di elemosine alla
plebs Dei, in luoghi assai diveni- Ire basiliche cristiane.
Per capire come la cbiesa abtiana locale non avesse alcun impatto su di uno stile di da pubblica tanto indifferente e puntigliosamente peso:tJatto. dobbiamo prendere in
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considerazione la seconda parte del Calendario di Valentino. In questo «calendario», è la totale disgiunzione tra la
Roma pagana e quella cristiana che balza agli occhi. I centri
di celebrazioni cristiane non coincidono infatti in nessun caso con i tradizionali punti d'incontro dei senatori tra di loro
con laplebs Romana. Per assistere alle feste dei martiri, Valentino avrebbe dovuto allontanarsi non poco dal Foro, dal
Colosseo, dal Circo Massimo. Avrebbe dovuto attraversare
il pomerium, i sacri confini della città, uscendo fuori dalle
Mura Aureliane, per arrivare alle aree cimiteriali che si distendevano lungo le principali direttrici d'uscita dalla città.
Ma lo stesso vale anche per la grande Basilica del Laterano,
che Costantino aveva dato al Vescovo di Roma quale base
residenziale e di culto all'interno della città. La Basilica sorgeva su di un'antica proprietà imperiale che non si sovrapponeva affatto alle aree dove si celebravano le rappresentazioni dell'immagine pubblica di Roma. Tutti i luoghi ecclesiastici all'interno di Roma, nel IV secolo, continuavano a
recare evidente il segno di un fastoso isolamento dalla vita
del Foro e del Circo, che contraddistingueva la privilegiata
«cintura verde» snodantesi lungo i bordi della città all'interno delle Mura Aureliane. Come le tombe dei martiri tanto
generosamente patrocinate da Costantino e dalla sua famiglia- essi si ergevano nel mezzo di cimiteri considerati l'antitesi della città dei vivi. Il fluire ad essi del popolo di Roma,
secondo la descrizione di Gerolamo, era davvero, per la città, un «cambio di indirizzo».
Eppure, la cristianizzazione di Roma è dovuta in gran
parte a questo «cambio di indirizzo». Infatti, paradossalmente, era precisamente la collocazione periferica dei santuari cristiani che lavorava a favore della Chiesa. Ciò che ad
uno straniero avrebbe potuto apparire come un'area esterna
alla città tradizionale, riservata a commemorazioni funebri
strettamente private, si affermò come lo scenario in cui celebrare una nuova, più flessibile definizione della comunità
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romana. Le folle che si raccoglievano in questi nuovi luoghi
di aggregazione sperimentavano infatti, in modo fortunatamente indolore, il brivido di oltrepassare un'invisibile frontiera sociale: lasciavamo un mondo dalle strutture fortemente marcate per una condizione più «liminale». Come ci
ha fatto capire Victor Turner, l'abbandono di strutture note
per una situazione in cui esse sono largamente assenti, e il
conseguente fiorire di sentimenti di comunanza - di communitas -, è parte rilevante del fascino costantemente esercitato dall'esperienza del pellegrinaggio nelle società fortemente stabilizzate. Era un fascino cui i Cristiani romani furono eccezionalmente sensibili. Infatti in confronto con le
cerimonie che si tenevano all'interno della città, dove la scala gerarchica veniva intenzionalmente esibita, le feste dei
martiri costituivano un'occasione in cui la gerarchia veniva
a smorzarsi. Al santuario di Sant'Ippolito, il poeta cristiano
Prudenzio poteva presentare una Roma spoglia, per un magico istante, delle vistose distinzioni sociali e topografiche:
«L'amore della loro religione riunisce in un solo corpo Latini e stranieri... L'augusta città riversa a fiumi i
suoi Romani; con eguale ardore, i patrizi e la folla
plebea si confondono insieme, spalla a spalla, poiché
la fede bandisce ogni distinzione per nascita».
(Prudenzio, Perìstephanon Xl, 191-202)
Prudenzio, naturalmente, era un poeta. In realtà, la comunità cristiana romana dava ancora importanza alle sue
distinzioni. Era disposta ad accogliere i membri laici dei ceti
superiori come un gruppo privilegiato di donatori completamente pubblici. Ma la gerarchia di donatori e beneficiari
consolidata all'interno della comunità cristiana venne utilizzata per delineare una differente immagine della città. Per
mezzo di relazioni cerimoniali pienamente comprensibili a
tutti i Romani del quarto secolo, beneficiari significativa-
21
m~ ate diversi poterono cs:sere messi in relazione con significativamente diversi donatori_
Bisogna essere precisi: non si può parlare di una continuità diretta tra JDUJJificmza tradizionale ed elemosine cristiane. Si tratta di una «t:OODVergenza>> in gran parte inaspettata di due sistemi paralldi ndlo stretto senso geometrico formalmente nessun sistema avrebbe potuto incontrare l'altro. Da un lato troviamo somme sbalorditive, accumulate in un lungo periodo (normalmente, per un decennio intero), e versate in momenti solenni da un solo donatore alla
volta, come segno d'euere membro di un gruppo privilegiato di padroni deDa città. DaD'altro, le elemosine cristiane
consistevano in un sistema di dono quasi privo di struttura:
somme piccole o medie venmmo versate, in teoria, in qualsiasi momento, da cn:dm1i di qualsiasi ceto sociale, senza
distinzione di sesso o di ria:bezza, non come emblema di
privilegio ma, al10001traJrio, oome segno della solidarietà di
ogni membro dd gmere umano in una necessità spirituale
comune. Da un lato, dunque, i beneficiari formavano una
classe specifica che potu:bbe includere ricchi e umili, ma che
consisteva, nella I!D3gior )llillte, di cittadini validi ed occupati, simbolo der -rigore •civico» della città. Dall'altro lato,
i beneficiari delle elemm;ine vennero scelti perché vennero
considerati i membri più deboli ed inutili della comunità emarginati, malati, str.urieri, simbolo dello stato di abbandono e della povertà ddJa roodizione umana. Che due sistemi così differenti in teoria J)O!i.'Sano in qualche modo convergere, nel corso del quinto secolo, è sintomatico sia della forza delle tensioni iniloke nella comunità tradizionale romana sia del volere dd clero romano di investire il sistema «elemosinario» cristiano di una panoplia architettonica e cerimoniale di forte risonanza da.mca. Nei decenni turbolenti
della metà del quinto !a:Ofo, quando papa Sisto III donò la
sua splendida basilica di Santa Maria Maggiore alla Plebs
Dei, era già comiTlciaJta qucsua •convergenza>> paradossale
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di munificenza alla ronuzflll ed elemosine alla cristiana che
caratterizzò la Roma papale dell'Alro Medio Evo.
Nella situazione del tardo quarto secolo, la coesistenza
di due tali sistemi contrapposti non poteva avvenire senza
immediate ripercussioni sociali. Una recente tradizione di
studi (associata in particolare alle ricadte di Evelyne Patlagean) ha dimostrato che il maggior cambiamento nel passaggio dalla società classica a qudla post-classica consistette
nella sostituzione di un modello di società con un altro. Un
modello «civico» di società. la ali unità era la città, definita
in termini di cittadini e non-cittadini. con una giusta gerarchia tra i cittadini vista nei termini della relazione tra la popolazione e i suoi magistrati, venne rimpiazzato da un modello «economico» maggiormente onnicòmprensivo, in cui
tutta la società, urbana come rurale, era considerata attraverso la divisione tra ricchi e poveri, dove la relazione tra i
ricchi e i poveri si esprimeva nel gesto strettamente religioso
dell'elemosina.
In nessun luogo questo cambiamento si manifestò in modo più esplicito che a Roma. All'interno delle mura della città, la plebs Romaflll aveva ricevuto razioni di viveri, frequenti donazioni e simili prove pubbliche di sollecitudine da
Parte dei grandi. Ma ciò accadeva perché essi vivevano lì,
non perché erano poveri. Essi er.mo laplebs Romana. Tuttavia, nelle condizioni della tarda antichità, questa definizione politica era sottoposta a continue tensioni. Poiché mai
la realtà sociale di Roma aveva coinciso meno con la sua immagine cerimoniale. La città del quarto secolo significava
molto di più che non la plebs rom111111 e i suoi patroni. La
popolazione di Roma si era maqtmuta ad un livello anormalmente elevato, quasi catamaate per una massiccia immigrazione dai piccoli centri e dai latifondi dei dintorni.
Tuttavia nessuno di questi nuovi venuti veniva considerato
come un membro della plebs ROIIIIIIftl. Inoltre, mentre l'annona imperiale rimaneva una ptaogativa di grande rilievo
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della condizione speciale della plebs Romana, essa era ben
!ungi dall'essere l'unica, o anche solo la principale, fonte di
vettovagliamento. Roma era rifornita da un'economia più
informale di relazioni commerciali con le campagne italiane.
In tali circostanze, le elemosine cristiane assunsero un significato simbolico ed un peso rituale la cui attrattiva veniva
sempre più aumentando per i membri della classe superiore,
dato che permetteva loro di sostenere spese socialmente significative ad un costq minore. Infatti, il donare cristiano
era diretto alla sola, indistinta categoria dei poveri. Esso
evitava le tensioni generate in una comunità urbana in corso
di trasformazione dalla definizione cerimoniale della plebs
Romana. Sin dalla fine del quarto secolo, gli immigrati avevano raggiunto nella vita economica e sociale della città una
posizione di importanza eguale a quella della plebs. Ma essi
erano eguali in tutto tranne che per il cruciale punto «politico» dello status. Alla prima minaccia di carestia, la vecchia
definizione riprendeva vigore. Quanti provenivano da fuori,
anche un insigne straniero come Ammiano Marcellino, erano espulsi dalla città, «senza neppure il tempo di respirare».
I capi laici di Roma lasciavano allora posto solo per i loro
tradizionali clienti, la plebs Romana, e per i modi tradizionali di stabilire un rapporto con loro. Ammiano ricorda
amaramente come, mentre i professori di letterature venivano cacciati, il Senato trattenesse tremila dànzatrici con cui
divertire, e controllare, la plebs Romana in quei momenti
pericolosi.
Questa forma di controllo per mezzo di cerimonie poteva apparire scarsamente elastica e anomala in una città costretta sempre più a badare a se stessa e a trarre alimenti e
popolazione attiva da fonti che mal si adattavano alla vecchia immagine «civica» della comunità. Di qui la risonanza,
del tutto spropositata rispetto alle somme relativamente modeste che vi si distribuivano tra i poveri, di cui cominciò a
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godere il tempio di San Pietro sul Colle Vaticano, quale potente antitesi simbolica al Circo Massimo ed al Colosseo.
Nel 365 il prefetto della città era Lampadio:
«Un prefetto che era un ex-pretoriano, uno che se la
prendeva a male anche se non si elogiava il suo modo
di sputare, poiché riteneva di farlo meglio di chiunque
altro ... Costui, durante la sua pretura [ca. 335-340]
diede dei magnifici giochi e distribuì molti ricchi doni;
ma, esasperato dagli schiamazzi dellap/ebs, che continuava a pretendere doni per chi non li meritava affatto, per ostentare la sua generosità ed il suo disprezzo
per la plebaglia, fece venire dei mendicanti dal Colle
Vaticano e offrì loro regali di gran valore ... »
(Ammiano Marcellino, Res gestae XXVII, 3,5)
È il tributo derisorio della vecchia Roma al nuove senso
della comunità che si viene sviluppando ai suoi margini.
Quarant'anni più tardi, tuttavia, il gesto di Lampadio era
divenuto più di uno scherzo. L'assedio dei Goti ed il sacco
di Roma nel 409-410 misero in crisi il sistema dell'annona,
mentre i riscatti portarono all'impoverimento dell'aristocrazia residente. Ne seguì un'immediata caduta nella popolazione. Il rifornimento cerimoniale di cibo alla plebs Romana venne mantenuto con grande tenacia il più a lungo possibile mediante prodotti italiani, come la carne di maiale ed il
vino; ma il grande emblema annuale della prerogativa della
sicurezza del popolo romano, rappresentato dalla flotta del
grano, venne meno con la conquista vandalica dell'Africa
nel 429-432. 11 mercato romano fu allora costretto ad aprirsi.
Mercanti greci vennero incoraggiati a stabilirsi a Roma.
In tali condizioni, la nuova definizione cristiana della plebs
Dei risultava effettivamente più realistica. Di conseguenza
le cerimonie ad essa correlate acquistarono un valore di
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strumento di controllo che non possedevano durante la belle
époque del quarto secolo. Esborsi che nel quarto secolo potevano apparire come faccende puramente private, fondamentalmente estranee al fine essenziale della sicurezza della
città, assursero ad un ruolo centrale in una comunità urbana
che era alla ricerca, e aveva bisogno, di un diverso tipo di
dialogo tra le sue classi. Nel quinto secolo, il consueto epiteto cristiano amator pauperum, se usato in riferimento a papi e a membri del clero romano, aveva assunto un valore indicativo di status pubblico che non possedeva nei giorni antecedenti il sacco dei Goti.
Inoltre, la chiesa romana era anche riuscita ad allargare
la cerchia di donatori. Accanto ai poveri, le donne avevano
costituito una zona vuota nella mappa tradizionale di Roma. Poiché se si considerava la distribuzione di doni come
un atto pertinente alla sfera politica, e non un gesto di pietà,
allora, dato che la politica era evidentemente riservata ai soli uomini, le donne si trovavano escluse dal dialogo rituale
con la p/ebs romana. AI contrario, la chiesa romana aveva
sempre incoraggiato le donne a sostenere di pieno diritto un
ruolo pubblico nei confronti dellap/ebs Dei. Esse distribuivano elemosine di persona sotto gli occhi di tutti. Dovevano
partecipare visibilmente alle celebrazioni nei templi. Facevano edificare chiese a loro nome, sostenendone le spese con le
loro personali ricchezze - perlopiù, costituite da vesti e
gioielli. Già nel terzo secolo, il filosofo pagano Porfirio aveva parlato delle donne della chiesa romana come di membri
di un «Senato». Nel momento in cui Gerolamo aveva ricordato ai suoi lettori quella osservazione, le donne di ceto elevato erano divenute le sostenitrici principali della chiesa.
Infatti, il vescovo cristiano era il solo uomo politico nel
tardo mondo romano di cui si sapesse pubblicamente che includeva le donne come un settore influente della sua clientela. Non c'è da stupirsi se il piccolo Ambrogio, durante l'infanzia nel palazzo avito in Trastevere, osservando l'andiri-
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vieni del clero romano, giocava a fare il vescovo offrendo
l'anello da baciare alla madre ed alle domestiche. Furono le
mogli dei Senatori a sostenere papa Liberio alla corte di Costanzio II. Il papa Damaso si guadagnò il soprannome di
«titillatore delle signore romane». Gerolamo, riproponendo
l'antica immagine romana della donna strapotente, parlò di
nobili vedove e vergini che si sottraevano al «dominio di un
marito» per potersene stare a letto, dopo lunghi, caldi pranzi, «sognando gli Apostoli». Come al solito, la malignità di
Gerolamo coglie con grande acume l'esatta atmosfera della
Roma del quarto secolo. Le nobildonne erano riconosciute
come clienti a pieno titolo di San Pietro. La loro fedeltà ai
vescovi trovava espressione nell'iconografia delle loro tombe, e in concreti gesti pubblici di omaggio, come la ve/atio,
la concessione del velo alle vergini quale premio per il lungo
servizio prestato al fianco dei loro patroni ecclesiastici.
Tutto ciò avrebbe comunque avuto un minor rilievo se la
posizione delle donne di ceto elevato nella società romana
della fine del quarto secolo non fosse stata sottoposta a particolari tensioni. Il nucleo del ceto senatorio residente in Roma tendeva a gravitare attorno alle ricchezze accumulate
all'interno di un gruppo sempre più esiguo di ereditiere. Un
matrimonio vantaggioso poteva «rinnovare» la gloria di un
nobile casato. La ricchezza anche delle figlie e delle vedove
sarebbe stata impegnata all'effettuazione dei giochi che i loro defunti padri o mariti avevano promesso per i loro figli.
Le donne, pertanto, erano chiamate frequentemente a saldare il distacco tra le famiglie senatorie e lap/ebs Romana.
Tuttavia, benché mantenessero un residuo di condizione civile gelosamente preservato, e benché nell'aspettativa generale le loro eredità dovessero andare ad «esaurirsi in una discendenza di consoli», alle donne di famiglia senatoria non
era riconosciuta alcuna funzione pubblica. Una legge del
370 sosteneva che le figlie erano tenute a contribuire alle spese
dei giochi promessi dal loro padre scomparso, ma la stessa
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legge sottolineava che sarebbe stato «del tutto fuori luogo e
disdicevole» se, in tali occasioni, esse avessero indossato la
veste cerimoniale di un pretore. Apparire sulle gradinate del
Colosseo o in un palco del Circo Massimo, attorniati da tutta la discendenza maschile di una famiglia, per ricevere la
acclamazioni della p/ebs Romana, era un momento solenne
riservato ai soli uomini. Eppure era ancora necessario ricordare esplicitamente alle donne delle famiglie senatorie qual
era il loro posto. Nulla di ciò accadeva nelle celebrazioni
della plebs Dei: sul colle Vaticano, una nobildonna poteva
sfilare pubblicamente con tutto il suo seguito, distribuendo
personalmente il denaro.
La differenziazione tra i benefattori pubblici non fu un
elemento di scarso peso nel suggellare l'alleanza tra la chiesa
romana ed il Senato un tempo pagano. Nel quinto secolo,
l'era delle grandiose elargizioni pubbliche era finita. Il costo
dei giochi organizzati da Simmaco in occasione della pretura del figlio veniva ricordato, solo una generazione più tardi, come tipico del periodo «antecedente al sacco gotico».
Tuttavia, nel corso di questo difficile periodo di adeguamento a condizioni più ristrette, donne che si sapevano appartenere a famiglie senatorie in Roma, e che frequentemente ne lasciavano testimonianza sulle iscrizioni associando i
loro nomi, se sposate, a quelli dei mariti, continuarono, come costruttrici di chiese e contributrici al restauro di chiese,
a lasciare un segno indelebile sulla città. Per esempio: in un
periodo in cui gli uomini della nobile famiglia degli Anicii
erano così presi dal tentativo di salvare il dissestato patrimonio e il prestigio della famiglia da non lasciare che un'impronta di routine - come magistrati - sulla vita pubblica della città, la loro sorella, Demetriade, come vergine consacrata alla chiesa, aveva saputo brillare di fronte ad una schiera
di ammiratori cristiani provenienti da tutti i paesi mediterranei. Nella sua qualità di patrona del culto di Santo Stefano a
Roma, attivamente incoraggiato da papa Leone, costruì una
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chiesa maestosa sulla cui iscrizione dedicatoria campeggiava
orgogliosamente il nome della famiglia: Demetrias Amnia
Virgo - Demetriade, vergine della stirpe Anicia.
In questo linguaggio differente e più imparzialmente distribuito, io scambio di segni visibili con cui si era intessuto
il dialogo tra i nobili e la plebs Romana si trasferì nei sagrati
delle basiliche della chiesa cristiana.
In conclusione, pertanto, la cristianizzazione di Roma
andrebbe vista attraverso occhi romani. Ci occupiamo qui
di un processo che non ha nulla a che vedere con il moderno
concetto di evangelizzazione. La scansione del cambiamento fu determinata dall'incerto e in gran parte imprevisto trasferimento alla Chiesa cristiana, in tempi particolarmente
difficili, di quei meccanismi di elargizione aristocratica che
un tempo avevano tenuto insieme una esplosiva megalopoli
della tarda età classica. Il controllo dell'aristocrazia residente continua a costituire lo scopo fondamentale. I cambiamenti che tendiamo ad associare con la definitiva «cristianizzazione» di Roma si verificano solo nel momento in cui il
problema del controllo diviene meno assillante, e può così
ammettere soluzioni più flessibili. Dopo il 410, il terrore
rappresentato dalla mera massa della popolazione si è dissolto, ed una città dove sono più improbabili esplosioni di
rivolta può, alla fine, permettersi il lusso di pensare a se
stessa come ad un indistinto 'popolo di Dio'.
Ma non è tutto. Dietro allo spostamento dall'immagine
tradizionale, 'politica', di Roma a quella della Roma della
plebs Dei, si può cogliere un adeguamento alle mutate circostanze del mondo esterno alla città. Viene infatti a cadere in
oblio il terzo interlocutore di quel dialogo che ha determinato la tradizionale identità di Roma: la Roma della plebs Dei
è, in effetti, una Roma senza Imperatore. Nell'immagine
tradizionale della città, l'Imperatore era collocato al vertice
della gerarchia piramidale dei donatori e dei beneficiari. Per
tutto il quarto secolo, la sua immane presenza aveva sovra-
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stato la città, che raramente egli aveva visitato di persona.
Formalmente, la stragrande maggioranza dei /udi offerti alla plebs Romana dall'aristocrazia locale era offerta in nome
dell'Imperatore, cioè nella sua qualità di rappresentante ufficiale dell'Imperatore. In pratica, l'enorme sforzo di mobilitazione dell'annona civica, ì fondi per i ludi, specialmente
la fornitura di animali esotici (e di esseri umani esotici, nella
forma dì barbari prigionieri di guerra) dal cui massacro nel
Colosseo dipendeva in larga misura la popolarità della nobiltà, erano resi possibili dall'energia dell'amministrazione
imperiale. Come si vede nell'abbondante corrispondenza di
Simmaco, relativa ai giochi del figlio nel402, non c'era aristocratico locale che potesse risultar gradito alla p/ebs Romana, e controllarla, senza il frequente ricorso all'Imperatore,
ai suoi cortigiani, ai suoi amministratori sparsi in tutto l'Impero. Dai tempi di Costantino fino alle ultime, puntigliose
lettere riguardo al circo e le sue fazioni scritte da Cassiodoro
a nome dell'Ostrogoto Teodorico, l'immagine «civica» della città presupponeva l'esistenza di un Impero o, almeno,
nel caso di Teodorico, di un regime predisposto a funzionare come se si trattasse dell'Impero. La Roma della plebs
~. Dei, al contrario, aveva abbandonato il vertice della piramiJ de verso cui il modello politico della comunità romana convergeva: diventando una città cristiana, Roma divenne una
città molto simile a quelle delle altre province dell'Occidente
subromano- restò 'romana' in quanto riconoscibilmente senatoria, ma non fu più imperiale. Come dice un proverbio
inglese: HLa carità comincia da casa propria». Nell'Occidente latino del quinto e sesto secolo, lo spettacolare sviluppo della pratica cristiana delle elemosine è intimamente connesso alla necessità delle aristocrazie locali di provvedere ai
propri dipendenti in un mondo che non ha più un Impero.
Siamo venuti, così facendo, alla fine della traiettoria della città antica. Nell'anno 533, Cassiodoro gettò uno sguardo
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indietro su una Roma «civica», una Roma di spettacoli e di
distribuzioni annonarie, allora scomparsa:
Apparet quantus in Romana civitate fuerit popu/us,
ut eum etiam de longinquis regionibus copia provisa
satiare t ... Testantur enim turbas civium amplissima
spatia murorum, spectacu/orum distensus amplexus
... (Cassiodoro, Variae Xl, 39).
Le leggende che circolavano, sul finire del quinto secolo,
attorno alle tombe dei martiri all'esterno della città, e gli antichi ti tu/i al suo interno, ci permettono di guardare ad una
città molto diversa, da un punto di osservazione molto diverso, rispetto a quello con cui abbiamo cominciato nel Calendario di Valentino del 354 e finito con il passo nostalgico
di Cassiodoro. Mentre le tradizioni riassunte nel Calendario
erano ancora mantenute in vita, in una forma sostanzialmente ridotta, da un cristiano come Asterio, nei suoi giochi
consolari al Colosseo, ai lettori cristiani delle immaginarie
Passiones dei martiri romani veniva presentata un'alternativa della città che, alla fine, era riuscita a prevalere. Gli enormi/aci cerimoniali del Colosseo e del Circo Massimo non vi
si trovano più. Invece, abbiamo una città fiancheggiata da
grandi templi e ricoperta, all'interno delle mura, da un reticolo di chiese, ciascuna delle quali ha una sua storia di edificazione, cerimonie ed elemosine. Molte di queste chiese vantano una leggenda sulla loro fondazione che esprime ciò
che i Cristiani della fine del quinto secolo erano giunti a
considerare come attività paradigmatiche dei nobili e della
plebs in una città cristiana. l centri delle storie sono costituiti da singole domus aristocratiche, sparse sopra i sette colli.
Ciascuna domina il proprio sestiere, un mondo privato di
opulenti appartamenti segreti dove, come vorrebbero farci
credere i nostri pittoreschi autori, eroiche vergini che ecclesiastici e saggi e deferenti eunuchi avevano irrevocabilmente
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confermato nella loro risoluzione di respingere l'audacia degli uomini -l'audacia virilis pi pagani promessi sposi - profondono la loro grande ricchezza in elemosine all'anonima
povertà. È in questo mondo tranquillo, più 'privatizzato',
di una città che si è come ripiegata su se stessa, finalmente
rìcondotta all'ordine dalla sua nobiltà locale, che possiamo
giustamente valutare il lento ma sicuro lavorio, sotto forme
cristiane, di quelle forze che portarono, secondo l'espressione del mio maestro Arnaldo Momigliano, a quello strano fenomeno -un Impero caduto senza rumore.
NOTA BIBLIOGRAFICA
\
Sono onorato di esser stato invitato a partecipare al ciclo di lezioni su
povertà, assistenza, e carità organizzato dall'Istituto di Studi storici
dell'Università degli studi di Venezia diretto dal prof. G.Ortalli. Vorrei ringraziare anche il prof. R.Mueller per il suo incoraggiamento e l'aiuto fornitomi nell'approntare la presentazione orale in italiano di questo saggio. Sono stato confortato in ciò dall'elegante e fedele traduzione dell'originale
eseguita dal dott. Renzo Derosas. È questo il testo che ora si pubblica, con
alcuni ampliamenti che tengono conto dei numerosi e stimolanti suggerimenti di amici e colleghi a Venezia e altrove.
Ho aggiunto qui di seguito una guida bibliografica delle principali fonti
primarie e secondarie relative agli argomenti discussi in questo saggio.
l: Cristianesimo e «paesaggio urbano» a Roma:
C. Pietri, Roma Christiana (Bibliothèque de l'École française d' Athènes et
Rome), 2 voli., Parigi 1976.
R. Krautheimer, Rome: Profile oj a City, 312- 1308 A.D., Princeton 1980
- piccolo libro di un maestro.
32
2: Roma vista da fuori:
R. Valentini- G. Zucchetti, Codice Topografico della città di Roma, Roma
1940, vol. l, p. 331-332- per la citazione, dalla Storia Ecclesiastica di Zaccaria di Mitilene (VI sec. d. Chr.); cfr. Ammiano Marcellino, Res Gestae,
XVI, 10, 13-17.
3: Società aristocratica a Roma:
Ammiano Marcellino, Res Gestae, spec. XIV, 6, 2-24 e XXVIII, 4, 6-34.
Quinto Aurelio Simmaco, Lettere e Relationes (corrispondenza ufficiale
del Prefetto della Città): ed. O. Seeck, Monumento Germaniae Historica:
Auctores Antiquissimi 6, Berlino 1883; vedi J.F. Matthews, Western Aristocracies and Imperia/ Court, Oxford 1975; Sergio Roda, Simmaco nel
gioco politico del suo tempo, <<Studia et Documenta Historiae et Iuris», 39
(1973), pp. 53-114 e Domenico Vera, Commento storico alle «Relationes>>
di Simmaco (1981).
4: Acclamazioni della plebs:
Simmaco, Re/atio 24, 3; Epp. I, 46 e VI, 66.
5: Fenomeno <<evergetico>> nel mondo classico:
Pau! Veyne, Le Pain et le cirque, Parigi 1976.
6: Roma e l'annona civica nel quarto secolo:
Santo Mazzarino, Aspetti sociali del quarto secolo, Roma 1951, pp. 217269.
J.M. Carrié, Les distributions alimentaires dans le cités de l'empire romain
tardi!, <<Mèlanges de l'École française d' Athènes et Rome: Antiquité», 87
(1975), pp. 995-1101.
7: Il Calendario di Valentino e la vita cerimoniale a Roma;
Henri Stern, Le Ca/endrier de 354, Parigi 1953.
8: I giochi ed il loro allestimento:
A. Chastagnol, Observations sur te consulat suffect et la préture du busempire, <<Revue historique>>, 219 (1958), pp. 221-253.
9: Sicurezza e carestie a Roma:
H.P. Kohns, Versorgungskrisen und Hungerrevolten im spiitantiken Rom
(Antiquitas l: 6), Bonn 1961.
lO: Vita cerimoniale e controllo sociale: studi comparativi; Averi! Cameron, Images of Authority: Elites and Icons in late sixth century Byzantium,
<<Past and Present>>, 84 (1979), pp. 3-35.
Brian Pullan Rich and Poor in Renaissance Venice, Cambridge, Mass.,
1971.
E.Muir, Images of Power: Art and Pageantry in Renaissance Venice,
<<American Historical Review>>, 84 (1979), pp. 16-52.
Il: Prefettura urbana e città di Roma;
A.Chastagnol, La Préfecture à Rome sous le Bas- Empire, Parigi 1960 e
Les Fastes de la Préfecture de Rome au Bus-Empire, Parigi 1962.
33
12: Prefetto e plebs:
Gride al circo: Zosimo, Storia VI, 11.
Misure di sollievo annunciate durante i giochi: Simmaco, Ep, IV, 12.
Incendi: Ammiano Marcellino, XXVII, 3, 4 e 8; Simmaco, Epp, l, 44 e Il,
38; Ambrogio, Lettera 40, 15 - tali incendi rimasero sempre impuniti.
Linciaggio: Vita Melaniae iunioris, 19, e·ct;.D,,Gorce (Sources chrétiennes
90), Parigi 1962.
Lutto pubblico per il prefetto: Girolamo, Lettera 23, 3; Simmaco, Relatio
IO.
\
13: Cristianizzazione e matrimoni misti tra cristiani e pagani:
Peter Brown, Aspetti della cristianizzazione dell'aristocrazia romana in
Religione e società nell'età di Sant'Agostino, Torino 1972, pp. 151-171.
14: Paganesimo e vita pubblica a Roma:
A.Aifoldi, Die Kontorniaten, Lipsia 1943.
G. Ville, Les jeux de gladiateurs dans l'Empire chrétien, «Mélanges d'archéologie et d'histoire», 72 (196!), pp. 273-335.
A.Chastagnol, Le Sénat romain sous le règne d'Odoacre (Antiquitas 3: 3),
Bonn 1966.
15: Culto dei santi e periferia urbana:
R.Krautheimir, Mensa, coemeterium, martyrium, «Cahiers archéologiques,
11 (1960), pp. 15-40, and in Studies in Early Christian, Medieval and Renaissance Art, New York 1969, pp. 35-37- studio importantissimo sul santuario di San Lorenzo nell'Agro Verano.
Peter Brown, The Cuit of the Saints: its Rise and Function in La t in Christianity, Chicago- Londra 1980 (di prossima pubblicazione in traduzione
italiana presso Einaudi).
16: Pellegrinaggio e 'liminalità':
Victor Turner, Pi/grimages asSocio/ Processes in Dramas, Fie/ds and Metaphors, lthaca 1978, pp. 166-230.
17: Elemosine e munificenza cristiana a Roma:
Pietri, Roma Christiana ... l, pp. 579-589; Concordia apostolorum et renovatio urbis, <<Mélanges d'archéologie et d'histoire», 73 (1961), pp. 275322.
Leone, Sermones 6- Il (de collectis): Patrologia latina 54: 158 sgg. Paolino, Lettera 13 e Girolamo, Lettera 66, ambedue al senatore cristiano Pammachio.
18: Trapasso fra ottica <<civica» ed ottica «cristiana»:
Evelyne Patlagean, Pauvreté économique et pauvreté sociale à Byzance,
Parigi 1977.
19: Immigrati a Roma:
Lelia Ruggini, Economia e società nell'Italia annonaria, Milano !961,
spec. 116-176.
34
Vedi Ammiano Marcellino, XIV, 6, 19 ed Ambrogio, de officiis III, 45-53.
20: Clero romano e poveri nel V e VI secolo:
Marrou, L 'origine orientale des diaconies romaines, «Mélanges d'archéologie et d'histoire», 78 (1966), pp. 123-139.
21: Le donne nella società romana:
Santo Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano 1959, pp. 135-143.
J.M. Demarol!e, Les femmes chrétiennes vues par Porphyre, «Jahrbuch
fiir Antike und Christentum», 13 (1970), pp. 42-47.
Per il problema delle vedove devote- e, dunque, troppo libere! vedi Gerolamo, Lettera 22, 16 e Novella Maioriani 6, 5 del 458.
22: Vergini delia chiesa e clientela papale:
R.Metz, La consécration des vierges dans /'église romaine, Parigi !954.
C. Dagens, Autour du pape Libère, «Mélanges d'archéologie et d'histoire»,
78 (1966), pp. 327-381.
23: Donne come donatrici nella chiesa romana:
Peter Brown, The Cuit of the Saints ... pp. 46-48 e 149.
24: Passiones e sensibilità cristiana:
A. Dufourcq, Etude sur /es gesta martyrum romains (Bibliothèque de
l'Ecole française d' Athènes et Rome), Parigi 1900.
A.Gaiffier, Palatins et et eunuques, «Analecta Bollandiana», 75 (1975),
pp. 17-46.
35
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