CAROL O’CONNELL ALLISON CORRE NEL BUIO Traduzione di MARIA CLARA PASETTI Allison Corre Nel Buio www.edizpiemme.it Titolo originale dell’opera: The Chalk Girl © 2011 by Carol O’Connell All rights reserved including the right of reproduction in whole or in part in any form. This edition published by arrangement with G.P. Putnam’s Sons, a member of Penguin Group (USA) Inc. Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o usati in modo fittizio. Ogni analogia con fatti, luoghi o persone reali, viventi o scomparse, è puramente casuale. © 2012 - Edizioni Piemme Spa Art Director: Cecilia Flegenheimer Foto di copertina: © Arcangel Images Foto dell’autrice: Sigrid Estrada Progetto grafico: Daria Colombo Art Director: Cecilia Flegenheimer Questo libro è dedicato a mio cugino John, veterano del Vietnam, un tipo riservato che aveva stivali consumati, una Chevy del ’63 e un caustico senso dell’umorismo. Gli piacevano il baseball e le sigarette. Se le arrotolava da solo e non aveva ambizioni che andassero oltre il sabato successivo. Ed era un uomo misterioso. Il più bel ricordo che ho di lui è un caldo giorno d’estate in cui navigavamo lungo la costa del Massachusetts su una vecchia barca piena di cugini e birra fresca. Calammo l’ancora in un porto dove eravamo circondati da barche più grandi, poi un panfilo si fermò accanto a noi. Era enorme. Un gruppo di persone ben vestite e sorridenti – tanti denti, molto bianchi – si sporse dal parapetto per salutarci, e questo era strano. Noi non facevamo parte di quel mondo e non conoscevamo nessuno di loro. Quindi perché... Poi John, il peggio vestito di tutti, si alzò con i suoi jeans stracciati e una maglietta non proprio immacolata. Dal panfilo lo applaudirono, lo salutarono. Lui strinse la lattina di birra in mano, rispose ai saluti e poi con un gesto li mandò al diavolo. Dunque John conosceva la gente dei panfili, ma non sapeva cosa farsene. E a noi non raccontò mai la storia che stava dietro quell’incontro. Questo era John Herland, uomo di misteri, e quando morì sono sicura che fu rimpianto da molti proprietari di panfili, e moltissimo da me. 1 Non ero ancora uscito dall’utero di mia madre e già strillavo. È quello che mi dice mio padre quando torno a casa con una storia sulla Scuola Driscol. Ernest Nadler Il primo grido del mattino si perse nel frastuono di Manhattan, un frullato di sirene lontane, latrati di cani e musica a tutto volume sparata da un’auto che passava accanto al parco. Il cielo estivo era dell’azzurro intenso delle cartoline per turisti. Non una nuvola. Nessun presagio di pericolo. Una fila di bambini entrò nella radura. Li guidava una donna dai capelli bianchi, con un cappello di paglia floscio e un vestito viola che lasciava scoperti i polpacci venati di blu mentre avanzava lentamente sull’erba aiutandosi con un bastone. Il gruppo di piccoli gitanti faceva molta fatica a tenere il suo passo. Avevano voglia di correre liberi, gridando e ruzzolando in Central Park. Tutti, tranne uno che procedeva dondolando goffamente con le gambe serrate, segno premonitore di una vescica sul punto di esplodere. La signora Lanyard lesse ad alta voce dalla guida: «Il gregge di pecore che dava il nome a Sheep Meadow fu allontanato dal parco nel 1934». La notizia venne accolta da un coro di mugolii delusi e da un timido: «Devo fare la pipì». «Naturalmente.» Ce n’era sempre uno. Non mancava mai. La signora Lanyard alzò una mano per ripararsi gli occhi mentre scrutava la distesa di quindici acri affollata di persone, biciclette, teli da spiaggia, passeggini e frisbee volanti. Non riusciva a vedere la sua assistente, mandata alla ricerca di una toilette. «Fra un momento» disse al bambino angosciato, pur sapendo che il bagno non sarebbe stato trovato in tempo. Nessuna gita scolastica era completa senza puzzo di urina sul pullman nel viaggio di ritorno. Dopo aver radunato i suoi giovani alunni in un gruppetto compatto, li contò per la terza volta della mattinata. Non ne aveva perso nessuno... però ce n’era uno di troppo. Scorse nelle ultime file una zazzera sconosciuta di riccioli rossi. Di sicuro quella bambina non era iscritta alla scuola estiva Lanyard per bambini superdotati, benché la signora Lanyard considerasse quei marmocchi assolutamente normali. Tuttavia i loro genitori avevano pagato una somma considerevole per una citazione prestigiosa da inserire nel curriculum dei loro figli di sei anni, e la bambina extra era una clandestina. Che faccino strano, bello e buffo allo stesso tempo, con quella pelle bianca come il latte, là dove non era sporca. Il sorriso della piccola era più largo del normale e c’era uno spazio eccessivo tra il naso all’insù e le labbra piene. Il mento a punta dava il tocco finale all’aspetto da elfo. Comunque, fatata o umana che fosse, quello non era il suo posto. «Come ti chiami, piccola.» Era un ordine, non una domanda. «Coco,» rispose lei «come la cioccolata calda.» Che assurdità. Quel nome mal si addiceva ai capelli rossi, agli occhi azzurri e al viso così chiaro. «Da dove sei...» La signora Lanyard si interruppe e strillò mentre un grosso topo passava vicino alla punta delle sue scarpe. Impossibile. Inconcepibile. La guida non parlava di topi. Solo di uccelli, scoiattoli e pecore scomparse. Avrebbe scritto agli editori per fare le sue rimostranze. «I topi di città sono creature notturne» disse Coco, la scolara abusiva, come citando da una sua guida personale. «Raramente si avventurano all’aperto di giorno.» Bene, quello non era il vocabolario tipico di un bambino della sua età. Forse la piccola intrusa era l’unica dotata del gruppo. «E quello, allora?» La signora Lanyard indicò il roditore che scivolava sul prato. «Suppongo che sia ritardato!» «Quello è un topo norvegese» dichiarò Coco. «Li chiamano anche ratti bruni, e sono geniali. Hanno vinto la guerra dei topi cent’anni fa... quando hanno mangiato tutti i topi neri.» A quell’informazione fecero eco gli “oooh” degli altri bambini. Incoraggiata, la piccola proseguì. «Una volta vivevano sulle navi. Ora si trovano soprattutto a terra. Ma alcuni vivono in cielo, e a volte piovono topi.» In perfetta sincronia gli scolari alzarono gli occhi al cielo, ma da quella parte non arrivavano roditori. Però un altro topo stava correndo verso di loro. Ventitré paia di occhi si spalancarono per la sorpresa. E un bambino si bagnò i pantaloni. Capitava sempre. Oh, ed ecco un altro ratto, e un altro ancora. Che creature orribili! Su un’ampia striscia d’erba all’altra estremità della radura gli adoratori del sole saltarono su dagli asciugamani e si diedero alla fuga. A quella distanza le persone e i loro strilli sembravano piccoli come formiche. I cani abbaiavano e i genitori si allontanavano veloci, spingendo i passeggini in tutte le direzioni. La signora Lanyard fece cenno ai bambini di raccogliersi intorno a lei. L’esperta di roditori dai capelli rossi uscì dal gruppo e tese le braccia sottili in una muta preghiera per essere stretta e confortata. Dio mio, quella bambina era lurida. La maglietta originariamente bianca era costellata di ditate, macchie d’erba e di cibo, alcune rosse come il sangue. Probabilmente aveva anche i pidocchi. «Ferma!» La signora Lanyard fece un passo indietro e alzò le mani per respingere l’avanzata della monella. I grandi occhi azzurri la guardarono feriti e le braccia si abbassarono lentamente sui fianchi. Coco si rivolse ai bambini che, ricevuta l’imbeccata dalla vecchia maestra, si scostarono da lei. Il sorriso della piccola si spense e si portò le mani allo stomaco, come se quel rifiuto l’avesse colpita con la forza di un pugno. Un bambino strillò: «Guardate! Guardate!». Puntò il dito in avanti. «Altri topi!» Oh, buon Dio, ce n’erano a dozzine. La signora Lanyard sollevò il bastone, pronta a difendere i suoi alunni dall’orda di creature disgustose che marciava verso di loro. Ma i bambini – tutti magnificamente equipaggiati per la sopravvivenza – corsero via abbandonando la vecchia insegnante. La strana monella li seguì, agitando le mani come piccole ali bianche che battevano terrorizzate. Era un momento inopportuno per avere un infarto ma, fortunatamente, misericordiosamente per lei, sarebbe stato fatale alla signora Lanyard. I topi erano così vicini. Crollò in ginocchio. Il vento le portò via il cappello di paglia e lo fece volare lontano. Il cranio rosa divenne visibile sotto i radi capelli bianchi. I topi squittivano, correvano, le erano quasi addosso. La donna rovesciò gli occhi all’indietro, ma non aveva più paura, nonostante quelle bestiacce la circondassero e si dividessero per scansare l’ostacolo formato dal suo corpo inginocchiato e proseguire in fretta. Cadde in avanti stecchita, con la testa fra l’erba, tagliandosi il viso su una scheggia di bottiglia. Solo un filo di sangue uscì dalla ferita, perché il cuore aveva smesso di battere. I soldati pelosi dell’esercito dei topi, quelli che erano più vicini, si fermarono per guardare... annusare... assaggiare... La signora Ortega udiva gli strilli acuti dei bambini mentre spingeva il carrello di metallo verso il parco giochi. Il fisico minuto e magro traeva in inganno, perché lei era una donna forte, effetto collaterale del lavoro pesante. La sua ascendenza si rivelava nei capelli corvini del padre latino e nella carnagione candida della madre irlandese. Spesso, durante i suoi spostamenti attraverso il parco, veniva avvicinata da qualche signora attirata dal carrello carico di scope e detersivi. La sconosciuta si faceva avanti con uno sguardo avido e speranzoso – una brava donna delle pulizie era difficile da trovare – e lei la allontanava dicendo: «Non me lo chieda neppure. Sono impegnatissima». Quel giorno, con una variante significativa al solito copione, una sconosciuta la urtò con violenza. Era una ragazza che correva a gambe levate, e si guardava ansiosamente dietro le spalle invece di badare a dove metteva i piedi. Newyorkese purosangue, la signora Ortega possedeva una scorta di imprecazioni per occasioni simili, insulti capaci di far gelare il sangue a una gang di motociclisti. Alzò il pugno per mettersi a gridare, poi vide il terrore negli occhi della ragazza, che si fermò un attimo per urlarle: «Ratti!», prima di riprendere a correre. Evidentemente non era di New York. L’indignazione della signora Ortega si placò, e abbassò il pugno. Concedeva delle attenuanti ai turisti fragili. Perché chi si spaventava alla vista di un topo era un debole. New York era la capitale mondiale dei topi. Un tempo il suo quartiere ne vantava più dell’intera Manhattan, ma ora la zona dove abitavano i suoi clienti, l’Upper West Side, stava per rubargli il primato. La signora Ortega entrò in un rumoroso parco giochi cinto da una lunga panca rotonda, da una siepe e infine da un cerchio di alti alberi. Chiuse il cancello di ferro e sedette al suo solito posto, accanto alla fontanella di acqua potabile. Salutando con un cenno del capo le tate e qualche bambino che conosceva per nome, si posò in grembo il sacchetto di una gastronomia. Contava di fare uno spuntino con calma prima di prendere la metropolitana per SoHo. Anni prima uno dei suoi clienti si era trasferito a Downtown. Normalmente questo avrebbe significato la fine dei loro rapporti, ma Charles Butler le aveva offerto un aumento sufficiente a compensare il prezzo del biglietto. Guardò l’orologio. Aveva tutto il tempo. Il tempo per notare un uomo al di là della siepe, e riconoscerne immediatamente il genere. Un suo amico poliziotto chiamava i tipi così “Occhi Lunghi”. Quelli dell’uomo erano fissi sulla piccola palestra, una struttura variopinta affollata di bambini che si arrampicavano sulle scale e penzolavano dalle sbarre. Altri giocavano sullo scivolo, strillando felici, spensierati e senza paura. Alcuni di loro però erano già abbastanza svegli da poter raggiungere l’età della riproduzione; i newyorkesi autentici conoscevano bene gli aspetti più cupi del darwinismo. Occhi Lunghi catturò l’attenzione di una bambina. Le sorrise – così viscido – e lei si girò dall’altra parte, arricciando il naso come se avesse sentito un cattivo odore. C’erano tutti i segni riconoscibili persino da un bambino, ma le loro tate erano cieche, chiacchieravano al telefono o spettegolavano tra loro. Quel giorno al parco giochi non c’erano mamme, solo babysitter. Le mamme erano brave a individuare i predatori. La signora Ortega ancora di più. Il suo radar si rafforzò quando vide che il pervertito fotografava di nascosto i bambini col cellulare. Non volendo allarmare le tate – ragazzine scervellate – la donna delle pulizie si chinò in avanti e toccò la mazza da baseball infilata nel carrello. L’aveva ereditata dal padre, un fan degli Yankees fino al giorno della sua morte, e se la portava appresso ovunque, ma non per sentimentalismo. Era un’ottima arma. Osservò l’uomo... che osservava i bambini. Poi fu distratta da un faccino sporco, incorniciato da riccioli rossi. La bambina scrutava da dietro un albero piantato in mezzo al cemento del parco giochi. Il sorriso era troppo grande, troppo generoso per una nata a New York. Era un tipetto strano, e allo stesso tempo familiare. La signora Ortega trattenne il respiro. Sebbene priva di ali, quella bambina era l’incarnazione vivente di una statuetta che teneva da sempre sul camino di casa. Aveva una collezione di folletti ereditati dalla madre irlandese, una donna che di quelle creature magiche conosceva il bello e il brutto: cantavano e danzavano, sempre sorridenti, e provocavano un sacco di guai. Nulla di buono poteva venire da un incontro con folletti in carne e ossa. Nel settore razionale del suo cervello sapeva che quella bambina era anche troppo umana e vulnerabile, ma la rassomiglianza con gli esseri fatati era misteriosa, sconcertante. La signora Ortega vide che Occhi Lunghi stava osservando la piccola mentre gironzolava lungo la siepe. Quella era una vittima predestinata perché sembrava sola. Una preda facile. L’uomo si avvicinò al cancello, furtivo, sorridente; così sorriderebbero gli scarafaggi, se potessero. La mano destra della signora Ortega strinse l’impugnatura della mazza da baseball mentre la bambina si avvicinava a una delle tate, una scioccherella di nome Nancy, che trasalì spaventata. Curioso, considerato che Nancy aveva la stazza di un giocatore di football. La bambina le tendeva le braccia per farsi abbracciare. Da una sconosciuta? Be’, questo sì era spaventoso. Nancy saltò su dalla panca e si mise letteralmente a correre per sfuggire alla minaccia rappresentata da quella bambina. Raccolse i suoi protetti, due gemelli, li portò fuori dal cancello e li spinse in fretta verso l’uscita sulla Sessantottesima Ovest. Rimasto solo, il folletto abbassò la testa e si strinse le braccia intorno al corpo. Cosa c’era sulla maglietta della bambina? Dio mio, no. La signora Ortega aveva un occhio infallibile per le macchie. Forse un poliziotto poteva credere che fosse ketchup, ma lei no. Quello era sangue. Improvvisamente la bambina sorrise, poi si avviò danzando sulle punte verso il bordo del parco giochi, dove il pedofilo aspettava accanto al cancello, il cancello aperto. Sorrideva con le braccia tese per accoglierla, e lei gli corse incontro, così felice, così ansiosa di dare e ricevere amore. La signora Ortega estrasse la mazza da baseball dal carrello. All’ombra di un’antica quercia tre uomini in uniforme osservavano i topi accalcarsi sull’ammasso sanguinolento che era la defunta signora Lanyard. Uno di loro ruppe le righe e avanzò verso il frenetico banchetto sul prato. «No, fermati.» L’agente Maccaro, da vent’anni in polizia, trattenne il giovane collega prendendolo per il braccio. «Fidati di me, figliolo, è morta, morta stecchita.» Ah, le reclute, erano come i bambini. Non si poteva perderli d’occhio un momento. «Stanno arrivando quelli dell’Animal Control. Noi dobbiamo solo aspettare.» Si rivolse all’altro ragazzo che indossava l’uniforme delle guardie forestali. «Jimmy, non avevo mai visto tanti topi in pieno giorno.» «Be’, Mac, il numero dei roditori aumenta vertiginosamente.» A dispetto dell’accento del Midwest, il guardaparco poteva sembrare un vero newyorkese per l’imperturbabilità con cui osservava un branco di ratti intenti a divorare una vecchia signora. «Le esche avvelenate non funzionano più. Credo addirittura che ai topi piacciano. Così il sovrintendente ai parchi ha pubblicato un fottuto bando per la derattizzazione. Ha vinto Dizzy Hollaren, un idiota con una piccola azienda che si occupa soprattutto di termiti e scarafaggi. Così Dizzy si è piazzato a spese del Comune in quella costruzione laggiù.» Il guardaparco indicò una struttura di mattoni sul margine della radura. «E quel genio cosa fa? Butta un fumogeno dentro le tane, poi le sigilla. Con gli scarafaggi funziona, dice lui. Davvero un genio.» «Ma i topi hanno un’uscita di riserva. Ho indovinato?» replicò l’agente Maccaro. Il guardaparco annuì. «Ce l’hanno sempre... e sono venuti fuori a frotte.» Guardò i ratti che si accanivano sul corpo della signora Lanyard. «Questo non è normale. Di solito quando c’è gente scappano. Credo proprio che quelle bestie siano impazzite per colpa dei prodotti chimici di Dizzy.» Si strinse nelle spalle. «Mi dispiace, ragazzi, ma di quel cadavere non resterà molto.» «Non importa» fece il poliziotto più giovane. «Alcuni bambini ci hanno detto il nome della vittima.» «Già» annuì l’agente Maccaro. «Abbiamo ancora una ventina di bambini da rintracciare.» Guardò verso l’altro lato di Sheep Meadow, dove una fila di poliziotti e addetti al parco setacciava il terreno alla ricerca della scolaresca arrivata dal New Jersey. Il guardaparco indicò il cielo. Un grande uccello da preda volava in cerchio. «Tenete d’occhio quel falco. È merito dei rapaci se non si vedono topi allo scoperto durante il giorno...» Ad ali tese il falco calò a terra come un fulmine. Si arrestò con gli artigli protesi a pochi centimetri dall’ammasso brulicante di roditori e portò via un topo che si contorceva e gridava con voce umana. Imperterriti, gli altri continuarono il loro pasto. Il guardaparco commentò con tono esperto: «Sono impazziti, non ci sono dubbi». Alzò di nuovo gli occhi e scrutò tra le fitte fronde della magnifica quercia. «Spero che quei bambini non si nascondano sugli alberi.» L’agente Maccaro guardò in su e vide un topo che correva su un ramo basso. «Oh, Cristo, quando hanno imparato a fare questo?» La signora Ortega provò una certa soddisfazione udendo il rumore di un osso che si spezzava. Il pedofilo crollò a terra e si mise a strillare. Lei appoggiò la mazza da baseball sulla spalla e si guardò attorno. Dov’era quella strana bambina? Non c’era nessuno a cui chiederlo. Il parco giochi era deserto. Due poliziotti stavano arrivando di corsa e lei, agitando la mano libera, gridò: «Cercate una bambina!». L’agente più giovane entrò per primo dal cancello. Guardò l’uomo raggomitolato in posizione fetale che non strillava più ma piangeva silenziosamente, poi si rivolse alla donna delle pulizie. «È stata lei?» Domanda stupida. Non aveva forse in mano una mazza da baseball insanguinata? La signora Ortega toccò col piede il pervertito piagnucolante. «Non preoccupatevi per questo rifiuto umano. Non morirà. Ma dovete trovare subito la bambina. È una calamita per i vermi come lui. La riconoscerete subito. Ha i capelli rossi e sembra un folletto.» «Ma certo» sogghignò il poliziotto più anziano che stava entrando dal cancello. «Mi sembra di averla vista volare sopra il parco.» «Non mi prenda in giro.» «Okay.» L’agente sfoderò la pistola e gliela puntò alla testa. «Signora, molli quella mazza! Subito!» «Non scherzo» disse la signora Ortega. «Già, lo vedo.» L’uomo stava fissando l’estremità insanguinata della mazza. Be’, questa era una novità. Il detective era davanti al prefabbricato rosso che ospitava temporaneamente il distretto di polizia di Central Park. La vecchia sede era in rifacimento, nascosta da teli di plastica e con il tetto brulicante di operai. Quella dannata città perdeva pezzi in continuazione. Era lontano dalla sua sede di SoHo e indossava un abito stazzonato con vecchie macchie di senape, ma il detective Riker non aveva mai bisogno di identificarsi. Gli agenti intorno all’entrata si divisero come un’onda, riconoscendo il suo grado dall’aria sicura che gli veniva dal diritto di portare la pistola e il distintivo d’oro. In lui i civili vedevano solo un uomo di mezza età con una postura sgraziata, un sorriso bonario e occhi socchiusi che sembravano dire: So che stai mentendo, ma non m’importa. La signora Ortega aveva usato il suo diritto di fare una telefonata per chiedergli un favore e Riker prevedeva di dover trascorrere la pausa pranzo a intercedere per lei con il responsabile di quel distretto, ma dopo pochi minuti di conversazione il comandante gli aveva consegnato la chiave della cella, concedendogli l’onore di scarcerare la più pericolosa donna delle pulizie dell’Upper West Side. Sebbene lei lo guardasse attraverso le sbarre con aria bellicosa, il detective sorrise mentre girava la chiave nella serratura. «Complimenti, signora.» Aprì la porta e s’inchinò davanti a lei. «Mi dicono che la sua vittima ha tre costole e il braccio destro fratturati.» Riker la scortò giù dalle scale, dove lei ritrovò il suo carrello. Lo ispezionò attentamente, quasi temesse che la polizia le avesse rubato gli stracci o le spazzole rigide che usava per strofinare i bagni. «Dov’è la mia mazza?» volle sapere. «Non sfidi la fortuna» la ammonì Riker. «Gliela farò restituire, d’accordo? Ma non oggi.» «Ci ha messo un bel po’ a pagarmi la cauzione.» «Nessuna cauzione» rispose lui. «L’accusa è stata ritirata. Vorrei che fosse per merito mio, ma la telefonata è arrivata dall’ufficio del sindaco. L’ha mandata a prendere con la sua limousine.» «E la bambina? È ancora là fuori.» «Al momento ci sono cinquanta poliziotti nel parco. Stanno cercando gli alunni di una scuola estiva del New Jersey. Lei ha detto che la bambina non era una frequentatrice abituale di quel parco giochi, giusto? Quindi probabilmente è della scuola del New Jersey.» «No. Quella piccola non si lava da giorni. Si è persa o non ha una casa. E questo io l’ho detto ai poliziotti!» «Se non la trovano loro, lo farò io. Okay?» E ora che la donna sembrava un po’ rabbonita, Riker aggiunse: «Non vuole sapere perché il sindaco le ha mandato la sua limousine?». Lei agitò una mano come per scacciare una mosca. No, non le interessava affatto. Il detective le aprì la porta e la scortò cerimoniosamente mentre lei spingeva il carrello tra la polvere e il frastuono dei martelli pneumatici e del traffico lungo la strada che attraversava il parco. Quindi la guidò verso un ampio marciapiede dove i Vip parcheggiavano illegalmente senza curarsi del divieto di sosta. Accanto alla limousine attendeva l’autista personale del sindaco, un uomo vestito come nessun poliziotto si sarebbe potuto permettere, che sbarrò gli occhi per lo stupore vedendo la sua passeggera. Un cenno di Riker gli confermò che quella donnina era davvero la nuova amica del sindaco. «Ehi, ragazzo, apri il baule e sistema il bagaglio della signora.» Mentre l’autista caricava il carrello, la donna delle pulizie si sistemò con grande disinvoltura sul sedile posteriore, come se un giro in limousine rientrasse nella sua routine quotidiana. Quando l’autista si mise al volante e accese il motore, lei si protese in avanti nel vasto spazio che li separava e disse: «Portami a Brooklyn». «No, al municipio!» gridò Riker. Poi le si rivolse in tono conciliante. «Il sindaco desidera solo stringerle la mano. Forse dovrà posare per qualche fotografia, parlare con i giornalisti.» «Sì, sì.» La signora Ortega sembrava seccata all’idea. «Ascolti,» proseguì Riker «è una faccenda seria. Il bastardo che lei ha steso, be’, era in libertà provvisoria, in Florida, ed è scappato. Mentre era uccel di bosco, la polizia di Miami ha trovato dei corpi sotto le assi del pavimento di casa sua.» Ma il detective non era ancora riuscito a catturare la sua attenzione. «Ehi, lei ha fermato un pedofilo assassino. Ottimo lavoro.» «Riker, bisogna trovare quella bambina. C’è qualcosa che non va in lei. Forse non ha ricevuto affetto in famiglia, non so, ma si butta letteralmente tra le braccia degli sconosciuti. E sappiamo che quel verme non è l’unico pervertito del parco. Dov’è Mallory? Perché non è venuta?» «Il tenente Coffey le ha inchiodato le mani alla scrivania.» Per la durata del periodo di sospensione, alla sua giovane collega non era consentito uscire dal distretto di SoHo durante l’orario di servizio, nemmeno per andare a mangiare a nord di Houston, la linea di demarcazione. La bambina, stanca, si fermò al riparo di un boschetto e osservò l’attività frenetica nella radura. Un uomo in tuta infilò un tubo di gomma in un buco nel terreno, avanzò tirandoselo dietro come un serpente, lo puntò sui topi e fece cenno a un collega. Un forte getto d’acqua uscì dal tubo e disperse i topi. Dei poliziotti in divisa blu si avvicinarono all’ammasso sanguinolento sull’erba e si inginocchiarono. Altre persone accorsero con una barella. Nei suoi vagabondaggi di bambina sperduta, Coco era tornata in quel punto per caso. E per caso se ne allontanò. Dopo minuti o ore – la nozione del tempo le sfuggiva, così come la geografia del parco – si ritrovò accanto al lago. Si fermò davanti a una cancellata, scrutò attraverso la fitta vegetazione e riconobbe lo spesso nastro arancione che recintava il bordo dell’acqua. Riprendendo le sue peregrinazioni senza meta, costeggiò un muretto di pietra che portava a un altro suo punto di riferimento. C’erano molte fontanelle nel parco e sembravano tutte uguali, ma questa Coco la riconobbe dall’uccello morto nella vasca. La piccola carcassa scura aveva attirato le mosche che ronzavano forte, in modo sgradevole. Premette le mani sulle orecchie – basta basta basta – e si mise a correre lungo un sentiero del bosco, con le braccia sottili allargate come le ali di un aeroplano e i piedi che volavano. Il caso e la paura le fecero incontrare un’altra indicazione per il luogo della pioggia rossa. Non piangere, non piangere, non piangere. Coco rallentò il passo per riprendere fiato. Superò una recinzione abbattuta e si inoltrò in una fitta boscaglia. I rami bassi le graffiavano i jeans. Si fermò sulla grossa radice di un albero e abbracciò la corteccia ruvida del tronco. Sempre in cerca di amore e conforto, alzò gli occhi verso le foglie e chiamò l’albero per nome. L’albero non rispose. La bambina crollò a terra e si acciambellò su se stessa. 2 Non hanno dimensioni mostruose, ma gli adulti li temono. Papà no, naturalmente. Mio padre non crede nei mostri. E non crede in me. Ernest Nadler Il detective chiuse la porta dell’ufficio del tenente, forse presagendo che la voce del suo capo stava per salire di qualche ottava. Una buona intuizione. «Far tornare Mallory in azione? Sei pazzo?» Il comandante dell’unità Crimini Speciali si passò la mano tra i capelli castano chiaro. Non ancora quarantenne, il tenente Coffey aveva una chiazza calva sulla testa. Era il suo unico segno particolare, per ricordargli l’effetto dello stress su un uomo. «Non è come se fosse la prima volta che le capita.» «E non è il primo poliziotto che molla il lavoro senza salutare» ribatté il detective Riker. Tuttavia la sua collega era stata l’unica a lottare per non rimanere inchiodata alla scrivania, il cimitero dei poliziotti non idonei al servizio attivo. Ma questo era stato la volta prima. «Adesso è tutto diverso!» Ah, un respiro profondo. A voce più bassa per non farsi udire al di là della porta, Jack Coffey disse: «È sparita per tre mesi, e non so ancora perché». Riker alzò le spalle. «Da quando un poliziotto deve dare spiegazioni per il tempo perso?» Tempo perso? Di solito per i detective significava fare un giro dell’isolato per chiarirsi le idee quando il lavoro li faceva impazzire. Mallory invece aveva attraversato quarantotto stati, un’area di sei milioni di miglia quadrate... non era esattamente la stessa cosa. «Lo strizzacervelli del dipartimento non intende firmare per riassegnarla al servizio attivo.» Il tenente Coffey recuperò la relazione dello psicologo dal cestino e la allungò a Riker. «Vai in cima a pagina tre, dove il dottor Kane dichiara che è pericolosamente instabile. Sai perché ho notato questo dettaglio? Perché la tua collega è sempre così brava a superare i test psicologici.» «E sono sicuro che anche in questo ha avuto il massimo dei punti.» Riker gettò la relazione sulla scrivania. «Il dottor Kane ha paura delle donne, specialmente di quelle con la pistola. Probabilmente quel ciarlatano se la fa addosso ogni volta che la vede.» «Conoscevi il contenuto della relazione prima di me. Te l’ha detto lei, giusto?» Jack Coffey alzò una mano per fargli capire che non voleva sentire balle. Mallory era in grado di penetrare in qualsiasi banca dati e la squadra aveva dolorosamente sentito la mancanza della sua abilità informatica. Durante la sua assenza i detective si erano ridotti a mendicare i mandati. La finestra che occupava la parte superiore di una parete era schermata da una grande veneziana. Il tenente sollevò una stecca per osservare di nascosto la sala operativa e il più giovane dei suoi detective insignito del distintivo d’oro. Non era l’unico a guardare Mallory. Anche gli altri poliziotti le lanciavano occhiate furtive. Si stavano chiedendo se avrebbero ancora lavorato con lei? Ormai bastava che entrasse nella stanza perché la tensione salisse alle stelle, e questo doveva finire. A giudicare dall’apparenza, era sempre la stessa. Come al solito portava una maglietta di seta e il blazer fatto su misura. Anche i blue-jeans erano firmati e le scarpe da corsa costavano più della rata mensile dell’auto del tenente. Mallory avrebbe “indossato” il denaro se avesse potuto, per sbattere in faccia a tutti che forse era corrotta, sebbene il tenente sospettasse che in realtà fosse quasi del tutto onesta. I capelli biondi erano pettinati nel solito modo e inquadravano una maschera di porcellana con alti zigomi da gatta. Così bella. Così terrificante. Chissà quanto costava quel taglio di capelli! Ma perché non si ribellava? Come condizione per la riabilitazione, l’aveva umiliata trasformandola nella servetta della squadra. E durante quel primo mese di sospensione lei aveva svolto tutti i lavori più rognosi senza lamentarsi: compilare i rapporti e archiviarli, fare le telefonate per verificare gli indizi dei colleghi, sempre inchiodata a un computer. Accettava quella punizione quotidiana senza un cenno di insofferenza, nemmeno un sopracciglio inarcato. Quindi come contava di vendicarsi di lui? E quando sarebbe successo? Il tenente la osservò mentre esaminava una montagna di carte. Sapeva che le pile di fogli erano allineate esattamente a un centimetro dal bordo del tavolo. Il suo soprannome era Mallory l’Automa, e si adattava bene al colore innaturale degli occhi, un verde elettrico. Terminato il lavoro, rimase seduta. Così immobile. Così tranquilla. Il tenente non riusciva a impedirsi di pensare che fosse caricata a molla. Jack Coffey era un uomo molto paziente. Lei si girò dalla sua parte e lo sorprese a spiarla. La stecca della veneziana si chiuse bruscamente e il tenente si allontanò dalla finestra. «Le regole non le faccio io» disse al collega di Mallory. «Niente lavoro sul campo senza l’autorizzazione di uno strizzacervelli.» «È tutto a posto.» Il detective Riker infilò una mano in tasca ed estrasse dei fogli piegati in due. «Charles Butler ha firmato per lei. Ufficialmente sana di mente.» D’accordo, Butler aveva più lauree e specializzazioni di Dio, ma non bastava. «Charles sa perché ha mollato il lavoro?» «Può darsi che sia scritto qui, da qualche parte.» Riker aprì la nuova relazione psichiatrica e la sfogliò come se ne ignorasse del tutto il contenuto. Patetico. Jack Coffey gli strappò i fogli di mano senza nemmeno guardarli. Sapeva che sarebbe stato tutto in ordine e che quella nuova valutazione avrebbe avuto la meglio su quella negativa del dottor Kane. Lo psicologo personale di Mallory possedeva credenziali migliori di qualsiasi strizzacervelli della polizia, ma quel poveretto aveva un’unica debolezza: Kathy Mallory. Se la ragazza si fosse messa ad abbaiare alla luna, Charles Butler avrebbe detto che stava attraversando una giornata storta. «Non basta, Riker. Non può rientrare in pista così, come se non fosse successo niente.» Parole sciocche. Desiderò non averle dette, perché era esattamente quello che Mallory aveva fatto. Quattro settimane prima era ricomparsa nella sala operativa, volteggiando accanto alla porta come un fantasma in visita. Quando aveva avuto gli occhi di tutti addosso, era andata a sedersi alla sua vecchia scrivania vicino alla finestra, una posizione molto ambita, ma che nessuno aveva osato occupare durante la sua assenza. In quei mesi gli altri detective avevano evitato persino di avvicinarsi alla scrivania, quasi vi aleggiasse il suo spirito, e qualcuno aveva commentato che lì l’aria era più fredda. La mattina del ritorno di Mallory, nella sala operativa era calato un silenzio mortale. Quindici uomini armati erano rimasti seduti senza reagire, come ostaggi in attesa che esploda una bomba. Alla fine era stato Riker, la cui postazione si trovava davanti a quella di Mallory, a parlare. «Il caffè fa schifo da quando te ne sei andata.» Infatti solo Mallory si ricordava di lavare il bricco. Ora, deciso come sempre, disse al suo capo: «Vuole che se ne vada?». «Per il momento resta alla scrivania.» Il tenente sollevò una stecca della veneziana e ricominciò a vegliare sulla sala operativa. Era arrivata la signora Ortega. La vide portare una sedia vicino a quella di Mallory e accomodarsi per fare conversazione. Be’, era normale. Le due donne condividevano la mania per l’ordine e la pulizia. Il tenente notò che la scrivania di Mallory era sgombra. Aveva finito il lavoro. Quante ore aveva dedicato a inventare nuove cose da darle da fare? Si era trattenuto solo dal metterle in mano una scopa e una paletta. Non che a Mallory sarebbe dispiaciuto usarle. Riker si accasciò su una sedia. Come unica concessione al grado del suo superiore, non aveva acceso la sigaretta che gli penzolava dalla bocca. Abbattuto, il detective fissava il televisore in un angolo dell’ufficio dove scorrevano immagini senza audio di topi e gente che correva. «Perché non manda Mallory a Central Park? Lì non potrà fare danni. Nella peggiore delle ipotesi... troverà una bambina perduta.» Il sorriso di Jack Coffey parlava chiaro: col cazzo. «Ho appena sentito al telefono i poliziotti del parco. Tutti i bambini della scuola estiva sono stati trovati.» «E quella di cui ha parlato la signora Ortega?» «No, lei no.» Quella presentata dalla donna delle pulizie di Charles Butler era l’unica denuncia di persona scomparsa della giornata... un dannato folletto. «Immagino che la signora Ortega abbia pensato di avvalersi dell’infermità mentale dopo aver massacrato quel pedofilo.» «Ho sentito!» La donna apparve sulla porta, con la mascella protesa in segno di sfida e pronta alla lotta. «Ho detto solo che la bambina sembrava un folletto.» Infilò una mano in tasca e tirò fuori una statuetta. «Come questo.» La piccola creatura di ceramica aveva un grande sorriso, riccioli rossi e le ali di una mosca gigantesca. «L’autista del sindaco mi ha accompagnato a casa a prenderla.» Entrò nell’ufficio e posò la statuetta su un angolo del tavolo. «Fatele una foto. È identica a quella bambina.» «Quindi, anche lei aveva le ali?» Coffey guardò il suo detective. «Riker, hai omesso questo dettaglio nel tuo rapporto. E cos’è questa cazzata sulla limousine del sindaco?» «Niente ali» ribatté la signora Ortega. «È solo una bambina sperduta. Aveva del sangue sulla maglietta. Questo era nel rapporto di Riker?» «Sangue?» Il tenente sorrise. «Magari schizzato via dalla sua fidata mazza?» «No!» La signora Ortega trattenne il fiato, contò fino a dieci e lasciò da parte la spacconeria da newyorkese; la faccenda le stava a cuore. Con tono più calmo e conciliante precisò: «C’era del sangue sulla bambina prima che io facessi a pezzi quel pervertito». «Allora probabilmente è un’allieva della scuola del New Jersey» disse Coffey. «Mentre era in cella, i poliziotti del parco le hanno parlato dell’invasione di topi a Sheep Meadow?» «Quelle bestie erano a terra. Il sangue era sulla spalla della maglietta, e solo lì.» La signora Ortega incrociò le braccia. Il telefono squillò e Riker alzò la cornetta come se aspettasse una chiamata sulla linea privata del tenente. «Sì?... Oh, già.» Il detective ascoltò qualche istante, poi annunciò: «Capo, è il sindaco. Vuole parlare con lei». Un topo cadde dall’alto squittendo e atterrò con un tonfo ai piedi di Coco. Non era la prima volta che assisteva a quel miracolo. La creatura priva di vita giaceva col ventre pallido rivolto all’insù e gli occhi luccicanti guardavano il cielo da cui era arrivato. Goccioline rosse scivolarono nella polvere sotto l’albero. Il topo si contorse e Coco rabbrividì. Sentiva battere il cuore. Un movimento convulso e, magicamente rianimato, il topo sgattaiolò nel sottobosco frusciando tra la vegetazione ed emettendo squittii metallici. Come nel gioco delle belle statuine, Coco si immobilizzò e il suo cuore – da dum, da dum, da dum – si mise a battere più forte e più veloce. Il tenente Coffey si sedette alla scrivania. Conclusa la telefonata col municipio, rivolse alla donna delle pulizie un sorriso diplomatico. «Il sindaco la adora, signora Ortega.» In effetti il personaggio politico più importante della città era diventato un suo grande ammiratore, felice che fosse stato un cittadino qualsiasi, e non un poliziotto, a spaccare le ossa al pedofilo sotto gli occhi di decine di testimoni, quasi tutti di età inferiore ai sei anni. Inoltre il sindaco si illudeva che l’eroismo della signora Ortega potesse compensare la pubblicità negativa derivante dalla notizia di una donna divorata dai topi nel parco. Che ingenuo! «Il sindaco mi ha detto che il suo autista doveva portarla in municipio, non a Brooklyn. Da un pezzo la aspettano per le fotografie e una conferenza stampa.» «Ma le ho già spiegato che dovevo andare a casa a prendere il mio folletto» ribatté lei. «Certo, e per questo la ringrazio.» Jack Coffey osservò la statuetta appollaiata sull’angolo della scrivania e scelse le parole con cura, evitando di dirle che il folletto scomparso avrebbe dovuto ammazzare almeno tre persone prima di suscitare l’interesse della Crimini Speciali. Allargò diplomaticamente le mani, un tipico gesto newyorkese per mostrare che non portava armi né malanimo. «La limousine la attende qui sotto... e anche il sindaco aspetta... e le televisioni.» «No.» La signora Ortega scosse la testa. «Non me ne vado finché lei...» «Dirò alla polizia del parco che manca ancora una bambina.» Coffey prese la statuetta. «E manderò una foto di questa, okay?» «Oh, certo.» La piccola donna si appoggiò allo schienale per fargli capire che non intendeva affrettarsi. Al diavolo il sindaco. Il tenente ebbe appena il tempo di ruotare la testa che si trovò accanto la detective Mallory, come se si fosse materializzata all’improvviso da un altro pianeta. Era un suo trucco per spaventarlo, Coffey lo sapeva, e stava per rispedirla alla sua scrivania quando lei sorrise. Non era mai un buon segno. «Mi domando» disse Mallory col tono spiccio con cui si chiede l’ora «se il sindaco sia proprio così ansioso di vedere la signora Ortega.» Jack Coffey la fissava affascinato, pur sapendo cosa stava per succedere. Il suo gioco era il ricatto. La giovane detective voleva uscire dalla gabbia e riponeva troppa fiducia nella sua seconda valutazione psicologica. «Quella bambina è malata» dichiarò Mallory. «Ha la sindrome di Williams.» «Esatto» confermò la signora Ortega. «Charles Butler dice che non ritroverà mai la strada di casa da sola. Non si può lasciarla vagabondare nel...» «Un momento, maledizione» la interruppe Coffey stizzito. «Anche Charles l’ha vista?» «No» rispose la signora Ortega. «L’ho chiamato mentre andavo a Brooklyn e lui ha fatto la diagnosi al telefono... il telefono dell’auto del sindaco.» Il tenente sospirò. «Forse sarebbe meglio trovare quella bambina.» Mallory aveva un tono noncurante. «I pedofili amano Central Park. Se venisse stuprata, la giornata del sindaco finirebbe in un disastro.» Inutile aggiungere che, attraverso la signora Ortega, ora Mallory poteva arrivare direttamente al sindaco. Nemmeno la parola vendetta fu pronunciata ad alta voce. Negli anfratti più bui del cervello di Jack Coffey un diavoletto saltellava su e giù strillando: “Spara a Mallory! Sparale subito!”. Invece il tenente si rivolse alla donna delle pulizie con un sorriso forzato. «Okay, è il massimo che posso fare. Assegnerò dieci agenti alla ricerca di quella bambina. Va bene?» La signora Ortega si alzò, si protese sulla scrivania e indicò col pollice i detective dietro di lei. «Se ci mette dentro anche questi due, affare fatto.» Mallory sedette accanto a Riker e stese le sue lunghe gambe. Aprì l’orologio da taschino, un oggetto antico ereditato dal grande poliziotto defunto Lou Markowitz. Di solito lo tirava fuori per vantare le generazioni di poliziotti susseguitesi nella famiglia del padre adottivo, nonché per riscuotere favori dovuti a quel grand’uomo. Il giorno del suo ritorno aveva posato l’orologio sulla scrivania, come una supplica e una sfida per farsi riaccettare. Ora invece lo esibiva per alludere al tempo che passava. Il sindaco in attesa doveva essere ormai furibondo, sul punto di esplodere. Jack Coffey alzò le spalle, gesto equivalente a sventolare la bandiera bianca della resa. A volte perdere era bello. Il fallimento poteva essere così riposante. La sua emicrania da stress si dissolse prima che i detective partissero per Central Park. La signora Ortega fu mandata al municipio – un problema risolto – e sulla bilancia di quella giornata vincite e perdite più o meno si pareggiarono. Il tenente lasciò passare mezz’ora prima di alzare il volume del televisore. Era sintonizzato sul canale cittadino e si aspettava di vedere la stramaledetta donna delle pulizie e il sindaco in conferenza stampa. Vide invece Columbus Circle e il fiume di veicoli che arrivavano dalle strade circostanti. La telecamera restrinse il campo e si spostò sulla spianata di Merchant’s Gate inondata dal sole, l’ingresso sudoccidentale del parco. Poi inquadrò un monumento, un’alta stele con in cima la statua dorata di Columbia Trionfante sul carro trainato da tre cavallucci marini. La telecamera restrinse l’inquadratura sul viso di un bambino assediato dai microfoni. Così il tenente venne a sapere del secondo avvistamento di folletti della giornata. Il piccolo sullo schermo ricorse a un famoso personaggio delle favole per descrivere la bambina ancora dispersa nel parco. «Ma non era bionda come Campanellino. Lei aveva i capelli rossi.» Con un sorriso sornione annunciò compiaciuto il dettaglio più sensazionale, che aveva tenuto per ultimo: «Era coperta di sangue!». Oh, magnifico. Davvero magnifico. «Scommetto che ti stai chiedendo come faccio a sapere che menti.» Mallory lo disse con una certa dolcezza, ma Riker ebbe la netta sensazione che fissasse il bambino come un gatto guarda la preda, evitando gli occhi. Probabilmente vedeva il bambino come un pezzo di carne con un berretto da baseball in testa. Lo scolaretto non capì subito di non essere più al sicuro in compagnia di cronisti sorridenti e solleciti. Quella bionda alta era una creatura del tutto diversa, e lui era nei pasticci. La guardava a bocca aperta, come se Mallory superasse in grandezza la statua dorata di Columbia, che era solo più grande del normale. Mallory prese per mano il bambino e girò intorno al monumento che segnava l’ingresso a Central Park. Riker li seguì da vicino, per nascondere il rapimento alle telecamere schierate sull’altro lato dello spiazzo dove i giornalisti stavano intervistando gli altri bambini del New Jersey e l’autista del loro pullman. Intanto i suonatori di strada tentavano di superare il frastuono dei clacson del traffico impazzito. Le auto erano bloccate intorno a Columbus Circle e gli agenti correvano lungo il bordo dello spiazzo sventolando i libretti delle multe davanti ai furgoni dei media parcheggiati in seconda fila. La gente si accalcava tutt’intorno per guardare quel circo e dal nulla spuntarono i venditori di cibo per rifocillare i curiosi. Nessuno si accorse del bambino portato via dai detective. «Ma era sporca di sangue» piagnucolò il piccolo, pur senza cedere alle lacrime e meritandosi così dei punti da Riker. Continuava a tenere gli occhi bassi, segno sicuro che si sentiva in colpa. «Per l’ultima volta» lo avvertì Mallory come se avesse l’autorità per mandarlo all’inferno «dimmi cosa...» «Lui ha mentito.» Un’altra scolaretta, una bambina con la coda di cavallo, sbucò da dietro le spalle di Riker e si avvicinò a Mallory dicendo: «Non era coperta di sangue». Si mise le mani intorno alla bocca e sussurrò: «C’era solo un po’ di sangue». Indicò la sua maglietta e descrisse le macchioline rosse sulla spalla e su una manica della bambina scomparsa. «Qui, e anche qui. Oh, e si chiama Coco.» Riker aprì il taccuino. «Coco, eh?» Prese nota del nome e restò con la penna sospesa. «Quindi... a proposito del sangue, hai visto una ferita o un taglio?» «No, era solo sporca ed era così.» La bambina si infilò due dita agli angoli della bocca e la tirò in un sorriso da zucca di Halloween, coi buchi dei denti caduti. «Be’, questo quadra.» Riker mostrò la fotografia della statuina della signora Ortega a quella testimone piuttosto attendibile. «Coco assomigliava a...» «È lei!» strillò la bambina saltellando su e giù eccitata. «Mi ero scordata delle ali!» Riker sospirò. E il bambino, il bugiardo dichiarato, annuì. «Già, aveva le ali.» Ficcò le mani in tasca e guardò il cielo con disinvoltura. «Ormai sarà già arrivata in Messico.» Mallory si chinò, avvicinando il viso a quello del bambino. Non aveva scampo, non c’era pietà. Riker rabbrividì. «Dimmi una cosa» lo aggredì. «Quelle macchie sulla maglietta di Coco, il sangue, lo hai visto prima che i topi mangiassero la signora Lanyard?» Il bambino fremette e sbarrò gli occhi come se gli fosse scoppiato un palloncino. Evidentemente quando era scappato non si era voltato indietro e i giornalisti non avevano voluto turbarlo comunicandogli che la sua vecchia maestra era morta. Si mise a piangere, a grandi lacrime inarrestabili. Questa fu la sua risposta alla domanda e i detective si avviarono verso l’ingresso di Central Park. Se qualcuno glielo avesse domandato, Coco avrebbe detto di aver percorso quattrocentocinquantacinque chilometri in mezz’ora per attraversare un tratto di parco equivalente a quattro isolati. Per lei spazio e tempo erano concetti arbitrari, sebbene cercasse sempre di essere precisa con i numeri. Seguiva a quattro passi di distanza una donna che non aveva ancora visto in faccia e stava pensando di chiedere a quella sconosciuta di tenerla per mano. Sentiva un bisogno disperato di stringersi a qualcuno, chiunque. Era un giorno fluttuante in cui nulla sembrava ancorarla al mondo reale, e non riusciva più a trattenere le lacrime. La sua attenzione fu attratta da un uomo in camicia blu e pantaloni grigi, lo stesso abbigliamento dello zio Red. Ma non poteva essere lui. Lo zio Red si era trasformato in albero. La donna davanti a lei si fermò e guardò in alto. Durante i vagabondaggi nel parco, di notte e di giorno, Coco aveva notato che nessuno guardava mai in alto, solo quella donna. Forse aveva udito il pianto di un albero. A volte gli alberi piangevano. Ma non questo. Oh, e ora scese la pioggia rossa, solo poche gocce che finirono sulla schiena della donna. «Sei sporca» disse Coco. «Hai delle macchie rosse, come le mie.» La donna si girò e un topo cadde dall’albero e atterrò sulla sua testa. Strillando la donna cercò di liberarsi, ma il topo era impigliato tra i capelli e cominciò a strillare anche lui. Spaventata, Coco si sollevò sulle punte come per spiccare il volo e schizzò via di corsa, sfiorando appena il terreno con i piedi, più veloce di quel suono, cercando di cacciarlo via dal cervello. Udì dei passi, troppo pesanti per un topo; nemmeno tutti i topi del mondo avrebbero potuto fare tanto rumore. Ma non si voltò a guardare, e dopo molto tempo, un’eternità, si ritrovò al sicuro tra i leoni. 3 A scuola sono avanti di due anni. Così sono in classe con tutti e tre. Nell’ora di storia Aggy la Morsicatrice si siede vicino a me e fa battere i denti. Ogni tanto allunga una mano e mi pizzica. Per saggiare la carne? Ernest Nadler Viaggiare a rotta di collo sarebbe stato più eccitante su un’auto vera, giacché Mallory usava raramente la sirena e preferiva spaventare gli automobilisti con incontri ravvicinati che minacciavano la vernice e i fanali posteriori. Quel giorno però doveva limitarsi alla velocità massima concessa dal piccolo veicolo del parco, una specie di golf cart nobilitato, con un motore grosso come una nocciolina. Riker faceva il navigatore, consultando la mappa di stradine, sentieri serpeggianti e viali principali che attraversavano Central Park. Mentre viaggiavano in direzione nord segnò con una X il nuovo punto di riferimento della città, il luogo dove un branco di topi aveva divorato una turista. Stavano avvicinandosi al parco giochi nei pressi della Sessantottesima, la zona dove la signora Ortega aveva visto la bambina scomparsa. Riker guardò l’orologio. Erano passate ore dall’assalto dei topi nella radura sull’altro lato di West Drive. «Non la troveremo mai qui intorno. I bambini si spostano in fretta.» Il detective disperava di localizzare la bambina in un parco che era lungo molte miglia, largo uno e mezzo e conteneva un milione di alberi tra i quali nascondersi. Mallory invece guidava il cart con sicurezza e fiducia. «Cosa sai che io non so?» le domandò. «Coco non si nasconde. Cerca un contatto con la gente e resterà su questa strada.» Sull’argomento dei bambini perduti la sua collega era in posizione di vantaggio perché era stata una di loro, ammesso che fosse mai stata una vera bambina. Era arrivata a casa dei Markowitz all’età di dieci o undici anni, fornita di un kit completo per la sopravvivenza. I genitori adottivi, Lou e Helen, non erano mai stati certi della sua età, anche perché fin da piccola Kathy Mallory era una geniale simulatrice. Tuttavia Riker pensava che rubare fosse stata la sua specialità negli anni dell’infanzia. Suscitare terrore era un talento sviluppato in seguito. Superata l’uscita sulla Settantasettesima, Mallory premette l’acceleratore a tavoletta e saltò il bordo del marciapiede puntando su due ragazzi con gli skateboard in mano. Portavano ginocchiere, polsiere e caschi, ogni protezione possibile fornita dai genitori per tenere in vita la prole a New York. Quei due erano adolescenti; ciò nonostante, qualcuno li amava. Quando il cart inchiodò bruscamente a un centimetro dalle loro rotule, i due risero. Nessuno spavento, nessun timore, perché quello era un giocattolo, non una macchina vera. Poi smisero di divertirsi. Avevano incrociato gli occhi di Mallory. Oh, merda. Non ci fu bisogno di parole. Lei semplicemente annuì per dire: Sì, sono un poliziotto. Sì, ho una pistola... grossa. Piegò la testa di lato e sorrise, chiedendo tacitamente se per caso avevano in tasca dell’erba che poteva interessarle. Era così facile con gli adolescenti. Riker mostrò il tesserino e indicò ai due di passare dal suo lato del cart. Cercò in tasca la fotografia della statuetta della signora Ortega. «Okay, ragazzi, funziona così. Se fate i furbi, la mia collega vi spara. Stiamo cercando una bambina perduta. Assomiglia un po’ a questa.» Mostrò la foto e, notando un sorrisetto, lesse nella mente di uno dei ragazzi. «Niente battute sulle ali.» Con un cenno del capo indicò Mallory. «Lei non ha pietà.» «Sì, abbiamo visto una bambina così» disse quello più alto. «State andando nella direzione giusta.» Puntò il dito dietro di sé, da dove era arrivato. «Prendete il primo sentiero a destra. Correva verso est.» «È entrata nel Ramble?» Riker si riparò gli occhi per guardare la zona boscosa, un tempo covo famigerato di drogati, rapinatori armati di coltelli e pistole e maniaci sessuali armati di pietre. Ora la foresta era diventata un paradiso per gli osservatori di uccelli, i podisti e le nonne. «Quanto tempo fa?» «Forse un’ora... mezz’ora.» «Tu parla con me.» Mallory fissò il viso colpevole dell’altro ragazzo. «Che altro è successo?» Lui abbassò gli occhi sull’erba, poi li alzò al cielo. «Voleva farsi abbracciare.» «Ma era sporca» disse Mallory scendendo dal cart. «Probabilmente una vagabonda.» Aveva la voce piatta. «E tu temevi di beccarti qualcosa... pulci, pidocchi.» Girò intorno al ragazzo, gli strappò di mano lo skateboard e lo gettò sotto le ruote del cart. Lui evitava di guardarla. «La bambina aveva del sangue sulla maglietta ed era spaventata, no? Ma voi avevate dei progetti per la giornata, dovevate andare da qualche parte... non avevate tempo per chiamare la polizia.» Mallory aprì la mano e sul palmo c’era il costoso cellulare del ragazzo. Lui lo guardò sbalordito mentre si toccava la tasca posteriore dei jeans. «Pensi che riuscirei a lanciarlo in acqua da qui?» Mallory guardò il ramo del lago cintato dalla rete di plastica arancione di un cantiere e soppesò il telefono sulla mano. «Raccontami.» Il ragazzo rivolse un’occhiata preoccupata a Riker, che alzò le spalle per dire: Ti avevo messo in guardia. Fu l’altro a parlare per primo, forse temendo per il suo cellulare. «La bambina era un po’ strana. Credevo che si sarebbe messa a piangere quando...» «Quando il tuo amico l’ha scacciata?» Bastò che Mallory incrociasse le braccia perché tutti e due cominciassero a parlare insieme, e ora all’improvviso ricordavano che Coco era corsa verso un altro visitatore del parco. «Abbiamo pensato che l’avrebbe chiamata lui, la polizia.» «Già» fece Riker sarcastico. «Sicuro.» Vigliacco bugiardo. Il ragazzo arricciò le labbra in un ghigno come per dire: e allora? Compiacersi di mentire alla polizia poteva avere delle conseguenze, ma invece di scuotere quel piccolo bastardo fino a fargli cadere i suoi bei denti bianchi, Riker gli voltò le spalle e risalì sul cart. Udì il rumore di un tonfo seguito da un «Oh, merda! Il mio telefono!». Mallory era già al posto di guida e il veicolo partì di scatto, accompagnato dal piacevole scricchiolio dello skateboard sotto una ruota. I detective si inoltrarono in una stradina ed entrarono nel bosco alla velocità supersonica di forse neppure un miglio all’ora. Il Ramble comprendeva trentotto acri fitti di alberi e vegetazione rigogliosa, un’area bellissima e scoraggiante. Sulla mappa di Riker era un deprimente labirinto di sentieri serpeggianti. «Non la troveremo mai qui dentro.» «Sì che la troveremo. Scappa perché ha paura. Sceglierà i percorsi più facili.» A ogni incrocio Mallory si teneva sul sentiero più ampio e rallentava solo per guardare da vicino la rete di cinta metallica. Si fermò dove una parte di recinzione era stata abbattuta. Era una delle prime cose che le aveva insegnato Lou Markowitz: fermarsi sempre a osservare qualsiasi cosa fuori posto. Poi ripartì. Quando uscirono dal Ramble e si ritrovarono all’aperto presso il Boathouse Café, sul lato est del lago, Riker rispose al cellulare. «Sì?» Guardò la sua collega. «Stiamo andando nella direzione giusta. Hanno avvistato il folletto sul Mall.» Oltre il lago con le barche e le anatre, oltre Bethesda Terrace, scesero lungo il viale accompagnati dalle note di un sassofono provenienti dal vecchio padiglione della banda. Quattro persone stavano correndo nella loro direzione, spaventate e più veloci del cart. I detective proseguirono e imboccarono il grande viale bordato di alberi giganteschi, panchine e lampioni risalenti all’era del gas. Viaggiavano sotto un baldacchino di rami frondosi e sentivano la musica Dixieland di una band che sembrava ritmare la fuga della gente dal parco. La musica si interruppe quando Riker mostrò il tesserino. «Falso allarme» disse il suonatore di banjo indicando il cellulare. «Pensavamo che la bambina si fosse persa, ma poi si è riunita a un gruppo di turisti.» E il trombettista aggiunse: «Sono andati allo zoo. Gli ho spiegato io come arrivarci». Il cart ripartì, con il pedale premuto fino in fondo. «Ferma!» strillò Riker. Frenarono per lasciar passare un’orda di topi. «No, non ci credo.» Nel suo quartiere di SoHo i roditori erano dei dilettanti che non mettevano il naso fuori prima delle dieci di sera ed evitavano le persone. Non si facevano vedere, tranne gli occhietti brillanti che riflettevano le luci della strada dal buio dei vicoli o da dietro i bidoni della spazzatura. Ogni tanto Riker ne scorgeva uno che correva lungo un muro, ma non aveva mai visto un esercito di ratti che galoppavano compatti, con le schiene arcuate e guizzanti. Senza dubbio erano i cannibali scappati da Sheep Meadow. Ormai il sentiero era quasi sgombro, ma uno di loro si fermò davanti al veicolo, si rizzò sulle zampe posteriori e li guardò, assolutamente senza paura, quasi ammirevole. Mallory gli passò sopra. I detective entrarono nello zoo a piedi e invece di mostrare la fotografia del folletto decisero di limitarsi a descrivere una bambina con i capelli rossi e la maglietta sporca di sangue. Lì, al riparo dalle grida isteriche della gente e dai topi cannibali, non c’era traccia di panico. Un tranquillo visitatore indicò la vasca di cemento al centro dello spiazzo dove i leoni marini poltrivano sulle rocce, sonnecchiando al sole di mezzogiorno. E là, sulla gradinata intorno al recinto, c’era la bambina. Tenendosi a debita distanza, un dipendente dello zoo le stava consegnando il gelato tradizionalmente offerto ai bambini dispersi. Mallory gridò: «Coco!». La piccola lasciò cadere il cono e corse verso di loro, ridendo e piangendo, con le gracili braccia tese. La disperazione su quel visetto sporco rattristò Riker. Un abbraccio era come l’ossigeno per lei, una sostanza vitale. Le era necessario. La signora Ortega aveva ragione: Coco era priva di istinto di sopravvivenza. Quella bambina ingenua aveva scelto la sua collega come fonte di calore e conforto. Coco circondò con le braccia la detective alta e bionda, e lei non solo tollerò il contatto ma sorrise a quella povera piccola sporca di sangue che sanciva il suo ritorno al lavoro sul campo. Le giornate alla scrivania erano finite. La bambina smarrita era stata ritrovata e la notizia avrebbe occupato le prime pagine dei giornali, riducendo il danno al turismo causato dai topi assetati di sangue. Il sindaco sarebbe stato molto riconoscente. Muri di mattoni rossi, alberi e fiori circondavano il cortile del caffè dello zoo. La gente che pranzava subiva gli assalti di orde di bambini sgambettanti rincorsi da giovani madri esauste. Altre donne meno giovani, madri veterane, aspettavano sedute che le batterie dei loro figli si scaricassero. E i piccioni mendicavano a ogni tavolino. Coco, un’affabulatrice nata, tra un morso e l’altro all’hot dog aggiungeva dettagli alla sua odissea attraverso Central Park. A nessuna domanda rispondeva senza ricamarci sopra con la fantasia. Riguardo alle macchie sulla maglietta, disse: «Il sangue viene da dove vengono i topi». Indicò verso l’alto. «Ci sono topi che vivono in cielo.» Guardò Riker e Mallory, intuendo che non le credevano. «Alcuni lo fanno» aggiunse con dignità. «A volte piovono topi, a volte piove sangue.» Alzò una spalla sottile per far capire che quel fenomeno atmosferico era un po’ assurdo. L’indulgenza di Mallory si stava esaurendo. «Hai visto i topi e la donna che...» Riker alzò una mano per bloccare la descrizione raccapricciante della fine della signora Lanyard. «Così hai visto tutti quei topi sulla radura, eh?» «Sì. Poi sono scappati tutti. E anch’io.» Nella versione della bambina, qualche dozzina di ratti si trasformò in un’orda di migliaia, ed erano grandi come case e con denti lunghi come le sue braccia. «I topi sono animali molto prolifici.» Riker si chiese quanti bambini di sei anni avessero prolifico nel loro vocabolario. «Di chi è quel sangue?» Mallory non era tipo da credere ai topi che cadono dal cielo e alla pioggia di sangue. «È il sangue di Dio» disse Coco. Riker guardò le macchie rosse. La forma allungata faceva pensare che fossero gocce cadute dall’alto, ma quasi tutto era più alto di quella bambina. «Dov’eri quando il sangue è caduto sulla tua maglietta?» «Nel parco. Ci sono tanti topi nel parco. Di solito non li vediamo perché sono animali notturni.» «Notturni? È una parola lunga per una bambina» osservò Riker. «Quanti anni hai?» «Otto.» Lo disse con fierezza, e forse era vero. Era più piccola della sua età, ma le sue parole erano più lunghe. Mallory mise il suo hot dog nel piatto di Coco e lei lo addentò come se non mangiasse da giorni. «Sei stata nel parco di notte? Per questo sai che i topi sono animali notturni?» «L’ho letto in un libro.» La bambina divorò il secondo hot dog. «Nonnina mi dava lezione tutti i giorni. Questo prima che andassi a vivere con lo zio Red. Ma quando è diventato buio, lui si è fatto consegnare al parco. Sono andata a cercarlo, ma lui si è trasformato in un albero.» «Quindi sei stata qui tutta la notte?» Riker stentava a crederci. «Da sola?» «Sì. Ho ascoltato l’albero tutta la notte... ogni notte. Sapete come piangono gli alberi? Non hanno la bocca e fanno un suono così.» Si coprì la bocca con le mani ed emise un gemito soffocato. Riker si sentì gelare per quel dettaglio realistico. Guardò di nuovo il sangue sulla maglietta. Di chi era? Con un tovagliolo Mallory tolse la senape dal mento di Coco, premiandola con quel piccolo gesto gentile come se addestrasse un cucciolo. «Andiamo a cercare lo zio Red.» Aveva sperato di trovare finalmente un lavoro a tempo pieno, ma non aveva in mano che un dannato telefono cellulare. Il fotografo l’aveva visto con i suoi occhi, ma nessun redattore avrebbe mai creduto che un topo fosse caduto dal cielo. Aveva scattato la foto con qualche secondo di ritardo, catturando solo l’immagine di un topo sulla testa di una donna. Aveva seguito le sue urla lungo un labirinto di sentieri prima di perderla di vista. Era la sua prima volta nel Ramble e, non essendoci indicazioni con i nomi dei sentieri, girava in tondo da circa un’ora. Camminando guardava l’immagine sul display, cercando qualche punto di riferimento per ritrovare il luogo dove la donna col topo in testa aveva iniziato la sua folle corsa. Finalmente individuò il sentiero giusto. Sì, era lì che aveva visto il topo venire giù dal cielo. Alzando gli occhi verso l’intrico dei rami, ammise che probabilmente il roditore era caduto da un albero, ma era comunque una notizia da sballo. Da quando i topi salivano sugli alberi? Guardò la fotografia sul piccolo schermo del telefono: l’immagine di una donna con un topo tra i capelli. Sullo sfondo c’era una figura più piccola, una bambina con i capelli rossi che guardava in su. Cosa? Altri topi arborei? Si piazzò nel punto esatto in cui si era fermata la bambina un’ora prima. Scrutando tra le fronde scorse una cosa verde, ma non fatta di foglie. C’era un grosso fagotto appeso a un ramo alto e – cazzo! – si muoveva. Un topo uscì da un taglio del sacco e scese saltando da un ramo all’altro. Un topo acrobata? Si fermò su un ramo basso per farsi fotografare. Clic. Grasso e goffo, riusciva appena a tenersi in equilibrio sulle zampette. Un topo ubriaco? Il pelo era umido e il topo si scosse come un cane quando esce dall’acqua, schizzando la camicia bianca del fotografo – oh, merda – di gocce di sangue. Mallory guidava un piccolo corteo di veicoli. Dietro i detective venivano due poliziotti di pattuglia e sul terzo cart c’era un guardaparco. La bambina sedeva in braccio a Riker e girava la testa da una parte all’altra per cercare, disse, un uccello morto. Stavano tornando a nord, al Ramble, seguendo quell’unico indizio criptico fornito da Coco: acqua legata con un grosso nastro arancione. Sicuramente la recinzione della squadra della manutenzione intorno a una parte del lago, lo stesso posto dove Mallory aveva gettato in acqua il telefono del ragazzo con lo skateboard. Mentre i tre cart percorrevano West Drive i detective appresero che il nome completo della nonnina di Coco era Nonna. Lo zio Red non aveva altri nomi. E quella bambina era sopravvissuta più di una notte nel parco. «Stop!» I cart si fermarono e Coco saltò a terra per ispezionare un’altra fontanella, la terza fino a quel momento. «È questa» disse indicando la vasca con l’uccello morto e senza occhi. Spaventata dal ronzio delle mosche che coprivano il piccolo cadavere, corse via premendosi le mani sulle orecchie. Mallory la chiamò e ripartirono, percorrendo sentieri che sarebbero stati impraticabili per veicoli più grandi. Coco non era in grado di dare indicazioni, ma Mallory pareva non averne bisogno e Riker immaginava dove stava andando. Si fermò nel punto in cui, durante il giro precedente, aveva rallentato per osservare la recinzione abbattuta, un particolare che poteva passare per un atto di vandalismo. Indicò la rete piegata. «Coco, l’avevi già vista?» «Non sono stata io» si difese la bambina. E Riker dovette sorridere, riconoscendo il marchio di fabbrica della sua collega. Coco scese dal suo grembo e annunciò: «Ci siamo». Il guardaparco li raggiunse. «La bambina dovrebbe restare sul cart. C’è un’invasione di topi nel Ramble. Per questo non si vede nessuno in giro. Sono scappati tutti.» «Qui siamo a mezzo miglio da Sheep Meadow» disse Mallory. «I topi non sono animali territoriali?» «Sì, signora, ma questi non sono gli stessi.» Puntò il dito verso est. «Il nostro nuovo derattizzatore ne ha stanato una colonia da un edificio sull’altro lato del Ramble. Invece di sterminarli, li ha drogati con i suoi prodotti chimici.» «Ha drogato dei topi... in un parco?» «Sì, signora» annuì il guardaparco, con un viso inespressivo e la voce piatta. «E quelle bestie ora sono scatenate.» «Be’, questo spiega molte cose.» Riker sistemò la bambina sul cart del guardaparco. «Okay, tesoro, tu resti qui a chiacchierare con questo signore.» Quando raggiunse la sua collega accanto alla rete abbattuta, il guardaparco gridò: «State attenti! Sono diventati molto aggressivi e mordono. Se ne vedete uno, non mettetevi a correre. Serve solo a incoraggiarli. Credo che godano nel veder correre la gente». Mallory indicò sul terreno i segni profondi di due piccole ruote che si sovrapponevano ad altre più superficiali. «Tracce di due copertoni. Di un veicolo piccolo, spinto a mano.» «Un carrello per le consegne. Coco ha detto che suo zio è stato “consegnato” al parco.» Le scarpe di Riker non lasciavano orme sulla terra asciutta. «Quindi il carrello è passato dopo la pioggia, quando il terreno era morbido.» «Ma non piove da giorni.» Mallory si chinò per esaminare la terra e le erbacce schiacciate dalle ruote. «Il carrello era pesante all’andata e molto più leggero al ritorno.» Alleggerito di un cadavere? Poteva essere quello dello zio di Coco? Prontamente convertita alla fede nei topi caduti dal cielo e nella pioggia di sangue, Mallory entrò nel folto degli alberi guardando in alto. Fu Riker a notare qualcosa di umano tra le foglie cadute, poi scorse il profilo di una faccia e, dopo aver scostato alcune felci, un uomo nudo coricato sul fianco. Con i polsi e le caviglie legati, il corpo era teso all’indietro come un arco. Riker lo toccò. Era freddo e rigido. Ultimo stadio del rigor mortis? L’occhio visibile era sprofondato nell’orbita e la pelle era bluastra. «Morto da manuale.» Riker chiamò il guardaparco babysitter. «Porta via la bambina!» Mentre il cart si allontanava con Coco, Mallory gridò ai due agenti: «Non fate passare nessuno! Intesi?». Con gli agenti di guardia accanto alla recinzione abbattuta, i detective esaminarono il corpo nudo. «Capelli castano scuro» disse Riker. «Non credo che sia lo zio Red. Forse dobbiamo trovare un altro cadavere.» Udì i topi prima di vederli: frusciavano nel sottobosco, poi uscirono allo scoperto, a dozzine. Il primo che saltò sul morto annusò la morbida squisitezza dell’occhio. Riker, che era armato di pistola e tutt’altro che impressionabile, si sentì drizzare i capelli. Rimase immobile, come Mallory, mentre i ratti giravano intorno alle loro scarpe per raggiungere il cadavere. «Via, via!» gridò agitando le braccia. Il gesto avrebbe dovuto disperderli, ma non se ne accorsero neppure. Quel giorno tutte le regole dei roditori erano sospese, tranne quella che portavano zecche, pulci e pestilenze fin dal Medioevo. E avevano denti molto aguzzi. La sua collega prese una pietra e ne centrò uno con un lancio da campione. Oh, benedetto Lou Markowitz che le aveva insegnato l’americanissimo gioco del baseball, che naturalmente lei aveva stravolto a modo suo. Calma e composta, Mallory infilò un guanto di lattice, prese il ratto sanguinolento per la coda e lo fece dondolare. Gli altri alzarono il muso a fiutare l’aria. Lei scagliò la sua vittima lontano, ben oltre gli agenti esterrefatti, facendola atterrare sul sentiero vicino ai cart. Per dare un esempio ai suoi simili? Non esattamente. Il branco si spostò verso l’odore di sangue fresco e si avventò sul ratto agonizzante. Sul sentiero c’era un frenetico carnaio di denti in movimento, schizzi di sangue e code vibranti. L’infanzia trascorsa in strada aveva insegnato a Mallory tutte le più orribili scorciatoie per liberarsi dei topi. Uno degli agenti gridò con voce giovane e speranzosa: «Possiamo sparare?». Se avessero scaricato le armi di servizio senza l’autorizzazione di un superiore, seppure per la giusta causa di preservare la scena di un crimine, avrebbero avuto un sacco di grane al dipartimento di polizia. Riker levò i pollici in risposta e i due ingannarono l’attesa facendo il tirassegno contro i topi. Tutt’intorno gli uccelli si alzarono in volo lanciando versi acuti. I topi superstiti non si mossero e continuarono a mangiare. I detective si inginocchiarono accanto all’uomo nudo. Riker valutò che il rigor mortis fosse iniziato da ore. Il corpo era gelido. La sparatoria in sottofondo continuava. I segni delle corde sui polsi e sulle caviglie erano incrostati di sangue secco: doveva aver lottato per liberarsi e probabilmente era stato proprio quel sangue ad attirare i topi. Da quanto tempo era lì? Dal mento del morto penzolava un pezzo di nastro adesivo. Un altro pezzo era appiccicato a un lato della faccia e tra le labbra c’erano dei fili di tela ruvida. Ancora spari. Mallory guardò in alto e Riker seguì il suo sguardo. I suoi occhi non erano più giovani e dovette strizzarli per mettere a fuoco un fagotto di stoffa verde appeso a un ramo alto dell’albero. In fondo a quel sacco vuoto c’era un grosso buco. Rinunciando all’unica vanità che gli restava, inforcò gli occhiali e vide i rami piegati e spezzati che avevano rallentato la caduta del corpo. La sua collega si chinò sul cadavere e con la mano guantata sfiorò i segni appiccicosi lasciati dal nastro adesivo intorno agli occhi e alla bocca. La pelle era irritata. «Ha strofinato la faccia contro il sacco per liberarsi.» E col nastro adesivo si erano staccati dei brandelli di pelle. Per quanto tempo quel poveretto era rimasto senza cibo e acqua? «Okay, abbiamo un modus operandi particolarmente crudele» disse Riker. «Guarda.» Indicò la cera che turava l’orecchio. «Il nostro assassino vuole annullare le percezioni sensoriali. Niente vista né udito, solo una lenta morte per inedia.» I detective udirono il ronzio prima di vedere gli insetti che sempre venivano a deporre le uova nella carne in decomposizione. La prima mosca si posò sull’occhio dell’uomo. Il morto batté la palpebra... poi urlò. 4 Prima che mi acciuffino, li avverto che ho dei superpoteri. Corro come un coniglio, tremo come una foglia e strillo come una femminuccia. I tre mi guardano... cosa diavolo? Ne approfitto per tuffarmi nella scia di un insegnante di passaggio. A pranzo mi girano continuamente intorno come dei taxi in attesa. Ernest Nadler L’uomo nudo ai piedi dell’albero aveva di nuovo perso i sensi. Un tubo lo collegava a una sacca di liquidi che un paramedico reggeva con una mano mentre con l’altra scacciava gli insetti. Il paziente era sospeso tra la condizione di cadavere e quella di vittima viva. «Il problema non è la denutrizione» disse il paramedico alla detective Mallory «e i morsi dei topi non lo uccideranno, ma la disidratazione è una brutta bestia.» «Quanto pensa che sia rimasto senza bere?» L’uomo si strinse nelle spalle. «Direi tre giorni al massimo. Con un tempo superiore sarebbe morto.» Lo avevano liberato dalle corde ma, quando lo misero sulla barella e lo caricarono sull’ambulanza, il corpo era ancora irrigidito nella posizione cui era stato costretto. Due agenti stavano appendendo agli alberi il nastro giallo della scena del crimine per delimitare l’area. Uno si fermò per gridare a un tizio: «Non è uno spettacolo! Sparisci!». Quello ribatté offeso: «Sono del “New York Times”!». Un cronista. In altri termini un soggetto che, secondo il codice non scritto del NYPD, il dipartimento di polizia di New York, poteva essere eliminato. Mallory tornò a guardare tra i rami alti dell’albero il sacco vuoto che i paramedici non avevano notato. Purché lo facessero all’esterno del nastro giallo, non le interessava se i suoi colleghi avrebbero sparato al cronista. Eccetto il ficcanaso del «Times», il panico aveva svuotato il Ramble da ogni presenza umana e lei sperava di poter tenere segreto il particolare del sacco. Ma il tizio del «Times» gridò: «Dovete venire con me! C’è un sacco su un albero con topi che entrano ed escono, e sono insanguinati!». «Da quando i topi si arrampicano sugli alberi?» Gli agenti sghignazzarono. I detective no. Si avvicinarono e Riker disse: «Controllate le macchie di sangue che ha sulla camicia». Lui strillò: «Sono un fotografo! Ho delle foto!». Mostrò il cellulare ai detective e indicò l’immagine sul display. «Vedete?» In un batter d’occhio il telefono era sparito. L’uomo fissava il suo palmo vuoto mentre Mallory faceva scorrere le fotografie, tra le quali c’era un ritratto di Coco, e le inviava al suo cellulare. L’uomo che aveva derubato stava cercando di ritrovare la voce e un tono adeguatamente indignato, quando lei disse: «Questo apparecchio è a prova di idiota. Come hai fatto a cancellare le tue preziose foto?». Ma guarda un po’, erano sparite... Be’, sono cose che capitano. Prima che l’uomo potesse darle della stronza, Riker intervenne. «Sta’ calmo, amico» lo ammonì allungando una mano. «E facci vedere il tesserino.» «Non ce l’ha.» Mallory lo aggredì. «Non sei un fotografo, almeno non un professionista. E io so che non lavori per il “Times”.» L’uomo retrocedeva a ogni passo che lei faceva verso di lui. «Tu speri di diventare un cronista, ho indovinato?» Lo aveva bloccato contro un albero. «Sei solo un pidocchioso freelance in cerca dell’occasione d’oro.» Sorrise battendogli una lunga unghia rossa sul petto. «Io posso aiutarti.» Anche lui sorrise. Mallory li condusse in una piccola radura con un cavalletto da pittore abbandonato sull’erba. Forse era Tupelo Meadow, ma non ne era sicura. Quando lei era piccola, il Ramble era un posto pericoloso, il covo di ogni forma di depravazione, una discarica di rifiuti umani e siringhe sporche di sangue e di eroina. In seguito al boom immobiliare nell’Upper West Side, gli edifici occupati abusivamente erano stati trasformati in condomini, e i drogati erano stati costretti a cambiare zona. In una giornata estiva normale, il parco sarebbe stato pieno di turisti e di newyorkesi che prendevano il sole e davano da mangiare agli scoiattoli e agli uccelli. Ora invece c’erano solo oggetti abbandonati dalle persone in fuga: lattine, occhiali da sole, un sandalo, un giocattolo. La radura deserta confermava quello che aveva detto l’uomo: i topi erano arrivati anche lì, e tanti. L’aspirante cronista approvava con cenni del capo mentre Mallory gli spiegava le regole base del giornalismo: la verità era sopravvalutata; le informazioni valevano denaro; lui avrebbe usato tutte quelle che lei gli avrebbe fornito, parola per parola, e nient’altro. Si inoltrarono tra gli alberi e si fermarono sotto quello da cui era gocciolato il sangue che aveva macchiato la camicia dell’aspirante giornalista, che proprio lì fu promosso valletto di Mallory. Dopo avergli ispezionato le mani per accertarsi che fossero pulite, gli concesse l’onore di reggerle il blazer. Poi balzò su un ramo basso e si issò sull’albero, arrampicandosi fino all’altezza del sacco. Era almeno a sei metri da terra, tenuto fermo da una corda fissata con un cappio a un ramo più basso. Il resto della corda era arrotolato nella forcella tra tronco e ramo. Mallory sciolse la corda e la lasciò cadere. Arrivava abbondantemente fino a terra. Lunga a sufficienza. Il fetore proveniente dal sacco indicava che quella vittima non era fresca. Da un buco nella stoffa intravide carne verdastra rosicchiata. Non c’era sangue sulle ferite. I topi erano arrivati dopo la morte; però si scorgevano schizzi rosso scuro su altre parti del corpo. Forse i topi avevano rosicchiato un’arteria dove il sangue era ancora allo stato liquido. Mallory gridò agli agenti: «Afferrate la corda e tirate!». Ubbidirono. Al primo strattone il nodo sul ramo inferiore si sciolse e il sacco precipitò per un paio di spanne prima che gli agenti ne arrestassero la caduta. «Tenetelo fermo!» Mallory udì uno squittio quasi meccanico. Quasi. Girò la testa e i suoi occhi incrociarono quelli scintillanti di un ratto. Non era affatto spaventato. Il muso era a due dita dalla sua faccia. Che denti lunghi hai! Il roditore emise un sibilo. Improvvisamente si sbilanciò e cadde squittendo e contorcendosi ai piedi degli agenti. Era un topo malato o semplicemente goffo? Risuonò uno sparo. Era un topo morto. Dotata di un senso dell’equilibrio migliore, Mallory scese saltando da un ramo all’altro con grazia felina e, lasciandosi dondolare da quello più basso, atterrò accanto ai due agenti. «Non tirate giù il sacco finché non ho portato via quel tizio.» Indicò l’aspirante giornalista intento a scrivere freneticamente su un taccuino quello che gli diceva Riker. Qualunque cosa gli stesse raccontando il suo collega, di sicuro non era importante. In lontananza si udiva la sirena della seconda ambulanza della giornata quando Mallory si avvicinò all’uomo e, presogli il braccio con la mano dalle lunghe unghie rosse – meglio chiamarli artigli – lo condusse lontano dalla scena del crimine. Camminando gli dettò l’articolo. L’indomani, quando il «Times» fosse arrivato in edicola, il suo status di detective incaricata del caso sarebbe stato una questione di pubblico dominio, e non una decisione in mano al suo tenente. Il sindaco credeva a tutto quello che leggeva sui giornali, persino quando metà delle bugie proveniva dal suo stesso ufficio, e sarebbe stato compito del comandante della polizia baciargli i piedi e avvalorare quella notizia. «Sono informazioni esclusive che non ha nessun altro. E posso fare in modo che resti così fino a domani mattina.» Mallory gli prese penna e taccuino e scrisse una breve nota a conferma delle sue parole. Era indirizzata al capo redattore della cronaca cittadina, un uomo che doveva molta riconoscenza al suo padre adottivo, e infatti lei firmò la figlia di Lou Markowitz. Poi, con il cellulare dell’uomo scattò una foto per la prima pagina dell’edizione del giorno seguente. Inquadrò l’albero e gli agenti in uniforme, regolò la messa a fuoco e scattò. «Okay, ora puoi andare.» Gli restituì il telefono. «Vai!» E lui andò. Di corsa. Riker stava controllando la radura. Agitò le braccia per tenere l’equipaggio dell’ambulanza a debita distanza dall’albero e telefonò per richiedere il trasporto di un cadavere. Agli agenti disse: «Calate il corpo. Dobbiamo tirarlo fuori dal sacco e far sparire quella corda prima che arrivi il carro funebre». Mallory approvò con un cenno del capo. Le fughe di notizie più pericolose venivano dai dipendenti mal pagati dell’ufficio di medicina legale. Così ora avevano un corpo per l’ospedale e uno per l’obitorio, anzi due, contando la vecchia signora Lanyard; niente di insolito per una giornata a New York, e nessuno avrebbe accennato ad alberi, sacchi, corde; non ci sarebbero state notizie sensazionali da vendere alle reti televisive. Quando il sacco fu calato a terra e aperto, il cadavere femminile era in condizioni troppo compromesse per permetterne l’identificazione. Insetti e topi avevano provveduto a renderlo irriconoscibile. E non sarebbe stato possibile rilevare le impronte digitali; le dita erano rosicchiate fino all’osso. Anche su quel viso c’era del nastro adesivo che copriva gli occhi e la bocca. E la donna morta aveva altri elementi in comune con la vittima sopravvissuta: mani e piedi legati, le orecchie sigillate con la cera, la nudità. Per Mallory, che prediligeva il movente economico e lo cercava dove altri detective avrebbero visto solo prove di pazzia e crudeltà, quel cadavere era una delusione. I capelli biondi erano tinti ma le radici scure non venivano ritoccate da tempo. Nessun parrucchiere di lusso avrebbe rimpianto quella cliente. Tutt’intorno impazzava il pandemonio del pronto soccorso: una babele di lingue straniere e di urla che non avevano bisogno di traduzione. Al frastuono di fondo si univa la stratificazione di odori sgradevoli: di vomito, di viscere, di medicinali, e la zaffata di piscio di gatto del disinfettante all’ammoniaca nel secchio di un inserviente. Quando gli investigatori arrivarono all’ospedale, l’uomo del primo albero era in stato comatoso e in attesa di essere trasferito nel reparto di terapia intensiva. Rapidamente gli annerirono le dita e gliele premettero su delle schede bianche per rilevare le impronte, un tecnico gli infilò in bocca un tampone per avere un campione di dna e un altro raccolse i residui sotto le unghie. Infine un fotografo abbassò il lenzuolo per riprendere i morsi dei topi e i segni delle corde. Al medico del pronto soccorso era stato ordinato di tenersi in disparte, in silenzio. Poteva solo guardare e scuotere il capo disapprovando, ma non riuscì a trattenere un gemito quando la detective Mallory strappò qualche capello dalla testa del suo paziente. I tecnici interruppero un istante le loro attività e si voltarono a guardare chi era arrivato. Una specie di orso infuriato, il capo della Scientifica, era ai piedi della barella. Agli occhi nocciola di Heller non era sfuggito nulla: i maltrattamenti alla vittima, il dottore allibito che stava appoggiato al muro, la detective che aveva ordinato ai suoi uomini di iniziare senza di lui e, ovviamente, contro il parere del medico. Mallory si allontanò dalla barella, enfatizzando deliberatamente il proprio gesto di sottomissione. Sapeva misurare le sue forze. Il giorno seguente Heller sarebbe venuto a sapere delle corde e dei sacchi che lei aveva nascosto nel baule della sua auto. Si stava risparmiando per quella battaglia. Heller indicò col pollice le porte del pronto soccorso. I suoi tecnici raccolsero l’attrezzatura e filarono via in silenzio. Fece un cenno all’uomo con lo stetoscopio e il dottore riprese il suo posto accanto al paziente. Rivolto a Mallory, disse: «E questo è uno». Per ogni nuovo caso era loro abitudine iniziare da capo il conto delle trasgressioni. Il livello d’implosione Heller lo avrebbe raggiunto scoprendo che su due scene del crimine i suoi tecnici non erano neppure stati chiamati, ma la giovane detective contava di essere lontana quando fosse arrivato quel momento. Mallory gli consegnò la busta contenente i capelli e uscì prima che lui glielo ordinasse. Aveva ottenuto quello che voleva. Un’occhiata alle radici aveva confermato il suo sospetto che quel giovane uomo si tingeva i capelli con un prodotto scadente. E a giudicare dal colore naturale, molto probabilmente il paziente in coma era lo zio Red di Coco. I libri erano ordinatamente allineati sugli scaffali e ogni foglio di carta era al suo posto, impilato nelle vaschette IN ENTRATA e IN USCITA. Era l’ufficio di un uomo molto efficiente. C’era un po’ di confusione solo sulla parete sopra lo schedario, per il gran numero di targhe e premi incorniciati in onore del dottor Edward Slope. Il suo nome compariva anche in un elenco ancora più elitario di quello dei presidenti americani. Negli ultimi cent’anni solo sette uomini lo avevano preceduto nell’ufficio di anatomopatologo capo. Eppure, senza il camice bianco d’ordinanza, lo si sarebbe scambiato per un militare, sempre sull’attenti anche quando era seduto, con quel viso di pietra, i rari sorrisi e lo spirito acre come polvere da sparo. Era uno scienziato di fama internazionale, ma in privato era più noto come quello che mangiava poliziotti a colazione. Il dottor Slope alzò gli occhi dalle carte sulla scrivania. «Salve, Riker.» Poi si accorse dell’altro detective entrato nel suo territorio privato. «Kathy.» Si divertiva molto a punzecchiarla con quel nome proibito. «Mallory» lo corresse lei come al solito. Preferiva la fredda formalità del cognome e aveva iniziato a addestrare il dottore a usarlo quando si era diplomata all’accademia di polizia. Ma non era riuscita a tenerlo a bada allora... né ora. Membro fondatore delle partite di poker con Lou Markowitz, per lui Mallory era la piccola Kathy quando si erano conosciuti e Kathy sarebbe rimasta fino alla morte di uno dei due. «Il corpo di quella donna è appena arrivato» disse Slope. «Cosa mai potete volere da me?» Il tono irritato implicava che si trattasse di qualcosa di estremamente importante. Una bambina sbucò dall’ombra del detective Riker. Gli occhi azzurri erano enormi e il sorriso grande quasi come la faccia. Non l’aveva mai vista ma al dottore sembrò di riconoscerla. I bambini di quel tipo si assomigliavano, anche se erano così rari che non ne nascevano mai due nella stessa famiglia. «Voglio che ti occupi di lei.» Mallory sfiorò i capelli di Coco con una carezza. «Prima di esaminare il cadavere.» E aveva anche altre richieste. «E non metterlo a verbale. Voglio un esame del sangue per sapere se deve essere curata.» Riker, il paciere, si fece avanti. «Coco ricorda che prendeva una pastiglia tutti i giorni, ma potevano anche essere solo vitamine. Charles Butler dice che ha...» «La sindrome di Williams.» Facendo violenza ai suoi muscoli facciali il patologo sorrise, affascinato fino alla punta dei piedi. Si alzò, girò intorno alla scrivania e si mise in ginocchio. Voleva vedere da vicino l’iride stellata che finora aveva studiato solo al microscopio sui vetrini. «Tu hai le stelle negli occhi» disse alla bambina. «È una cosa molto bella e speciale.» Lei gli gettò le braccia al collo, confermando così la diagnosi di sindrome di Williams, un disturbo caratterizzato dalla ricerca di contatti fisici con estranei e talvolta da problemi cardiaci. Anche fegato e reni potevano essere compromessi. Slope guardò i detective. «Gli esami del sangue si dovrebbero fare in un ospedale pediatrico...» «Non possiamo» disse Mallory. «I servizi sociali ce la porterebbero via subito. Come pensi che se la caverebbe in un istituto?» Il dottor Slope abbassò il capo. I bambini non fiorivano in mezzo alla burocrazia, e quella piccola sarebbe appassita più in fretta di altri. Mallory gli consegnò un appunto scritto a mano e lui lesse la sua richiesta in uno stampatello così perfetto da sembrare stampato: VERIFICA SE È STATA STUPRATA. Il dottore si sentì morire. Dio non esisteva. La bambina e il patologo capo, un uomo che aveva sezionato i corpi di molti bambini assassinati, uscirono alla ricerca di un posto adatto per quella violenza più delicata. Trovata una stanza e sistemata Coco sul bordo del tavolo, lei allungò la mano per toccargli la faccia, per consolarlo. «Anche i topi piangono» disse. «Molta gente non lo sa.» 5 Rispetto alle solite tradizioni scolastiche, questa non è male. Ogni anno, all’alba del primo giorno di primavera, qualcuno scende in giardino di nascosto e disegna col gesso la sagoma di una bambina sul selciato. Nessuno la calpesta, così resiste almeno per quel giorno, prima che venga ordinato al bidello di lavarla via con la pompa. La mia amica Phoebe chiama quella bambina di gesso “la povera Allison”. Una che si è buttata dal tetto della scuola qualche anno fa. Prima che ci arrivassi io. Le chiedo perché la povera Allison lo ha fatto, e Phoebe dice: «Be’, perché lo fanno gli altri?». E io dico: «Cosa?». Ernest Nadler Coco teneva Riker per mano mentre percorrevano il tranquillo corridoio di un palazzo di SoHo. La bambina era avvolta in un sudario di carta del tipo usato per i cadaveri. Le avevano permesso di tenere le scarpe, ma tutti gli altri indumenti erano nella borsa di plastica che dondolava dalla mano libera del detective. «Conosco il padrone dell’intero palazzo» disse Riker. «Il tuo amico è l’uomo o la donna?» domandò lei davanti alla porta dell’unico appartamento al quarto piano. «Sento due persone dentro.» «Davvero?» Riker non sentiva niente. Anzi, gli sembrava che non ci fosse nessuno. Mallory era ancora all’obitorio, ma forse la signora Ortega era passata dopo la conferenza stampa con il sindaco. Chissà come avrebbe reagito la piccola rivedendo la donna delle pulizie che aveva massacrato il pedofilo con la mazza da baseball. La porta si aprì. Coco alzò lo sguardo verso un uomo ben fatto, alto almeno un metro e novanta. Charles Butler indossava un abito a tre pezzi, e la cravatta allentata era la sua unica concessione all’abbigliamento casual. Mallory aveva telefonato e la piccola visitatrice era attesa, eppure lui aveva un’aria sorpresa. Ma era solo l’effetto dei suoi occhi, delle palpebre pesanti che coprivano a metà le piccole iridi azzurre sperdute nei bulbi oculari troppo grandi e sporgenti. Charles sembrava sempre una rana sbalordita, con un grosso naso e un sorriso sciocco. Era nato con quella faccia, ma l’inconveniente era compensato da un cervello mostruoso e da parecchie lauree, una delle quali in psicologia. Coco entrò di corsa e gli abbracciò le gambe; lui s’inginocchiò dicendo: «So che hai avuto una giornata pesante». «Piena di topi» sorrise lei. «I topi vanno in cielo. Lo sapevi? E qualche volta ritornano.» La bambina attraversò l’ingresso per ispezionare il grande salotto con la sua collezione di mobili antichi e pezzi di arte moderna. Riker amava quell’appartamento. Le alte finestre ad arco gli ricordavano i film noir in bianco e nero degli anni Quaranta. Si sedette su un sofà che, all’opposto, evocava i film in costume alla Jane Austen, un genere cui assisteva solo sotto tortura. In teoria i mobili antichi avrebbero dovuto fare a pugni col quadro astratto sulla parete di fronte, invece l’insieme era perfetto. Non c’era traccia della donna delle pulizie, ma nell’aria aleggiava un odore di cera per legno. «La signora Ortega ci ha detto che hai diagnosticato la malattia della bambina al telefono.» «No» precisò Charles. «Ho detto che poteva trattarsi della sindrome di Williams basandomi sui lineamenti da elfo e sul comportamento strano, quel cercare un contatto fisico con gli estranei.» Girò la testa per guardare Coco che entrava nella stanza accanto. «E poi ci sono le scarpe.» Scarpe? Prima di poter replicare Riker udì gli accordi introduttivi di Melancholy Baby, perfetti fino all’ultima nota. Coco aveva scoperto il piccolo pianoforte verticale che Charles aveva acquistato perché proveniva, così diceva, da un battello a vapore, una leggendaria bisca galleggiante dell’Ottocento. Lui adorava il poker, pur giocandolo malissimo. Sprecava ogni mano, buona o cattiva che fosse, perché la sua faccia si leggeva come un libro aperto e questo non gli permetteva di bluffare. Il pianoforte continuava a suonare. «Hanno una grande sensibilità musicale, è un’altra caratteristica» proseguì Charles. «Sì, è sindrome di Williams. Ci sono tutti i sintomi: i lineamenti facciali, il sorriso magnetico, e avevi mai visto degli occhi così brillanti? Ha l’iride stellata...» «Le stelle negli occhi» annuì Riker. «Sono piaciute molto al dottor Slope.» «Potrebbe volerci del tempo per valutare le sue condizioni. Considerato il trauma emotivo, dovrò andarci piano.» Charles aveva lavorato a lungo nella ricerca del personale, esaminando persone da destinare a progetti che richiedevano talenti speciali. E ora, semipensionato a quarantun anni, era il consulente per la polizia quando uno strizzacervelli del dipartimento si dimostrava inaffidabile, il che capitava quasi sempre. «Però posso dirti fin d’ora che è intelligente e il suo cervello funziona benissimo.» «Magnifico.» Il concerto era finito e Riker abbassò la voce riducendola a un sussurro. «Non riuscivamo a capire se fosse ritardata.» La bambina arrivò correndo dalla sala da musica, si fermò davanti al detective e gli puntò contro un dito accusatorio. «Molto scortese.» «Forse» disse Charles «avrei dovuto informarti che chi soffre di sindrome di Williams ha un udito straordinario.» Così si spiegava come mai la bambina fosse stata l’unica a udire i gemiti soffocati provenienti da un sacco in cima a un albero. Coco guardava il tappeto mortificata e Riker, innamorato di tutte le rosse del mondo, si sentì spezzare il cuore. Alzò le mani in segno di resa. «Coco, hai ragione. Mi dispiace.» Si colpì il petto col dito. «Sono un idiota. Magari sapessi suonare il pianoforte come te... Tu sei bravissima, piccola.» Lei sorrise, gli occhi si illuminarono e il viso si aprì come un fiore affamato di luce e calore... e con questa similitudine si esaurì il repertorio poetico del detective. «Racconti anche delle magnifiche storie. Parla a Charles di tuo zio Red.» «Si è trasformato in albero.» Ma Coco aveva perso interesse per quell’argomento; a Riker sembrò quasi di vedere una porta che si chiudeva nella sua mente. Tornò al pianoforte e ricominciò a suonare, e i due uomini ripresero la loro conversazione. Stavolta era un brano classico, ma Riker si vantava di non conoscere i titoli della musica da intellettuali. «Un test standard del quoziente d’intelligenza non serve» disse Charles. «Da quanto ho saputo da Mallory, direi che Coco è al tempo stesso più brillante e più lenta della media. Ha capacità lessicali superiori a quelle della sua età, ma una soglia di attenzione molto inferiore. E sicuramente hai notato le scarpe con le chiusure di velcro. Non sa allacciarsi le stringhe.» Abbassò gli occhi sulla borsa di plastica accanto alla poltrona del detective. «Hai portato i suoi vestiti?» Riker annuì. Gli indumenti di Coco erano un’altra delle prove non consegnate alla Scientifica e il pensiero dell’inevitabile resa dei conti, quando Heller avrebbe preteso le teste dei due detective da appendere tra i suoi trofei, non era affatto piacevole. Charles aprì la borsa e dopo una rapida occhiata alla maglietta macchiata esaminò i minuscoli bluejeans. «C’è il velcro anche qui. Ha difficoltà con i bottoni. Le capacità motorie sono un problema.» Indicò la sala da musica. «Eppure è in grado di suonare un complesso pezzo di Mozart a memoria. Ma se ora uscisse da quella porta, non credo che saprebbe tornare indietro. Capisci il problema? Un bambino Williams è un paradosso vivente.» «Come valuteresti una sua testimonianza?» «Be’, tende all’ornamentazione. Ha un talento naturale per l’affabulazione. Non ha forse detto che suo zio si è trasformato in albero?» «Lei ne è convinta» disse Riker. «L’uomo era dentro a un sacco appeso a un albero. Coco lo ha udito lamentarsi. È grazie a lei che lo abbiamo trovato. Centinaia di persone sono passate sotto quell’albero nel Ramble, ma solo lei lo ha sentito.» «Iperacusia, eccezionale sensibilità ai suoni.» «Non riusciamo ad avere risposte dirette da lei.» «Comprensibile. Un’altra caratteristica della sindrome di Williams è l’alto livello di empatia, e la vittima era un parente. Inoltre, qualsiasi cambiamento nel suo ambiente la turba. Probabilmente è tutto il giorno che si trova in uno stato di grande agitazione.» «Da più tempo. Coco non sa o non vuole dirlo, ma deve aver seguito chi ha rapito suo zio. Central Park è troppo vasto perché sia arrivata per caso al sentiero giusto e all’albero giusto. Lo zio è stato legato e appeso lì forse tre giorni fa. E per tutto questo tempo lei ha vagato nel parco, mangiando quello che trovava nei bidoni e scappando dai topi.» Riker si coprì gli occhi con la mano per cancellare quell’immagine dalla mente, era un uomo che amava i bambini. «Quindi ci vorrà un bel po’ per farle ritrovare un po’ di equilibrio.» Charles guardò la minuscola pianista nella stanza accanto. «È molto piccola per la sua età. Cosa dice Edward Slope? È sana fisicamente?» «Il dottore dice che non ha bisogno di medicine. Il cuore è in buone condizioni. E non è stata molestata. Tu puoi valutare la sua invalidità? Mettere giù due righe per un giudice? Ci serve un ordine di custodia.» Riker gli porse un foglio piegato in due. «E ci serve la tua firma su questo.» Coco smise di suonare e tornò da loro. Indicava il corridoio. «Quello è un Eureka. È l’ultimo modello.» Aguzzando le orecchie al massimo Riker udì il ronzio di un aspirapolvere dietro una porta chiusa sull’altro lato del grande appartamento. Quindi la donna delle pulizie era in casa. Era sua la voce femminile che Coco aveva udito insieme a quella di Charles. Riker sorrise. «Un Eureka, eh? Lo hai visto al parco giochi, giusto? Nel carrello di quella signora?» Coco ridacchiò come per dire: Prova ancora. Charles scosse il capo. «La signora Ortega non si porta dietro l’aspirapolvere. Quello è mio, e Coco ha ragione sulla marca. Eccellenti capacità di memoria uditiva.» La guardò. «Hai riconosciuto il rumore del motore.» Lei annuì. «Ne aveva uno la vicina del piano di sopra. Quello di mia nonna era più vecchio e più rumoroso, un Hoover terrificante.» Coco finse di rabbrividire per far capire che quel tipo di rumore non le piaceva proprio. «Quello si succhiava via il mondo intero. C’erano un sacco di aspirapolvere nella casa, tutti con rumori e nomi diversi.» «Tua nonna abitava in un condominio» disse Riker. «Be’, è già qualcosa.» «Non poteva più prendersi cura di me. Così sono andata a vivere con lo zio Red, e non l’ho più rivista.» «Dev’essere successo da poco» osservò Charles. «L’aspirapolvere della vicina della nonna è sul mercato solo da qualche settimana.» Aveva finito di leggere il foglio di Riker. «Un momento. Questo documento chiede che la bambina sia affidata a me.» La signora Ortega passò davanti alla porta con un piumino per la polvere in mano. Si fermò sbarrando gli occhi per la sorpresa. Se non avesse saputo che era una donna forte, Riker avrebbe pensato che era spaventata perché, girando le spalle alla bambina, si fece rapidamente il segno della croce. Ma il suo non era un gesto di fede o di sollievo. Riker glielo aveva visto fare una volta per preservarsi dal malocchio dopo l’incontro con un gatto senza una zampa su un marciapiede di SoHo. Nella terra natia della signora Ortega, un isolato di Brooklyn al di là del fiume dove viveva tutto il suo clan, quei gatti portavano male... come Coco. Erano passate ore da quando Riker era tornato nel parco per cercare altre vittime, e Charles Butler le aveva impiegate riempiendo un taccuino di fantasie infantili da decodificare. Aveva tratto qualche cupa conclusione sui vuoti di memoria di Coco. Erano luoghi della mente dove lei non poteva o non voleva tornare. Una mente così affascinante. La signora Ortega tornò da Brooklyn in tempo per il bagno di Coco, portando una borsa piena di indumenti raccolti tra i suoi parenti con figli piccoli. La donna sembrava agitata ma la bambina non ci badava. Uscì dal bagno abbracciata a lei e, pulita e profumata nel pigiama di seconda mano, cantò per la signora Ortega e poi danzò senza smettere di sorridere. Esausta come tutti i bambini alla fine di una lunga giornata, si accoccolò sul pavimento ai piedi della donna, chiuse gli occhi... e si mise a russare. «È normale che russino?» Charles avrebbe preferito che la bambina fosse arrivata accompagnata da un manuale di istruzioni. La signora Ortega annuì. «È raffreddata. Per questo le ho dato il brodo di pollo.» Agitò un dito minaccioso. «E non le compri delle porcherie al drugstore.» «Stia tranquilla.» Charles non avrebbe mai osato contraddire una donna che aveva uno stuolo di bambini in famiglia. Prese in braccio la piccola addormentata e la mise a letto nella stanza degli ospiti. La signora Ortega restò sulla soglia; aveva già avuto anche troppi contatti con Coco. Charles la coprì e le rimboccò le coperte. Poi chiuse silenziosamente la porta e sussurrò alla donna delle pulizie, che era anche un’amica: «Mi dica cosa la preoccupa». Lei non parlò finché non furono seduti in salotto. Dopo il secondo giro di sherry, la signora Ortega posò il bicchiere sul tavolo e fissò le sfaccettature del cristallo vecchio di secoli. «Mia madre, pace all’anima sua... oh, lei e le sue favole!» Alzò le braccia al cielo esasperata, poi ricominciò. «Quando ero piccola ho passato tante notti sveglia perché lei mi raccontava che le fate rubavano i bambini e li sostituivano con altri...» Ma non continuò, andava troppo fiera del suo buon senso. «Posso assicurarle» disse Charles «che i bambini Williams sono figli dei loro genitori. La malattia dipende da due cromosomi mancanti, non dalla magia. Coco è solo una povera bambina e solo grazie a lei è stata trovata. So che l’ha anche salvata da un pedofilo.» Si protese in avanti e posò la mano su quella della donna. «Oggi lei ha fatto una cosa meravigliosa.» Quelle parole non servirono a rasserenarla. La signora Ortega si girò per guardare verso la camera di Coco, come se potesse vedere attraverso i muri e le porte. «Viene da chiedersi se le favole sono iniziate con bambini come quella.» «Un’idea interessante.» E all’improvviso Charles Butler si appassionò alle favole, o forse era solo una scusa per indurre la sua donna delle pulizie a trattenersi finché non si fosse sentita pronta ad affrontare il mondo. Lei lo intuì, ma rimase ugualmente, ed era molto tardi quando gli raccontò l’ultima fiaba tramandatale dal ramo irlandese della sua famiglia. Dopodiché Charles chiamò un taxi per farla accompagnare a casa. Charles non aveva sentito nessun rumore. Era stata la sete a svegliarlo nel cuore della notte. Arrivato in fondo al corridoio, fu sorpreso di vedere nell’atrio una poltrona rivolta verso la porta d’ingresso. Nella luce fioca scorse Mallory addormentata. Sebbene la conoscesse da anni, sentì quel folle sfarfallio nello stomaco che lo coglieva ogni volta che le posava gli occhi addosso. Provò felicità e sofferenza, i sintomi concomitanti dell’amore non corrisposto. Sull’argomento era realista. Influenzato dai racconti della signora Ortega, era andato a rileggersi la fiaba della Bella e la Bestia in un libro della sua infanzia, riconoscendosi nel secondo personaggio, un uomo sventurato con una faccia da clown. Charles accese una lampada e alla luce colorata del vetro Tiffany vide il revolver in grembo a Mallory. Riker diceva che tutti i poliziotti portavano una Glock col caricatore, mentre lei preferiva la vecchia Smith & Wesson calibro 357 perché spaventava molto più di una semiautomatica. Era un vero e proprio cannone, diceva Riker, e Charles concordava. Le dita di Mallory cingevano l’arma, in modo da poter sparare a chiunque avesse tentato di introdursi in casa. Aveva il respiro regolare di chi è profondamente addormentato, così Charles cercò di toglierle la pistola di mano, solo per precauzione. Lei serrò le dita all’istante e lui si ritrasse, trasalendo nel trovarsi la canna puntata contro. Poi lei aprì gli occhi. Abbassò l’arma e si riaddormentò. E Charles ricominciò a respirare. A qualche miglio di distanza un’altra donna si stava svegliando, ma non poteva aprire gli occhi. Erano sigillati da nastro adesivo, come la bocca. Wilhelmina Fallon non udiva nulla, né lo stomaco che brontolava né altri suoni che potessero farle capire dove si trovava. Quanto aveva dormito? Era notte o giorno? Smise di lottare per liberarsi le mani e i piedi. L’unica altra sensazione tattile era quella di un tessuto ruvido contro la pelle nuda. Sentiva che il corpo era privo di sostegno e pensò di essere sospesa nel vuoto... di poter cadere a terra da un momento all’altro, e quell’immagine le riportò alla mente un vecchio ricordo di Ernest Nadler. Oh, no. Ti prego, no. Se avesse potuto avrebbe urlato. Questo è il Ramble! Il Ramble! Il Ramble! 6 Tornando a casa da scuola ripeto a Phoebe la battuta di un fumetto. «Se posso sconfiggere i miei demoni posso essere l’eroe della mia vita.» E mio padre mi amerà di nuovo. Phoebe pensa che la mia filosofia da fumetto mi porterà alla rovina. «Ricordati della povera Allison» dice. «Quella che si è buttata dal tetto?» E Phoebe dice: «Forse credeva di poter volare». Ernest Nadler I newyorkesi privilegiati le cui finestre si affacciavano su Central Park, se erano ancora svegli, avrebbero potuto vedere gli alberi illuminarsi uno dopo l’altro come se una lucciola avanzasse lentamente attraverso il Ramble. Erano i poliziotti che puntavano le torce tra le foglie. I cani addestrati a trovare cadaveri non fiutavano quelli appesi in aria. Infine un sergente diede l’ordine di rientrare in sede per aspettare che facesse giorno. Sospesa in alto sopra un gruppo di poliziotti in ritirata, Wilhelmina Fallon, non ancora cadavere, si svegliò completamente cieca. Aveva sete, una sete terribile. E fame. Ormai quasi pazza, tese le orecchie. Solo silenzio. Indebolita dallo sforzo, smise di lottare per liberarsi dalle corde. Il panico svanì e così i crampi allo stomaco. Disidratata e disorientata, si abbandonò all’immaginazione e nel dormiveglia sognò di bere grandi bicchieri di acqua fresca. Nel mondo reale il suo corpo si stava consumando per riuscire a sopravvivere. La vita era ogni cosa. La vita era tutto. Nella sua mente era mattina e un tavolo immaginario era coperto di cibo, un trionfo di cibo. L’aroma del caffè fresco era inebriante. Una vecchia caffettiera borbottava sul fuoco e la pastella sfrigolava nella padella. Mallory stava preparando i pancake e quell’immagine domestica strideva con la grossa pistola nella fondina. Aveva imparato a cucinare dalla madre adottiva, Helen Markowitz, e le cucine erano le sue stanze preferite. Quella era grande, con le pareti di un caldo color ambra, il soffitto alto e gli elettrodomestici che sembravano avere cent’anni. Charles Butler se l’era fatta costruire così perché, da quel luddista che era, vi si trovava più a suo agio. Era un posto tranquillo, dove persino un newyorkese avrebbe abbassato la guardia. Per questo Mallory preferiva le cucine alle stanze degli interrogatori. La porta d’ingresso si chiuse. Charles Butler era uscito. E ora i detective potevano cominciare. Coco aveva finito la colazione e girava il dito sul bordo del piatto vuoto. «Ai topi piacciono la frutta e la verdura, ma le frittelle... non tanto.» Passò a spiegare perché i topi affamati erano attirati dai neonati addormentati. «Perché hanno l’odore del latte e la pelle intorno alla bocca ha il sapore del latte. Se li lavi prima di metterli nella culla, loro non li mangiano.» «Buono a sapersi» disse Riker, continuando a mangiare per nulla disgustato. Tra un boccone e l’altro sorrideva alla bambina. «Parlaci dello zio Red.» Lei tirò su le gambe, si abbracciò le ginocchia e cominciò a dondolarsi. «Aveva i capelli rossi come i miei. Ha detto che sono una caratteristica della nostra famiglia.» Si alzò in piedi e fece un giro intorno al tavolo, il terzo della mattinata. Se Charles Butler fosse stato presente, avrebbero dovuto smettere di farle domande che la mettevano in agitazione. Ma lo psicologo era stato mandato a comprare i giornali, una scusa per allontanarlo, dal momento che Mallory poteva facilmente accedere alla versione online dal suo computer. La detective riempì di succo d’arancia il bicchiere della bambina per farla tornare al tavolo. Coco si sedette al suo posto, appollaiata sul bordo della sedia, come un visitatore a disagio. «Poi i capelli dello zio Red da rossi sono diventati bruni» disse Mallory. «Quando è successo?» Riformulò la domanda adattandola a una bambina con una nozione del tempo molto vaga. «Dopo che sei salita sull’auto dello zio Red, vi siete fermati da qualche parte prima di arrivare a casa sua?» «Ci siamo fermati a mangiare.» Coco si inoltrò nella descrizione della statua gigantesca di un clown che invitava i clienti a rifornirsi di cibo spazzatura in un locale lungo la strada. Era alto come una montagna, raccontò, e gli attribuì delle battute, ma si fermò a metà frase leggendo l’impazienza sul viso di Mallory. «Dunque» disse Riker, la cui pazienza con i bambini era infinita, «è stato allora che lo zio Red si è tinto i capelli? Al ristorante? Forse nel bagno degli uomini?» «No, aveva ancora i capelli rossi quando ci siamo fermati al drugstore. Io mi sono addormentata in macchina. Quando mi sono svegliata, eravamo a casa dello zio Red. Fuori era buio e lui aveva i capelli scuri. Poi si è fatto consegnare al parco.» Scusandosi, disse che andava a lavarsi le mani, il suo eufemismo per una corsa al gabinetto. La porta del bagno in fondo al corridoio si chiuse. Si aprì quella d’ingresso e arrivò Charles Butler con tre giornali. Entrò in cucina in tempo per sentire Mallory dire al suo collega: «Quella bambina è stata rapita». «I pedofili tingono i capelli del bambino, non i loro.» Riker posò la forchetta. «Questo tizio ha tinto i suoi. Secondo me lo zio Red stava scappando da qualcuno che conosceva. Il che quadra con la fine che ha fatto nel Ramble.» Mallory gli buttò un pancake nel piatto, poi allungò a Charles la caffettiera e prese in cambio i giornali, per il resto ignorandolo mentre parlava con Riker. «Due persone con i capelli rossi... un dettaglio importante se la scomparsa della bambina fosse stata denunciata. Ma lui non se l’è sentita di tingerle i capelli. Quel pervertito aveva un debole per le piccole pel di carota. Per questo l’ha rapita.» Estrasse una banconota dalla tasca dei jeans e gliela mostrò. «Venti dollari che lo zio Red non è parente di Coco.» «Ci sto.» Riker si rivolse al padrone di casa con un largo sorriso. «E tu?» «Non scommetto. So già la risposta.» Charles riempì tre tazze con la vecchia caffettiera che preferiva alla macchina elettrica regalatagli un Natale da Mallory. Quel dono era stato uno dei molti tentativi falliti di introdurlo nel nuovo secolo. Riker sorseggiò il caffè e dichiarò che era squisito. Lanciò un’occhiata ai titoli dei giornali mentre Mallory li posava sul tavolo. Uno dopo l’altro, riassunse le prime pagine. «Topi cannibali per il “Post”, invasione di ratti per il “Daily” e... oh, merda!» Il «Times» mostrava una fotografia del secondo albero e di due agenti in uniforme. «C’è proprio tutto» disse Mallory. «I corpi, i sacchi, le corde, tutto tranne Coco.» Guardò l’orologio sul muro. In quel momento probabilmente anche il comandante della Scientifica stava leggendo i giornali, come il loro capo, il tenente Coffey. Riker spazzò via quel che restava del pancake, il suo ultimo pasto prima della guerra per le prove dimenticate. Masticando e inghiottendo, continuò a sostenere che lo zio Red era un parente e non un rapitore di bambini. «Il dottor Slope non ha trovato segni di violenza quando ha visitato Coco.» «Quel pervertito e la bambina erano ancora in una fase interlocutoria.» Mallory si sedette per bere il caffè. «Scommetto che lo zio Red non sapeva nulla della sindrome di Williams.» «E neppure Coco» disse Charles. «Mi ha raccontato che studiava in casa con sua nonna e la vecchia signora – secondo Coco ha centonovantun anni – si è accorta che qualcosa non andava nella sua nipotina ma non aveva una diagnosi. Vi dirò anche come lo so.» A quel punto, in un giorno normale, uno dei detective avrebbe indotto Charles a tagliare corto, pur senza arrivare a minacciarlo con la pistola, ma Mallory stava bevendo il caffè e Riker era ancora in estasi per il pancake. «Coco non ha mai sentito parlare della sindrome» disse Charles. «Se sua nonna avesse saputo della malattia, ci sarebbero stati dei materiali didattici speciali in casa e la bambina li avrebbe notati. Il suo livello di lettura è molto avanzato. Ha letto Dickens. Non è meraviglioso? E in casa c’erano molti articoli e libri sui topi. Sua nonna doveva avere un forte interesse...» «Okay.» Riker batté la forchetta sul piatto. Aveva mangiato l’ultimo boccone e ora voleva accelerare la conferenza. «Arriva al punto in cui Coco incontra lo zio Red.» E una voce infantile disse: «È stato il giorno che non sono riuscita a svegliare nonnina». Coco era sulla porta. «Nonnina era tutta rigida e fredda.» La bambina indossava i calzoncini dell’ultima nipotina della signora Ortega. Li teneva su con le mani. I bottoni erano un problema. Mallory si alzò per aiutarla. «E poi cosa è successo?» «Sono uscita di casa. Non dovevo ma avevo paura... Non diteglielo.» «Sei uscita per cercare aiuto. Hai fatto bene.» Com’era facile manipolare una bambina affamata di attenzioni. Andava bene una qualsiasi parola di incoraggiamento. «E poi cosa è successo?» «Sono corsa giù da un milione di scale prima di uscire in strada. E poi lo zio Red ha fermato la macchina.» «L’hai riconosciuto?» Lei esitò prima di rispondere. «Aveva i capelli rossi come i miei. Gli ho detto di nonnina. Lui ha detto che ora la nonna non poteva più prendersi cura di me e così andavo a vivere con lui.» Abbottonati i calzoncini, Mallory vi infilò dentro la maglietta. «Ti ha riportato dalla nonna per prendere le tue cose?» «No, sono salita in macchina e abbiamo viaggiato e viaggiato e viaggiato.» Riker, l’uomo che amava i bambini, posò lentamente la tazza. «Racconta come hai avuto il tuo nome» la incoraggiò Charles. «Lo zio Red ha detto che dovevamo cambiare il mio nome. Doveva essere uno facile da ricordare. Mi ha chiesto cosa mi piaceva di più al mondo e io ho detto i pigiami di flanella e la cioccolata calda.» Mallory allungò la mano e strappò i venti dollari da quella di Riker. «E prima come ti chiamavi?» Coco protese le labbra e corse via. Qualche minuto dopo udirono il riff di un ragtime provenire dal pianoforte nella sala da musica. «Sua nonna la chiamava Baby Doll» disse Charles. «Di sicuro ha un altro nome ma non vuole dirlo, e io non intendo forzarla. Quindi accontentiamoci di Coco. A lei piace.» Mallory tolse i piatti sporchi dal tavolo. «Hai idea di quando è stata rapita?» «Non più di quattro giorni fa.» Charles indicò la borsa di plastica lasciata da Riker la sera prima. «È quello che pensa la signora Ortega basandosi sul livello di sporcizia degli indumenti. Credo che fosse mattina presto quando Coco è uscita a cercare aiuto per la nonna.» «La nonna morta» intervenne Mallory. «Contando un giorno di viaggio con lo zio Red, era sera quando sono arrivati in città. E lui si è tinto i capelli per strada. Quindi non la seguiva. Non è stato un rapimento programmato.» «Un crimine nato dal caso» disse Riker. «Il pedofilo la vede in strada... tutta sola.» Si alzò da tavola. «Se è così... a un giorno di viaggio da qui nonnina sta marcendo nel suo appartamento. Non puzza ancora, non abbastanza perché i vicini chiamino la polizia.» «E nessuno sa che la bambina è scomparsa» concluse Mallory. «Questo è un vantaggio.» 7 Per andare nel refettorio dobbiamo attraversare la spaventosa galleria con i ritratti degli ex allievi, e gli occhi dei quadri ci seguono. Conosco alcuni dei nomi sulle targhe sotto le cornici. Discendono dai baroni ladri di Wall Street, onorati mostri del passato. Uno di loro è un antenato di Phoebe. Ha una bocca crudele che dice: «Vieni qui, ragazzino». Ernest Nadler Jack Coffey appallottolò il «Times» e lo lanciò mandandolo a rimbalzare sul bordo del cestino. La gran dama della stampa di New York si stava comportando come una sgualdrina da tabloid. Avendo battuto le altre testate con la storia di un doppio omicidio a Central Park, il «Times» si era conquistato il diritto di affibbiare al killer il primo nickname letterario della città: l’Artista della Fame, con reminiscenze kafkiane. Riker stava appoggiato scompostamente contro una parete dell’ufficio del tenente, nella sua posizione da plotone d’esecuzione. Mallory non si era ancora fatta vedere, lasciando il suo collega a spiegare come mai l’articolo in prima pagina riportasse informazioni che il loro capo non possedeva. E neppure il capo della Scientifica era stato messo al corrente di quei dettagli. Heller sedeva accanto alla scrivania e stringeva tra le mani una copia maciullata del giornale. «Posso denunciare i tuoi detective... oppure mi dici perché io non ho queste prove rinvenute sulla scena del crimine.» Consultò l’articolo del «Times». «Mi mancano alcuni sacchi e alcune corde. Ah, già... e un paio di alberi.» Colto da un’improvvisa ispirazione, Jack Coffey si alzò e mise da parte la sua irritazione personale. «Ieri i tuoi uomini sono stati su entrambe le scene del crimine.» «Già» commentò Heller. «Dopo. Prima Mallory li ha spediti all’ospedale. Un paio d’ore dopo si è ricordata delle scene del crimine e solo allora loro sono andati al parco, ma nessuno gli ha detto degli alberi o...» «Però uno di loro ha sentito parlare dei sacchi e delle corde... e quel bastardo ha spifferato tutti i dettagli alla stampa.» Coffey guardò il suo detective per indicargli che toccava a lui intervenire. Riker fece un passo avanti. «So per certo che i poliziotti del parco non hanno spifferato niente. Non si metterebbero nella merda per un cronista. Quando io minaccio gli agenti, quelli mi prendono in parola.» Batté il dito sul giornale di Heller. «Neppure il loro sergente conosceva quei dettagli. Tuttavia avrebbero risposto alle domande di uno dei suoi uomini.» «Niente affatto.» Heller non si scomponeva mai. Manteneva sempre una calma assoluta. Quindi il suo alzarsi lentamente in piedi equivaleva a una crisi di nervi. Sollevò il giornale stropicciato. «Non è stato nessuno del mio dipartimento.» «Già, sì» disse Riker, forse calcando un po’ la mano. «Di sicuro non sono stati quelli del carro funebre. Loro hanno solo visto il corpo, nient’altro. E non vorrà accusare Mallory di aver parlato? Mi faccia il piacere. Questo è il suo caso.» Guardò il tenente per avere una conferma alle sue ultime parole. «Giustissimo» disse Coffey. «Resta solo la tua squadra, Heller. E non voglio sentire altre minacce contro i miei uomini.» Il capo della Crimini Speciali sorrise magnanimo. «Oppure, se vuoi, possiamo aprire un’indagine interna e io chiederò alla detective Mallory di spiegare perché ha preferito non consegnare le prove ai tuoi uomini.» Si protese in avanti con le mani posate sulla scrivania e un gran sorriso. «Perché sai bene che qualcuno lo domanderà. Probabilmente lo stai facendo anche tu, no?» Il punto era vinto ma non la partita. Senza pronunciare una sola parola, il capo della Scientifica riuscì a comunicare che non era ancora finita. Uscì dall’ufficio e passò tra i tavoli della sala operativa a passi pesanti, facendo alzare le teste. Quando la porta si chiuse dietro di lui, il tenente raccolse il giornale da terra e si sedette a leggerlo – lentamente – mentre il detective Riker esitava, incerto tra una fuga precipitosa e uno scontro. Jack Coffey posò il giornale, mise i piedi sulla scrivania e incrociò le mani dietro la testa. «Augurati che Heller non chiami il sergente di servizio a Central Park.» Il sorriso del tenente era sincero. Vedere l’espressione preoccupata di Riker lo rallegrava. «Quei poliziotti del parco spettegolano come comari. Ecco perché so che c’era un cronista su entrambe le scene del crimine. Ho sentito che è il cocco di Mallory.» Riker scosse il capo. «Ieri era solo un fotografo freelance.» «E oggi è stato assunto dal “Times”... come cronista.» Il tenente appallottolò di nuovo il giornale e stavolta centrò il cestino. Poi guardò il suo detective. «Qualcos’altro che ti sei scordato di riferire?» Riker cercò le parole giuste, non la verità naturalmente, ma qualcosa che potesse funzionare. «Lascia perdere.» Coffey gli indicò la porta. «Non voglio sapere.» Il detective Riker svoltò in una stradina acciottolata risalente alla prima configurazione di SoHo come quartiere industriale. In tempi più recenti era diventato il covo di ragazzi in jeans macchiati di vernice che tiravano a campare e che si erano trasferiti in zone più economiche quando il denaro aveva invaso il quartiere, portando con sé i giovani leoni di Wall Street e i figli dei fondi fiduciari. Ora però i negozi di antiquariato e le boutique alla moda stavano chiudendo. New York era come un artista che cambia continuamente stile e i bei tempi andati risalivano sempre a sei minuti prima. Al centro dell’isolato c’era il palazzo di Charles Butler il quale, con le chiavi in mano accanto alla sua Mercedes, salutò il detective che avanzava lentamente sul marciapiede. «Ehi» disse Riker. «Te ne vai?» «Accompagno Robin a Brooklyn.» Charles si girò udendo il portone che si apriva. Ne uscì Coco che teneva per mano Mallory. Le seguiva Robin Duffy, un avvocato dai capelli grigi che ormai lavorava di rado ed era uno dei compagni di poker di Louis Markowitz. A Riker piaceva quell’uomo basso con le gambe storte. Duffy aveva sempre un sorriso luminoso che gli sollevava le mascelle da bulldog e gli arricciava gli occhi per comunicare a tutti la sua felicità di essere lì, ovunque fosse. Esauriti i saluti, il vecchio signore abbracciò Mallory stringendola come se temesse di non rivederla più. In questo caso lei era effettivamente sparita dal pianeta per tre mesi, ma lui faceva sempre così. Mentre la Mercedes si allontanava Coco annunciò che il signor Duffy era il suo avvocato. Abituato da lungo tempo a sentire quella notizia dai criminali, Riker le sorrise tristemente e domandò alla sua collega: «Davvero? La piccola ha bisogno di un avvocato?». «Robin si occupa del problema dell’affidamento.» Mallory condusse Coco verso un’anonima Crown Victoria parcheggiata lungo il marciapiede. Dopo aver allacciato la cintura alla bambina sul sedile posteriore, Riker salì davanti e si fece coraggio, ma quel mattino non ce n’era bisogno. La sua collega guidava rispettando le regole, forse perché aveva a bordo una passeggera minorenne. Mallory aggiustò lo specchietto per incrociare gli occhi della bambina. «Coco, di’ a Riker cosa faceva nonnina per vivere.» «Uccideva i topi!» Riker sorrise. Questo spiegava il suo interesse per quelle bestiacce. «Dunque la nonna si occupava di derattizzazione. Sappiamo dove?» Mallory annuì. «La ditta aveva un nome molto accattivante... Chicago Killers.» Per tutto il tragitto Coco li intrattenne con un monologo sui roditori. E i detective impararono che i topi soffrono il solletico, starnutiscono e sognano. La Mercedes era diretta a sud, verso il ponte di Brooklyn, e il passeggero di Charles disse: «Kathy sta proprio bene». A Robin Duffy era ancora concesso chiamarla Kathy perché la considerava una figlia, oltre che quella del suo migliore amico. Abitava nella stessa strada dei Markowitz e l’aveva vista crescere. Robin guardò il suo amico per un po’, poi decise di insistere. «Kathy ha un ottimo aspetto.» «Sì.» Sull’aspetto Charles era disposto a compromettersi, ma non intendeva discutere della sua condizione mentale o di cosa facesse quando spariva. E Robin non glielo avrebbe mai chiesto direttamente. Anche il vecchio avvocato aveva un suo codice deontologico da rispettare: aveva assistito la giovane detective nella causa di reintegrazione al lavoro. Durante una delle sue sparizioni dal dipartimento di polizia Mallory era stata nel profondo Sud, e in un altro viaggio aveva seguito la Route 66, ma stavolta era diverso. Charles era preoccupato e l’onore gli imponeva di non condividere con nessuno le sue preoccupazioni. Al suo ritorno a New York Mallory si era limitata a fornire informazioni generiche, del tipo: il monte Rushmore era alto e il Mississippi un fiume possente. Di sicuro c’era solo una cosa: aveva fatto un lungo viaggio verso il nulla. Quando Charles ripensava a quel percorso labirintico, agli ampi cerchi e ai continui cambi di direzione, vedeva Mallory che vorticava, perdeva l’equilibrio... precipitava attraverso l’America. Raggiunto l’altro capo del ponte, l’auto si inoltrò in un quartiere di villette monofamiliari con vialetti e cani nei giardini. E il silenzio era diventato pesante. «Ho trovato Coco molto affascinante» disse Robin cambiando saggiamente argomento. «Non parla come una bambina della sua età.» «No, ha quella che si chiama una personalità da cocktail party» rispose Charles. «Quella specie di cicaleccio è un’abilità che i bambini Williams sviluppano per stringere rapporti con le persone.» Il triste paradosso era che la superficialità dello stratagemma impediva a Coco di avere una relazione significativa con chiunque. «Che le succederà se non trovo una famiglia che la prende?» «Coco andrà in comunità» disse Charles. «E se sopravvive, crescerà, troverà un lavoro... e vivrà da sola.» Non ricordava la storia di qualcuno che entrambi conoscevano bene? Robin tacque, forse per riflettere su ciò che avevano in comune i bambini abbandonati. Però, al contrario di Coco, Mallory non aveva mai cercato amore o calore nei contatti umani. Lei preferiva perseguitare gli esseri umani, e il suo unico argomento di conversazione era la morte. Charles guardò l’orologio sul cruscotto. Ormai i detective dovevano aver trovato la luna fuggitiva che, secondo Coco, era andata a vivere in una scatola. 8 La regola è chiara: vietato correre nei corridoi. Ma gli insegnanti non mi rimproverano mai. Credo sappiano tutti che io corro per non essere picchiato, morsicato o annegato nella tazza del cesso, secondo cosa mi porterà la giornata. Ernest Nadler I bambini delle scuole estive scendevano a frotte dai bus gialli e le loro grida e risate si mescolavano alle chiacchiere dei turisti in attesa che si aprissero le porte. Coco curvò le spalle, si coprì le orecchie con le mani e chiuse gli occhi per isolarsi dal rumore e dalla confusione. I due detective e la bambina si allontanarono dalla ressa e presero un sentiero in salita verso il piccolo giardino di fiori e alberi che circondava il Museo di storia naturale. Si sedettero su una panchina davanti a un gigantesco cubo di vetro e acciaio che ospitava una riproduzione del sistema solare. La maestosa struttura, alta come un palazzo di sette piani, conteneva il planetario del museo. «Lo so che di giorno sembra diverso» disse Mallory. Coco l’aveva visto solo una volta, un’occhiata di sfuggita in una notte terribile e il suo ricordo era impreciso. «È quello che hai visto dalla finestra dello zio Red?» La bambina annuì. Osservando da vicino e alla luce del mattino, Coco dovette ammettere con un certo rammarico che non era la luna a riempire quell’immensa scatola di vetro ma una copia biancastra del sole. I pianeti, in scala perfetta, erano sfere molto più piccole appese ai fili, immobili nelle loro orbite. E quel sole gigantesco non si muoveva neppure, era saldamente fissato al suolo. Riker le accarezzò la mano. «Che fregatura, eh?» Mallory si alzò dalla panchina e guardò verso l’Ottantunesima Ovest e una fila di scatole più grandi: enormi edifici di pietra grigia, mattoni scuri o rossi, alcuni con facciate elaborate. Quella era una zona ricca, con portieri in livrea e tende da sole per riparare gli inquilini nel breve tragitto verso la strada e le limousine in attesa. Centinaia di finestre si affacciavano sul planetario, e uno di quegli appartamenti apparteneva alla vittima trovata in stato comatoso nel Ramble. Evidentemente Charles Butler non era ancora tornato da Brooklyn e non aveva trovato il biglietto infilato sotto la sua porta da un agente di SoHo con la richiesta di presentarsi nel West Side per una consulenza. «Dovremmo procurargli un cellulare» disse Riker. Mallory abbassò un angolo della bocca. «Sì, già.» Riker provò invidia per lo psicologo tecnologicamente ritardato che possedeva una segreteria telefonica – regalo di Mallory – ma non la accendeva mai. Quell’uomo viveva le sue giornate senza essere assillato da messaggi e convocazioni urgenti. Un marziano in quella nazione dominata dalla televisione, non era turbato da previsioni angosciose di allarmi rossi e attacchi terroristici, perché preferiva leggere i giornali che gli raccontavano solo quello che era già accaduto. Persino il frastuono delle strade affollate da milioni di pazzi frenetici raramente penetrava attraverso i finestrini chiusi della sua Mercedes. E così Charles Butler navigava tranquillo nella città più delirante e ansiogena del mondo. «Eccoli che arrivano.» Mallory indicò l’auto di pattuglia parcheggiata in doppia fila all’angolo tra l’Ottantunesima e Central Park Ovest. Gli agenti scesero. «Sono solo tre.» «Il West Side non poteva fare di più» disse Riker. «Stanno aiutando il distretto del parco a controllare gli alberi nel caso ci siano altre vittime.» Agli agenti fu ordinato di perquisire un isolato di edifici alti sedici piani per trovare l’appartamento di un uomo senza nome. «E queste non vi serviranno» disse Mallory distribuendo le fotografie della vittima in coma. «Nessuno dei portieri lo ha riconosciuto. I capelli sono di un altro colore.» Inoltre denutrizione e disidratazione avevano contribuito a cambiare i connotati dello zio Red. «Probabilmente nemmeno i vicini lo riconosceranno.» «State scherzando?» L’agente più anziano incrociò le braccia. «Come diavolo facciamo a sapere se abbiamo trovato il posto giusto? Metà di questi appartamenti sono vuoti, la gente è uscita a pranzo, è al lavoro.» «Non sarà un problema» disse Riker, contando sul fatto che probabilmente Coco era stata l’ultima a uscire dalla casa dello zio Red. «State cercando l’unica porta non chiusa a chiave di New York.» E benedetta la paranoia di una città sprangata a tripla mandata. A parte la scimmia, era tutto bianco: il divano, i tappeti, le tende. Gli indumenti della vittima erano ammucchiati sul pavimento vicino all’ingresso. Secondo la carta d’identità trovata nel portafogli in una tasca dei pantaloni, quella era la casa di Humphrey Bledsoe, alias lo zio Red, e Coco lo confermò grazie all’unica lampada nel salotto quasi vuoto. La base era una scimmia di ceramica blu. «Questa era accesa.» Passò la mano sul muso dell’animale. «Me lo ricordo.» Mallory alzò gli occhi al soffitto. C’era solo una presa vuota e la lampadina del lume era a basso voltaggio. Quindi la stanza era in penombra quando lo zio Red era stato portato via nudo e legato. La bambina non si staccava da Mallory e la seguì nel corridoio su cui si affacciavano nove porte per una veloce perquisizione dell’appartamento, una reggia secondo gli standard di New York. «Qual era la tua stanza?» «Quella buia.» Coco non disse altro e Mallory non insistette. Charles Butler si era raccomandato di non forzarla a rispondere e di accontentarsi delle informazioni che avrebbe fornito spontaneamente. Coco era molto fragile, glielo aveva ripetuto tre volte. Eppure quella bambina malata era sopravvissuta per giorni da sola a Central Park. Mancando qualsiasi traccia di abbronzatura sulla pelle candida, Charles ne aveva dedotto che Coco avesse sofferto il caldo e si fosse rifugiata in un posto riparato. Mallory era della stessa opinione, memore dei giorni feroci della sua infanzia. La detective e la sua ombra dai capelli rossi tornarono in salotto da Riker. «Il padrone di casa stava ristrutturando» osservò lui. Nell’aria aleggiavano odori di pittura fresca, vernice e segatura. Il divano e la poltrona erano nuovi, ancora negli involucri di plastica e con i cartellini del negozio e il parquet sembrava levigato di fresco. Il vasto locale era su due livelli, con alcuni scalini che portavano alla zona sopraelevata. «Quel tizio aveva traslocato solo una settimana fa.» L’agente che aveva trovato l’appartamento era nell’ingresso, con una mano sulla maniglia della porta. «Prima, per mesi ci sono stati i muratori. Tutti i giorni seghe, martelli, segatura e sporcizia dappertutto. I vicini del piano non hanno mai visto il proprietario, ma lo odiano a morte.» Il poliziotto uscì e Mallory guardò i vestiti ammucchiati a terra. «Quindi lo zio Red e l’altro uomo erano qui.» Secondo la bambina lo sconosciuto che aveva portato via lo zio indossava una tuta. Lei lo chiamava l’uomo delle consegne perché aveva un carrello a due ruote, come quello dei fattorini che consegnavano gli scatoloni a sua nonna. «Coco, tu dov’eri quando l’uomo ha legato lo zio Red?» «Te l’ho detto. Ero dietro la porta. Lo zio Red mi ha spiegato che non dovevo uscire. Che non dovevo fare rumore.» Mallory indicò l’arco su una parete nuda, una porta cieca. «Eri là? Forse ti nascondevi dietro un muro?» La bambina scosse il capo, confusa, perché a quella domanda aveva già risposto. Riker guardò di nuovo l’atrio. «Da qui si vede solo la porta d’ingresso e sappiamo che la piccola non si nascondeva dietro a quella.» Mallory fissò Coco negli occhi. «Dimmi la verità.» Coco ruotò le mani e spostò il peso del corpo da un piede all’altro in una piccola danza nervosa. Poi circondò con le braccia sottili la detective e la strinse forte. Sollevò il viso per mostrare a Mallory un grande sorriso forzato. Gli occhi disperati imploravano silenziosamente: Amami, amami... ti prego, oh, ti prego. «Basta con le storie» disse Mallory. «Devo sapere la verità.» La bambina non capiva e scosse il capo, sgomenta. Gli occhi erano pieni di dolore, preludio alle lacrime. «Devo sapere dove ti nascondevi» insistette Mallory. «È molto importante.» «Basta!» ordinò una voce autoritaria dall’ingresso. «Non una parola di più.» I detective si voltarono, non riconoscendo dal tono il civilissimo Charles Butler che stava entrando a grandi passi. Prese in braccio la bambina e la cullò come il più tenero dei giganti. Le sorrise con la sua faccia da clown e anche Coco sorrise. Andava tutto bene. Posò la testa sulla spalla di Charles e non vide lo sguardo duro che lui rivolse a Mallory. Consegnò la bambina a Riker dicendo: «Portala sotto. Passerò a prenderla quando ho finito qui». Riker, che non prendeva ordini da nessuno, ubbidì, schierandosi contro Mallory, e lei si ripromise di fargliela pagare. Charles infilò le mani in tasca e strinse i pugni, celando educatamente quella rara manifestazione di collera. Con la voce calma di chi fa un’osservazione casuale, disse: «Come intendi procedere con Coco? Pensi di ficcarle la testa nell’acqua? Di schiacciarle le dita?». 9 Tornando a casa da scuola ci fermiamo a comprare una fetta di pizza, offerta da Phoebe. Lei dice che quello che mi hanno fatto oggi ha anche un lato positivo. Mi sono conquistato un posto negli annali della storia della scuola. «Non riusciranno mai a cancellare quella macchia di sangue» dice. Ernest Nadler Mandare un ipocondriaco conclamato a piantonare la vittima di un crimine ricoverata all’ospedale dell’Upper West Side era stato uno scherzetto del sergente di servizio. Il giovane agente Wycoff, ossessionato dai germi, era posizionato su una sedia di metallo nel reparto di terapia intensiva, una grande stanza dalle pareti verde chiaro odorosa di medicinali. Quel centro tecnologico di luci e schermi lampeggianti brulicava di medici in verde e infermieri in bianco che monitoravano gli strumenti, quando non correvano da una parte all’altra. Ogni letto era circondato da tende in colori pastello. La tenda rosa dietro la sedia dell’agente nascondeva l’uomo in coma trovato nel Ramble. Per passare il tempo l’agente Wycoff era arrivato provvisto di uno spesso plico di fogli stampati dal computer. E ora, nel suo secondo giorno di guardia, grazie a internet era un esperto in tutto ciò che concerneva il coma e la disidratazione. Era anche estremamente vigile. Conosceva tutti i siti contenenti storie di orrori ospedalieri, tutti i modi con cui il personale medico poteva uccidere i pazienti, deliberatamente o stupidamente. Nessuno sfuggiva al suo controllo. Nessun medico o infermiere poteva avvicinarsi alla tenda rosa senza mostrare un documento d’identità a conferma del nome scritto sul badge. E, perdio, lui prendeva nota di tutto. Conosceva tutti i nomi e gli indirizzi. Dopo aver controllato gli addetti, il solerte poliziotto sovrintendeva personalmente a ogni trattamento, a ogni sostituzione di flebo e di catetere. Controllava i monitor delle macchine che rilevavano i segni vitali del cuore e dei reni. Il personale trovava irritante dover discutere ogni questione medica con un uomo armato. Tuttavia, era merito suo se era stata scoperta un’incompatibilità farmacologica durante uno dei tanti controlli della cartella clinica del paziente. Quindi... se quella donna in abiti civili che gli stava davanti s’illudeva di poter entrare a vedere il suo paziente, doveva essere dannatamente male informata. «Come si chiama?» Una domanda semplice, ma lei sembrava sconcertata. La detective Mallory aprì le tende per dare luce al salotto di Humphrey Bledsoe, alias lo zio Red. «Quella bambina sa cosa è successo qui dentro, ma non vuole dirmelo. E io so che non è ritardata.» «Hai ragione» disse Charles. «Coco è molto intelligente... e creativa. Non crede che lo zio si sia trasformato in albero, però una bella storia è meglio di una realtà spaventosa che lei non è in grado di affrontare. Ha solo otto anni.» Oh, errore madornale. Mallory detestava che le facessero notare quello che era ovvio. «Non vorrai metterti tra me e un’indagine! Io ho bisogno...» «Mallory, sta’ zitta e ascolta.» E lei tacque, ma solo perché sorpresa da quelle parole e da quel tono. Intanto Charles si era conquistato un momento per calmarsi. Andò alla finestra e guardò il planetario sull’altro lato della strada. Capiva i limiti della bambina e quelli di Mallory. «So che quando avevi la sua età hai dovuto affrontare cose anche peggiori. Ma Coco non è come te.» Si girò e vide un lampo d’ira nei suoi occhi. Forse Mallory credeva che avesse fatto un complimento alla bambina, dicendo che non era come lei. Charles chiarì il suo pensiero. «Coco non ha la tua capacità di cavarsela. Magari l’avesse.» E ora rischiò di commettere un altro passo falso ripetendo fatti già appurati, ma non gli importava più di offenderla. «Coco è stata rapita, strappata all’unico mondo che conosceva. Ha assistito alla violenza perpetrata su un uomo che è stato denudato, legato e chiuso in un sacco. Poi ha avuto il coraggio di uscire al buio in una città dove non conosceva niente e nessuno. Ha seguito quel sadico assassino fino nel Ramble... lei, che ha problemi con le stringhe e i bottoni. Stava per crollare, per rinchiudersi in se stessa, e proprio allora arrivi tu, Mallory. E finalmente Coco ha qualcuno. Quella bambina vive solo per compiacerti.» Indicò con la mano la finestra e il planetario. «Ti ha persino regalato la dannata luna dentro una scatola.» E non contava che in realtà fosse il sole. «Che dono! E come sei irriconoscente, tu!» Mallory lo stava ascoltando? No, guardava gli indumenti sul pavimento, trovandoli infinitamente più interessanti. «In questo punto l’assassino ha aggredito Humphrey Bledsoe e lo ha impacchettato» disse. «Io devo sapere dove si nascondeva Coco in quel momento. Se lo ha visto, forse lui ha visto lei. Potrebbe esserci in giro un sadico che cerca quella bambina.» Mallory sorrise e lui rabbrividì, perché non era un sorriso allegro e tantomeno amichevole. «Ma tu hai ragione ad allontanarla da me, Charles. Hai proprio ragione.» Quel sarcasmo diceva che invece aveva torto marcio. «Io volevo solo salvarle la vita. Chissà a cosa pensavo. Devo essere sociopatica.» L’ultima parola restò sospesa nell’aria come una sfida. Così era stata definita dal dottor Kane nella valutazione psicologica per il dipartimento di polizia. Ma Charles era stato il suo paladino su quella questione e l’avrebbe difesa sempre, anche in quel momento. «Non penserei mai questo di te.» Infatti non lo pensava, pur sapendo che era vero. Lei gli si avvicinò per guardarlo in faccia. Stava aspettando che il rossore gli fiorisse sulle guance cancellando ogni possibilità di inganno come gli succedeva quando giocava a carte? Be’ non l’avrebbe visto arrossire, non in quel momento. Charles stava dicendo la verità, e avrebbe dato il suo cuore se avesse potuto sperare che anche lei ne possedesse uno. Il tenente Coffey ascoltava il sergente di servizio del West Side che gli diceva al telefono: «L’uomo in coma ha ricevuto una visita». La giovane donna era stata trattenuta dall’agente di guardia all’ospedale. «E questo dimostra che è trapelata un’altra notizia.» Dopo aver ringraziato il sergente per quella nuova ferita inflitta alla sua ulcera, il tenente sbatté giù la cornetta. Senza aprire la porta dell’ufficio urlò per farsi sentire da tutta la squadra: «Chi ha una copia del “Daily”?». Guardò la finestra che dava sulla sala operativa e vide molte mani che si alzavano: i suoi uomini non erano tipi da «Wall Street Journal». Janos si alzò dalla scrivania con un giornale in mano. Quell’uomo sembrava un frigorifero che parla e cammina e l’ombra scura della barba su di lui era già presente alle nove del mattino. Aveva la faccia più brutale che Dio avesse mai dato a un detective, cosa che lo rendeva prezioso durante gli interrogatori. Entrò nell’ufficio del tenente in silenzio e posò il «Daily News» sulla scrivania. Jack Coffey aprì il giornale a pagina nove, seguendo le indicazioni del sergente dell’Upper West Side, e trovò una fotografia della vittima sopravvissuta di Central Park, con gli occhi chiusi e su un letto d’ospedale, sotto il titolo: «Conoscete quest’uomo?». «E nessuno di voi se n’è accorto?» Coffey guardò il suo detective. «Possibile che in questa squadra nessuno legga qualcosa di diverso dalle notizie sportive?» Janos, che rifletteva sempre prima di rispondere, disse con calma: «A me interessano le recensioni cinematografiche». Sebbene la grande notizia del giorno se la fosse accaparrata il «Times», anche sul «Daily» c’era un riferimento ai fatti di Central Park. Era però solo un accenno al luogo dove era stato trovato un uomo nudo e disidratato. Almeno, la fotografia era stata sepolta nelle pagine interne da un redattore che evidentemente preferiva vecchie turiste divorate dai topi come la signora Lanyard a pazienti in coma non identificati. «Ora il nostro assassino sa che l’uomo è vivo» disse Coffey. Oh, e l’articolo aveva pensato bene di fornire nome e indirizzo dell’ospedale, così il killer avrebbe saputo dove andare, se gli fosse venuto in mente di finire il lavoro eliminando un testimone ancora in vita. «Dunque Coco stava nascosta dietro una porta.» Avendo rimesso Charles Butler al posto che gli spettava nell’universo, Mallory era di nuovo al comando. Vinceva sempre lei. «No» disse. «Mi ha mentito sulla porta.» «Ne dubito. Racconta storie per divertimento, non per ingannare. Coco non sa fingere.» Charles osservava la parte sopraelevata dell’ampia stanza. «Ehi!» Andò verso i gradini. «Lo sentivo che qui dentro c’era qualcosa di strano. I miei genitori avevano degli amici che abitavano in questo palazzo. Dietro quella parete c’è una canna fumaria, quindi mi chiedo... perché mai qualcuno ha deciso di eliminare il caminetto?» A Manhattan era considerato un crimine immobiliare. Salì i gradini e Mallory lo seguì. «Coco si nascondeva qui» disse Charles sicuro, e sollevò il tappeto scoprendo una maniglia infissa nel legno. «Dietro una porta, per l’appunto... una porta nel pavimento.» Mallory tirò la maniglia e sollevò un pannello di legno che dava su un buco scuro. «È qui che la teneva quel bastardo.» Fece scorrere la mano sulla parte interna della botola. «È foderata con materiale isolante.» «Una casa di sogno per un pedofilo» commentò Charles. La bambina non sarebbe mai stata scoperta, neppure casualmente da un eventuale addetto alla manutenzione entrato con la sua chiave per riparare un tubo rotto. «È una ristrutturazione che non si poteva fare nelle stanze più piccole o vicino alle finestre. La sopraelevazione del pavimento sarebbe arrivata a sfiorare i davanzali. Ecco perché ha dovuto eliminare il caminetto.» Charles scese nella stanza segreta, dove doveva stare curvo, e si guardò intorno. «Non ci sono interruttori. All’età di Coco molti bambini hanno paura del buio, e la paura è un ottimo sistema per tenerli sotto controllo. Quindi la perdonerai se ha omesso questo buco spaventoso dal suo racconto su un uomo che si è trasformato in albero.» Grazie alla luce che giungeva dall’alto vedeva dei giocattoli e un letto dove sembrava che nessuno si fosse mai coricato. Grazie, Dio. Qualcosa scricchiolò sotto i suoi piedi mentre la porta della botola si chiudeva lentamente. «Dammi un minuto» disse Mallory. «Poi aprila, solo uno spiraglio.» Charles finì di contare, sollevò il pannello di legno di qualche centimetro e guardò attraverso la frangia del tappeto che Mallory aveva rimesso al suo posto. Aveva anche chiuso le tende e acceso l’unica lampada. La parte sopraelevata della stanza era in ombra. Mallory andò verso il mucchio di indumenti e si fermò nel punto dove doveva essere stato il sadico, guardando verso la botola. «Troppo buio. Non può aver visto Coco.» «Probabilmente neppure lei lo ha visto, non bene almeno.» Charles uscì dalla botola e andò alla finestra tenendo in mano un piccolo paio di occhiali con una lente rotta. «Li ho trovati per terra... dopo averli pestati.» Tirò una tenda per leggere la gradazione sul lato interno della stanghetta. «Se sono di Coco, è miope.» Attraverso la fessura della tenda guardò il planetario. La miopia spiegava perché la bambina avesse scambiato quel finto sole per la luna. Non aveva visto i pianeti orbitanti, così come non aveva distinto il sacco verde dalle foglie degli alberi. Charles abbassò lo sguardo sugli occhiali che erano per lui un’altra ferita inflitta a quella bambina. «Per questo Coco ti ha riferito solo della tuta e del carrello, non ha visto la faccia dell’Artista della Fame.» «E noi siamo gli unici a saperlo.» E ora l’unica prova era sparita. Gli occhiali rotti svanirono dalla mano di Charles ed entrarono nella tasca del blazer di Mallory. Una volta il defunto Louis Markowitz aveva descritto la figlia adottiva come una ladra di prima classe, nata per rubare, e quel poliziotto l’aveva detto con un certo orgoglio, aggiungendo il commento: «Che marmocchia!». Mallory esaminò la parte in ombra della stanza, dove la fessura nel pavimento sicuramente non era stata notata. «Quindi il nostro criminale non sa che io ho un testimone.» «Veramente... non l’hai tu.» Charles sorrise. «L’ho io. Sono il suo tutore, ricordi? Per questo il tuo uomo dell’Ufficio persone scomparse ha chiamato me. La polizia di Chicago ha trovato il corpo della nonna un’ora fa. Morta per cause naturali. Coco non ha nessun altro parente. Ma ha me.» Le concesse un minuto per digerire la notizia. Poi con tutta l’autorità che riuscì a racimolare fissò le nuove regole con cui trattare la sua giovane pupilla. Mallory non apprezzò, ma a Charles non importava. Il comandante dell’unità Crimini Speciali era dietro la tenda rosa che circondava il letto del paziente in coma. In un faccia a faccia con il dottor Kemper, l’amministratore dell’ospedale, sventolò il giornale aperto alla pagina con la fotografia della vittima di un crimine. «Qualcuno l’ha venduta a un cronista.» Kemper, magro e appuntito come un furetto, assunse un’espressione offesa e con una mano premuta sul cuore disse: «Non è stato uno dei miei». Coffey indicò il paziente. «Nella foto quest’uomo indossa il camice dell’ospedale, quindi possiamo escludere il personale dell’ambulanza. Loro lo hanno solo visto nudo.» «Indagherò.» Quell’uomo aveva un modo insopportabile e untuoso di mentire sorridendo. Il tenente si rivolse a un’infermiera che stava accanto all’amministratore come una dama di compagnia. «Vada a dire all’agente Wycoff di portare qui la donna.» Appena l’infermiera si allontanò, Jack Coffey guardò il disgustoso Kemper. «Non ho più bisogno di lei. Se ne vada.» Con un sorriso ancora più mellifluo l’amministratore dell’ospedale scivolò via. Dall’altra parte della tenda l’agente Wycoff attendeva con la visitatrice che aveva trovato così sospetta. La donna era giovane, sotto i trent’anni, e alta. Non portava la fede nuziale. Nonostante il viso liscio e il corpo paffuto e infantile, al tenente venne in mente il desueto termine “zitella”, forse a causa dei capelli color topo stretti in una crocchia da istitutrice. Il tipo timido che fa tappezzeria, pensò. Indossava un semplice vestito grigio, ideale per mimetizzarsi e sparire in quella città di cemento. L’unico elemento notevole erano le ciglia, così folte da sembrare finte, ma non lo erano. La donna non aveva un filo di trucco. Stava allungando il collo per dare un’occhiata al misterioso paziente nascosto dalla sagoma del tenente. Coffey si spostò e lei vide l’uomo sul letto. La mano intorno alla tracolla della borsa si irrigidì mentre scuoteva il capo. «Non lo conosco.» E lui ci credeva? Be’, no. La donna si stava già girando per andarsene, ma a un rapido cenno di Coffey l’agente la trattenne per un braccio. Lei guardò il tenente con occhi guardinghi. «Devo andare.» Jack Coffey consultò il taccuino dell’agente Wycoff. «Ha detto di chiamarsi Mary Harper?» Le mostrò il taccuino perché potesse controllare la pagina. «E questo è il suo indirizzo?» «Sì, abito nel Lower East Side.» «Impossibile. Secondo questo indirizzo, il suo appartamento si troverebbe in mezzo all’East River.» Coffey allungò una mano e le tolse la tracolla dalla spalla. «Ha dichiarato il falso alla polizia e io devo perquisire la sua borsa per accertarmi che non contenga armi prima di arrestarla.» Un’infermiera arrivò mentre il contenuto della borsa veniva rovesciato sul letto. «Potete farlo da un’altra parte?» «Oh, il nostro amico in coma non ci baderà.» Il tenente osservò gli oggetti sparsi sul lenzuolo bianco. Niente sigarette, ma c’era un accendino. Lo prese, sembrava d’oro ed era pesante... oro massiccio, non placcato. Quell’elegante gingillo mal si adattava alle brutte scarpe piatte della signora. In quella città le donne ricche calzavano sandali col tacco a spillo. C’erano dei graffi profondi sulla superficie dell’accendino. Forse era un ricordo di tempi migliori. O forse no. E il tenente scoprì un’altra bugia. «Signorina Harper, ha detto all’agente Wycoff di non avere con sé alcun documento d’identificazione.» Prese un portafogli di pelle di serpente. Era molto bello. Lo avvicinò al naso, odorava di soldi. La patente della donna era in bella mostra in uno degli scomparti, e non riportava il nome Mary Harper. Che sorpresa! «I miei detective hanno appena identificato la nostra vittima.» Indicò il paziente privo di conoscenza. «Phoebe Bledsoe, le presento Humphrey Bledsoe.» 10 Tormentano Phoebe solo quando è con me, e non le fanno mai molto male. A volte mentre le passano vicino la mandano a sbattere contro un armadietto nell’atrio. Solo una piccola violenza. Sembra quasi accidentale. Credo che nemmeno la vedano. Phoebe non apprezza il suo superpotere di invisibilità. Forse perché neppure Toby Wilder la vede. Toby è troppo fico per accorgersi della nostra esistenza. Ernest Nadler Il tenente Coffey si sedette davanti al finto specchio per godersi di nascosto lo spettacolo in corso nella stanza degli interrogatori. In altri distretti di polizia gli osservatori dovevano accontentarsi di ambienti spogli, al massimo forniti di un paio di sedie pieghevoli. Questo invece era attrezzato come un piccolo cinema, con file di sedili imbottiti per accomodare le terga dei vip in visita. Il tenente era solo nella stanza buia e in quella illuminata c’era solo Phoebe Bledsoe. Col viso illividito dai tubi al neon, batteva un piede sul pavimento e si mordicchiava il labbro inferiore. Si mangiava anche le unghie che quasi sanguinavano dopo un’ora di attesa in solitudine. La porta si aprì. Due detective entrarono e si sedettero. Resa dei conti. Mentre Riker faceva cordialmente le presentazioni, la sua collega posò le mani sul tavolo puntando le lunghe unghie rosse contro la signorina Bledsoe. Poi Mallory si protese in avanti per fissare la donna da vicino. Uno sguardo così feroce. Così intenso. C’era chi diceva che potesse restare in quella posizione per un’ora senza battere ciglio, ma era solo mitologia poliziesca su Mallory l’Automa. Jack Coffey sorrise. I suoi detective stavano mettendo in scena una versione interessante del vecchio gioco del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. Sbirro sano di mente. Sbirro pazzo. Il tenente non faceva fatica a leggere nella mente di Phoebe Bledsoe che guardava Mallory: Che incredibili occhi verdi. Lenti colorate? La donna distolse rapidamente lo sguardo. Fin dal grembo materno i newyorkesi imparavano a evitare il contatto visivo con i pazzi. Si rivolse al detective sano di mente: «Sono in arresto?». «No» disse Riker. «Ci serve solo qualche informazione.» Esaminò un foglio di carta e poi le lanciò un sorriso amichevole. «Vedo che è infermiera alla Scuola Driscol. È in vacanza per l’estate?» La signorina Bledsoe si protese sul tavolo. «Il tenente Coffey ha detto che sarei stata accusata per aver dichiarato il falso a un agente di polizia. E per intralcio alle indagini...» «Non si preoccupi per questo.» Riker liquidò il problema con un gesto della mano. «Non siamo qui per tormentarla.» Guardò la sua collega. «Non è così?» Mallory continuava a fissare Phoebe Bledsoe come se fosse il suo pranzo. Si leccava le labbra. Dall’altro lato del vetro Jack Coffey sorrise beffardo. Ottima interpretazione. Immaginava perché la sua detective stava recitando quella parte. Sapeva che lui la osservava e si chiedeva: Fino a che punto sei pazza? Riker estrasse una fotografia da una busta marrone. «Abbiamo trovato anche una donna nel Ramble. Era legata e chiusa in un sacco... proprio come suo fratello. Però a lei non siamo arrivati in tempo. Era morta. Pensiamo che ci sia un collegamento con Humphrey. Potrebbe dare un’occhiata alla foto? Per dirci se la riconosce.» Posò sul tavolo l’istantanea di un cadavere femminile nudo, col naso e le guance divorati dai topi, il nastro adesivo che copriva la bocca e gli occhi e le dita scarnificate. La foto non serviva per un’identificazione... solo per spaventarla. Phoebe Bledsoe rivolse gli occhi al soffitto. «Non ho idea di chi sia.» «È quello che ha detto anche di suo fratello all’ospedale.» Riker alzò le mani: Ehi, ma non ce l’abbiamo con lei. «E poi ha dato un nome falso al...» «Mia madre mi aveva raccomandato di non attirare l’attenzione su di me.» «È stata sua madre a mandarla all’ospedale?» «La fotografia sul giornale non era chiara. Non era sicura che si trattasse di mio fratello. Humphrey aveva solo sedici anni l’ultima volta che l’abbiamo visto. Allora aveva il viso paffuto... e i capelli erano rossi, non scuri. L’uomo in quel letto...» Abbassò gli occhi e strinse i pugni. Jack Coffey avrebbe potuto finire la frase al posto suo: la fotografia sfocata del giornale era in bianco e nero. Gli occhi infossati e le guance scavate erano sfigurati dal lampo del flash. E la fotografia sulla sua patente era ancora meno rassomigliante al paziente in coma, che evidentemente non era al suo meglio quando era stata scattata. «Vorrei poter riferire al mio superiore che lei ha collaborato» disse Riker. «Così ci scorderemo delle accuse a suo carico.» Le porse di nuovo la fotografia del cadavere. «So che è in pessimo stato, ma la donna era più o meno coetanea di suo fratello. Lui aveva ventotto anni, vero? Se potesse darci un elenco dei suoi amici...» «Non conosco i suoi amici.» Phoebe abbassò lo sguardo sulle unghie rosicchiate, poi le nascose in grembo sotto il tavolo. «Gliel’ho detto... non vedevo Humphrey da anni.» Riker tirò fuori dalla busta un sacchetto trasparente contenente una ciocca di capelli biondi con una lunga ricrescita scura. «Questo potrebbe aiutarla. Dia un’occhiata ai capelli della morta... Signorina Bledsoe, per favore, può aprire gli occhi?» Mallory strinse il pugno e lo batté sul tavolo come un martello. Phoebe Bledsoe spalancò gli occhi e spostò indietro la sedia di qualche centimetro. Costretta a collaborare, esaminò i capelli. «Non so a chi possano appartenere.» Mallory sferrò un altro pugno sul tavolo e continuò al ritmo di un tamburo – o di un mitra – fissando negli occhi la sua vittima. Sotto il tavolo le dita della signorina Bledsoe si intrecciarono in una preghiera disperata. Be’, la pazzia rendeva nervoso chiunque. Era un momento interessante per l’osservatore nella stanza buia. La sua detective, quella recentemente considerata instabile, stava fingendo di essere instabile. Riker si protese verso Phoebe Bledsoe. Il suo era il volto rassicurante della ragione. «Deve sforzarsi di collaborare. La mia collega vuole accusarla di concorso in rapimento.» «Io avrei rapito Humphrey? Ma è pazzesco!» La donna si interruppe per lanciare uno sguardo a Mallory, probabilmente preoccupata di averla offesa con il termine “pazzesco”. «No» replicò Riker. «Non suo fratello. Intendevo la bambina che lui nascondeva in casa sua.» La bocca della donna si aprì per mimare le parole: Oh, no. Il suo sgomento era genuino. Scosse il capo. «Voglio un avvocato!» Riker si rilassò sulla sedia. «Come ho detto, signorina Bledsoe, lei è qui solo per essere interrogata. Se dovremo accusarla di un reato, avrà un avvocato.» Mentre chiudeva la busta preparandosi a uscire, la donna si alzò dal tavolo. In un lampo Mallory le afferrò il polso e disse: «Si sieda». Le parole uscirono con un tono piatto, privo di qualità umane. «Lei non va da nessuna parte.» «Credo di sapere cosa intende la mia collega.» Riker si alzò. «Vuole trascorrere un po’ di tempo con lei.» Terrorizzata, la donna si girò verso la sedia vuota sul suo lato del tavolo, come se stesse ascoltando qualcuno che non c’era. Sorrideva, trovando conforto nel suo compagno invisibile. E il tenente Coffey meditò sui diversi livelli di follia delle persone nella stanza illuminata. Oh, per favore, non un altro matto che sente le voci. Gli schizofrenici non servivano a niente in tribunale. Riker si sedette al tavolo. Lentamente. Senza movimenti bruschi. «Dunque... Phoebe, chi è il suo amico?» Indicò la sedia vuota su cui si concentrava l’attenzione della donna. La follia era uno strano gioco di specchi. Ora Phoebe guardò Riker come se il pazzo fosse lui. Era normale vedere una limousine davanti alla Scuola Driscol, ma non durante i mesi delle vacanze estive. Sul sedile posteriore un avvocato ammoniva la sua cliente. «Signorina Bledsoe, se qualcun altro le mostra un distintivo, dia a quel bastardo il mio biglietto da visita.» Era il secondo biglietto che le consegnava nell’ultima mezz’ora. Forse quel giovanotto sentiva che Phoebe si era già scordata il suo nome. Tra qualche minuto non sarebbe più stata in grado di distinguerlo dagli altri portaborse dello studio legale, tutti laureati di Yale e Harvard. L’autista aprì la portiera. Lei scese davanti alla scuola e l’auto ripartì. Phoebe guardò il grande edificio risalente all’epoca in cui andavano di moda i fregi di pietra e le gargolle. Due di quei mostri erano appollaiati sull’architrave, pronti a balzare su chiunque varcasse l’enorme portone. Anche gli altri mostri, meno grandiosi e di pietra scura, stavano lì dall’inizio dell’Ottocento. La Landmark Society era rigorosissima sulla conservazione degli edifici storici e, a parte l’unica pecca dei lampioni al neon che avevano sostituito quelli a gas, in quella strada dell’Upper West Side il tempo si era fermato. Il fondatore della scuola era stato un uomo con il debole di immortalare nella pietra il nome di famiglia in ogni angolo della città. Il folle intento di tenere viva la popolarità dei Driscol era stato vanificato dagli urbanisti, che avevano abbattuto tutti i suoi monumenti. Ma lì, sulla facciata della scuola, il nome restava inciso in lettere così profonde che secoli di vento e pioggia non erano riusciti a cancellarle. Uno stretto passaggio tra la scuola e l’edificio accanto era chiuso da un alto cancello di ferro. Phoebe cercò la chiave nella borsa, lo aprì e percorse il sentiero che portava in un vasto giardino sul retro. Sedie e tavoli erano disposti in gruppi e c’erano delle panchine sparse qua e là per insegnanti o allievi in cerca di solitudine. L’edera lussureggiante ammantava di verde il muro posteriore e fiori multicolori sbucavano sotto gli alberi centenari. Un vialetto lastricato conduceva a un piccolo cottage che all’epoca dei cavalli era la rimessa delle carrozze. Un’anomalia in quella città di grattacieli, sopravviveva su un pezzo di terra non vincolato alla scuola. Prima che il valore dei terreni arrivasse alle stelle, aveva ospitato i membri della famiglia in difficoltà finanziarie o di altro genere. Era un luogo dove nascondersi. Phoebe occupava il cottage col consenso a denti stretti di sua madre, l’ultima dei Driscol. Secondo i termini del fondo fiduciario di famiglia, Phoebe non contava perché portava il nome di suo padre. Era solo una Bledsoe, come certificava il suo atto di nascita. Un ragazzino camminava accanto a lei lungo il sentiero. Aveva capelli chiari, gambe lunghe e sottili. Durante gli undici anni della sua vita lo avevano chiamato Ernie. In seguito per Phoebe era diventato Dead Ernest, un pallido scherzo, un povero gioco di parole, perché proprio per essere “mortalmente onesto” era stato ucciso. Mentre camminava vicino a lei nella sua reincarnazione, era molto più magro. La maglietta e i jeans erano sporchi, e aveva delle foglie secche tra i capelli. Aveva perso una scarpa, una calza... e la vita. I piedi del bambino non facevano rumore sul selciato. Phoebe non aveva mai controllato i passi del suo vecchio compagno di scuola – non ci aveva neppure provato – perché nessuno sapeva meglio di lei che lui non c’era. Per questo la domanda del poliziotto – “Chi è il suo amico?” – l’aveva spiazzata. «Credevo che non ci avrebbero più lasciati tornare a casa» disse Dead Ernest. Non diceva mai nulla che richiedesse una risposta. Le loro conversazioni erano a senso unico. Solo i pazzi parlano con i morti. Il bambino che non c’era era sbucato fuori dagli incontri con uno psichiatra infantile dopo... l’incidente. Il dottor Fyfe, un seguace della terapia di gruppo, le aveva detto: «Immagina l’ansia che ti turba. Visualizzala come se fosse una persona. Parla con lei, grida se vuoi, ma tira fuori tutto». Unico ostacolo: Phoebe non era mai stata una bambina capace di confrontarsi con gli altri. Così si era costruita un facsimile dell’ansia – Dead Ernest – ma non aveva mai inveito contro di lui. Si era limitata ad ascoltarlo, un’ora dopo l’altra. E dopo una serie di incontri silenziosi, la terapia della giovane ascoltatrice era terminata. Ma Dead Ernest aveva continuato a vivere. Phoebe aprì la porta del cottage ed entrò in una grande stanza col soffitto alto e una nicchia per dormire. A parte l’angolo cottura, tutte le pareti erano coperte di libri. Volumi accumulati di nascosto da generazioni di Driscol. Erano tutti romanzi... vie di fuga. Si tolse il vestito grigio – Dead Ernest lo chiamava l’abito dell’invisibilità – e lo posò sullo schienale di una sedia. L’anta dell’armadio era aperta su una fila di vestiti di cotone in colori e disegni vivaci. «Sei in ritardo» disse il bambino con una scarpa sola. Giusto. Aveva solo venti minuti per arrivare al ristorante di Bleecker Street. Phoebe sciolse lo chignon e i capelli castani le ricaddero a onde sulle spalle. Si vestì, calzò i sandali e si diede una pettinata. Quindi una spruzzata di profumo e un tocco di rossetto. Fatto. Uscì di casa, percorse il sentiero, arrivò in strada e fermò un taxi. Le gambe di Dead Ernest erano più corte delle sue. Dovette correre per raggiungerla e salire sull’auto gialla accanto a lei. Ed eccoli a bordo con uno di quei tassisti della scuola di Oh-era-rosso-quel-semaforo? Il primo segnale stradale bruciato fu seguito da un’invettiva contro gli incapaci che regolavano il traffico a New York. «L’arancione scatta subito. Forse l’ha notato anche lei, signora. Se un pedone comincia ad attraversare col verde, in un attimo diventa arancione e poi rosso, e può morire prima di arrivare dall’altra parte. Oh, come amo questa città.» Dopo tre aneddoti su multe contestate in tribunale, il taxi si fermò all’angolo tra Bleecker Street e MacDougal. «Ce l’hai fatta» disse Dead Ernest. Con qualche minuto di anticipo. Phoebe Bledsoe era sempre la prima ad arrivare al ristorante messicano. Nel corso degli anni quel locale era stato una caffetteria e un bar con arredi e menu diversi. Solo l’indirizzo non era mai cambiato... e l’ora dell’appuntamento. Si sedette a un tavolo lontano dal sole della vetrina. Il vecchio accendino d’oro uscì dalla borsa e lei lo sfregò tra le dita. Come per magia, la porta si aprì ed entrò un giovane uomo con lunghi capelli scuri. Era sempre stato snello, e ora era troppo magro, ma ancora bello e probabilmente fatto. Difficile capirlo. Si muoveva con una grazia animale così spontanea e naturale che non avrebbe potuto barcollare, incespicare o cadere nemmeno sotto l’effetto di un’overdose. Andò a sedersi al solito posto sull’altro lato della sala. Doveva essere l’una. Lui non era mai in ritardo. «Ha due anni più di te» disse Dead Ernest, come se questo fosse un problema anche ora che non erano più bambini. «Non hai mai avuto una possibilità.» Vero, Toby Wilder era irraggiungibile, allora come adesso. Eppure quello era il momento culminante di ogni giorno: pranzare con Toby a tavoli separati. Phoebe ripose l’accendino. Un giorno glielo avrebbe restituito, sebbene fosse riluttante a separarsene... e forse lui avrebbe ricordato di averlo perso nel Ramble tanti anni prima. «Sembra un sonnambulo» disse il bambino morto. Lei guardò l’uomo vivo e vero. Gli occhi di Toby Wilder erano meno azzurri, meno luminosi? No, però erano annebbiati. Guardava fuori dalla finestra, cieco alle orde di turisti che ingombravano il marciapiede, cieco anche alla cameriera che gli porgeva il menu, e sordo quando la ragazza gli chiese cosa voleva mangiare. C’era un’altra differenza tra il bambino e la sua versione adulta: Toby aveva imparato a stare fermo. Non batteva i piedi e non tamburellava le dita sul tavolo. Aveva perduto la sua musica. 11 Phoebe sostiene che il corpo di Willy Fallon sembra l’esoscheletro di una formica. E Willy è veloce come una mosca, ma io dico di no. Io la vedo come Spider Girl. Vedo Willy nei miei sogni: una capocchia di spillo sopra otto lunghe gambe che corre sul pavimento della mia camera nel cuore della notte. E la sua immagine resta con me per tutto il giorno. Ogni giorno. Ernest Nadler Tra le ombre verdi del Ramble gli investigatori della Scientifica esaminavano il terreno intorno a uno degli alberi cui erano stati appesi i sacchi. Disposero dei piccoli coni gialli per segnalare il ritrovamento di involucri di chewing-gum e mozziconi di sigarette. Avevano già rimosso i numerosi topi uccisi dai poliziotti e ogni proiettile era stato sottoposto a un test balistico e catalogato. «Maledetti sbirri» disse un tecnico controllando i fori nella corteccia dell’albero, gli unici non prodotti dai due killer che si erano divertiti a far fuori i topi. Alzarono tutti gli occhi quando un guardaparco gridò: «Ne abbiamo trovato un altro!». La squadra di uomini e donne lo seguì attraverso Tupelo Meadow e nel bosco. Il guardaparco si fermò e puntò il dito in alto. «Aspettate che si alzi il vento.» Il fogliame si mosse scoprendo un sacco verde appeso a un ramo alto, sfuggito alle torce dei ricercatori della notte precedente. Era un evento raro arrivare sulla scena di un crimine prima della polizia e delle squadre di soccorso che solitamente la contaminavano. Tutti gli occhi erano puntati sul membro più recente della squadra, l’investigatore John Pollard, un giovanotto piccolo e muscoloso che trascorreva il suo tempo libero scalando le montagne. Per lui un albero doveva essere un’impresa facile. Infatti, in pochi minuti si arrampicò tra le fitte fronde e i nugoli di moscerini e raggiunse il sacco e ciò che conteneva. I colleghi radunati intorno al tronco aspettavano che la vittima venisse calata nelle loro mani. Ma prima, scattò una fotografia del ramo incontaminato dalle mani maldestre dei detective. Pollard esplorò con le dita l’esterno del sacco. Il contenuto era rigido, non cedevole. Nessun segno di vita. Nessun bisogno di affrettarsi. Con un cacciavite spostò di un centimetro la corda lungo il ramo per scattare un’altra fotografia. Sulla corteccia non c’erano segni di attrito. La vittima non era stata issata fin lassù con quella corda. Trovò l’altro capo accuratamente avvolto in una forcella dell’albero. Prima di scioglierla e farla cadere nelle mani in attesa immortalò il cappio che teneva fermo il sacco. La corda cadde a terra e due tecnici l’afferrarono. Il nodo si sciolse e il sacco fu calato velocemente. Mentre scendeva dall’albero, John Pollard vedeva i colleghi che tagliavano il sacco, e scorse i capelli nerissimi e la pelle nuda di una donna. Sentendo delle mani che la toccavano, Wilhelmina Fallon riprese conoscenza, avvertendo un dolore intenso in ogni parte del corpo, seguito dalla sensazione di essere in ascensore, di andare su e giù. Infine giacque sul terreno solido e sentì l’aria sul corpo nudo mentre la liberavano dalla stoffa ruvida. Molte dita sciolsero le corde che le legavano mani e piedi, i tappi furono tolti dalle orecchie e una voce sconosciuta disse: «Sembrano di cera». Un’altra voce disse: «Mettili in una busta». Ah, finalmente poteva udire, ma non vedere o parlare. Una mano le toccò la gola, e le dita premettero con forza. Una donna gridò: «Ho il battito!». «No, non toglierle il nastro adesivo» disse un uomo. «Se è disidratata come gli altri, rischi di strapparle la pelle dalla faccia.» Altri? «Aspettate i paramedici!» «Stanno arrivando!» Sirene. Udiva le sirene, gente che correva e una voce nuova esclamò: «Dio mio!». Sentì la puntura di un ago nel braccio. «Muova la testa se mi sente» le disse una donna, vicinissima. E Willy Fallon annuì. «Signora, sto per fare un buco nel nastro adesivo che le copre la bocca. Così posso inserire una cannuccia per l’acqua, okay?» Willy annuì di nuovo. Oh, sì. Sì! La bocca si riempì di acqua fresca e lei deglutì avidamente, quasi soffocandosi. Era viva. Heller aveva sempre mal sopportato la sua promozione a comandante della Scientifica – un dannato lavoro a tavolino – e non era insolito vederlo sul campo a osservare i suoi uomini all’opera. Stava sotto l’albero ed era soddisfatto, ma non perché l’ultima vittima fosse sopravvissuta. Quella era l’unica scena incontaminata dell’Artista della Fame. Si girò verso l’uomo che gli stava accanto. «Hai informato Riker e Mallory?» «Sì» disse il guardaparco. «Non mi hanno neppure chiesto dove si trovava l’albero. Volevano solo sapere il nome dell’ospedale.» «Bene.» I suoi tecnici avrebbero avuto tutto il tempo necessario a lavorare senza quei due tra i piedi, anche se ormai i detective non avrebbero potuto fare nulla per turbare il suo buon umore. Al contrario, contava di essere lui a rovinare la loro giornata. Una volta messi al corrente della dinamica del delitto, sarebbero impazziti di rabbia. Quel pensiero mise Heller in uno stato d’animo così beato e raro che quasi sorrise. Come sugli altri alberi, anche su questo c’erano due fori di trapano poco sopra le radici. Heller scrutò tra le foglie mentre parlava con una veterana della Scientifica. «Ci sono segni sui rami?» «Nessuna traccia di attrito di corde su questo» rispose la donna. «John ha le fotografie.» «Okay» disse Heller. «Ritagliate i pezzi con i fori.» Inorridito, il guardaparco osservò la squadra che staccava dei cerchi di corteccia dal tronco. «Perché tagliare un pezzo così grosso? È un danno serio.» Invece di spiegargli che servivano entrambi i fori su un unico pezzo di legno per esaminarli e presentarli come prove in tribunale, Heller fece un gesto come per scacciare un insetto fastidioso e il guardaparco si arrese. Non ci furono altre proteste di quell’amante degli alberi, neppure quando i tecnici decisero di segare un ramo. Nell’ora successiva arrivarono altre attrezzature. Con un cenno ai tecnici che controllavano il terreno intorno all’albero, Heller attraversò una radura per raggiungere il luogo della simulazione che aveva richiesto. Vi trovò il suo nuovo investigatore, John Pollard, un ragazzo dell’Ohio cresciuto a granoturco, esperto e ben preparato scientificamente. Nel suo curriculum c’era un’unica pecca: era un civile, un turista nel mondo della polizia. Pollard aveva terminato l’ultima di tre corse di prova e stava caricando il suo equipaggiamento su un carrello a due ruote, del tipo compatibile con le tracce trovate il giorno precedente, una delle poche informazioni cui il «Times» non aveva fatto cenno. «Com’è andata, John?» «Senza intoppi, signore. Ma Dio sa che ci devono essere modi più facili per uccidere.» Le sollevarono una palpebra e Wilhelmina Fallon vide un’accecante luce bianca. Udì un lieve rumore metallico e ripiombò nelle tenebre. Nel dormiveglia captava parole isolate, poi frasi intere che fluttuavano intorno al suo letto. Riconobbe la voce del dottore che diceva: «L’effetto del sedativo sta finendo. Non aspettatevi troppo. È stata colpita alla nuca. La commozione cerebrale ha cancellato dieci o quindici minuti di memoria». «E questa è la terza» si inserì una voce di donna. E il dottore replicò: «Scusi?». Un’altra voce sconosciuta, di uomo, disse: «Tre vittime messe fuori gioco con un colpo sulla parte posteriore della testa». «Io devo andare. Non trattenetevi a lungo, d’accordo?» Una porta si chiuse dietro il dottore. Le voci sconosciute restarono nella stanza. La porta si riaprì ed entrarono dei piedi. Non c’era bisogno di aprire gli occhi. Dalla conversazione Willy capiva che quei tre erano poliziotti. Poteva persino indovinarne il grado dalla deferenza con cui la voce nuova si rivolgeva agli altri due. Lei li ignorò, riprendendo lentamente coscienza di una serie di dolori e bruciori dalle spalle alle caviglie. Riconobbe la voce nuova. Dopo che le era stato tolto il nastro adesivo dagli occhi e dalla bocca quel poliziotto aveva raccolto la sua deposizione al pronto soccorso. Stava rispondendo a una domanda degli altri due: «Ora sta bene. Quella flebo non è di farmaci, sono sali minerali». «Cristo» mormorò l’altro uomo. «Sembra che non mangi da una settimana.» Questo doveva essere un detective. «No, signore» disse l’uomo di grado inferiore. «Da ventiquattr’ore, più o meno. Doveva essere pelle e ossa già prima che l’appendessero nel Ramble. Denutrizione chic, così ha detto il dottore del pronto soccorso. Era nuda quando l’hanno trovata. Non è stata ancora identificata.» La detective disse: «Non le hai chiesto il nome quando era lucida?». «No. Ha cominciato a strillare e non ha smesso finché non l’hanno sedata.» «Quindi soffriva molto?» domandò l’altro detective. «No, signore. Credo che il dottore l’abbia sedata più che altro perché faceva la stronza. Erano strilli di quel tipo.» Willy trattenne un sorriso. Sentì l’odore di tabacco dell’abito del detective che si chinava su di lei dicendo: «Ehi, Mallory, ma questa donna non è famosa?». Bastardo. «Cronaca mondana» rispose quella che si chiamava Mallory, avvicinandosi. Sull’altro lato del letto un soffio discreto di ottimo profumo lottava con l’odore di tabacco dell’uomo. «Giornali scandalistici, soprattutto.» «Ah, già» disse il detective. «Willy Fallon, reginetta delle feste e delle cliniche di disintossicazione. Adesso non ha un gran bell’aspetto, eh?» Ma davvero? Willy socchiuse gli occhi. Una mano sgusciò fuori dal lenzuolo e afferrò l’inguine dell’uomo. Diede una strizzata minacciosa alle sue parti molli, un avvertimento a non muoversi... a non respirare. «E tu chi sei?» chiese con voce roca. Era esterrefatto. Lo erano sempre. Questo aveva la classica espressione raggelata di uno con i testicoli in ostaggio. «Signora, non lo faccia.» «È un poliziotto» intervenne la donna. «Lascialo. Subito!» Willy girò la testa sul cuscino e vide una bionda alta con gli occhi verdi. Fissò il blazer di lino della donna. «O l’hai rubato dal mio armadio... o abbiamo lo stesso sarto.» Merda. Alla poliziotta stava meglio. E ora... un’altra sorpresa. La bionda afferrò la mano libera di Willy e le piegò le dita all’indietro causando un dolore intenso, accompagnato da puntini luminosi, sgomento, terrore e un grido disperato: «Stronza fottuta!». I testicoli dell’uomo furono liberati e la bionda mise fine alla tortura. Le lasciò la mano, ma Willy continuò a urlare oscenità. La poliziotta di nome Mallory prese un taccuino dalla tasca posteriore dei suoi magnifici jeans griffati. Con la penna posata sulla pagina aperta, disse in tono gelido: «Dunque, signorina Fallon, ora che è sveglia...». «Stronza! Troia!» «...le viene in mente qualcuno che desidererebbe vederla morta?» «Ti farò rimpiangere di essere nata!» L’uomo scostò il blazer di Mallory per mostrare la pistola nella fondina. «E la mia collega può spararle» disse. «Vince lei. Ora risponda a questa dannata domanda.» La bionda sembrava quasi annoiata quando ripeté: «Chi la vuole morta?». «Domanda difficile, vero?» L’uomo sogghignò. «Ci bastano i primi dieci nomi della lista.» La donna snocciolò una risposta automatica, una frase che usava spesso quando la beccavano a guidare ubriaca o in possesso di droghe. Ma questa volta i poliziotti la guardavano con durezza, come se nemmeno l’avessero udita. Willy si sollevò su un gomito. «Non mi avete sentito, idioti? Mi avvalgo del diritto di non rispondere. Nessun’altra domanda finché non arriva il mio avvocato.» Il detective rispose al cellulare, disse: «Sì?» e si rivolse alla collega. «Heller ha trovato qualcosa.» I due uscirono dalla stanza, seguiti dall’agente in uniforme. Be’, era stato facile. Willy cercò l’aggeggio che pendeva dalla testiera del letto. Le era familiare fin dai tempi della clinica per la disintossicazione, quel telecomando che serviva a far correre le infermiere finché non crollavano esauste. Oh, ma prima doveva chiamare un avvocato. Sì, quella era la regola numero uno che conosceva fin da ragazzina, quando ai suoi genitori ancora importava se era viva o morta. Come diavolo si chiamava l’assistente del procuratore? Si era mai servita del suo vero nome? No. Quando aveva tredici anni oscillava fra Papillon e Scemo. 12 Phoebe e io siamo sempre i primi ad arrivare in mensa. Appena aprono le porte, corriamo come pazzi per occupare le sedie di un tavolo d’angolo, un posto sicuro con due pareti dietro le spalle. Noi lo chiamiamo la Tana della Volpe. Tutti gli altri lo chiamano il Tavolo degli Sfigati. Anche gli sfigati appena iscritti alla scuola sanno come arrivarci. Vedendo i bambini con gli occhiali o l’apparecchio ai denti, quelli grassocci o troppo magri, ogni sfigato dice a se stesso: Quelli sono come me. Entra Toby Wilder. A Phoebe si illuminano gli occhi. E ci sono altre bambine con gli occhi che brillano, qua e là, in tutta la mensa. Sicuramente lui ha potere sulle donne, ma non se ne cura. Toby si siede nella sua Fortezza del Silenzio. Tutti vorrebbero legare con lui, ma nessuno osa disturbarlo. Phoebe e io lo osserviamo dalla Tana della Volpe. Sappiamo tutti qual è il nostro posto. Ernest Nadler L’ufficio dell’uomo che dirigeva la Scientifica era un deposito pieno zeppo di strane cose morte in vasi di vetro e di faldoni di arcani misteri. Riker e Mallory erano in attesa... e si stavano chiedendo quanto seriamente fossero nei pasticci e come sarebbero riusciti a venirne fuori. Finalmente Heller entrò a passi pesanti e fissò prima l’una e poi l’altro. Stava prendendo la misura del collo per il cappio? Senza una parola di saluto, aprì un cassetto della scrivania ed estrasse la fotografia di due fori nella corteccia di un albero. «Buchi di trapano negli alberi. Dopo aver letto degli alberi sul giornale abbiamo cominciato da qui.» Certo, dopo. Riker girò la testa udendo un cigolio di ruote. Il nuovo assunto, l’investigatore John Pollard, entrò nella stanza spingendo un carrello per le consegne che corrispondeva alla descrizione fatta da Coco. Due lunghi manici, una superficie d’appoggio metallica e due ruote. Trasportava uno scatolone tenuto fermo da cinghie. «Lo scatolone contiene una simulazione del kit dell’omicida» spiegò Heller. «Il mio uomo pesa come la più pesante delle vittime. John siediti lì sopra.» L’investigatore della Scientifica si appollaiò sullo scatolone e il suo capo lo legò al carrello con le cinghie. «Ora abbiamo un peso di quasi cento chili.» Riker osservò il tutto. «Una donna sarebbe in grado di spingerlo?» «Lo verificheremo subito.» Heller si rivolse a Mallory. «Coraggio, provaci.» Poi uscì dalla stanza, senza curarsi che lo sforzo potesse provocarle un’ernia. Lei impugnò le maniglie e spinse il carrello con tutto il suo carico fuori dall’ufficio e lungo il corridoio. Se le costò fatica, Riker non se ne accorse. Entrarono in una stanza con le pareti spoglie e un tavolo d’acciaio. Era il laboratorio di un uomo che voleva pensare senza distrazioni e rumori, dove Heller avrebbe potuto torturare dei detective per giornate intere, senza che nessuno udisse le loro grida. Liberato dalle cinghie, John Pollard cominciò a svuotare lo scatolone e Riker scosse il capo – no, no, no! – mentre l’attrezzatura si accumulava disordinatamente sul lungo tavolo: un sacchetto di viti, un trapano elettrico, una lamella di metallo, una chiave a tubo, una carrucola... e un argano? Attaccato al cavo dell’argano c’era un gancio del tipo usato per trainare automobili e roulotte. Due morsetti sporgevano da un’estremità e ora – Dio Onnipotente – una batteria da auto fu posata sul tavolo. «Cos’è tutta questa roba? Il nostro uomo ha usato una corda per appendere i sacchi. Ve l’abbiamo consegnata. Abbiamo conservato anche i nodi.» Pollard infilò la mano nello scatolone e tirò fuori una corda dentro una busta. «È una di quelle rinvenute sulla scena del crimine. Ma l’Artista della Fame ha usato il cavo di un argano per issare i corpi sugli alberi.» Heller posò una fotografia sul tavolo. Era l’ingrandimento di un ramo. «Vedete i segni? Sono di una catena come questa.» Prese la carrucola con un lato aperto. «L’assassino ci ha fatto passare il cavo dell’argano.» John Pollard posò una mano sull’argano. «Questo modello può trainare fino a venticinque quintali... automobili, barche. Non è stato progettato per sollevare pesi, ma lo abbiamo provato nel parco.» Toccò i due morsetti rossi della batteria. «Si collegano a qualsiasi presa da dodici volt.» Indicò con la testa la batteria sull’altra estremità del tavolo. «Immagino che l’Artista della Fame avrà scelto il modello più leggero. Questo pesa meno di venti chili.» Mallory incrociò le braccia, chiaramente poco convinta. «Non vedo perché avrebbe usato un sistema così macchinoso.» «Il perché non m’interessa» replicò Heller. «Noi vi stiamo spiegando come ha fatto.» Si chinò sullo scatolone e prese un pezzo di ramo dentro un sacchetto di plastica. «Ecco il dannato albero, Mallory. Guardalo. Impronte di anelli di catena, proprio quello che ti aspetti per reggere un peso morto. Niente segni di scorticamento o trazione. La corda è servita solo a tenere fermo il sacco. Non ha issato niente sul ramo. Il corpo è stato sollevato con una carrucola e un argano. È l’unico scenario supportato dalle prove.» «L’Artista della Fame ci ha ragionato molto» disse Pollard. «Anzi, ha pensato e ripensato a tutto, a ogni possibile problema. Su tutti i tre alberi i sacchi erano legati a un ramo alto. Se avesse issato le vittime con una corda usando il suo corpo come contrappeso, non sarebbe neppure arrivato a...» «E lì entra in gioco l’argano» intervenne Riker. Una seconda corda avrebbe risolto il problema, ma lui voleva solo porre fine a quella noiosa conferenza... prima che lo facesse Mallory. «Esattamente» disse Pollard col tono riservato ai bambini e a quei rompiscatole dei detective della Crimini Speciali. «No» fece Mallory. «Per agire in questo modo sarebbe dovuto restare nel bosco tutta la notte.» «Sbagliato.» Con un sorrisetto compiaciuto Pollard impugnò il trapano e vi attaccò la chiave a tubo. «Io ho fissato una vite a un albero in dieci secondi. Poi ho collegato la batteria all’argano, ho sollevato il sacco, sono salito sull’albero e l’ho legato con la corda.» Pollard prese il telecomando. «Ho liberato il cavo con questo. Ho staccato la catena e la carrucola è caduta a terra. Sono sceso dall’albero in un minuto esatto. Per togliere la vite ci sono voluti altri dieci secondi. Dall’inizio alla fine, ci ho messo solo sette minuti. Pare però che l’Artista della Fame lo abbia fatto in maniera meno lineare. Questa è la più veloce, la più facile.» Mallory osservava il caos di oggetti ammassati sul tavolo. «E tutto questo lo hai dedotto dai buchi negli alberi? Quella era l’unica prova reale, giusto?» Heller era anche troppo calmo quando si girò a guardarla. Intanto Pollard continuava a blaterare. «I fori corrispondono a un supporto metallico standard.» Prese un sacchetto contenente lunghe viti con teste esagonali. «Queste viti entrano nei fori. Ne sarebbe bastata una, ma lui ne ha usate due per ogni albero. Fori molto precisi, non quelli di un cacciavite manuale. Ecco perché so che il nostro uomo ha usato una chiave a tubo collegata a un trapano elettrico.» Chi avrebbe mai pensato che l’omicidio potesse essere così noioso? Riker guardò la collega per trovare conforto alla sua idea, ma lei non sembrava intenzionata a sparare all’insopportabile John Pollard. Stava osservando il carrello a due ruote. «Almeno quello ha un senso.» Riker era d’accordo. I poliziotti di pattuglia avrebbero fermato chiunque fosse stato trovato nel parco di notte. Una corsa a piedi nel buio dei boschi offriva migliori possibilità di fuga di un inseguimento in auto, e il proprietario di un carrello abbandonato sarebbe stato più difficile da rintracciare di quello di un veicolo fornito di targa. Inoltre il carrello si muoveva silenziosamente, senza il rumore di un motore. Era il mezzo più sicuro per trasportare una vittima priva di sensi attraverso Central Park. John Pollard tolse lo scatolone dal carrello. «Controllate le gomme. Questo modello corrisponde ai segni dei copertoni rinvenuti sulla scena del crimine. Pneumatici gonfiabili, perfetti per trasportare carichi pesanti su un terreno accidentato.» E ora, con un sorriso speciale per la detective carina, aggiunse: «Vi avevo detto che questo tizio ha pensato a tutto». Molleggiò sulla punta dei piedi, nella speranza di diventare abbastanza alto da entrare nel radar di Mallory. Infatti lei finalmente lo notò. Per sua sfortuna. Al di sopra della testa di Pollard Mallory vide la faccia preoccupata di Riker, la sua tacita preghiera: Non sbudellare quest’idiota. Non potevano permettersi un’altra faida con la squadra di Heller. Lei annuì, e i due detective girarono la schiena a John Pollard per seguire il suo capo nell’ufficio in fondo al corridoio, dove sulla scrivania era rimasto un altro scatolone. «Questo, potete prenderlo.» Heller aprì la scatola. Conteneva risme di carta in quantità sufficiente per una dozzina di elenchi telefonici. «Viene dal nostro database, sono informazioni dettagliate sugli strumenti del kit che vi abbiamo mostrato. Ci sono i numeri dei modelli degli ultimi dieci anni, i produttori, i distributori. Alcune ditte hanno chiuso, così abbiamo incluso anche i liquidatori. Manca l’indice. Mi dispiace. Immagino che dovrete sfogliarlo pagina per pagina. Vi ci vorranno alcune migliaia di ore.» Sorrise, forse per la prima volta da anni. «Vi auguro una buona giornata, detective.» Mallory e Riker si scambiarono occhiate che esprimevano lo stesso pensiero: Heller se l’era legata al dito... e loro erano fottuti. Dopo aver depositato l’inutile scatolone alla Crimini Speciali, i detective si spostarono verso nord, dove abitava l’ultima vittima dell’Artista della Fame. Nonostante il cartello NON DISTURBARE appeso alla maniglia, il direttore dell’hotel aprì la porta della camera di Willy Fallon. «È nostra ospite da poco più di sei settimane. Prima stava in un hotel di Los Angeles.» Non poteva dire molto altro ai detective sulla sua ospite. La descrizione di una stronza rompiscatole venne sintetizzata con l’educata frase: «Talvolta è una cliente difficile». E il centralino non aveva chiamate in uscita. «Non è insolito. Ormai hanno tutti il cellulare.» O forse la ragazza popolare di un tempo non aveva amici. Mallory socchiuse la porta e vide un cellulare sul pavimento accanto a un mucchietto di indumenti. Congedato il direttore, i detective entrarono in una camera pulita e funzionale, non una reggia ma il genere di posto che un manager di medio livello sceglierebbe per un viaggio di lavoro. Non si trattava certo di una sistemazione adatta all’ereditiera delle Industrie Fallon. «Si direbbe che la famiglia abbia messo Willy a stecchetto.» «Be’» disse Riker «la recessione ha colpito anche i milionari.» «I Fallon sono miliardari.» Mallory controllò il bagno e trovò degli asciugamani sul bordo della vasca e una saponetta usata, elementi che concordavano con le lenzuola spiegazzate del letto. La camera non era stata rifatta dopo il rapimento. Aprì l’armadio. Gli abiti appesi erano molto costosi... e molto dell’anno passato. Rovesciò una borsetta sulla toeletta. Niente fiale, spinelli o boccette di pillole, ma sul fondo c’era un po’ di polvere bianca. Mallory si inumidì un dito, lo passò sulla fodera di raso e assaggiò. «Roba scadente. La cocaina di Willy è tagliata con polvere di fiori secchi.» «Conferma la teoria dello stecchetto.» Riker si fermò accanto al mucchio di indumenti e scarpe. «Questo è il punto in cui è stata aggredita e spogliata. Willy gli voltava le spalle, quindi si sentiva al sicuro con lui. E poi...» Fece un gesto con la mano. «Un colpo, e lei crolla a terra. Si può uccidere così. L’altra donna, quella morta... lo era già da un po’. Probabilmente è stata la prima vittima... poi il killer è migliorato con la pratica. Forse la sconosciuta era già morta quando l’ha messa nel sacco.» «No» disse Mallory. «Slope dice che non è stata colpita con forza sufficiente da ucciderla, solo tramortita. Gli ho mostrato le lastre che hanno fatto a Humphrey all’ospedale. La stessa cosa vale per lui. Credo che il nostro uomo si sia lasciato prendere la mano solo con Willy Fallon. L’ha colpita troppo forte. Per questo lei non ricorda nulla.» Riker si appoggiò alla porta e osservò i quadri alle pareti, riproduzioni a buon mercato in cornici di plastica. «Che ci fa qui la nostra ragazza? Persino io potrei permettermi questo albergo.» Mallory prese il cellulare dal mucchio di vestiti e controllò la rubrica. «C’è il numero dei suoi genitori. Ha il prefisso del Connecticut.» Ma i signori Fallon non erano in casa per la polizia in quel momento. E quanto a ottenere un appuntamento, secondo il segretario che curava i loro impegni sociali i detective avevano più possibilità di essere colpiti da un fulmine in una giornata serena. «Ma si può sempre sperare» aggiunse l’uomo prima di riattaccare. Wilhelmina Fallon non sentiva più dolore e, grazie ai farmaci, era euforica mentre dal suo letto d’ospedale passava da un canale televisivo all’altro e sfogliava le pagine dei giornali... finché trovò la fotografia di un uomo in coma rinvenuto nudo in Central Park. Impiegò molto tempo per mettersi in contatto telefonico con l’autore dell’articolo. Ben due volte subì l’affronto di sentirsi domandare da vari tirapiedi: «Willy chi?», triste memento che i suoi giorni di celebrità mondana erano finiti. Ma non sarebbe più stato così. Dopo aver identificato il paziente in coma come Humphrey Bledsoe, Willy fece un’altra telefonata, stavolta a un’emittente televisiva. Era troppo impaziente di tornare sotto le luci della ribalta per aspettare il giornale del giorno seguente. Alla terza chiamata, un portiere di hotel le assicurò che, sì, aveva fatto sparire le droghe dalla sua camera prima che arrivasse la polizia. E, sì, il portiere sarebbe stato felice di tenersi una parte della sua scorta come mancia. Willy non aveva denaro liquido. L’ultima telefonata la fece ai genitori, noti anche come la Banca di mamma e papà, ma i signori Fallon non erano in casa per la figlia. E il presuntuoso segretario dirottò la sua chiamata alla vecchia Birdy, la cameriera del primo piano. Una cameriera! Willy aveva appena subìto una sorta di degradazione. «Birdy, di’ ai miei genitori che voglio tornare a casa.» Venne a sapere dalla più umile dipendente di casa Fallon che un viaggio alla residenza di famiglia non era consigliabile in quel momento. Sembrava quasi un messaggio registrato, e Willy sospettò che la donna leggesse da un elenco di risposte preparate. «Birdy, sono all’ospedale. Stavo per morire. Lo sanno che qualcuno ha cercato di uccidermi?» Apparentemente sull’elenco della cameriera non c’era una risposta adatta al problema e la donna balbettò: «Io... io ora devo andare, signorina Willy». Oh, certo... aveva mobili da spolverare e pavimenti da lavare. Un dipendente col minimo della paga era una persona molto indaffarata, non aveva tempo per chiacchierare con i membri dell’alta società. Willy pensò di impartire a quella vecchia befana una lezione di bon ton, una sfilza di oscenità tali da annichilire l’anima candida all’altro capo del filo, invece strinse con più forza la cornetta e con voce supplichevole mormorò: «Per favore, Birdy, non riattaccare». Troppo tardi. Il collegamento con la sua casa e la sua famiglia era già stato interrotto. Dopo aver strappato il filo del telefono dal muro e aver scagliato i cuscini sul pavimento, Willy fu trovata da un’infermiera mentre piangeva e strappava i giornali a pezzetti. La donna chiamò aiuto. Le parole mamma, papà, mamma, papà, seguite da oscenità farneticanti furono scambiate per una crisi, sebbene il medico che infilò un ago nel braccio di Willy non sembrasse affatto preoccupato o compassionevole. Lei udì il suo nome alla televisione. E il giornalista nominò anche Humphrey Bledsoe come un’altra vittima dell’Artista della Fame. «La terza vittima non è stata ancora identificata.» Una terza vittima? «Oh» disse Willy, «io so chi...» «Problema risolto» disse il medico estraendo l’ago dal braccio. Furono le ultime parole che udì, prima che la stanza cominciasse a vorticare e lei chiudesse gli occhi sul caleidoscopio di pareti, mobili e coriandoli di carta stampata. 13 Non posso più usare i bagni della scuola. Humphrey e le ragazze potrebbero nascondersi nelle cabine. Ma qualche volta devo pisciare o muoio, così la faccio nel giardino dietro la scuola. Ogni tanto gli insegnanti mi vedono mentre mi alzo e mi abbasso la cerniera, ma non dicono una parola. Il che dimostra che sanno cosa succede. Non mi puniscono se piscio contro un muro, è questo il sostegno che mi offrono. Io gli piscio sopra. Ernest Nadler La sala di dissezione era un ambiente gelido di luci accecanti, acciaio inossidabile e piastrelle bianche. Terrificanti era il termine più adeguato per descrivere gli strumenti medici. E il termine resti assumeva lì un significato diverso. Il cadavere divorato dai topi rinvenuto il giorno prima nel Ramble era ridotto a una collezione di parti anatomiche, organi pesati, etichettati e imbustati, campioni di tessuto da mandare al laboratorio. Mancavano anche una sezione della mandibola, il cervello e la parte superiore della calotta cranica. Sul tavolo restava il torso svuotato con gli arti putrefatti e il viso nascosto dalle garze chirurgiche sopra il buco sanguinolento che era stato il mento. «Se volete che verifichi la presenza di cloroformio, l’esame richiederà almeno cinque giorni.» Accanto al tavolo, l’anatomopatologo capo osservava il cadavere, l’origine del fetore che permeava la stanza. Il detective Riker indietreggiò verso la parete con i lavandini e gli schedari. Non gradiva il lato viscere e sangue del suo mestiere. In fondo al tavolo, Mallory accese il registratore e disse: «Sconosciuta. Sacco numero due del Ramble». «Può anche essere la seconda in ordine di ritrovamento» disse il dottor Slope «ma questa donna è la prima vittima dell’Artista della Fame. Il sangue era ancora allo stato liquido, il che fa risalire il decesso al massimo a sette giorni prima. Era morta da tre o quattro quando è arrivata qui. Heller potrà essere più preciso. Fa miracoli con le larve delle mosche.» Mallory si avvicinò al dottore. «Non posso aspettare che Heller faccia nascere le sue mosche. Quel piccolo dettaglio mi serve subito.» «Sempre di fretta.» Il dottore prese un notes da un tavolino e sfogliò tra gli appunti manoscritti. «La tortura subita ha fortemente danneggiato gli organi. È stata una morte lenta.» Esaminò gli appunti e sfogliò altre pagine, lanciando di tanto in tanto un’occhiata a Mallory per vedere se era già sufficientemente irritata. Sembrava di no. Altre pagine sfogliate. «Come si poteva prevedere, lo stomaco non conteneva nulla. Sarebbe stato di aiuto.» Sorrise. Lei lo guardò con odio. Slope sollevò una lastra controluce. «C’è una frattura all’attaccatura dei capelli sulla nuca.» Il dottore fece una pausa, poi, prima che Mallory avesse il tempo di ricordargli che aveva già visto quella lastra, disse: «Be’, sapete che non è stato questo a ucciderla. In via ufficiosa direi che la causa della morte è la disidratazione. Ma ho trovato qualcos’altro che è molto più interessante». Riker alzò gli occhi al cielo. In quel momento non desiderava altro che un dettaglio rilevante compatibile con il fascicolo di una persona scomparsa. E Slope lo sapeva. Avevano da sbrigare una pila di rapporti relativi all’area di tre stati, una mole di lavoro immane, ma dovevano perdere tempo ad ascoltare una conferenza. Ed era tutta colpa di Mallory. Lei e il dottore stavano giocando una partita che andava avanti da anni, e che non sarebbe mai finita. «D’accordo, cominciamo» disse lei. «Dacci i dati fondamentali. Età, statura, peso...» «Dai venticinque ai trent’anni. Statura: uno e sessantacinque. Peso: cinquantacinque chili. Vi dice qualcosa?» No. Quei dati corrispondevano a moltissime donne scomparse dagli stati di New York, New Jersey e Connecticut, ma Mallory non rispondeva mai alle domande ovvie. «Ci sono tatuaggi?» disse. «Segni di iniezioni? Macchie sulla pelle? Qualcosa di utile?» «C’è un elemento raro.» La pausa di Slope fu di una lunghezza insopportabile, ma Mallory non si scompose. Un po’ deluso, il dottore andò a prendere un vasetto di vetro. «Questo.» Riker vide qualcosa di bianco e filiforme che nuotava nel liquido. «La nostra vittima era incinta di un alieno?» «Oh, no» disse Slope. «L’elemento più notevole era nel cervello.» Mallory non gli sparò. «Ho trovato questo tumore nella ghiandola pituitaria. Non è maligno ma deve aver causato dei problemi. Era lì da anni. Sicuramente il suo medico ne aveva riconosciuto i sintomi. Era situato in una zona difficile, ma sarebbe stato possibile intervenire chirurgicamente. Per cui è strano che non sia stato rimosso.» «Una negligenza professionale» disse Riker. «Non credo, ma a questo arriverò dopo. Un tumore in questa posizione comporta una serie di sintomi diversi e, non sempre ma a volte, un drastico cambiamento della personalità. E così è stato nel caso di questa donna.» «Un momento.» Mallory spense il registratore e incrociò le braccia con aria bellicosa. Questa non se la beveva. «Hai diagnosticato un cambiamento della personalità... in una donna morta.» «Vedo che sei scettica.» Il dottor Slope sorrise malignamente mentre sollevava una lunga ciocca di capelli del cadavere, metà scura e metà bionda. «Posso datare l’insorgenza del tumore dal suo ultimo appuntamento col parrucchiere. Mia moglie è bionda. So quanto costa farsi tingere i capelli. Qui ci sono dei colpi di sole di tre sfumature diverse per farli apparire naturali... come i tuoi, Kathy.» «Mallory» disse la bionda naturale, correggendolo per l’ennesima volta. «Le costava parecchio mantenere questa colorazione. E aveva un’altra abitudine dispendiosa... la cocaina. Ho trovato vecchie cicatrici chirurgiche per rimediare alle lesioni della mucosa nasale.» Riker abbassò il mento sul petto. Le cicatrici all’interno del naso raramente apparivano nelle descrizioni delle persone scomparse. «Quindi aveva soldi da buttare, prima che il tumore si manifestasse» disse Mallory. «E allora?» «Be’, due anni fa non ha smesso solo di tingersi i capelli... ha smesso anche di lavarsi i denti. Nell’era dei prodotti al fluoro ha un mucchio di carie. Ho consultato un dentista forense e la sua opinione conferma la mia datazione dell’insorgenza del tumore. Inoltre, e torniamo alla tua domanda sui segni di iniezioni, non ce ne sono, e nemmeno cicatrici fresche nella cavità nasale. L’esame tossicologico non rivela uso recente di droga. E questo è un altro cambiamento di comportamento.» «Okay» disse Riker. «Quindi abbiamo una bionda con radici scure e cicatrici nelle cavità nasali. Grazie. Hai fatto una foto della faccia prima di ridurla in questo stato?» Sperava in qualcosa che potesse servire davvero. Finora non avevano niente, neppure il colore degli occhi. L’ultima volta che i detective avevano visto il cadavere, gli occhi e la bocca erano coperti dal nastro adesivo. Il dottor Slope indicò il banco. «In quella busta ci sono delle fotografie. Ma non ne avrete bisogno. Domani a quest’ora conoscerò il suo nome.» Riker gettò la testa all’indietro e guardò il soffitto. Mallory avrebbe sparato al dottore. Facesse pure. «E questo ci porta alla chirurgia plastica» riprese finalmente Slope. «C’è una protesi al mento.» La cosa spiegava il vuoto nel punto in cui doveva esserci il mento. I numeri di serie della protesi li avrebbero condotti al chirurgo che aveva eseguito l’operazione. Riker guardò l’orologio. Quella ricerca avrebbe richiesto meno di un’ora. Perché dovevano aspettare fino a domani? «Si era anche fatta aumentare il seno.» Il dottor Slope prese un sacchetto con due protesi simili a cuscinetti bianchi. Riker sapeva che erano morbidi al tatto. La loro forma perfetta era l’unica cosa memorabile della prima ragazzina che aveva palpeggiato sul sedile posteriore dell’auto paterna. Il dottore scambiò il suo sorriso per curiosità e proseguì con la conferenza. «Le protesi sono di produzione europea. Sfortunatamente, a causa del fuso orario non avrò risposta alla mia telefonata fino a domani mattina. Poi useremo i codici per rintracciare il chirurgo, e voilà!» Avrebbero perso un giorno per l’identificazione. Be’, nonostante la faccia devastata dai topi, forse avrebbero potuto eliminare qualche dossier di donne scomparse confrontando le fotografie. Riker aprì la busta e osservò la prima foto del viso della vittima. «Cosa diavolo è questo?» Era un’accusa, non una domanda. «Oh, il neo» disse il dottor Slope. «Non ve ne avevo parlato?» Bastardo sarcastico. Scordando per un attimo che i cadaveri sottoposti ad autopsia lo facevano vomitare, Riker si avvicinò al tavolo e con la penna scostò la garza che copriva il volto della donna, ciò che ne restava. Il nastro adesivo era stato rimosso e sul labbro superiore spiccava un neo con due lunghi peli ispidi simili a baffi di gatto. Riker era già arrivato alla porta con Mallory alle calcagna quando il dottor Slope pronunciò la sua battuta finale: «Quindi... pensate che il neo possa esservi di aiuto?». Riker osservò le fotografie dell’autopsia allineate sulla scrivania, poi guardò la sua collega. «Con Heller me l’aspettavo, ma cosa hai combinato al dottor Slope? Intendo ultimamente.» Il suo brontolio fu interrotto dall’ingresso di visitatori inattesi nella sala operativa. Entrò Charles Butler con Coco e dietro c’era Robin Duffy, il più grande ammiratore di Mallory. Era difficile dire chi dei tre fosse più felice di vederla. Vinse Coco, che le corse incontro a braccia spalancate e con un sorriso radioso, battendo in velocità il vecchio avvocato nella gara per arrivare primi a salutare la loro detective preferita. Poi venne il turno di Duffy, che la abbracciò stretta. Due detective alzarono la testa per assistere allo spettacolo di persone che amavano Mallory tanto da arrischiarsi a toccarla. Charles prese Coco per mano e la condusse verso la mensa dove c’era una macchinetta distributrice di dolci. «Ti piacerà» disse facendo tintinnare gli spiccioli in tasca. «Ed eserciterai le tue abilità motorie infilando le monete nelle fessure.» La bambina esitò, riluttante ad allontanarsi da Mallory, poi aggiunse: «Solo per qualche minuto». Mentre i due sparivano in corridoio Robin Duffy posò la sua cartella sulla scrivania e la aprì. «Kathy, ho bisogno che mi firmi qualche carta.» Guardò l’orologio. «Devo prendere un aereo per Chicago. L’esecutore testamentario della nonna vuole che Coco torni in Illinois.» «Non mi stupisce» replicò Riker. «Gli sarà più facile derubare la bambina se ne ha la custodia.» «Coco non va da nessuna parte» tagliò corto Mallory. «È quello che dice anche Charles.» Robin mostrò un affidavit con la firma dello psicologo. «Qui c’è scritto che non può essere spostata finché non le troviamo una sistemazione definitiva. Ho un’udienza con un giudice di Chicago.» Il vecchio avvocato le consegnò un altro foglio. «Mi sono preso la libertà di redigere la tua dichiarazione, Kathy. Dice proprio che Coco non va da nessuna parte. Firmala, dammi una copia del mandato per il testimone materiale e poi io filo all’aeroporto.» Siglate le pratiche, ricomparve Charles Butler con una bambina coperta di cioccolato. Mallory si inginocchiò e le pulì mani e faccia con un fazzoletto. Era un riflesso condizionato: lei puliva tutto. Coco le regalò una caramella e un altro abbraccio che macchiò la maglietta di seta, reato normalmente punibile con l’impiccagione. Ma Coco fu risparmiata e se ne andò mano nella mano con Charles. L’elfo e il gigante. Riker rispose al telefono al primo squillo. «Sì?» Ascoltò e disse: «L’uomo del neo è qui sotto». L’uomo di mezza età nell’atrio della stazione di polizia di SoHo aveva un sorriso gentile e un odore da barbone, nonostante fosse sbarbato e indossasse vestiti lavati di fresco. Da molti anni il signor Alpert dirigeva una mensa per i poveri e ormai ne aveva assorbito l’odore. Uomo di fede, consegnò alla detective Mallory una pubblicazione religiosa, avendo capito al primo sguardo che lei non aveva ancora trovato il Signore. Salì le scale dietro di lei dicendo: «Credevo di dover fare l’identificazione all’obitorio». «Non sarà necessario» rispose Mallory. Il particolare di un neo con baffi da gatto figurava soltanto in un rapporto di persona scomparsa. Entrarono nella sala operativa con le sue alte finestre, le scrivanie deserte e un uomo in piedi. «Salve.» Il detective Riker gli porse la mano. «Grazie per essere venuto. Faremo in un attimo.» «Ve ne sarei grato» disse il signor Alpert. «Siamo a corto di personale alla missione.» Si sedette davanti alla scrivania di Mallory. «Come è morta Aggy? È stato un incidente?» «Non avremo il referto dell’autopsia fino alla settimana prossima» disse Mallory, non per risparmiare a quell’anima gentile i dettagli di una morte lenta e dolorosa ma per evitare le domande che la notizia di un omicidio avrebbe suscitato. Riker aprì il taccuino. «Non ha idea del cognome di Aggy? Non ha mai parlato di parenti?» «No, mi dispiace. Non parlava molto. Aveva evidenti problemi mentali, povera donna. Qualche tipo di disordine ossessivo-compulsivo. Faceva sempre così con i denti.» Il signor Alpert ruotò la testa da un lato e dall’altro e fece battere i denti, mordendo l’aria come un cane che caccia le mosche. «Così.» A Riker si spezzò la punta della matita. «Okay, malata di mente. Lei la aiutava?» «Oh, no. Era Aggy che aiutava me. Lavorava nella cucina della missione sei giorni la settimana. Mai in ritardo, nemmeno una volta in quasi due anni. Quando non si è presentata, mi sono preoccupato. E il giorno dopo ho denunciato la sua scomparsa alla polizia.» «Quindi è sparita da una settimana» dedusse Mallory. «È andato a casa sua? Nella denuncia non c’era un indirizzo.» «Non ho idea di dove abitasse, ma so che non era una vagabonda. Era sempre in ordine e aveva denaro da spendere.» Tirò fuori una fotografia dalla tasca. «Questa è stata scattata alla nostra ultima festa di Natale. Lei è quella in mezzo.» Riker esaminò l’immagine di Aggy, molto prosperosa prima che il dottor Slope la appiattisse rimuovendo le protesi. «Sa chi erano i suoi amici?» «Io ero suo amico.» Il signor Alpert alzò le spalle per dire che non ne conosceva altri. «Era un tipo un po’ scostante... con le sue preghiere incessanti e quel verso strano che faceva con i denti, ma conosceva moltissimi barboni. Quando non lavorava alla missione, andava in giro con dei cesti di panini e li distribuiva ai mendicanti. Alcuni di loro la chiamavano Santa Aggy.» I due detective raggiunsero in ritardo la squadra riunita in una stanza interamente foderata di sughero. Una parete era coperta di fotografie dell’autopsia e delle scene dei delitti che Riker aveva disposto disordinatamente a mosaico. Sul pavimento c’era lo scatolone della Scientifica con i voluminosi elenchi da cui rintracciare gli strumenti del kit dell’omicida, ma era ancora sigillato e il comandante della Crimini Speciali lo buttò in un angolo con un calcio. «Cazzate inutili!» La stanza sprizzava energia. Metà delle sedie erano occupate dai detective che, taccuini aperti e penne alla mano, aspettavano che il capo desse inizio allo spettacolo. Altri uomini giravano in tondo o si fermavano davanti alle mappe e agli schemi del Ramble. Quel settore era proprietà di Mallory, con ogni foglio equidistante dagli altri e le puntine disposte con implacabile regolarità. Lei era seduta in fondo alla stanza. Sola. Jack Coffey prese posto dietro il leggio. «Attenzione!» Alcuni uomini si accomodarono, altri restarono in piedi. Mallory era sempre sola, circondata da sedie vuote... come se durante la sua lunga assenza dal lavoro avesse contratto una malattia contagiosa. «Non è stato un attacco simultaneo» disse il tenente. «Tra ciascuno dei fatti del Ramble c’è un intervallo di tre o quattro giorni.» Indicò lo scatolone contro il muro. «Non perdete tempo per correre dietro ai ridicoli indizi di Heller. Cercate qualcuno che abbia in casa carrucole e argani. Quello della Scientifica è un vicolo cieco. Noi ci concentriamo sulle vittime.» Venne il turno di Riker. Voltando le spalle ai colleghi, attaccò alla parete le fotografie delle vittime sopravvissute dell’Artista della Fame: Humphrey Bledsoe e Wilhelmina Fallon. Poi aggiunse quella scattata alla missione della donna morta, nota solo come Aggy. «Okay, ragazzi.» Tutti lo guardarono. «Ricapitoliamo: abbiamo un pedofilo in coma, una stronza dell’alta società e una santa con le tette rifatte. Qualcuno ha delle ipotesi?» 14 Due volte la settimana, quando Humphrey è in terapia, vado a casa di Phoebe dopo la scuola. Se sua madre non c’è, saltiamo sui letti e sui cuscini dei sofà, volando alti... come supereroi sfigati. Quando la madre di Phoebe è in casa, camminiamo in punta di piedi. Come dei topolini. Ernest Nadler Gli organi del comatoso Humphrey Bledsoe si stavano deteriorando, uno dopo l’altro. Il paziente era in una condizione delicata, con tubi che entravano e uscivano dal suo corpo, macchinari che respiravano per lui e le prossime ventiquattr’ore sarebbero state critiche. Questa era l’opinione del giovane poliziotto di guardia. L’agente Wycoff continuava a controllare chiunque si avvicinasse alla tenda rosa che circondava il letto d’ospedale. Ora tre persone gli stavano davanti, in attesa di ricevere udienza. Quei tre si erano presentati al reparto di terapia intensiva con la benedizione del sindaco. Almeno così diceva l’assistente del sindaco, un uomo magro e nervoso che non figurava nella catena di comando nota alla polizia. Per cui il giovane agente non si scompose. Tra loro c’era una donna con una faccia acida che portava brutte scarpe pesanti e un severo tailleur nero come i capelli cortissimi. L’assistente del sindaco indicò l’altra donna, una rossa alta che trasudava denaro dalle perle, dagli abiti di seta e dai tacchi a spillo. Dimostrava solo una decina d’anni più del paziente, ma l’uomo dell’ufficio del sindaco ripeté: «È la madre del signor Bledsoe». Con le mani sui fianchi il giovane poliziotto le sbarrò la strada dicendo: «Me lo dimostri, signora». Lei sembrava divertita mentre gli consegnava allegramente il portafogli. Tutt’altro che l’immagine di una parente in ansia. Wycoff socchiuse gli occhi. Era possibile essere più sospetti di quella donna? Secondo la patente, aveva cinquantadue anni, e solo metà del cognome corrispondeva a quello del paziente. Alla signora Grace Driscol-Bledsoe fu concesso di oltrepassare la tenda per una breve visita: non più di mezz’ora. Lei gli passò davanti, gli diede una pacca sul braccio e disse: «Ci vorrà meno di un minuto, mio caro». Fedele alla sua parola, impiegò solo qualche secondo per chinarsi sul letto e mormorare una parola all’orecchio del figlio in coma. «Muori» disse. E, ubbidiente, lui eseguì. Mentre la gran dama usciva maestosamente dalla tenda scattò l’allarme dei monitor e l’agente gridò: «Codice blu!». Un nugolo di infermieri spinse un carrello con sopra il defibrillatore contro il letto, tenendo sollevate le piastre e urlando ripetutamente: «Libera!», prima di ogni scarica elettrica, ma il morto non poté essere rianimato. Qualche minuto più tardi la cattiva madre fu fermata accanto agli ascensori e ammanettata dal giovane poliziotto. Nessuno poteva interferire con il suo paziente. E soprattutto: perché stava ridendo? L’agente infilò la mano nel taschino, prese un biglietto e digitò il numero di cellulare di un detective incaricato del caso. «Wycoff è il mio poliziotto preferito» disse Riker. I detective uscirono dall’ascensore e percorsero il corridoio. Davanti alla porta del reparto di terapia intensiva il giovane agente li aspettava con la prigioniera. La rossa sorridente in perle e manette quadrava con la descrizione della madre per nulla addolorata fatta da Wycoff, che con molta efficacia aveva paragonato l’assistente del sindaco a un fastidioso botolo in giacca e cravatta. Mallory però si concentrò sulla donna con i capelli scuri, che nessuno mai avrebbe notato se non forse per la piccola borsa di pelle nera appesa alla spalla, una versione in miniatura di una valigetta da medico. Leggendo nella mente di Mallory, l’agente Wycoff disse: «Non si è mai avvicinata al mio paziente». Consultò sul taccuino i dati ricavati dalla patente. «Alice Hoffman, quarantacinque anni... stesso indirizzo della signora.» Spostò lo sguardo dalla scialba brunetta all’elegante rossa. «Grace DriscolBledsoe, cinquantadue anni.» La madre del defunto era più o meno coetanea di Riker ma mentre lui aveva la pelle rugosa, quella di lei era stata tirata da un chirurgo plastico di prim’ordine. E c’era altro a indicare che era piena di soldi. Le sopracciglia perfettamente disegnate sembravano dire: Non so chi sei, e non mi importa saperlo. Il sorriso radioso di Riker rispondeva: Cambierai idea, puoi scommetterci il culo. «È inaudito! La signora non può essere sospettata» disse l’assistente del sindaco con una smorfia di indignazione. Cominciò a elencare i meriti della signora come presidente dell’Istituto Driscol, una fondazione caritatevole, quindi ordinò che le liberassero le mani. «All’istante!» E fallito quel tentativo, dichiarò pomposamente che la morte su suggerimento non poteva essere considerata omicidio. Impossibile parlare di reato. Pur irritati da quell’uomo, i detective concordavano con la sua dilettantesca opinione legale e le manette vennero tolte. Con un gesto della mano Grace Driscol-Bledsoe allontanò l’assistente del sindaco che andò a piazzarsi contro il muro accanto all’altra tirapiedi, la signorina Hoffman. Mallory si avvicinò alla madre per porgerle le condoglianze. Toccava a lei pronunciare la formula di rito in momenti come quello. «Ci dispiace per la sua perdita.» La signora rise, e Riker trovò quella reazione stranamente liberatoria. «Suo figlio ha rapito una bambina.» Mallory attese un attimo, poi aggiunse: «Ma questo non la sorprende, vero?». «Veramente... no.» La signora Driscol-Bledsoe aprì la borsetta ed estrasse un biglietto da visita. «Comunicate al mio avvocato dove mandare il denaro... qualsiasi cosa di cui la bambina abbia bisogno.» Il tono era conclusivo e lei reggeva il biglietto con l’aria di dire: Prendetelo e toglietevi di torno. Mallory non lo prese. Non lo guardò neppure. La mano della giovane detective corse al fianco e con un rapido movimento scostò il blazer per mostrare la pistola... giusto per ricordarle chi comandava. «È questo il suo modo abituale di trattare le vittime di suo figlio? Le paga?» «Non cerchi di farmi sentire in colpa, detective. Con me non funziona.» La porta del reparto di terapia intensiva si aprì e la donna vide la tenda rosa intorno al letto del figlio morto. «I mostri generano mostri.» Non sorrideva più quando tornò a guardare Mallory. «Farebbe bene a ricordarsene.» L’assistente del sindaco si avvicinò alle spalle della gran dama e fece un cenno col capo ai detective, invitandoli tacitamente a prenderla in parola. Charles Butler trattenne il fiato mentre Coco si abbottonava lentamente la camicetta. Era di un bel rosa brillante e non di seconda mano. Era una camicetta nuovissima, regalo della signora Ortega, la nemica giurata del velcro. In piedi dietro la bambina, la donna delle pulizie allacciava ansiosamente bottoni invisibili nell’aria, come per incoraggiarla con la magia nera. L’ultimo bottone fu salutato da grandi applausi e Coco alzò gli occhi dalle sue fatiche con un’espressione perplessa. «Ci vorrà così tanto tempo tutti i giorni?» «No» disse Charles. «Ma avrai sempre qualche problema con i movimenti.» «A causa della sindrome di Williams.» Aveva letto tutta la letteratura che Charles aveva trovato sull’argomento e lui aveva risposto alle sue numerose domande, sebbene la conversazione di Coco continuasse a girare intorno ai topi, il pezzo forte nei suoi rapporti con chiunque. «I tuoi progressi con i bottoni sono straordinari.» Charles le fece un sorriso buffo, sicuro di riceverne uno a sua volta. I bambini adorano i clown. «E adesso» annunciò la signora Ortega «passiamo alle stringhe.» O forse no. Coco corse nella sala da musica. Apparentemente le stringhe erano una montagna che in quel momento non si sentiva di scalare. Un attimo dopo una deliziosa sonata si diffuse nell’aria. «Guardo quelle piccole dita che volano sulla tastiera» disse la signora Ortega «e non riesco a capire.» Stanca e sconfitta, la donna delle pulizie si accasciò su una poltrona con gli occhi fissi alla stanza accanto. «Come può suonare così... quando non sa allacciarsi le scarpe?» «Il suo cervello funziona in un modo tutto suo. È un mistero. Può chiederlo a qualsiasi neurologo. Però credo che questa sua incapacità sia in parte imputabile alla nonna. Ho saputo che era una malata terminale, così ha risolto il problema dei bottoni e delle stringhe ricorrendo al velcro e ha dedicato tutto il tempo che le restava alle cose in cui Coco riesce meglio: musica e lettura.» Secondo Charles, la nonna aveva fatto una scelta saggia. Tuttavia la donna delle pulizie non era convinta. «Anche le stringhe sono importanti» disse «quando hai otto anni.» «Concordo. Ma è lavoro per un fisioterapista.» Basandosi sulla sua valutazione delle abilità motorie di Coco, Charles sapeva che il problema delle stringhe non si poteva risolvere con qualche ora di esercizio. Ci sarebbero volute settimane o mesi. E forse non avrebbe mai imparato. Charles non udì la porta che si apriva e il saluto di Mallory dall’ingresso andò perduto sotto una cascata di arpeggi. Ma Coco aveva sentito. Schizzò fuori dalla sala da musica, volò come una palla di cannone verso la giovane donna e la imprigionò tra le sue braccia sottili. La detective le accarezzò distrattamente la testa, come si fa con un cane. Anche il cervello di Mallory funzionava in maniera anomala ed era un mistero. Lei riusciva sempre a confondere Charles, come in quel momento, quando sollevò in alto Coco esclamando: «I bottoni! Li hai allacciati tutti da sola?». «Sì!» La bambina sorrideva, sopraffatta dalla gioia di essere con la persona che più amava al mondo. Charles Butler udì un campanello d’allarme nella voce insolitamente dolce di Mallory. Anche il modo in cui sorrideva a Coco gli sarebbe costato ore di sonno. La detective possedeva un repertorio limitato di sorrisi. Ne aveva uno per dire: Te la faccio pagare, ma questo era peggio, era il sorriso che diceva: Ti ho beccato. Phoebe Bledsoe attraversò rapidamente il giardino ed entrò nel cottage sull’ultimo squillo del telefono. Posò le borse della spesa sulla scrivania mentre la segreteria telefonica registrava il messaggio. Una voce femminile disse: «Sono Willy Fallon. Tua madre non risponde alle mie telefonate. Dille che presto andrò a farle visita». Phoebe cancellò il messaggio. Le tremava la mano, come se improvvisamente nelle vene le scorresse ghiaccio al posto del sangue. Willy le aveva sempre fatto quell’effetto da bambina. In un certo senso, i giorni della scuola non erano mai finiti. Apparve Dead Ernest – il suo compagno di paura –, ma non poteva parlare. Anche lui era atterrito. Prima che le cedessero le gambe, Phoebe si sedette davanti alla finestra che dava sul giardino. Erano più alti gli alberi? No. Le querce e gli olmi erano già vecchi quando lei era piccola. Nemmeno i fiori erano cambiati, sempre gli stessi colori, stagione dopo stagione. Senza i giochi dei bambini o il vento a smuovere foglie e boccioli, la scuola e il giardino sembravano immutati, come in una fotografia scattata quindici anni prima. Naturalmente ora non c’era traccia del sangue di Ernie Nadler sul muro. Quello era diverso. 15 Da grande Phoebe vuole fare l’insegnante. Non riesco a crederci quando me lo dice. Gli insegnanti non vedono i lividi o il sangue. Non sentono le urla. Perché, Phoebe, perché? «Proprio per questo» risponde lei. Ernest Nadler L’aria era umida e pesante e c’era ancora luce nel cielo della sera. La detective Mallory spense il motore del piccolo veicolo del parco e disse: «Questo è il punto migliore. Qui ci sono moltissimi insetti». Coco aveva gli occhiali nuovi e guardava in alto sorridendo. «Vedo le foglie sugli alberi!» Prima, per la piccola miope si confondevano in una compatta massa verde. Saltò giù dal grembo di Charles Butler e imboccò il sentiero. Vedendo delle piccole luci volanti la bambina le rincorse, afferrando l’aria, mancandole e provando di nuovo. «Non credo che ci riuscirà.» Charles sorrideva mentre srotolava il suo lungo corpo per scendere dal cart. «È la sua prima volta, ma è una magnifica idea per affinare le abilità motorie.» Sapeva che Mallory aveva suggerito quel diversivo per attirare la bambina sulla scena di tre orrendi delitti, pur affermando che il Ramble era il posto migliore del mondo per andare a caccia di lucciole. Tanto più che Coco non avrebbe distinto una zona boscosa da un’altra. Mallory gli si avvicinò e osservò con lui la bambina che tentava inutilmente di afferrare gli insetti. «Io dico che ce la farà. È tenace.» «Altroché.» Non meno della sua donna delle pulizie, la maestra dei bottoni. Un giorno Coco avrebbe imparato anche ad allacciarsi le scarpe, anche se ci sarebbe voluto del tempo. E forse anche la caccia alle lucciole era un’attività ancora un po’ superiore alle sue possibilità. Charles e Mallory seguirono la bambina tra la folta vegetazione. Qua e là c’erano dei lampioni che ricordavano l’epoca del gas, ma non erano ancora accesi. Il viale era rischiarato solo dagli insetti con la magica coda luminosa che luccicavano intermittenti. Coco correva davanti a loro con le braccia aperte per afferrare una di quelle luci volanti. Non ci riuscì e girò per rincorrerne una più bassa. Batté le mani per imprigionarne una che si muoveva lenta. Oh, era morta. Si pulì le mani sui jeans e corse imperterrita dietro a un’altra. Memore dell’udito acutissimo della bambina, Charles parlò sottovoce. «Ho visto un mio collega, uno psicologo che si occupa di bambini con problemi speciali. Ha dei contatti in Illinois e mi aiuterà a trovare una famiglia per...» «L’affidamento? Non se ne parla» disse Mallory. «Non sopravvivrebbe al sistema.» Charles alzò le mani in segno di resa. Lei aveva perfettamente ragione, sebbene i suoi genitori fossero stati eccezionali. Molti bambini passavano di casa in casa come i mitici uccelli del paradiso, eternamente in volo perché privi di zampe con cui fermarsi su un terreno solido. E, no, Coco non ce l’avrebbe fatta. «Ho in mente una soluzione più permanente» disse Charles. «Ho completato la sua valutazione. A parte gli effetti della sindrome di Williams, Coco è molto dotata... intellettualmente e musicalmente. Questa è una grande attrattiva per dei genitori adottivi, e ci sono liste di persone qualificate per adottare bambini con problemi particolari. E ha un altro punto a suo favore... la nonna le ha lasciato un patrimonio che le permetterà di ricevere un’ottima istruzione.» «Che i genitori adottivi erediterebbero se dovesse succederle qualcosa. Nessun bambino deve valere più da morto che da vivo. Ho bisogno di tempo per pensarci.» «Mallory, questo non ti riguarda. Coco è sotto la mia responsabilità.» «Lei è il mio testimone materiale e i documenti che ho dicono che mi riguarda. Coco non si muove di qui.» Gli occhi di Charles seguivano la bambina che correva dietro a un insetto lampeggiante. «La immagino in una casetta vicino a una strada con molti alberi... con due genitori affettuosi e un giardino brulicante di lucciole. Vedi, le mie aspettative sono molto alte. Quelle di Coco no. Lei crede di potersi fare amare da te, che tu le preparerai la colazione ogni mattina. E se si sveglia di notte dopo un incubo, tu le sarai sempre accanto. È questo il suo piccolo sogno. Non sa che tu cesserai di interessarti a lei appena il caso sarà risolto.» Tacque quando la bambina arrivò correndo con le mani strette l’una contro l’altra. Così felice, più che felice, trionfante. Mostrò il suo trofeo a Mallory. «Mi tieni la lucciola? Voglio prenderne un’altra.» «Certo.» Mallory prese l’insetto e ora la luce intermittente pulsava attraverso le sue dita intrecciate. Quando la bambina si allontanò, disse: «Coco resta a New York finché non la metterò a confronto con i sospetti per il riconoscimento». «Sai bene che non può identificare l’Artista della Fame.» «Ma il mio killer non lo sa. E Coco sa più di quanto credi. Si tratta solo di farle le domande giuste.» «Non ci sarà nessun interrogatorio, Mallory. Hai accettato di rispettare le regole. Puoi avere solo quello che ti offre spontaneamente.» «Io so che ha seguito il killer nel Ramble la notte in cui Humphrey Bledsoe è stato appeso all’albero.» Osservava la bambina che si era fermata a parlare con una famigliola. «Guardala. Attacca discorso con gli sconosciuti, con chiunque. Ma non ha mai cercato di entrare in contatto con l’Artista della Fame. Lo aveva sotto gli occhi ma sapeva che era pericoloso.» «Era terrorizzata.» «Tu non capisci, Charles. Lei sapeva esattamente cosa stava succedendo quella notte.» «E poi ha filtrato la violenza attraverso una favola. Era l’unico modo per affrontare il trauma emotivo.» Guardò Mallory negli occhi. «Non ti permetterò di esporla a un confronto con un assassino. Voglio che sia chiaro.» La detective studiò quella faccia che non sapeva mentire per cercarvi qualche segno di inganno e, a giudicare dal lampo di delusione negli occhi, non trovò nulla. Mallory guardò la mano che imprigionava la fragile lucciola. «Senza occhiali, fin dove vede Coco? Due o tre metri? Supponi che abbia visto questo tizio a distanza ravvicinata.» «Era buio, non può averlo visto chiaramente.» «La luna era piena.» Charles indicò con la mano il fitto baldacchino di fronde che oscurava il cielo. «Qui la luce della luna non arriva.» Mallory replicò toccando il lampione nel momento esatto in cui si accese, come se avesse calcolato i tempi. E Charles si rese conto che era proprio quello che aveva fatto, conducendo la conversazione e anticipando ogni sua risposta per sorprenderlo con quella magia, la messa in scena dell’incubo di una bambina regolato da un orologio diabolico nel suo cervello. Sbalordito, Charles restò senza parole per qualche istante. Aveva perso l’equilibrio, lei poteva ridurlo in quello stato quando voleva. «Quindi... ipotizziamo che la bambina abbia visto bene il killer» continuò Mallory. «Potrebbe descriverlo a un ritrattista per un identikit.» «No» obiettò Charles. «Il ritrattista dovrebbe porle delle domande. Nella descrizione di Coco, il tuo killer potrebbe essere alto un metro o grande come una casa. Altre eventuali caratteristiche sarebbero altrettanto inaffidabili. Magari gli attribuirebbe tre occhi. Gli ha già affibbiato due code rosse.» Mallory sorrise. «Quelli erano i morsetti di una batteria. Probabilmente l’uomo aveva un argano nello zaino. Forse i cavi sporgevano.» «E voilà, un mostro con due code rosse.» «Dunque Coco ricorda altri dettagli di quella notte.» «Sì.» Charles prese un foglio di carta dalla tasca. «L’ha disegnato oggi. È la sua versione del carrello per le consegne.» Le mostrò un disegno criptico di elementi sconnessi. In un angolo c’era un cerchio dentro un cerchio, facilmente identificabile come una ruota. Isolato sull’altro lato del foglio, c’era una U allungata. «Questi sono i manici.» E al centro del disegno c’era un quadrato colorato di nero. «Immagino sia il ripiano del carrello.» Era necessario aggiungere che Coco aveva difficoltà a mettere gli oggetti in relazione con lo spazio? «Ci sono gli elementi del carrello, staccati e indipendenti, ma se non sapessi di cosa si tratta non lo capirei mai.» La giovane cacciatrice era tornata con un’altra lucciola. Questa volta fu Charles a prenderla in consegna. Mallory indicò il disegno che lui teneva nella mano libera. «Posso averlo, Coco?» «Sì! Ti piace davvero?» «Moltissimo. Questa è la parte che preferisco.» Mallory indicò il quadrato colorato di nero. «Quella è la scatola nera.» E Coco ripartì di corsa, rivolgendo loro uno sguardo che significava: Ciao. Scusate. Lucciole da catturare. Quando arrivò l’ora di partire, Charles e Mallory non avevano più pugni a disposizione per imprigionare i trofei luminosi. Con un abile movimento, senza perderne nemmeno una, lui le chiuse in un fazzoletto annodato che ora brillava come una lampadina di stoffa. Chiese a Coco quante lucciole avesse catturato, e le cinque dentro il fazzoletto diventarono subito centosei. Coco si sforzava sempre di essere precisa sul numero sbagliato. Due passeggeri del cart scesero presso l’uscita sull’Ottantunesima, dove un’auto della polizia attendeva per riportare Charles e Coco a SoHo. Mallory imboccò un sentiero lastricato e si diresse a sud verso il deposito del parco, dove aveva lasciato la sua macchina. Girando intorno al perimetro del deposito, vide tubi e pompe per innaffiare, le pale degli spazzaneve, un trattore e un minuscolo rullo compressore. L’attrezzatura, parzialmente nascosta da alberi e cespugli, era protetta da una staccionata che un bambino avrebbe potuto scavalcare. Sicurezza zero. La detective entrò dal cancello e nel parcheggio trovò l’uomo che le aveva prestato il cart. Si era cambiato e ora indossava una tuta marrone scuro che corrispondeva a quella dell’Artista della Fame secondo la descrizione di Coco. L’uomo le andò incontro con un sacco dell’immondizia in mano. «Lavora fino a tardi» disse Mallory. «Sono un volontario. Vengo quando voglio.» Posò il sacco accanto al cart. «E preferisco il fresco della sera per i lavori pesanti.» «Quella tuta non mi sembra una divisa del parco.» «Non lo è. Me l’ha data l’idraulico di un’impresa qualche anno fa. L’avevo aiutato a riparare una perdita nello zoo. La metto quando devo fare un lavoro sporco, come oggi.» Si sfilò un guanto per prendere le chiavi del cart dalla mano di Mallory. Lei guardò gli alberi che nascondevano macchinari e attrezzatura pesante. «Avete un carrello per spostare i pesi leggeri... un mezzo che tenete fuori di notte?» «Gli attrezzi piccoli li teniamo sotto chiave. Se me l’avesse chiesto ieri, le avrei detto di no. Venga con me.» La condusse lungo un sentiero in salita, passando accanto a un carrello elevatore privo di qualche pezzo. Un lampione illuminava un piccolo cimitero di macchinari, cosparso di motori e rottami arrugginiti. Un carrello era appoggiato contro una betulla. Sembrava quello della dimostrazione di Heller, con le cinghie e il resto, ma con un elemento in più. Ai montanti dei manici era saldata una staffa, e sopra c’era una batteria di automobile... la scatola nera di Coco. «Non è uno dei nostri» disse il volontario. «Non so da quando è lì. L’ho trovato oggi mentre facevo pulizia.» Indicò un’area di sterpaglie. «Era sotto quelle felci.» Diede un calcio a una ruota. «Le gomme sono usate ma ancora buone.» «Sono gonfiabili» osservò Mallory. «Proprio così.» Sembravano le gomme del carrello di Heller. E Mallory sapeva che i copertoni avrebbero coinciso con le tracce rilevate sulla scena del primo delitto. Lanciò un’occhiata agli spessi guanti da lavoro dell’uomo. «Li indossava quando ha spostato il carrello?» «Oh, sì.» L’uomo guardò i rottami ai suoi piedi, alcuni con i bordi frastagliati e arrugginiti. «Questo è il regno del tetano. Sarei pazzo a non portare i guanti.» Quando Mallory chiamò la Scientifica perché venissero a prendere il carrello, non fu sorpresa di trovare Heller ancora al lavoro. «Non credo che troverete delle impronte» specificò. «Il metallo è troppo pulito.» Al contrario di ogni altra cosa in quel deposito. Poi si tolse la soddisfazione di punzecchiarlo comunicandogli che era anche in grado di identificare la marca della batteria... e senza aver toccato gli inutili elenchi dello scatolone. «Un gioco da ragazzi» disse. «No, non ci è inciampata dentro per caso nel parco» ringhiò Heller all’astro nascente del suo dipartimento. «Vai a prendere quel fottuto carrello, sbrigati.» L’investigatore della scena del crimine John Pollard era quasi arrivato alla porta quando Heller ritenne doveroso metterlo in guardia, ma solo un po’... perché amava vedere come i suoi uomini se la cavavano di fronte alla prova del fuoco. «Considera tutte le prove, John.» «Mi è sfuggito qualcosa, signore?» Pollard era soddisfatto e molto sicuro di non aver trascurato nulla. C’era tuttavia una pecca nel lavoro di quel giovanotto. Si era innamorato di una sua ipotesi interpretativa, allontanandosi così dall’approccio scientifico per giocare al detective. E, sì, qualcosa gli era sfuggito. «Al primo passo falso Mallory ti mangerà vivo.» John Pollard uscì dall’ufficio ridendo. Evidentemente aveva le sue teorie anche sulle bionde con la pistola e le gambe lunghe. Probabilmente pensava che Mallory fosse fin troppo attraente. 16 Stamattina i miei genitori sembrano impazziti e corrono da una stanza all’altra urlando il mio nome. Mi sto svegliando dentro l’armadio quando mio padre mi trova. Non ricordo come ci sono arrivato. Forse nei miei sogni ero inseguito da Aggy la Morsicatrice o dalla Spider Girl. Humphrey non compare mai nei miei incubi. Quel viscido verme ridacchia e picchia come una femminuccia. Ma eccomi lì in pigiama e ancora mezzo addormentato... nell’armadio. Mio padre scuote la testa e dice: «Cosa diavolo non funziona in te?». Be’, il suo rispetto l’ho già perso, così dico: «Ho una vita spaventosa». E papà se ne va. Ernest Nadler Dopo aver messo a letto Coco, Charles Butler trascorse il resto della serata riparando il dorso di un volume raro nel laboratorio accanto alla biblioteca, una stanzetta piena di barattoli di colla, rocchetti di filo, altri strumenti necessari a un bibliofilo... e una pace perfetta. Il triplo vetro dell’unica finestra e i muri spessi tenevano lontano il rumore della strada. Tuttavia, come riguardo alla sua piccola ospite, aveva lasciato la porta socchiusa. In quel luogo Charles si rifugiava per dipanare gli intrecci complicati della vita, come il legame che Coco stava costruendo con Mallory e che l’avrebbe danneggiata quando si fosse spezzato. Da parte sua, lui manteneva una distanza professionale. La bambina capiva bene i rapporti fra dottori e dentisti con i loro pazienti. Non era quello l’attaccamento che lo preoccupava. Dopo ore di lavoro, il libro era riparato ma lui non aveva trovato un modo per recidere il nodo tra Coco e Mallory. Fu allora che udì il grido. Col cuore in gola, uscì di corsa dal laboratorio, attraversò la biblioteca e arrivò nella camera degli ospiti. Prima ancora di entrare accese la lampada che era sul comodino accanto al barattolo con le lucciole catturate nel Ramble. La bambina era agitata e alzò le braccia sottili verso di lui. «Hai fatto un brutto sogno» disse stringendola e cullandola. «Ricordi cosa ti ha spaventato?» «Sì!» Sciogliendosi dall’abbraccio, Coco infilò la mano sotto il cuscino e prese un oggetto che sembrava un telefono cellulare. Ma Charles non ne aveva mai visto uno così. Al posto dei tanti tasti che l’avrebbero messa in difficoltà c’era un unico grosso pulsante che si illuminava premendolo. Dietro quella sorta di prototipo modificato doveva esserci Mallory. E infatti c’era la sua firma. Sul grosso pulsante lucido spiccava una M nell’esatto tono di rosso del suo smalto. Coco sorrise, felice di sentire la voce di chi amava più di tutti. «Ho fatto un brutto sogno» disse al telefono, poi ascoltò. «C’erano topi e ruote... Facevano lo stesso rumore stridulo. Sì, le ruote dell’uomo delle consegne... Sì, per tutta la strada fino all’albero.» Charles annuì, sebbene quelle parole non fossero rivolte a lui. I suoni erano un problema per i bambini Williams. I temporali potevano terrorizzarli mentre un aspirapolvere causava soltanto ansia. Quanto ai cigolii dell’uomo delle consegne... quello era il rumore degli incubi. Qualunque cosa Mallory le stesse dicendo, ebbe un effetto calmante. Coco si appoggiò al cuscino, sorrise e socchiuse gli occhi assonnati. Charles allungò la mano. «Posso?» Lei gli diede il telefono e sprofondò la testa nel cuscino. Charles avvicinò il cellulare all’orecchio. «Mallory, i patti non erano questi.» Le regole non comprendevano visite o contatti non autorizzati di poliziotti, qualsiasi poliziotto. «Le telefonate di nascosto non rientrano esattamente nello spirito del...» «Lasciale il telefono sotto il cuscino» lo zittì Mallory. Era un ordine. «Se glielo impedisci, si metterà a piangere.» E su quella nota di ricatto emotivo, terminò la telefonata. La bambina tese le mani per prendere il telefono e Charles glielo restituì, incapace di interrompere quel nuovo collegamento con Mallory senza provocare altri traumi... e lacrime. Quella faccenda peggiorava continuamente. E quando – in quale preciso momento – Coco aveva ricevuto il cellulare con il tasto M? Charles non aveva staccato gli occhi da Mallory da quando era arrivata a quando se ne erano andati dal Ramble. Che più tardi, di notte, lei avesse osservato dalla strada la finestra accesa del laboratorio? Sì. E aveva sfruttato l’occasione per entrare a far visita alla bambina. Al mondo non esistevano serrature capaci di resistere a Mallory. Charles andò alla porta e spense la lampada... ma non la luce. Cosa? Guardò il barattolo sul comodino. Brillava più di prima? Oh, sì. Da quando aveva messo Coco a letto, le poche lucciole erano aumentate di almeno dieci volte, con un piccolo aiuto da parte di Mallory, ladra abilissima e campionessa nel catturare gli insetti. Quel barattolo era la perfetta luce notturna dell’infanzia. La sala operativa era in penombra ma c’era molta luce nel laboratorio informatico, il regno di Mallory. Durante i suoi tre mesi di assenza i colleghi, che sapevano usare solo il computer, si sentivano a disagio in quella stanzetta zeppa di strumenti tecnologici, cavi ed elementi di computer con configurazioni misteriose. E ora Riker notò che si erano aggiunti altri giocattoli dopo il ritorno della sua collega quattro settimane prima. Una volta quello era il suo parco giochi dopo la scuola. A quel tempo, quando Mallory aveva dodici o tredici anni, i computer a disposizione dell’unità Crimini Speciali erano rottami scartati dagli altri dipartimenti, scassati e completamente inutili. La figlia adottiva di Lou Markowitz aveva manifestato un’affinità naturale con quei macchinari e un pomeriggio Lou l’aveva sguinzagliata nel recinto elettronico. Riker ricordava che dopo poco più di un’ora la piccola si era intrufolata nell’ufficio di Lou dicendo: «Con i pezzi giusti, posso rimettere a nuovo i computer». In quei giorni l’ex comandante dell’unità era tutto preso da un omicidio e, senza rendersi conto di quel che sarebbe accaduto, aveva consegnato alla figlia i moduli per richiedere i pezzi di ricambio. Poco dopo la merce aveva cominciato a invadere la sala operativa. Non piccole scatole di ricambi ma enormi scatoloni contenenti computer nuovi. I primi arrivi avevano colto Lou di sorpresa. Cosa diavolo? Non aveva compilato scartoffie, non aveva neppure firmato per la consegna. Poi aveva notato Kathy che trascinava il suo bottino nel corridoio verso il laboratorio, e aveva distolto lo sguardo... per anni. Probabilmente all’epoca Markowitz lo aveva giudicato un progresso: ora la sua piccola criminale rubava per uno scopo più nobile. Come avrebbe detto Kathy Mallory da grande: Sì, già. In un certo senso Kathy aveva sempre cercato di pareggiare i conti con Lou, colpevole di aver posto fine alla sua carriera di ladruncola di strada. Tuttavia, ottenuta con la frode l’attrezzatura necessaria, aveva scoperto un intero nuovo mondo di cose da rubare sulle autostrade dell’informazione. La bambina depositava il frutto dei furti sulla scrivania di Lou, pagine di notizie abilmente sottratte alle banche dati del settore privato e federale. Quante volte aveva fatto venire un colpo al suo vecchio? Entrava nell’ufficio di Lou con quel sorriso – «Fatto» – e gli consegnava uno dei suoi... doni. Quella ragazzina era un enigma, pensava allora Riker, ma non si sarebbe mai lasciato sfuggire un commento del genere ad alta voce. Quel suo sorrisetto lo faceva impazzire. Poi, una notte piovosa, dopo tre giri di birra nel loro bar in fondo alla strada, Lou Markowitz aveva svelato il mistero dicendo: «Kathy crede di rubarmi l’anima... ed è vero». E il vecchio aveva alzato il bicchiere per brindare. «Questo è per la mia piccola.» Quella sera Riker liberò un tavolino e lo apparecchiò con tovaglioli di carta e sandwich. L’aroma del manzo affumicato riempiva la stanzetta. «Il volontario del parco è pulito, non ha precedenti. Quando il tizio della Scientifica ha ritirato il carrello, si è portato via anche la tuta. Pollard dice che la puoi comprare dappertutto.» Mallory lo stava ascoltando? No, era tutta presa dai suoi computer, passava velocissima da un monitor all’altro. Le mise in mano una lattina di birra fresca – prima le signore –, poi tirò la linguetta della sua. «Coffey non ha mai chiamato i tecnici mentre eri via.» Riker si sedette accanto a lei. «Non era sicuro che questa attrezzatura fosse legale.» Mallory batteva sulla tastiera, gli occhi fissi allo schermo su cui era apparso il logo del ViCAP. Pochi giorni prima il detective Janos aveva usato quel programma di schedatura dei criminali violenti – l’acronimo corrispondeva a Violent Criminal Apprehension Program – per fare una ricerca a tappeto su vecchi delitti da confrontare con quelli dell’Artista della Fame. Janos aveva seguito tutti i protocolli dell’FBI, risposto a centodieci tediose domande, compilato schede per ogni vittima. E da tanto lavoro non aveva ricavato nulla. Mallory stava setacciando gli stessi computer federali, ma senza bussare educatamente alla porta con una password, senza fornire numeri di tesserino e senza lasciarsi dietro alcuna traccia. Backdoor access era l’espressione che usava per rapinare i federali. «C’erano posti migliori per appendere quei corpi» disse. «Non è più come una volta, quando nel Ramble potevi nascondere un elefante.» «Già» annuì Riker. «Ora un qualsiasi osservatore d’uccelli avrebbe potuto notare i sacchi.» Sebbene fosse improbabile che un sacco appeso a un albero venisse denunciato alla polizia. «Forse ci troviamo davanti a un criminale che ama il rischio.» «No. Credo che abbia un rapporto speciale con quel posto.» Riker osservò la collega che aggirava abilmente il lungo questionario dell’FBI. Voleva evitare qualsiasi interferenza da parte dei criminologi federali. Inserì un disco per sguinzagliare la sua mascotte, un virus chiamato Good Dog, un cane virtuale che correndo all’impazzata e saltando i firewall poteva penetrare in qualsiasi file e tornare a casa con il suo bravo osso. Mallory non menzionò argani, sacchi, carrucole, batterie o trapani. Si limitò a digitare una breve descrizione per indirizzare il suo cane: “Central Park, NYC, rapimento, impiccagione”. Semplice ed elegante. Riker approvò. Quelle poche parole garantivano che la lista dei risultati sarebbe stata breve. Che fosse per il collo o dentro un sacco, l’omicidio per impiccagione era un crimine raro. «C’è un’unica risposta.» Mallory batté un tasto per stampare il file apparso sullo schermo. «Non è un riscontro... solo il questionario di una ricerca fatta da qualcun altro.» «E non è quello di Janos.» Riker esaminò i fogli che uscivano dalla stampante. «Questo è molto più vecchio, centottantaquattro domande.» La ricerca risaliva al periodo precedente la semplificazione dei questionari ViCAP. Quindici anni prima, un detective del dipartimento di polizia di New York aveva cercato un crimine analogo nella banca dati dell’FBI. E non aveva ottenuto riscontri. Un’ora dopo, quando i detective avevano finito la loro cena tardiva e letto tutte le pagine, Mallory disse: «Anche tu sai che qui c’è qualcosa di sbagliato». Riker annuì. Quel vecchio caso avrebbe dovuto occupare le prime pagine dei giornali del tempo. «È il tipo di delitto che non si dimentica.» Eppure lui non aveva mai sentito parlare di un bambino appeso a un albero e lasciato nel Ramble a morire. Com’era possibile? Con una lunga unghia rossa Mallory richiamò l’attenzione del collega sul nome dell’autore di quella vecchia ricerca. «Oh, Cristo» disse Riker. «Il detective era Rocket Mann?» Il soprannome non era affettuoso. Rolland Mann era stato un mediocre poliziotto salito come un razzo ai massimi livelli del NYPD per ragioni poco chiare e riassumibili nella parola “corrotto”. E ormai si trovava solo un gradino al di sotto del comandante della polizia Beale. «Questo è grave.» Riker prese il «Post» e cercò una notizia in una pagina interna. «Guarda qui.» Il titolo in lettere maiuscole diceva: IL CAPO DELLA POLIZIA HA UN ARRESTO CARDIACO. Il vecchio Beale era in ospedale in attesa di un bypass coronarico. «E Rocket Mann ne assume le funzioni.» Mallory batté sui tasti e in pochi istanti entrò nell’archivio del NYPD. Fece scorrere lentamente le voci sullo schermo. «Mann non ha mai aperto un fascicolo su quel bambino. Né lui né nessun altro. In quell’anno nel Ramble risultano solo aggressioni e omicidi di routine.» Al di sopra della sua spalla, Riker lesse un elenco di tossicodipendenti e ubriachi uccisi, oltre a un turista colpito da un proiettile vagante e due pugnalati. «Nessun bambino» concluse Mallory. «Nulla che corrisponda al questionario di Rocket Mann. Quel caso è stato insabbiato... e ora noi dobbiamo chiedergli perché.» Il vice comandante della polizia non poteva legalmente rifiutare un colloquio ai suoi sottoposti, ma Rolland Mann poteva rendere un inferno la vita del poliziotto che lo pretendeva. Avrebbero seguito i protocolli e salito la scala gerarchica passando da un gradino all’altro... un iter che avrebbe messo in prima linea il loro capo, il comandante dell’unità Crimini Speciali. Riker alzò la birra per brindare alla sua collega. «Be’, piccola, questa è la tua ultima vendetta per il mese di lavoro alla scrivania. Quando gli dirai che dobbiamo interrogare Rocket Mann, a Coffey verrà un infarto.» Mallory toccò la lattina di Riker con la sua. «Ci divertiremo, vedrai.» 17 Stavolta mi ha lacerato la pelle e il sangue inzuppa la calza. A pranzo Phoebe guarda la mia caviglia sanguinante. Il problema è che Aggy è figlia di ex alunni, dice. Altrimenti una che morde la gente in quel modo l’avrebbero già fatta fuori. Ernest Nadler L’anziana signora Buford andava su e giù con le sue pelose ciabatte rosa aspettando l’arrivo del giornale. Il «Times» del giorno precedente le era stato rubato e lei aveva i suoi sospetti. Il principale indiziato era l’uomo in fondo al corridoio, uno che non si curava dell’enorme importanza che quel giornale aveva per lei. Le parole crociate le permettevano di controllare l’avanzamento dell’Alzheimer sulla base delle caselle che non riusciva a riempire perché il suo inventario di parole e di nomi si riduceva sempre più. Invecchiare era una tremenda seccatura. Consultò l’orologio sul muro. Dov’era finito quel dannato ragazzo? Si fermò e trattenne il respiro. Ah, ecco il tonfo leggero sullo stuoino. La signora Buford aprì la porta mentre i giornali venivano lasciati davanti agli altri appartamenti. Attese che la donna dirimpetto ritirasse il suo. Il saluto mattutino con la vicina era uno dei momenti culminanti della giornata. Oh, no. La porta fu aperta dal marito, un tipo piuttosto inquietante. Quel Rolland Mann le faceva venire la pelle d’oca. Era un funzionario statale, se ricordava bene, cosa che mal si conciliava con un appartamento in quel grattacielo di lusso. Be’, doveva essere un pezzo grosso, ma di sicuro non era stato eletto a qualche carica, con quel mento sfuggente e quella pelle flaccida. Aveva anche pochi capelli. Quel dettaglio le fece venire in mente un suo cugino che se li strappava quando era nervoso. Quando il vicino si chinò per prendere il «Times», la signora Buford notò le dita lunghe e sottili come zampe di ragno. E, passando da una metafora sgradevole all’altra, lui la guardò con occhi da rettile. Gelido serpente. No, niente di così grandioso. Gelido verme. «Buongiorno!» lo salutò. La signora Buford si trattenne dal chiedergli se avesse già assassinato la moglie. Da molto tempo aveva l’impressione che quella povera donna restasse col marito solo perché costretta, e i matrimoni di quel tipo finiscono sempre male. Lui non batté ciglio. Bastardo maleducato. Rolland Mann fissava la prima pagina, totalmente assorbito da un articolo, le dita strette sui bordi del giornale. Il solito pallore cadaverico si era accentuato. L’anziana signora guardò il suo giornale e notò un titolo familiare in grossi caratteri. Era qualcosa che aveva letto quando andava a scuola. Ormai ricordava meglio le cose avvenute nel passato. Sì, era un racconto di uno scrittore russo... o forse tedesco. Un classico, comunque. Continuò a leggere e scoprì che era il seguito di una storia del giorno precedente e che la polizia aveva identificato in Humphrey Bledsoe una delle vittime dell’Artista della Fame. Il vicino rientrò nel suo appartamento chiudendo la porta dietro di sé, silenzioso come un ladro. Quel giorno non mancavano i medici legali, ma nemmeno i cadaveri. Così anche l’anatomopatologo capo infilò la visiera di plastica e i guanti di lattice. La detective Mallory guardò il corpo sul tavolo da dissezione. Il morto era nudo e lavato, pronto per la prima autopsia della mattinata. «Questo può aspettare.» Il dottor Edward Slope aveva capito benissimo. Naturalmente. Quell’uomo di mezza età ucciso da una pallottola non era il suo cadavere, giusto? No, infatti apparteneva a un altro distretto. «Vattene, Kathy.» Decisa a comportarsi bene, lei lasciò correre sul nome, però mise le mani sui fianchi con aria minacciosa. «Comincia con Humphrey Bledsoe.» «Questa è casa mia. Decido io... Ehi!» Il dottore riuscì ad afferrare un bisturi prima che lei allontanasse il carrello degli strumenti. «Non c’è fretta per l’autopsia di Bledsoe. Sto aspettando che qualcuno della famiglia venga a identificarlo.» «Già fatto» replicò Mallory. «La signora Driscol-Bledsoe ha identificato il figlio in ospedale.» «Non è esattamente la storia che ho sentito da Grace. Lei si è basata sull’identificazione della polizia quando...» «Grace? Tu conosci quella donna?» «Sì.» Quale nuovo reato aveva commesso? «Certo che la conosco. L’Istituto Driscol finanzia metà delle spese di gestione della mia clinica... e questo lo devo a Grace.» Molti medici avevano una casa in campagna. Edward Slope in campagna aveva una clinica per tossicodipendenti. Kathy Mallory non aveva mai capito quella sua tendenza a lavorare con pazienti vivi fuori orario e, cosa peggiore, gratis. Nel suo mondo, l’unico drogato buono era quello morto. «La prossima volta che vieni alla clinica leggi la targa dei benefattori nell’atrio. Troverai il nome di Grace Driscol-Bledsoe in cima alla lista. Una donna molto generosa. Presiede il consiglio di amministrazione...» «Quanto denaro controlla?» «Almeno un miliardo di dollari, probabilmente di più.» Posò il bisturi sul tavolo. «Per favore, dimmi che non stai cercando un movente economico per i delitti del Ramble.» «Quella donna ha riconosciuto il figlio in ospedale senza alcuna esitazione. Quindi mi chiedo perché dovrebbe venire fin qui per un’altra identificazione.» La giovane detective incrociò le braccia guardandolo seria e sospettosa. «E quanti altri importanti funzionari tiene in pugno?» «Non sei spiritosa, Kathy. Ti do un suggerimento. Perché non lo domandi a lei?» «Non possiamo superare la barriera dei suoi avvocati... e del sindaco.» Guardò il cadavere sul tavolo, quello in fila prima del suo. «Quindi, concedi dei privilegi speciali a un’amica.» Il medico legale abboccò? No. «Concedo a Grace solo quello che le spetta. Ha detto che sarebbe passata oggi. Farò personalmente l’autopsia di suo figlio, d’accordo? Domani.» «Mi serve subito.» Mallory stava tra l’anatomopatologo e il carrello degli strumenti. «Fra tre ore verranno a prenderlo quelli delle pompe funebri. È tutto il tempo che hai.» «L’hai deciso tu?» Edward Slope si tolse la protezione dal viso. Stava diventando troppo vecchio per tener testa a Kathy? Diavolo, no! «Non ti importa un accidente dell’autopsia. Non salterà fuori nulla che tu non sappia già.» Il tono era sufficientemente indignato? Se lo augurava. «Si tratta del funerale, vero? Capisco l’interesse per i funerali della vittima di un delitto, ma da quando li organizza la polizia? Hai almeno informato la famiglia?» «No, Edward. Non l’ha fatto.» La voce di Grace Driscol-Bledsoe echeggiò tra le pareti piastrellate di bianco. Accompagnata da un custode dell’obitorio, l’elegante rossa attraversò la grande stanza ticchettando sui tacchi. Un’altra donna, scialba e vestita di nero, la seguiva a qualche passo di distanza camminando su suole di gomma, e non venne presentata. La gran dama prese le mani del medico fra le sue e scoccò un bacio in aria per non rovinarsi il rossetto. «L’impresario delle pompe funebri – oh, lo conosciamo da anni – me l’ha comunicato solo venti minuti fa. Il funerale di mio figlio è stato fissato nel giorno del suo compleanno.» Rivolse a Mallory un sorriso indecifrabile. «Ma di solito sono i congiunti a fissare la data. Quindi immaginate la mia sorpresa quando l’impresario mi ha telefonato per chiedermi che tipo di musica e di fiori preferivo... per il rito di domani.» Grace Driscol-Bledsoe consegnò un biglietto alla detective. «Si rivolga al mio avvocato.» Traduzione? Va’ all’inferno, tesoro. Il capo del dipartimento di medicina legale si godette la scena. Poi offrì il braccio alla signora e la scortò nella stanza dove i resti di Humphrey Bledsoe attendevano di essere ufficialmente identificati. La giovane detective restò a riflettere: quale errore aveva commesso? Il dottore e la sua più generosa sostenitrice si fermarono davanti al vetro e le tende furono aperte per mostrare il corpo esposto. «È mio figlio» disse Grace. Senza esitare. E Slope ebbe la prima vaga sensazione di qualcosa di sbagliato. «Non mi sorprende che mia figlia non l’abbia riconosciuto. Edward, caro, cerca di non rovinarlo troppo, ti prego. Mi hanno riferito che la detective Mallory ha ordinato una cerimonia con la cassa aperta.» La donna gli consegnò una piccola busta quadrata con il nome e l’indirizzo del mittente stampati e quello del dottore scritto a mano con grafia elegante, come l’invito a un ricevimento. La aprì. Sì, era un invito, un’occasione mondana. Lo sguardo di Slope passò dalla madre sorridente al figlio assassinato. I ricchi erano davvero diversi. Le pareti di sughero erano ricoperte dalle nuove fotografie appena arrivate dall’ufficio del medico legale. Il dottor Slope, con decisione inaspettata, aveva eseguito subito l’autopsia di Humphrey Bledsoe. Sedici detective erano schierati sulle sedie pieghevoli come un pubblico. In vista della riunione, un lungo tavolo era stato piazzato al centro della sala e un investigatore della Scientifica vi stava disponendo prove e oggetti per simulare il kit dell’Artista della Fame. Il tenente Coffey fissava la corda, il sacco, il nastro adesivo, e poi la carrucola, il trapano, le viti. Fatelo smettere. Seguirono un argano e un telecomando, mancavano solo gli alberi. Oh, merda. L’imbecille si era portato pure quelli. Una sezione rotonda di corteccia fu disposta accanto a un ramo recisa con cura. La lezione non era ancora iniziata e la squadra già moriva di noia. Jack Coffey si appoggiò alla porta, precludendo ai suoi uomini ogni via di fuga. «Immagino non abbiate esaminato il contenuto del nostro scatolone.» L’investigatore John Pollard sorrise alla sua patetica battuta. I detective non risero, ma nemmeno sfoderarono le pistole. Desideravano tutti fare pace con la Scientifica. «Il vostro uomo ha impiegato parecchio tempo per mettere insieme il suo kit.» John Pollard mostrò una corda arrotolata dentro una busta trasparente. «Questo tipo di corda non viene più prodotto da cinque anni. La vendevano in rotoli da trentasei metri. Su ogni scena ne sono stati trovati dodici.» E, casomai i poliziotti non sapessero contare, specificò: «L’ha usata tutta». Fece qualche passo e prese il sacco. «I sacchi sono di un tipo che non è mai stato venduto al dettaglio. Quindi l’Artista della Fame li ha trovati in qualche magazzino, oppure li ha rubati.» Pollard guardò la paccottiglia sparsa sul tavolo. «L’intero kit non costa più di qualche centinaio di dollari. Il killer ha pagato in contanti, potete scommetterci» disse, come se una platea di detective esperti avesse bisogno del suo aiuto per fare una deduzione del genere. Tutti lo guardarono con occhi che dicevano: Crepa. L’investigatore della Scientifica mostrò il carrello che Mallory aveva trovato nel parco. «Niente impronte, è stato ripulito. Ma ho rintracciato il numero di serie. È stato venduto a un giardiniere del Queens che è morto da qualche anno. Ho interrogato la vedova. Dice che il marito aveva preso le ruote gonfiabili dal go-cart del figlio.» Tutti drizzarono le orecchie. Finalmente Pollard aveva catturato l’attenzione. Interrogando la vedova, aveva superato il limite. Diversamente dalla maggior parte degli uomini di Heller, quello non era un poliziotto ma un civile... non uno di loro. Pollard batté la mano sulla batteria agganciata ai lunghi manici del carrello. «Questa alimentava un montacarichi per sollevare pesi sui terrazzi e sui tetti. Economico ed efficace. Il giardiniere lavorava in nero... niente fatture, niente liste di clienti. Il carrello fu rubato sette anni fa da un luogo in cui stava lavorando. La vedova non sa quale. Ricorda solo che quel giorno il marito era a Manhattan.» E cosa avrebbe potuto ricordare la vedova se fosse stata interrogata da un vero detective? Jack Coffey trattenne un’imprecazione. Pollard tornò al tavolo e con un ampio gesto indicò tutto ciò che vi era sopra. «Abbiamo lavorato su ogni dettaglio.» E, esaminando ciascun oggetto fino allo sfinimento, spiegò come a tutte quelle prove fosse arrivato partendo da due semplici buchi nella corteccia degli alberi. Quando i detective si erano assopiti già da un po’, finalmente, Pollard tacque e alzò entrambe le mani. Lo spettacolo era terminato, e lui aveva tutta l’aria di pretendere un applauso. Scordatelo. «Ti sono sfuggite alcune cose» intervenne Mallory dal suo posto nell’ultima fila. L’investigatore Pollard finse di non aver sentito. Jack Coffey scosse il capo per metterla in guardia, come se potesse servire a qualcosa. Mallory si alzò e si avvicinò al tavolo. Maledizione! Proprio quando andava così bene, quando stavano per farsi una bella scopata di riconciliazione con la Scientifica, lei doveva rovinare tutto. Mallory posò una boccetta sul tavolo. «Cloroformio. Fa parte del kit dell’omicida.» «No. Non credo.» John Pollard sorrise accondiscendente. «Posso mostrarti le lastre delle fratture del cranio. Le vittime sono state messe fuori gioco con un colpo...» «Due di loro sono state stordite» precisò Mallory. «Solo Willy Fallon è stata colpita così forte da perdere i sensi. L’assassino doveva tenerle tranquille.» Prese il nastro adesivo. «E questo non basta.» Ne strappò un pezzo e coprì la bocca di Pollard. «Se fai rumore ti sentono. Prova.» Lo sentirono. Il suono che emise sembrava il ronzio amplificato di una zanzara. Quando alzò le mani per liberarsi, lei le schiaffeggiò. «Non barare.» E con un altro pezzo di nastro adesivo gliele legò dietro la schiena. Il tenente sapeva che era giunto il momento di fermarla, ma un’occhiata alla stanza gli rivelò che la squadra approvava in pieno il comportamento scorretto di Mallory. Adoravano quello che stava facendo. Era di nuovo una di loro, e al piccolo prezzo della dignità di quell’imbecille. Jack Coffey sorrise. Non desiderava altro dalla vita. Mallory aveva assunto il comando. «Abbiamo un testimone che ha visto il killer con una tuta da fattorino. Un trucco per farsi aprire la porta. Poi colpisce la vittima alla nuca.» Guardò il tavolo coperto di oggetti e poi Pollard. «Ti sei lasciato prendere la mano dai tuoi buchetti nel tronco e hai trascurato le prove relative alle aggressioni.» Ora Pollard stava facendo molto rumore, a dispetto del nastro adesivo sulla bocca. Era forse il miglior reperto parlante mai presentato in una riunione. «Anche se il killer avesse messo fuori combattimento tutte e tre le vittime, poteva rischiare che riprendessero i sensi? No» continuò Mallory. «Non è il suo stile. Lui pensa e ripensa a ogni dettaglio, segno che è un dilettante. Non ci sono fori di aghi sui corpi, quindi so che li ha sedati con questo.» Mostrò la boccetta in una mano e uno straccio nell’altra e continuò a istruire l’investigatore della Scientifica. «Puoi comprare il cloroformio su internet. Puoi persino fabbricartelo in casa. Il killer l’ha usato per tenere buone le vittime mentre le trasportava in strada e nel parco... perché quella era la parte pericolosa. E questa boccetta è l’unico oggetto sul tavolo che potrebbe dare una svolta al nostro caso.» Si rivolse al pubblico in delirio. «Il test per rilevare la presenza di cloroformio richiederà ancora tre giorni. Pollard non l’ha nemmeno richiesto. Io sì. Inoltre non ha usato uno spettrometro per verificare la presenza di prodotti chimici sui sacchi. E siamo a due errori. Tre, se contiamo il colloquio con la vedova del giardiniere.» La stanza brillava di sorrisi soddisfatti. «Poi l’assassino procede in questo modo.» Decisamente animata da spirito di rivincita, Mallory fece lo sgambetto all’investigatore Pollard, lo stese a terra e lo legò come un maiale. Quindi lo infilò nel sacco e chiuse l’imboccatura con la corda. Infine fece scivolare la base del carrello sotto il sacco e appoggiandosi alla parete caricò la sua vittima che si dibatteva impotente. Era pronta per il trasporto. A quel punto qualcuno avrebbe potuto osservare che persino una donna poteva averlo fatto. Ma nessuno osò. 18 La Driscol pazza vive nella vecchia rimessa dietro la scuola. Phoebe dice che la sua prozia ha perso gran parte delle cellule cerebrali dopo un ictus. Anni fa la vecchia signora ha cacciato l’infermiera e si è messa a correre nuda in giardino davanti a tutti. Le bambine erano inorridite dai suoi seni flosci e dalla pancia rugosa, dice Phoebe. Ma dal punto di vista dei maschi, una donna nuda era sempre una donna nuda. E ora mi spiego un’altra tradizione della scuola. Nelle aule affacciate sul giardino, all’inizio e alla fine delle lezioni i maschi si mettono in fila davanti alle finestre. Sperano di vedere la vecchia Driscol nuda. Ernest Nadler «Quando l’hai messo nel sacco hai esagerato.» Jack Coffey aveva l’abitudine di rimproverare i detective in privato, nel suo ufficio. Mallory aprì l’orologio da taschino, per ricordargli che aveva cose più importanti da fare. Il tenente sorvolò sull’importanza cruciale di mantenere buoni rapporti di lavoro con la Scientifica. Forse era meglio iniziare la lezione con una minaccia. «Tu credi che non ti sospenderò.» «Ho trovato un vecchio caso di impiccagione nel Ramble.» Mallory posò il questionario ViCAP sulla scrivania. Coffey esaminò le domande standard dell’FBI, pagina dopo pagina. Le risposte raccontavano la storia di un bambino lasciato appeso a un albero per tre giorni. «Quando è successo?» Guardò la data sulla copertina. Il fatto era avvenuto quindici anni prima, quando lui era una recluta in polizia. «Com’è che non ne ho mai sentito parlare?» «Non c’è mai stata un’indagine, nessun fascicolo.» Mallory allungò la mano e gli indicò il nome e il grado di chi aveva richiesto quelle informazioni. «È stato lui a insabbiare il caso.» «Merda!» Lui ora deteneva provvisoriamente il comando del NYPD durante la degenza in ospedale del comandante Beale. E forse solo poche ore separavano Rolland Mann dal potere assoluto. «Allora, Mallory... hai altre bombe in tasca?» «So perché lo chiamano Rocket Mann. Quindici anni fa avrebbe dovuto farsi le ossa con un’indagine come questa, ma così non è stato. O meglio, non è successo nel solito modo.» Una lunga unghia rossa indicò la data. «Dieci giorni dopo Mann ha ottenuto il distintivo d’oro. Nel suo curriculum non c’è nulla che lo giustifichi. Prima della promozione era un distintivo bianco.» «Un’ascesa rapidissima, non ci sono dubbi.» Coffey osservò il vecchio questionario. «Doveva esserci un fascicolo. Forse è stato secretato o distrutto. Questo potrebbe indicare che il colpevole era minorenne.» La guardò sperando in un cenno di assenso o, anche meglio, un’alzata di spalle per dire che non aveva ancora controllato illegalmente tutti i casi di quell’anno relativi a minori. Mallory scosse il capo. «La ricerca di Rocket Mann è l’unica prova che quel crimine sia mai avvenuto.» La data lo situava agli inizi della decentralizzazione del dipartimento di polizia, quando ai poliziotti non era concesso conoscere il tasso di criminalità del distretto confinante. Per avere informazioni aggiornate sulle statistiche dei reati, i cronisti avevano imparato a rivolgersi all’ufficio del sindaco. Nonostante gli aspetti sensazionali, sarebbe stato facile tenere i media all’oscuro di quel crimine. Il rischio di fughe di notizie era basso e c’erano meno poliziotti da far tacere. E Central Park era l’unica area non abitata di Manhattan. Mallory posò sulla scrivania una mappa del Ramble. Le scene dei delitti dell’Artista della Fame erano tutte e tre concentrate nella zona boscosa. L’epicentro, Tupelo Meadow, era segnato da una X. «Questa dev’essere la radura descritta da Mann nel questionario, dove è stato trovato il bambino appeso. Dobbiamo parlare con Rocket Mann.» Gli stava già venendo l’emicrania da stress? Ritenendosi un uomo morto, Jack Coffey telefonò a One Police Plaza. La richiesta di Mallory doveva passare prima di tutto da Joe Goddard, l’ispettore capo, che l’avrebbe fatta salire ai piani alti oppure cestinata, a sua discrezione. Ma in ogni caso ci sarebbe stata qualche ritorsione. A un passo dall’assumere il comando del NYPD, Rocket Mann di sicuro non avrebbe gradito che qualcuno riportasse alla luce quel caso, dopo tutto il disturbo che si era preso per seppellirlo. La testa sembrava un proiettile con i capelli a spazzola. Tutti guardarono l’uomo le cui spalle occupavano per intero la cornice della porta. Mentre l’ispettore capo attraversava la sala operativa, quelli che credevano alla sua leggenda tesero l’orecchio per udire il rumore di ossa trascinate sul pavimento. Joe Goddard, detto Dio, era sceso dal suo empireo di One Police Plaza per far loro visita, e questo non presagiva nulla di buono. L’uomo portava un abito di seta, ma nessuno l’avrebbe scambiato per un politico. L’ispettore capo era schietto in modo brutale e ogni parola che gli usciva di bocca tradiva che era cresciuto nelle strade della città. Non sorrideva mai, non cercava mai di nascondere che era pericoloso. Passò accanto alle scrivanie di Riker e Mallory e disse: «Voi, con me». I detective si alzarono e lo seguirono fino alla porta dell’ufficio, dove Jack Coffey aspettava per stringere la mano a Dio. «Questa è una riunione privata» disse il capo. E mise subito in chiaro che la presenza del tenente non era richiesta aggiungendo: «Jack, con te non ci sono problemi». Si girò a guardare Riker e Mallory. «E questi due non sono nei guai... per ora.» Il tenente Coffey annuì e si scostò per farli passare. Poi chiuse la porta dell’ufficio e si allontanò. Goddard si sedette alla scrivania. I detective rimasero rispettosamente in piedi. Il capo teneva in mano un fax e lo sventolò come una bandiera. «Ho bypassato il capo del dipartimento e ho comunicato personalmente la vostra richiesta a Rolland Mann. Gli ho mostrato la vostra copia della sua vecchia ricerca nel database del ViCAP. Vi riceverà oggi pomeriggio nell’ufficio del comandante Beale, dove si è trasferito con armi e bagagli l’altro giorno... cinque minuti dopo che il vecchio era stato portato all’ospedale. Se Beale muore sotto i ferri, il suo primo sostituto non avrà più solo un incarico provvisorio. Così si dice in municipio. In vista c’è un incarico permanente... E io non posso accettarlo.» Guardò i due detective, chiedendo tacitamente se era stato chiaro. Oh, sì. Molto chiaro. C’era una guerra in atto, e Riker e Mallory erano appena stati arruolati come soldati di fanteria. «Quando gli ho detto che voi due volevate un colloquio, si è innervosito. E quel bastardo ve l’ha concesso anche troppo velocemente. Sembrava che se lo aspettasse. Il vostro tenente non è stato invitato a partecipare. E neppure io. Da questo ho capito che avete qualcosa di grosso contro quel coglione. È destinato a cadere... con o senza il vostro aiuto. Nella sua posizione di vice comandante non può garantirvi nulla... Voglio che ve ne ricordiate.» Dunque la strategia era decisa e chi si schierava dalla parte di Rocket Mann era spacciato. «Quel bastardo non può proteggervi... ma io sì.» Sorvolò su tutte le altre cose che in quanto ispettore capo poteva fare ai suoi sottoposti. Joe Goddard non era in corsa per ereditare il posto del comandante Beale. Per esserlo avrebbe dovuto uccidere il capo del dipartimento e un buon numero dei quattordici sostituti che si trovavano uno scalino sotto Rolland Mann. Quindi Riker gli credette quando si appoggiò comodamente allo schienale e disse: «A me piace una casa bella pulita». Riker lanciò un’occhiata a Mallory. Se l’ispettore capo voleva del fango da gettare sul vice comandante, loro erano morti. Non avevano nulla da dargli – non ancora – ma non sarebbero stati creduti. Goddard li avrebbe fatti a pezzi. Da un momento all’altro. Con l’espressione impenetrabile di un campione di poker Mallory disse: «Abbiamo bisogno di Rolland Mann per chiudere il nostro caso. Poi sarà suo... con tutto quello che abbiamo su di lui». Era un bluff, un rischio che valeva la pena correre, ma lei lo disse senza mostrare rispetto e con un tono tutt’altro che umile. Non era difficile leggere l’irritazione sulla faccia di Goddard. Riker era preoccupato. «Le condizioni le stabilisco io, non tu» ribatté il capo. «Il tuo vecchio mi piaceva, Mallory, ma non ho debiti con Lou Markowitz. E vedo che il tuo collega si sta chiedendo come mai non ti ho ancora sbattuta fuori dal mio ufficio.» Fissò gli occhi rabbiosi su Riker e continuò con voce minacciosa: «Stamattina sono di ottimo umore, quindi sorvolerò sull’insubordinazione di questa bambina». Rivolto a Mallory, la rea, proseguì: «Detective, sei giovane e forse è necessario che te lo ficchi bene in testa». Batté un pugno sul tavolo a mo’ di punteggiatura. «Non cercare mai di fregarmi! Chiudi il tuo caso e poi portami la testa di Rolland Mann. E se non riesci a raggiungere l’obiettivo in settantadue ore vuol dire che ti pagano più di quanto vali.» L’espressione di Riker non rivelava nulla, ma dentro di sé stava ridendo. Mallory aveva vinto. Avrebbe fatto come voleva, anche se Goddard aveva trasformato la linea suggerita dalla giovane detective in un proprio ordine tassativo. Il gran capo Goddard mise sulla scrivania un plico di fogli. «Questi vi serviranno.» Consegnò a Riker alcune pagine ingiallite, fitte di appunti scritti a mano. «Sono le note personali di un poliziotto in pensione. L’agente Kayhill era di pattuglia nel parco quindici anni fa.» Riker esaminò i fogli, sforzandosi di leggere senza occhiali. Per nulla al mondo li avrebbe inforcati davanti a quell’uomo. Dopo due pagine, si rivolse a Mallory. «Questo conferma il questionario ViCAP. Kayhill era sul posto quando il bambino fu trovato appeso a un albero.» «Già» disse l’ispettore capo. «E sono sicuro che ha compilato un rapporto, ma sembra che sia sparito. Se Rolland Mann dovesse chiederlo, ditegli che avete avuto questi appunti stamattina nel pensionato di Kayhill. Il vecchio è rimbambito. Non preoccupatevi di lui. I suoi appunti dicono che la vittima era viva quando la tirarono giù. Ma il bambino non poteva parlare... e non fu identificato.» Sempre strizzando gli occhi, Riker era arrivato al punto in cui si spiegava che il bambino non era in grado di parlare e quindi veniva portato via in ambulanza. Guardò la scrivania mentre Goddard vi posava sopra un documento con un sigillo in rilievo. Le parole Certificato di Morte spiccavano in caratteri grandi. «La vittima era dell’Upper West Side e i genitori ne avevano denunciato la scomparsa tre giorni prima del ritrovamento nel Ramble. Deve trattarsi dello stesso bambino.» Per un terribile istante Riker temette che la sua collega volesse sfidare Goddard su quel dettaglio. Avevano controllato le denunce di persone scomparse in quel periodo e non avevano trovato nulla. Mallory però si limitò a prendere il documento. «Questo bambino è morto dopo essere stato impiccato.» Passò il certificato di morte a Riker. «Controlla la data.» Lui guardò, tenendolo lontano dagli occhi, e annuì. «È lo stesso giorno della ricerca di Rolland Mann.» Se la morte era la conseguenza dell’aggressione nel parco, allora il vice comandante della polizia aveva insabbiato l’omicidio di un bambino. Il bambino che non c’era agitò le mani per protestare e tacitamente mimò le parole: No! Non farlo! Ignorando i buoni consigli di Dead Ernest, Phoebe Bledsoe rispose al telefono. «Le mie condoglianze per Humphrey» disse la voce di Willy Fallon. «Ho appena sentito l’annuncio del funerale in televisione. Molto volgare. Di solito gli annunci funebri si fanno sui...» «Ho riferito il tuo messaggio a mia madre.» Phoebe guardò Dead Ernest che mimò le parole: Attacca, attacca. «Continua a non rispondere alle mie chiamate» disse Willy. «Perciò riprova. Dille che la terza vittima è Aggy Sutton. Nessuno lo sa... non è sui giornali. Ma tu te l’eri immaginato, vero? E quando parli con tua madre, dille che la prossima sarai tu.» Phoebe scosse il capo. E Willy rise, come se potesse vederla. «Tu c’eri quel giorno. Questo tua madre lo sa, Phoebe? Credi che basterà per catturare la sua attenzione? Ci saranno i poliziotti domani al funerale? Potrei parlare con loro.» 19 Sono quattro isolati nella direzione sbagliata, ma ogni tanto Phoebe e io seguiamo Toby Wilder che torna a casa dopo la scuola. Ci sentiamo al sicuro con Toby. Non succede niente di brutto quando c’è lui. Phoebe vuole sposarlo. Io voglio essere come lui. Toby è affascinante in maniera contagiosa. Cammina al ritmo della musica che ha nella mente, muovendo la testa e schioccando le dita. Così fico. E quella musica... quasi riesco a sentirla quando esplode in un crescendo nel suo cervello e lui non si trattiene più e si mette a ballare sul marciapiede. I passanti sorridono al ragazzo che balla e anche loro muovono la testa come se sentissero la musica. Ernest Nadler Li avevano fatti aspettare in anticamera per trenta minuti. Mallory e Riker ne avevano approfittato per chiacchierare con la guardia del corpo di Rolland Mann, un detective che aveva lavorato al distretto di SoHo e doveva un favore al loro tenente. Erano così venuti a sapere che il detective Monahan odiava il suo nuovo capo e che il vice comandante era sfuggito alla sua guardia del corpo almeno una volta il giorno in cui si era trasferito nell’ufficio di Beale. Ma Monahan era un poliziotto astuto e aveva risolto il problema piazzando al piano terra un agente incaricato di seguire Mann nel caso fosse nuovamente uscito senza scorta. Mallory gli diede il suo cellulare. «Oggi no. Revoca l’ordine.» «Detective?» Sull’altro lato della stanza la segretaria coprì con la mano il ricevitore del telefono. «Non ci vorrà molto. Hanno quasi finito.» La porta si aprì e due uomini uscirono dall’ufficio. Avevano le cassette degli attrezzi e i distintivi del servizio tecnico appuntati sui taschini. «Ora può ricevervi» annunciò la signorina Scott. La segretaria fece entrare Riker e Mallory nel sancta sanctorum del NYPD, un ampio locale che era sempre stato molto spartano. Il comandante Beale aveva il rigore di un contabile e la frugalità era la sua religione. Evidentemente Rolland Mann doveva avere informazioni riservate sull’esito dell’operazione al cuore del titolare dell’ufficio. Su un lato della scrivania erano ammucchiati rotoli di carta da parati e tendaggi. Un grande schermo al plasma spiegava la presenza dei tecnici. Se Beale fosse sopravvissuto e tornato al lavoro, la spesa per quel televisore lo avrebbe ucciso. Era stato appeso alla parete in fretta e furia. Dei cavi penzolanti gli giravano intorno per collegarsi a un videoregistratore, strumento di tecnologia antiquata. L’uomo alla scrivania colpì Mallory perché era così insignificante da sembrare fuori posto. Non stupiva che il comandante lo avesse scelto come primo dei suoi sostituti: Rolland Mann era una versione più giovane di Beale stesso, un clone esangue del burocrate di ogni tempo. Si stentava a credere che fosse mai stato un poliziotto. Era troppo... molle. Il viso era flaccido e le lunghe dita bianche sembravano prive di ossa. Mallory lo classificò sotto la voce “verme presuntuoso”. Mann fingeva di non essersi accorto che due tirapiedi di grado inferiore erano entrati nel suo ufficio mentre stava leggendo tranquillamente il giornale. Con lo spirito di chi è deciso a rovinarsi la carriera, Riker imitò la sua collega e si sedette senza essere stato invitato a farlo. Mallory stese le lunghe gambe e disse: «Ehi!». Il vice comandante Mann alzò gli occhi seccato. Poi sbalordito. Lei fece dondolare l’orologio per comunicare che non aveva tempo da perdere. La sua insolenza equivaleva a uno sparo di avvertimento, subito prima di ricaricare la pistola e prendere la mira, invece Mallory abbassò gli occhi sui foglietti che teneva in grembo e li esaminò... facendolo aspettare. Era una specie di esperimento. Potevano scoppiare i fuochi d’artificio, o almeno un severo rimprovero. L’insubordinazione era un reato grave a quel livello. Tuttavia Rolland Mann si limitò a schiarirsi la gola... una scelta rivelatrice. Piegò il giornale e lo posò. «Ho saputo che vi interessate ad alcuni vecchi casi avvenuti nel Ramble.» «No» disse Mallory, senza alzare gli occhi dal questionario ViCAP. «Solo al suo.» La partita era iniziata. «Avete perso tempo venendo qua, detective.» Sollevò il giornale per mostrare il titolo sull’Artista della Fame. «Non c’è alcun collegamento tra questo caso e...» «Il suo» concluse Mallory, omettendo l’obbligatorio signore. «Lei era l’unico detective di quel caso. Non lavorava con un collega.» Tirando a indovinare aveva centrato il bersaglio. Mann era sbalordito e probabilmente si stava chiedendo come si fosse procurata quell’informazione, giacché non esisteva un fascicolo da consultare. Lei gli mostrò i fogli ingialliti ricevuti dall’ispettore capo. «Questi sono gli appunti personali dell’agente Kayhill. Si ricorda di lui? Era il poliziotto che trovò quel bambino appeso nel Ramble.» Mallory sfogliò le pagine. «Ecco, qui si fa il suo nome.» Alzò gli occhi per guardarlo. «Lei era là quella notte.» Mann sembrava sollevato? Sì. E ora sorrise. «Quel caso portò al mio primo arresto da detective.» Nel vecchio questionario di Rolland Mann non erano specificati nome ed età della vittima, si parlava solo di un maschio prepubere. Mallory cercò fra le carte la copia del certificato di morte che le aveva dato Goddard e lesse le date di inizio e fine della breve vita di un bambino. «Quanti anni aveva quello che ha trovato nel Ramble?» «Non ricordo. Era piccolo e magro. Questo lo ricordo. Pesava forse trenta chili. Oh, ed era completamente vestito.» Il vice comandante abbassò gli occhi sulla prima pagina del «Times». «Le vostre tre vittime sono adulte e nude. E la mia non era in un sacco. Il bambino era stato appeso all’albero per i polsi. Mancava anche il nastro adesivo.» «Secondo il suo questionario ViCAP» replicò Riker, «gli organi di senso erano sigillati.» «Precisamente» confermò Mallory. «L’assassino aveva sigillato occhi e bocca della vittima, e anche le orecchie, proprio come nel nostro caso. Ma forse lei non aveva rivelato questo dettaglio alla stampa...» Come per correggerla, Riker si protese verso di lei per recitare la sua battuta. «Ai giornalisti non venne fornito alcun dettaglio. Questo delitto non ha fatto notizia.» «Tu scherzi.» Fingendosi sorpresa, Mallory si rivolse a Rolland Mann. «Come ha potuto tenere i media all’oscuro di un omicidio così efferato? Oh, un’ultima domanda. Nel questionario non dice cosa era stato usato per sigillare...» «No, aspetta.» Riker le prese i fogli di mano. «Mi pare ci sia qualcosa in proposito» proseguì, come se lei non lo sapesse. «Ah, ecco.» Mostrò una pagina al vice comandante. «Il suo uomo aveva usato della colla.» Rolland Mann accusò il colpo, ma alzò le spalle come se si trattasse di un dettaglio trascurabile. «Sì, era colla. Roba professionale... per attaccare il metallo. Ma la colla non fu verbalizzata. E quando il colpevole si presentò in tribunale, non fu nominata.» I detective si chiesero come poteva essere stato insabbiato un processo per omicidio. «Nessuno dovrà mai sapere della colla» aggiunse Mann. «Intesi, detective?» «Chiarisca una cosa» lo sfidò Mallory. «Perché l’ufficio del procuratore distrettuale sarebbe passato sopra a un elemento così importante?» «Eccesso di zelo. Un assistente del procuratore barattò la confessione con il patteggiamento della pena.» «E chi era quell’assistente?» Riker sorrideva, la penna sospesa sul taccuino aperto. Passati dieci secondi di silenzio totale, inarcò le sopracciglia per sollecitare una risposta. «Cedrick Carlyle... Non c’è motivo di parlare con lui. Non può dirvi nulla. Il colpevole era minorenne. Documentazione secretata.» Rolland Mann lasciò cadere il «Times» nel cestino accanto alla scrivania. «Quindi non mi aspetto di leggere di quel caso sul giornale di domani.» Spinse una videocassetta verso di loro. «È l’interrogatorio del ragazzo. Questo nastro non esce dal mio ufficio.» A Riker diede un foglio di carta. «Ecco la dichiarazione scritta. Anche questa rimane qui dentro.» «La confessione non è firmata.» Riker la passò a Mallory. «La versione firmata è conservata nel fascicolo secretato» rispose Mann. «Ufficialmente la mia copia non esiste, e voi non l’avete mai vista. Chiaro?» Posò la mano sul telefono, un elaborato aggeggio di luci intermittenti e lunghe file di nomi per le chiamate dirette. «Premo un tasto e voi siete spacciati... in un attimo.» Vedere che Mallory sorrideva lo irritò, ma la rabbia svanì quando notò che Riker stava scrivendo sul suo taccuino. Senza dubbio il detective prendeva nota di quella minaccia, un chiaro atto di intralcio all’indagine. E sul suo conto c’era anche il reato meno grave di aver esibito documenti relativi a minori senza un’autorizzazione del tribunale. Riker scriveva solo per fare scena, perché Rolland Mann non sospettasse che aveva addosso una microspia... che invece aveva. Anche senza la protezione di Joe Goddard, quel giorno i due detective erano invulnerabili. Mallory lesse la confessione non firmata dell’accusato, un certo Toby Wilder, tredicenne. «Questa non è stata scritta da un ragazzo. Immagino che lei l’abbia aiutato a stenderla.» Il silenzio di Rolland Mann durò troppo a lungo. «Toby aveva portato dei fiori nel Ramble. Gli dissi che quel gesto avrebbe fatto una buona impressione al giudice. Indicava che provava rimorso... e lo faceva apparire colpevole come il diavolo. Quindi, sì... lo aiutai.» Mallory si alzò e andò verso il televisore al plasma. Infilò la videocassetta nel vecchio registratore posato sullo scaffale sottostante. Sullo schermo apparve Rolland Mann, con quindici anni di meno e tutti i capelli. In maniche di camicia e cravatta allentata, stava seduto di fronte a un ragazzino. Le lacrime scorrevano sul viso di Toby Wilder. Il detective Mann sorrideva e parlava dolcemente per entrare in sintonia con il suo giovane sospetto. Mallory prese il telecomando e interruppe il filmato. «E i genitori del ragazzo? Perché non sono presenti all’interrogatorio?» «Il padre lo abbandonò quando aveva otto o nove anni, e la madre rinunciò alla patria potestà. Dopo l’interrogatorio fu chiamato un avvocato.» La sedia girevole di Mann ruotava senza sosta mentre lui fissava l’immagine sullo schermo. «Quello fu filmato prima che arrivasse l’avvocato. Poi dovemmo concedere al ragazzo il patteggiamento della pena. E fu un puro atto di carità.» Mallory annuì, ma non per approvare. Sapeva che si erano persi la parte più significativa dell’interrogatorio, le ore di domande che avevano portato alla confessione registrata. Nel filmato non c’era traccia di coercizione; quella probabilmente era l’unica parte del confronto che era stato saggio riprendere. «Fu un buon accordo per Toby» disse il vice comandante. «Il ragazzo fu condannato a quattro anni in un carcere minorile. Non male per un’accusa di lesioni aggravate. Sappiamo che la colla non l’aveva trovata nel parco. L’aveva portata con sé. L’aggressione era premeditata. A sangue freddo.» Mallory fece ripartire il filmato. Sullo schermo il giovane Rolland Mann stava dicendo al ragazzo: «Okay, Toby, diciamo che tu e quel bambino avete litigato. Lui era un finocchio, giusto? Ti ha fatto una proposta e tu l’hai colpito». Il detective allargò le braccia. «Ehi, e chi non l’avrebbe fatto? Ma poi ti sei spaventato, hai creduto di averlo ucciso. Non è facile capire se uno è vivo o morto. Ho sentito di gente che si è svegliata all’obitorio. Quindi credo che il giudice capirà. E quando lo hai appeso all’albero... non intendevi torturarlo. Volevi solo nascondere quello che tu credevi fosse un cadavere. Okay fin qui?» Il ragazzo non reagiva ma, dagli occhi sfocati, Mallory comprese che Toby Wilder si era chiuso in sé. Non vedeva e non udiva nulla. Era presente solo fisicamente. Fermò di nuovo il filmato. «A che altezza era appesa la vittima?» «Almeno cinque metri e mezzo, forse sei.» Riker si tolse gli occhiali dopo aver letto la confessione non firmata. «Qui non si parla di colla. Cosa disse Toby in proposito... ufficiosamente, s’intende?» Rolland Mann alzò le braccia, esasperato. Quante volte gli toccava spiegarlo? Rispose stizzosamente: «Non ho mai chiesto a Toby della colla. Anche questo per pura carità. Con l’aggravante della colla con tutta probabilità sarebbe stato processato come un adulto. Vedete, la vittima non era morta quando l’abbiamo tirata giù. E questo era il punto di forza dell’avvocato per insistere affinché Toby si dichiarasse colpevole. Tanto più che l’ufficio del procuratore distrettuale aveva garantito di non accusarlo di omicidio nel caso la vittima fosse morta». «Quindi la vittima era in gravi condizioni» disse Mallory. «Ma ha impiegato un mese a morire.» Il vice comandante non lo negò, confermando così i sospetti di Mallory che il bambino fosse morto per causa sua. Il giovane Rolland Mann sullo schermo stava dicendo: «Dunque è andata così, Toby. Tu hai portato dei fiori nel Ramble perché credevi che il bambino fosse morto... e ti dispiaceva. Poi hai chiamato la polizia e ci hai fatto trovare il corpo. Stavi male. Non potevi sopportare l’idea di lasciarlo là, tutto solo, appeso a quell’albero. Quei fiori... erano per dire che ti dispiaceva. Farà una buona impressione al giudice». Mallory non aveva ancora udito la voce del ragazzo e ormai l’interrogatorio era terminato. «Toby non ha ammesso nulla» disse riavvolgendo il nastro. «Forse mi è sfuggito qualcosa.» Fece ripartire la registrazione. «Ha le labbra screpolate. Gli avevate dato da bere? E da mangiare?» Mann batté la mano sul tavolo. «Cristo santo, non ho torturato quel ragazzino!» Fece una pausa per contare fino a dieci e riprese con tono più calmo: «Se Toby Wilder non era colpevole, cosa faceva nel Ramble? Stiamo parlando di quindici anni fa, molto prima che tu entrassi in polizia, Mallory». Si rivolse al suo collega. «Riker, tu ti ricordi di quei tempi, della feccia che girava da quelle parti. Quei dannati tossici si derubavano e si ammazzavano tra loro. Cosa ci faceva un ragazzo innocente nel Ramble... con un mazzo di fiori? E Toby condusse il poliziotto del parco dritto alla scena del crimine.» Il vice comandante si alzò dalla scrivania e andò vicino a Mallory. Le prese il telecomando e fermò l’immagine sullo schermo. «Ho accettato di incontrarvi solo per non farvi perdere tempo con Toby Wilder. Quello è un delitto risolto. Non c’è alcun collegamento tra il mio caso e il vostro.» Mallory guardava lo schermo con l’immagine del tredicenne. «Qualunque poliziotto riesce a far piangere un bambino. È fin troppo facile. Se fosse stato un arresto giustificato, avrebbe avuto ampia risonanza. Invece nessuno ne ha mai parlato.» «E noi dobbiamo chiederci perché» disse Riker. «Forse c’era qualcosa di ambiguo nelle prove. E poi, come si fa a tenere segreta una faccenda simile? Quanta influenza...» «Attento, detective.» «Per quanto tempo ha resistito il ragazzo prima che arrivasse l’avvocato?» tornò all’attacco Mallory. «Otto ore? Dieci? Uno di quell’età, innocente o colpevole, sarebbe crollato, ma lui no. Prima di cominciare a filmare, le aveva detto che non era stato lui, giusto? E lei gli aveva creduto. Per questo si è tenuto una copia dell’interrogatorio. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto rendere conto di quel caso.» «Basta così, detective Mallory!» Riker si era alzato e si era messo alle spalle di Mann. «Io so perché non si parla di colla nel filmato. La vittima era appesa a sei metri da terra... un’ora dopo il tramonto. Toby non poteva notare quel dettaglio. Lui vide solo il corpo del bambino che penzolava dall’albero.» Mann ruotò su se stesso per guardare Riker, intanto Mallory gli passò dietro e disse: «Toby non sapeva della colla. Perché non era lui il colpevole». Mann piroettò per guardarla, ma le parole di Riker lo fecero girare ancora una volta. «Toby non ha mai visto la colla... per questo lei non l’ha menzionata. È proprio il tipo di particolare che si tiene segreto per scartare le confessioni dei mitomani. Ma lei non voleva scartare Toby Wilder.» «No» disse Mallory, da dietro la schiena di Mann. «Non poteva rischiare che lui raccontasse una storia che non collimava con quella prova. E in questo modo la sua carriera ha fatto un balzo avanti. Complimenti.» Lo avevano fatto piroettare come una ballerina e lui gridò: «Basta!». Fermate la musica. Rolland Mann tornò a sedersi alla scrivania e inspirò profondamente. L’intervallo era finito. «Non è stato il ragazzo.» Mallory si piazzò su un lato della sedia. «Lei lo sapeva» incalzò Riker dall’altro lato. «E ora vuole cancellare il collegamento tra quel caso e il nostro. Non vuole che andiamo a scavare in questa vecchia storia.» Le dita di Rolland Mann strinsero la cornetta del telefono. «Ricordate cosa ho detto sulle chiamate dirette? Ne basta una e voi siete...» «Faccia quella chiamata e noi dovremo restituirle il favore» lo interruppe Mallory. «Si ritorna sempre alla colla.» Sventolò gli appunti del poliziotto di pattuglia. «E poi c’è il suo questionario ViCAP. Quindici anni fa lei ha fatto una ricerca per trovare un killer con un modus operandi simile. Un mese dopo che Toby aveva confessato. Lei sapeva che era innocente.» «C’è una cosa che non capisco» disse Riker. «Come ha fatto a portare il ragazzo davanti a un giudice se non c’era un’inchiesta? Non siamo neppure riusciti a trovare un rapporto del ritrovamento.» «È come se quel bambino non fosse mai stato aggredito» continuò Mallory. «Cosa troveremo se indaghiamo su Toby Wilder?» «La documentazione di quattro anni di carcere minorile» rispose Mann. «Ma dovreste violare la legge per ottenerla. I verbali dei minorenni sono secretati.» «Ma non i rapporti della polizia sulle aggressioni. Quindi, come ha potuto portare in tribunale un caso che non esisteva?» E in quel momento Mallory capì. «Non ha mai ottenuto una confessione firmata, vero? Non per l’aggressione nel Ramble. No, lei ha costretto Toby a patteggiare per qualche altro reato, giusto?» Sì, era così. Gli occhi di Mann erano sbarrati. «E poi» proseguì Riker «un mese dopo, lei fa una ricerca nel database del ViCAP.» Mallory gli mostrò il certificato di morte. «Il giorno stesso in cui Ernest Nadler muore.» Mann staccò la mano dal telefono, confermando che avevano colto nel segno. Udire il nome del bambino lo aveva spaventato. Mallory infilò in tasca la confessione scritta e si avvicinò al registratore per estrarre la cassetta. «Prendiamo anche questa. Può contare sulla nostra discrezione.» E i detective si avviarono tranquillamente alla porta con il bottino. 20 Oggi scopro la terribile importanza di sopravvivere fino al giorno delle fotografie di classe. Gli annuari della scuola vengono conservati in fondo alla biblioteca. Prendo quello dell’anno in cui una bambina si gettò dal tetto e sfoglio le pagine osservando i volti per cercare la povera Allison. Nessuno ricorda il suo cognome. L’unico segno duraturo di lei è la sagoma di gesso che compare ogni anno sulle pietre del giardino. Phoebe dice che non troverò la bambina di gesso in quella parte del volume. «Era il suo primo anno e non è arrivata viva al giorno delle fotografie, così hanno cercato di cancellarla.» Sfogliando la sezione degli eventi sportivi e di altre foto di gruppo scattate in quell’anno, a un certo punto Phoebe si ferma. «Eccola. Questa gli è sfuggita.» Indica la fotografia di una bambina con i capelli rossi, in piedi in mezzo ad altri. È il membro più piccolo del club degli scacchi. «Contali» dice Phoebe. «Ci sono dieci bambini nella foto, e solo nove nomi sotto.» Ernest Nadler Dal sedile del passeggero Riker teneva gli occhi fissi sullo specchietto retrovisore per non vedere le violazioni al codice della strada della sua collega. Sentiva i bruschi cambiamenti di corsia, ma preferiva non incrociare gli sguardi terrorizzati degli automobilisti che condividevano con Mallory quella zona affollata. Ogni veicolo davanti a loro rischiava di essere tamponato. Riker controllò di avere la cintura allacciata. Be’, c’era anche l’airbag, Cristo santo. Lanciò un’altra occhiata allo specchietto. «Avevi ragione. Goddard non ci ha fatti seguire.» «Questo è sempre stato un gioco a numero chiuso» replicò Mallory. «Solo l’ispettore capo, Rocket Mann... e noi.» L’auto si fermò a un semaforo rosso e Riker rilassò le dita che stringevano disperatamente il questionario ViCAP. «Quindi, Mann prima cancella ogni traccia dell’aggressione... e poi registra in modo permanente tutta la dannata faccenda su un database dell’FBI.» «Ingegnoso» commentò Mallory. «Rocket Mann è stato anche molto paziente. Ha aspettato un mese intero che la vittima morisse. Un omicidio vale molto di più di un’aggressione.» «Già» disse Riker. Non fosse stato per l’incursione di Mallory nel database del ViCAP, quel vecchio questionario sarebbe rimasto sepolto per sempre nel sistema. Alla vittima del ricatto di Mann sarebbe bastato sapere che esisteva e che sarebbe stato possibile tirarlo fuori in qualsiasi momento. «Così quel povero ragazzo è finito in un carcere minorile... era solo un capro espiatorio.» «Serviva anche ad altro» disse Mallory. «Se la famiglia del bambino morto avesse preteso la sua “libbra di carne”, Mann avrebbe mostrato loro la registrazione dell’interrogatorio, e l’atto di incriminazione di Toby Wilder.» Grazie ai documenti secretati del tribunale dei minori, non si sarebbe mai scoperto che Toby era stato condannato per un altro reato. E i genitori di Ernest Nadler non avrebbero mai saputo che l’omicidio del figlio era stato coperto per agevolare la fulminea ascesa di un uomo mediocre come Rocket Mann. Evocando la battuta preferita dell’insopportabile John Pollard, Riker disse: «Ha davvero pensato a tutto». Si tolse la microspia che sembrava una spilla da cravatta. «A quasi tutto.» Estrasse dal taschino il registratore con la voce di Mann. «Non parliamo di questo con l’ispettore capo» replicò la sua collega. «Non prima di aver risolto il nostro caso.» «Se glielo teniamo nascosto...» L’auto balzò in avanti. Poi inchiodò, bloccata dal traffico. Riker benedisse la cintura di sicurezza che gli aveva impedito di spaccarsi i denti sul cruscotto. «Joe Goddard va matto per gli scacchi» disse Mallory all’uomo che le aveva insegnato quel gioco quando aveva undici anni. «Gioca regolarmente nel parco di Washington Square. Ed è bravo.» «Buon per lui.» Oh, Cristo! Ecco perché Mallory voleva tenergli nascosto qualcosa... in questo modo si sarebbero assicurati un vantaggio di almeno tre mosse su di lui. Joe Goddard, da parte sua, aveva già fatto un passo che concedeva ai detective potere su di lui. Aveva chiaramente confessato un progetto di cospirazione, il che avrebbe posto fine alla sua carriera, se le cose fossero andate storte. Mallory completò il pensiero. «C’è da chiedersi come Goddard conti di tenerci in riga, e zitti.» L’auto procedeva, ma lei teneva la testa girata verso Riker, un piccolo atto terroristico che teneva in serbo per le occasioni speciali. «Il problema è questo. Se il capo sapesse qualcosa su di me, lo avrebbe detto prima del nostro incontro con Rocket Mann. Non può rischiare che ci schieriamo dall’altra parte. Quindi, devo dedurre che sa qualcosa su di te.» «Be’, ti sbagli.» Riker aveva il distintivo più pulito del dipartimento di polizia, e quella ragazzina lo sapeva. Sempre guidando alla cieca, Mallory prese una curva e solo dopo decise di credergli. Tornò a guardare la strada... dove due pedoni stavano attraversando sulle strisce. La gimcana nel traffico era terminata. Avevano completato il cerchio e Mallory si fermò. Passarono a piedi sotto il grande arco di Centre Street e uscirono dall’altra parte, sbucando in una zona pedonale bordata da alberi, lampioni e panchine. A un’estremità di One Police Plaza c’era l’ingresso del cortile della sede centrale del NYPD, una fortezza di quattordici piani costruita per resistere all’assedio di nemici inesistenti. Riker chiamava il loro quartier generale il Regno della Paranoia e sapeva che non avrebbero dovuto aspettare a lungo. Mallory lesse un messaggio sul cellulare. «È l’agente all’ingresso.» Era la loro spia, il loro occhio sulle porte girevoli. I detective si nascosero dietro una gigantesca scultura formata da dischi rossi saldati ad angoli bizzarri. Pochi minuti dopo Rolland Mann passò senza guardia del corpo, diretto all’arco. «Ottima intuizione, piccola.» Riker restò dietro la scultura, controvoglia, in attesa che un altro poliziotto di alto grado passasse da quelle parti. «Eccolo» disse Mallory. «Sgancia.» L’uomo con la testa a forma di proiettile, l’ispettore capo Joe Goddard, stava arrivando di buon passo, poi rallentò per mantenere una distanza di sicurezza tra sé e il vice comandante. Riker consegnò venti dollari alla sua collega. Aveva perso la scommessa. Non aveva creduto che Goddard avrebbe corso il rischio di un pedinamento. E ora avevano la prova lampante che non esisteva nessuna indagine ufficiale su Mann. L’ispettore capo stava giocando a carte coperte. I due detective ripassarono sotto l’arco e passeggiarono in Centre Street. Riker volle che Mallory camminasse dietro di lui. Lei era convinta che gli occhiali da sole bastassero a renderla invisibile agli sguardi degli uomini. Credeva davvero di essere brava a mimetizzarsi. Comunque ubbidì perché, nei pedinamenti, Riker era imbattibile, sebbene anche Goddard se la cavasse piuttosto bene. Per fortuna il capo, non immaginando di essere seguito, non si voltava mai, tutto concentrato sulla sua preda. E così andarono avanti, svoltando agli angoli e infilandosi in strade secondarie, come quattro paperi in fila. Il corteo si arrestò quando Rolland Mann si fermò davanti a un venditore ambulante per comprare, in contanti, un cellulare usato e sicuramente rubato... precauzione eccessiva nell’era delle schede anonime e dei telefoni usa e getta. Era paranoico fino a quel punto? Concluso l’acquisto, la marcia ricominciò. Riker vide Mann digitare un numero e avvicinare il telefono all’orecchio. Il tempo intercorso tra la prima chiamata e la successiva indicava che non c’era stata risposta, ma al terzo tentativo seguì una conversazione di qualche minuto. Chiusa la telefonata, Mann acquistò in un chiosco una ciambella dentro un sacchetto bianco. Si guardò intorno, ma i suoi tre segugi avevano già trovato riparo nei negozi. Mentre Mann tirava fuori la ciambella, Riker vide Mallory che lo fotografava col cellulare. Clic – immagine di Mann che pulisce il telefono con un fazzoletto per cancellare le impronte – clic – Mann infila il cellulare nel sacchetto di carta e – clic – getta il tutto in un cestino dei rifiuti. Poi, con la ciambella in mano, si avviò verso One Police Plaza. Un attimo dopo Goddard andò a recuperare il sacchetto. A un cenno di Mallory, Riker immortalò con il suo telefono l’ispettore capo che frugava tra la spazzatura. Perché no? Oltre che come ultimo anello della catena delle prove, quello scatto poteva diventare un divertente biglietto di Natale. Goddard non vide i due detective che, fianco a fianco, mescolandosi tra i pedoni, giravano l’angolo. Coffey alzò gli occhi quando il detective fece irruzione nel suo ufficio senza nemmeno bussare. «Dov’è la tua collega?» gli chiese. «Sta assillando un’altra rete televisiva per far trasmettere l’annuncio del funerale di Humphrey Bledsoe.» Riker si accasciò sulla sedia davanti alla scrivania. «Forse dovrei fare qualche valutazione rischi e benefici.» «A proposito di Dio?» Naturalmente il tenente si riferiva a Joe Goddard, ispettore capo e potere supremo su ogni squadra di polizia. Coffey alzò le braccia. «Troppo tardi. Ha appena telefonato. Mi ha chiesto se avevo detto a Mallory che non ha passato la valutazione psicologica. Quando ha parlato con voi, gli è sembrato che lei non lo sapesse ancora. Credo proprio che questo fosse un messaggio... o forse una minaccia?» «Lei però gli ha detto della confutazione di Charles Butler, giusto?» «No, Riker, non chiedermi di farlo.» «Mallory ha il diritto di contestare la valutazione del dottor Kane. So che il suo avvocato le ha consegnato...» «Intendi questo?» Il tenente prese dei documenti che avevano tutta l’aria di essere stati spiegazzati rabbiosamente e li sbatté sulla scrivania. «Inutili. Mallory è ancora nel limbo.» «Ma...» La mano del tenente che si alzava lo zittì. «Oggi sono stato da Charles Butler.» Jack Coffey aprì il primo cassetto della scrivania. «Avevo un problema con la sua confutazione. Un piccolo dettaglio... che poteva essere un errore di digitazione. Lui mi ha mostrato le date delle sedute con Mallory e la bozza del suo rapporto. Dio mio, la copia in carta carbone di una macchina per scrivere. Perché qualcuno non procura un computer a quell’uomo?» Il tenente prese due fasci di fogli dal cassetto e li posò sulla scrivania, uno accanto all’altro. «Questa è la valutazione del dottor Kane, quella che Mallory non ha passato. E questa è quella di Charles Butler. Leggi le date.» Si appoggiò allo schienale e intrecciò le dita dietro la testa. Quando Riker alzò gli occhi dai fogli e disse: «Merda», il tenente sorrise. Le quattro pagine in difesa della sanità mentale di Mallory scritte da Charles Butler facevano riferimento alla valutazione dello psicologo del dipartimento, ma la confutazione di Charles era stata redatta – e datata – una settimana prima che il rapporto del dottor Kane fosse consegnato al NYPD. Riker guardava ora un documento ora l’altro senza capire. «Come è possibile?» «Ti dico io cos’è successo. Mallory non poteva aspettare di vedere la sua valutazione. Ci voleva troppo tempo. Così è entrata nel computer dello strizzacervelli. Conosceva il rapporto del dottor Kane ben prima che questo arrivasse sulla scrivania di Goddard... e sulla mia.» Riker scosse la testa. «Mallory non fa questi errori.» «Forse la valutazione di Kane aveva una data diversa... quando Mallory si è introdotta nel suo computer. Lui avrebbe dovuto consegnare il rapporto settimane fa, e probabilmente la tua collega ha pensato che io lo tenessi chiuso in un cassetto per continuare a torturarla col lavoro al tavolino. Quello che non ha potuto scoprire entrando nel computer è che Kane aveva l’influenza. L’ho saputo dalla sua segretaria. Per questo ha tardato a consegnare il rapporto.» Il tenente infilò le due valutazioni nel cassetto e lo chiuse bruscamente. «È come se Mallory avesse affisso un tabellone per comunicare a tutti che ha infranto la legge.» «Cosa pensa di fare ora?» «Io? Niente. Lei non ha bisogno del mio aiuto per rovinarsi. Ma non le sarà facile trovare un altro strizzacervelli... per fare una contestazione legale.» Le parole del tenente erano chiare. Charles Butler era fuori gioco. Il problema non si poteva risolvere semplicemente cambiando la data sul suo rapporto. «E tu, Riker, hai un’altra grana. Goddard vuole che Mallory si occupi di questo caso. Non mi ha neppure rimproverato per aver mandato in strada un poliziotto mentalmente instabile. Però ha in mano il rapporto del dottor Kane. Magari se lo terrà sotto il culo per anni... oppure lo userà per toglierle il distintivo domani stesso, se lei sgarra. È il suo stile.» Con un cenno del capo Riker confermò lo stile. Joe Goddard era ossessionato dal suo obiettivo. L’ispettore capo voleva forgiare a sua immagine il dipartimento di polizia e a quello scopo raccoglieva fango da scaricare addosso a chi stava sotto o sopra di lui. Se le persone non si fossero lasciate plasmare a suo piacimento, le avrebbe rimosse. Se Mallory non gli avesse fornito i mezzi per eliminare Rolland Mann, era spacciata. Era questo il messaggio della telefonata di Goddard al tenente. «Dategli quello che vuole» sospirò Coffey. «E per l’amor di Dio, non farti sfuggire una parola con Mallory. È la tua unica possibilità di tenere la situazione sotto controllo.» Quando si fosse accorta che Goddard poteva rovinarla, sarebbe stato troppo tardi. Ma Jack Coffey aveva ragione. Riker sapeva che la sua collega non se ne sarebbe mai andata senza piantare grane. E se l’avesse avvertita? Ricordò l’episodio dei cavalieri dell’Apocalisse e mise Mallory in sella al cavallo della Morte... e poi si scatenò l’inferno. «Non glielo dirò.» Coco prese il telefono sotto il cuscino per augurare la buonanotte a Mallory. Coprì il ricevitore e guardò Charles Butler. «Vuole sapere se hai ricevuto il pacco.» «Sì, dille che è appena arrivato.» Coco riferì, poi in risposta a una domanda mormorò: «Non mi ricordo». Chiuse gli occhi e si coprì la testa con la giacca del pigiama. «Credo che non abbia mai detto...» E su quella nota di angoscia l’interrogatorio terminò. Charles prese il telefono. «Buonanotte, Mallory.» Per distrarre la bambina, Charles le lesse un capitolo de La bottega dell’antiquario di Dickens. Coco evidentemente non lo trovò appassionante, perché dopo un paio di pagine stava già dormendo. Mentre percorreva il corridoio Charles ripassò la sua prossima conversazione con Mallory, una severa lezione sulle regole da rispettare quando ci si confrontava con bambini fragili. Prese il pacco dal tavolino dell’ingresso, lo aprì e trovò una videocassetta. Questo spiegava la consegna, poco prima, di un televisore vecchio modello con la fessura per inserire la cassetta. Il meccanismo era così semplice che Mallory non aveva accluso al dono le solite istruzioni per luddisti. Charles si sedette con un bicchiere di vino rosso e vide il film del giovane Toby Wilder e dell’ex detective Rolland Mann. Notò tutti i segni del trauma psichico in quel ragazzo sfinito, che muoveva lentamente la testa da una parte e dall’altra, non in un gesto di sfida ma di confusione. Non parlava mai, non dava voce alla sua unica domanda, ma con gli occhi vitrei chiedeva: Cosa mi sta succedendo? A causa del suo elevato livello di empatia Charles Butler non aveva mai fatto visite private per non dover lavorare faccia a faccia con i pazienti. C’erano dei limiti a quello che poteva sopportare attraverso il dolore degli altri, e ora si sentiva inerme, disperato, coinvolto dalla sofferenza di quel ragazzo. Per lo psicologo non era difficile leggere sulle labbra di Toby la parola che concludeva ogni frase del detective negli ultimi minuti del filmato. E ogni volta, in perfetto unisono col ragazzo, Charles scandì un silenzioso mamma. Poi la registrazione finì, troppo presto. Il telefono squillò, di sicuro era Mallory. Charles alzò il ricevitore. Senza salutarla e prima che lei potesse dire qualsiasi cosa per stupirlo, le espose le sue conclusioni. «Hai ragione e torto al tempo stesso. Il filmato non è stato ritoccato, ma l’interrogatorio è finito bruscamente... e in un momento molto strano. Rolland Mann ha ricevuto un segnale da qualcuno che non è inquadrato. Si capisce dal fatto che alza la testa e interrompe il contatto visivo col ragazzo. E hai ragione sul fattore tempo. Probabilmente lo aveva interrogato per ore prima di cominciare a filmare. Infatti il ragazzo presenta forti segni di affaticamento, è esausto. Ma c’è un’altra cosa strana.» Charles non aveva dubbi che il ragazzo, col cuore e col cervello, fosse sul punto di cedere. «Toby era crollato. Stava per confessare.» 21 Non sempre Toby va direttamente a casa dopo la scuola. Qualche volta noi lo seguiamo in Central Park. Phoebe e io ci fermiamo all’ingresso del Ramble. È pericoloso là dentro, lo sappiamo senza bisogno che ce lo dicano. Anche di giorno, dietro ogni roccia e ogni albero si nascondono guai e dolore, gente sbandata con i capelli lunghi, che fa paura e non ha niente da perdere. «Ti piantano una coltellata nelle costole se solo li guardi.» Così ci dice un poliziotto mandandoci via. Ma io ho visto Toby Wilder entrare nel Ramble ballando. Ernest Nadler Se la città aveva un cuore, e Riker ne dubitava, certo non si trovava in quel quartiere di passeggiate con vista sul fiume, dove i cani venivano portati a spasso dai dogsitter per permettere ai ricchi residenti di vivere beati nei loro attici tra le nuvole. Riker camminava con Charles Butler, l’unico ricco di suo gradimento. Li seguiva Mallory, mano nella mano con Coco, e dietro di loro c’era l’agente in uniforme assegnato alla protezione della sua testimone. La bambina sfoggiava un nuovo paio di occhiali griffati con elegante montatura rossa, regalo di Mallory per sostituire quelli meno belli comprati da Charles. Coco scrutava le facce della lunga processione che avanzava lentamente verso l’agenzia di pompe funebri. In quella fila che girava intorno all’isolato c’erano dei politici che persino Riker, poliziotto molto poco politico, era in grado di riconoscere. Charles identificò altre facce importanti appartenenti all’aristocrazia di New York. «Queste persone sono venute perché Grace è una Driscol. Il suo defunto marito, John Bledsoe, non era molto considerato. So che ha abbandonato la famiglia e poi si è messo a bere fino a morirne.» Sorridendo, Riker si voltò a guardare la lunga fila dietro di loro. Si chiedeva quanti di quei personaggi altolocati fossero consapevoli di essere venuti a rendere omaggio a un molestatore di bambini. «Come l’ha presa Coco, quando le hai detto che lo zio Red era morto?» «Molto bene. Credo si sia sentita sollevata.» «Le hai già detto della nonna?» «No. Forse ne parleremo domani. Mallory ha ragione. Questo funerale è una buona occasione per prepararla. È la prima volta che Coco partecipa a un funerale. Ci metteremo nell’ultima fila. Non voglio che veda la bara aperta. Non ha alcuna esperienza della morte.» «Stai scherzando.» Riker indicò col pollice dietro di sé. «Quella bambina conosce cinquanta modi per uccidere un topo.» Il gruppetto si fermò davanti all’impresa di pompe funebri Harrow e Figli, un vecchio palazzo che si poteva scambiare per una banca. Coco scosse il capo e disse a Mallory che non aveva riconosciuto nessuno. E Charles sorrise debolmente come per chiedere: Cosa sta succedendo? «Oh, dannazione!» Si era appena reso conto che quel corteo di illustri partecipanti al funerale era in effetti una fila di potenziali assassini. Prendendo Coco per mano, lo psicologo se ne andò furibondo senza dire una parola. La bambina salutò i detective col braccio finché lei e il suo tutore sparirono dietro un angolo. Mallory entrò nell’edificio e Riker restò fuori per controllare le prime immagini scattate da un fotografo della polizia. Rassicurato che ne avrebbero avuta una per ogni persona presente, salì la scalinata e fu ricevuto da un giovanotto in nero funereo che lo guidò lungo un corridoio con pannelli di legno scuro e sofà di velluto, uno dei quali era occupato da Hoffman, la dama di compagnia della signora Driscol-Bledsoe. Accanto a lei erano seduti due uomini in abiti costosi. Uno era l’avvocato che era venuto a prendere Phoebe alla stazione di polizia. Il detective seguì la sua guida in un salone che poteva contenere cento persone, ma c’erano solo due sedie, una per la madre e una per la sorella di Humphrey Bledsoe. Phoebe si comportava bene quel giorno, non si mangiava le unghie e non parlava con amici invisibili. La guida confidò a Riker che le altre sedie erano state tolte per evitare che la gente si trattenesse troppo a lungo. «La madre non ha voluto una cerimonia religiosa.» Il signor Harrow sembrava troppo giovane per essere scandalizzato da quella scelta, ma Riker la capiva: pregare per un pedofilo era come invocare sulla propria casa le sette piaghe d’Egitto. L’aria era impregnata dal profumo dei fiori, tanti e opulenti, come se tutti quelli che avevano mandato cesti o corone temessero di essere superati dagli altri. C’erano più fiori lì che a Central Park. La bara era al centro, maestosa, di legno scolpito. I capelli di Humphrey Bledsoe erano di nuovo del loro rosso naturale e l’autopsia non pareva aver fatto danni. Il viso viscido sembrava vivo... e sorrideva. Per amore di Coco, Riker fu tentato di rovinare quel sorriso con un proiettile, invece si piazzò dietro le sedie della signora Driscol-Bledsoe e di sua figlia. E da quella posizione osservò Mallory che passava da un mazzo di fiori all’altro e, fingendo di ammirarli, rubava i biglietti di condoglianze per avere i nomi delle persone particolarmente ansiose di ingraziarsi la madre del pedofilo. Durante l’ora seguente la gente entrò, in fila indiana, si avvicinò alla bara per vedere il pervertito morto e porse le condoglianze alla famiglia. E, seppure con educazione, tutti vennero rapidamente congedati, uno dopo l’altro. Riker ammirò l’abilità della matriarca nel tenere la fila in movimento, ritirando la mano dalla stretta di una persona per offrirla subito a un’altra. Persino il sindaco fu trattato in maniera sbrigativa. Arrivò il turno di Rolland Mann. Il vice comandante della polizia aveva un’aria ansiosa. Avvicinò il viso a quello della madre di Humphrey, ma fu congedato prima di aver potuto mettere insieme una frase di cordoglio. Per ultime si presentarono tre persone vestite in modo dimesso, un uomo, una donna e un’adolescente con i capelli rossi come quelli di Coco. Phoebe si protese verso sua madre e Riker la udì mormorare: «Chi sono quelli?». «Credo siano i Cole» rispose la signora Driscol-Bledsoe. «Li ho incontrati solo un paio di volte, e la ragazza era molto più piccola, allora.» I tre si avvicinarono alla bara e a turno sputarono sul cadavere. «Qualcosa di diverso» commentò Riker. L’uomo con gli occhi sgranati era evidentemente un altro membro di Harrow e Figli, una versione più anziana della guida di Riker. Quel distinto signore restò senza fiato e poi, riacquistato il controllo, avanzò verso i profanatori. Mallory lo prese per un braccio, lo rimise al suo posto accanto alla bara e ordinando: «Fermo!» come a un cane, si accodò alla famigliola di vandali. Il padre era furente quando affrontò Grace Driscol-Bledsoe. «Signor Cole, la ringrazio per essere venuto.» Nelle parole di Grace non c’era traccia di sarcasmo. In risposta l’uomo sputò ancora e lo schizzo di saliva le finì sulla blusa di seta. Senza battere ciglio, lei disse: «È sempre un piacere». Mallory e Riker seguirono la famiglia Cole all’aperto e in strada appresero che quelle persone abitavano in una piccola città del Connecticut dove Humphrey aveva frequentato il liceo. Il padre tenne a freno la lingua finché la moglie e la figlia non furono al sicuro dentro un taxi. «Mia figlia aveva sei anni quando quel verme l’ha violentata, ma non è stato processato. Non l’hanno nemmeno arrestato. I suoi genitori si sono accordati in segreto con i politici e il bastardo è finito in una clinica per malattie mentali, una specie di residence di lusso. Così noi abbiamo intentato causa ai genitori.» Riker alzò gli occhi dal taccuino per chiedere: «Con quale accusa?». «Negligenza. Non avevano protetto la cittadinanza da quel mostro del figlio.» La rabbia e il dolore del signor Cole sembravano freschi, come se il fatto fosse avvenuto quel mattino e non tanti anni prima. «Loro sapevano com’era quel ragazzo. L’hanno sempre saputo. Per questo hanno voluto un accordo extragiudiziale per sistemare la cosa fuori dal tribunale.» L’uomo salì sul taxi in attesa e la famiglia ferita ripartì. «Quell’accordo ha intaccato il portafoglio azionario di mio marito.» I detective si voltarono e videro Grace Driscol-Bledsoe in cima alla scalinata dell’agenzia di pompe funebri. «Naturalmente la causa era ridicola. Sarebbe stata respinta per mancanza di prove, ma il mio defunto marito diede a quella gente più di quanto avevano chiesto.» Scese i gradini fermandosi sull’ultimo, in modo da poterli guardare dall’alto. «Voleva risparmiare alla bambina una penosa comparizione in tribunale. Il mio John era un sentimentale.» «Cioè sapeva che suo figlio era un pervertito» replicò Riker. «Quindi com’è che Humphrey ha avuto tutto quel denaro?» «Quando John ha venduto la sua società, i proventi sono andati a un fondo fiduciario per finanziare le cure psichiatriche di nostro figlio. A condizione che il ragazzo fosse ricoverato fino alla guarigione.» Degnò Riker di un sorriso accondiscendente. «So a cosa sta pensando, detective. I pedofili vengono considerati guariti solo quando finiscono i soldi per pagare le terapie. Noi abbiamo fatto del nostro meglio perché questo non avvenisse. Ma, dopo la morte di mio marito, Humphrey assunse degli avvocati perché revocassero quel fondo e lo facessero uscire dalla clinica. La causa si è trascinata per anni. Anche dopo aver pagato le tasse e le spese legali, mio figlio disponeva di oltre cento milioni di dollari... ma di soli tre mesi per goderseli.» «E ora tutto quel denaro torna a lei» concluse Mallory. «Così mi dicono.» «La mia collega adora il movente economico» intervenne Riker. «Però immagino che ci troviamo davanti a una difesa per infermità mentale, giusto? Forse è una caratteristica di famiglia?» «Oh, mio figlio non era malato di mente... solo un normale pedofilo.» «Il mio collega alludeva a Phoebe» chiarì Mallory. «Anche la figlia pazza è nella nostra rosa degli indagati.» «Non c’è nulla che non vada in lei.» «Cosa?» Riker inclinò la testa di lato. «Parla con persone che non esistono.» «No, non parla. Ascolta solo.» Il tono della signora Driscol-Bledsoe implicava che questa fosse una cosa perfettamente razionale. «Okay» concesse Riker. «Phoebe si limita a sentire persone invisibili. È comunque...» «È la conseguenza di una terapia sbagliata, non il sintomo di una malattia mentale. E io potrei farle il nome di sei conoscenti che visitano i cimiteri e conversano con le tombe.» «Quindi Phoebe è stata in cura psichiatrica» intervenne Mallory «e il suo amico invisibile è morto.» «Morto e molto piccolo» le diede man forte Riker. «Un bambino. Phoebe guarda in basso quando lui le parla.» E ora la stoccata. «Questo invisibile bambino morto... si chiama forse Ernest?» Bersaglio centrato. Riker notò lo sguardo sbalordito della donna, solo un lampo, sparito in un secondo. Poi guardò dietro di lei e vide tre uomini sulla scalinata delle pompe funebri. Com’erano eleganti! Si strinsero intorno alla signora Driscol-Bledsoe che scese sul marciapiede. Mallory osservava la strada dove un altro uomo stava aprendo la portiera di una limousine. Phoebe vi si rifugiò dentro, quasi di corsa. Riker sorrise. «Ottimo lavoro.» Dunque la signora si era fermata a parlare con loro solo per distrarli dalla figlia. «Ma ora dobbiamo chiederci perché Phoebe ha bisogno di essere protetta.» Mallory si avvicinò alla gran dama. A una distanza minima, minacciosa. «Col suo comportamento ha messo sua figlia in cima alla lista dei sospettati.» Erano entrambe alte, gli occhi allo stesso livello, e quella scena sembrava una resa dei conti: tre guardaspalle armati e una diva contro Mallory. Uno degli avvocati mormorò qualcosa all’orecchio di Grace Driscol-Bledsoe. Dimostrando di essere uno dei rari clienti che danno retta ai loro legali, la signora si avviò con gli avvocati a passo di marcia, come una banda musicale. E sparì dentro un’altra limousine. Non ci sarebbe stato un funerale per l’altra vittima del Ramble. I genitori di Agatha Sutton non erano interessati alla cerimonia. Così disse il fratello minore della donna quando incontrò i detective sulla porta dell’appartamento della sorella. Il ragazzo dimostrava una ventina d’anni e aveva denti perfetti, segno di eccellenti cure ortodontiche nell’infanzia. Ora il punteggio era di tre su tre. Tutte le vittime dell’Artista della Fame erano ricche di nascita. Nonostante il caldo estivo, Barry Sutton indossava una camicia a maniche lunghe, di certo un espediente per nascondere i segni della tossicodipendenza. «Siamo spiacenti per la sua perdita» disse Riker. «Risparmiatevelo. Mia sorella era una bestia.» Il ragazzo dondolava un mazzo di chiavi. «Papà e mamma sono in Italia per le vacanze.» Provò a infilare una chiave e poi un’altra nella serratura. «Non torneranno certo in anticipo per Aggy.» «Okay» disse Riker. «Lei andava d’accordo con sua sorella?» «No.» Provò con una terza chiave. Inutilmente. «Scusate. Queste sono di mio padre. Io sono stato qui solo una volta per visitare l’appartamento con l’agente immobiliare. I miei genitori l’avevano acquistato per Aggy.» «Strano che non abbiano provveduto a farla operare» osservò Mallory. «Il medico legale ci ha detto che sua sorella aveva un tumore operabile... e i sintomi erano molto evidenti.» «Il nostro medico di famiglia li aveva avvertiti che con la rimozione del tumore forse Aggy sarebbe guarita, ma loro la preferivano così com’era diventata. Sapevano come comportarsi con una malata mentale.» La quarta chiave girò nella toppa e Barry Sutton fece entrare i detective. Sul pavimento c’erano un vestito semplice, un paio di sandali e della biancheria... indumenti abbandonati come quelli di Humphrey e di Willy. Anche in questo caso il killer aveva colpito Aggy a pochi passi dalla porta. Il salotto era vuoto. «C’era da aspettarselo» commentò il fratello della vittima. «L’appartamento era ammobiliato quando i miei genitori l’hanno acquistato, ma Aggy regalava tutto. Il suo fondo fiduciario era gestito da un legale che le concedeva piccole somme per volta, altrimenti avrebbe dato via anche tutti i suoi soldi.» Era una stanza di proporzioni generose ma molto squallida e maleodorante a causa delle finestre mai aperte. Guidati da un tanfo di spazzatura, arrivarono in cucina dove gli scarafaggi si arrampicavano su un barattolo aperto di burro di arachidi. Una pagnotta si muoveva, infestata da insetti brulicanti. Barry Sutton si ritrasse disgustato e andò a rifugiarsi nella camera da letto, vuota tranne un materasso appoggiato sul pavimento. L’armadio aperto conteneva quattro vestiti uguali a quello del patetico mucchietto nell’ingresso. Era un guardaroba essenziale, da Madre Teresa, neppure un paio di scarpe di ricambio. «Okay, era matta» disse Riker. «L’abbiamo capito. Da quanto tempo andava avanti questa storia?» «Da un paio d’anni. Io lo chiamavo il tumore benedetto. Prima del tumore mia sorella era malvagia. Poi è impazzita del tutto.» Si girò a guardare Mallory. «La pazzia è un buon alibi.» Con un lieve cenno del capo la detective sembrò concordare. «A lei cosa ha fatto Aggy?» «Aggy la Morsicatrice?» Barry Sutton si arrotolò una manica per mostrare che non nascondeva i segni degli aghi ma solo una brutta cicatrice. La ferita si era rimarginata ma il pezzo di carne mancante aveva lasciato un buco nel braccio. «Mi ha morso quando avevo dieci anni e lei diciassette. Poi i miei genitori la mandarono in Europa, allettandola con la chirurgia plastica e molto denaro in tasca. Quando è partita Aggy era bruttissima e piatta come un asse da stiro. Quando è tornata aveva il seno e il mento... ma aveva perso la testa. I miei genitori riuscirono a farla interdire e a ottenere la sua tutela. Prendevano loro tutte le decisioni in campo medico.» «E hanno deciso di lasciarle il tumore al cervello» concluse Riker. «Le sembra una crudeltà? Io la chiamo autodifesa.» Il fratello di Aggy abbassò la manica della camicia e consegnò le chiavi. «Chiudete quando avete finito, okay? Le chiavi, speditemele. Non voglio parlare mai più di mia sorella.» 22 L’insegnante di ginnastica ci fa allineare tra i canestri: una fila di bambini e bambine con il blazer e la cravatta della scuola. È il giorno delle fotografie e a turno ci sediamo davanti a un telo che sembra un cielo elettrico. Viene il mio turno. Il fotografo esita un istante. Mi fissa il collo. Mi sono lisciato i capelli col pettine inumidito alla fontanella e ora metà della morsicatura sbuca dal colletto. L’uomo chiede se può vederla tutta. Io slaccio la cravatta e i bottoni della camicia. Il fotografo è impressionato. Fischia. Vede anche i lividi, quelli che scopro solo nelle ore di ginnastica. L’insegnante gli dice: «Può ritoccare l’immagine con l’aerografo, vero?». «Oh, certo» replica il fotografo. «E per un piccolo extra posso passare di qui una volta alla settimana e ritoccare anche il bambino. Così non si noterà che lo pestano a sangue, giusto?» L’insegnante di ginnastica si allontana in fretta e io so che andrà a fare la spia dal preside. Il fotografo però non sembra preoccupato. Mi strizza l’occhio e dice: «Be’, piccolo, come disse Cristo in croce a proposito dei romani, che vadano a farsi fottere se non sanno stare allo scherzo». Io rido. Lui scatta la foto. Ernest Nadler Secondo i termini di un accordo stipulato nell’ufficio del sindaco, gli avvocati sarebbero stati presenti al colloquio con la polizia nella residenza Driscol-Bledsoe nell’Upper West Side. Quando aprì la porta, la scialba Hoffman portava ancora a tracolla la borsa da dottore. Ignorò Riker che le chiese: «Cosa nasconde lì dentro? La sua padrona se la spara in vena o la sniffa?». La donna li lasciò soli nell’atrio, più grande dell’appartamento medio newyorkese. Il pavimento era una scacchiera circolare di marmo bianco e nero e il lucido tavolo al centro era coperto di fiori. Oltre l’imponente scalone, passarono sotto un arco e si ritrovarono in una specie di sala da ballo dal soffitto altissimo, che alle orecchie di Mallory diceva: Qui abita il denaro. In un certo senso l’arredamento era familiare. Era una versione più sontuosa del gusto di Charles Butler: un’accurata miscela di opere d’arte moderna e mobili antichi. Avendo studiato arte a Barnard, Mallory riconobbe lo stile di Frank Stella in una gigantesca scultura tutta curve e colori primari. Era abituata alle opere d’arte di grandi dimensioni perché le aveva viste in diapositiva, proiettate sulla parete di un’aula scolastica. Riconobbe anche in Motherwell l’autore di un lavoro su tela. Quanto alla mobilia, comprendeva una serie di nomi di re e regine morti da secoli. Mallory prese atto di tutto con un occhio da revisore dei conti. Quello era il salone di rappresentanza usato per i ricevimenti, con divanetti da conversazione sparsi qua e là e poltrone disposte in fondo. Ovviamente gli ospiti non venivano per essere intrattenuti ma per ammirare quell’estrema opulenza e farsi sbalordire dal più grande lampadario di cristallo che il denaro poteva comprare. Mallory si girò lentamente, dedicando infine l’attenzione a Grace Driscol-Bledsoe. La padrona di casa era su una specie di trono accanto al caminetto – l’unica poltrona in quella parte della stanza – e circondata dai tre avvocati che, tesi e pensosi, fungevano da guardia d’onore. La signora batté il piede, seccata di dover aspettare. Be’, accidenti. Mentre attraversavano la stanza, con un gesto della mano Mallory liquidò la magnificenza circostante dicendo: «Tutto questo appartiene all’Istituto Driscol, giusto? I mobili antichi, le opere d’arte. Lei non è neppure proprietaria della casa». Con un sorrisetto sorpreso Grace Driscol-Bledsoe confermò inclinando il capo. Mallory notò sul tappeto i segni lasciati da sedie spostate di recente, un evidente stratagemma per tenere i detective in piedi e far apparire quell’incontro un’udienza reale più che un interrogatorio di polizia. Era un modo per far capire che dovevano sbrigarsi e togliersi di torno. Mallory mostrò una busta voluminosa. «Ho dato un’occhiata alla sua situazione finanziaria personale.» Uno degli avvocati fece un passo avanti. «Sta uscendo dal seminato, detective.» «Niente affatto» disse Riker. «Il fondo di famiglia è gestito dall’Istituto Driscol. I libri contabili di un ente benefico sono di pubblico dominio. Devo spiegarlo a un avvocato?» «Una volta pagate le tasse» proseguì Mallory «lei è appena benestante.» E subito sfidò la gran dama a una gara su chi avrebbe resistito di più senza battere ciglio. «Però può contare sul vantaggio occulto che deriva dal controllo di un ente benefico plurimiliardario.» «Già» disse Riker. «Siamo curiosi di...» Gli avvocati cominciarono a parlare tutti insieme, ognuno destreggiandosi per apparire il più indignato, il più oltraggiato, finché Riker sventolò le braccia urlando: «Basta! Ho una domanda più facile, okay?». Guardò la donna sul trono. «Ha delle fotografie di Humphrey? Ce ne serve una di quando era bambino.» «Una scattata almeno quindici anni fa» disse Mallory. Grace Driscol-Bledsoe commise il primo errore. O era un insulto? Forse aveva così poca considerazione per la polizia da non fingersi neppure sorpresa... che volessero una foto vecchia di una vittima recente. «Mi dispiace.» Con un sorriso liquidò l’indizio perduto di un omicidio di tanto tempo prima. «Ho gettato via tutte le sue fotografie, ma posso mostrarvi un ritratto di Humphrey insieme a suo padre.» Guidò i detective e gli avvocati lungo un corridoio e aprì la porta di un bagno accanto alla cucina. Sopra la tazza era appeso un grande ritratto a olio nella sua cornice dorata. Il defunto marito John Bledsoe teneva una mano sulla spalla del figlio, in un gesto di possesso. «Humphrey aveva dieci anni, quando è stato dipinto.» Mallory tirò fuori il cellulare per scattare una foto. «Oh, mia cara. Posso fare di meglio.» La donna sparì in cucina e tornò con un coltello, molto lungo e affilato. Gli avvocati fecero un passo indietro, come un gruppo di boy scout spaventati. I detective mantennero un atteggiamento più compassato davanti al rischio di una pugnalata. Grace Driscol-Bledsoe sorrise. «Pensate che io sia pericolosa? Posso assicurarvi che lo sono.» Sfilò con un calcio i tacchi a spillo, salì sul coperchio del water e tagliò dalla tela la testa di Humphrey. Dopo averla affidata a un attonito Riker, ritagliò anche quella del marito e gliela porse. «Per non rovinare l’equilibrio.» Mallory fissava la tela devastata, il ritratto di padre e figlio decapitati. «Humphrey era il preferito di suo marito?» «Oh, sì. John sognava di fondare una dinastia e Humphrey era il suo erede legittimo.» Scese a terra e ammirò il suo capolavoro. «Lo preferisco così. Mio marito mi regalò una collana di diamanti quando gli partorii il maschio. Per Phoebe non ricevetti nulla. E quando morì, quel bastardo non lasciò un centesimo a sua figlia.» Quando si ritrovarono tutti sotto l’immenso lampadario di cristallo del salone, Mallory passò al suo argomento preferito. «Parliamo di soldi. La sua rendita personale non si adegua al costo della vita. Non le basterebbe per vivere in un appartamento delle dimensioni di una scatola da scarpe.» «La mia famiglia si è sempre dedicata al bene del prossimo. Noi non badiamo al denaro.» «E poi c’è il suo stipendio simbolico» continuò Mallory. «Come presidente del consiglio di amministrazione dell’istituto non riceve una cifra neppure sufficiente per vestirsi.» La detective aprì la rubrica delle immagini e sul display del cellulare apparvero molte fotografie della regina della beneficenza di New York. «Vedo modelli originali, neppure uno fatto in serie. Solo le scarpe che ha addosso valgono mille dollari... l’una.» «Non ho mai speso un soldo per il mio guardaroba, detective. E sono sicura che capirà perché. Potrei persino farmi pagare dagli stilisti per la pubblicità che faccio alle loro creazioni, invece mi accontento di accettare abiti, borse e scarpe.» «Il fisco potrebbe piantare una grana con l’imposta sulle donazioni» intervenne Riker. A replicare fu uno degli avvocati. «L’abbigliamento è considerato una donazione all’Istituto Driscol. Viene indossato in occasione di eventi benefici e in seguito riciclato nelle aste a beneficio di cause meritevoli.» Da quel momento quell’uomo sarebbe stato identificato come il consulente fiscale della gang. Mallory guardò il suo collega. «Chi può dirmi quanti politici tiene in pugno questa signora? Qual è il loro prezzo medio e come li riciclate? Con un’altra asta? Facendo pressione su chi offre di più?» Dai loro sguardi sorpresi e dal fatto che non protestarono dedusse che non c’era un avvocato disonesto nel gruppo. La detective riportò l’attenzione su Grace Driscol-Bledsoe. «Ha indotto l’istituto a finanziare opere di carità a nome di alcuni membri della giunta municipale. Le devono essere molto grati. Le buone azioni portano voti. Cinque di loro siedono nella commissione dei lavori pubblici, cosa che le garantisce la maggioranza al momento del voto. Quanti dei suoi amici traggono beneficio dai contratti municipali?» Prima che l’avvocato numero uno avesse il tempo di obiettare, Mallory guardò il cellulare. «Oh, eccone uno.» Mostrò la fotografia di una pagina mondana. «Il tizio che le tiene un braccio sulla spalla?» «Oh, già» disse Riker, strizzando gli occhi per vedere meglio. «Ha ottenuto un contratto per la manutenzione dei ponti. Dollari a palate. Per questo sembra così felice?» «Se seguo la pista dei soldi» proseguì Mallory «e lo faccio sempre, so che lei non deposita le sue tangenti su nessun conto personale. I grossi trasferimenti di denaro fanno scattare gli allarmi federali... quindi evidentemente si tratta di pagamenti in contanti.» Riker concluse la conversazione con una battuta: «Le dispiace se perquisiamo la casa per trovare la cassaforte?». I tre avvocati cominciarono a parlare tutti insieme, a voce sempre più alta per far sentire le loro proteste minacciose. Le parole ricorrenti erano mandato e diffamazione, finché la loro cliente alzò una mano per zittirli. Rivolta a Mallory disse: «L’Istituto Driscol ha sempre ricevuto ottimi resoconti dai revisori. In questo mondo, mia cara, non conta quello che si sa ma quello che si può provare». Mallory vide la dama di compagnia che indugiava accanto alla porta. «Con le sue entrate personali potrebbe permettersi una donna a ore ma non una dipendente fissa come la Hoffman. A meno di non saltare i pasti.» La detective si chinò per osservare un ciondolo d’argento sul petto della signora. Era un lavoro ben fatto, ma il gioielliere non era riuscito a nascondere del tutto l’elemento al centro. Grace lo coprì con la mano. Era il suo punto debole. «È un dispositivo salvavita, giusto? Se preme quel pulsante arriva un’ambulanza?» Senza attendere la risposta, Mallory guardò la donna che attendeva in fondo al salone, sempre con la sua borsa da medico. «Hoffman è un’infermiera? Se lo è, deve costare cara.» Riker si schiarì la gola. «Credo che abbia capito, signora. Lei non vuole che noi proviamo alcunché. È l’ultima cosa che vuole.» Guardò gli avvocati in fila. «Giusto, ragazzi?» Stavolta i tre tacquero e sembravano un po’ tesi. «Rilassatevi» sorrise il detective. «Noi vogliamo solo arrivare a Phoebe.» «È fuori questione» disse Grace Driscol-Bledsoe. «Perché è colpevole» replicò Riker «o perché può rovinarla?» «Phoebe non ricava un centesimo dalla morte di Humphrey» disse Mallory. «Sua figlia non ha un movente, lei sì.» In quel momento suonò il campanello. Hoffman era sparita e uno degli avvocati funse da maggiordomo e andò ad aprire la porta. Tornò annunciando: «C’è la signorina Wilhelmina Fallon. Devo farla passare?». «Preferirei che la sgozzasse sulla soglia» rispose la signora Driscol-Bledsoe. «Ma questo non rientra nei suoi compiti, vero?» Guardò Mallory. «Mi presta la sua pistola, cara?» «Che legame c’è tra Humphrey e Willy Fallon?» «E Agatha Sutton com’è collegata?» domandò Riker. «Ci stiamo ancora chiedendo qual è il ruolo di quella pazza di Phoebe» aggiunse Mallory. «Per l’ultima volta, detective, mia figlia non è pazza, non soffre di allucinazioni. Quando era piccola, uno psichiatra ha voluto che personalizzasse... umanizzasse... la sua ansia. Si potrebbe dire che ascolta un suo critico interiore.» «Bene» fece Mallory. «Lo può provare?» «Io sì.» Sotto l’arco apparve Willy Fallon in sedia a rotelle. Invece della borsetta stringeva tra le mani un sacchetto di carta scura, come un barbone. Una donna in cuffia e divisa bianca da infermiera spinse la sedia verso le persone riunite intorno al camino. Willy disse: «Da ragazzine avevamo lo stesso psichiatra. Phoebe ubbidiva a tutte le sue stronzate come una scema». Alzò una mano per fermare l’infermiera, poi ruotò rapidamente verso Mallory. «Potrei denunciarla per quello che mi ha fatto.» Grace Driscol-Bledsoe osservò a lungo la sedia a rotelle, unico segno visibile delle lesioni subite, poi si rivolse a Mallory. «Immagino che le abbia spezzato le gambe. Mia cara, lei merita tutto il mio rispetto e la mia ammirazione.» Willy girò la testa per guardare l’infermiera alle sue spalle. «Ti ho sentito ridacchiare, stupida vacca?» La donna staccò le mani dalla sedia a rotelle e identificando correttamente Mallory come colei che deteneva il potere nella stanza, le disse: «C’è un’ambulanza parcheggiata fuori. Quando ha finito con la signorina Fallon, la sbatta in strada a calci. La porteranno via loro». L’infermiera uscì, dopo un istante si udì il rumore della porta che sbatteva. Mallory sorrise, soddisfatta come un gatto che vede il suo pasto vivo, un pranzo su ruote. Si avvicinò a Willy Fallon, afferrò i braccioli della sedia e la spostò lentamente avanti e indietro. «Qual è il collegamento tra lei e Phoebe, a parte lo psichiatra? Eravate amiche?» «Io e quella sfigata? Neanche per sogno. Abbiamo frequentato la stessa scuola. Ecco tutto.» «La Scuola Driscol? Quanto tempo fa? Forse quindici anni?» Hoffman era riapparsa al fianco della signora Driscol-Bledsoe. Ubbidendo all’ordine sussurrato della sua padrona, impugnò la carrozzella e spinse Willy verso l’atrio. Mentre Riker e Hoffman manovravano la sedia a rotelle giù dalla scalinata di pietra, Mallory diede all’autista dell’ambulanza, noleggiata presso una società privata, venti dollari come ringraziamento per la sua buona volontà. Caricata la paziente sul veicolo, che era poco più grande di una station-wagon, e con Hoffman non più a portata d’orecchio, l’autista rispose alla domanda della detective. «No, signora, non ha bisogno della carrozzella. Cammina benissimo.» Secondo il suo capo, la signorina Fallon voleva solo evitare i paparazzi. «Da quando?» chiese Riker inserendosi nella conversazione. «Quando era la reginetta della mondanità li adorava, quegli sciacalli.» Appresero dall’autista che le carte di credito della signorina Fallon erano state bloccate. Lui era stato pagato in contanti. Quel sacchetto di carta era pieno di soldi. Mentre l’ambulanza si allontanava, Riker chiamò il responsabile della sicurezza di Willy in ospedale. Dopo una breve conversazione chiuse il cellulare e se lo mise in tasca. «L’agente di guardia non ha visto nessuno entrare nella stanza con un sacchetto di carta. Ma se n’è andato ore fa... quando Willy ha rinunciato alla protezione della polizia.» Consegnò a Mallory un biglietto da visita. «Ha detto di rivolgerci agli avvocati di famiglia per qualsiasi domanda.» Mallory chiamò il numero stampato sul cartoncino e venne a sapere che quello studio legale non rappresentava più la signorina Fallon. Il resto della famiglia, sì, naturalmente... ma non lei. E perché no, avrebbe potuto chiedere la detective, ma l’avvocato prevenne la domanda. «Be’, lei ha incontrato quella donna, vero?» L’autorevole voce al telefono chiarì il pensiero: «Sono un uomo discreto, e non voglio scendere nei dettagli, ma piuttosto che avere ancora a che fare con lei, preferirei essere sbudellato e costretto a vedere i cani che mangiano le mie viscere». Chiusa la comunicazione, Mallory disse: «Credo che Willy abbia castrato un avvocato». Con ai piedi le ciabatte di carta dell’ospedale, Willy Fallon attraversò l’atrio dell’albergo. Il direttore cercò di impedirle di raggiungere l’ascensore, ma prima che potesse affrontare l’argomento del conto da pagare, lei gli mise in mano due mazzette di dollari. «Questo dovrebbe bastare.» Abituato da sempre alle carte di credito e agli assegni, il direttore fissò le banconote con stupore... e sospetto. Poi guardò Willy come per chiedere: Cos’è questa roba? Willy prese l’ascensore e salì nella sua stanza. Il nastro giallo usato per sigillare la porta penzolava stracciato dalla cornice, segno che qualcuno era entrato dopo la perquisizione della polizia. Aprì la porta con cautela, ma non c’era nessuno, solo un velo di polvere scura sui mobili e i cassetti rovesciati a terra. Quei maledetti sbirri non rimettevano mai le cose a posto. Probabilmente la cameriera era scappata strillando. Willy entrò in bagno per controllare che la sua magra provvista di droga fosse tornata nella vaschetta del water, con molti ringraziamenti al portiere dell’hotel. Si tolse il camice dell’ospedale, indossò uno dei suoi vestiti e ritrovò il cellulare, per nulla stupita che la polizia lo avesse lasciato lì. Stupidi sbirri. Chiamò tutti i Wilder sull’elenco e alla fine restò solo una Susan Wilder. Era il nome della madre di Toby? Nessuno rispose alla telefonata di Willy. La vetrina in Columbus Avenue era decorata con ritratti a figura intera di spose e primi piani di attori quasi famosi. All’interno del negozio gli album nuziali erano stati spostati su un lato del tavolo ed erano arrivate delle sedie per i due detective che sfogliavano immagini di bambini in posa sul fondale blu elettrico delle fotografie scolastiche. Il proprietario era un uomo dalla voce gentile e dal passo leggero. Teneva gli occhi di un azzurro sbiadito socchiusi con dolcezza. «Oh, se uno di questi mocciosi si è fatto ammazzare, non mi dispiacerebbe prendermene il merito, ma io non sono un violento.» Posò un volume rilegato in pelle sulla pila di annuari scolastici. «È quello che cercate. Ho solo questa copia, quindi preferirei che me la lasciaste.» Diede a Riker un blocchetto di Post-it. «Segnate le foto che vi interessano e vi preparerò subito degli ingrandimenti.» Mallory girò rapidamente le pagine, esaminando i volti e leggendo i nomi. «Sono tutti qui, anche il piccolo Nadler. Qui è dove è cominciato.» Ricominciò da capo e segnò con un Post-it il ritratto dell’undicenne Phoebe Bledsoe. Ernest Nadler aveva la stessa età, ma non compariva in quel gruppo di bambini. Mallory lo aveva trovato due classi avanti, con i tredicenni. «Quindi era un bambino brillante» commentò Riker. Ernest Nadler sorrideva ai detective come se qualcuno gli avesse appena raccontato una storiella divertente. Dopo aver contrassegnato la fotografia con un altro Post-it, Mallory tornò alla pagina con l’immagine di Humphrey Bledsoe. La faccia era molle e flaccida. «Sorriso viscido» osservò Riker. Sì, la fotografia sembrava annunciare il futuro da pervertito di Humphrey. Nella pagina seguente Willy Fallon, a tredici anni, era ancora più magra, quasi scheletrica. E Aggy Sutton non li stupì. Mostrava tutti i denti, ma non per sorridere. Quella di Toby Wilder era l’ultima fotografia del gruppo e Mallory vi si soffermò. «Oh, mi ricordo di lui» disse il fotografo. «Un ragazzo molto bello... e anche gentile, ma non stava mai fermo, batteva i piedi e schioccava le dita in continuazione. Ho altri scatti che lo ritraggono. Come si chiama?» Si chinò per leggere il nome. «Okay.» Sparì nel laboratorio e tornò con altre fotografie. «La mia collezione privata. Sono quelle che preferisco.» Le posò sul tavolo. «Coprono i tre anni in cui frequentò la Scuola Driscol.» Quello non era il protagonista cupo e immobile del filmato dell’interrogatorio di Rolland Mann. Le immagini erano sfocate perché Toby era sempre in movimento. Un Toby iperattivo, alimentato da un’energia incontenibile, così vivo. Quando il fotografo consegnò gli ingrandimenti, Mallory osservò quello di Ernest Nadler. La linea del colletto della camicia era leggermente ritoccata. «Qui è stato usato l’aerografo.» Guardò l’uomo minacciosa, come se avesse commesso un reato. «Aspetteremo che ne stampi un’altra dal negativo.» «Oh, non ho più quel negativo. Mentre stampavo le copie per i genitori dei bambini, ci ho rovesciato sopra dell’acido.» «E dopo quindici anni» Riker lo guardò severamente «ricorda ancora quale negativo si è rovinato. Doveva essere uno scatto straordinario... prima che lo ritoccasse.» «Uno scatto memorabile» incalzò Mallory. «E sicuramente lei ne conserva una copia... per la sua collezione privata. Voglio vedere cosa ha ritoccato.» «La mia collega adora i bambini» aggiunse Riker con una delle sue bugie più fantasiose. «Mi creda, amico, è meglio non irritarla.» E questo era vero. Mallory si alzò costringendo l’uomo a retrocedere fino agli schedari, dove la stampa originale fu trovata... molto in fretta. Videro allora cosa era stato cancellato dalla fotografia di classe. «Segni di denti» disse Riker. «Dannazione! È come se Aggy la Morsicatrice gli avesse firmato il collo.» Al ristorante messicano di Bleecker Street era in corso una piccolissima riunione scolastica: Phoebe Bledsoe con un bambino morto a un tavolo e Toby Wilder all’altro capo del locale. «Odio vederlo in quello stato» disse Dead Ernest. Guardò la sua amica. «E tu, Phoebe? Volevi insegnare i classici e passi il tuo tempo chiusa dentro l’infermeria.» E nessuno si presentava mai a quell’infermiera inquietante. Gli studenti della Driscol si distinguevano da quelli di tutte le altre scuole d’America per il coraggio con cui sopportavano ginocchia sbucciate e mal di pancia. «Tu sei laureata in letteratura inglese, e cosa ti hanno offerto?» La custodia di una scatola di cerotti. E doveva ringraziare sua madre che aveva insistito per farle prendere anche il diploma da infermiera, altrimenti sarebbe stata disoccupata. «Ti hanno defraudato» disse Dead Ernest. Forse. Trascorreva le sue solitarie giornate di lavoro leggendo la grande letteratura e di notte leggeva i fumetti ad alta voce per penitenza... per Ernest. Non una gran vita, non quella che aveva progettato. Finito di mangiare, Toby si alzò e andò verso la porta. Le dita di Phoebe tormentavano l’accendino d’oro, l’unica cosa di lui che poteva tenere con sé. Anche Dead Ernest la lasciò. Phoebe non aveva l’energia per sopportarlo o frenarlo. Guardò il suo vecchio compagno di giochi che si avviava verso l’uscita. Appena entrò un cliente, lui scivolò fuori: dipendeva da persone in carne e ossa per farsi aprire le porte. Ma anche se un fantasma poteva passare attraverso i muri, Phoebe non gli avrebbe mai permesso di togliere le mani dalle tasche. Tornò a casa da sola. Quando scese dal taxi davanti alla Scuola Driscol, con la chiave in mano, il cancello di ferro era già aperto. Si era scordata di chiuderlo? No, impensabile. Percorse il vialetto e arrivò a metà del giardino prima di vederlo vicino alla porta del cottage. Rolland Mann stava perdendo i capelli. Con i pochi che gli restavano, sembrava un pulcino appena nato o un pollo pronto per essere sgozzato. Il vice comandante della polizia aveva un posto d’onore negli eventi di beneficenza di sua madre ed era un ospite fisso dei ricevimenti settimanali in casa. Phoebe però l’aveva conosciuto quando era una bambina e lui era il detective Mann. «Il cancello era spalancato» disse l’uomo. «Un’imprudenza, Phoebe. Specialmente adesso.» Le mostrò il «Times». «La terza vittima del Ramble non è ancora sui giornali, ma sono stati tutti identificati. Sembra che qualcuno stia chiudendo questioni rimaste in sospeso.» Fece una pausa. In attesa di una sua reazione? «Hai bisogno di protezione. Potrei mettere una guardia al...» «No! Basta con la polizia.» Portò alla bocca una mano con le unghie mangiucchiate poi, vergognandosi, le nascose tutte e due dietro la schiena. Almeno non doveva affrontare quello sgradevole visitatore da sola. La sua agitazione aveva richiamato Dead Ernest, che si piazzò dietro Rolland Mann e tirò fuori la lingua. Seguendo il suo sguardo, il vice comandante della polizia girò la testa ma non vide nessuno. Poi guardò la casa. «Oh, sta squillando il telefono. Non vai a rispondere?» No. Non aveva intenzione di aprire la porta mentre lui era lì. «Hai bisogno di protezione.» L’uomo misurò le parole, soppesando ogni sillaba. «Te ne rendi conto, vero, Phoebe?» Perché le parlava come se fosse scema? Chinò il capo per udire il bambino morto che le disse: «Crede che tu sia pazza». Rolland Mann sorrise, come per concordare con quella voce che non poteva udire. «Eravate in cinque nel Ramble quando è capitato l’incidente.» Sollevò una mano, con le lunghe dita allargate, e cominciò a contare, piegandole una dopo l’altra. «Ernie è morto, Humphrey, Aggy. E Willy Fallon è quasi morta.» Restava solo il pollice, bianco come un verme... lei. «Questa è matematica, Phoebe.» Le girò le spalle e si avviò verso il cancello: «Chiamami, se cambi idea sulla protezione». 23 La mia tutor mi dice che i giorni della scuola sono il periodo migliore della vita e io dovrei godermi ogni minuto. Quando me lo dice, vorrei mettermi a urlare: «Stupida vecchia fottuta! È l’inferno quotidiano, cinque giorni ogni settimana! È una guerra!». Ernest Nadler A giudicare dall’apparenza, Charles Butler aveva scordato l’inganno del funerale che era servito a Mallory per mettere Coco a confronto con una fila di sospettati. Sorrideva radioso, felice di vedere i due detective alla sua porta e di farli entrare in casa. Forse, provato dall’impegnativo compito di babysitter, aveva bisogno di un po’ di compagnia adulta. Così almeno pensò Riker mentre si chinava per farsi abbracciare da Coco. «Ehi, piccola, ci suoni qualcosa? Conosci qualche buon gruppo rock?» Lei batté le mani, con gli occhi brillanti e un gran sorriso. «Echo & the Bunnymen!» Charles sorrise. «Sembra affascinante.» «Una scelta eccellente» approvò Riker. «Rock post-punk.» Charles smise di sorridere, meno affascinato. Coco prese Mallory per mano e la condusse nella sala da musica. Dopo qualche istante i due uomini ascoltavano un duo pianistico. Riker diede una pacca sulla schiena al padrone di casa. «Non preoccuparti, Charles. Finché suonano, puoi stare tranquillo che Mallory non la sta tormentando.» Il detective riconobbe gli accordi iniziali di una vecchia canzone di una garage band che era arrivata vicina al successo. «Oh, questa è d’epoca. Si chiama Crazytown Breakdown ed era famosa nei primi anni Novanta.» L’uomo che amava la musica classica sembrava perplesso. I brani preferiti da Charles Butler risalivano a secoli prima della musica rock. Nella stanza accanto due voci intonarono una canzone, note acute e pure che salivano e scendevano. Al ritornello, le due interpreti picchiarono sui tasti gridando le parole. Si divertivano molto, a giudicare dalle risatine della bambina che accompagnavano gli arpeggi più delicati. Charles era ammaliato. «Non avevo mai sentito Mallory cantare.» Riker sì, ma solo una volta e molto tempo prima. Era successo alla Crimini Speciali, il giorno di una sua piccola ribellione al ritmo di rock’n’roll. La piccola Kathy Mallory era stata mandata a casa da scuola per qualche trasgressione sul campo da gioco e Lou Markowitz doveva badare a lei finché sua moglie non fosse venuta a prenderla. Stava alla scrivania davanti alla sedia di Kathy, che allora aveva le gambe corte e i piedi che non arrivavano a terra. Forse perché si annoiava, la bambina impegnò Lou in una gara di sguardi, ma poi cominciò a cantare, e la loro piccola guerra dei nervi continuò in musica. Gli aveva cantato ininterrottamente lo stesso ritornello – Crazy is a place I know. I come and go. I come and go – continuando a fissarlo con quei magnetici occhi verdi. Mantenendo l’espressione impenetrabile del giocatore di poker, Lou aveva spezzato sei matite prima di cedere. «Hai vinto tu.» Ora quella vecchia canzone stava esercitando lo stesso effetto snervante su Charles Butler, e non per caso. Cosa aveva fatto a Mallory quel pover’uomo? Sulla successiva nota di – cra-a-a-zy – Riker descrisse l’invisibile bambino morto che parlava con Phoebe Bledsoe. «Secondo sua madre, la colpa è di uno psichiatra infantile.» Il detective consultò il taccuino. «Il dottor Martin Fyfe. È stato lui a volere che Phoebe personalizzasse la sua ansia.» Strizzò gli occhi per decifrare il suo metodo personale di stenografare: parole isolate che riassumevano intere frasi e paragrafi. Erano appunti che aveva preso in fretta, mentre veniva congedato bruscamente. «Be’, quella terapia si è ritorta contro di lei. Invece di confrontarsi con il suo problema, di parlarci, Phoebe si limitava ad ascoltare.» Guardò Charles. «È una follia o cosa? Dopodiché, lo strizzacervelli disse alla madre che Phoebe soffriva di allucinazioni, e per guarire avrebbe dovuto trascorrere anni sul suo lettino.» Chiuse il taccuino. «E la madre interruppe la terapia.» «Un buon istinto materno.» Charles guardò le due pianiste che avevano momentaneamente smesso di cantare. «Il dottor Fyfe era un ciarlatano, non un vero psichiatra.» Assicuratosi che Mallory non stesse tormentando Coco, si rivolse di nuovo a Riker. «In effetti Fyfe aveva una laurea in psicologia, ma sfortunatamente per i suoi pazienti quel titolo valeva poco più di un corso di disegno per corrispondenza. Tuttavia, non c’è bisogno di credenziali per allestire uno psicodramma, ed è esattamente quello che mi hai descritto.» Charles si alzò e Riker lo seguì in corridoio e in biblioteca, dove le pareti erano foderate di libri e gli scaffali sfioravano l’alto soffitto. La musica del pianoforte giungeva attutita. Il tutore di Coco tendeva l’orecchio, per accertarsi che il concerto continuasse, mentre si avvicinava a uno scaffale carico di riviste. I contenitori di legno erano datati e schedati sotto le voci PSICHIATRIA e PSICOLOGIA. «Phoebe Bledsoe ha iniziato la terapia circa quindici anni fa?» «Più o meno.» Riker lo vide estrarre i contenitori relativi agli anni Novanta. «Fyfe si sarà affrettato a pubblicare un caso come il suo. Sono quasi sicuro di trovare Phoebe Bledsoe qui in mezzo. Naturalmente non citata col suo nome, ma il sesso e l’età mi aiuteranno a rintracciarla. Forse ci vorrà un po’ di tempo.» Riker guardò l’orologio. «Io e Mallory abbiamo in programma un’imboscata a un assistente del procuratore. Dobbiamo mettere alle strette quel verme prima delle cinque.» Il detective guardò le pile di pubblicazioni posate sul tavolo. «Questo lavoro richiederà tutto il giorno, eh?» «Meno di quanto pensi.» Charles sollevò una bracciata di riviste come se pesasse pochi grammi e le portò in salotto, riluttante a lasciare Coco e Mallory insieme da sole. Le posò sul tavolino e si sedette in modo da poter tenere d’occhio il pianoforte. Nonostante si fosse caricato di un peso molto minore, Riker sentì male alle braccia quando lo depose sul tavolino. Gli occhi di Charles scorrevano le parole stampate al ritmo con cui girava le pagine, più velocemente di qualsiasi lettura rapida. Era avvampato per l’imbarazzo. Quell’uomo straordinario si vergognava a esibire ciò che lo rendeva diverso, che fosse il cervello o la statura. Sembrava scusarsi quando era costretto a guardare dall’alto in basso le persone più piccole di lui, cioè quasi tutte. E ora trovava umiliante essere osservato mentre leggeva alla velocità della luce. Signorilmente, Riker si concentrò sulle pianiste canterine, battendo i piedi al ritmo della musica. Senza girare la testa disse: «Quindi conosci piuttosto bene questo dottor Fyfe». «No, solo di nome e per la sua cattiva reputazione.» Charles sollevò una pubblicazione. «Anni fa questa rivista fece recensire un articolo di Fyfe da un collega. Si trattava del caso di un bambino di otto anni. Quell’idiota gli aveva fatto assumere farmaci non autorizzati. Il recensore – uno psichiatra vero – indagò su di lui e scoprì che Fyfe non avrebbe potuto prescrivere neppure un’aspirina. L’articolo svelava un traffico illegale di farmaci... lui li comprava in strada. Ma fu per aver messo in pericolo la salute di un bambino che fu sospeso la prima volta.» «La prima volta? Quante altre...» «Tre sospensioni.» «Cosa ci vuole per essere radiati dall’albo?» «Dovresti uccidere qualcuno del comitato etico. Questo attirerebbe la loro attenzione. Come condizione per la riabilitazione, a Fyfe fu proibito di lavorare con i bambini. Ma era troppo tardi per Phoebe Bledsoe. Ti interesserebbe una lezione sullo psicodramma?» Riker alzò gli occhi al cielo. Charles sorrise. «Ci vorrà solo un minuto. È semplicissimo.» Indicò la poltrona vuota accanto a quella di Riker. «Immagina che la fonte della tua ansia sieda lì. Ora parlale. A cuore aperto. Dille tutto quello che provi, i tuoi tormenti, le tue paure. È un gioco facile. C’è una scuola d’arte drammatica nel Lower East Side che lo usa come esercizio in classe.» Charles prese un’altra rivista, lesse rapidamente e si fermò di botto. «Eccoci.» Rallentò la lettura a una velocità da essere umano normale. Intanto Riker ascoltava la musica, l’eterna canzone della pazzia. A che gioco stava giocando Mallory? Finito l’articolo, Charles posò la rivista. «La bambina di cui si parla aveva undici anni. La terapia iniziò un mese dopo la morte di un compagno di scuola.» «È lei» disse Riker. Charles guardò verso la sala da musica, distratto dalla canzone che era ricominciata. «La paziente di Fyfe soffriva di incubi e aveva paura di restare sola anche per poco. Non reagiva alla terapia standard della conversazione. Così Fyfe la iniziò allo psicodramma, associandolo alla somministrazione bisettimanale di un farmaco psicotropo. E questo sconvolge il cervello di un bambino. Poi, come se già non avesse abbastanza problemi, la paziente cominciò a soffrire di allucinazioni. Ti ho già detto che Fyfe è un idiota? Forse le ha confuse con un meccanismo di difesa o con una ricca vita immaginaria.» «Ti riferisci all’amico invisibile?» Charles annuì mentre sottolineava con il dito una riga del testo. «Qui Fyfe dice che l’allucinazione aveva assunto le sembianze di un compagno di scuola morto, ma la bambina non volle aggiungere altro. Nessun feedback. Lei si limitava ad ascoltare una sedia vuota.» «La madre dice che Phoebe ascolta il suo critico interiore.» «È psicologia da strapazzo, ma potrebbe contenere un granello di verità... se la bambina si sentiva responsabile per la morte dell’amico. Spiegherebbe anche il suo silenzio durante le sedute con il terapista. I bambini sono bravissimi a non rivelare i segreti che li divorano vivi.» «Tu pensi che sia pazza? Phoebe potrebbe aver ucciso il bambino invisibile?» Se Riker non si era espresso correttamente, lo psicologo era troppo educato per farglielo notare. «Non ne ho idea.» Charles posò la rivista. «Se questo è un ritratto di Phoebe... se questo comportamento dura tuttora, posso solo confermare che il dottor Fyfe l’ha condannata a una vita infernale, imprigionata con un bambino morto... e ci è ancora dentro.» Nella stanza accanto la canzone della pazzia giunse a termine. 24 Oggi il fratello di Phoebe non è venuto a scuola. Lei dice che non può tornare finché il signor Carlyle non risolve il suo ultimo pasticcio. Grane con ragazze, dice. Humphrey ha un debole per le bambine. Eppure io ho sempre pensato che suo fratello volesse essere una femmina. Ma chi è il signor Carlyle? Forse il terapista di Humphrey? «No, è soltanto un rospo» dice Phoebe. Una sera alla settimana casa sua si riempie di rospi, gli amichetti di sua madre. Sono cose che non si possono inventare. Ernest Nadler Un giorno, anni prima, mentre Mallory provava un blazer di cashmere, Riker era entrato nel negozio... e il sarto gli aveva chiesto di uscire, preoccupato, forse con ragione, che le macchie che costellavano l’abito del poliziotto potessero infettare l’impeccabile tessuto nuovo della giacca di Mallory. Il suo collega non era un uomo elegante. Tuttavia, lei sapeva che aveva idee precise sui papillon. Per esempio su quello giallo vivo intorno al collo ossuto di Cedrick Carlyle, uno dei numerosi assistenti del procuratore distrettuale, e forse quello con l’ufficio più modesto. Prima dell’ultima ristrutturazione, quel piccolo vano doveva essere il ripostiglio per la fotocopiatrice. Al suo posto ora c’era una scrivania e, con quell’improbabile cravattino giallo, l’ometto che vi sedeva doveva essere al centro di parecchie barzellette nell’ambiente. Secondo i canoni estetici di Riker, i fiocchi erano riservati alle trecce delle bambine o ai collari di quei cani minuscoli portati in braccio dalle signore. Carlyle aveva le labbra protese in avanti e gli occhi fissi sulla tastiera del portatile. Non dava segno di aver notato la presenza di due persone, in quel bugigattolo che ne conteneva a malapena una. Riker contava di avanzare la sua richiesta di informazioni sul caso di quindici anni prima in termini più formali ma, irritato da quell’atteggiamento, sbottò. «Siamo qui per parlare della confessione che lei ha estorto a Toby Wilder.» L’avvocato smise di digitare per un istante, forse indeciso se sbottare o glissare. Poi ricominciò a battere sui tasti con due dita. Non era la reazione che voleva Mallory. Lei sperava di vedere quegli acquosi occhi grigi ruotare nelle orbite. Senza staccare lo sguardo dallo schermo, Carlyle disse: «Tornate più tardi». Indicò la porta con una mano, come se l’uscita fosse difficile da trovare. «E la prossima volta fissate un appuntamento.» Nella gerarchia del sistema giudiziario un assistente del procuratore valeva più di un poliziotto. Ma non quel giorno. «Questa è un’indagine per omicidio.» Mallory si protese sulla scrivania e chiuse bruscamente il coperchio del computer. «Oggi noi passiamo davanti a tutti.» C’era un’unica sedia, ed era carica di carte. Lei le gettò a terra e si sedette. Seguendo il suo esempio, Riker si trovò un posto sbarazzando un angolo della scrivania da libri e penne – un tocco di violenza per dare il tono giusto alla conversazione. «Non ci piace il modo in cui è stato trattato il caso di Toby Wilder.» L’uomo diventò subito attento. E Mallory approvò. Molto. Non ci furono proteste o reazioni indignate. Probabilmente in vita sua Carlyle era sempre sfuggito a qualsiasi confronto... fino a quel momento. Si chinò verso di lui per dirgli una bugia. «Rolland Mann ci ha rivelato che quella confessione fasulla fu una sua idea.» L’assistente si asciugò i palmi delle mani sulle maniche. Sudore colpevole? Con voce lamentosa rispose: «Non potete prendervela con me. Fu lo stesso avvocato del ragazzo a volere il patteggiamento per l’omicidio del barbone». I detective si scambiarono un’occhiata. L’omicidio del barbone? Quale barbone? «Avrei potuto portarlo in tribunale» proseguì Carlyle «e avrei ottenuto una condanna... senza problemi.» «No, non credo» replicò Riker in tono casuale, come se fosse perfettamente al corrente della faccenda. «Lei non ha mai vinto un processo.» «I suoi casi non arrivano mai in tribunale» incalzò Mallory. «Patteggia con tutti. È la sua specialità, giusto?» L’avvocato sfoderò il sorriso da pubblico ministero, quello usato da tutti i suoi colleghi per zittire i poliziotti ignoranti. «In un patteggiamento i criminali ottengono una riduzione della pena, ma i contribuenti risparmiano sulle spese processuali. E tutti sono contenti.» «Un sistema comodo per evitare la diffusione di dettagli imbarazzanti, vero?» commentò Riker protendendosi verso di lui. Carlyle si fece ancora più piccolo. «Giusto» approvò Mallory. «Per questo ha mandato Toby Wilder davanti al tribunale minorile. Verbali secretati. Quindi... l’idea era di sostituire le vittime, scambiando il piccolo Nadler con un barbone morto? La necessità di insabbiare un’aggressione brutale a un bambino doveva essere molto forte.» L’ometto aveva recuperato il coraggio perché si raddrizzò sulla sedia. «Ha ragione solo su un punto, detective... quei verbali sono secretati. Sa bene che non posso discutere di quel caso con lei. Però posso dirle che è stato un patteggiamento pulito. Toby Wilder se l’è cavata con poco.» «Perché ha confessato di aver ucciso un barbone anziché di aver torturato un bambino?» «Patteggiare per un’incriminazione meno grave è una procedura normale» rispose Carlyle, come se ammazzare un barbone fosse un reato minore. «Io ottengo sempre ottimi risultati.» «Oh, davvero?» Riker posò la copia del certificato di morte del bambino sulla scrivania. «Lei ha contribuito a insabbiare un omicidio. È un reato grave.» Carlyle guardò quella prova indiscutibile, e la sua schiena si irrigidì. Lo avevano incastrato... Mallory aprì il taccuino e finse di consultarlo. «Quindici anni fa, la prima volta che si è candidato alla carica di procuratore distrettuale, ha speso il doppio del suo avversario per la campagna elettorale... ciò nonostante ha perso.» Alzò gli occhi per vedere l’uomo che rabbrividiva. «Dove li ha trovati tutti quei soldi, uno come lei?» Riker gli mostrò un foglio zeppo di cifre, il frutto dell’amore di Mallory per i moventi economici. «Il suo fondo elettorale è stato finanziato da numerose donazioni in contanti.» «Quasi tutti usano carte di credito o assegni» riattaccò Mallory, godendosi l’effetto della testa di Carlyle che ruotava da una parte all’altra per seguire il detective che stava parlando. Si alzò, passò dietro la scrivania e si chinò per parlargli all’orecchio. «Una montagna di denaro che finisce sullo stesso conto fa scattare l’allarme rosso.» Riker si protese fin quasi a toccarlo. «Anche i contanti si lasciano dietro delle tracce, amico. Supponga che noi risaliamo dai prestanome ai libri paga... e quindi ai proprietari di quelle società. E ora supponga che uno di loro abbia ricavato un bel vantaggio da un patteggiamento.» Sorrise. L’avvocato non aveva bisogno che portasse quel pensiero a conclusione. Mallory gli posò una mano sulla spalla, solo per farlo sobbalzare. «Chi le ha detto di incastrare Toby Wilder con l’omicidio del barbone?» L’assistente del procuratore cercava di guadagnare tempo per valutare le sue opzioni, ma i detective non si aspettavano che rispondesse a quella domanda. La prescrizione non lo avrebbe salvato da un’accusa di complicità in omicidio. Quel reato non andava mai in prescrizione. Riker gli fece una richiesta più facile. «Ci procuri un mandato di perquisizione per l’appartamento di Toby Wilder.» Carlyle chinò il capo. «Devono esserci fondati sospetti per ottenerlo.» «Li trovi» disse Riker. «Se il giudice fa il difficile, chiami il vice comandante della polizia. Voi due vi conoscete da un pezzo, no? Rolland Mann era il detective incaricato di quel vecchio caso di omicidio... e non mi riferisco al barbone.» Mallory batté la mano sul certificato di morte. «Si riferisce a questo bambino!» Fece ruotare la sedia dell’avvocato come una giostra. Non aveva finito di giocare con lui. «Il mandato deve includere anche le parti comuni dell’edificio... e la cantina. Cerchiamo gli strumenti di un omicida. Lei ha incastrato Toby quindici anni fa... quindi non dovrebbe essere difficile fregarlo di nuovo per qualche altro delitto nel Ramble.» Dopo una rapida occhiata al mandato, l’arcigno custode del palazzo fu lento a trovare la chiave giusta tra le molte che portava attaccate alla cintura. Finalmente aprì la porta e i detective entrarono nel salotto buio di Toby Wilder. Riker era felice di tenere in pugno un assistente del procuratore. Garantiva che avrebbero ottenuto tutti i mandati che volevano e la mancanza di fondati sospetti non sarebbe stata un problema. Scostò le tende scoprendo vetri che non venivano puliti da anni. Il sole che entrava da una presa d’aria illuminò un sofà e una poltrona con i braccioli lisi e sporchi e bruciature di sigaretta sulla fodera. Un vecchio televisore aveva lo schermo spaccato. Forse il ragazzo aveva un brutto carattere. Sì, in mezzo ai vetri rotti c’era una bottiglia di vino vuota. Nell’aria aleggiava un odore di fallimento, un alito di vomito del mattino dopo. Nella classifica personale di Mallory, Riker era il campione degli sciattoni, e il detective si guardava attorno segnando i punti come in una gara con Toby Wilder. Vestiti sparsi sul pavimento: sì; scatole con avanzi ammuffiti di cibo: sì; mosche morte sul davanzale: sì. Proprio come a casa sua. Dopo un’indagine più accurata, scoprì di avere qualcos’altro in comune con quel ragazzo: troppe lattine di birra e bottiglie vuote. C’era anche un’altra brutta abitudine. Pur non condividendola, Riker non riuscì a prima vista a capire se Toby la sniffava, la ingoiava o la fumava. La tossicodipendenza risultava evidente dalle tasche rivoltate dei jeans e dai segni sulla polvere davanti al sofà, dove lui al mattino cercava disperatamente qualche grano di cocaina o qualche pasticca per cancellare il crudo squallore di una nuova giornata di sole. Al risveglio Riker a volte cercava un fondo di bottiglia, ma quel ragazzo raschiava il pavimento per trovare qualcosa, qualsiasi cosa, che gli facesse ripartire il cuore. Mallory stava raccogliendo da terra due flaconi vuoti di farmaci. «Questi non te li regalano per strada.» Li diede a Riker che lesse le etichette: variazioni sul tema dell’ossicodone, che dà assuefazione più dell’eroina, e non prescritti per Toby Wilder. «Preferisce gli antidolorifici» disse Rolland Mann dalla porta aperta, facendo voltare di scatto i detective. «Vicodin, Oxycontin. Usa anche i sonniferi. Il mandato l’avete ottenuto per sospetta detenzione di droga.» «Lei sapeva che era tossicodipendente» ribatté Riker. «Così per tutti questi anni lo ha tenuto d’occhio.» «Ammetto di essermi sempre interessato al ragazzo.» Rolland Mann entrò nella stanza, girò la schiena ai detective e si rivolse alla tappezzeria sbiadita. «L’appartamento è ad affitto bloccato. Toby ha ereditato il contratto da sua madre. Lei vendette la casa e si trasferì qui quando il figlio fu mandato a Spofford.» Spofford. Il nome di quel riformatorio, chiuso nel 1998, era stato usato a lungo dai genitori newyorkesi come uno spauracchio per minacciare la prole ribelle. Considerato il posto dove lo avevano imprigionato, non stupiva che Toby si drogasse. I detective percorsero il breve corridoio, passando davanti alla cucina puzzolente. Mallory aprì la porta di una stanza con tende di chintz e un letto sfatto. Doveva essere la camera della madre morta. Le pantofole color lavanda erano ordinatamente appaiate sullo scendiletto, in attesa di essere infilate. E sulla coperta c’era un libro a faccia in giù, forse lasciato aperto sulle ultime pagine lette dalla donna prima di morire. Uno spesso strato di polvere copriva ogni cosa, indisturbato da anni. La stanza era conservata come un santuario? Già. Il tossico aveva amato la madre. Riker aprì la porta accanto. Gesù Cristo. Entrò per vedere da vicino. Non era carta da parati. «Ehi, venite qua!» Rolland Mann e Mallory lo raggiunsero in una stanza spoglia come la cella di un monaco, con solo un piccolo cassettone e un letto stretto. Il pavimento era pulito. Toby si era ritagliato una nicchia di ordine nel caos di quattro pareti coperte di musica: pentagrammi con scale, indicazioni di tempo e migliaia di note coprivano interamente lo spazio dal pavimento al soffitto. Riker suonava la chitarra e sapeva leggere gli spartiti, ma era sbalordito. «Qui ci sono degli accordi spaventosamente complessi.» Mallory scostò il letto dal muro. C’era musica anche lì. E dietro il cassettone, altra musica. Solo Rolland Mann non sembrava sorpreso. «Il ragazzo era in pole position per entrare alla Juilliard, ma avrebbe potuto ottenere borse di studio in qualsiasi altro posto.» Il vice comandante della polizia guardò il cellulare che squillava. «Toby aveva solo tredici anni ed era già corteggiato dalle università. Era una specie di genio musicale.» Rolland Mann avrebbe potuto utilizzare l’ingresso riservato ai politici di alto rango e agli altri criminali in visita alla Corte Suprema in Centre Street. Scelse invece di salire la scalinata che portava a quel grande tempio greco e passò il controllo mescolato alla gente comune. Nessuno fece caso a lui. Il grado di vice comandante della polizia era troppo recente perché la sua faccia venisse riconosciuta dagli agenti di guardia al metal detector. Lo fecero passare e Mann entrò nell’atrio circolare delimitato da alti pilastri, un vasto spazio illuminato da un enorme lampadario in ferro e dal sole che filtrava attraverso la cupola. Era un ambiente progettato su scala gigantesca e gli esseri umani sembravano formiche, numerosissime: avvocati, agenti in uniforme, giuristi e giurati. Era un luogo dove un astro nascente poteva incontrare un fallito senza suscitare sospetti. Vide il papillon giallo del fallito che sobbalzava in mezzo a un gruppo di giurati in marcia verso gli ascensori. Benché quell’ometto si fosse candidato a tutte le elezioni degli ultimi vent’anni, nessun elettore ricordava il suo nome, ma appena veniva nominata quella ridicola cravatta, la gente diceva: «Ah, già, quello». Era stato un suo consulente politico, il defunto John Bledsoe, a consigliargli il papillon giallo vivo come segno di riconoscimento. E Cedrick Carlyle, da quel cretino che era, non aveva mai saputo che il suo consigliere era noto col soprannome di Carogna. L’assistente del procuratore si precipitò verso di lui, ma Rolland Mann non rispose al saluto. Era assorto in altri problemi. Si stava chiedendo se sua moglie avrebbe trovato il coraggio di lasciarlo. Attraversò l’atrio senza prestargli attenzione. Cedrick Carlyle gli saltellava al fianco parlando con voce lamentosa. «Può darsi che debba presentare le deposizioni dei testimoni relative all’omicidio del barbone. Mi auguro che tu abbia conservato le copie.» «Di un caso relativo a un minore? Documenti secretati?» Gli occhi di Rolland Mann fissavano un punto lontano al di sopra della testa dell’ometto. «A che ti servono le copie? Non sei nemmeno autorizzato a discutere di quei testimoni con Riker e Mallory... se non vuoi perdere il posto ed essere radiato dall’albo degli avvocati.» L’assistente del procuratore strinse i denti, le mani e sicuramente anche le chiappe. Che fare? Che fare? «Appena i detective se ne sono andati, mi ha telefonato Willy Fallon per chiedere cosa sanno quei due del vecchio caso di Ernest Nadler.» «Del nuovo caso. Non c’è mai stato un vecchio caso per il piccolo Nadler. L’idea fu tua, no? Non l’avevi architettata con l’avvocato di Toby Wilder?» Be’, questo gli tappò la bocca e il vice comandante della polizia si allontanò con l’intenzione di prendere un taxi e andare a casa. Avrebbe trovato Annie o l’appartamento vuoto? Era una domanda che si poneva ogni giorno da quando erano stati scoperti i delitti dell’Artista della Fame. 25 Ora seguiamo Toby Wilder nel Ramble. È stata Phoebe a osare. Ma lo perdiamo quasi subito di vista. Talvolta ci smarriamo in quella giungla, e allora ci mettiamo a correre, col cuore che scoppia, urlando su e giù per i sentieri per cercare una via d’uscita. Ogni persona che incontriamo potrebbe essere un folle assassino, ancora più pericoloso di quelli che circolano nei corridoi della scuola. Phoebe dice che è un buon allenamento. Questa è la scuola dei mostri. Ernest Nadler La piccola ambulanza non corrispondeva all’idea di Willy Fallon di lussuoso mezzo di trasporto, e l’autista stava diventando sgarbato. Gli ordinò di fermarsi davanti a quello che doveva essere il condominio di Toby Wilder, un edificio di mattoni rossi in una strada ombreggiata del Greenwich Village. Il nome di Susan Wilder sull’elenco era l’unica pista che le restava, ma al telefono non rispondeva mai nessuno. L’autista aprì lo sportello posteriore per azionare la piattaforma per la sedia a rotelle. «Lascia perdere» disse Willy, abbandonando la carrozzella e ogni pretesa di handicap. Scese, inforcò gli occhiali da sole e prese il sacchetto col denaro dalla borsetta. Diede all’autista una mancia generosa. Vedendo quel bel mucchio di contanti gli occhi dell’uomo si illuminarono. Serviva a cancellare il ricordo degli insulti subiti e a non farlo parlare con quei due poliziotti. «Aspettami.» Dopo un attimo Willy udì le gomme stridere contro il cordolo del marciapiede e le parve che l’autista ridesse mentre si allontanava a tutta velocità. Cazzone. Il posto libero venne immediatamente occupato da un’auto della polizia. Willy si rifugiò sull’altro lato della strada, scordando per un attimo che le pillole nella borsetta le erano state legalmente prescritte all’ospedale. Un agente in uniforme aprì la portiera posteriore. Scese un uomo, preceduto da un naso enorme. Era molto alto, ricco e ben vestito. Un bel fisico. Una creaturina dai capelli rossi scivolò fuori dietro di lui. Una strana coppia: un gigante con gli occhi da rana e una bambina con un sorriso da cartoni animati. Willy frugò nella borsa e prese il cellulare. Fingendosi una turista, scattò una fotografia. Quando l’auto della polizia si allontanò, si diresse verso la casa di Toby, ma si fermò a metà strada. Un energumeno mal vestito uscì dal portone e salutò la strana coppia. Il nuovo arrivato aveva un’aria minacciosa anche mentre sorrideva e si chinava per stringere delicatamente la mano della bambina. Sembrava un gorilla e neppure secondo gli standard di New York lo si sarebbe potuto scambiare per una babysitter. Tuttavia la piccola fu affidata alla sua custodia mentre l’uomo alto entrava nell’edificio. Willy si avvicinò e sentì la bambina chiamare la sua nuova balia “detective Janos”. Un altro maledetto sbirro. Willy guardò in alto e scorse dei poliziotti a una finestra del terzo piano. Cosa stava succedendo lassù? Avevano arrestato Toby Wilder? E perché quella bambina... Oh, no. Aveva attirato l’attenzione del detective. Willy abbassò gli occhi sullo schermo del cellulare per osservare in modo più discreto. La misteriosa bambina tirò la manica dell’uomo per informarlo che se si gettava un topo nel water bisognava tirare l’acqua almeno tre volte prima che annegasse. «Quattro volte è anche meglio.» Abbassando gli occhiali scuri, Willy salì sul marciapiede, si chinò per essere al suo livello e le disse: «Io amo i topi». Il poliziotto babysitter s’insospettì all’istante, forse perché qualsiasi newyorkese sano di mente è nemico dei topi. Senza farsi vedere dalla bambina, le mostrò il distintivo e mimò le parole: Se ne vada. Willy attraversò la strada e si sedette sui gradini della casa di fronte. In una specie di duello, scattò un’altra foto col cellulare e il detective Janos la immortalò con il suo. Rassicurato che Coco e Janos andavano d’accordo, Charles Butler salì al terzo piano e fu fatto entrare nell’appartamento da un agente in uniforme. I due detective erano nella stanza in fondo al corridoio. «Ehi, Charles» lo chiamò Riker. Lo psicologo li raggiunse nel bel mezzo di una discussione. Un uomo furibondo e mal vestito, che un grosso mazzo di chiavi identificava come il custode dello stabile, si stava lamentando con Mallory: «I suoi uomini mi hanno preso l’argano dalla macchina. La mia macchina. Toby non guida. Ho bisogno di quell’argano per portare un carico di mobili nel New Jersey. È il mio secondo lavoro, trasporti a breve distanza. Quando lo riavrò?». Mentre Charles osservava a bocca aperta le notazioni musicali che coprivano ogni centimetro di muro, entrò un poliziotto con un trapano a batteria. «L’abbiamo trovato in cantina.» E il sempre più furibondo custode gridò: «È di mia proprietà! Quel trapano mi serve!». «Le rilasceremo una ricevuta.» Mallory ruotò su se stessa indicando col braccio la stupefacente quantità di note che copriva le pareti. «Cosa mi dice di questo?» «È sempre stato lì. Il ragazzo l’ha fatto quando è uscito dal carcere minorile... oh, forse dieci anni fa.» A un cenno di Mallory l’uomo uscì, e nella stanza entrò una piccola donna con una gigantesca telecamera. Riker le chiese di riprendere ogni centimetro quadrato delle pareti. Infine i due detective si rivolsero all’esperto di personalità eccezionalmente dotate. «È jazz» decretò Charles. «Lo si capisce dagli accordi più ampi.» Allungò la mano verso una serie di note disposte verticalmente. «Accordi più ampi delle triadi... Non vi aiuta?» No, sembrava di no. Riker si strinse nelle spalle e Mallory, naturalmente, si irritò. «Quello è una tredicesima di sol, un accordo espanso» proseguì Charles. «Gli intervalli espansi sono un’altra caratteristica.» Riker sorrise. «Scommetto che non riesci a canticchiare nemmeno una battuta.» «Difficile. C’è una melodia sottostante ma è avvolta entro un’orchestrazione complessa.» «Come quella di una vecchia big band?» «Di più... direi di una grande orchestra sinfonica.» Charles indicò zone diverse mentre elencava gli strumenti. «Legni, ottoni e archi. E là... la sezione delle percussioni. Qui, una sezione completa di sassofoni. Non avete trovato altre partiture?» «Nulla» disse Mallory. «Nessuna musica. Il ragazzo non ha neppure uno stereo. Probabilmente l’ha impegnato per comprarsi la droga.» «E la radio è sfasciata» aggiunse Riker. «Come se l’avesse sbattuta contro il muro in una giornata storta.» Per Charles era difficile credere che il ragazzo avesse solo quella canzone dentro di sé. «Se trascrivo questa musica posso chiedere l’opinione di un esperto sugli influssi stilistici. Il jazz non è il mio forte.» «Veramente» intervenne Riker «noi volevamo solo sapere se è pazzo.» «Oh... Be’, non direi che questo rivela una malattia mentale.» Charles indicò i punti in cui le note erano state cancellate e riscritte. Il ripensamento, il cambiamento d’idea dell’artista, penetrava fin nelle fibre della melodia e le variazioni erano riportate con molta cura. «Il ragazzo si è buttato a capofitto nella notazione. Lo si deduce dall’impazienza con cui la mano ha tracciato le gambette delle note e le indicazioni di tempo. I punti sono quasi dei trattini... come se non vedesse l’ora di mettere giù tutto. Si direbbe che il lavoro è senza cuciture, come un gesto ininterrotto. Eppure... direi che ci ha lavorato sopra per molto tempo. Prima di cominciare a scrivere sul muro aveva già disposto tutti gli strumenti con i relativi trasporti di ottava per fonderli insieme. Molta gente non sa che alle stesse note scritte corrispondono in alcuni strumenti suoni diversi, anche quando...» Si girò verso il pubblico costituito da due detective annoiati. «Scusate.» Tornò a guardare la parete. «Questo ragazzo aveva già in testa la sua orchestrazione come un’opera d’arte compiuta prima di cominciare a scrivere. E l’assenza di musica nell’appartamento – neppure una radio per ascoltare una canzone – è molto rivelatrice. È come se, anni fa, lui avesse tirato fuori tutta la musica con un unico atto frenetico. E poi... il silenzio.» «È un tossico» disse Mallory. «Il vizio probabilmente è iniziato a Spofford. Il poliziotto che l’ha rinchiuso ha detto che Toby prendeva un sacco di botte e non si difendeva. Così l’hanno tenuto separato dagli altri.» «È capitato più volte» aggiunse Riker «a cominciare da quando aveva tredici anni.» «Un ragazzino in isolamento? È una vergogna!» esclamò Charles. Ora tutto gli era chiaro: in quel fiume di musica lesse nella nota finale la morte. Il sangue del ragazzo era fluito via in tutte quelle note. Con l’animo leggero, Toby Wilder fluttuava attraverso le giornate, privo di gravità come se vivesse su Marte. Giornate silenziose. Afose. I suoni della città giungevano attutiti al suo cervello imbottito di analgesici, e due volte la cameriera dovette chiedergli: «Il solito?». «Sì.» Con o senza appetito, ordinava sempre un cheeseburger con lattuga e pomodoro, un pasto equilibrato, gli aveva detto sua madre. Ricordava la prima volta che mamma l’aveva portato in quel locale. Era stato rilasciato il giorno prima. Mentre era in prigione lei aveva venduto l’appartamento uptown e si era trasferita nel Village, più vicina al lavoro. O così gli aveva detto. In seguito Toby aveva scoperto la verità: mamma aveva venduto la casa per garantirgli una rendita annuale che gli avrebbe permesso di vivere dopo la sua morte. Gli aveva insegnato a orientarsi nel labirinto di strade del Village che tanto confondeva i turisti, e durante quell’unico anno trascorso insieme, ogni giorno si erano seduti a quel tavolo per parlare del futuro, come se tutte le sue possibilità di diciassettenne non fossero morte nel carcere dove aveva perso due denti, la verginità e la dignità. Aveva però acquisito resistenza al dolore e a cose peggiori. A tredici anni piangeva per sua madre. A quattordici aveva imparato a elemosinare farmaci dai medici per le botte che prendeva, e quando le ossa fratturate diventarono troppe, si era conquistato una stanza tutta per lui. Così, nel giorno di visita, poteva prendere la mano di sua madre e dirle che non andava troppo male. In quel momento si sentiva solo vagamente confuso e sua madre era morta. Di lei gli restava l’abitudine di pranzare in quel ristorante, l’unica ragione per cui portava l’orologio. Senza il rito del cheeseburger, le sue giornate non sarebbero state in piedi. Phoebe osservò Toby Wilder che finiva di mangiare. Dead Ernest le guardava le mani che strofinavano l’accendino d’oro. «Se continui così» disse «cancellerai la data. Quasi non si legge più. Sembrano graffi.» Lei ripose il talismano nella borsetta. Quando Toby uscì dal ristorante, Phoebe andò a casa a fare penitenza, cioè a leggere fumetti ad alta voce per il bambino morto che non poteva mai togliere le mani dalle tasche. I fumetti erano la passione del vero Ernie Nadler, il bambino vivo. Erano la sua religione e la sua filosofia. Un giorno, dopo la scuola, Ernie l’aveva portata nello studio di suo padre e aveva aperto una porta da cui si entrava in una specie di grotta piena di fumetti, più di quanti Phoebe ne avesse mai visti, pile, muri di carta. Era la collezione del padre. Alcuni albi, che risalivano agli anni Trenta, erano appartenuti al nonno di Ernie. Quel giorno Ernie le aveva raccontato che, quando era all’asilo, il padre gli leggeva le storie prima di dormire. Girava le pagine di quei fragili albi e leggeva ad alta voce per il suo unico figlio. Era il suo ricordo più bello. «Gli eroi dei fumetti sono nel dna della mia famiglia» aveva detto Ernie. E così, naturalmente, lei capì perché doveva morire. 26 Spider Girl è in una fase di mutazione. Stamattina, nell’ora di algebra, Willy Fallon esibisce la sua nuova manicure e flette le unghie acuminate davanti ai miei occhi. Immagino che con quegli artigli voglia assomigliare ancora di più a un animale... forse un gatto? Be’, sarebbe un bel progresso per un insetto come Willy. Comunque io capisco il messaggio e al suono della campanella scappo. Ernest Nadler Appena Charles infilò la chiave nella serratura, Coco salutò con un abbraccio il poliziotto di scorta e con un altro quello di guardia alla porta. Entrati in casa, Charles posò la busta contenente le fotografie delle pareti di Toby e aprì un sacchetto di carta per mostrare alla bambina quello che aveva comprato in cartoleria: un album di fogli bianchi rigati. «Carta da musica.» Un’ora dopo erano ancora seduti al tavolo della cucina. In mezzo c’era una ciotola di popcorn, e la partitura di una sinfonia jazz. Charles non faticò a mettere in ordine le fotografie della polizia. La musica seguiva una progressione logica e lui trascrisse rapidamente le note sul pentagramma. La bambina invece stava ancora lottando con la prima fotografia ed era evidente che il suo interesse era calato. Charles agitò una mano per richiamare la sua attenzione e lei rispose con un gesto e un sorriso stanco. «Coco, se fai un sonnellino potrai stare sveglia fino a tardi. Stasera usciamo.» Preferiva non chiamare la signora Ortega perché la donna rifiutava di essere pagata per qualsiasi cosa riguardasse la bambina. «Ti piace il jazz?» Lei annuì, chinò la testa e continuò a copiare le note, estremamente seria. La sua soglia di attenzione per quell’esercizio era maggiore di quanto Charles si aspettasse, probabilmente perché stava lavorando per Mallory. Forse la loro relazione pericolosa aveva un aspetto positivo. Con gli altri Coco monologava, ma con la sua amata detective faceva vere e proprie conversazioni. Charles la osservò mentre copiava: gambette senza note, note senza gambette, numeri e simboli disposti in un ordine sconcertante, alcuni che toccavano il rigo quasi per caso. Quel linguaggio le era totalmente estraneo. Ancora una volta quelle due creature solitarie si salutarono con la mano come da pianeti lontani, pur essendo sedute allo stesso tavolo. Solo una cosa era tragicamente chiara. Lei aveva un piccolo sogno. Che non si sarebbe mai avverato. Coco posò la matita e fissò la porta, tendendo l’orecchio. Aspettando Mallory. «Willy Fallon spiava la casa di Toby.» Il detective Janos posò sulla scrivania un tabulato delle chiamate al cellulare. «Ha passato tutti i Wilder sull’elenco per trovarlo.» Il tenente Coffey guardava lo schermo del computer, facendo scorrere le immagini della donna scaricate dal telefono di Janos. «Cosa è capitato all’agente di guardia in ospedale? Dove diavolo era?» «Ho parlato con il suo sergente» rispose Janos. «Willy ha rifiutato la protezione della polizia e lui ha richiamato la guardia.» «E quand’è che quell’idiota contava di dirci che la vittima di un crimine girava libera per le strade?» Jack Coffey alzò una mano per dire che non importava e si girò verso la finestra affacciata sulla sala operativa. Seduto a una scrivania accanto alla scala c’era Arthur Chu, un poliziotto in borghese in bilico tra il distintivo bianco di un agente in uniforme e quello d’oro di un detective. Durante l’assenza di Mallory, Chu era stato preso in prestito da un altro distretto. Aveva lavorato bene nei pedinamenti, molto bene. E Coffey aveva dimenticato di restituirlo alla squadra cui apparteneva. «Ordina ad Arty Chu di pedinare quella donna. Digli che deve starle alle calcagna finché non chiudiamo il caso. Dove si trova ora la nostra ragazza? Lo sappiamo?» «L’ho trovata.» Janos mostrò i dati delle celle dei cellulari. «Pare che Willy stia tornando all’ospedale.» L’effetto dell’ultimo analgesico era svanito. Dolorante e stanca, Willy Fallon non vedeva l’ora di coricarsi nel suo letto d’ospedale e ordinare altri farmaci per lenire il dolore dei muscoli e dei tendini. Andando verso la sua stanza passò davanti a un orologio nel corridoio. Era giusto in tempo per il massaggio del fisioterapista. Oh, e voleva il suo campanello, quello che usava per far impazzire gli infermieri. Aprì la porta e trovò un inserviente che stava togliendo le lenzuola dal letto. Be’, il servizio era migliore che nel suo albergo. Un’altra donna, quella che lei chiamava “Ehi Tu”, stava riponendo in una scatola le boccette rimaste sul comodino. «Ehi, quella roba mi può servire!» «Non più» disse l’infermiera. «Lei è stata dimessa, signorina Fallon.» «Per niente. Non ho fatto il check out. Avevo solo qualche faccenda personale da sbrigare.» Persone da seguire e persone da minacciare. Era stata una giornata molto piena. Ora però voleva il suo dannato letto, le sue medicine e i servizi delle infermiere. E il massaggio... oh, quanto ne aveva bisogno. «Sono tornata. Fai venire il mio medico. Digli che voglio altre pillole. Muoviti!» Ma durante la sua assenza era cambiato qualcosa. L’infermiera non aveva la solita aria da cane bastonato. Sembrava addirittura allegra e Willy decise di rimetterla al suo posto. «Ehi tu, mi stai ascoltando?» L’infermiera ripose l’ultima boccetta nella scatola. «Il suo conto è stato saldato. Lei è stata dimessa. Ci serve il letto.» «Il conto l’hanno pagato i miei genitori?» «Il loro avvocato.» «Ma hanno chiamato, vero? Hanno chiesto di me?» Sembrava troppo disperata? L’infermiera la detestava, eppure smise di sorridere e la guardò con occhi compassionevoli. «I miei genitori hanno lasciato un messaggio?» La risposta a quella domanda era terribilmente importante e l’infermiera se ne accorse. «Be’... i cronisti hanno chiamato tutto il giorno.» Lo disse senza cattiveria, lasciando che Willy traesse l’ovvia conclusione: mamma e papà non avevano chiamato e mai lo avrebbero fatto. Con lei avevano chiuso. Willy crollò sul materasso, dolorante, stanca e affamata. L’albergo le offriva solo un letto, niente di più. E ora chi si sarebbe preso cura di lei? Sconfitta, aprì la borsetta, tirò fuori il sacchetto di carta e mostrò una mazzetta di banconote come un’offerta. «Mi lasci restare?» «Ci serve il letto.» La amavano. La adoravano. Fotografi, scatti, flash e riflettori. Una rinata Willy Fallon, rinvigorita da quattro strisce di cocaina, si mise in posa accanto a una limousine parcheggiata davanti al suo albergo. Abbassò gli occhiali da sole per accontentare i paparazzi e seguì le loro istruzioni: «Ehi, Willy, facci un sorriso» e «Willy, baby, girati da questa parte». Intanto i cronisti la assediavano con i microfoni, chiedendole non dove era stata in tutto quel tempo o da quanto era tornata in città, ma se conosceva Humphrey Bledsoe, la vittima dell’Artista della Fame. E quell’altra? «Signorina Fallon, chi è la terza vittima del Ramble?» Willy ignorò le domande. Aveva una storia migliore, e dopo averla raccontata si infilò nella limousine e diede all’autista il biglietto della detective Mallory. «Questo è l’indirizzo.» Quando partirono, si girò a guardare dal finestrino posteriore. Bene. I cronisti la seguivano. «No, non c’è niente di vero!... Sì, quella donna ha mentito!» Jack Coffey sbatté il telefono in faccia al redattore di un’emittente televisiva, il terzo che chiamava per conoscere il nome della detective che aveva aggredito Willy Fallon nel suo letto d’ospedale. Oh, Dio. Perché doveva capitare proprio adesso? Se non era l’ispettore capo a togliere immediatamente il distintivo a Mallory, l’avrebbe fatto il sindaco... e non per la falsa accusa di aggressione ma per la pubblicità negativa che ne derivava. Il tenente alzò gli occhi al cielo dove forse c’era Dio e allargò le braccia per chiedere: «E a te, che cosa ha fatto Mallory?». I giornalisti si stavano radunando sul marciapiede davanti al distretto. Maledetti sciacalli. Coffey aprì le veneziane per vedere la sala operativa e fece segno al detective Gonzales di far entrare la visitatrice, già annunciata come la Regina delle Stronze. Da mezz’ora la signorina Fallon aspettava, reclamava, strepitava. Prima che la donna potesse aprire bocca, il tenente disse: «Mi dispiace, la questione non mi compete. È una causa civile... o lo sarà, se rivela a quei cronisti il nome della detective. Il suo avvocato la denuncerà». «Cosa...» «Le do nome e numero di telefono dell’avvocato.» Il tenente sfogliò la sua rubrica. «Robin Duffy? Sì, è lui.» Guardò il detective Gonzales. «Hai presente? Il tipo che qualche tempo fa ha intentato causa ai federali... e gli ha fatto mangiare merda.» Willy Fallon sorrise, per nulla impressionata da quella favola. «Sono venuta qui per sporgere denuncia contro la detective Mallory.» «Per comportamento brutale della polizia» disse Coffey. «Questa è la voce che corre fra i cronisti. La denuncia deve essere rivolta all’ufficio Affari Interni, ma non c’è fretta. Prima deve pagare la cauzione. Il detective Gonzales si occuperà della procedura.» Con un sorriso radioso, Gonzales, che aveva sopportato gli insulti e gli sfoghi di Willy, consegnò al tenente la denuncia di Riker dell’aggressione subita, scritta pochi minuti prima e retrodatata. «Il suo avvocato dovrebbe leggerla» la informò Coffey «prima che lei venga chiamata in giudizio penale.» Si appoggiò allo schienale ostentando indifferenza. «Ho saputo che ha preso il collega di Mallory per le palle... per così dire.» Finse di leggere il verbale. «Oh, letteralmente. Ha proprio tenuto quel poveretto per le palle. Questo è un reato di natura sessuale. Il detective Riker era disposto a lasciar correre in considerazione di quello che le era successo. Ma ora credo che dovremo sbatterla dentro, signora.» «E se mandassi via i cronisti?» «Buona idea. Ma dovrebbe dichiarare alla stampa di essersi sbagliata. Potremmo dire che era intontita dai farmaci, magari è stata un’allucinazione.» Jack Coffey spinse un blocco giallo sulla scrivania. «Voglio una dichiarazione scritta.» Willy eseguì. Quando uscì dall’ufficio, Coffey andò alla finestra e guardò in strada. Impiegò un po’ di tempo a individuare l’agente Chu tra i passanti. Il giovane poliziotto era molto abile a mimetizzarsi. Il tenente aspettò che Willy Fallon uscisse dal distretto... e vide Chu che la seguiva sul marciapiede. L’assistente del procuratore col papillon giallo non aveva una segretaria personale né un usciere per mettere alla porta i vip su di giri. Ma Cedrick Carlyle non si allarmò. I signori Fallon, i potenti proprietari delle Industrie Fallon, si erano ritirati dalla vita pubblica per nascondersi dietro il muro di cinta della residenza di famiglia nel Connecticut, un porto sicuro dove la figlia era persona non gradita. Willy Fallon si protese sulla scrivania e fece scorrere le immagini sul cellulare per mostrargli la foto di un uomo di statura gigantesca vicino a una bambina minuta con i capelli rossi. «Chi è questo tizio?» «È Charles Butler, uno psicologo. A volte lo consultiamo come esperto per i testimoni.» L’assistente Carlyle le guardò gli occhi, folli e rabbiosi. Maledetta pazza. «Non scherzi con lui, signorina Fallon. Il dottor Butler è molto ricco di famiglia, ha sangue più blu del vostro e alcuni dei suoi amici più stretti portano la pistola.» Ma chi era la bambina sul display? Butler non aveva figli. Nell’immagine seguente la bambina teneva per mano un energumeno. Janos? Sì, così si chiamava quel detective dell’unità Crimini Speciali. Poi Carlyle notò il numero civico sul portone dell’edificio. Scosse il capo. No! Quello era l’indirizzo sul mandato di perquisizione. Le svampite dell’alta società potevano essere pericolosamente stupide. Cosa diavolo era andata a fare a casa di Toby Wilder? Ora Carlyle era davvero spaventato. Le strappò il telefono di mano per osservare meglio la foto. Chi era quella bambina? Perché era stata affidata a un detective? Ebbe un’illuminazione. Oh, Cristo. Un’altra piccola pel di carota. Willy interruppe le sue considerazioni. «Ehi!» lo chiamò, poi batté la mano sulla scrivania. «Hai detto di noi alla polizia, vero?» «No, mai.» «Risolvi subito questo casino! È il tuo lavoro, no?» Mentre la donna continuava a farneticare, lui trasferì le immagini della bambina sul suo cellulare. Dall’auto parcheggiata in Hogan Place i due detective osservarono Willy Fallon uscire dall’imponente palazzo grigio che ospitava l’ufficio del procuratore distrettuale e un esercito di oltre cinquecento avvocati. Riker rispose al telefono, ascoltò e disse: «È Janos. Carlyle ha appena chiamato Rocket Mann». «Ecco il nostro ragazzo.» Mallory indicò l’agente in jeans e occhiali da sole. Arthur Chu era un segugio perfetto in quella città multietnica. Aveva i ricci capelli castani della madre, gli occhi orientali del padre e l’accento del Bronx. Con l’aiuto di qualche accessorio, un berretto o gli occhiali da mettere o togliere, poteva mimetizzarsi ovunque, avvantaggiato anche dal viso infantile. Nessuno lo avrebbe scambiato per un poliziotto. A ventisei anni, l’età di Mallory, Chu sembrava uno studente delle superiori. Nello specchietto retrovisore Riker osservò l’agente seguire Willy lungo la strada e sparire dietro un angolo. Da quando era tornata in città quattro settimane prima, Mallory non aveva prestato attenzione a quel ragazzo e, ora che l’aveva notato, Riker si augurava che non la deludesse. «Chu è in gamba?» «Sì» rispose Riker. «Arty ha lavorato a uno dei miei casi mentre tu eri via. Credo che non abbia dormito per tre giorni. Ce la mette tutta per fare bella figura.» Accidenti, aveva scelto male le parole. Nel lessico di Mallory quello era un segno di debolezza. Il telefono della detective squillò e Riker tirò fuori una banconota da dieci. «Scommetto che è lui.» «Non vale.» Mallory gli mostrò il nome di Chu sul display e chiese: «Cosa è successo?». Guardò Riker scuotendo il capo: non era successo niente... e non era contenta. Con voce dura disse: «Non devi chiamare ogni trenta secondi». Riker le prese il telefono di mano e con tono cordiale spiegò al giovane poliziotto: «Arty? Se Willy uccide qualcuno, chiama. Altrimenti limitati a prendere appunti». Rolland Mann uscì dall’ascensore e si diresse al suo appartamento. La giornata di lavoro non era finita, ma doveva sapere se Annie era ancora là. Alle chiamate aveva risposto la segreteria telefonica e, sebbene quello fosse normale per sua moglie, l’ansia lo soffocava. Aprì la porta e la trovò accasciata a terra accanto a una valigia pronta, spaventata e in lacrime. S’inginocchiò e disse, molto dolcemente: «Va tutto bene, Annie. Non sono pazzo». Annie si rialzò lentamente sulle gambe malferme. Lui la prese tra le braccia e la portò in camera da letto, la fece coricare e la coprì con la trapunta. Frugò nel cassetto del comodino e scelse una pastiglia tra molte altre. Dopo avergliela data con un bicchiere d’acqua, si sedette sul letto e la vegliò finché il sonnifero fece effetto e Annie chiuse gli occhi. Aveva bisogno di lei, e la temeva. Sua moglie era consapevole del potere che aveva su di lui? Rolland andò a prendere la valigia e la svuotò. Mentre piegava e riponeva gli indumenti nei cassetti sussurrò, per non svegliarla: «Ti andrà meglio la prossima volta, Annie». Controllò le chiamate sulla segreteria del cellulare. Il messaggio dell’assistente Carlyle era conciso: «Chiamami». Ma molto di più rivelavano la voce lamentosa e le fotografie che apparvero sul display di Rolland. La prima ritraeva una bambina davanti al condominio di Toby Wilder in compagnia di Charles Butler, un consulente della polizia. Nella seconda, lei teneva per mano il detective Janos della Crimini Speciali. Una bambina dall’aspetto strano... e familiare. Ora la riconosceva. Il giorno del funerale, mentre era in fila per porgere le condoglianze, quella bambina gli era passata accanto tenendo per mano la detective Mallory. Era una delle vittime di Humphrey Bledsoe? Quel pervertito aveva sempre avuto un debole per le piccole pel di carota. Un altro pensiero lo colpì mentre rimetteva in tasca il cellulare, prendeva le chiavi e correva alla porta. La bambina era un testimone. 27 Mentre mi sto vestendo per andare a scuola mio padre entra nella mia stanza. Vede i morsi e i lividi su tutto il corpo. Mamma avrebbe urlato. Lui mi fa solo un cenno con il capo. Credo che voglia lodarmi perché non faccio la spia anche se mi picchiano a sangue ogni giorno. Poi esce senza dire una parola. Nessun aiuto. Sono solo. Posso sopportare le loro botte senza lacrime, ma mio padre, che non ha mai alzato una mano su di me, mi fa piangere. Ernest Nadler Il visitatore non era stato annunciato e l’agente di guardia era sparito. «Tornerà fra pochi minuti, dottor Butler.» Rolland Mann gli porse un biglietto che lo identificava come vice comandante della polizia. «Le dispiace se entro?» In effetti, a Charles dispiaceva. «Ho saputo che il comandante Beale è in ospedale. Come sta?» «È di nuovo sotto i ferri.» Il vice comandante, uomo di statura media, doveva alzare la testa per guardare l’altissimo psicologo. «C’è stata una complicazione.» «Mi dispiace.» Charles era doppiamente rammaricato perché non aveva una buona opinione del probabile successore di Beale. Il filmato dell’interrogatorio di Toby Wilder lo aveva disgustato, e ora era turbato dai movimenti furtivi dell’uomo e dalle occhiate che lanciava verso l’interno dell’appartamento. «Cosa posso fare per lei?» «Sono venuto a vedere la nostra super testimone.» Il lampo negli occhi e le labbra protese lo tradirono. Rolland Mann stava gettando l’amo, tastando il terreno. Charles sapeva di non potergli mentire. A causa del rossore rivelatore, era geneticamente programmato per dire la verità. Tuttavia, un’altra caratteristica congenita gli permetteva di fingersi tonto con grande naturalezza. Sorrise, consapevole che la sua espressione sciocca lo faceva sembrare un clown. Se inclinava la testa di lato diventava il perfetto ritratto di un sempliciotto. Quindi non fu necessario aggiungere: Testimone? Quale testimone? Rolland gli scoccò un sorriso accondiscendente. «La bambina con i capelli rossi, dov’è?» «La mia pupilla? Sta facendo un sonnellino.» «Dottor Butler, questa faccenda riguarda la polizia. Devo scambiare qualche parola con la bambina... da solo.» «Non credo sarà possibile.» Rolland Mann fece per entrare in casa. Evidentemente abituato a farsi cedere il passo, si trovò bloccato dalla massa inamovibile del tutore di Coco, che si chinò su di lui e molto cortesemente ripeté: «Non è possibile». «Conosco Toby Wilder da sempre, posso dirvi questo.» L’uomo con i capelli bianchi teneva lo sguardo fisso sui detective, ma senza guardarli negli occhi. Era un vezzo piuttosto comune a New York, com’era comune per quelli della sua razza essere evasivi. «Ora sapete che il ragazzo è rappresentato da un legale e tutte le vostre domande devono passare da me.» Maledetti tutti gli avvocati. L’ufficio di Anthony Queen era piuttosto disordinato ma mostrava segni di una recente e sospetta ripulitura. Un rettangolo chiaro alla parete indicava che prima lì c’era un calendario. Sulla scrivania non c’erano carte, né l’agenda degli appuntamenti e la rubrica degli indirizzi, solo un bicchiere colmo di penne e matite. Lo sgombero era probabilmente stato eseguito in fretta, dopo l’annuncio dei poliziotti alla porta. Mallory lanciò un’occhiata alla segretaria, un tipo paffuto e materno che indugiava sulla soglia. E a giudicare dalla sua espressione, la donna si era accorta che il gioco era stato scoperto. Forse l’avvocato era un burlone e aveva voglia di scherzare. Quella commedia sembrava recitata alla perfezione. Quasi. Mallory prese una matita appuntita e la scagliò sopra la testa dell’uomo. Con rapidi scatti del capo Anthony Queen reagì prima al suono del piccolo missile che urtava la parete e poi al gemito sconsolato della segretaria. «Immagino» disse Riker «che le carte con i loro buffi puntini Braille siano state infilate in un cassetto prima del nostro ingresso. Ho ragione?» «Cieco totale» aggiunse Mallory. «Non mi sorprende che il suo cliente sia finito in prigione.» «Carcere minorile» la corresse il cieco, ma con un sorriso per farle capire che non si era offeso. Se Mallory lo aveva messo alla prova, lui aveva fatto lo stesso con lei e apparentemente il giudizio era positivo, perché piegando appena la testa canuta, un gesto cortese come un inchino, indicò le sedie davanti alla scrivania. «Accomodatevi, prego.» I detective restarono in piedi e Queen se ne accorse perché non udì il rumore delle sedie spostate. Continuava a guardarli, spostando gli occhi da Riker al punto in cui doveva essere Mallory. Ma lei era passata dall’altra parte della scrivania e si trovava accanto all’avvocato, così silenziosa che lui trasalì quando disse: «Toby Wilder non ha un lavoro e da quando è uscito dal carcere la sua fedina penale è pulita». «Non ci sono denunce di scippi o furti» proseguì Riker. «Quindi noi ci chiediamo dove il ragazzo trovi i soldi per pagarsi la droga.» Il vecchio scosse il capo incredulo. Anche la segretaria era sorpresa. Non sembrava che fingessero. Con denaro sufficiente a coltivare il vizio ed evitare le crisi di astinenza, un tossico poteva apparire normale e sobrio sette giorni su sette. C’erano persino chirurghi capaci di gestire la loro dipendenza conservando mano ferma in sala operatoria. Toby Wilder sapeva tenere il suo vizio sotto controllo. Cos’altro poteva fare Mallory per cogliere in fallo il cieco? «Sappiamo che è lei che lo mantiene. Tutto il denaro di Toby arriva da lei.» L’avvocato scosse ancora il capo. «Non posso discutere del suo...» Mallory gli infilò in mano alcuni fogli. «Sono gli estratti conto del suo cliente. Tutti gli assegni versati risultano firmati da lei.» Aveva scoperto poco altro. L’avvocato non aveva un computer da setacciare. Guardò la fila di schedari che contenevano i documenti originali. I luddisti creavano sempre un sacco di problemi. «Certo che firmo gli assegni. Sono l’esecutore testamentario di sua madre. E pago anche le tasse per Toby. È tutto regolare.» «Lei non è un penalista» insistette Riker. «Non si occupa di processi, solo di testamenti e patrimoni, eppure era presente all’udienza di convalida dell’arresto di Toby Wilder quindici anni fa.» Bel colpo. Mallory gli stava addosso. «Di chi fu l’idea di rifilare al ragazzo un avvocato cieco?» Il vecchio inarcò le sopracciglia. Sorridendo e con voce estremamente gentile rispose: «Quel giorno andai in tribunale per fare un piacere alla madre di Toby. Il giudice aveva già incaricato un avvocato penalista, ma io non lo sapevo... e neppure la signora Wilder». Ruotò gli occhi inespressivi da un detective all’altro. «Sapevo che l’avreste ritenuto interessante.» «Fu lei a fare la dichiarazione di non colpevolezza» disse Mallory. «Vero,» confermò l’avvocato «ma il pubblico ministero, mi pare si chiamasse Carlyle, mi prese da parte e mi mise al corrente di un patteggiamento... e di una confessione. Vedete, quando la polizia portò Toby al distretto per interrogarlo, un detective fece firmare a Susan Wilder la rinuncia alla patria potestà. E quella fu un’altra sorpresa. Lei non aveva idea di cosa avesse firmato. Vi ho detto che la madre di Toby era cieca? È così che ci siamo conosciuti. Susan era un’insegnante e imparai da lei a leggere il Braille quando persi la vista.» Mallory e Riker si guardarono. Rocket Mann aveva ingannato una donna cieca. Rolland Mann premette la mano contro la porta, illudendosi di poterla tenere aperta. «Dottor Butler, glielo ordino. Mi faccia entrare. Devo parlare con quella bambina.» «No. Ho visto i suoi metodi con i bambini. Ricorda quel vecchio filmato dell’interrogatorio di Toby Wilder? Una cosa brutale.» Mann stava sbirciando dietro le sue spalle e rinnovò gli sforzi per introdursi in casa. «Mi lasci passare!» Charles girò la testa e vide Coco che, disturbata dalle voci alte, agitava le mani e barcollava. Rolland Mann premette sulla porta con tutto il suo peso. «Non mi costringa a richiamare il poliziotto!» Charles lo spinse fuori semplicemente chiudendo la porta, come una mosca fastidiosa. Rolland Mann batté i pugni sul legno, sempre più forte mentre i tre chiavistelli scattavano. Con le mani premute sulle orecchie, Coco corse in fondo al corridoio. Charles la raggiunse in camera, sedette sul letto a gambe incrociate e la cullò a lungo. Era sconvolta, il suo piccolo mondo era stato minacciato. Teneva stretto tra le mani il telefono con un tasto solo come se fosse la sua àncora di salvezza. E lo era. Lui glielo prese dolcemente. «Buona idea. Chiamiamo Mallory, che ne dici?» «Non so niente di Ernest Nadler» ribadì l’avvocato cieco. «Toby fu incriminato per la morte di un barbone mai identificato.» Riker si avvicinò alla scrivania. «Dov’era il padre di Toby mentre succedeva tutto questo?» «Sparito da tempo» rispose Anthony Queen. «Il signor Wilder abbandonò la famiglia quando Toby aveva solo dieci anni. Lo so perché fui io a farlo dichiarare legalmente morto. Susan aveva bisogno di vendere l’appartamento e l’assenza del marito glielo impediva.» «Torniamo alla rinuncia alla patria potestà» disse Mallory. «Lei si è mai curato di contestarla?» «Naturalmente. E il giudice era dalla mia parte. Toby era minorenne, un ragazzino. Così insistetti per annullare la confessione. Ma a quel punto arrivò l’avvocato nominato dal tribunale. Era stato incaricato dalla Scuola Driscol. Un legale costoso e di talento, di classe molto superiore alla mia. Non posso rivelare la conversazione nell’ufficio del giudice, ma quando la corte fu riconvocata, Toby si dichiarò colpevole di omicidio preterintenzionale. Il patteggiamento gli precludeva la possibilità di ricorrere in appello, ma sua madre e io presentammo denuncia contro il detective Mann. La protesta di due ciechi arrabbiati. Mi sono sempre chiesto se i poliziotti degli Affari Interni ridessero di noi. Immagino che della dichiarazione di Susan abbiano fatto un aeroplanino di carta. Ho impiegato quattro anni per far uscire Toby anticipatamente. Sua madre stava morendo. Ho regalato loro un anno per dirsi addio.» Riker udì il telefono di Mallory che squillava. Si girò e lei era sparita. La segretaria di Rolland Mann non alzò gli occhi dal computer. La signorina Scott sogghignava e lui pensò che si fosse trovata un altro lavoro. Senza dubbio ci sarebbe stata la sua lettera di dimissioni sulla scrivania. Non era questa la sorpresa che lo aspettava quando aprì la porta dell’ufficio. La detective era piazzata al suo posto, appoggiata allo schienale della sua sedia, in attesa di essere licenziata per grave insubordinazione. «Mallory, sei pazza?» «Oh, sì. Lo chieda a chi vuole.» Sollevò il giornale posato sul tavolo per mostrare la pistola nascosta sotto, e non era la semiautomatica d’ordinanza della polizia. Era un revolver, grosso come un cannone. Davanti alla poliziotta dal grilletto facile Rolland provò i sintomi tipici della paura: batticuore, tensione, bocca arida. La faccia di Mallory era una maschera e la sua voce era priva di espressione quando disse: «Ho saputo da Charles Butler che si interessa a una bambina... Un interesse malsano, l’ha definito». Prese il revolver e ne esaminò la bocca. Ora manifestava un’emozione... amava quell’arma. Mann sentì qualcosa di umido che si diffondeva all’altezza dell’inguine. Gli scorreva giù dalle gambe. Nell’aria c’era odore di piscio. Colpito. Mallory rinfoderò la pistola e uscì dall’ufficio. 28 Siamo diventati bravi a seguirlo, Phoebe e io. Oggi non perdiamo di vista Toby per molto tempo, prima di lasciarcelo sfuggire nel Ramble. Poi sentiamo il grido, una voce adulta, piena di rabbia. Non capiamo da dove viene. Non vorremmo, ma corriamo verso la voce, attraverso cespugli e felci fino a una radura che puzza come una fogna a cielo aperto. Ci sono altri odori, birra e vomito. Un nugolo di mosche nere. Migliaia di moscerini. E c’è Toby su un sentiero davanti a noi. Accanto a lui un uomo dall’aspetto selvaggio – lunghi capelli unti, vestiti sporchi, denti mancanti – agita i pugni. Toby tiene la mano sulla guancia arrossata e noi capiamo che quel barbone pazzo l’ha schiaffeggiato. Poi l’uomo gli dà un colpo sulla mano e un oggetto cade a terra. È d’oro. Brilla. Toby non lo raccoglie, si gira e se ne va. Il matto entra nella radura e cade in ginocchio sull’erba singhiozzando. Phoebe prende la cosa luccicante, un accendino d’oro. E io dico: «Toby fuma? Fico!». Ma Phoebe scuote la testa. No, quello deve essere un ricordo. Toby non sa mai di fumo. Lui sa di sapone. Solo Phoebe può conoscere il suo odore. Lo assaggerebbe, se potesse. Poi sentiamo delle risate in alto. Guardiamo su, verso un masso, ed eccoli là, Humphrey, Willy e Aggy. Mentre seguivamo Toby, loro seguivano noi. Saltano giù dalla roccia. Piovono mostri. Ernest Nadler La meta del tenente Coffey era a pochi passi dal distretto, ma lui aveva fatto una deviazione lungo il tragitto. Dopo aver parcheggiato la sua auto, scese e guardò una finestra sopra il bar di SoHo frequentato dalla polizia. Entrò nel locale che solo una breve rampa di scale separava dall’appartamento di Riker: il sogno di un alcolizzato diventato realtà. Jack Coffey salì i gradini e bussò alla porta del detective. Riker accolse il suo superiore con un sorriso da sei birre. «Ehi, tenente.» Coffey entrò in salotto, una discarica di avanzi di cibo, lattine schiacciate e bicchieri sporchi pieni di mozziconi di sigaretta. In precario equilibrio su una sedia c’era una torre formata da calzini appallottolati, posta e giornali. La torre vacillò. Il tenente non riusciva a distogliere lo guardo. Da un momento all’altro... Incredibilmente, c’era un passaggio libero che portava in cucina, dove i piatti da lavare occupavano il lavello e ogni superficie, tranne un tavolino che era stato sgombrato. Il liquido rovesciato sul linoleum, chissà cos’era, s’incollò alle scarpe del tenente. «Be’, sono commosso. Hai fatto pulizia per me.» Da perfetto padrone di casa, Riker gli mise una birra fresca in mano. «Si accomodi.» Coffey sedette al tavolo e bevve un lungo sorso ristoratore in quella calda sera estiva. «Dov’è la tua collega?» «Probabilmente sta seguendo la pista dei soldi.» «Ti ha scaricato, giusto?» Il tenente udiva il ronzio del condizionatore, ma l’aria era soffocante. Si chiese se Riker pulisse mai il filtro. Che idea stupida. «Sono passato da casa mia per rivedere gli addebiti sulla carta di credito di Mallory durante la sua assenza.» «Aveva rintracciato i movimenti della carta dal computer di casa?» «Già. Non volevo esporla come un pesce nell’acquario del dipartimento. Ma ho fatto tutto secondo le regole. Immagino che lei sia riuscita a scoprirlo. Non che volessi nasconderle qualcosa, ma senza dubbio è per questo che il mese scorso mi ha fatto impazzire.» «No» disse Riker. «Quella era solo una vendetta per il lavoro al tavolino.» «Forse... o forse no.» Il tenente inclinò la sedia all’indietro e guardò il soffitto, un porto sicuro per le ragnatele decorate da mosche e moscerini. «Goddard sa che non è normale» replicò Riker. «Ma nessuno che lavora con gli omicidi è tanto a posto.» Alzò una sigaretta per chiedere al suo capo il permesso di fumare – lui, che non si scusava con nessuno – e questo dimostrava che era preoccupato. «L’ispettore capo ha richiamato. Anche lui ha controllato la carta di credito di Mallory... durante il suo lungo viaggio.» «E non ha ottenuto nulla» disse Riker. «Alla ragazza piace guidare. E allora? Molto meglio dell’alcol o della droga per cancellare dalla mente gli ultimi cadaveri. Sa che macchina ha?» «L’ho vista» rispose Coffey. «Una Volkswagen decappottabile.» «No, ci assomiglia solo. Sollevi il cofano, arrotoli la capote e cosa trovi? Una dannata Porsche con un roll-bar.» «Camuffata da Volkswagen... Oh, già, è normale.» La cosa spiegava come lei avesse potuto spostarsi così velocemente da un luogo all’altro nei suoi vagabondaggi senza meta. «È sparita per tre mesi, Riker.» «Io ho perso anche più tempo a ubriacarmi. Ogni poliziotto ha bisogno di un hobby. Io bevo... lei guida.» Jack Coffey trovò un tovagliolo di carta sul pavimento e se ne servì per disegnare una rozza mappa degli Stati Uniti. «Gli addebiti sulla carta sono quasi tutti per benzina, cibo, hotel.» Il tenente tracciò una linea che usciva da New York. «Per qualche centinaio di miglia sembrava che sapesse dove andare.» Procedendo verso ovest la linea si frantumò, si aggrovigliò, si perse in una serie di spirali. «La piccola non aveva un piano, una meta. Nulla.» Paradossale Mallory! Una ragazza col serbatoio pieno di benzina che viaggia a vuoto e percorre vasti territori per non andare in nessun posto. La penna arrivò al Pacifico. «Qui ha finito la terra.» La penna si mosse lungo il confine dell’America, seguì l’oceano viaggiando verso nord lungo la costa e si fermò di nuovo. «Qui è dove ha deciso di tornare a casa.» La penna descrisse altre spirali, un andirivieni di lunghe serpentine da una costa all’altra. «Non è un tipico itinerario turistico. Ha girato in tondo... come chi si è perso.» «Adesso però sta bene» replicò Riker. Il tenente aspettò che lo guardasse negli occhi, poi scelse con cura le parole: «Mallory non è mai stata bene». E mai lo sarebbe stata. La vita non poteva picchiare una bambina quasi a morte tante volte e aspettarsi che crescesse normale. Tuttavia Mallory era un poliziotto eccezionale, il migliore che Riker avesse conosciuto, persino meglio di suo padre. Era un complimento che non poteva permettersi di farle perché... lei non stava bene. Al massimo poteva dire che era di nuovo in forma, vigile, lucida e del tutto... «Non è matta» ribadì Riker. Jack Coffey convenne con un cenno del capo. «La pazzia è solo un gioco.» Un nuovo giocattolo trovato nel suo lungo viaggio. «Mallory si è divertita a fare la pazza con me, davanti a una squadra di testimoni.» Superbia. Non le era mai passato per la mente di non superare la valutazione psicologica, e aveva contato troppo sulla capacità di Charles Butler di salvarla con un altro esame. «Ogni volta che Goddard mi chiama» proseguì Coffey «è come se minacciasse di toglierle il distintivo. Anche se Mallory riuscisse a ottenere una nuova valutazione, lui potrebbe metterla nei guai quando vuole. Pensa se la squadra dovesse testimoniare sul suo comportamento... per esempio, quando ha legato come un salame l’investigatore della Scientifica. Se solo uno di quegli idioti si dimentica di mentire spudoratamente – sotto giuramento – lei è spacciata.» Riker fissava il tovagliolo. Non aveva bisogno di ricordare al suo capo che non tutti i detective erano disposti a rischiare la carriera per amore di Mallory. Jack Coffey finì la birra e si alzò. «Avrei una gran voglia di dirle che si è rovinata con le sue stesse mani, ma servirebbe solo a peggiorare le cose. Riesci a immaginarlo, Riker? Mallory che dichiara guerra a Joe Goddard?» Il detective annuì. «Non glielo dirò.» E stavolta Jack Coffey gli credette. Avevano finito. Il tenente prese le chiavi dell’auto. «Non m’interessa conoscere i dettagli, ma qualunque cosa Goddard voglia da voi due... dateglielo e in fretta.» Riker era davanti al ristorante Sardi’s quando vide in lontananza la luce rossa del night-club preferito di Lou Markowitz. Prese il cellulare e mentre camminava parlò al poliziotto che pedinava Willy Fallon. «Stalle addosso finché torna all’hotel. Poi vai a casa, Arty, e domani dormi pure. Quelle come lei non si alzano prima di mezzogiorno.» Ripose il telefono in tasca e proseguì lentamente, mescolandosi alla folla che usciva dai teatri, poi affrettò il passo per trovare un posto al Birdland, un locale con luci basse e musica dal vivo. Il detective si sedette al bancone e si scusò con Charles Butler per averlo fatto aspettare. In mezzo a loro c’era Coco, appollaiata sopra due elenchi del telefono per arrivare a una bibita rosa con tre ciliegine. Sorridendo Riker mostrò il distintivo al barista. «Hai chiesto i documenti alla bambina?» «Tutto in regola. La bambina è una musicista. Non è così, Coco?» Evidentemente innamorato della piccola pianista, il barista disse: «Ha suonato tra due numeri». «Meritandosi una standing ovation» disse Charles Butler. «Ma è molto tardi per lei, non ne può più.» Coco sorrise come un artista stanco del mondo e vuotò rumorosamente il bicchiere con la cannuccia. Il barista riconobbe Riker e lo chiamò per nome: «L’amico di Lou». Dopo aver ordinato un whisky irlandese con acqua, il detective ascoltò la dissertazione di Coco sul cannibalismo dei topi, con una versione di Summertime per sassofono e archi in sottofondo. Finito il pezzo, Riker scorse un pianista di sua conoscenza che di giorno scriveva arrangiamenti per musica classica e spettacoli di Broadway. Ma le notti di Chick Dolan appartenevano al jazz. L’uomo era sulla settantina, invecchiato con grazia un po’ artificiosa. Si avvicinò al bancone con studiata indolenza. Maledizione. Quanto era sicuro di sé. Un lampo di denti bianchi come perle. «Ehi, Riker. Da quanto tempo non ci vediamo, amico?» «Qualche anno.» In compagnia di Lou Markowitz che amava tutta la musica, dal bebop al rhythm’n’blues, Riker era stato un cliente abituale del Birdland. Benché il suo primo amore restasse sempre il rock, col tempo era arrivato ad ammettere che anche il jazz non era male. «Vorrei sapere da dove viene questo.» Chick Dolan posò dei fogli di musica sul bancone e indicò Charles. «Il tuo amico non vuole dirmelo. Improvvisamente i poliziotti s’interessano al jazz?» «Già. Questa musica riguarda un caso a cui sto lavorando insieme alla figlia di Lou.» Lanciò un’occhiata alla partitura trascritta dalle pareti di Toby Wilder. «Cosa puoi dirmi?» «È di buona qualità» rispose Chick «ed è molto intrigante. C’è un tratto caratteristico nei riff del sassofono e nei ritornelli del pianoforte, ma non mi viene in mente a chi appartiene. Be’, riesco a vedere la faccia del musicista, ma non a dargli un nome.» Toccandosi la testa dove gli ultimi capelli bianchi erano caduti da anni, disse: «Ogni volta che imparo qualcosa di nuovo mi sembra che qualcosa di vecchio mi esca dal cervello». «Puoi suonarla?» Chick rise. «Ho solo un trio. Dovresti portarmi... be’, almeno altri cinquanta musicisti.» «Puoi almeno accennare la melodia?» L’espressione dell’uomo era chiara: No, idiota. Un concetto che Chick esplicitò in questi termini: «Mick Jagger aveva il più grande gruppo rock del mondo. Prova a immaginare l’effetto degli Stones che salgono sul palco per fischiettare qualche accordo al pubblico». Riker dovette ammettere che non sarebbe stata l’esperienza travolgente dei concerti della sua giovinezza. «Il tuo amico dice che un ragazzo ha scritto questa partitura molti anni fa» continuò Chick. «La melodia è originale. Né io né nessun altro l’abbiamo mai sentita. Ma lo stile... è più vecchio della melodia. È il riff che conta... è come le impronte digitali.» L’uomo arrotolò la partitura. «Lasciamela. Mi farò vivo.» Il giorno seguente, spiegò, ci sarebbe stata una prova per i concerti gratuiti nel parco. «È un’orchestra sinfonica, ma con molti artisti famosi classici e jazz, e qualche vecchia gloria come me.» E uno di quei musicisti avrebbe riconosciuto quel tratto particolare. Davanti all’hotel di Midtown un agente in blue-jeans sedeva in un’auto della polizia, un favore concesso da due colleghi che stavano cenando lì vicino. Arthur Chu aveva ricevuto l’ordine di andarsene a casa una volta che Willy Fallon fosse tornata in albergo ma, sebbene la finestra della sua camera al decimo piano fosse illuminata, lui dubitava che la donna sarebbe rimasta dov’era. Se, come giustamente gli aveva detto il detective Riker, i tipi come lei dormivano fino a mezzogiorno, era perché non andavano mai a letto presto. Essendo solo un distintivo bianco e non ancora un detective, Arty era consapevole che la sua posizione alla Crimini Speciali era precaria. Quella squadra era un’élite di distintivi d’oro. Al primo errore lo avrebbero rispedito al suo distretto. Così quella sera lavorava fuori orario. Avrebbe rinunciato al sonno ed era disposto a sacrificare le dita delle mani e dei piedi pur di restare con loro. La luce della camera si spense, ma Arty non si lasciò ingannare. Di sicuro, lei non aveva intenzione di dormire. Calcolò il tempo necessario per scendere con l’ascensore. I poliziotti tornarono dalla cena e salirono in auto nel momento in cui Willy usciva dall’hotel e fermava un taxi in mezzo al traffico. «La mia ragazza è in movimento» disse Arthur Chu. «Non perdete di vista quel taxi!» Pur non avendo alcun pedinamento in programma, gli agenti di pattuglia seguirono il taxi giallo a due auto di distanza, verso nord, intorno a Columbus Circle, lungo Central Park West e oltre il Museo di storia naturale. Qualche isolato più in là Willy scese dal taxi e l’agente Chu dall’auto della polizia. Attraversarono sulle strisce e svoltarono in una strada di case scure. Chu rimase indietro quando lei si fermò davanti a un grande edificio ornato di gargolle. Sopra le porte era inciso in grandi lettere SCUOLA DRISCOL. Arthur Chu passò sull’altro lato della strada e, fingendosi un barbone, scese tre scalini sotto il livello del marciapiede dove era ammucchiata la spazzatura. Mentre frugava tra sacchetti e contenitori di plastica osservava la donna che si dirigeva verso un grande cancello di ferro tra la scuola e la casa accanto. Willy Fallon infilò la mano nella borsetta ed estrasse qualcosa. Una chiave? Doveva esserlo. Un attimo dopo il cancello si spalancò. 29 È facile perderli nel Ramble. Conosciamo dei nascondigli dove nessuno può trovarci. Diavolo, neppure noi ci ritroviamo. Tratteniamo il respiro, io e Phoebe. Loro ci passano accanto, poi tornano indietro... con i pugni stretti. Vanno a caccia. Gridano i nostri nomi, inferociti perché non possono trovarci e farci del male. Poi Humphrey e le ragazze se la prendono con un altro bersaglio. Dal primo grido all’ultimo, non riusciamo a muoverci. Ascoltiamo solo quello che fanno a quel povero barbone pazzo. Continuano in eterno, prolungando il dolore. L’uomo urla. Phoebe piange. Io sono terrorizzato... ancora terrorizzato mentre scrivo. Ernest Nadler Phoebe Bledsoe attraversò di corsa il vialetto e il giardino per arrivare a casa. Aveva appena il tempo per vestirsi e doveva sbrigarsi. Non osava presentarsi in ritardo al ricevimento di sua madre. Aprì la porta e alla luce di una lanterna del giardino vide sul pavimento un biglietto fatto scivolare dentro dall’esterno. Un’altra minaccia? «Non accendere la luce!» Dead Ernest era vicino alla finestra e guardava fuori da una fessura della tenda. «La luce attira gli insetti come Willy.» La mano di Phoebe esitò sull’interruttore, poi ricadde sul fianco. Si orientò nella stanza buia toccando i mobili e trovò il cassetto dove teneva la torcia. La accese e lesse il biglietto. La grafia di Willy Fallon era quasi illeggibile. Phoebe dovette faticare su ogni oscenità. «L’omicidio fa impazzire» disse Dead Ernest. No, nessuno di loro era mai stato pazzo... solo crudele. Un’ombra passò davanti alla tenda. Poi si udì bussare alla porta e Willy Fallon gridò: «So che sei lì dentro!». Batté i pugni sulla porta. «Di’ a tua madre che deve parlare con me!» Willy premeva contro la porta strillando e scalciando finché fu notata dal guardiano notturno. Il vecchio signor Polanski aprì la porta sul retro della scuola e puntò la torcia sull’intrusa. Willy fuggì. Stavano tornando a casa dal Birdland, in mezzo al traffico di Midtown. Riker aveva sempre amato vedere la città di notte dai finestrini abbassati di un’auto. Osservava il panorama di luci al neon e fari abbaglianti. Un duello tra musica latino-americana e rap arrivava da macchine lontane, ma il detective non vi prestava attenzione. Era preoccupato. La bambina addormentata tra le sue braccia russava leggermente. Si rivolse all’uomo al volante che aveva appena finito di raccontargli la visita inaspettata di Rolland Mann. «Quando Mallory ha detto che ci avrebbe pensato lei, ha precisato come?» Charles Butler scosse il capo. «Mi ha solo detto che lui non sarebbe tornato... mai più.» «Be’, so che non l’ha ammazzato. Se spari al capo della polizia, la voce circola.» Riker si accasciò sul sedile. Cosa aveva fatto Mallory a quell’uomo? Le cose potevano ancora peggiorare? Si erano lasciati alle spalle i grattacieli e stavano attraversando il Greenwich Village, una zona costruita su scala più umana. Riker guardò la bambina addormentata. «Quando conti di dirle che sua nonna è morta?» «Pensavo di occuparmi di un trauma alla volta» disse Charles. «Forse ne parleremo domani.» «Mallory glielo ha detto ieri.» Le mani di Charles strinsero il volante, unico segno che era arrabbiato. La voce era calma quando svoltò a est su Houston. «Coco l’ha presa bene, vero? Niente lacrime.» «Sì. Come fai a saperlo?» «Ha sempre saputo che la nonna era morta. Non mi ha mai fatto domande su di lei... mai parlato di tornare a casa. Sapeva di non avere una casa dove tornare. Per questo ha posto tutte le sue speranze in Mallory. Dal momento in cui l’ha conosciuta, Coco ha cercato una nuova casa e qualcuno che la amasse.» Percorsero in silenzio le ampie corsie di Houston, poi, mentre svoltava verso SoHo, Charles disse: «È davvero ora che Mallory faccia un passo indietro... sparisca. Deve lasciare il posto a un genitore vero. E deve succedere molto presto». «Probabilmente hai ragione, ma Mallory pensa che la bambina sappia più di quanto dice. Ci vorrà ancora del tempo prima che riusciamo a decifrare il suo codice fiabesco.» «Io dico che questa storia deve finire subito. Ho forti diritti legali su Coco. Grazie a Robin Duffy, sono il suo tutore ufficiale a New York e nell’Illinois. La legge dice...» «Mallory è la legge.» La Mercedes si fermò davanti al bar che Riker chiamava casa. «Non puoi farci niente. Come sempre.» Charles spense il motore. «Sto per trovare una sistemazione definitiva per Coco. È quello di cui ha bisogno al momento. È in piena crisi. Non può continuare così. Tuttavia Mallory non vuole firmare i documenti per lasciarla andare... È senza cuore.» Riker non voleva concludere la serata in quel modo. «Senza cuore? Sì, lei è così. Ma tu sai che si farebbe sparare per Coco... e forse lo ha già fatto. Non le hai chiesto come ha risolto il tuo problema con Rolland Mann. Ti ha detto solo che la bambina era al sicuro e tu le hai creduto. Hai piena fiducia in lei, vero? Scommetto che non ti è venuto in mente che potrebbe essersi scontrata con quel bastardo... e aver perso tutto. Charles, tu sai, lo sai, che è andata a cercarlo per farlo morire di paura. È il suo stile.... Il suo lato romantico» disse all’infelice che amava Mallory... con o senza cuore. Il ricevimento nel salone era al culmine quando Phoebe Bledsoe arrivò, con macchie di sudore sotto le ascelle per aver corso per due isolati in quella serata afosa. I camerieri del catering si aggiravano con vassoi carichi di bicchieri di vino rosso e bianco in mezzo a una babele di voci. Molti ospiti di sua madre stavano in piedi, a gruppetti di due o quattro. Altri conversavano seduti su divani e poltrone disposti in cerchi. In quella gerarchia sociale di posti poteva esserci un solo trono. Alto sopra la poltrona preferita di sua madre, l’enorme lampadario scintillava del riflesso di mille cristalli. Una poltrona più piccola posta accanto al trono permetteva agli ospiti di rendere omaggio alla padrona di casa, uno alla volta. Era il posto più ambìto e gli invitati vi orbitavano attorno in attesa di potersi avvicinare a Grace Driscol-Bledsoe, colei che creava e spezzava carriere e fortune. Il defunto padre di Phoebe chiamava quel ricevimento settimanale la Notte dei Rospi. E da bambina lei pensava che con quel termine volesse alludere a personalità mollicce, anime viscide... e cattivo odore. «Sì» le aveva detto il padre «proprio così.» Phoebe vagò per il salone come la scialba apprendista di sua madre, scambiando baci con amministratori delegati e politici amici di famiglia, ma solo strette di mano con gli aspiranti vip. Ogni quarto d’ora l’infermiera Hoffman veniva a controllare che la sua padrona stesse bene e subito scompariva, come il cucù di un orologio che segna il passare del tempo. E finalmente, finalmente, al termine della serata, quando la stanza fu libera dai rospi e il caffè servito per due, Phoebe occupò la sedia del questuante vicino a sua madre. «Davvero? Dice così?» Grace Driscol-Bledsoe guardò il biglietto scarabocchiato. «Willy me ne ha infilato qualcuno nella cassetta della posta ma io non mi sono mai sognata di leggerli.» E anche quello... lo appallottolò e lo posò sul tavolino accanto alla sua tazza di caffè. «Hai veramente sbattuto Willy fuori di casa?» «Ci ha pensato Hoffman... con l’aiuto di quei due deliziosi detective che ti hanno interrogato. Speravo che le sparassero ma l’hanno solo caricata su un’ambulanza.» «Se tu acconsentissi a parlarle, mi lascerebbe in pace.» «Willy è una bestiolina spaventosa, vero? Be’, potresti tornare a vivere qui con me. Saresti al sicuro, e la tua vecchia stanza è sempre lì che ti aspetta.» Ma certo. La solita conversazione. Andava avanti da anni. Sua madre la considerava ancora la figlia fuggiasca, e questo non era il primo ricatto per riportarla a casa... solo il più sgradevole. «È questo il prezzo da pagare per liberarmi di Willy?» Phoebe si alzò per andarsene, ora che aveva capito, con un certo sgomento, qual era il suo vero posto. Era uno dei rospi. «Fallo salire» disse Mallory al portiere dal citofono. Poco dopo, quando udì bussare, era pronta con una bottiglia di vino sotto il braccio e due bicchieri in mano. Aprì la porta al rabbino David Kaplan, un uomo sottile, di mezza età, con una barbetta curata, un sorriso dolce e una passione per il poker. «Kathy.» Come vecchio amico del padre, il rabbino osava chiamarla con quel nome e lo usava senza timore. La baciò, già perdonandola per non aver risposto alle sue chiamate. «È passato tanto tempo... troppo.» Allargò le braccia e scosse lentamente il capo. Cosa doveva fare con lei? «Verrai a giocare a poker questa settimana?» Invece di rispondere, Mallory gli diede la bottiglia di vino e lui notò che era la sua annata preferita. Ora avrebbe cominciato a insospettirsi. Il rabbino si sarebbe chiesto come faceva a sapere della sua visita inaspettata. Mallory sorrise. Oh, già. Dopo aver fallito con Riker, naturalmente Charles Butler le aveva mandato un altro ambasciatore per perorare la causa di Coco. Inoltre aveva visto il rabbino che osservava le sue finestre dalla strada per cogliere il momento opportuno. Era bastato accendere la luce in salotto, e dopo dieci secondi il portiere lo aveva annunciato. «Dunque» disse all’uomo che abitava sull’altro lato del ponte di Brooklyn «sei passato di qui per caso?» La detective uscì sul pianerottolo. «Andiamo sul tetto.» Presero l’ascensore. Mentre le porte si chiudevano, Mallory disse: «So che hai chiamato il mio capo quando ero via... parecchie volte». «Kathy, sei stata lontana così a lungo, mesi e mesi.» Kaplan inarcò le sopracciglia in segno di rimprovero. «Neppure un saluto, una cartolina.» Rispettando il galateo dell’ascensore, guardarono entrambi i numeri dei piani che stavano salendo. «Hai braccato il mio tenente.» «Braccato? No.» Il rabbino si strinse nelle spalle. «Be’, potevo fare di peggio. Volevo denunciare la tua scomparsa ma Edward me l’ha impedito. Ha detto che non avresti gradito una cosa simile sul tuo curriculum. Così sono andato dal tenente Coffey. Un brav’uomo, molto comprensivo. Mi ha detto che se fossi stata in pericolo lo avrebbe saputo. Lui era sempre l’ultimo a sapere, però... se ti fosse capitato qualcosa di brutto... lo avrebbe saputo.» «E i tuoi compagni di poker? Quante volte hanno chiamato Jack Coffey, loro?» «Io non faccio la spia.» David Kaplan era affezionato ai suoi amici, pur spennandoli al gioco ogni volta che ne aveva l’occasione. Sebbene la vincita massima non superasse i dieci dollari, il rabbino, l’uomo più dolce del creato, amava a tal punto vincere che poteva diventare spietato. Che giocatore! L’ascensore si aprì davanti a una scaletta che conduceva al terrazzo sul tetto, illuminato e arredato con sedie e tavoli di metallo. La brezza estiva era tiepida. La luna e qualche stella si sforzavano di competere con le mille luci della città. Si sedettero e Mallory versò il vino. «Così hai tormentato il tenente Coffey ogni giorno.» «Solo qualche volta. Non mi ha mai detto niente. Be’, diceva... nessuna nuova buona nuova.» «Scommetto che parlavate molto di me durante le partite settimanali.» «Oh, Edward e Robin parlano sempre di te quando non ci sei. Da quando eri bambina. Ti vogliono bene, quei bastardi.» Il rabbino scosse il capo e le rivolse il sorriso innocente che riservava al tavolo da gioco. Eppure, probabilmente stava ancora chiedendosi come lei fosse riuscita a spennarlo a carte durante tutta la sua infanzia. Posò dei fogli sul tavolo. «Altre scartoffie legali per Coco.» «Di Robin Duffy?» Perché era una domanda difficile? Il primo documento era un ordine del tribunale per il trasferimento di Coco in Illinois. Era soggetto all’idoneità dei genitori adottivi. Nascosta sotto il linguaggio legale, c’era la seconda condizione: la bambina doveva rinunciare al programma di protezione dei testimoni. Il foglio seguente era un modulo che richiedeva la firma di Mallory per il consenso. Robin Duffy le aveva già consegnato le copie di quei documenti, ma lei li aveva lasciati senza data in attesa di chiudere il caso. Guardò l’ordine del tribunale. Portava la data di quel giorno. Ed era già firmato da un giudice. «Questa non è un’idea di Robin Duffy.» Aveva tirato a indovinare, e aveva centrato il bersaglio. David Kaplan allargò il suo dolce sorriso, confermando senza volere che era una congiura di Charles Butler. L’uomo prese il bicchiere e bevve un sorso... una pausa. Poi, con classica elusività da rabbino, disse: «So che vuoi quello che è meglio per la bambina. Vuoi che abbia tutte le cose che Louis e Helen hanno dato a te». Col tono freddo di un automa, lei replicò: «Come mi conosci bene». Il sorriso del rabbino si spense, forse perché sapeva di non conoscerla per nulla. Mallory posò i documenti sul tavolo. «Mi chiedo come fai a pensare che sia una buona idea. Non lo è... se vuoi che io garantisca la sopravvivenza di quella bambina.» Pochi minuti prima tutto gli era chiaro, ora Kaplan guardava le carte, confuso. Bene. Toccava a Mallory sorridere. Era sicura che non fosse stato Robin Duffy a ottenere la firma sull’ordine del tribunale, anche se quella vecchia volpe conosceva bene il giudice in questione... come il rabbino, del resto. Il giudice Cartland ogni tanto giocava a poker con gli amici di Lou Markowitz. La detective prese il bicchiere e bevve un lungo sorso. «È stato Charles a mandarti. Ti sei scordato di dirmelo.» Batté il dito sul foglio. «Quando lo ha firmato il giudice... diciamo un’ora fa?» Forse poco dopo che Charles Butler era tornato a casa dal Birdland? David Kaplan alzò le mani: Beccato. «La bambina sta male, ha subìto troppi traumi. Charles ha una lista di genitori idonei in Illinois. E l’ha messa in cura presso un terapista di Chicago, un ottimo medico. Questa fragile piccola ha bisogno di...» «Quella bambina non va da nessuna parte. È il testimone materiale in un’indagine di omicidio.» «Charles dice che non è una buona testimone. Quando ho parlato con il....» «L’hai detto al giudice?» Gli lesse la risposta in faccia, negli occhi sbalorditi che non tentavano di negare: chiedevano cosa avesse fatto di male. «L’hai fatto!» Mallory picchiò il pugno sul tavolo. «Alle mie spalle!» Aveva mai alzato la voce con lui? No, mai. Si guardarono, entrambi sorpresi. Sempre furiosa, lei disse: «Ti fidi del giudizio di Charles Butler più che del mio». Si protese verso di lui. «In un’indagine di omicidio?» Sconvolgente. Come conciliare quell’accusa con la sua impeccabile logica rabbinica? Impossibile. Semplicemente non si fidava di lei. Non c’era altro modo per raccontare quella notte. «Rabbino, è stato un errore mettere le mani nel mio caso.» Mallory accartocciò l’ordine del tribunale. «Quindi ti sei schierato.» E non dalla sua parte. «Poi hai offerto a quel giudice una ragione per fottermi.» Strinse la palla di carta tra le mani facendola diventare sempre più piccola e compatta. Con l’unghia la fece rotolare sul tavolo finché si fermò vicino al bicchiere del rabbino. «Tienila... come un mio ricordo.» Gli occhi di Kaplan erano tristi, perché quella era una specie di morte, la fine di qualcosa. Lei lo aveva pugnalato a parole, e aveva chiaramente vinto la partita. O forse no. «Kathy, quando fai a pezzi il cuore di qualcuno, in senso metaforico, non è detto che tu risolva il tuo problema... Io ti vorrò sempre bene.» David Kaplan si appoggiò allo schienale e vuotò il bicchiere. «Ci sarò sempre per te.» Si alzò e la salutò con un bacio sulla guancia. «Però immagino che non verrai alla partita questa settimana.» Si strinse nelle spalle e sorrise. «Be’, magari la prossima.» Rimasta sola sul tetto, Mallory scagliò il bicchiere contro il parapetto. L’amore incondizionato poteva essere esasperante. Nello studio di Mallory c’era una parete foderata di sughero, rubata dall’ufficio di Lou Markowitz dopo la sua morte. Per quanto ne sapeva Riker, era il suo unico furto commesso per ragioni sentimentali. La temperatura della stanza era sempre piuttosto bassa per via degli strumenti elettronici e l’effetto complessivo era raggelante: mobili in metallo, cavi e fili, scaffali di acciaio carichi di manuali e dispositivi di ogni genere. Anche il tappeto era grigio canna di fucile. E la piccola aveva un giocattolo nuovo di zecca. I quattro monitor sempre accesi non occupavano più il posto d’onore, soppiantati da un gigantesco schermo piatto che Riker guardò sbalordito: era il sogno di ogni tifoso per la domenica del Super Bowl. Tuttavia non gli fece venire l’acquolina in bocca. Quello era solo un computer. Senza usare la tastiera o il mouse, Mallory sfiorò l’immagine di un fascicolo e le pagine iniziarono a scorrere da sole. Con due dita le afferrò a mezz’aria e le dispose su quel vasto campo blu elettrico. Non contenta di avere relazioni stabili solo con le macchine, ora ne aveva trovata una che reagiva al suo tocco, percepiva il suo calore corporeo. Quel pensiero gli provocò un vago senso di disgusto... forse perché era ubriaco. Diversamente dal solito, Riker stava bevendo roba buona, il whisky irlandese single malt di Mallory, mentre osservava il testo che si ingrandiva per agevolare la sua vista debole. Tenendosi eretto quanto glielo permetteva l’alcol, fece del suo meglio per mostrarsi interessato alla lezione su un vecchio argomento sfruttato: come corrompere un politico. I funzionari eletti dal popolo amavano vedere il loro nome collegato a opere di carità, disse Mallory. Ma tutte le nobili cause elencate sullo schermo erano finanziate dall’Istituto Driscol e l’Istituto era sovvenzionato da nababbi in cerca di puttane politiche disposte ad andare a letto con loro. «Le opere buone procurano voti.» Quando Mallory si girò per accertarsi che fosse attento, Riker recitò il motto che i newyorkesi succhiano con il latte materno: «I politici ti fanno tante promesse e poi ti fottono dopo le elezioni». Lo disse col tono di: Cos’altro ti aspettavi? Lei lo premiò riempiendogli il bicchiere. Quante volte lo aveva già fatto? Riker aveva perso il conto. Mallory tappò la bottiglia. «Non è il sindaco che governa questa città, è Grace Driscol-Bledsoe.» Guardò lo schermo e indicò un punto del suo elenco. «Questi membri della giunta sono stati comprati con poco, il loro nome su qualche borsa di studio e di specializzazione post-laurea.» Il dito si spostò sull’altra lista di enti benefici più importanti. «L’Istituto Driscol ha finanziato un circolo di quartiere che porta il nome del sindaco inciso nella pietra. Cosa che gli ha portato voti in una zona dove lo odiavano a morte. Per combinazione è successo quando lui ha cessato di opporsi alla costruzione di un grattacielo nel West Side. Il terreno apparteneva a un agente immobiliare che è uno dei principali sostenitori della fondazione benefica di Grace... e quest’uomo ha guadagnato quindici milioni di dollari dalla sera alla mattina. Immagino che a Grace sia andato il dieci per cento.» L’attenzione di Riker si era risvegliata. «Perché i federali non le sono saltati alla gola? Credevo che tenessero d’occhio queste cose.» «Infatti. Le società devono dichiarare tutto ciò che devolvono in beneficenza, ma non basta con un racket per il riciclaggio del denaro come questo. Qui non c’è nulla di scritto che colleghi un sostenitore a un politico. I membri del consiglio di amministrazione dell’Istituto Driscol sono dei prestanome.» «Quelli ripuliscono il denaro... e Grace è il capo di tutto.» Riker abbassò gli occhi per vedere se Mallory gli riempiva il bicchiere... un piccolo premio per non essersi addormentato. Per dimostrarle che era abbastanza sobrio, domandò: «Come fa Grace a incassare la sua fetta? Non dovrebbe risultare a un controllo?». «No. Viene pagata dai donatori.» Un tocco allo schermo e si aprì un altro fascicolo. «Eccoli qui.» Era una lista di vecchi clienti della società di consulenze del defunto John Bledsoe. «Grace trasferiva i soldi sulla ditta del marito. Era un sistema che funzionava bene... le tangenti figuravano come i legittimi onorari di un lobbista. E ci pagavano le tasse. Nessun problema con il fisco.» «Quindi il denaro che suo marito ha lasciato a Humphrey... in realtà era di Grace? Be’, questo spiega perché ha appeso il ritratto di quei due nel cesso.» Riusciva anche a immaginare una furibonda Grace Driscol-Bledsoe che appendeva dei corpi nel Ramble, compreso quello del figlio. «Ma la signora sarà capace di salire su un albero?» Riker bevve un lungo sorso. «Per cento milioni di dollari dico che ce la fa. Quella tipa è molto più in forma di me.» Mallory sorrideva... al suo bicchiere vuoto. Poi tornò a guardare lo schermo. «Dopo che il marito ha venduto la società, Grace ha perso il rifugio sicuro per le tangenti derivanti dal riciclaggio del denaro. A quel punto le sue finanze personali dovevano corrispondere alle entrare legali.» Mallory toccò un altro documento da cui sgorgò una cascata di facsimile di assegni, tutti intestati all’infermiera. «Ecco il punto debole, un errore stupido. Hoffman ha uno stipendio basso, ma immagino che Grace le passi dei contanti tutte le settimane.» «Scommetto che fa un sacco di cose con i contanti» disse Riker. «Certo non affiderebbe il suo denaro sporco a nessuno, dopo quello che le ha fatto il marito.» «Giusto. Inoltre i federali controllano i grandi flussi di denaro. Lei ha messo da parte un tesoro... però ha venduto i gioielli.» Con un dito Mallory trascinò sullo schermo una serie di fotografie. «Questa risale a quando il marito vendette la società e la piantò. Conta i gioielli.» Riker si avvicinò e osservò la fotografia della gran dama ricoperta di gemme luccicanti. Anni dopo, nell’ultima foto, Grace appariva quasi modesta. «Le è rimasto quel filo di perle e il medaglione d’argento.» «Grace ha bisogno dei milioni di Humphrey» concluse Mallory. «Il suo è l’unico denaro che può spendere alla luce del sole. Ogni transazione in contanti è un rischio.» «Queste cose le dobbiamo riferire alla squadra?» «Se lo facciamo, arriveranno a Joe Goddard.» Mallory agitò una mano verso l’elenco di politici importanti coinvolti nel circuito benefico... e nel giro di tangenti. «Vuoi che sia lui a governare questa città?» «Per carità.» Quel pazzo bastardo, l’ispettore capo, si era imbarcato in una missione contorta: raccoglieva segreti sporchi per il bene della polizia. Era un ricattatore che stava dalla parte degli angeli e del NYPD. Sarebbe stata una follia mettergli in mano l’intera città. Eppure, Riker pensava che un giorno forse avrebbe usato tutte quelle informazioni e avrebbe consegnato la città a quel pazzo per conservare il distintivo alla sua collega... e impedirle di dichiarare una guerra che non poteva vincere. «Per lui è tutta una questione di potere» disse Mallory «ma Goddard è come Grace... altrettanto pericoloso.» Amen. «Quindi... se non ci fregano i cattivi, lo faranno i buoni?» «Vedo che hai capito.» Mallory prese la bottiglia, gli riempì il bicchiere fino all’orlo e lo guardò negli occhi come se volesse succhiargli fuori l’anima. «Quel giorno, quando Goddard ci ha detto che intendeva liberarsi di Rocket Mann, ha messo in gioco la sua posizione. Sapeva già che poteva tenerci sotto controllo... ma come? Un ricattatore deve mettere qualcosa sul tavolo. È l’unico modo per ottenere quello che vuole.» Attraverso una breccia nella nebbia alcolica Riker intravide l’intenzione vera di quella lezione di educazione civica. Educazione civica un cazzo. Lo preoccupava che la paranoia di Mallory colpisse sempre nel segno. Lei sapeva che qualcosa era stato messo sul tavolo... per il suo collega. Riker scosse il capo fingendo di non capire. Attese che lo accusasse di tradimento e si sentì spezzare il cuore. Mallory non si muoveva e non parlava... aspettava la verità. Stallo. Riker posò il bicchiere e se ne andò. L’allarme sul monitor accanto al letto svegliò Grace Driscol-Bledsoe. Il suono acuto la terrorizzò ancor prima che la porta si aprisse e l’apparizione entrasse in camera. Alla fioca luce sul comodino vide una testa priva di corpo e con occhi di fuoco. Oh... era solo l’infermiera avvolta in una vestaglia nera. Gli occhiali di Hoffman riflettevano il globo opaco della lampada mentre lei si chinava sulla sua paziente e frugava tra le lenzuola aggrovigliate. «Le è scivolato il sensore dal dito, signora. Eccolo.» Trovata la pinza collegata al monitor da un filo, la infilò sull’indice di Grace. Dunque non era un ictus... solo una prova generale. Quando l’infermiera tornò nella sua stanza, Grace si appoggiò ai cuscini, ma il sonno non veniva. Dopo aver spento il monitor e staccato la pinza, si alzò dal letto con il medaglione come unica protezione. Premendo il pulsante al centro, una voce l’avrebbe cercata insistentemente, aumentando di volume finché lei non avesse comunicato le sue necessità. Da sveglia, le forniva un livello di sicurezza sufficiente, ma erano le notti a terrorizzarla. Era molto vulnerabile durante il sonno. A piedi nudi, percorse il corridoio e andò nella camera dove era morto suo padre. Non era cambiata da quando lui era stato paralizzato da un ictus. Da ragazza, Grace andava di rado in quella stanza. La vista del padre che si sforzava di articolare le parole, con la bava alla bocca e gli occhi sbarrati, le faceva ribrezzo. Metà del viso era rigida e l’altra metà piangeva. In anni più recenti invece ci veniva continuamente. Trovava consolante fare l’inventario. L’armadio era pieno di farmaci e lei controllò quelli che non erano ancora stati inventati al tempo della lunga malattia del padre. Il più prezioso era il TBS, impossibile da ottenere legalmente al di fuori degli ospedali. Quell’essenziale merce di contrabbando era sempre presente anche nella borsa nera di Hoffman, a portata di mano in ogni momento del giorno e della notte. La luna illuminava le sbarre metalliche del letto ortopedico... ereditato dal padre. Era ancora in perfetto stato, con un materasso nuovo per il giorno in cui Grace avesse subìto un ictus più debilitante dei due precedenti. Era un evento ricorrente nella sua famiglia... un’altra cosa ereditata dal padre. Grazie, papà. Ispezionò le luci rosse dei macchinari accanto al letto per verificare che funzionassero. Infine aprì l’armadio della biancheria per accertarsi che le lenzuola non fossero ammuffite in attesa che arrivasse il giorno peggiore della sua vita. Era tutto in ordine. Non tutte le cliniche erano attrezzate così perfettamente. Quella stanza garantiva che, per quanto debole potesse diventare, non avrebbe finito i suoi giorni in una casa di cura. Quando non fosse più stata autosufficiente, forse al posto di Hoffman ci sarebbe stata un’altra infermiera, più incentivata di lei a tenerla in vita. E Phoebe avrebbe dormito ai piedi del letto, come un buon cane fedele. L’amico di Phoebe Bledsoe, il signor Polanski, era il gemello magro di Babbo Natale e uno spirito affine, perché anche lui camminava con i morti. Non riuscendo a separarsi dalla moglie defunta, il guardiano notturno se la portava appresso durante i suoi solitari giri di perlustrazione. Ma non quella sera. «Le parlo sempre di più man mano che invecchio» disse, accettando un thermos di tè freddo da Phoebe. «Però sua moglie non parla.» «No, non è come Dead Ernest. Ho sentito la mancanza di quel bambino quando ci ha lasciati.» Molti anni prima il signor Polanski era il tuttofare della Scuola Driscol, fungeva da bidello, aggiustava i rubinetti rotti, le crepe dei muri e talvolta anche il tetto. In seguito, quando non era più stato in grado di fare lavori pesanti, era diventato il custode di mobili e opere d’arte di valore inestimabile. Pur cambiando attività, era rimasto in quel luogo che amava le tradizioni, e per il consiglio di amministrazione era... un altro pezzo di antiquariato. E l’ex scolara Phoebe era stata riciclata come infermiera della scuola. Accompagnò il vecchio nei suoi giri e insieme percorsero la galleria dei ritratti di ex alunni che risalivano all’Ottocento. Molti di loro erano personaggi famosi in campo politico e commerciale. Quelle pareti menzognere esibivano una rispettabilità irreprensibile. La galleria sboccava nel refettorio, un vasto locale illuminato dai lampioni della strada attraverso le alte finestre. I lunghi tavoli di mogano e le sedie erano coperti da spettrali fodere impolverate. Molto tempo prima quello era stato un rifugio sicuro. Phoebe ed Ernie si sedevano al tavolo d’angolo, due bambini che cercavano di riprendere fiato e leccarsi le ferite durante il pasto, un’ora da cui la crudeltà era bandita. Il signor Polanski e Phoebe tornarono indietro e salirono lo scalone. Al primo piano le porte aperte delle aule si affacciavano sul corridoio foderato di legno e di armadietti che cigolavano se sfiorati dai corpi morbidi dei bambini. Una volta Ernie le aveva chiesto perché fosse lui la vittima designata di ogni violenza in una scuola che offriva tante possibili variazioni sul tema della tortura. Secondo la teoria di Phoebe Ernie veniva perseguitato perché era due anni più giovane ma dieci anni più intelligente dei suoi tormentatori. Completato il controllo dei piani, scesero dalla scala posteriore e uscirono nell’aria tiepida e profumata di fiori del giardino. Il signor Polanski puntò la torcia sui cespugli che nascondevano una parte del muro di cinta dai fari di sicurezza posti sul tetto. Phoebe guardò quella zona buia, ma nei suoi ricordi era giorno. Proprio in quel punto Humphrey e le ragazze avevano bloccato Ernie contro il muro. E lui li aveva delusi. Sembrava non avesse più paura. Considerandosi già morto, li aveva affrontati con calma risolutezza. Un errore. Nulla avrebbe potuto eccitarli di più. Prima di stancarsi di lui, uno di loro... era suo fratello? No, era stata Willy Fallon a prendere Ernie per le orecchie e a sbattergli la testa contro il muro. Lui era crollato a terra, lasciando una chiazza di sangue sulla pietra. Il giorno seguente era ancora là. E tutti i bambini erano andati in giardino per guardare a bocca aperta il sangue sul muro. L’undicenne Phoebe sapeva che anche gli insegnanti lo avevano visto, ma ci passavano davanti facendo finta di niente. Il signor Polanski notò il suo sguardo, lesse nella sua mente e disse: «Ci ho messo parecchio a cancellare quella macchia». No. Phoebe scosse il capo. C’è ancora. Il sangue era sulle sue mani. Era ovunque. 30 Phoebe non vuole saperne. Tutto bene con me, ma non tornerà a scuola. Non risponderà neppure al telefono se la chiamo a casa. Devo parlare con qualcuno. Penso continuamente a quel barbone morto. Almeno venti volte al giorno. Lo sento urlare. Quel poveretto ha impiegato un sacco di tempo a morire. Ho contato i minuti, dal mio nascondiglio nel Ramble. Lo dico alla polizia. Ma il detective Mann non mi crede. Ernest Nadler Era mattino presto e la detective Mallory stava osservando il cancello accanto alla Scuola Driscol. «Riuscirebbe ad aprirlo anche un bambino. È un pezzo d’antiquariato.» «Sono sicuro che la signorina Fallon ha usato una chiave» disse l’agente Arthur Chu. «Ha preso qualcosa dalla borsetta ed è sgusciata dentro in pochi secondi.» Riker finì di leggere la denuncia di violazione di proprietà privata presentata dal signor Polanski, il guardiano notturno. «Non fa il nome di Willy e non descrive l’intruso.» Infilò in tasca gli occhiali e guardò la collega. «Ma i tempi concordano con l’ora in cui Arty ha visto Willy Fallon scappare. Il signor Polanski credeva che Phoebe avesse lasciato il cancello aperto. Forse è per questo che Willy è entrata facilmente.» L’agente Chu scosse il capo. «Ha tirato fuori qualcosa dalla borsa per...» «Ma tu non hai visto la chiave» lo interruppe Mallory. «Eri sull’altro lato della strada. Era buio.» Estrasse dalla tasca posteriore dei jeans un sacchetto di velluto contenente i suoi arnesi da scasso. L’ispettore Lou Markowitz glielo aveva confiscato la notte in cui l’aveva arrestata, all’età di dieci anni... più o meno. Lei aveva mentito, dichiarandone dodici, e infine si erano accordati su undici. Dopo la morte del padre adottivo Mallory aveva trovato il sacchetto nella sua cassetta di sicurezza. Quel vecchio bastardo sentimentale non era riuscito a separarsi dai primi grimaldelli della sua bambina. Mallory li mostrò ad Arthur Chu. «Forse Willy aveva uno di questi nella borsa.» Ripose il sacchetto in tasca e gli mostrò due forcine. «O queste.» Gli voltò le spalle per qualche secondo... e il cancello si spalancò. «È un gioco da ragazzi.» L’agente Chu, un po’ abbattuto, fu spedito all’albergo di Willy Fallon a continuare il pedinamento. Appena si allontanò, Riker disse: «Povero ragazzo, se avesse avuto ragione su quella chiave...». «Credo l’avesse.» Mallory guardò il vialetto. Non poteva avvicinarsi di più. La polizia doveva tenersi a una distanza di almeno sessanta metri dalla residenza di Phoebe Bledsoe. «Questo lucchetto ha almeno cent’anni. Chissà quante chiavi ci sono in giro.» Osservò l’architrave sopra la scuola dove era scolpito il nome dei Driscol. «Scommetto che la madre di Phoebe ne ha una... o l’aveva.» L’anatomopatologo capo Edward Slope era un uomo dalla rigida postura militaresca... ma quel mattino stava accasciato alla scrivania con una mano sugli occhi stanchi. Aveva dormito male e il caffè non gli aveva ancora dato la scossa quando la segretaria annunciò che c’erano due detective alla porta. Kathy era venuta a gongolare? La sera prima era stato ospite nel palazzo di Grace Driscol-Bledsoe, e non ci sarebbe più tornato. L’invito al ricevimento gli era stato consegnato quando lei era venuta a identificare il cadavere del figlio e, be’, quel gesto avrebbe dovuto metterlo in guardia. Se n’era andato dieci minuti dopo essere arrivato. Gli era bastato per riconoscere molti politici e altri nefasti personaggi da galera, uomini e donne cui non avrebbe mai stretto la mano né in pubblico né in privato. Farsi vedere con quella gente avrebbe infangato la reputazione di un papa. Ma il capo del dipartimento di medicina legale, come la moglie di Cesare, doveva stare ancora più attento a non compromettersi. Altrimenti la sua reputazione e la sua parola non avrebbero più avuto valore in tribunale. Kathy Mallory entrò per prima, seguita da Riker. «Cerchiamo di sbrigarci.» Edward Slope non era in condizione di affrontare un altro round dei suoi giochi di guerra. «Ho davanti una giornata impegnativa. Al contrario di quanto ha dichiarato il sindaco nell’ultima conferenza stampa, le morti violente sono tutt’altro che in calo a New York. I cadaveri si stanno ammucchiando mentre parliamo.» I detective si sedettero, segno che la cosa sarebbe andata per le lunghe, e il dottore bevve un’altra dose di caffè. «Uno ti è sfuggito, Doc.» Riker sbatté un certificato di morte sulla scrivania. «Sei stato derubato. L’autopsia di questo bambino fu eseguita in un ospedale.» Edward Slope lesse il certificato di morte di Ernest Nadler, undici anni. «Arresto cardiaco? Ne deduco che non fosse un difetto congenito, altrimenti voi due non sareste qui.» Si appoggiò allo schienale. «Dunque... avete l’anamnesi del bambino, i documenti dell’ospedale, qualche prova?» «No» rispose Riker. «Speravamo che potessi aiutarci tu.» Il dottor Slope guardò Mallory, la maga del computer. Si era sicuramente introdotta nella banca dati dell’ospedale. Il tono era sarcastico quando domandò: «Davvero non sai nulla, Kathy?». Lei lo guardò di traverso, seccata dall’allusione, ma non lo corresse per aver usato quel nome. Ovviamente voleva qualcosa da lui. «Supponiamo che il bambino non sia mai stato curato per un problema cardiaco mentre era in ospedale.» Il dottore sorrise. «Sì, supponiamolo.» Prese il certificato di morte. «Quindi tu ritieni che questo sia un errore macroscopico del...» «Un insabbiamento» lo interruppe lei. «Era la vittima di un crimine. È morto un mese dopo essere stato aggredito. Il che significa che il corpo doveva arrivare da te, giusto?» Il dottore annuì. «Sempre. Non importa cosa lo ha ucciso. Si tratta comunque di una morte sospetta.» «Quindi l’ospedale ha contribuito a coprire un omicidio» concluse Riker. «Non necessariamente.» Il dottor Slope si infilò il certificato nel taschino. «Quando è coinvolto un ospedale, io parto sempre dal presupposto che si tratti di incompetenza. Comunque, vedremo.» I distintivi dei detective erano in evidenza, brillavano sui taschini. «Conosco quest’uomo.» Edward Slope si fermò nel corridoio dell’ospedale e osservò i suoi due compagni. «Se volete spaventarlo, procederemo a modo mio. Voi non parlate. Siete qui solo per fare presenza.» Guidò la truppa a passo di marcia nell’atrio e passò davanti a una segretaria, sordo ai suoi tentativi di fermarli. Entrarono nell’ufficio dell’amministratore, un uomo con una grande scrivania e dei piccoli baffi, un uomo che stupiva tutti perché riusciva a camminare dritto pur essendo privo di spina dorsale. Sbalordito, il dottor Kemper si alzò di scatto. «Dottor Slope, che sorpresa!» Gli occhi corsero preoccupati ai distintivi della scorta di polizia. Senza più voce, il dottor Kemper tese la mano all’ospite più importante, una celebrità nel campo della medicina. Edward Slope ignorò la mano offerta e andò in fondo alla stanza, dove c’era un tavolo circondato da sedie. Si accomodò, costringendo l’amministratore ad abbandonare la sicurezza della scrivania. A esporsi. I detective presero posto dietro l’anatomopatologo capo. Silenziosi ma attenti, chiaramente diffidenti nei confronti del dottor Kemper che veniva verso di loro a piccoli passi. Il dottor Slope posò il certificato di morte sul tavolo. «Ernest Nadler. È successo molto tempo fa, ma sono sicuro che si ricorda di questo bambino. Dopo essere stato aggredito, è sopravvissuto un mese nel suo ospedale prima di morire. Tanto basterebbe per parlare di omicidio. Poi però ho saputo che al momento del ricovero il bambino non beveva e non mangiava... da tre giorni. Oh, e aveva ferite su entrambi i polsi perché era stato legato. Questo è un indizio. Quindi può immaginare la mia sorpresa quando la polizia mi ha informato che l’autopsia è stata eseguita qui. Tutti i cadaveri delle vittime di un crimine arrivano da me. È la legge.» «Giustissimo.» Il dottor Kemper si stropicciava le mani umide in un’ottima imitazione del viscido Uriah Heep di Dickens. «Mi scuso se qualcuno del mio staff non ha rispettato il protocollo.» «Anche la causa della morte non è chiara.» Il dottor Kemper prese il certificato e, dopo averlo letto, alzò gli occhi, perplesso. «Arresto cardiaco. Non vedo il problema. È firmato dal medico che lo aveva in cura.» «Che nel frattempo è morto di vecchiaia» disse Slope. «Farò esumare il cadavere.» «Oh, mi dispiace. I resti furono cremati.» «È interessante che lei ricordi questo dettaglio. So però che la patologa fa ancora parte del suo staff. Voglio parlare con lei. E voglio vedere tutta la documentazione relativa al bambino.» Con tutta probabilità sarebbe stata una perdita di tempo. Slope aveva piena fiducia nelle capacità di Mallory come hacker e lei, ci scommetteva, non aveva trovato nulla di utile nel database dell’ospedale. «Voglio le cartelle cliniche, l’anamnesi del paziente, il referto dell’autopsia, le fotografie... tutto.» «Questo bambino è morto quindici anni fa...» L’amministratore rivolse un sorriso stentato ai detective – i rappresentanti della legge – mentre spiegava come funzionava la legge. «Siamo tenuti a conservare i documenti originali per quattro anni.» «Questi però li ha tenuti.» Il dottor Slope incrociò le braccia e sorrise notando la reazione colpevole di Kemper, le mani umide strofinate sui pantaloni. «Gli originali sono ancora qui. Immagino che il legale dell’ospedale non le abbia lasciato scelta, di sicuro non voleva rischiare la radiazione dall’albo permettendo la distruzione delle prove... caso mai io ci mettessi il naso. E ora mi consegni tutto il materiale, si sbrighi.» La riunione si spostò nella sala conferenze dell’ospedale. Era necessario un ambiente più spazioso per esaminare le testimonianze della breve vita e della lunga morte di Ernest Nadler. Quando Slope si allontanò dal tavolo, Riker e Mallory cominciarono a farsi strada tra buste e fascicoli, iniziando dai verbali del pronto soccorso del giorno in cui il bambino era stato ricoverato. I detective non avevano ancora detto una parola. Fu Edward Slope a condurre l’interrogatorio della dottoressa Emily Woods, un’ultracinquantenne magra e con i capelli grigi, troppo vecchia per trovare un altro posto come patologa ospedaliera. La donna lanciò un’occhiata in fondo al tavolo per trovare conforto negli occhi dell’amministratore. «Non guardi lui» disse il capo del dipartimento di medicina legale. «Sarò io a decidere del suo destino.» Le mostrò il certificato di morte di un paziente undicenne. «Arresto cardiaco? Improbabile. Non c’era alcun difetto congenito.» Con un gesto indicò i documenti sparsi sul tavolo. «Non si fa menzione di un problema cardiaco preesistente. Tuttavia lei ha sottoscritto questa... questa assurdità del collasso cardiaco.» Sedette sul bordo del tavolo e si protese verso la donna. «Mi dica se sbaglio. Il cuore del bambino è stato l’organo che ha ceduto per ultimo. Moriamo tutti così, no? Alla fine il cuore... si ferma.» «Io non volevo fare l’autopsia» disse la dottoressa Woods senza guardarlo negli occhi. «Mi ero rifiutata. Ma poi mi assicurarono che non c’erano problemi con la polizia.» «Chi glielo assicurò? Oh, tiro a indovinare, il suo capo, il dottor Kemper?» Edward Slope prese le fotografie dell’autopsia e le esaminò. «Il bambino ha gli occhi chiusi in tutte le foto. Si è presa il disturbo di sollevargli le palpebre per controllare se...» «Oh, Cristo!» Riker alzò gli occhi dal lavoro. «Gli avete amputato le mani? Dei dottori gli hanno fatto questo?» «Posso spiegare» intervenne l’amministratore dell’ospedale. «Ci scommetto.» Mallory spinse il dottor Kemper contro il tavolo e lo ammanettò mentre Riker rendeva lo stesso onore alla dottoressa Woods. «Andiamo tutti al distretto.» C’erano cinque detective nell’ultima fila della stanza di osservazione. Il loro comandante, il tenente Coffey, si era accomodato tra l’anatomopatologo capo e l’assistente del procuratore col papillon giallo. Dall’altro lato del vetro Mallory e Riker, seduti al tavolo con la dottoressa Emily Woods, stavano facendo un gioco nuovissimo: poliziotto cattivo e poliziotto cattivo. Abbandonate ogni speranza... «Può dare l’addio alla sua professione» disse Mallory alla patologa dell’ospedale. «La cosa migliore per lei è testimoniare contro i suoi complici. Forse così eviterà la prigione.» Senza staccare gli occhi dal vetro, Jack Coffey parlava con Cedrick Carlyle. «La dottoressa Woods ci ha detto che è stato lei a darle il via libera per eseguire l’autopsia in ospedale.» «Be’, non è vero.» L’assistente raddrizzò il papillon e poi si tolse qualche immaginario granello di polvere dalla giacca. «Io non ho mai...» «Oh, davvero?» Tutte le teste si girarono verso il detective Gonzales, la voce del dubbio in fondo alla stanza buia. «Ero presente all’interrogatorio del dottor Kemper. Lui conferma la versione della collega. Dice che l’ordine è arrivato da lei.» «Un evidente equivoco.» Ignorando il poliziotto dell’ultima fila, Carlyle si rivolse al tenente seduto accanto a lui. «Ma non ci fu alcuna irregolarità. Dissi all’amministratore dell’ospedale che non ci sarebbe stata un’indagine di omicidio per Ernest Nadler. Il caso era risolto... chiuso. Come sa, il principale sospettato aveva confessato.» «Di aver ucciso il barbone» puntualizzò Coffey. «Non il bambino.» «Ci bastava un’imputazione per rinchiudere Toby Wilder. Il patteggiamento prevedeva che l’accusa di aggressione sarebbe caduta e lui non sarebbe stato incriminato per un secondo omicidio nel caso il piccolo Nadler fosse morto. Il giudice non sollevò obiezioni.» «Be’, io sì» ribatté Coffey. «Ho dieci fotografie di un bambino senza mani... e nemmeno una della scena del crimine. Di chi è stata la decisione?» «Quando la polizia lo ha trovato, era tutto intero. Credo che l’aggressione sia stata fatta passare per una specie di scherzo.» «Uno scherzo?» L’incredulo detective Janos si era seduto dietro l’assistente del procuratore e ora si chinò in avanti per parlargli all’orecchio. «Quel bambino è rimasto impiccato a un albero per tre giorni interi... senza acqua né cibo.» Dall’ultima fila intervenne un altro detective: «Ernie era appeso per i polsi. Il sangue non circolava. Sappiamo che le mani erano già nere quando lo tirarono giù». «Tessuto necrotico» precisò il dottor Slope. «Le mani furono amputate in ospedale. Quindi, anche se la dottoressa Woods fosse stata ubriaca fradicia durante l’autopsia – probabilmente lo era – non poteva non accorgersi che Ernie Nadler era la vittima di un crimine. E neppure a quell’idiota del suo capo poteva essere sfuggito un dettaglio simile. Pare che sia stata sua, Carlyle, l’idea di eseguire l’autopsia in ospedale.» «Ripensandoci» disse l’assistente Carlyle «capisco dove forse sono stato frainteso. Naturalmente il corpo del bambino sarebbe dovuto andare al dipartimento di medicina legale. Su questo non si discute. È stato un grosso pasticcio dell’ospedale, ma il dottor Kemper e la dottoressa Woods non sono certo dei criminali. Si trattò solo di una madornale stupidaggine.» «Be’, grazie per averlo chiarito» replicò Jack Coffey. Edward Slope si appoggiò allo schienale. «Il che non scagiona Kemper e Woods. Il bambino presentava segni di miglioramento la settimana prima di morire. Stava guarendo. La prognosi era buona... e il cuore era sano. Le analisi del sangue indicano che aveva superato l’infezione dovuta alla necrosi. Quindi non è morto neppure di questo.» Il tenente batté la mano sul vetro per sollecitare i detective a venire al dunque. Sotto le luci crude che illuminavano la stanza, Mallory con un cenno della mano invitò la dottoressa Woods a ripetere i punti salienti dell’interrogatorio. «C’era un altro referto dell’autopsia» disse la patologa. «Quella che avete letto... è la versione emendata. Avevo rilevato tracce di emorragia negli occhi del bambino. Il medico curante dichiarò che era causata dai medicinali e il dottor Kemper lo confermò. Fu lui a farmi modificare quel dettaglio. Perché complicare le cose, disse.» «E lei ci credette?» «No. Capii subito che non erano stati i farmaci a causare l’emorragia. A volte questi buffoni dimenticano che anch’io sono un medico. Un medico, non un avvocato. Quell’assistente del procuratore – non ricordo il nome –, un ometto con la cravatta gialla, assicurò che la faccenda era sistemata.» La donna allargò le mani. «Sistemata? Be’, io sapevo che era tutto sbagliato. Non avevamo certo a che fare con una violazione del codice stradale, dannazione.» «Dunque lei sapeva che si trattava di un omicidio... ma la causa non era l’aggressione nel parco» riassunse Riker. «Gli occhi del bambino erano iniettati di sangue.» «L’emorragia è sintomo di soffocamento» disse Mallory. «Sarebbe bastato un cuscino, no? Quindi le hanno ordinato di coprire un omicidio. E la cosa non l’ha turbata?» Era puro teatro. Nella vita reale quella patologa era un’ubriacona frustrata, ignara persino dei dettagli forensi che si imparano guardando la televisione. Durante un precedente colloquio alla presenza del tenente Coffey, la dottoressa Woods aveva ammesso di essersi meravigliata quando l’amministratore dell’ospedale le aveva chiesto di eliminare le parole emorragia petecchiale. Per sua sfortuna, le correzioni non le erano sembrate abbastanza strane da indurla a conservare la sua relazione originale. «Per fortuna, la patologa ha conservato il referto originale» affermò il tenente Coffey. Di norma ingannare un assistente del procuratore gli sarebbe costato il posto, ma quel giorno gli era concesso mentire a un sospettato. «Kemper e Woods saranno accusati di complicità. Il bambino fu sicuramente ucciso in ospedale.» Gli mostrò un foglio. «Chiediamo l’esumazione della salma.» Un altro bluff, dato che il bambino era stato cremato. Le mani di Carlyle strinsero i braccioli della sedia. A quanto pareva non era al corrente di quel dettaglio. Ed era prevedibile. Ciò che accade ai resti di una vittima non compare nei verbali del pubblico ministero, neppure in una nota a piè pagina. Alla luce fioca della stanza di osservazione l’avvocato cercò di leggere l’ordine di esumazione firmato dal dottor Slope. Era tutto lì, nero su bianco... quindi doveva essere valido. Coffey sorrise. Oh, sì. Aveva abboccato all’amo. Aveva in faccia un’espressione che voleva dire oh merda. Sembrava aver finalmente capito che era lui il vero soggetto dell’interrogatorio, ma Coffey preferiva che ne fosse sicuro. Avvicinandosi e abbassando la voce, disse: «Carlyle, c’è qualcosa che vorrebbe comunicarmi?». L’avvocato alzò gli occhi. Dall’altra parte del vetro non c’era più nessuno. Lo spettacolo era finito. Non protestò quando il tenente lo prese per un braccio e lo portò nell’altra stanza. Quattro detective erano allineati contro i muri. E presto arrivò il resto della squadra. Riker e Mallory entrarono per ultimi. Poi tutti i detective si diressero verso il tenente e l’avvocato. Cadde il silenzio, spezzato dal ticchettio del vecchio orologio di Mallory. Dieci secondi. Dodici. Tredici, quattordici. Interrogante e sospettato sedevano muti uno davanti all’altro come in una gara di resistenza. Jack Coffey non avrebbe parlato per primo. «Sembra che le cose siano sfuggite di mano» disse infine l’avvocato. «Qualcuno non ha pagato per l’omicidio di Ernest Nadler» ribatté il tenente. «E lei ha collaborato a insabbiarlo.» «Niente affatto. L’assassino finì a Spofford.» «Per aver ucciso un barbone, non un bambino.» «È cominciato tutto con il barbone! Non capisce? Si è sempre trattato del barbone. Dovrebbe parlare con Rocket...» Carlyle scosse il capo e agitò una mano come per cancellare quel nome. «Rolland Mann lo confermerà. Il piccolo Nadler fu appeso a un albero e lasciato nel bosco a morire perché aveva visto Toby Wilder uccidere il barbone. Non è possibile che si sia sbagliato. Frequentavano la stessa scuola. E c’erano altri tre testimoni. Tutti hanno dichiarato che l’assassino era Toby... e quindici anni dopo sono finiti tutti e tre appesi nel Ramble. Toby è l’Artista della Fame. Voleva vendicarsi per...» «Chi se ne frega dell’Artista della Fame» lo interruppe Jack Coffey. «Oggi non ci occupiamo di lui. Toby era in carcere quando Ernest Nadler fu assassinato in ospedale. Le dispiacerebbe spiegarci questo punto, avvocato?» «D’accordo» disse Carlyle, come se fosse un invito ragionevole. «Ammettiamo che gli altri testimoni avessero mentito su Toby e il barbone. E allora? La mia teoria funziona ancora meglio. Supponiamo che Ernest Nadler sapesse che mentivano. Forse ha minacciato di accusare dell’omicidio quei tre bambini. E ora immaginiamo che loro siano andati a trovarlo in ospedale.» Coffey si alzò dal tavolo. «Sta dicendo che sono stati dei bambini a uccidere Ernest Nadler?» «Il poliziotto di guardia non si sarebbe insospettito vedendo dei compagni di scuola. Forse è stato quello l’insabbiamento.» «Ma non quello che aveva contrattato lei» ribatté Coffey. «Non quello per cui era stato pagato» incalzò Mallory dal fondo della stanza. Bel colpo. Per un attimo Carlyle restò pietrificato. Poi alzò la mano e tirò il papillon come se quel giorno gli andasse stretto. Mallory si avvicinò al tavolo e sparò la prima bugia. «Sappiamo quello che raccontò ai genitori.» Si chinò e continuò parlandogli all’orecchio. «Lei disse ai Nadler che uno studente della Scuola Driscol era stato arrestato per l’aggressione a Ernest, ma non specificò mai che si trattava di Toby Wilder. Non ci avrebbero creduto. Sapevano che il figlio non aveva mai accusato Toby dell’uccisione del barbone... E lo sapeva anche lei.» Le contrazioni involontarie della bocca di Carlyle equivalevano a una confessione. «Non potevo rivelare alcun dettaglio ai Nadler» disse. «I verbali relativi ai minori sono secretati.» «E se la sono bevuta?» Jack Coffey gli rivolse un sorriso sarcastico. «Be’, immagino che i genitori fossero sconvolti in quel momento. Forse si chiedevano cosa fare quando il figlio si fosse svegliato... come spiegargli le mani amputate.» «Ma dopo» concluse Mallory «quando Ernie fu ucciso all’ospedale... tutti i suoi problemi per la falsa accusa contro Toby Wilder furono risolti.» «Voglio un avvocato» disse l’avvocato con un filo di voce. 31 So che il preside mi crede. Impallidisce mentre gli racconto la mia storia. Sono nel suo ufficio, seduto tra i miei genitori. Mia madre sembra imbarazzata dall’omicidio, e sono sicuro che a mio padre dispiace che io faccia la spia e accusi gli assassini del barbone. Il detective ghigna accanto alla finestra, quasi senza ascoltare. Il preside sa che sto dicendo la verità, ma è stato anche lui un insegnante, appartiene alla razza dei ciechi e sordi. Credo sia per questo che cerca di non darmi ascolto, scuote la testa, scuote via le mie parole. E appena uscirò di lì, probabilmente scorderà di avermi mai visto mentre ero vivo. Ernest Nadler «Ehi, amico, sei in anticipo.» Chick Dolan sorrise mentre faceva entrare il detective nel suo loft di Chelsea. «Bella casa.» Riker non immaginava che scrivere arrangiamenti musicali rendesse così bene. A New York il valore di un alloggio si misura in luce, e lì il lato affacciato sulla strada era quasi tutto in vetro. Non c’erano pareti. Erano i mobili a modulare lo spazio in zona giorno e zona notte, angolo per il biliardo e per il lavoro. Riker ammirò il pianoforte a coda. Era curioso di sapere qualcosa della partitura di Toby Wilder. «Ecco.» Chick gli consegnò un cd. «Non è niente di speciale, solo il master della registrazione scadente di una prova. Ma è la musica che ti interessa e ora so da dove vengono quei riff. Avrei dovuto ricordarmene l’altra sera al Birdland. Si vede che sto invecchiando. Ascolta.» Suonò qualche nota al pianoforte. «Questo ragazzo... be’, non sarà più un ragazzo ormai, forse sui cinquanta. Non lo conoscevo bene e di sicuro non l’ho frequentato a lungo... ricordo solo il suo stile. Era un musicista che lavorava negli studi di registrazione quando non suonava nei club. Puoi trovare tracce di lui in almeno dieci di quegli album.» Indicò gli scaffali alle sue spalle. Riker emise un fischio di ammirazione. C’erano cd, cassette e vecchi dischi di vinile in quantità sufficiente ad aprire una piccola biblioteca musicale. «Non esistono partiture dei suoi pezzi migliori» disse Chick. «Lui non sapeva nemmeno leggere la musica. Era tutto una cascata di melodie e improvvisazioni su un tema. Di ottima qualità. Il suo stile brilla sempre e ovunque. Jess uscì di scena vent’anni fa. Ai suoi tempi suonava il sassofono meglio di chiunque al mondo. Anche così, al pianoforte, posso dire che era fottutamente meraviglioso.» Riker soppesò il cd sulla mano. «Quindi è ancora in circolazione.» «In attività? Magari. No. Jess era ancora giovane quando uscì dal giro e poi si è rovinato con l’alcol. L’ultima volta che ho sentito parlare di lui, mendicava in strada, ma parliamo di secoli fa. Mi dispiace, amico. Vedo dal tuo sguardo che sei in un vicolo cieco.» Charles Butler aprì la porta di casa per salutare il secondo ospite della giornata, il detective che non gli portava rancore. Quando Riker entrò in salotto, Mallory gli lanciò un’occhiata irritata. Sempre in ritardo. Come offerta di pace, lui le mostrò il cd. «Gli amici di Chick Dolan hanno registrato la musica, a qualcosa servirà.» Sorrise, forse sperando in qualche segno di interesse. Deluso, porse a Charles la partitura ricavata dalle note sulle pareti di Toby Wilder. «Chick ha sottolineato i passaggi caratteristici. Mi ha dato...» «Mi hai interrotto» disse Coco. «Scusa, piccola.» Riker consegnò a Charles anche il cd e andò a sedersi sul sofà accanto a Mallory per ascoltare Coco che spiegava in che modo un topo grande come un gatto poteva passare attraverso un buco piccolo come un quarto di dollaro. Charles aprì l’armadio settecentesco che nascondeva un impianto stereo ultramoderno, una colonna di componenti molto sofisticati, uno dei quali serviva per gli arcaici dischi in vinile. Era l’unico regalo elettronico di Mallory che amava e usava. Lei gli aveva cablato l’intero appartamento per circondarlo di suoni e permettergli di camminare immerso in sonate e sinfonie. Charles inserì il cd e prima di avviarlo attese che Coco avesse terminato la sua lezione sul fattore di compressione delle ossa dei topi. «Perdonate il ritardo» disse Riker. «Sono passato all’anagrafe.» Allungò a Mallory un foglio facendolo passare sopra la testa di Coco. «È il certificato di nascita di Toby. Suo padre era Jess Wilder, un sassofonista geniale.» Guardò Charles. «Chick dice che lo stile è quello di Jess, ma lui non sapeva leggere o scrivere la musica. E suonava solo quella degli altri.» Charles fece partire il cd. «Quindi questa partitura è di Toby.» Sfogliò le pagine per vedere i passaggi evidenziati. «Ma l’influenza del padre è presente ovunque.» Letteralmente. La notava in tutte le pagine. E ora la sentiva... tutt’intorno. L’ouverture iniziava con un passaggio ondeggiante del sassofono, poi altri strumenti infilavano note rese con perfetto equilibrio acustico dalle casse piazzate su ogni parete: percussioni sulla destra, archi sulla sinistra. I tasti del pianoforte, lievi come ombre, seguivano il sassofono attraverso la musica che invadeva la stanza. «Non importa quanto fosse dotato il padre.» Charles smise di parlare per ascoltare un’ondata di note, un paesaggio di archi e corni portati via dal vento. «Un uomo che non sa scrivere la musica non può fare un’orchestrazione per cinquanta strumenti. Questa è opera del figlio.» Charles perse il filo del discorso, e anche gli altri ascoltarono il resto del pezzo aspettando un crescendo. La tensione era deliziosa... da un momento all’altro... ora, ora. Stavano tutti col mento alzato, in attesa che le note acute si schiantassero a terra. Invece la musica svanì lentamente, restringendosi in un assolo del sassofono che terminò a metà frase, e il pianoforte completò la melodia lasciata in sospeso dal sassofono. Quell’eludere la progressione logica della musica era come sfidare la forza di gravità. «Bellissimo... e originale.» Charles frugò in un cassetto per trovare le fotografie della partitura scritta sulle pareti e le posò sul tavolo davanti ai detective, indicando i punti dove le note erano state cancellate e riscritte. «Toby ha modificato la struttura stessa dello scheletro... la melodia sottostante. È come vedere il processo creativo in atto.» Ah, vedeva anche che Mallory voleva un riassunto. Dopo anni di addestramento, le bastava alzare una mano per segnalargli di arrivare al dunque... a qualcosa di utile. «Non è un lavoro di imitazione» riprese Charles. «È la fusione virtuale di padre e figlio. Credo che Jess Wilder fosse ancora presente nella vita di Toby quando il ragazzo fu rinchiuso a Spofford.» «Se il padre è il sassofono,» affermò Coco «è morto.» Tutti si voltarono a guardare la bambina e lei ne approfittò per esibirsi. «È una storia.» Indicò lo stereo. «Rimetti l’ultima parte.» Mallory fece ripartire le ultime tracce del cd. Coco andò a mettersi al centro della stanza, chiuse gli occhi e sollevò il viso tenendo le mani a coppa come per raccogliere la pioggia. A Charles parve di vedere la musica che la inondava. «Lo sentite?» Coco aprì gli occhi. «C’è qualcosa di sbagliato nel sassofono.» «È un effetto stilistico» spiegò Charles. La bambina scosse il capo con decisione. «No. Il sassofono è malato.» Charles si accorse di aver sbagliato. Aveva interrotto la sua esibizione. «Scusa.» Si sedette sul sofà insieme al resto del pubblico. «È una storia sul sassofono.» La sinfonia stava finendo e Coco puntò il dito nell’aria, qua e là, come se vedesse le note volare. «Qui è dove il sassofono muore.» Erano arrivati all’ultimo strumento, un vellutato assolo di pianoforte. «E questa è solitudine. Il piano amava il sassofono e ora piange.» «Fiori» disse Mallory. «I fiori di Toby.» «Cosa?» Charles si girò a guardarla. Si era avviata verso la porta. Coco le corse dietro per abbracciarla, ritardando momentaneamente la sua fuga. Riker la seguì. Seduti alle loro scrivanie, i detective esaminavano i frutti recenti dei mandati di perquisizione in casa e nell’ufficio dell’assistente del procuratore Cedric Carlyle. Stavano cercando dei fiori. Riker trovò l’originale dell’atto di incriminazione di Toby Wilder, tredici anni. «C’è una nota sotto la voce tatuaggi e segni particolari. “Braccio sinistro. Numeri.” Quello che c’è sotto è cancellato.» Guardò attentamente la riga barrata. «Probabilmente si sono accorti che erano numeri scritti a penna. Toby non aveva un pezzo di carta e ha preso nota dei numeri sul braccio. Lo facciamo tutti.» «Io no» disse Mallory. Riker studiò i numeri cancellati che erano stati scambiati per un tatuaggio. Alcuni erano ancora visibili. «Ehi, ci sono anche delle lettere.» Le passò il foglio. «Riesci a decifrarle?» Mallory mise il foglio sotto la lampada. «Sembra un talloncino da obitorio, di quelli che attaccano all’alluce dei morti. Non riesco a leggere la data ma le lettere... sono la sigla che indica Potter’s Field.» «Il cimitero dove è stato sepolto il barbone» disse Riker. «Quindi Toby è stato all’obitorio ed è riuscito ad avvicinarsi al barbone e a leggere il talloncino.» Mallory cercò tra i fascicoli confiscati a Carlyle. «Se ha visto il corpo del barbone, non lo ha mai identificato ufficialmente. Altrimenti l’obitorio avrebbe inviato il modulo di riconoscimento all’assistente del procuratore interessato del caso, e qui non c’è.» «Però Toby è stato all’obitorio. Solo così può aver visto quel numero. Era troppo lungo da memorizzare, così se l’è scritto sul braccio.» Riker non era certo che la sua collega lo stesse ascoltando davvero. «Questo può essere successo solo prima che venisse interrogato per l’aggressione a Ernest Nadler. Dopo era sotto custodia...» «Torniamo sempre ai fiori.» Mallory stava leggendo un documento. «Eccoli di nuovo. Toby portò dei fiori nel Ramble. Da come è scritto qui, li ha deposti nel punto dove era stato trovato il barbone morto. Se è vero, allora Toby ha assistito all’omicidio. Per questo sapeva dove lasciare i fiori.» «Oppure lo ha ucciso lui» rifletté Riker. «E forse ha anche appeso il piccolo Nadler. Hai creduto a Carlyle quando ha detto che Ernest Nadler era testimone dell’omicidio del barbone?» «Chi può saperlo? Ammesso che esistesse la dichiarazione di un testimone, andò distrutta quindici anni fa.» «Già.» Riker puntò i gomiti sul tavolo e si strinse la testa tra le mani. «E ancora non abbiamo niente di concreto su Rocket Mann. Il gran capo Goddard cagherà pietre se quel bastardo risulta pulito. Siamo fottuti.» «Forse no.» Mallory girò lo schermo del portatile per mostrargli alcuni dati riservati sottratti al database del NYPD. «Ernest Nadler restò appeso all’albero per almeno tre giorni... ma all’ufficio persone scomparse non c’è nessuna denuncia, né a qualsiasi altro dipartimento.» Sorrise. «Un giorno il bambino non torna a casa da scuola. Dopo qualche ora i genitori cominciano a preoccuparsi. Arriva l’ora di cena. È tardi, è notte. Qui non risulta nemmeno che abbiano chiamato la polizia. Eppure molti genitori amano i propri figli. Sono sicura che sono corsi alla stazione più vicina... nell’Upper West Side.» «Il distretto di Rocket Mann quando era detective. Che bastardo... probabilmente se l’è presa comoda.» «Ma i genitori non gli danno tregua» proseguì Mallory. «I giorni passano e forse Mann manda un agente a bussare alle porte dei vicini. I Nadler stanno impazzendo e per tenerli buoni il detective Mann si decide a controllare i posti frequentati dal ragazzino e dai suoi amici. Allora qualcuno lo indirizza al Ramble.» «Sì, in effetti questo spiegherebbe come mai fosse sul posto quando Ernie fu trovato, ma non ci porta molto lontano.» Riker era perplesso. «Fai un passo indietro. E se Mann avesse avuto una ragione per tirarla per le lunghe con i genitori di un bambino scomparso? Forse non è stato un caso che i Nadler siano andati proprio al suo distretto. Forse conoscevano già il detective Mann.» «Prima che il figlio sparisse? Pensi che fosse stato Mann a raccogliere la deposizione di Ernie Nadler sull’omicidio del barbone?» «Ne sono sicura.» Mallory indicò il testo evidenziato sullo schermo: diceva che Rolland Mann era il detective incaricato dell’omicidio di un derelitto senza nome. «Se Ernie si era fatto avanti, aveva rilasciato la sua testimonianza al poliziotto incaricato del caso. E i genitori sarebbero stati presenti... e avrebbero conosciuto Rocket Mann.» «Così quando il figlio sparisce, i Nadler chiedono aiuto all’unico poliziotto che conoscono.» La moglie di Rolland Mann era seduta sul letto al buio. Si alzò e uscì dalla stanza. Ultimamente, nelle ore spaventose in cui aveva paura di dormire, paura di lui, ad Annie sembrava di avere un orologio interno. Al mattino il marito la trovava sul sofà, dove si sentiva al sicuro... più al sicuro. Quegli spostamenti notturni erano iniziati quando sul giornale era apparsa una nuova tessera di un vecchissimo puzzle. Forse Annie già sapeva quello che lui aveva fatto. Ma erano passati quindici anni e lei era ancora viva. Aveva bisogno di un’altra prova d’amore? Anche stanotte non si dorme. Rolland allungò la mano, prese il cellulare dal comodino, lo accese e controllò le chiamate. Ce n’erano dieci di Cedrick Carlyle. E ne stava arrivando un’altra. Rolland rispose. «Sì?... Quale dichiarazione del testimone?... Idiota. Ti hanno incastrato. Quanto gli hai raccontato?» Guardò il quadrante illuminato della sveglia. In quel momento, i detective dell’unità Crimini Speciali stavano registrando l’ennesima telefonata di un assistente del procuratore in preda al panico diretta al suo numero privato. Phoebe Bledsoe era a letto, in ascolto, gli occhi che si spostavano da una finestra all’altra. Clic, clic. Che cos’era? Le coperte scivolarono a terra mentre si raddrizzava di scatto sul letto. Qualcuno stava cercando di forzare la porta? No. Era il rumore della macchina del ghiaccio. Altri cubetti caddero ticchettando nelle loro buste di plastica. Phoebe si appoggiò al cuscino. Sì, era brava a immaginare le cose. Eppure temeva ancora che fuori ci fosse qualcuno. E anche dentro. Dead Ernest era lì con lei, un piccolo cadavere sdraiato nel buio al suo fianco. «Contavo su di te» disse. «Credevo che saresti venuta a cercarmi... Ti aspettavo. Ho resistito per te.» Dead Ernest si avvicinò per sussurrarle all’orecchio. «Anche tu eri un testimone. E ora Willy è là fuori da qualche parte.» Indicò la finestra con la testa. «Sento dei passi. Sta venendo per te. Ora anche tu sai che effetto fa.» La più grossa pecca del suo fantasma casalingo era che gli mancava il cuore. Quel piccolo sosia era solo fisicamente simile al suo vecchio amico. Nemmeno quando sorrideva aveva la personalità di Ernie. Ma che dire del bambino vero, quello vivo, quello che aveva contato su di lei... per salvarlo? Non le avevano permesso di vedere Ernest durante il suo mese di coma. La ragione gliela aveva spiegata Humphrey. «Mamma e papà non vogliono che tu sappia che gli hanno tagliato le mani.» Pensando che fosse una delle tante torture quotidiane del fratello, lei non gli aveva creduto. Non subito. Ma poiché era una bambina invisibile, ignorata da tutti, aveva trovato il modo per arrivare alla camera di Ernie in ospedale. E ancora adesso non gli permetteva di tirare le mani fantasma fuori dalle tasche... perché non scoprisse cosa gli avevano fatto durante il lungo sonno. Udì dei colpetti sui vetri. Nel piccolo settore ancora razionale del suo cervello sapeva che era solo il ramo di un albero scosso dal vento. Si alzò dal letto ed esitò prima di scostare le tende per dare un’occhiata. Le si mozzò il respiro in gola e vacillò all’indietro. Cadde a terra trascinando con sé la tenda e il bastone. Contro il vetro era premuta la faccia di Willy Fallon, i lineamenti schiacciati e mostruosamente distorti. Phoebe urlò. Willy rise. 32 Aggy la Morsicatrice mi tira giù il colletto della camicia. Forse vuole ammirare la sua opera, ma il segno dell’ultimo morso si è affievolito dal giorno delle fotografie di classe. Stavolta, quando minacciano di uccidermi, gli faccio notare che è tutto l’anno che ci provano. Pur sapendo che mi picchieranno di più, non posso farne a meno... il sarcasmo è il mio miglior superpotere. Ma Humphrey si limita a ridacchiare e si allontana con le altre due. Per tutto il giorno aspetto che tornino. L’attesa uccide. Ernest Nadler In ginocchio, Phoebe Bledsoe strofinava la scritta davanti alla porta del cottage. Pochissime parole, eppure Willy era riuscita a infilarci un errore di ortografia. Il messaggio scarabocchiato ORA TOCCA HA TE era ormai sbiadito, ma solo una mano di vernice l’avrebbe fatto sparire del tutto. Phoebe lasciò cadere la spugna, allarmata da un rumore di passi dietro le spalle. «Sono solo io.» Il signor Polanski si fermò sul vialetto e le chiavi appese alla cintura tintinnarono quando si chinò accanto a lei. «Ho telefonato al preside nella sua casa di vacanze. Non vuole che cambi il lucchetto del cancello. Dice che è un pezzo di antiquariato. Be’, sa come la pensa la scuola sulle cose antiche. Quindi non gli ho neppure chiesto se potevo mettere una catena al cancello... Ho immaginato che il preside avrebbe detto di no.» Il vecchio custode sorrise mostrandole una piccola chiave. «Questa è per il suo nuovo lucchetto, signorina Phoebe.» Poi gliene diede un’altra. «E questa è di riserva. Solo lei ha le chiavi. Si sente sicura ora?» Si sentiva sicura? Lo sarebbe mai stata? Il dottor Slope non era disponibile quel mattino, ma era di turno un patologo più accomodante. Mallory lo affrontò con le mani sui fianchi, il suo modo di dire: Non provare a fregarmi. E lui capì al volo. Bene, non avevano tempo da perdere. «Mi spiace, ma non posso aiutarvi.» Il giovane dottore guardava lo schermo del computer. «Non c’è nessun certificato di morte con quel nome.» «Okay, amico» intervenne Riker. «Siamo alla ricerca di un barbone morto. Ma qualsiasi informazione relativa a quel giorno potrebbe essere d’aiuto.» La data che gli avevano comunicato corrispondeva a quella della morte di un senzatetto nel Ramble, la vittima non identificata del patteggiamento di Toby Wilder. L’uomo in camice bianco fece scorrere le voci sullo schermo e si fermò. «Trovato. C’è un cadavere che corrisponde. Niente nomi, solo un numero. Era stato rinvenuto a Central Park.» Batté sui tasti per cercare le fotografie dell’autopsia. «Be’, due cose strane. C’è un lungo intervallo di tempo tra l’arrivo della salma e la redazione del referto. E vedete qui? Queste foto mostrano che era stato picchiato, ma il cadavere non è stato sezionato.» «Lei mi sta prendendo in giro.» Riker osservò da vicino l’immagine di un corpo selvaggiamente massacrato. «Questo poveretto era ridotto malissimo. Era la vittima di un omicidio.» «Sì, signore, infatti. Ed è annotato proprio qui.» Mallory fece cenno al medico di alzarsi e togliersi di torno. Prese il suo posto davanti al computer e iniziò a scorrere le fotografie una dopo l’altra. «Quelle della faccia non servono. È coperta di sangue. Non riusciremo mai a identificarlo così. Ma aspetta. Guarda qui.» Riker osservò l’ingrandimento di una ferita. Un bisturi posto accanto al cadavere dava un’idea delle dimensioni. «È un morso.» Mallory annuì. «Denti piccoli. Sono stati dei bambini a ucciderlo.» Riker si rivolse al patologo. «Perché questa autopsia raffazzonata? Non volevate perdere tempo per un barbone?» Indicò lo schermo. «Visto che non aveva nome né famiglia, nessuno ha ritenuto che valesse la pena dare un’occhiata più approfondita?» «Vogliamo l’esumazione» disse Mallory. «La vogliamo subito.» «Avete intenzione di rovinare la reputazione del mio dipartimento?» Improvvisamente l’anatomopatologo capo si era liberato dai suoi improrogabili impegni. Kathy Mallory era accanto al computer nell’ufficio di Edward Slope. «Mi serve la tua password per le fotografie dell’autopsia.» «Figuriamoci» disse il medico, sardonico fino all’osso. Il suo giovane assistente si sedette alla tastiera, credendo che la detective avesse veramente bisogno di aiuto. Quando il file fu trovato, stampato e posato sulla scrivania, Slope esaminò il primo foglio. «L’autopsia fu eseguita dal dottor Costello, non il migliore dei miei patologi. È rimasto qui poco.» Il referto era breve. Qualche minuto più tardi aveva finito di leggerlo. «Gli esiti degli esami del sangue sono del tutto plausibili. Che fosse alcolizzato quadra con l’annotazione che la vittima puzzava come una distilleria. Il livello di alcol nel sangue è il più alto possibile per un uomo in posizione eretta.» Guardò le fotografie del cadavere. «La causa della morte sono ovviamente le lesioni. È ben documentato qui.» Si alzò dalla scrivania e andò a mettersi dietro il giovane patologo. «Raymond, controlla i nostri impegni mondani in quella data.» Slope si chinò per leggere il testo sullo schermo. «Quando questo cadavere fu esaminato, ne avevamo altri quattro provenienti da una sparatoria in un night-club. Quelle vittime ebbero un’autopsia completa. Avevamo anche tre onesti contribuenti morti in un incidente stradale. Quello senza testa guidava una BMW decappottabile. Poteva esserci una causa di morte più evidente? Credo di no. Infatti al facoltoso cittadino decapitato non furono riservate più attenzioni che al vostro amato barbone.» Edward Slope sorrise mentre un altro ipotetico complotto andava in cenere. Mallory sparse le fotografie sulla scrivania per trovare la sua preferita. «Quindi se l’autopsia l’avessi eseguita tu... se avessi visto i segni di questi piccoli denti...» Lasciò la frase in sospeso. Slope le strappò di mano l’immagine e la guardò. «Segni di denti molto piccoli... di un bambino.» E ora studiò tutti gli scatti, con calma, da vicino. «Non ho forse detto che il dottor Costello non era un fulgido astro del dipartimento?» Posò le fotografie. «Per rispondere alla tua domanda... sì, io avrei eseguito un’autopsia completa e molto accurata.» Evidentemente aveva sottostimato l’incompetenza del dottor Costello. Come poteva essergli sfuggito un dettaglio così insolito? L’annotazione sprezzante «puzza come una distilleria» lasciava immaginare fin troppo facilmente che a quel corpo senza nome fosse stato riservato un esame frettoloso e superficiale in una giornata frenetica, con tanti cadaveri più rispettabili in lista d’attesa. «Questo non cambia il fatto che il vostro barbone sia stato ammazzato di botte» concluse Slope. «E comunque tenete presente che l’odontologia forense non è una scienza esatta.» Kathy Mallory posò sulla scrivania la foto di uno scolaro sorridente in blazer, cravatta... e un segno di denti sul collo. «Io dico che corrispondono. Se il tuo patologo si fosse degnato di inserire nel referto i segni del morso di un bambino, quel caso non sarebbe stato rifilato a un detective alle prime armi come...» Edward Slope alzò una mano per indicare che non c’era bisogno di finire la frase. Sorridendo prese la fotografia della scuola. «E adesso, naturalmente, è colpa mia se il piccolo Nadler è stato ucciso.» Come concordando, lei disse: «Non è troppo tardi per rifare l’autopsia al barbone». «Lo è.» A parlare era stato il giovane dottore al computer. «Dieci anni fa il barbone ha ricevuto sepoltura privata, ma non ci sono dettagli su questa seconda inumazione. Non sappiamo dove si trovi la tomba.» Riker tirò fuori il taccuino. «Chi ha firmato l’ordine di esumazione?» «Non c’è nessun nome» rispose l’assistente. «Non risulta che il Comune abbia pagato le spese. E avremmo dovuto riesaminare il corpo solo in caso di dubbi sulla causa di morte. Se la polizia non è interessata, noi non siamo coinvolti. Qualsiasi giudice potrebbe aver autorizzato l’esumazione.» «Qualcuno doveva aver identificato il corpo prima della sepoltura» dedusse Mallory. «Quando era ancora sotto la vostra custodia.» «Registriamo scrupolosamente tutti i visitatori dell’obitorio» precisò l’anatomopatologo capo. «Ma archiviamo nel computer solo le persone che identificano i cadaveri. E in questo caso non ce ne furono. Non abbiamo un nome per il vostro barbone.» «E i fogli che i visitatori devono firmare?» domandò Riker. «Fortunatamente non buttiamo mai via nulla» rispose Edward Slope. «Se mi concedete un anno di tempo, forse potrei trovarli in qualche nostro deposito in periferia... sempre che nel frattempo la carta non sia stata distrutta dall’umidità o dalla muffa... oppure mangiata dai topi.» Le ultime parole le disse unicamente a beneficio del suo aiutante. I detective erano spariti. Mallory sventolava dei fax pieni di nomi e date contro l’orecchio dell’avvocato cieco. Anthony Queen udì che li accartocciava. «È stato fregato dalle pompe funebri, vecchio mio.» Mallory scagliò la palla di carta sulla scrivania per spaventarlo. «Secondo l’anagrafe cimiteriale» disse Riker «la madre di Toby fu sepolta fuori città nella tomba di famiglia. E quel giorno ci furono due sepolture... Susan Wilder e il barbone ucciso da Toby.» «Non ha mai ucciso nessuno. Era innocente.» «Così dice un avvocato da strapazzo» lo aggredì Mallory. «Un anno dopo essere uscito dal carcere Toby le diede il numero di una bara per esumare il corpo e seppellirlo altrove. Quel numero Toby lo aveva visto all’obitorio, sul talloncino legato all’alluce del barbone. Non c’erano altri modi per arrivare alla bara giusta nel cimitero di Potter’s Field. E Toby portò dei fiori nel Ramble, nel punto esatto in cui era stato trovato il cadavere. Come faceva a sapere dove mettere i fiori se non era stato lui a uccidere il barbone?» Il vecchio non negò. Riker avrebbe saputo trovare qualche altra spiegazione plausibile, ma l’avvocato no. E questo era interessante. «Quindi lei ha sempre saputo.» «No» replicò Anthony Queen. «Diedi il numero della bara a un’agenzia di pompe funebri. Furono loro a reclamare il corpo, non io.» «Mi correggo» disse Riker. «Lei non voleva sapere.» «Toby attese che sua madre morisse» intervenne Mallory. «Solo dopo reclamò il corpo del barbone. Non voleva farle sapere che l’uomo assassinato era Jess Wilder. È questo il nome che ha fatto incidere sulla lapide del barbone. Lei ha permesso che quel ragazzo si dichiarasse colpevole dell’omicidio di suo padre.» Anthony Queen sembrava sconvolto... se si doveva credere al suo sguardo spento. Pareva non essersi accorto che i detective erano usciti dal suo ufficio. Dalla sala d’attesa Riker vide che aveva posato la testa sulla scrivania. Era un gesto di dolore... o solo una finta? Prese mentalmente nota di chiedere a Coco se i topi provavano rimorso. In sala riunioni Riker e Mallory stavano disponendo sulla parete di sughero le prove sbocciate dai fiori di Toby Wilder. Dopo aver indagato nel quartiere dove erano vissuti i Nadler, gli altri detective erano tornati a mani vuote: negli ultimi quindici anni il portinaio del condominio era cambiato e anche molti inquilini. Dai certificati di morte risultava che i genitori di Ernest erano deceduti poco dopo aver perso il figlio. Per ultimo entrò Janos, che invece aveva fatto centro e appese alla parete un foglio giallo a righe. Riker inforcò gli occhiali per leggere la minuscola grafia ordinata. Era la dichiarazione scritta e firmata di una vicina di casa del bambino ucciso. «Mallory, senti questa. Riguarda i genitori di Ernie. La vicina, Irene Walters, dichiara: “Non ho mai saputo che Ernie fosse scomparso. Sapevo che stava molto male, ma non i particolari. I suoi genitori non erano mai a casa. Sempre all’ospedale con Ernie, giorno e notte, sempre. Una volta ho cercato di vedere il bambino, ma il poliziotto di guardia alla porta lasciava entrare solo i famigliari stretti. Be’, credo che sia passato un mese. Una mattina uscii di casa e sull’altro lato della strada c’era un sacco di gente. Guardavano tutti in alto. Ricordo di aver udito le sirene mentre attraversavo la strada. Alzai anch’io lo sguardo e li vidi. I genitori di Ernie stavano in piedi sul davanzale di una finestra. Si tenevano per mano. Si tenevano sempre per mano quando li incontravo. E parevano non aver paura quando decisero di saltare... come se andassero a fare una passeggiata in cielo. Il tempo prima che cadessero a terra mi sembrò lunghissimo. Allora capii che il bambino era morto”.» Seduta in grembo all’imponente detective Janos, Coco sembrava una bambola mentre recitava l’elenco dei veleni per eliminare i topi. Charles Butler si avviò nel corridoio verso la sala riunioni. Si girò e vide Janos che allargava le mani, senza dubbio per descrivere il ratto più grande che avesse mai visto. Lo psicologo entrò nella stanza foderata di sughero. Su una parete c’erano fotografie di autopsie e la partitura di Toby Wilder... sangue e musica. Le altre erano coperte di fogli, mappe e schemi. I detective in maniche di camicia esaminavano i documenti. Charles andò verso l’unica donna. Essendo i suoi rapporti con Mallory piuttosto conflittuali in quei giorni, le si avvicinò come un goffo adolescente che invita una bella ragazza a ballare... o a sputargli addosso, una delle due. Come saluto, la giovane detective batté il dito su un foglio e lui lesse la storia, scritta da una testimone oculare, di due persone che si erano suicidate gettandosi da una finestra. «Qualcuno deve pagare per questo» disse Mallory. «Ci serve un’autopsia psicologica.» «Da presentare in tribunale? Sono cose che fa l’ufficio di Edward e probabilmente molto più...» «No» lo interruppe Riker. «Ci vorrebbero settimane per avere il referto definitivo dal dipartimento di Slope. Tu puoi fare più in fretta.» Mallory gli mostrò una serie di documenti dell’ospedale e Charles capì subito che era stata lei ad allineare quei fogli con una precisione che altri ottenevano solo con l’aiuto di squadra e righello. C’erano cartelle cliniche, conti e spese per le cure di un bambino undicenne. «Non riusciamo a trovare nemmeno le sue ceneri» disse Mallory. «Questo è tutto ciò che resta del figlio dei Nadler.» Fingendo di dare una semplice occhiata per non far capire che stava leggendo alla velocità della luce, Charles incamerò ogni parola della triste storia di un bambino che aveva perduto le mani e poi la vita in ospedale. Arrivato alla fine dei documenti – la fine di Ernest – si girò a guardare i detective. «Vi dico una cosa che qui non risulta. Secondo la testimonianza della vicina, i genitori stavano all’ospedale giorno e notte. Quindi senz’altro avevano una stanza e un letto vicino al reparto di rianimazione, è la norma. Probabilmente i Nadler dormivano a turno, di modo che uno dei due fosse sempre con il figlio.» Mostrò il foglio che trasferiva Ernest Nadler dalla rianimazione a una camera privata. «Durante la sua ultima settimana di vita il ragazzo era fuori pericolo, ma i genitori erano sempre con lui. Questa è una suite, molto costosa, con una seconda stanza e un letto per il padre e la madre. Non volevano lasciarlo solo quando – se – fosse uscito dal coma. Ne sono sicuro. Le mani amputate... nessun genitore vorrebbe che il proprio figlio affrontasse quell’orrore da solo.» Andò in fondo alla parete e indicò tre fogli. «Questi non vengono dall’ospedale. Sono di un’infermiera privata.» «Eh?» Riker controllò i numeri sulla lista dei referti. «Hai ragione. Quelle carte provengono da un deposito contenente gli effetti personali dei Nadler... e la loro posta non aperta.» «Be’, questa è la parte più triste della storia» disse Charles. «Quando il bambino si riprese ed era in via di guarigione, i genitori dovevano essere esausti. Assunsero un’infermiera per assisterlo, solo qualche ora ogni tanto. I genitori avevano un bisogno disperato di una pausa... una boccata d’aria, una cena fuori dall’ospedale, qualcosa di normale. E durante una di queste rare assenze, mentre era con l’infermiera, il bambino morì.» Riker si avvicinò per leggere l’orario dell’ultimo turno dell’infermiera. «Non ce n’eravamo accorti. Stiamo ancora vagliando tutto questo materiale.» Charles tornò al punto di partenza e considerò la testimonianza del doppio suicidio. «Queste due persone erano sfinite da un vortice di emozioni. Le cartelle cliniche dicono che il figlio stava migliorando. Non vedevano l’ora di poterlo riportare a casa. Poi, senza preavviso, il figlio muore. E loro si sentono responsabili. Ci si sente sempre in colpa quando muore qualcuno in famiglia. Ma qui è anche peggio. Vedete, non avevano affidato il figlio a una persona qualsiasi, avevano assunto un’infermiera diplomata, il meglio che potevano trovare. Lo lasciarono nelle sue mani solo per un’ora e lui morì. Sfinimento, dolore... senso di colpa. Si sono gettati dalla finestra per smettere di soffrire.» Charles si voltò a guardare i detective. «Non c’è nessun mistero qui.» «Quindi chi ha ammazzato il figlio... ha ucciso anche i genitori» concluse Mallory. «Puoi mettercelo per scritto?» «Una sorta di induzione al suicidio, sì. Avrete la mia relazione entro stasera.» Charles tornò a guardare i documenti. «Non doveva esserci un poliziotto di guardia nella camera della vittima di un crimine?» «Ventiquattr’ore al giorno, sette giorni la settimana» confermò Riker. «Ma il poliziotto è lì solo come protezione. Non registra chi entra ed esce dalla stanza. Quindici anni fa nessuno pensava che Ernest Nadler fosse stato assassinato nel suo letto. Così nessuno interrogò l’unico testimone... l’agente in servizio quando il bambino morì.» «Ma tu sì?» «È alcolizzato» disse Riker. «Si è bevuto il cervello. Non ricorda nulla.» «E l’infermiera?» «La cercheremo.» Mallory staccò l’orario dell’infermiera dal muro. «Ma che probabilità c’è che ammetta di essersi assentata proprio mentre qualcuno faceva fuori il suo paziente?» «I genitori ricorsero alla sua assistenza solo tre volte» osservò Charles. «L’assassino aveva poche possibilità di entrare in azione.» «Capisco dove vuoi andare a parare» disse Riker. «Ci resta l’agente di guardia. È in una stanza degli interrogatori, ma dubito che ricorderà di aver avvisato per telefono il killer.» Mallory sembrava molto interessata agli orari dell’infermiera. «Tre volte all’ora di cena, la stessa ora tre sere di fila.» Sorrise. «Di sicuro Rolland Mann ne era al corrente. Se il suo prezioso testimone stava migliorando, avrebbe voluto sapere quando si sarebbe svegliato. Teneva tutto sotto controllo, compresa l’infermiera. Quindi non avrebbe avuto bisogno di essere avvisato dall’agente di guardia.» Con gli occhi chiusi, il comandante della polizia Beale giaceva nel letto del reparto di rianimazione. La sua protezione era affidata a un unico agente che stava seduto vicino alla porta sull’altro lato della stanza... dove non poteva vedere né sentire. Era quasi come se non ci fosse. La vita di Beale era sospesa a un filo sul punto di spezzarsi. Non avrebbe resistito a lungo. Comunque, meglio prima che dopo. Rolland Mann avrebbe anche potuto fare a meno del posto del vecchio, ma ora avere il potere assoluto era essenziale per governare il caos in cui era precipitata la sua vita. Osservò i tubi che uscivano da ogni orifizio del paziente. I monitor lampeggianti di luci colorate registravano ciascun respiro e i battiti di un cuore molto compromesso. Così debole... così vulnerabile. 33 Vedo il pastore nel giorno del mio funerale. Sento che dice: «Il piccolo Ernie era un bambino buono e intelligente. Non aveva un nemico al mondo». Poi quel vecchio scemo farnetica sui misteriosi disegni di Dio che portano all’omicidio dei bambini mentre tornano a casa da scuola. E il mio fantasma urla: «Idiota, non c’è nessun mistero! L’avevo detto a tutti!». Ernest Nadler Dopo ore di turno l’infermiera era ancora al capezzale del suo paziente, il comandante della polizia Beale. Benché stanca dopo una lunga notte di veglia, la donna rassettava le lenzuola ogni volta che il vecchio si muoveva. «Può andare» le disse Rolland Mann. «Si prenda un caffè. Starò io con lui finché...» Si interruppe vedendo che lei scuoteva la testa. L’infermiera non intendeva lasciare il suo posto. Lo si capiva dalle scarpe bianche saldamente piantate a terra e dalla sua stazza da pugile. Che avesse intuito le sue intenzioni? Aveva capito che di lui non poteva fidarsi? No, c’era dell’altro. La donna guardò l’orologio e poi scrutò attraverso la tenda. Aspettava i rinforzi? Oltre la tenda Mann vedeva solo il poliziotto che aveva scelto per il servizio di sicurezza. Niente di strano. Poi le porte del reparto si spalancarono ed entrò un altro uomo in uniforme. E il collega gli lasciò il posto. Su ordine di chi? L’infermiera alzò la mano per salutare il nuovo arrivato. «Agente Wycoff ?» «Sì, signora.» Il giovane poliziotto guardò Rolland Mann. «Devo vedere i suoi documenti, signore.» «Cosa? Io sono il tuo capo.» «No, signore, il mio superiore è il mio sergente. E prende ordini da...» «Lascia perdere.» Rolland Mann sventolò la mano per risparmiarsi la litania sui gradi di comando. Dubitava che quell’idiota fosse in grado di dirgli chi aveva osato revocare gli ordini del vice comandante della polizia. Di sicuro non il capo della polizia. Di questo era certo. Soffocato dall’ansia, considerò se poteva essere stato il sindaco e si chiese chi avesse potuto fare pressioni su di lui. Rolland uscì dal reparto e camminò nel corridoio. Sentiva un peso sul petto. Il pensiero corse a Mallory, la detective senza pietà. E seguendo la catena di comando, arrivò al suo nemico più probabile. L’ispettore capo Joe Goddard. Rolland premette il pulsante per chiamare l’ascensore. Prima che le porte si aprissero aveva già elaborato un piano per trasferire Goddard all’ufficio del procuratore generale, il cimitero dove gli alti funzionari in disgrazia venivano sepolti vivi. L’indagine ufficiosa su Rolland Mann richiedeva un incontro in territorio neutrale. Riker aveva scelto un luogo confortevole e ora stava aspettando l’ispettore capo nell’angolo sudoccidentale del parco di Washington Square. Riker amava quel posto che nelle estati della sua giovinezza era aperto giorno e notte e perennemente invaso da giocolieri, mangiatori di fuoco, suonatori di strada, balordi di ogni genere, ragazzi con la chitarra, mangiadischi a tutto volume. Oh, e gli odori... manzo caldo e hot dog, profumi femminili, sigarette e marijuana. Anni prima, però, per venire incontro alla preoccupazione degli amici per i figli che trovavano la droga nel parco, un sindaco aveva imposto il coprifuoco. Degli adolescenti che fumavano erba... ma chi l’avrebbe mai detto? Il parco era stato recintato e un altro dei piaceri della vita era svanito dalle notti del Greenwich Village. Ora, nelle calde giornate d’estate, i venditori ambulanti offrivano innocui gelati e bibite da chioschi tutti uguali e ornati di ombrelloni bianchi e verdi... tutto così pulito, così sterilizzato. Quella città stava andando in malora. Il sole batteva sulla piccola piazza delimitata da blocchi di pietra, alberi e tavolini infissi nel cemento. Anche i sedili erano piantati nell’asfalto, ma non servivano per riposare. Quell’angolo del parco era un’oasi per scacchisti. Riker si avvicinò a una partita in corso e mostrò il tesserino. «Scusate, ragazzi, mi serve il tavolo.» I due uomini si alzarono di scatto con grandi sorrisi, segno che avevano addosso della droga e forse la vendevano. «Non così in fretta» disse lui. Smisero di sorridere, consapevoli che fuggire non sarebbe stato così facile. Ma il detective voleva solo parlare. Mostrò l’immagine di Joe Goddard sul cellulare e loro gli dissero che l’ispettore capo era un frequentatore abituale di quell’angolo del parco. «Sì, gioca tutte le domeniche» confermò il più vecchio dei due. E il più giovane aggiunse: «Quel figlio di puttana è un giocatore con i controcoglioni». Nell’idioma di New York era un gran complimento. «Be’, è la prima volta che gioco con lui» disse Riker. «Qualche dritta sulla strategia?» «Ehi, amico, tu hai la pistola, no? Direi che non ti serve altro.» Bastava così. Il detective li congedò e si sedette al tavolo. I giocatori e gli spacciatori degli altri tavoli si erano già dileguati. Osservò la gente che attraversava la piazza. Non era facile distinguere i newyorkesi dai turisti e dagli studenti dell’università. Ormai erano tutti vestiti allo stesso modo e i capelli avevano colori naturali... niente più teste variopinte e acconciature da mohicani. La follia psichedelica era sparita da quel posto... e lui ne sentiva la mancanza. Aprì un sacchetto e tirò fuori il suo recente acquisto in un negozio di giocattoli. Era un set a buon prezzo, con i pezzi di plastica e la scacchiera di cartone. Non aveva più giocato da quando Kathy Mallory era piccola. Dopo aver imparato quanto bastava per batterlo, quella ladruncola aveva rubato un pezzo come souvenir e lui non lo aveva mai sostituito. Si appoggiò allo schienale. Nemmeno una nuvola in cielo. Il sole era... Una sagoma massiccia coprì la luce. Riker vide l’ispettore capo che si avvicinava cercando facce sospette, una vecchia abitudine del bravo poliziotto che era stato... ai tempi in cui era pericoloso nel senso giusto. Joe Goddard guardò sdegnato i miseri scacchi di plastica. «Meglio per te se hai qualcosa da darmi.» «Sì» disse Riker. «So per certo che un poliziotto di alto grado ha occultato le prove di un omicidio. Più precisamente, le ha tenute da parte. È comunque un reato grave, no? Che potrebbe valere un po’ di tempo al fresco per intralcio alla legge.» «Ve la siete presa comoda, voi due.» Il capo si sedette davanti a lui. «Vediamo.» Riker frugò con calma nelle tasche per trovare un fiammifero. Si accese una sigaretta e impiegò qualche secondo per emettere una nuvola di fumo azzurro. Poi batté la mano sul tavolo per invitarlo a giocare. «Bianco o nero?» «Cosa?» L’ispettore capo socchiuse gli occhi. Aveva capito che c’era un altro gioco in corso. «Non fare il furbo con me, Riker.» E al diavolo la regola che il bianco muove per primo. Goddard prese un pedone nero e lo piazzò su una casella. Gli altri pezzi presero posto. «Il tempo vola per te e la tua collega... soprattutto per lei.» Il detective spostò un pedone bianco sulla scacchiera. Poi si ispirò al manuale di Mallory per sopravvivere a Sbirrolandia: Quando sei nei guai con il capo, spara per primo. «Ci ha mentito.» Sbatté sul tavolo i fogli che teneva in grembo. Erano le prove di Goddard, le copie dei vecchi appunti dell’agente Kayhill scritti quindici anni prima, la notte in cui un bambino era stato tirato giù da un albero. Silenzio. Un pedone nero avanzò di due caselle. «Spiegati, se non vuoi dare il bacio d’addio al tuo distintivo.» Toccava a Riker muovere. «La cosa non mi spaventa.» Mosse anche lui un pedone. «Sono così bravo nel mio lavoro che a volte mi faccio paura da solo.» Teneva gli occhi fissi sulla scacchiera. Non poteva vedere se il capo gli stava puntando la pistola alla testa. «Aveva ragione sull’agente Kayhill. L’Alzheimer gli ha fottuto il cervello.» Alzò gli occhi per cogliere un lampo di sorpresa sul viso di Goddard... solo un lampo. «Alla clinica ho saputo che sua moglie è morta da un pezzo. Ormai c’è solo una persona che va a trovarlo... e non è lei. Così mi sono chiesto come avesse avuto gli appunti del vecchio. Ho cercato la figlia. Una signora simpatica. Abita a Staten Island. Anche Kayhill si era trasferito sull’isola il giorno dopo aver trovato il piccolo Nadler nel Ramble.» In rapida successione altri pezzi si mossero sulla scacchiera per aprire la strada a quelli più importanti. Un pedone di Riker fu catturato e scagliato a terra. «La figlia di Kayhill ricorda bene quando è andato sull’isola a trovare il padre. Allora lei era capitano... per loro era stato come ricevere la visita di un re. Non è sicura della data, però ricorda che stavano ancora svuotando gli scatoloni del trasloco. Immagino sia stato allora che ha preso gli appunti relativi all’aggressione nel Ramble. Scommetto che la data coincide con la prima importante promozione di Rocket Mann. Fu il fatto che quell’uomo fosse passato di colpo dal nulla al distintivo d’oro ad attirare la sua attenzione?» L’alfiere di Goddard correva su e giù per la scacchiera in un gioco mortale quando Riker disse: «Quindici anni fa l’agente Kayhill non aveva identificato la vittima nel parco. Quindi... ci ho messo un po’ a capire come lei fosse arrivato a Ernest Nadler». L’ispettore capo scagliò un pezzo catturato contro il muretto con tanta forza da spaccarlo. «L’ho detto a te... e alla tua collega. Il piccolo Nadler era sparito tre giorni prima...» «Il suo certificato di morte fu emesso un mese dopo» disse Riker. «Se morì per mano di Mann, si tratta di omicidio. Non lo si può interpretare in altro modo. Ma lei non aveva trovato nessun verbale di un’indagine. Lei sapeva che Rocket Mann aveva insabbiato il caso. Lo sa da quindici anni. Ah, e grazie per averci fornito la copia del certificato di morte del bambino. C’è qualcosa di strano, mi riferisco alla data... ma non quella della morte di Ernest. Quella copia lei l’ha presa il giorno dopo... quando fu archiviata all’anagrafe.» Un pezzo bianco finì tra l’erba... dieci metri più in là. Goddard disse: «Tu non sai quando io...». «Sì, lo so.» Riker mosse un pezzo e lo lasciò in una zona pericolosa della scacchiera. «So che ha tenuto sotto osservazione Ernest Nadler per un mese intero. Come se... aspettasse che quel bambino morisse.» Con una mossa dell’alfiere nero Goddard eliminò il pezzo bianco dal tavolo facendolo rimbalzare due volte. «Sei licenziato.» «Sono così fottutamente bravo nel mio lavoro... non credo che mi licenzieranno mai.» Il detective mosse la torre e osservò la ritirata dell’alfiere nero... benché quel pezzo non fosse in pericolo. Lo era però la regina di Riker. Goddard avrebbe potuto prenderla, ma voleva ucciderlo lentamente. Sembrava dicesse: Vuoi ballare? Okay, balliamo... per un po’. L’ispettore capo intrecciò le dita e attese la mossa di Riker. «La sua copia del certificato di morte porta la data di emissione» disse il detective. «La si legge in un timbro messo a mano... molto sbiadita. Potrebbe passare per una ditata. Non mi sorprende che non l’abbia notata.» Posò sul tavolo una copia diversa del documento. «Qui, vede? Su questa copia è più chiara... perché ho cambiato la cartuccia della fotocopiatrice. Con l’inchiostro scuro si vedono meglio i numeri. È un trucco che ho imparato da un mio amico che lavora all’archivio. Quindici anni fa lei aveva la prova sicura che Rocket Mann aveva insabbiato l’omicidio del bambino, e se l’è tenuta lì perché sapeva che prima o poi le sarebbe tornata utile. E ora si sta chiedendo chi altro lo sa... Nessuno. Ho messo la sua copia in una busta, poi sono andato all’anagrafe e me ne sono fatto dare un’altra.» Con un gesto brusco Goddard spazzò via tutti i pezzi dalla scacchiera. Il detective non smise di fissarlo negli occhi mentre cadevano a terra. «Cosa vuoi, Riker?» Cosa voleva? Be’, la sicurezza del posto per Mallory. Invece disse: «Nomi e numeri. Quelli che ha ricavato dal cellulare di Mann... ricorda? Quello che ha trovato nel bidone dei rifiuti». Riker prese il telefono e gli mostrò la fotografia di Rolland Mann che si liberava del cellulare. «L’ho scattata il giorno in cui lo abbiamo interrogato. Lei voleva che gli mettessimo il pepe al culo. Così è stato. Poi l’abbiamo seguito. Ho contato tre chiamate mentre pedinavamo Rocket Mann... e lei.» Gli mostrò un’altra fotografia. Goddard vide sul piccolo schermo l’immagine di se stesso che cercava tra i rifiuti il cellulare gettato via da Mann. «Le prime due chiamate erano troppo brevi» continuò Riker «ma al terzo tentativo c’è stata una conversazione.» Poiché il capo esitava, Riker incrociò le braccia. «Perché vuole tenerci nascosto qualcosa? Ha intenzione di proteggere quell’individuo o vuole toglierselo di torno?» Il detective aprì il taccuino e prese la penna. «Chi ha chiamato Rocket Mann quel giorno?» «Tre chiamate,» disse Goddard «ma due allo stesso numero.» Il detective prese nota di quello che gli diceva il suo capo e finì con un punto interrogativo. Poi ripose il taccuino e si alzò. «Oh, a proposito, mentre ero all’archivio ho notato che il suo nome è ancora registrato... alla data in cui ritirò la copia del certificato di morte di Ernest Nadler... ma non credo che qualcuno andrà a ficcare il naso in quei vecchi documenti.» Alzò le spalle. «Nessuno avrebbe motivo di farlo. Anche se... forse Mallory potrebbe... se lo sapesse.» Gli mostrò la busta di plastica contenente la copia di Goddard e la posò sul tavolo con un gesto di buona volontà. Scacco matto. A Riker era già capitato di arrestare dei poliziotti, ma non ne aveva mai ricattato uno. Nei paraggi di Mallory gli angeli custodi cadevano come mosche morte. Rolland Mann tornò a casa a mezzogiorno. Un bicchiere cadde dalla mano tremante di sua moglie e si frantumò sul pavimento. Era terrorizzata. La rimproverò? No, non lo faceva mai. Da tempo si era abituato ai suoi attacchi di panico, benché di solito a causarli fossero i luoghi pubblici. Nei primi anni della convivenza lei preferiva stare in casa, tanto temeva di essere riconosciuta. E ormai viveva come agli arresti domiciliari. In casa si era sempre sentita al sicuro... finora. La portò in salotto e si sedettero sul sofà. Lui guardò la valigia pronta accanto alla porta... come se Annie potesse mai andarsene. Sul tavolino c’era il giornale aperto sulla storia dell’Artista della Fame e delle tre vittime appese nel Ramble. Non ne avevano mai parlato, e forse avrebbero dovuto farlo. Evidentemente Annie stava mettendo insieme i pezzi. Il giorno seguente ci sarebbero stati ulteriori sviluppi dell’indagine, il collegamento con un bambino morto molti anni prima... e il doppio suicidio dei signori Nadler. Quella notizia avrebbe mandato in tilt i nervi già tesi di sua moglie. Non le aveva mai detto come erano morti i genitori del bambino. Mallory tirò fuori il pranzo e dispose i contenitori di riso fritto e maiale sulle scrivanie. Guardando Riker con sospetto disse: «Veramente... come sei riuscito a farti dare quei numeri da Goddard?». «Te l’ho detto. Li ho scambiati con le fotografie di lui che fruga tra i rifiuti.» Riker sfogliò il taccuino. «Rocket Mann ha chiamato prima Grace Driscol-Bledsoe. Solo il tempo di attivare la segreteria ma non di lasciare un messaggio. Poi ha telefonato a casa sua. Tre secondi. Poi di nuovo a casa, e questa chiamata è durata tre minuti. Con chi parla... con la segreteria? Non ha figli né moglie.» 34 L’atrio della scuola è pieno di gente quando sento una mano che dalla spalla penetra nel taschino della camicia. Poi un’altra mano si infila nella tasca posteriore dei pantaloni... e un’altra ancora. Più tardi, nascosto dietro un albero del giardino, tiro fuori i tre biglietti. Dicono tutti la stessa cosa: «Fra poco!». Ernest Nadler Se fossero stati cani avrebbero drizzato le orecchie. Così pensò Jack Coffey vedendo i suoi uomini girare la testa all’unisono per seguire il ticchettio dei tacchi a spillo ma, constatata l’età eccessiva della visitatrice, ripresero subito il lavoro... tutti, tranne Riker. Come un gonzo che se ne sta a bocca aperta davanti a un incidente ferroviario, il detective seguiva con gli occhi la dama dell’alta società che passava tra le scrivanie accompagnata da un codazzo di avvocati e dalla Hoffman. Il tenente Coffey si aspettava quella visita, giacché un’ora prima era stata approvata la mozione che congelava il patrimonio di Humphrey Bledsoe. Con un cenno di saluto, Grace Driscol-Bledsoe gli passò davanti ed entrò nell’ufficio. Il suo seguito riempì la stanza occupando ogni posto. Coffey fece segno a Riker di unirsi al gruppo. Il detective se la prese comoda. Raccolse le carte e telefonò a Mallory per informarla che gli avvocati si erano presentati in forze. Nell’ufficio di Coffey regnava il silenzio quando Riker entrò annunciando: «La mia collega predilige il movente economico». Consegnò alla signora la copia delle pagelle del figlio. «Il suo ragazzo non era molto brillante. Mallory non crede che revocare il fondo fiduciario fosse stata un’idea di Humphrey. Gli ha dato una mano lei?» «Come già sa, detective, io detestavo mio figlio. Perché avrei dovuto aiutarlo?» Giusto. Come madre, quella donna rivaleggiava con Medea. Riker sorrise. «I milioni di Humphrey... ecco perché. Lei non poteva toccarli finché suo figlio era rinchiuso in quella clinica. E noi dobbiamo chiederci da dove venisse tutto quel denaro.» «Gliel’ho detto. Il mio defunto marito finanziò il ricovero di ...» «Sì. Sì. Era un consulente politico. Apparteneva a una lobby, giusto? L’influenza politica rende bene. E noi pensiamo che questo traffico fosse collegato all’Istituto Driscol. E qui entra in scena lei, signora.» Gli avvocati cominciarono a minacciare dandosi sulla voce, finché Coffey urlò: «Ehi! Siete in casa mia! Smettetela di schiamazzare!». Rivolse un sorriso alla signora Driscol-Bledsoe e con tono più civile domandò: «Quindi... quanto era sporco il denaro di suo marito?». La signora sorrise, si divertiva. «È pertinente all’omicidio di mio figlio?» «Può scommetterci» disse Riker. «Se suo marito si fosse accorto che stava arrivando un controllo, il fondo a favore del figlio sarebbe potuto diventare un magnifico rifugio per il patrimonio di famiglia. Ma non aveva previsto di morire giovane... o che il figlio avrebbe fatto annullare il fondo. Poi Humphrey viene ucciso e tutti quei milioni tornano a lei... belli puliti. Uccidere il proprio figlio è un sistema originale per riciclare il denaro sporco. Non ci era mai capitato prima.» Sempre sorridendo lei disse: «E lei crede che io ne sarei capace?». «Oh, sì,» rispose Riker «ma lusingarla non fa parte del mio lavoro. Dunque, non vuole aiutarci a chiudere il caso? A me sta bene. Se nessuno finisce in tribunale per l’omicidio di suo figlio, possiamo bloccare i milioni di Humphrey per i prossimi cent’anni. Oppure no. A lei la scelta.» Jack Coffey stava osservando gli avvocati. Erano preoccupati e silenziosi. Allora capì che il bluff sarebbe riuscito. Tuttavia l’espressione della signora non era altrettanto facile da decifrare. Ma poi disse: «Come posso aiutarvi?». Quel giorno Dead Ernest era un relitto fluttuante tra i pensieri sconnessi di Phoebe Bledsoe. Seduta al suo tavolo, aveva molta sete e aspettava che i camerieri la notassero. Era l’ora di punta, ma lei passava inosservata ovunque e in qualsiasi momento. Toby Wilder entrò nel ristorante e neppure lui la vide, se non come un’appendice del solito tavolo. Se non ci fosse stata, forse avrebbe notato che mancava qualcosa all’arredamento. Ma dal suo posto accanto alla finestra Toby fissò lo sguardo su una persona appena entrata e non lo distolse. Phoebe si voltò e vide la detective, quella pazza, vicino alla porta. Tutti i presenti stavano osservando la bella ragazza alta e bionda. L’invisibile Phoebe trattenne il respiro mentre Mallory scrutava il locale finché posò gli occhi su Toby come se lo conoscesse. Oh, no, non lui. Poi lo sguardo verde della detective si spostò, lentamente, come una pistola puntata, cercando ancora. Beccata. Phoebe fremette. Mallory si avvicinò al tavolo e scostò una sedia. «Le dispiace se mi siedo un minuto con lei?» Quel giorno la voce sembrava normale, le parole avevano una cadenza umana. «Non dovrei parlare con lei, detective... se non in presenza di un avvocato.» «Al momento gli avvocati di famiglia sono tutti impegnati con sua madre. Mi chiami Mallory.» Ancora in piedi, si guardò attorno e alzò una mano per fermare una cameriera di passaggio. Evidentemente Mallory possedeva dei superpoteri, perché la donna le porse sorridendo il menu. Solo uno, dato che Phoebe era invisibile. Mallory posò la mano sul fianco e la cameriera non capì subito dove avesse sbagliato. «Sono con la signora» disse la detective indicando Phoebe. E la donna invisibile fu immediatamente promossa a persona molto importante. Phoebe ascoltò l’elenco dei piatti del giorno e le fu chiesto quale condimento preferisse per l’insalata. Bloccato al volo con la mano, un ragazzo indaffarato portò pane e grissini, le posate... e un bicchiere d’acqua con ghiaccio. Phoebe aveva tanta sete. Grazie, grazie. Partita la cameriera con l’ordine del pranzo, Mallory si sedette. L’espressione era cordiale e non c’era nulla di folle nei suoi occhi. Erano solo sconvolgenti. «Mi interessa la situazione patrimoniale della sua famiglia. Il fondo che suo padre aveva aperto per Humphrey era una specie di ricatto per costringerlo a restare in clinica?» «Un ricatto? No, quel fondo non poteva essere revocato. Papà non aveva modo di minacciarlo di riprendersi il denaro. E la rendita non veniva pagata direttamente a Humphrey. Andava al suo tutore, cioè alla clinica.» «Quindi suo fratello era una mucca da mungere... e i dottori non l’avrebbero mai lasciato andare.» «Paradossalmente fu proprio questo il motivo di cui si servirono gli avvocati per ottenere la revoca del fondo e il rilascio di Humphrey.» «E lei, Phoebe? Lei non ha avuto niente quando suo padre è morto. Di lei non si è curato. La cosa non l’ha amareggiata?» «Mi amava.» Non lo disse in tono difensivo, piuttosto come una scolara che esprime una verità indiscutibile: la terra gira intorno al sole e papà mi amava. La detective annuì, non metteva la cosa in discussione. C’era solo curiosità nella sua voce quando osservò: «Però non le ha lasciato un soldo». «Papà non aveva un soldo. È morto al verde.» Phoebe fornì altri dettagli. «Dopo aver lasciato mia madre, per dieci anni passò da un albergo all’altro. Una vita molto costosa. E in quel periodo non ha fatto che bere fino a morirne. Non credeva che ci avrebbe messo tanto. Faceva di tutto per rovinarsi.» Concluse con grande fierezza: «L’ultimo conto del bar di papà l’ho pagato io». Con la sua maniera di misurare le cose, Coco avrebbe detto che rispondendo alla chiamata di Mallory sul telefono speciale il suo sorriso era diventato largo due metri. Anche Charles Butler aveva sorriso guardandola. «Poteva essere una signora.» La voce era incerta mentre parlava con la detective. «Io non avevo gli occhiali.» La bambina ricordava anche un’altra cosa. «Un berretto da baseball tirato giù... No, non ha detto niente... Be’, sì, ma parlava con le mani.» Le dita della mano libera strinsero una matita invisibile e scrissero nell’aria. «Come se volesse qualcosa per scrivere... E poi?... Lo zio Red si è girato... Non lo so.» Si rannicchiò su se stessa e smise di sorridere. In preda all’ansia, alzò un braccio come per ripararsi da un colpo. Mallory stava di nuovo violando le regole. «Non lo so!» Charles prese il telefono e interruppe la conversazione, senza una parola di saluto. Quando Riker entrò, il laboratorio informatico ronzava di aggeggi elettronici e tutti i monitor erano accesi. Mallory posò il cellulare. «Coco sta ricordando altri dettagli. Il nostro killer aveva gli occhiali da sole... di notte.» «Be’, questo spiega i buchi.» La bambina aveva accennato a grandi buchi scuri sul viso sfocato dell’assassino dello zio Red. «C’è dell’altro» proseguì Mallory. «Prima di colpirlo, il killer ha fatto voltare Humphrey per chiedergli una penna... col linguaggio dei segni. L’Artista della Fame fingeva di essere muto per non far riconoscere la voce.» Riker annuì. I nuovi elementi escludevano che si trattasse di un sicario. «E come procedono le ricerche dell’infermiera privata dei Nadler?» «Potrebbe essere morta. Non paga le tasse da quindici anni.» «Abbiamo una visita» disse Riker. «Ce la manda il dottor Slope.» I due detective percorsero il corridoio ed entrarono nella stanza piccola degli interrogatori, quella usata per colloqui che non venivano registrati né osservati dal finto specchio. Una delle tre sedie era occupata dal detective Janos che stava bevendo un tè insieme a una donna dai capelli grigi. «La dottoressa Sills, patologa in pensione» la presentò Janos alzandosi. «Lavorava al dipartimento di medicina legale.» Prima di uscire aggiunse: «Si ricorda del nostro barbone». Con un gran sorriso Riker sedette accanto alla donna. «Grazie per essere venuta, signora.» «Qualsiasi cosa per Edward Slope. Mi ha detto del vostro interesse per le persone che vennero a vedere il cadavere di quel derelitto.» Mallory prese posto davanti alla dottoressa. «Ha portato i documenti dell’identificazione del barbone?» «Non ci sono carte, cara. Ho portato la mia memoria. Edward ha dovuto rinfrescarmela un po’. Mi ha ricordato che quel cadavere venne esaminato il giorno in cui ci arrivò la vittima senza testa di un incidente stradale. Una giornata indimenticabile. Fu allora che trovammo il corpo di quell’uomo. Qualcuno lo aveva riposto in una cella frigorifera che avrebbe dovuto essere vuota. Nessuno sapeva da quanto tempo fosse lì. Ma di sicuro Edward ve ne avrà già parlato.» «No» disse Riker. «Gli sarà passato di mente.» Era pronto a scommettere che un inserviente dell’obitorio aveva intascato una mancia per mettere il cadavere nel posto sbagliato. Un’altra macchia per il dipartimento di Slope. «Be’, era una cosa strana» riprese la dottoressa Sills. «E mancavano anche i verbali. Lo rammento perché dovemmo telefonare a tutti i distretti di polizia di Manhattan.» Il barbone diventava sempre più interessante. «Ma non mi stupisce che Edward si sia scordato del problema dei verbali, quel giorno.» Riker annuì. Certamente. Perché mai Slope avrebbe fornito a Mallory nuove munizioni per un’altra guerra? Mandare la dottoressa Sills era probabilmente un atto di pentimento per non aver riferito tutto quello che sapeva. A quell’uomo onestissimo bastava aver taciuto qualcosa per trascorrere una notte insonne. «Regnava il caos totale» raccontò la patologa. «Eravamo completamente oberati di lavoro, tra le vittime di una sparatoria e quelle di un incidente che aveva coinvolto dieci veicoli. Tanti cadaveri e tutti quei poveretti, i parenti che venivano a identificare i resti. Ma solo uno era un ragazzino, di dodici o tredici anni. Molto bello. Entrò da solo per cercare il padre. Mi spezzò il cuore.» «Ricorda come si chiamava?» «No, mi dispiace. È passato troppo tempo.» «Il nome potrebbe essere Toby Wilder?» La donna si strinse nelle spalle. «Gli chiesi la tessera della scuola. Era una scuola privata. Non ricordo altro. Telefonai alla scuola per avere il numero di casa della madre, poi diedi al ragazzo dei moduli da compilare per tenerlo occupato finché lei non si fosse presentata. Quando la vide arrivare lui era sconvolto. Immagino che volesse risparmiarle quello strazio. Poi notai il bastone bianco.» «La madre era cieca» disse Riker. «Sì. Ed è solo per questa ragione che permisi al figlio di vedere il cadavere. Quando tirai giù il lenzuolo, lui si mise a piangere... in silenzio, senza singhiozzare, solo lacrime. Be’, pensavo che quello fosse suo padre, ma lui disse di no. Poi la donna cieca disse che voleva vedere il cadavere. Toccò con le dita il viso del morto, seguendo i lineamenti. E cominciò a piangere anche lei... in silenzio come il ragazzo. Si asciugava le lacrime con la manica... per nasconderle al figlio. Questa fu la mia impressione. Poi la madre disse che non era suo marito.» «Abbiamo letto il referto dell’autopsia» replicò Mallory. «Il barbone era pelle e ossa. Denutrito. Aveva anche il naso rotto, una vecchia frattura, e gli mancavano molti denti.» «Capisco cosa intende, detective. Sì, questo gli avrebbe cambiato i connotati. Tuttavia io ritenni che ci fosse stato qualche contatto recente tra loro... altrimenti perché il ragazzo sarebbe venuto a cercare il padre all’obitorio?» «Le loro reazioni l’avevano colpita» concluse Mallory. «Lei sapeva che c’era qualcosa di strano. Non si piange per uno sconosciuto.» «Sì, ero turbata.» 35 Nell’ora di educazione civica leggo ad alta voce il mio tema sulle regole di comportamento durante un’indagine di omicidio. È l’unica lezione che ho in comune con quei tre, Humphrey, Willy e Aggy la Morsicatrice. Mentre parlo, non battono ciglio. Dimenticano persino di respirare. Se la fanno addosso dalla paura. È la giornata più bella della mia vita. Ernest Nadler Riker entrò nell’elegante ristorante frequentato dalla gente di Wall Street. C’erano tende di velluto, boiserie, argenteria sui tavoli e denaro a palate. Intuì che il maître era stato in prigione. Non aveva tatuaggi da galeotto visibili, ma a tradirlo fu il fatto che non lo guardò dall’alto in basso perché era malvestito e non gli fece minimamente comprendere che in quel luogo uno come lui era indesiderato. Negli occhi socchiusi di Riker il maître aveva riconosciuto lo sbirro. Già da bambino il detective sembrava sempre sul punto di arrestare chiunque incontrasse. «Il vice comandante della polizia mi aspetta.» Evidentemente sollevato, l’uomo vestito meglio di lui lo condusse a un tavolo dove era in corso una cena solitaria. Rolland Mann aveva trovato un modo nuovo per imporre il suo dominio: dividere e umiliare. A Riker era stato detto di venire da solo e ora, con un gesto, gli fu ordinato di sedersi a guardare il suo superiore che mangiava una succulenta bistecca. Notando che gli altri commensali giravano la testa e si davano di gomito con sorrisi di apprezzamento, il vice comandante alzò gli occhi e vide la collega di Riker inquadrata nella finestra accanto al suo tavolo. Fortunatamente quella sera Mallory non doveva sorvegliarlo di nascosto. Infatti lo fissava, come lui faceva con la bistecca. Posati coltello e forchetta, Rolland Mann si degnò di parlare con l’altro poliziotto, quello che sedeva silenzioso al suo tavolo. «Ti era stato ordinato di venire da solo.» Ignorandolo, Riker prese il taccuino dalla tasca. «Abbiamo aperto una nuova indagine di omicidio per Ernie Nadler. Ci risulta che fu ucciso in ospedale. Abbiamo interrogato l’agente di guardia alla stanza del bambino. Ricorda che lei era sempre lì.» «Ero un detective allora. Avevo...» «Quindi abbiamo i genitori, i medici, gli infermieri...» Riker sfogliò le pagine del taccuino. «E lei. L’agente di guardia ricorda che lei è stato molte volte nella camera del bambino durante quell’ultima settimana.» Era una bugia. L’agente non aveva detto nulla del genere. Del suo mese di servizio in ospedale rammentava confusamente solo una grande noia, terminata con il grido della signora Nadler quando aveva trovato il figlio morto. Tuttavia Rolland Mann non lo contraddisse. «Ne abbiamo già parlato, Riker. Hai visto quel dannato filmato. Sai che ero interessato a quel bambino.» Il detective chiuse il taccuino, un segnale per la sua collega davanti alla finestra. «Se sa qualcosa di utile sull’omicidio, è il momento di dirmelo. Quando arrivò in ospedale quella sera? Prima o dopo che il bambino venisse ucciso?» «Quando uscii dalla stanza di Ernest Nadler quella mattina, lui era ancora vivo.» Riker scrisse qualche parola. Quindi Rolland Mann era presente il giorno della morte di Ernest. «L’agente di guardia ricorda che lei passò anche quella sera» mentì «verso l’ora di cena.» «Be’, si sbaglia! O forse...» La conversazione si interruppe bruscamente quando il maître posò sul tavolo un blocco di fogli gialli a righe, del tipo preferito per le deposizioni dei testimoni. «Con gli omaggi della signora» disse. Rolland Mann guardò la finestra, ma la signora era sparita. Riker indicò la bistecca mangiata a metà. «La porti via.» Il maître quasi scattò sull’attenti prima di togliere rapidamente il piatto, senza degnare di un’occhiata il poliziotto di alto grado che pagava il conto. Il detective spinse il blocco verso il vice comandante della polizia. «Conosce la procedura. Scriva tutto quello che ricorda dell’ultimo giorno del bambino.» Gli porse la penna e Rolland Mann la prese... automaticamente. Quando quel gesto veniva effettuato nel modo e nel momento giusto, l’interrogato prendeva la penna e non poteva fare altro che usarla. Dopo aver riempito mezza pagina, solo due brevi paragrafi, il vice comandante posò la penna e rilesse le sue parole. Non si era accorto che Mallory era dietro la sua sedia. Era uno dei suoi talenti. Nessuno la sentiva mai arrivare. Si chinò e gli sussurrò all’orecchio: «Firmi!». Il vino si rovesciò mentre un Rolland Mann terrorizzato lasciava cadere il bicchiere. Tuttavia, fingendo che Mallory non esistesse, dopo aver recuperato il controllo prese la penna e firmò il foglio come se agisse di sua volontà. I detective se ne andarono senza salutare. La loro vittima restò seduta al tavolo, lo sguardo vacuo fisso nel punto dove prima c’era la bistecca, cercando tastoni il bicchiere che non c’era più. L’anatomopatologo capo Edward Slope entrò nella sala operativa recando un dono. A quell’ora tarda c’era solo una lampada accesa e Kathy Mallory sedeva alla scrivania davanti al suo portatile. Lui si fermò, approfittando della rara occasione di poterla osservare di nascosto. Era tormentato dal rimorso per i loro ultimi scontri, sebbene fosse sempre lei ad avere torto. Tuttavia Mallory era brava a scaricare le colpe sugli altri, o a inventarne una dal nulla come in quel momento. Ruotò sulla sedia e lo guardò, lui e il suo pegno di pace, un regalo senza nastri e carta colorata. Il dottore attraversò la stanza e posò sulla scrivania una pesante busta marrone. «Il mio staff ha raccolto questo materiale per te. C’è tutto il necessario per inchiodare l’amministratore dell’ospedale e la sua patologa. Inoltre, come sai, io sono un valido testimone in tribunale.» Senza degnare il regalo di un’occhiata, lei tornò a guardare il computer. «Ho dovuto rilasciarli.» «Cosa? Quei due hanno complottato per coprire l’omicidio di un bambino.» Batté la mano sulla busta. «È tutto qui dentro. Dimostrato. Non è assolutamente possibile che abbiano sbagliato quell’autopsia per negligenza o ignoranza. Sapevano quello che stavano facendo.» «L’amministratore ha seguito le istruzioni dell’assistente del procuratore. E Carlyle ha fatto anche di peggio, ma ho dovuto rilasciare anche lui.» Slope incrociò le braccia. «Be’, io non l’accetto.» «Dovrai farlo.» Non era un ordine. Mallory lo disse dolcemente, con rassegnazione. «La tua amichetta Grace ti ha incastrato. Il giorno stesso in cui l’ospedale eseguì quell’autopsia fasulla sul piccolo Nadler, l’Istituto Driscol fece la prima donazione alla tua clinica... un mucchio di soldi. E da allora ogni anno...» «Tanto per cominciare, Grace non è la mia amichetta. E io l’ho conosciuta dopo che la mia clinica aveva ricevuto quella donazione.» «Io ti credo. Ma fa un brutto effetto nero su bianco. Ammesso che si riesca a provare che Grace aveva un motivo per tenere nascosto l’omicidio del bambino, la donazione indurrà tutti a pensare che tu abbia contribuito a insabbiare quell’autopsia... un po’ come se lei ti avesse pagato per guardare da un’altra parte. Se Grace e il suo cocco Carlyle vanno a fondo per questo... ci vai anche tu.» Mallory girò lo schermo per mostrarlo al dottore. «Comunque non sei l’unico. Continuo a seguire la pista finanziaria e finora ho trovato una serie di politici in posizioni chiave. Tutti avevano dei progetti finanziati dall’Istituto Driscol. Alcuni di loro hanno fatto favori agli amici di Grace... agevolazioni fiscali, contratti pubblici, cariche politiche. Sono tutti sull’orlo dell’abisso, come te. È una forma di ricatto a lungo termine. Ed è tutto registrato... chiunque può trovare le prove. Sono sicura che Grace sarà felice di spiegarti come funziona, se le procuri dei guai.» «Non puoi permetterle di cavarsela... non certo per riguardo a me. Io voglio che questa storia venga fuori. Trascineremo questo schifo in tribunale. Insisto, Kathy. Non posso difendermi da queste insinuazioni se tieni tutto nascosto.» La voce di Mallory era più calma quando disse: «Sono le regole di New York. Qui puoi uccidere e farla franca. Oppure non hai mai fatto un passo sbagliato in vita tua... e perdi tutto. Quindi lo schifo resta sepolto. Troverò un altro modo per distruggere quella donna. Puoi contarci». Si sarebbe pentito di aver parlato senza riflettere, ma era fuori di sé quando disse: «E io dovrei esserti riconoscente perché intendi coprire questa faccenda per amor mio? Pensi che così sarò in debito con te?». Capitava di rado che Kathy trasalisse. Gli aveva lealmente offerto la sua protezione e lui ci aveva sputato sopra. Era sicura di essere nel giusto. Non poteva esserci alcun sospetto di corruzione nell’ufficio dell’anatomopatologo capo. Bastava una voce per rovinarlo. Slope avrebbe perso tutto, pur non avendo fatto nulla di male. Lo stava salvando da una battaglia che era destinato a perdere... e lui la ringraziava così. La giovane detective mise la busta in un cassetto della scrivania. Il dottore si aspettava che lo sbattesse, invece si limitò a chiuderlo a chiave. Dopo aver spento il computer e la lampada, Mallory restò seduta, col viso nell’ombra, invitandolo silenziosamente ad andarsene. Slope avrebbe preferito che gli avesse sparato. Si alzò. «Kathy?» La voce era rauca, e che altro poteva dire? Si chinò e le baciò i capelli. Poi se ne andò. Quella sera l’agente Chu aveva un binocolo appeso al collo. Chiave o non chiave? Stava per avere una risposta a quell’importante domanda mentre, costeggiando sacchi di spazzatura e pile di giornali, seguiva Willy Fallon verso il cancello della Scuola Driscol. Tra i rifiuti abbandonati per la raccolta c’era anche un sofà, e lui lo osservò col binocolo, sembrava nuovo. Di notte i marciapiedi di New York si trasformavano in un mercato delle pulci dove si trovava di tutto, e gratis. In mezzo al metallo da riciclare c’erano delle veneziane in perfetto stato. Forse i ricchi le buttavano via appena si impolveravano. Willy Fallon si fermò davanti al cancello. Grazie alle potenti lenti del binocolo, Arthur Chu vedeva il fermaglio e persino le cuciture della borsetta aperta. Avrebbe estratto una chiave o un grimaldello? Nessuno dei due, accidenti. Willy si allontanò dal cancello. Qualcosa l’aveva spaventata, perché si acquattò contro il muro. L’agente puntò il binocolo sul cancello e vide la catena e il lucchetto. Erano nuovi. Due paffute mani bianche passarono tra le sbarre. Il lucchetto fu aperto, il cancello si spalancò e una donna apparve sul vialetto. Chu riconobbe Phoebe Bledsoe dalla fotografia sulla parete in sughero della sala riunioni. La vide posare sul marciapiede un sacco della spazzatura. Willy Fallon si avventò su di lei come un avvoltoio. Arthur Chu avrebbe voluto gridare per avvisarla, ma se si fosse fatto notare la detective Mallory lo avrebbe ucciso. Così soffocò tutti i buoni insegnamenti ricevuti da sua madre. Willy Fallon piombò addosso a Phoebe facendole perdere l’equilibrio. Cadendo, urtò un bidone che buttò giù gli altri come tessere del domino, e con un grido di sorpresa finì a terra e rimase distesa tra i rifiuti. L’ultimo bidone era pieno di veneziane di metallo. Il frastuono le ricordò quello degli armadietti della scuola contro i quali la spingevano i suoi tormentatori. Phoebe Bledsoe vide la schiena di una donna magrissima e la riconobbe prima che Willy sibilasse: «C’eri anche tu. Sei tu la prossima». La sua vecchia compagna di scuola si allontanò, trasformandosi in una specie di cartone animato che entrava e usciva dal raggio di luce dei lampioni. Il mondo dei mostri mutanti di Ernie era più reale di quanto Phoebe immaginasse... e con gli occhi della mente vide Willy scivolare via su otto zampe di ragno. Zoppicando vistosamente, Phoebe richiuse il cancello e il lucchetto. In casa stava squillando il telefono. Dopo l’ultimo messaggio di Willy aveva staccato la segreteria e gli squilli continuavano. Entrata in casa, guardò il telefono come se si aspettasse di vederlo esplodere. Quanti squilli. Sapevano che era in casa, che se ne stava lì spaventata? Alzò il ricevitore, ma aveva la bocca troppo secca per parlare. Dopo un po’ una voce maschile disse: «Phoebe?». Era Rolland Mann. «Cosa vuole?» «Sono sempre preoccupato per la tua sicurezza e il tuo... coinvolgimento. I detective ti hanno chiesto della morte di Ernie Nadler? Pensi che sappiano?» «Sappiano cosa?» «Non ti ricordi?» replicò col tono che usava con gli idioti. «Quando quel bambino fu appeso all’albero e lasciato lì a morire, tu hai aspettato tre giorni prima di dirmi dove trovarlo.» 36 Stasera ascolto dal corridoio i miei genitori che parlano con il detective Mann in cucina. Lui dice che mi sono inventato tutto e l’autopsia lo conferma: non sono stati dei bambini a uccidere il barbone. Dice che ho accusato i miei compagni di classe per vendicarmi delle violenze subite. Mio padre annuisce. Ha visto la prova delle violenze, i segni sul mio corpo. Crede a quello che dice il detective. Mamma piange. Gli crede anche lei. È finita, per me. Ernest Nadler La signora Buford si chinò a raccogliere il «New York Times», ansiosa di leggere il nuovo episodio dei delitti nel Ramble. La saga dell’Artista della Fame era diventata la sua nuova soap opera. La porta dirimpetto si aprì e lei si irrigidì. Negli ultimi giorni era sempre stato il marito della vicina a ritirare il giornale. Che individuo viscido. Le mandava di traverso la colazione. Invece, oh, grazie Dio, vide Annie sulla soglia. Che sollievo! Dunque Rolland Mann non aveva ancora fatto fuori la moglie. Be’, ora potevano riprendere il loro rito mattutino di saluti cordiali e commenti sul tempo. O forse no. La signora Buford notò la valigia. «È in partenza?» Stava scappando? La vicina annuì. «Si diverta.» La vecchia signora chiuse la porta e un attimo dopo la riaprì perché sentì piangere. Annie Mann aveva fatto pochi passi ed era crollata a terra accanto al bagaglio. Stava addossata al muro. La signora Buford strinse la cintura della vestaglia e uscì di casa ciabattando nelle pantofole rosa. Piegandosi sulle ginocchia scricchiolanti, prese nelle sue le mani fredde della vicina e le massaggiò finché il respiro di Annie tornò normale. Ma aveva la fronte imperlata di sudore, aprì la borsetta e una dozzina di flaconi di farmaci si sparpagliarono a terra. «Vado a prenderle un po’ d’acqua per buttare giù una pillola.» Non era ancora entrata nel suo appartamento quando udì il trillo che annunciava l’arrivo dell’ascensore e, con grande sorpresa, vide uscire due poliziotti. Annie Mann doveva essere ancora più sorpresa perché si accasciò svenuta. E forse fu un bene, povera donna, altrimenti mai sarebbe riuscita ad andarsene da quella casa. Un agente prese il portafogli tra gli oggetti caduti fuori dalla borsetta e fece un cenno al collega che trascinò la donna svenuta verso l’ascensore, lasciando lì la valigia. Una giovane bionda raccolse i medicinali da terra. Molto strano. Be’, almeno Annie era riuscita a fuggire. Naturalmente la signora Buford si era immaginata quella scena cento volte, ma aveva sempre pensato che la polizia sarebbe venuta a prendere il marito, non la moglie. Stava per chiudere la porta quando una voce disse: «Aspetti!». Mise fuori la testa e vide la bionda che si avvicinava sulle lunghe gambe... sempre più vicina. Oh, che strani occhi verdi. La giovane donna le mostrò un distintivo d’oro e il tesserino che la identificava come detective. Una detective! Che emozione. Mentre la bionda riponeva il tesserino nella tasca posteriore dei jeans, il blazer si aprì mettendo in mostra una grossa pistola nella fondina. Oh, era semplicemente meraviglioso. Le girava un po’ la testa quando domandò: «Mi dica che si tratta di omicidio». «Sì. Sì, è omicidio.» La vecchia signora si sollevò in punta di piedi, tutta eccitata, e quando la detective disse: «Vuole giocare?», la signora Buford rispose: «Posso?». Appollaiata su una scrivania vicino alla porta delle scale, Coco illustrava al detective Gonzales la fondamentale importanza di chiudere sempre il coperchio del water con un lucchetto. «I topi possono arrivare anche da lì. Nuotano nell’acqua e risalgono nella tazza. Ma se il coperchio è bloccato, nuotano in tondo finché annegano.» Il tenente, Mallory e Riker osservavano attraverso le veneziane quello che stava accadendo dentro l’ufficio. Tramite l’interfono ascoltavano la conversazione tra due persone che già si chiamavano per nome: Annie e Charles. La donna non era come Jack Coffey si era aspettato, ben diversa dalla moglie-trofeo che esibiscono i politici in ascesa. Sembrava così insignificante, pur considerando che era terrorizzata. Annie Mann si teneva stretta ai braccioli della sedia come se temesse di volare via. Nonostante la paura, sorrideva ogni volta che lo faceva Charles Butler. E il sorriso la trasformava. Diventava radiosa e affascinante. Magnetica. Sembrava quasi una magia. Ma l’illusione era di breve durata e lei subito ricadeva nel panico, con gli occhi che frugavano nervosamente in ogni angolo come se vi si celasse un pericolo. E ansimava come un cane. Charles esaminò i farmaci che la donna teneva nella borsetta, scelse un flacone e le diede una pillola. Lei se la buttò in bocca e la masticò come una caramella. Quando si fu calmata, Charles la lasciò sola e andò a raggiungere gli altri fuori dall’ufficio. Osservando la donna attraverso le veneziane, Mallory domandò allo psicologo: «È pazza?». «No» rispose Charles. «Niente affatto.» «Allora finge» disse Riker. «Oh, no. Condivido la diagnosi della signora Buford. Annie è veramente fobica. Mi ha detto di essere sempre stata soggetta ad attacchi di panico in pubblico.» Il tenente e i detective si finsero interessati. Furono fin troppo convincenti, perché Charles continuò addentrandosi nei dettagli. «Be’, l’agorafobia comincia così. Nelle prime fasi Annie era ancora funzionale. Gli ospedali erano le zone dove si sentiva più sicura... aree di competenza e fiducia per un’infermiera.» «Non lavora più da quindici anni» osservò Jack Coffey, sperando di accelerare la spiegazione. «E in questo lungo lasso di tempo» proseguì l’uomo che non amava la concisione «le altre zone sicure si sono ridotte. Ha il terrore di essere colta da un attacco di panico in pubblico. Con gli anni ha evitato un numero crescente di luoghi pubblici, finché non le è rimasto nessun posto dove andare. E a peggiorare le cose si è aggiunta la lunga segregazione. Non usciva dal suo appartamento da quando vi si è trasferita.» «Abbiamo visto che le hai dato una pillola.» Mallory lo disse come se lo accusasse di traffico di droga. «Un blando sedativo» spiegò Charles. «Era molto agitata... a un passo dal crollo. La volete lucida, no?» «Legalmente lucida» puntualizzò Coffey. «Lo è, dopo quella pillola?» «Sì. Direi che ora è meno confusa.» «È tutto quello che ci serve sapere.» A un cenno del tenente, il detective Janos andò a prendere Annie Mann e la condusse in una stanza degli interrogatori dove si sarebbe svolta una conversazione meno delicata. «Anche i topi soffrono di agorafobia» intervenne una vocina dal basso. I quattro adulti guardarono Coco che aveva mollato il detective babysitter e non sorrideva più. «I topi non si sentono al sicuro nei luoghi aperti.» Gli occhi seri di Coco seguivano la donna che si allontanava. «Per questo si tengono sempre vicini ai muri.» Tutti guardarono Annie Mann che sfiorava il muro mentre percorreva il corridoio. Le spalle curve. Gli occhi sbarrati. La stanza con le pareti verde vomito e le accecanti luci al neon era ostile per la donna che soffriva di agorafobia... ma non abbastanza inquietante. Riker si domandò quanto sarebbe stata tesa senza quel maledetto sedativo. «Ha cambiato nome» attaccò Mallory. «Mi sono sposata» disse Annie Mann. «Intende il primo nome» precisò Riker. «Da Margaret è diventata Annie.» Senza esitare la donna replicò: «Sono sempre stata Annie per gli amici». «Ci ha dato un numero di previdenza sociale sbagliato» incalzò Mallory. «L’ho cambiato. Temevo un furto di identità.» La prima crepa nella facciata. Fino a quel momento le risposte della signora Mann erano state troppo rapide, come di un copione imparato a memoria, ma ora i detective avevano quello che stavano aspettando. L’avevano presa all’amo con la prima bugia pasticciata. «Quindici anni fa» disse Riker «nessuno si preoccupava dei furti di identità. Credo che non sapessimo neppure come chiamarli.» «Mi rubarono il portafogli... con la patente, le carte di credito...» «Non ha mai fatto denuncia alla polizia, non ha bloccato le carte.» Mallory batteva sui tasti del portatile. «E non ha sostituito la patente. Leggo qui che la sua patente è scaduta. Come le carte di credito. Non trovo un solo documento su di lei negli ultimi quindici anni.» Girò il computer per mostrare lo schermo ad Annie Mann. «Guardi. Il suo nome non figura nemmeno nell’elenco dei condomini.» Annie si protese incredula verso lo schermo che mostrava il documento in cui suo marito veniva indicato come l’unico proprietario dell’appartamento. «Non può essere.» «Non lo sapeva? La sua vicina, la signora Buford, crede che lei sia sposata, ma è l’unica persona del palazzo ad averla mai vista.» «Io sono sposata!» Riker si chinò su di lei. «Abbiamo controllato i tabulati telefonici. In tanti anni lei non ha mai chiamato suo marito in ufficio, nemmeno una volta. La segretaria ci ha detto che non è sposato.» Sul computer di Mallory apparvero altri documenti. «Non risulta beneficiaria della pensione di Rolland e non gode della sua assicurazione sanitaria.» «Be’» fece Riker «del resto lei non ha bisogno di un’assicurazione sanitaria. Corre pochi rischi. Secondo la vicina, non esce mai di casa.» «Per il fisco Rolland Mann è un contribuente celibe» continuò Mallory. «Non ha famigliari a carico. Quindi ci ha mentito quando ha detto di essere...» «Siamo sposati. La cerimonia fu celebrata in Canada.» Riker sorrise. «Vorrei crederle. Ma negli Stati Uniti il matrimonio non risulta registrato. Non c’è traccia di lei in nessun posto, Annie. È come se quindici anni fa lui avesse cancellato la sua esistenza. Sa in che modo l’abbiamo trovata? La mia collega ha voluto scoprire perché Rolland Mann avesse fatto una chiamata di tre minuti al suo appartamento vuoto.» «Se lui la uccidesse oggi» disse Mallory «l’unica ad accorgersene sarebbe la vecchia signora dirimpetto.» «Stiamo cercando di aiutarla, Annie.» Riker allungò una mano e la posò su quelle fredde della donna. «Quindi... lei e Rolland vi siete conosciuti all’ospedale... quando lei assisteva il bambino dei Nadler. Infermiere e poliziotti, è naturale che si incontrino.» «No. All’epoca io e Rolland stavamo già insieme. Fu lui a procurarmi il lavoro con i...» Annie Mann ritirò le mani e si coprì la bocca. Abbassò le spalle e chinò il capo in un atteggiamento di resa. «Erano solo poche ore, ma i Nadler mi pagavano per tutta la notte. Persone squisite. Stavano chiusi in quell’ospedale da un mese. Volevano solo uscire per cenare insieme... per un paio d’ore. Le condizioni del figlio erano considerate stazionarie.» «Lei era in servizio quando Ernie Nadler morì» disse Mallory. «È stata l’ultima persona a vederlo vivo. E questo non l’aiuta, Annie. I genitori avevano fatto tutto il possibile per la sicurezza del figlio, ma il piccolo Ernie fu ucciso mentre era affidato a lei.» «No! Morì per le lesioni subite... o forse per l’infezione derivante...» «Lei sa che è stato un omicidio» la interruppe Mallory. «Era nella stanza quando fu ucciso, soffocato con un cuscino.» «Oh, mio Dio. Non sono stata io. Non ero presente quando morì. Ero uscita a fumare una sigaretta sulla scala antincendio. Giuro che rimasi fuori solo qualche minuto. Quando tornai, il bambino era morto. Rolland – era un detective allora – era nella stanza. Ve lo confermerà.» «Dovrebbe preoccuparsi di quello che ci ha già detto.» Mallory spinse un foglio di carta sul tavolo. «Questa è la sua dichiarazione. Riconosce la scrittura? Afferma di essere stato all’ospedale la mattina, ma non la sera... non quando il bambino fu ucciso.» «Vorrei aiutarla, Annie» disse Riker. «Ma ho bisogno di sentire la sua versione dei fatti.» «Lui era là! Quando tornai nella stanza del bambino, Rolland era accanto al letto. Mi chiese dove ero stata. Ero così sconvolta. “Non preoccuparti” disse. Nessuno avrebbe saputo che non ero presente quando il bambino morì. Mi disse di aspettare un quarto d’ora prima di chiamare un dottore. Rolland mi ha salvato da un’accusa di negligenza. E poi mi ha sposata per salvarmi il culo. Mi aveva assicurato che un marito non può testimoniare contro la moglie.» «Ha mentito» replicò Mallory. «Un marito non può riferire le conversazioni coniugali, ma può testimoniare sui fatti. Per questo l’ha tenuta in vita per quindici anni. Lei è come un osso da gettare in bocca alla polizia se qualcosa va storto. Quando il dottore arrivò e dichiarò che il bambino era morto, lei gli disse di essere sempre stata nella stanza. È così che è andata, no? È quello che Rolland le aveva detto di dire, giusto?» «Rolland mi ama.» «Quell’uomo ha veramente pensato a tutto» continuò Mallory. «Quindi fu lui l’ultimo a vedere il bambino vivo. Ma indovini su chi ricadrà la colpa, Annie. Su di lei. Lei, la pazza che non riesce neppure a uscire di casa. Quella che tiene una farmacia nella borsetta e...» «No! Io non avrei mai...» «Un’infermiera che ha ucciso il suo paziente» disse Mallory. «È così che verrà presentata in tribunale. Lei soffriva per quel bambino con le mani amputate. Voleva risparmiare a Ernie quell’orrore... quando si fosse risvegliato dal coma. Così ha preso un cuscino e...» «No! Io non ero lì quando il figlio dei Nadler morì!» «Andrà tutto bene, Annie.» Riker spinse un blocco di fogli gialli sul tavolo. «La aiuteremo. Ora scriva quello che è successo quella sera. La sua versione dei fatti.» Le porse la penna. Lei la prese. C’erano solo due osservatori sull’altro lato del finto specchio, e restarono a guardare finché la donna ebbe finito di scrivere la sua deposizione. Il tenente Coffey chiuse a chiave la porta. Ora che nessuno poteva disturbarli, si voltò verso Goddard. «Stiamo ancora mettendo insieme i pezzi. Non voglio affrettare le cose.» «Cos’hai come movente, Jack?» «Pensiamo che il piccolo Nadler fosse un testimone dell’omicidio del barbone. Se fosse mai uscito dal coma avrebbe fatto saltare il caso di Mann contro Toby Wilder. Mann sarebbe finito in carcere per occultamento di testimonianze e di prove e intralcio alla giustizia.» Coffey tenne per sé la teoria alternativa di Mallory. Non tutti condividevano la sua passione per i moventi economici, e lei non gli aveva fornito prove sicure che sostenessero quell’idea... nulla di più concreto di una serie di promozioni che avevano permesso a un poliziotto inetto di arrivare al vertice del NYPD. «Okay» annuì Goddard. «Tutto bene finora. Rocket Mann sposa l’infermiera per coprirsi le spalle. Se le cose vanno male, lei si prende la colpa. La chiamerei una programmazione a lungo termine... come quella dell’Artista della Fame. Ma prima devi inchiodarlo per l’omicidio del piccolo Nadler.» «Già» fece Jack Coffey. «C’è solo un problema. Perché soffocare il bambino? Mann era un detective. Doveva sapere che il medico legale avrebbe scoperto l’omicidio. Persino la patologa ubriaca dell’ospedale notò l’emorragia negli occhi del bambino.» «Emorragia petecchiale era un termine che non faceva parte del vocabolario di Rocket Mann. Io lo ricordo bene a quei tempi. Non sapeva un cazzo di medicina legale e non si è mai curato di imparare qualcosa. Non ha mai assistito a un’autopsia, mai aperto un libro. E non riusciva a tenersi un collega per più di una settimana. Nessuno vuole lavorare con un poliziotto incapace. Per questo girava da solo quando era alle prime armi. Fui io ad assegnargli il caso del barbone.» «Lo so» disse Coffey. «I miei detective sono molto rigorosi. Mi hanno anche riferito che lei iniziò le sue vacanze proprio quel giorno... signore.» «E ti sei chiesto perché io abbia dimenticato di menzionare questo dettaglio.» Joe Goddard indicò con la mano la stanza accanto dove Annie Mann stava ancora scrivendo. «Quindi questa commedia è stata inscenata a mio beneficio. So che voi interrogate i sospettati su entrambi i lati del vetro.» Rise, non di scherno... una risata di pancia. Una reazione che Jack Coffey non si aspettava. «Perché affidò un omicidio a un detective principiante che lavorava da solo senza il controllo di un collega?» «L’omicidio del barbone era un caso che non interessava a nessuno. Se Mann avesse combinato dei pasticci – e io non ne dubitavo – non sarebbe stato grave. Così avrei potuto rispedirlo a pattugliare le strade. Ero andato a pescare nell’Oregon quando lui affibbiò l’omicidio a Toby Wilder. Fin dall’altra costa sentivo la puzza di quella decisione. Quando tornai, qualcuno aveva tirato i fili per trasferire Mann dal mio distretto. E quel bastardo sfoggiava un distintivo d’oro. Fu allora che capii che era corrotto.» «Cosa sapeva di Ernest Nadler? Quando sparì, i genitori...» «Quando tornai sapevo solo che un bambino era scomparso ed era stato trovato vivo. Mann non aveva verbalizzato l’aggressione. Non c’era alcuna documentazione. Avevo sempre saputo che non aveva la stoffa di un poliziotto, e avevo ragione... ma non pensavo che avesse cervello. È stato questo il mio errore. Ho ignorato la sorte di quel bambino finché i tuoi detective non hanno trovato il questionario ViCAP. Soddisfatto, Jack?» «Sì, signore.» No, signore. Coffey sapeva che il capo aveva mentito, ma l’unica prova era il suo evidente sollievo di fronte alla mancanza di obiezioni da parte del suo sottoposto. «Cercate di costruire un caso solido, Jack. Non voglio che Rocket Mann la faccia franca. Se hai dei dubbi con l’autopsia, li avranno anche i giurati. E non voglio che salti tutto per qualche dettaglio tecnico sui privilegi coniugali. Scopri se è legalmente sposato con l’infermiera.» «Lo è. Il matrimonio fu registrato a Toronto, Canada. I miei detective lo sapevano prima di iniziare l’interrogatorio. E Mallory ha ragione sui privilegi coniugali. Non si applicano a quello che Annie Mann vide, e lei vide Rolland Mann nella stanza con il bambino morto.» «Quindi è la parola di lei contro quella di lui. Ci vuole ben altro per accusarlo di omicidio. E voglio vedere delle prove per gli omicidi di Humphrey Bledsoe e Aggy Sutton.» «Non abbiamo collegamenti tra Mann e l’Artista della Fame.» «Costruiscine uno. Mettete la donna sotto protezione. Non voglio che si sappia che è stata qui. Non lasciatela tornare a casa per fare i bagagli. Portatela subito in un luogo sicuro.» Coffey annuì. «Così stasera Rocket Mann torna a casa. La moglie non c’è, non manca una valigia, tutta la sua roba è ancora nell’armadio.» Goddard ghignò. «Cosa può fare? Nessuno sa che è sposato. Il gioco gli è scappato di mano e ora non può denunciare la scomparsa della moglie, a meno di non spiegare perché ne abbia cancellato l’esistenza. Si chiederà dove sia andata... e con chi stia parlando. Crollerà.» I detective di Jack Coffey stavano già soffiando sul collo di Rolland Mann, senza bisogno dei consigli di Joe Goddard. Tuttavia sarebbe stato poco diplomatico dire al gran capo che il suo piano era già in atto. Mallory e Riker avevano disfatto la valigia di Annie e arruolato la vicina di casa come palo. Elettrizzata dall’idea di collaborare con la polizia, la signora Buford aveva garantito il suo silenzio se mai Rolland Mann avesse bussato alla porta. Joe Goddard non si era mai occupato di gestire un’indagine di omicidio nei minimi dettagli. Come si spiegava quel cambiamento di stile? Provava nostalgia per il lavoro di poliziotto di strada? Improbabile. Coffey concluse che l’ispettore capo aveva qualcosa da nascondere... e tenere nascosto. Seduti faccia a faccia alle loro scrivanie, i due detective stavano verbalizzando l’ultimo interrogatorio. Riker mise da parte le dichiarazioni contrastanti di Rolland e Annie Mann. «Ci sfugge qualcosa? Quando Rocket Mann portò Annie in Canada, credi che avesse un piano per ammazzarla e sbarazzarsi del cadavere? Ma poi gli è mancato il coraggio? Uccidere non è il suo forte. Guarda il pasticcio che ha combinato con Ernie.» «Credo che Annie avesse ragione» disse Mallory. «Voleva salvarla.» «Quindi... non pensi che sia stato lui a soffocare Ernie?» «Oh, sì. È stato lui. Quel bastardo è spietato. Ma non è tanto bravo a uccidere. È questo che ti disturba.» «Ho mal di testa» sospirò Riker. 37 L’uomo morto nel Ramble è l’ultima cosa a cui penso quando vado a letto... però non dormo. Resto sveglio tormentato da una domanda. Qualcuno avrà chiuso gli occhi del barbone prima di seppellirlo? Oppure i vermi entrano nella bara e strisciano sugli occhi aperti? Sveglio i miei genitori e lo chiedo a loro. Ernest Nadler Hoffman indugiava in salotto. Non le piaceva l’aspetto della visitatrice, e chi avrebbe potuto biasimarla? Grace Driscol-Bledsoe si alzò dalla poltrona e torreggiò sull’ex compagna di scuola di suo figlio, nonché co-assassina... oh, qual era la parola che cercava? Pazienza. «Non preoccuparti, Hoffman, sono sicura di potermela cavare con la signorina Fallon.» Quando la porta si chiuse alle spalle dell’infermiera, un altro sacchetto scuro pieno di contanti passò dalla mano di Grace a quella dell’ospite. «Questo dovrebbe aiutarti a tirare avanti.» «Grazie.» Willy Fallon gettò con noncuranza il sacchetto su una sedia, poi andò alla finestra e scostò la leggera tenda bianca. «Credo di essere seguita. È una sensazione sgradevole.» «Non mi stupirei, mia cara. Pensi che la polizia sappia cosa avete fatto... tu e i tuoi piccoli amici?» «È questo che la preoccupa, vero?» Willy si voltò con un gran sorriso per comunicarle che era venuta con altre pretese. Da soldato esperto, Grace sferrò il primo attacco. «Ovviamente qualcuno sa. Mentre eri appesa a quell’albero... di sicuro ti sarai fatta un’idea di chi trarrebbe beneficio dalla tua morte. Forse qualcuno voleva regolare i conti con voi tre? Magari qualcuno che ha bisogno di gettarsi dietro le spalle tutta questa brutta faccenda?» Be’, Willy Fallon non era mai stata un’allieva brillante della Scuola Driscol. La donna più anziana si protese verso quella più giovane per esortarla a pensare: Ragiona, idiota psicopatica! Ah, una luce si era accesa negli occhi di Willy, prova che possedeva un cervello, benché minuscolo. «Ti è venuto in mente, mia cara?» Grace lo disse senza alcun sarcasmo. «Quando eravamo bambini, Humphrey mi disse che lei pagava... per tenere nascoste le cose.» Grace non si meravigliò. I bambini sono le spie migliori in qualsiasi casa. Si era spesso chiesta quanto sua figlia avesse capito di quei brutti giorni lontani. Oh, e ora vedeva che Willy aveva avuto un altro pensiero. Due in un giorno... davvero troppo per lei! «Credo che possiamo aiutarci a vicenda, Grace. Mi dica solo il nome, e io lo eliminerò per lei.» Sorridendo, si chinò per prendere il sacchetto con i soldi. «Diciamo il doppio... una volta al mese?» «Sono sbalordita.» E Willy ci credeva? Be’, certo. Quella ragazza era un’idiota. A Grace non restò che appoggiarsi allo schienale, assumere un’espressione preoccupata, magari fingere un attacco di palpitazioni nel punto dove la gente comune aveva il cuore. Infine, dopo molte insistenze da parte dell’idiota, un nome sarebbe sfuggito dalle labbra di Grace. Rolland Mann era uscito per comprare un cellulare usa e getta: voleva telefonare ancora a casa, nella speranza che Annie rispondesse. A ogni angolo c’erano cronisti in cerca di briciole di informazioni provenienti da One Police Plaza, e qualcuno di loro avrebbe potuto tendergli un’imboscata. Non vedeva l’ora di ritrovare la tranquillità del suo ufficio, dove il circo dei media non gli avrebbe dato la caccia per chiedere aggiornamenti sull’Artista della Fame. Strinse forte il cellulare in tasca, il filo che lo univa a sua moglie. Era a pochi passi dal cancello del cortile quando una giovane donna gli attraversò la strada. Che sorriso crudele. Le fotografie sui giornali non avevano catturato la sua vera natura, solo il ghigno professionale della protagonista della vita mondana scivolata via da tempo dalle pagine scandalistiche. Lei gli si piazzò davanti e incrociò le braccia per annunciare che Willy Fallon era tornata. Più malvagia che mai. Assetata di notorietà. Dio mio. Più in là Rolland vedeva dei nasi levati a fiutare l’odore della preda. Il primo dei paparazzi stava già correndo verso di loro. E gli altri dietro. I fotografi immortalarono il quasi comandante del NYPD mentre scappava a gambe levate. Non lontano dalla star che si concedeva ai flash, l’agente Chu annotava sul taccuino lo strano incontro tra la signorina Fallon e Rolland Mann e l’improvvisa fuga di quest’ultimo. Mann correva come una donna. Salutata la banda dei fotografi – quanto la amavano, uno di loro le mandò un bacio in aria – Willy Fallon si rimise in movimento e Arthur Chu la seguì. La vide parlare al cellulare mentre camminava verso ovest e prese scrupolosamente nota dell’ora esatta di tre chiamate consecutive. Dopo aver riposto il telefono nella borsetta, Willy controllò l’orologio e si guardò attorno come se improvvisamente avesse fretta. Cercava un taxi? Impresa difficile a quell’ora, e anche se ne avesse trovato uno sarebbe rimasto bloccato nel traffico. Chu la seguì verso la stazione della metropolitana di Warren Street e la osservò scendere le scale, stupito che quella ricca svampita sapesse come superare la barriera. Poi pensò che doveva aver già usato quel mezzo di trasporto per sfuggire ai fotografi, magari quando non aveva i capelli in ordine. Infatti non ebbe bisogno di fermarsi a comprare il biglietto, estrasse una tessera gialla dalla borsetta. Quella borsa non era diventata molto più gonfia? Gli era sfuggito qualcosa? Rolland Mann alzò gli occhi vedendo entrare la sua segretaria. Quella donna ce l’aveva con lui dal giorno in cui si era trasferito nell’ufficio di Beale, forse perché trovava di cattivo gusto la sua fiducia nell’imminente scomparsa del vecchio comandante della polizia. «Chiamate per me, signorina Scott?» «Sì. Non ha lasciato il nome neanche questa volta ma è la stessa donna.» Non la donna che sperava lui, non Annie, che di sicuro non l’avrebbe mai chiamato in ufficio. Non riusciva ancora a credere che sua moglie ce l’avesse fatta a uscire di casa. Le rare volte che l’aveva portata fuori a cena, lei aveva trascorso la serata con i nervi tesi, calmandosi solo quando rientravano. Ed erano passati anni. Ormai non voleva né poteva uscire dall’appartamento. Però poteva riempirsi di farmaci. Sì, probabilmente era sprofondata in un sonno indotto dai barbiturici e non sentiva il telefono. La signorina Scott interruppe i suoi pensieri. «Quella donna ha detto che farà meglio a chiamarla, altrimenti...» «Altrimenti cosa?» «Non l’ha detto e io non leggo nel pensiero.» La segretaria sbatté un foglio sulla scrivania. C’erano un numero di telefono e quella minaccia lasciata in sospeso. Poteva essere solo Willy Fallon. «E non sono pagata per ascoltare certe volgarità.» La signorina Scott uscì sbattendo la porta. Da quel gesto Rolland capì che la segretaria si era trovata un altro posto. Stava fuggendo anche lei. Prese il cellulare e chiamò casa sua. Uno squillo, due squilli... tre. Annie, Annie mia, rispondi. Willy Fallon uscì dalla metropolitana presso il cinema del Greenwich Village, svoltò a un angolo e proseguì verso ovest, entrando in quella zona di New York dove finiva la logica geometrica delle strade e la Quarta correva a nord e a sud della Decima Ovest. Era a mezzo isolato dalla casa di Toby Wilder quando lo vide uscire in strada. Ora di pranzo. Era venuta a sapere che la sua preda era una creatura abitudinaria grazie alla mancia allungata a un negoziante del quartiere che sosteneva di poter regolare l’orologio su Toby Wilder. Willy seguì il suo vecchio compagno di scuola fino a un ristorante messicano in Bleecker Street. Lo vide entrare e ricomparire a un tavolo accanto alla finestra. Non si accorse di essere osservato dalla strada. Quando guardava fuori non le prestava più attenzione che all’idrante. Era ancora bellissimo. Dopo tanti le bruciava ancora che non sapesse quello che gli aveva fatto. Mentre lo guardava dalla finestra, una donna entrò e andò a sedersi in fondo al ristorante, vicino alla cucina. Perché mai la sorella di Humphrey aveva scelto il tavolo peggiore quando ce n’erano altri liberi? Phoebe Bledsoe era cresciuta ma era ancora paffuta come da bambina. Ed evidentemente non le era passata la cotta per il ragazzo seduto vicino alla finestra. Dall’angolo più buio del locale Phoebe osservava Toby Wilder da lontano. Patetica. Willy entrò e marciò verso il tavolo nell’angolo per vedere dipingersi sul viso di Phoebe un’espressione di puro terrore. Si sedette godendo del proprio potere sull’altra donna. Ma quella non era una donna, solo una goffa scolaretta che non sarebbe mai diventata adulta. «Che cos’è?» Prima che Phoebe potesse chiudere la mano, Willy le prese l’accendino d’oro dicendo: «Tu non hai mai fumato. Non oseresti farlo. E nemmeno io se Grace fosse mia madre». «Dammelo!» La sorella di Humphrey cercò di riprendere l’accendino con ansia. Evidentemente per lei era prezioso. Willy fece il vecchio gioco infantile di nasconderlo dietro la schiena, tenerlo in alto, passarlo da una mano all’altra e infine guardò il suo trofeo da vicino. Era pesante, d’oro massiccio. I segni sul metallo a prima vista sembravano graffi ma osservandoli con più attenzione Willy ricordò dove aveva già visto quell’accendino. Allora i graffi erano più profondi ed era stato facile leggervi una data: l’anno in cui era nata, ma con giorno e mese diversi. Sorridendo Willy lanciò un’occhiata a Toby Wilder. Doveva essere sua la data di nascita incisa nel metallo. Guardò Phoebe e disse: «So da dove viene. Il Ramble. Sei tornata indietro a prenderlo». La polizia avrebbe dovuto trovarlo accanto al barbone morto, l’accendino perso sul sentiero da Toby Wilder e con le sue impronte. Piazzarlo accanto al morto era stata un’idea di Humphrey Bledsoe. Quell’idiota credeva che la polizia avesse in archivio le impronte di tutti, persino degli alunni delle elementari. «Io so di chi è.» Oh, quello sguardo terrorizzato era impagabile, quasi da orgasmo, e a Willy non bastava mai. Si alzò e si girò verso il compagno di scuola sull’altro lato del locale. «Ehi, Toby!» Lui la guardò. Willy udì la sedia che si spostava e i passi pesanti di Phoebe che correva alla porta. Finalmente Willy aveva catturato l’attenzione di Toby Wilder, che però sembrava solo vagamente incuriosito. Gli lanciò l’accendino. Lui lo afferrò e lo guardò. Più da vicino, scuotendo il capo, senza credere ai suoi occhi. Lo tenne vicino alla finestra per leggere la data. Poi si volse verso Willy, alzandosi dal tavolo. Ma lei era già sulla porta e uscì ridendo. Ridendo. La caccia era iniziata. L’agente Chu si trovava in un dilemma. La protezione di Willy Fallon non era il suo compito principale ma era pur sempre un lavoro da poliziotto. Comunque, non sembrava che lei fosse in pericolo. Correva, ma si fermava spesso per sorridere al ragazzo con i capelli lunghi che la inseguiva lungo MacDougal Street. Abituati a quelle gimcane, i residenti del Village si appiattivano contro i muri e le vetrine dei negozi, ma alcuni turisti caddero come birilli. Arthur Chu non perse di vista i due quando entrarono di corsa nel parco di Washington Square e si misero a giocare a nascondino come bambini. Sghignazzando come una pazza, Willy corse intorno alla fontana. Per tagliarle la strada il suo inseguitore entrò nella vasca e sguazzò nell’acqua, bagnandosi sotto i getti che salivano ad arco dai bordi. Stava per afferrarla quando, senza volerlo, un passante lo fece inciampare e il poveretto cadde battendo il ginocchio con una smorfia di dolore. Willy, la vincitrice, e l’agente Chu erano spariti prima che il perdente si fosse rimesso in piedi. Rolland Mann aspettava all’angolo tra Columbus Avenue e l’Ottantaseiesima Ovest, una zona che difficilmente attirava i paparazzi in cerca di celebrità. Non che la sua faccia fosse così nota in città. Da quando era arrivato erano già passati quattro autobus diretti a sud. Willy Fallon era molto in ritardo. Sul marciapiede accanto a lui due turisti attendevano di poter attraversare l’incrocio. Tenevano gli occhi da pecora incollati sul segnale rosso a forma di mano alzata che vietava di muoversi. I newyorkesi autentici invece stavano in strada – al diavolo il semaforo – aspettando una breccia nel flusso del traffico. Agli indigeni piaceva quella competizione con i timidi e ligi visitatori da fuori città. E in quella guerra eterna fra pedoni e automobilisti, si vincevano dei punti ogni volta che ci si terrorizzava a vicenda scansandosi all’ultimo momento. Dall’angolo arrivò una ragazzina che, assorta nella musica delle cuffie, scese dal marciapiede. Era carina, altrimenti Rolland non l’avrebbe notata. Vide anche l’autobus che scendeva lungo Columbus Avenue, facendosi strada tra le corsie dell’incrocio... come era successo ogni dieci minuti durante la sua lunga attesa. La ragazzina si muoveva al ritmo della musica e non vide l’autobus. Rolland capì che stava per essere travolta. Quel bestione le stava piombando addosso. Ancora una frazione di secondo e sarebbe finita schiacciata come un insetto sul parabrezza. L’autobus era gigantesco, riempiva tutto il campo visivo. Sempre più vicino. Un uomo anziano con una tuta unta afferrò la ragazza per il colletto e la tirò indietro. Il mostro metallico arrivò a qualche centimetro da lei – davvero questione di centimetri – e si fermò con uno stridore di freni assordante sei metri più avanti. Nell’aria si diffuse un puzzo di gomma bruciata. L’autista diede un’occhiata allo specchietto retrovisore, tirò un sospiro di sollievo e ripartì. Tre pedoni si fermarono per applaudire, come avrebbero fatto per qualsiasi altra morte scampata in quella città così teatrale. Lo spettacolo era finito e il pubblico si disperse. La ragazzina restò immobile, gli occhi fissi sull’autobus che si allontanava, in preda allo shock. Il suo salvatore, l’uomo in tuta, la lasciò dicendo: «Dio, mi dispiace, piccola. Chissà a cosa pensavo». La ragazza lo guardò stupita. Cosa? L’eroe si diede una pacca sulla testa come a scusarsi della propria stupidità. «Se quell’autobus ti avesse investita, ti saresti sistemata per la vita.» La ragazza scuoteva il capo senza capire, sorpresa di essere ancora lì, in piedi e viva, ma già l’uomo attraversava la strada salutandola con la mano e ripetendo: «Perdonami, piccola». Il senso di colpa del buon samaritano era comprensibile. Una causa contro i trasporti pubblici avrebbe reso milioni. Ma la ragazza non sarebbe mai sopravvissuta allo scontro con tonnellate di acciaio in movimento. Pur essendogli stato detto di aspettare all’angolo, Rolland Mann scese dal marciapiede, fece tre passi nella strada e aspettò là Willy Fallon. 38 Il preside non sa se i barboni di Potter’s Field vengono imbalsamati. Gli dico che è una cosa importante e che l’ho già chiesto alla mia insegnante. Nemmeno lei ha saputo rispondermi, per questo mi ha mandato da lui. Be’, gli dico, se non viene imbalsamato il corpo del barbone si decomporrà. È questo il mio problema. Come posso visualizzare quell’uomo nella mia mente, giorno dopo giorno, se non so a quale velocità si decompone il cadavere? Il preside si alza ed esce dall’ufficio. Molto più tardi, alla fine delle lezioni, la sua segretaria mi trova ancora seduto là, solo. Mi dice di andare a casa. Io le dico che non credo di saperci arrivare. Così la segretaria chiama mia madre perché mi venga a prendere. Mentre camminiamo verso casa, mi aggrappo alla mano di mamma come quando avevo sei anni. Ernest Nadler Quando Willy Fallon arrivò all’appuntamento, Rolland Mann non ci contava più. Era in mezzo alla strada in attesa di attraversare o di fermare un taxi. Lei lo chiamò. «Ehi!» Lui si voltò, la vide e tornò a guardare il traffico. «Dove stai andando?» Willy scese dal marciapiede e lo raggiunse. Lui sorrise e le posò una mano sulla spalla. Un gesto paterno che fece scattare il primo allarme. Viscido bastardo. Si ritrasse, raddrizzò le spalle e lo guardò in faccia, ma lui era voltato verso un autobus in arrivo... non uno del servizio pubblico ma un grosso bus turistico a due piani. Il primo istinto fu di fare un passo indietro prima che li investisse entrambi, ma la mano di Mann le premeva leggermente sulla nuca. Oh, merda! Stronzo! Te lo sogni! Per istinto di conservazione Willy gli strizzò i testicoli, cosa che aveva comunque intenzione di fare. Lui si piegò in due per il dolore. Come tutti gli altri. E senza difficoltà, con un piccolo calcio nel sedere, lo spinse sulla corsia dell’autobus. Uno stridio di freni, un botto e lui era morto. Prima che Willy Fallon svanisse dalla scena dell’incidente, una testimone la udì borbottare: «Fottuto dilettante». Tuttavia, poiché la lingua madre della turista era il danese, l’agente Chu pensò che potesse aver capito male. Annotò comunque le parole sul taccuino. Due poliziotti raccolsero le macchine fotografiche degli altri passeggeri dell’autobus e in tutta la città iniziò la ricerca della killer dell’alta società. Terminò così il pedinamento di Arthur Chu, nonché la sua speranza di promozione nel dipartimento di polizia. Dopo quel fiasco non si sarebbero fidati di lui neppure per lucidare le scarpe dei detective dell’unità Crimini Speciali. Aveva già rilasciato la sua deposizione di testimone al distretto locale e ora la ripeté alla detective Mallory al telefono. Guardando la macchia di sangue sul muso del veicolo, disse: «Oh, sì. Proprio morto». Le spiegò che il vice comandante della polizia aveva fatto un’avance alla signorina Fallon. Lei si era offesa e si era vendicata prima ricorrendo al suo solito attacco alle parti basse poi con l’autobus. Toby Wilder aprì la porta di casa ed eccola là, la brunetta magra che gli aveva lanciato l’accendino d’oro. Aveva gli occhi troppo lucidi e la pelle arrossata. Con voce sovreccitata disse: «Fammi entrare». Perché no? Le cedette il passo e lei entrò in salotto chiedendo: «Dove tieni da bere?». Toby sciacquò due bicchieri e quando tornò dalla cucina con il vino di una bottiglia dal tappo a corona e non di sughero, lei si era sistemata sul divano con le braccia allargate sui cuscini e i piedi appoggiati al tavolino. Le diede un bicchiere. «Chi diavolo sei e dove hai trovato il mio accendino?» «Non ti ricordi di me?» chiese come se non si capacitasse di non essere riconosciuta. Toby scosse il capo. Non ne aveva la più pallida idea, ma capì che lei non gli credeva. «No, grazie» disse, quando gli offrì delle pillole che teneva nella borsetta. E anche questo la sorprese. Era ancora stordito dall’ultima dose di ossicodone, si trovava nella fase in cui non aveva bisogno di altro pur non essendo completamente fatto. Le dosi pesanti le riservava per la sera, e anche allora prendeva solo pillole che gli garantivano un sonno senza sogni. Al mattino preferiva gli analgesici per liberarsi dai tremiti, dal sudore e dalla nausea. Pranzo all’una e poi c’erano altre pillole da ingurgitare. Aveva la sua routine. Non variava mai. Ogni giorno era uguale al precedente... fino ad ora. Lei bevve il vino d’un fiato e gli porse il bicchiere vuoto. «Un altro.» Perché no? Andò a prendere la bottiglia per riempirle il bicchiere. Quando si sedette, lei cominciò a chiacchierare facendo dei nomi: la Scuola Driscol, Humphrey, Aggy... sempre con un punto interrogativo in fondo per rinfrescargli la memoria, o forse per coglierlo in fallo. Finalmente, parlò dell’accendino. Toby beveva il vino e rispondeva alle domande, benché lei non rispondesse alle sue. «Sì,» le disse «in un certo senso è un ricordo di famiglia.» Prese l’accendino dal taschino della camicia e guardò l’incisione sul metallo, così tenue ormai che i numeri si leggevano appena. «Mio padre incise la data il giorno in cui sono nato. Papà amava questo accendino.» Anche lui lo aveva ricevuto da suo padre, il nonno di Toby, un altro ubriacone che aveva abbandonato la famiglia. «Lo ha lasciato a mia madre.» Perché temeva di impegnarlo, come aveva fatto con tutto quello che possedeva per comprarsi da bere, ma l’accendino no. Mai. E la madre di Toby l’aveva dato al figlio quando lui era abbastanza grande per capire quella tradizione di famiglia: lascia a tuo figlio un accendino d’oro, prima di abbandonarlo. La voce della donna risuonò lontana quando disse: «Ricordo quando lo hai perso. Il barbone pazzo del Ramble, quello che ti ha picchiato... aveva cercato di rubartelo?». «No. Ero io che volevo restituirglielo.» Toby parlava con voce impastata. Strano. Fissò il suo bicchiere. «Quindi tu eri là quel giorno.» Era una rivelazione, ma lui più che eccitato si sentiva confuso. Non ubriaco, poteva bere tutto il giorno senza conseguenze. Il respiro era lento e faticoso, poi... per dieci spaventosi secondi gli mancò l’aria. Quando ricominciò a respirare, il cuore batteva come se stesse per venirgli un infarto. «Troia, mi hai drogato!» La boccetta dell’ossicodone era aperta sul tavolino. La prese e rovesciò sulla mano le due pillole rimaste. Quante gliene aveva messe nel vino? Fece per afferrarla ma la donna balzò dal sofà e si allontanò danzando e ridendo. Il vino si rovesciò sul tappeto come sangue. La sala operativa era un caos di squilli e voci di detective che controllavano al telefono le piste di Willy Fallon. Nella sala riunioni invece regnava la quiete. «I media riportano la notizia come un incidente stradale» disse Jack Coffey. «Bene» commentò Joe Goddard. «Speriamo che i nostri abbiano raccolto tutte le macchine fotografiche.» L’ispettore capo stava osservando con il tenente gli ultimi reperti affissi al pannello di sughero. Le foto scattate dai turisti smentivano l’ipotesi di una morte accidentale. Accanto alle immagini c’erano i messaggi telefonici inviati per fax dalla segretaria di Rolland Mann. «Qui è dove comincia.» Mallory indicò una foto scattata dall’agente Chu nella prima parte della giornata, quando Willy era andata a casa di Grace Driscol-Bledsoe. L’aveva immortalata mentre usciva dal palazzo con la borsetta gonfia. «Grace dichiara di non sopportare la vista di Willy Fallon.» «Così le ho telefonato» disse Riker «per chiederle se si erano rappacificate con un bacio.» Parlava stringendo fra le labbra delle puntine da disegno, mentre attaccava altre foto alla parete. «Secondo la signora Driscol-Bledsoe, Willy era passata solo per farle le condoglianze per la morte dell’amato figlio pervertito. Ma noi riteniamo che Grace l’abbia istigata a uccidere Rocket Mann.» E davanti a un’altra fotografia dell’agente Chu disse: «Willy prende un taxi e poco dopo è a One Police Plaza con il vice comandante. Arty Chu dice che Rocket Mann è scappato come una lepre quando sono arrivati i cronisti. Ed ecco qui Willy con il cellulare in mano». «Ha chiamato tre volte l’ufficio di Mann.» Mallory fece qualche passo e si fermò davanti al fax della segretaria, la signorina Scott. «Willy non ha avuto bisogno di lasciare il nome. L’ultimo messaggio era: Chiama, altrimenti...» «La segretaria dice che i messaggi lo hanno messo in agitazione» continuò Riker. «Poi Willy riceve una chiamata da un cellulare di cui era stato denunciato il furto. Doveva essere uno di quelli che Mann compra e getta. E i due si incontrano nell’Upper West Side.» Il detective batté il dito sull’ultima fotografia di Arthur Chu. Si vedevano Rolland Mann e Willy Fallon di schiena in mezzo alla strada. «Lui le tiene una mano sulla spalla.» L’immagine seguente era stata scattata da un turista del Nebraska. «Qui Rocket Mann guarda l’autobus in arrivo, sta aspettando il momento opportuno.» La foto successiva, fatta dal distretto di polizia locale, rappresentava un corpo orrendamente schiacciato. «Ma Willy è stata più veloce di lui.» «E invocherà la legittima difesa» aggiunse Joe Goddard. «Omicidio» disse Mallory. «Grace Driscol-Bledsoe lo ha condannato a morte. Gli ha puntato contro Willy come una pistola.» «Ma non lo proverete mai.» L’ispettore capo stava leggendo la testimonianza dell’agente Chu inviata dal distretto dell’Upper West Side. «Il vostro poliziotto di sorveglianza pensa che Rocket Mann abbia allungato le mani e quella piccola strega ha perso la testa. E così se la giocherà il suo avvocato.» «Willy ha commesso un omicidio» disse Riker. «E noi crediamo che non sia il primo.» «Il distretto del West Side si occuperà dell’incidente stradale.» E dopo aver corretto i detective, Joe Goddard si rivolse al tenente, improvvisamente memore della catena di comando. «Jack, i tuoi uomini devono concentrarsi su un caso. Lascino da parte la signora Driscol-Bledsoe. Al momento mi interessano solo gli omicidi del Ramble. Avete la vendetta come ottimo movente per Toby Wilder. Inchiodatelo per i delitti dell’Artista della Fame e il caso è chiuso.» Chiuso? Riker non era d’accordo. Con i piedi saldamente piantati a terra e un atteggiamento aggressivo, affrontò l’ispettore capo. Il tenente Coffey si augurò che ci andasse piano. Mallory si intromise tra il collega e Goddard dicendo: «Per me va bene tutto, capo. Tranne smettere di lavorare sulla nostra rosa dei sospettati per incastrare Toby Wilder». Jack Coffey si irrigidì, in attesa che l’ispettore capo la degradasse o licenziasse. Era come guardare Mallory che stava per ricevere una pallottola al rallentatore. Del resto aveva sempre saputo che quel momento sarebbe arrivato. Mallory era pazza da legare. Però aveva ragione. Dando mentalmente l’addio alla sua pensione, il tenente fece un passo avanti. Ma quello scatto d’orgoglio si rivelò inutile. Joe Goddard non guardava Mallory. Per lui non esisteva. Teneva gli occhi fissi sull’uomo dietro di lei quando disse: «Riker, decidi tu... è il tuo caso». Con calma, infilandosi le mani in tasca, l’ispettore capo andò lentamente alla porta. Jack Coffey provò una strana sensazione di delusione. Poi gli balenò un sospetto. Condiviso da Mallory, evidentemente, perché guardando Goddard che si allontanava, domandò al suo collega: «Cosa sai su quel bastardo?». A Willy Fallon non passò neppure per la mente di essere ricercata e di aver lasciato dietro di sé tracce che la polizia avrebbe trovato. Stupidi sbirri. Osservava senza fretta Toby Wilder che vagava barcollando per la stanza, le pupille ridotte a punte di spillo nelle grandi iridi azzurre, finché crollò su una poltrona. Lei ne approfittò per frugare con calma nei cassetti e negli armadietti, ma trovò solo flaconi vuoti. Toby era sicuramente un tossico, ma le sue droghe erano analgesici e sonniferi, nulla di ricreativo, nulla di divertente. Willy si sedette sul sofà e guardò lo schermo rotto del televisore. Provò ad accenderlo. L’audio funzionava ancora. «È questo che fai tutto il giorno? Ascolti la televisione e ti impasticchi?» Lui era drogato ma non sordo, seppure non più in grado di rincorrerla. Riuscì ad allungare una mano e a protendersi dalla poltrona. «Cosa facevi nel Ramble quel giorno?» Willy sorrise, contenta di vederlo più docile, benché ancora tutt’altro che morto. Doveva aver sbagliato la dose. Oh, ma certo. Si batté la mano sulla fronte. Stupida. Stupida. Non aveva tenuto conto della soglia di tolleranza di un tossicodipendente. Fece un altro giro dell’appartamento per vedere se c’erano oggetti potenzialmente letali. Dei coltelli in cucina. No... si sarebbe sporcata. Ah, ma fuori dalla porta c’erano le scale. Un collo rotto? Sì, perfetto. E con tanti ringraziamenti a Rolland Mann. Ora ci aveva preso gusto agli omicidi che passano per incidenti. Willy aprì la porta. Le scale erano a pochi passi. Il problema era far uscire Toby. «Dunque quel barbone era tuo padre? Be’, allora siamo quasi pari.» Grace si era sbagliata di grosso. Rolland Mann non poteva essere l’Artista della Fame. L’autobus era stato un goffo tentativo per ucciderla, un atto maldestro e improvvisato. Gli omicidi di Humphrey e Aggy nel Ramble erano tutt’altra cosa. «So che sei stato tu.» Toby Wilder scosse il capo, sconcertato, annebbiato. Lei gli tolse di mano l’accendino d’oro, un furto facile. Toby aveva i riflessi appannati. Willy glielo mostrò come un’esca luccicante mentre indietreggiava verso la porta. Toby si alzò faticosamente in piedi. «Bravo ragazzo.» Uscì sul pianerottolo dicendo: «Humphrey Bledsoe colpì tuo padre con una pietra per farlo cadere. Poi con la stessa pietra gli spezzò le rotule perché non potesse rialzarsi». Toby avanzava verso di lei, ma era troppo lento. Ci sarebbe voluta tutta la giornata. «A Humphrey piaceva il rumore delle ossa spezzate... così gli ha rotto anche le braccia. Io invece gli ho dato un calcio nei denti.» Toby era uscito dalla porta ed era vicino alle scale. Lei scese qualche scalino. Sarebbe stato facile girargli intorno e dargli una spintarella... ma Toby cadde da solo. Willy si appiattì contro il muro mentre lui le rotolava davanti. Si fermò sul pianerottolo, supino e gemente. Non era ancora morto? Nessun problema. Le scale non erano finite. Willy gli saltellò accanto e scese un’altra rampa gridando: «Sembri tuo padre dopo che Humphrey gli aveva spezzato le ossa. Anche lui non poteva fare altro che stare lì... e urlare». Toby strisciò fino ai gradini e riuscì ad alzarsi a metà. Piegato in due, rimase immobile come una statua... stava cercando di assorbire il colpo? Stavolta doveva dargli una spinta nella direzione giusta... quella che gli avrebbe fatto rompere il collo. Willy tornò indietro, gli diede un colpo deciso e godette udendo i tonfi della testa sui gradini di legno. Cristo santo. Non solo era ancora vivo, ma non sembrava neppure che si fosse fatto male. Be’, i tossici avevano le ossa di gomma. Probabilmente non sarebbe successo nulla nemmeno se avesse continuato a buttarlo giù dalle scale per tutto il giorno. Willy scese al piano inferiore e scavalcò il corpo di Toby. Lui cercò di afferrarle la gamba. Troppo lento, troppo tardi. Lei andò al portone e le venne un’ispirazione – lezioni di morte di un dilettante – ma per Toby Wilder ci voleva altro che un autobus. Quel ragazzo con le ossa di gomma si sarebbe salvato rimbalzando. Come indurlo a muovere il culo? «Dio, quanto strillava quel barbone quando gli ho spezzato i denti. Con le ginocchia e le braccia rotte... poteva solo stare lì e prenderle. Avevo le scarpe sporche del suo sangue.» Toby stava piangendo? Sì, e si muoveva, finalmente si era rimesso in piedi. Molto bene. Willy uscì in strada. «E adesso ti racconto cosa gli ha fatto Aggy Sutton... Aggy la Morsicatrice.» 39 Hanno cambiato tattica. Ora è una guerra di sussurri, niente più lividi e segni di morsi. Quando parlo delle minacce di morte, a cena, mi prendono per pazzo. Mamma tracanna il vino. Non glielo avevo mai visto fare. Papà dice: «Sciocchezze di bambini. Le parole non ti possono far male». «Hanno ucciso il barbone nel Ramble» dico «e uccideranno anche me.» Disgustato, mio padre piega il tovagliolo e lo butta sul tavolo. Poi esce dalla stanza... mi abbandona. Ernest Nadler Tutti i detective erano attaccati al telefono per seguire le informazioni provenienti dalle stazioni di polizia dove era stato avvistato qualcuno che somigliasse a Willy Fallon. «Ha tentato di castrarti?» domandò Riker a un agente. «No? Allora probabilmente non è la nostra ragazza.» Ascoltò con più attenzione un altro rapporto sugli strilli di un adolescente che aveva cercato di borseggiare una donna. Secondo i testimoni, il ragazzo era uscito di corsa dalla metropolitana tenendosi le mani sull’inguine. La metropolitana non quadrava perfettamente con il personaggio – Willy era più un tipo da taxi e limousine –, ma il modus operandi dei testicoli strizzati non si poteva ignorare. Il detective Janos controllò gli ultimi numeri dei tabulati telefonici e guardò Mallory che tentava di localizzare la zona attraverso i segnali dei ripetitori. «Niente? Pensi che sia sparita sotto terra... per esempio nella metropolitana?» «Sì!» Riker riferì il tentativo di castrazione... il marchio di fabbrica di Willy. Mallory alzò gli occhi dal computer. «Il cellulare è tornato in superficie. Si muove accanto a una linea del Bronx.» Janos chiamò la stazione di polizia più vicina al luogo in questione e diede le coordinate a un sergente di quel quartiere. Coprì il ricevitore e riferì agli altri: «È il cortile di una scuola. Un’auto di pattuglia sarà sul posto fra trenta secondi». Mallory scosse il capo. «Credo che Willy non sappia nemmeno dov’è il Bronx. Io dico che ha perso il telefono o lo ha buttato.» «No, è lei!» urlò Riker. «Una donna bruna e magra è stata derubata nella metropolitana!» Ascoltò al telefono. «E mi dicono che il rapinatore non potrà più avere figli. Non può che essere Willy.» «Siamo fottuti.» Janos chiuse la conversazione con il distretto del Bronx. «Hanno appena bloccato un ragazzo. Ha il cellulare di Willy. Gliel’ha rubato.» Toby Wilder barcollava sulla scala della metropolitana, ma quello era un posto troppo pubblico per aiutarlo ad arrivare in fondo con una spinta. Willy gli si avvicinò, tenendosi però fuori portata. Aveva l’accendino nella mano tesa. «Aggy lo ha morsicato dappertutto. Gli ha staccato un pezzo di faccia e l’ha sputato via. Non riuscivo a credere che l’avesse fatto. Tuo padre puzzava così orrendamente... di alcol, piscio e merda. E strillava come un maiale mentre Aggy gli staccava pezzi di carne con i denti.» Toby si sporse in avanti e afferrò la ringhiera per non cadere. Aveva bisogno di ulteriore incoraggiamento. E Willy glielo fornì. «Ci ha messo un sacco di tempo a morire. Humphrey picchia come una bambina. Non gli faceva molto male con i pugni, così ha di nuovo usato una pietra... tante volte. E tuo padre urlava e urlava. Aveva la bocca piena di sangue e c’era anche il sangue dei morsi di Aggy. E la cosa è andata avanti per un tempo lunghissimo.» Toby scendeva la scala più in fretta, sconvolto, accecato dalle lacrime. Il detective Gonzales urlò: «Arty Chu si è riscattato!». Infilò la giacca e gli altri lo imitarono ancor prima che annunciasse: «Si parte!». Mentre gli uomini prendevano le pistole dai cassetti Gonzales comunicò le novità al tenente. «Arty è tornato in un ristorante del Greenwich Village e la cameriera ha riconosciuto in Toby Wilder l’uomo che è corso dietro a Willy. Poi Arty ha trovato l’appartamento del ragazzo con la porta aperta. Nessuno in casa. Così ha parlato con i vicini mostrando le fotografie sul cellulare. Willy è stata là, poi lei e Toby sono usciti insieme, diretti a est. E ora il nostro Arty è sulle loro tracce.» La squadra si mosse all’unisono, uscì dalla porta e scese la scala, i piedi battevano sui gradini. Prima di arrivare al piano terra Riker era già al telefono con Chu. «Hai chiesto ai vicini se sembravano intimi?... Sì, come una coppia.» Coprì il cellulare e riferì a Mallory, che gli correva accanto: «Una vicina ha detto che Willy camminava davanti e Toby si muoveva molto lentamente e barcollava. Le è sembrato che non si reggesse in piedi, come se fosse ubriaco o drogato». Willy Fallon si domandava come facesse Toby a reggersi ancora in piedi. Mancava parecchia strada prima di arrivare ai binari. Lei camminava all’indietro, guardandolo in faccia e, parlando con un tono normale come se conversassero, continuava a dirgli cose orribili per tenerlo sulla corda. «Ti abbiamo visto lasciare tuo padre nel Ramble. Tu pensi che si sarà chiesto perché non sei tornato indietro per aiutarlo, vero? Te n’eri andato da un pezzo quando lo abbiamo aggredito... ma credi che lui lo sapesse? Il suo cervello era completamente andato. Continuava a gridare aiuto con la bocca piena di denti rotti e di sangue. E Aggy non smetteva di morderlo. Deve aver pensato che lo stesse mangiando vivo.» Riker era sulla prima auto, uno dei vantaggi di lavorare in coppia con una maniaca del volante. Mallory spense il motore all’Ottava Ovest, dove l’agente Chu stava battendo il marciapiede per mostrare ai passanti le fotografie sul cellulare. Finalmente avevano una pista: un passante indicava l’ingresso della metropolitana. Mallory diede ordini a Chu. «Corri alla Quarta Strada e controlla quell’entrata. Il resto della squadra sta arrivando.» Riker gridò: «Chiamali, Arty! Falli venire di corsa!». Poi scese nella metropolitana con la sua collega. Lui si fermò al primo livello, lei si buttò giù dalle scale verso quello inferiore. Willy non aveva scelto a caso quella stazione della metropolitana. I treni correvano su binari singoli che non offrivano via di scampo a chi vi fosse caduto sopra... non c’era spazio tra il treno e il marciapiede. Chi fosse finito contro il muro sull’altro lato sarebbe stato fulminato dal terzo binario. Era più sicuro dell’autobus... la morte era inevitabile, se calcolava bene i tempi. Toby vacillava sul bordo del marciapiede. In quel momento della giornata c’erano pochi passeggeri sparsi lungo il marciapiede tra i pilastri tinti di verde. Qua e là qualcuno dava di gomito al vicino indicando il tunnel buio. Ed ecco le luci di un treno in arrivo. Nessuno badava al ragazzo che avanzava ondeggiando tra i grandi pilastri di ferro. Però qualcuno avrebbe potuto notare Willy che camminava all’indietro davanti a lui. Be’, e allora? Camminare all’indietro non era un reato. «Non cadere» gli disse, e parlava sul serio. «Sta’ dritto.» Non ancora... aspetta ancora un po’. I fari nel tunnel erano ancora troppo piccoli, troppo lontani. Se fosse caduto adesso, qualche buon samaritano avrebbe fatto in tempo a tirarlo su. Toby andò a sbattere contro un pilastro e alzò gli occhi al soffitto. Non era abbastanza stordito per morire né abbastanza sobrio per restare in vita. Willy non temeva che la aggredisse o le facesse del male. Ormai era distrutto. Così gli si avvicinò e lo prese per il braccio. Sporgendosi dal bordo del marciapiede guardò nel tunnel. La luce era più intensa, la sagoma del treno più grande, ormai vicinissima, Toby a due passi dal bordo. Gli diede una spinta e si ritrasse in fretta. «Non perdere il tuo treno.» Ecco, stava cadendo, aveva un piede sulla piattaforma e uno nel vuoto, sospeso sui binari. Mancava solo un attimo. Un soffio lo avrebbe mandato giù. Ma... che diavolo! Cosa cazzo succedeva? Il treno stava uscendo dal tunnel. Mallory aveva afferrato Toby per le braccia, lo aveva tirato indietro. Lo trascinò il più possibile lontano dal bordo, poi lo scaricò a terra, piuttosto brutalmente. Poi vide Willy e si lanciò verso di lei. Frotte di poliziotti scendevano le scale. Inutile correre, non c’era nessun posto dove nascondersi. Un treno era in arrivo sull’altra banchina. Quante possibilità aveva di... Una mamma con un passeggino giunse sul bordo del marciapiede. Willy si chinò e afferrò il bambino addormentato. Riker raggiunse il livello inferiore in tempo per vedere Mallory che si tuffava dal marciapiede mentre il treno sopraggiungeva. I freni stridevano, ma le tonnellate di metallo del convoglio continuavano la loro corsa, tra scintille che schizzavano tutt’intorno e gente che urlava. Poi Riker vide un bambino lanciato in aria e preso al volo dalle mani tese dei passeggeri sulla banchina: incolume. Ma dopo aver salvato il piccolo, la detective non ce l’avrebbe fatta. «Mallory!» Riker si sentì mancare le gambe e crollò a terra. Prima che il treno si fermasse, due carrozze erano passate nel punto dove lei era caduta. Udì il detective Janos, uomo di indole gentile, urlare dal finestrino della prima carrozza, con voce acuta e disperata: «Fai marcia indietro o ti sparo!». Un controllore scese dalla carrozza e spiegò che non era così semplice, ma stavano arrivando i soccorsi. Gonzales si avvicinò a Riker. «Ho visto tutto dalla scala. Willy ha gettato un bambino sui binari per sfuggire a Mallory, ma non è scappata dalla nostra parte.» Lanciò un’occhiata al binario vuoto sull’altro lato del marciapiede. «Forse è riuscita a salire su quel treno.» Gonzales guardò il collega. Riker era senza espressione, gli occhi vitrei, e a scuoterlo non reagiva. «Ehi! Mi senti? Stai bene?» No, stava tutt’altro che bene. Mallory era morta e lui era sotto shock. Possibile che fosse vero? Possibile che avesse perso la vita in quel modo? Impossibile. La situazione era irreale e per un istante gli parve di udire una voce che gridava: «Tiratemi fuori di qui!». Grida di giubilo. Intorno a lui poliziotti e civili si abbracciavano. E anche questo non succedeva mai nella vita reale. Riker abbassò la testa... per inchinarsi all’assurdo. Piangendo e ridendo, alzò i pugni in segno di vittoria. Aveva una gran voglia di bere. Dio, quanto desiderava una birra. Staccata la corrente ad alto voltaggio, i binari furono invasi da agenti in uniforme e detective, tra i quali Riker. Mallory si era salvata appiattendosi sotto il treno. I colleghi la tempestarono di domande. Come ci era riuscita, quando l’istinto naturale le gridava di scappare? Com’era riuscita a restare immobile mentre il treno le passava sopra? Sapevano che Mallory non era del tutto umana, ma era viva, e il resto non contava. La aiutarono a rialzarsi. Gli abiti erano bruciacchiati dalle scintille dei freni, i capelli e il viso neri di polvere e di grasso, il dorso inzaccherato e coperto di rifiuti. Oh, come doveva soffrire quella maniaca della pulizia! La sollevarono in aria, fischiando e gridando di gioia, poi, felici, la consegnarono alle braccia di altri colleghi. Quando fu al sicuro sul marciapiede, Riker l’abbracciò e la tenne stretta. La stava stritolando ma non poteva staccarsi da lei. Piangeva e gridava incredulo: «Dio mio, come sei sporca!». E Mallory disse: «Così... ti sei fatto scappare Willy». «Ehi, toglietevi di torno! Abbiamo un’overdose qui!» Due paramedici si fecero strada nel gruppo che festeggiava la resuscitata e caricarono Toby Wilder su una barella. Mallory mollò la sua famiglia di sbirri per accompagnare Toby su dalle scale, nella luce del giorno. 40 Di solito non faccio fiasco in matematica. Oggi mio padre vede il voto insufficiente sul compito in classe. Lavora come un cane per mantenere la famiglia, si lamenta, e io ho solo quello da fare... la scuola. Com’è possibile essere tanto intelligenti e andare così male? Io volevo dire: «Be’, sono un po’ distratto, papà. Sto aspettando che mi uccidano». Ma a che servirebbe? Lui crede che abbia mentito sull’omicidio del barbone. «Sii un uomo» dice. Gli rispondo che è impossibile. Non vivrò abbastanza a lungo per diventarlo. E lui mi schiaffeggia. È la prima volta. Ma non piango. Non indietreggio. Ne ho prese di peggio e glielo dico. Mio padre mi guarda. È così sbalordito. Sembra che lo schiaffo lo abbia preso lui. Ed è lui che piange. Ernest Nadler Toby Wilder era stato ricoverato in ospedale e la prognosi era favorevole. L’agente Arthur Chu si era guadagnato la paga della giornata seguendo Willy Fallon sul treno e arrestandola. E ora il giovane distintivo bianco aveva trascinato il suo trofeo nella sala operativa dell’unità Crimini Speciali, dove Willy aveva subito chiesto un avvocato. Mallory era stata dichiarata in grado di tornare al lavoro, bisognosa solo di sapone e un cambio d’abito. Non era l’opinione dei medici del pronto soccorso, ma il tenente Coffey finse di crederci. E a Riker era toccato l’onore di accompagnare la signora a casa. Gli dispiaceva pensare che dopotutto Mallory se la sarebbe cavata anche senza il suo aiuto... quella partita a scacchi ricattatoria con l’ispettore capo. Ormai lei era un’eroina della polizia e poteva permettersi di non superare altre dieci valutazioni psicologiche senza rischiare di perdere il distintivo. Aspettando che fosse pronta, Riker si chiedeva cosa avrebbe pensato lo psicologo del dipartimento del suo appartamento: tutto in bianco e nero, tutto angoli e spigoli, nulla di personale, nulla che indicasse che lì viveva un essere umano, a parte il rumore della doccia in bagno. Dal cellulare sul tavolino di vetro si levò la musica rock che identificava Coco. Riker rispose. «No, sta bene» disse alla bambina preoccupata. «Non credere a quello che raccontano i notiziari. Mallory può essere uccisa solo da un proiettile d’argento.» A parte il gruppetto di cronisti perennemente installati in sala stampa, gli organi di informazione non parevano interessati al grande evento in corso a One Police Plaza. Willy Fallon era stata immortalata dalla telecamera di un turista mentre gettava un bambino sotto un treno della metropolitana e quel video aveva rubato la scena al golpe nel Palazzo dei Misteri, dove un addetto stampa stava sforzandosi di presentare la manifestazione come un tributo silenzioso a Rolland Mann, appena investito e ucciso da un autobus, assicurando così che la notizia sarebbe finita nella pagina dei necrologi sui giornali del giorno seguente. A nessuno dei giornalisti forniti di credenziali della polizia venne in mente di chiedere come mai tutti i dimostranti fossero donne. In piazza il sole pomeridiano bruciava da sciogliere il rossetto. Jack Coffey era accanto alla scultura rossa. Anche la strada era piena di gente. Il tenente era stato convocato dall’ispettore capo e ora i due uomini osservavano le poliziotte che occupavano la piazza e gran parte del cortile del quartiere generale del NYPD. Ce n’erano a centinaia, alte e basse, carine e brutte, tutte armate. Era un assembramento sorprendente, minaccioso e del tutto illegale, ma chi si poteva chiamare per allontanarle... la polizia? Gli agenti maschi in servizio nel palazzo stazionavano pigramente davanti all’entrata, prigionieri compiacenti. «Ecco perché non si vedono donne di pattuglia» disse Joe Goddard. «Sono tutte qui, tranne quelle convocate dal dottor Kane.» Il tenente Coffey non era stato invitato all’udienza per stabilire l’idoneità delle sette poliziotte, e neppure l’ispettore capo. L’organizzazione di quell’evento li aveva bypassati. La notizia della bocciatura era stata comunicata per vie traverse solo alle donne interessate, giudicate sociopatiche e pertanto non idonee al servizio, come tutte le altre esaminate dal dottor Kane. «Ma pensa un po’» disse Joe Goddard. «Uno psicologo della polizia che ha paura delle donne con la pistola.» Non molto tempo prima Jack Coffey aveva udito quelle stesse parole da Riker. Avrebbe dovuto prestargli attenzione. E adesso? Gli parve di sentirlo ridere di lui. Gli occhi del tenente osservavano le poliziotte che chiedevano la riabilitazione delle colleghe. Prigionieri dentro il palazzo, gli ufficiali di alto grado assistevano allo spettacolo dalle finestre. «Scommetto che sarà l’udienza più breve del secolo.» «Scommessa già vinta» commentò Goddard. «Ma l’udienza è solo una formalità. Il dottor Kane era spacciato già prima che queste donne si radunassero. I rapporti psicologici di quell’idiota sono stati distrutti ore fa. Tutti... anche quello della detective Mallory.» L’ispettore capo alzò gli occhi verso le finestre. «Ho parlato con i maghi del computer dell’ultimo piano. Non riescono a capire come siano trapelate le valutazioni e come sia stata organizzata la dimostrazione. Tutte queste donne credono che l’ordine sia arrivato dal loro sindacato. Ma non è così, sebbene le istruzioni siano passate da un computer del sindacato.» Jack Coffey venne a sapere che un hacker aveva usato quel computer per spedire lettere a ogni distretto e così tutte le poliziotte avevano ricevuto un invito scritto per partecipare alla festa. Le buste sigillate erano state consegnate quel mattino dai rispettivi sergenti. Joe Goddard molleggiò sui talloni. «Sappiamo solo che il tutto è stato orchestrato da un hacker di prim’ordine... che non ha lasciato tracce.» L’ispettore capo non era uomo da sprecare parole in domande retoriche, eppure disse: «Hai qualche teoria, Jack?». «Neppure l’ombra.» Be’, in realtà sì. Dovendo tirare a indovinare con una pistola puntata alla tempia, avrebbe ipotizzato che Mallory avesse saccheggiato la banca dati del dipartimento alla ricerca della relazione di Charles Butler... quella mai archiviata. E probabilmente in tre minuti aveva capito perché l’ispettore capo si tenesse in tasca la valutazione psicologica che lei non aveva passato. Aveva un talento naturale per riconoscere un ricatto potenziale. Il tenente Coffey chinò la testa. L’aveva grossolanamente sottovalutata. E ora Mallory intendeva vendicarsi di Joe Goddard. L’ispettore capo stava ancora aspettando una risposta soddisfacente, che probabilmente sarebbe arrivata come una rivelazione nel cuore della notte: Mallory voleva che lui sapesse che era stata lei a organizzare quell’evento. Al contrario di quanto pensavano i tecnici informatici, le sue tracce erano presenti ovunque. In quello spiegamento di forze così esagerato c’era tutta Mallory, che aveva radunato centinaia di armi per sparare un colpo di avvertimento. Joe Goddard non doveva mai più interferire con lei... oppure a Sbirrolandia sarebbe scoppiata la guerra. Ma lui ci avrebbe messo del tempo per capirlo. Al momento stava ancora battendo il piede, in attesa. «Non ne ho proprio idea.» Jack Coffey incrociò le braccia. «Nemmeno uno straccio d’idea.» E poiché entrambi sapevano che era una bugia, disse la verità: «Nessuno dovrà prendersela con uno dei miei per questa faccenda... e meno che mai con Mallory. Neanche morta si farebbe coinvolgere in una manifestazione di sole donne. Non c’è una molecola femminista nel suo corpo». Non ne aveva bisogno. Solo un uomo con tendenze suicide poteva suggerire che la sua detective sarebbe stata più utile chiusa in casa a fare la calza. Il tenente era stato chiaro. Il suo capo approvò annuendo. Mallory l’avrebbe fatta franca. Coffey pensò alla sua mappa degli Stati Uniti disegnata su un tovagliolo di carta per dimostrare l’instabilità mentale di Mallory. Riker aveva cercato di dirgli che si sbagliava sul viaggio, quella vacanza non autorizzata che lei si era presa. E la prova? Mallory l’avrebbe passata liscia anche in questo caso. Sì, in quel momento Riker doveva sbellicarsi dalle risate, a sue spese. In un edificio di fronte a One Police Plaza i due detective osservavano la manifestazione da una finestra del quarto piano. Durante il viaggio che li aveva portati lì Riker si era preparato allo scontro e ora la sua collega ruppe il suo lungo e gelido silenzio. «Deve ancora venire il giorno» disse «in cui io non riuscirò a passare una valutazione psicologica.» Riker chinò il capo, contrito. Avrebbe dovuto immaginarlo. Avrebbe dovuto capire che le diagnosi di sociopatia del dottor Kane erano fasulle, benché quello psicologo contorto e spaventato avesse casualmente visto giusto almeno in un’occasione. «Ecco che arrivano.» Mallory gli passò il binocolo. Riker mise a fuoco un gruppetto di uomini in borghese, rappresentanti sindacali e avvocati, che stavano uscendo dal palazzo con sette poliziotte in divisa blu. Tutti alzarono il pugno in segno di vittoria. Riker si aspettava grida di giubilo, ma le manifestanti restarono in silenzio e sull’attenti. L’ormai disoccupato dottor Kane fu l’ultimo a uscire. Vedendo lo schieramento di uniformi, una legione, l’uomo si portò una mano al petto e, dopo una pausa abbastanza lunga per perdere la testa, tornò dentro di corsa. Finalmente Riker capì lo scherzo. Le poliziotte ruppero le file e, rilassate e ridenti, si dispersero cancellando l’incubo a occhi aperti del dottor Kane, una marmaglia inquietante di donne con la pistola. E poi la gente diceva che Mallory non aveva il senso dell’umorismo. Altroché. Si era tanto preoccupato per nulla. Riker guardò l’orologio. Avevano una sospettata che aspettava di essere interrogata. «Muoviamoci.» Mallory dondolò pigramente le chiavi dell’auto. «So cosa hai fatto.» Ruotò la testa verso di lui come un cannone che prende la mira. «Ma non so come lo hai fatto.» Non era certo il preludio a un momento di calda intimità. Riker alzò le mani in un gesto di resa. «Ho capito, okay? Tu non hai mai avuto bisogno di alcun aiuto.» L’aveva rabbonita? Be’, no, niente affatto. Ora sapeva perché lo aveva trascinato lì, perché gli aveva fatto vedere da vicino il suo capolavoro, un esercito agli ordini di una... sociopatica disposta a tutto. «So di cosa si è servito Goddard per tenerci in scacco... per tenere in scacco me. Ora dimmi che porcherie hai usato tu contro di lui.» Domanda difficile. Ricatto o no, un patto era un patto, e lui era tenuto a rispettarlo. Se avesse tradito l’ispettore capo, avrebbe perso anche il rispetto di Mallory. E se non parlava? Be’, la signora era armata. Così disse: «Sparami». Willy Fallon sedeva nella stanza degli interrogatori insieme all’avvocato d’ufficio, un uomo con la faccia da bambino e un abito dozzinale. Da una verifica del curriculum Mallory aveva appurato che era stato il peggior laureato del suo corso. Legale e cliente attendevano da un’ora quando i detective entrarono. Riker aveva un foglio di carta e cominciò a leggere l’elenco delle imputazioni. In risposta all’accusa di aver ucciso Rolland Mann, Willy gridò: «L’ho fatto solo per difendermi, lui stava cercando di uccidere me!». Be’, era prevedibile, ma la replica di Riker fu dura. «Sarà difficile convincere la giuria. Ecco quello che vedranno.» Le mostrò un’immagine sul cellulare di un turista. «Qui lei strizza le palle di quel povero bastardo.» Poi passò alla sua fotografia preferita. «E qui gli dà un calcio in culo davanti all’autobus. E non mi dica che non l’aveva visto arrivare. È a due piani.» Intervenne l’avvocato. «Non è omicidio. Al massimo si può parlare di aggressione con circostanze attenuanti.» Il detective lo guardò come se parlasse la lingua di un pianeta lontano. «Sto cercando di collaborare con voi» disse l’avvocato. «Okay? La mia cliente è incensurata.» «Non è vero» ribatté Riker. «E non abbiamo finito con i capi d’accusa. Una delle sue vittime aveva solo dieci mesi. Willy ha gettato quel bambino sui binari della metropolitana. Quindi, avvocato... che altro nome vogliamo dare a un tentato omicidio? Ha circostanze attenuanti anche per questo? Il bambino era stato maleducato con Willy?» Dopo uno scambio di mormorii con la cliente, l’avvocato sorrise. «Sono ancora disposto a lavorare con voi.» Riker prese un biglietto da dieci dal portafogli e lo mostrò a Mallory. «Scommetto che ci racconterà la favola di mandarla a disintossicarsi in clinica invece che in prigione.» Lei scosse il capo. Nessuna scommessa. Posò sul tavolo una busta piena di capsule e pillole. E con tono cortese, quasi dispiaciuto, disse: «La scorta della sua cliente è la prova per un’altra imputazione». «Willy ha drogato un uomo» disse Riker. «Non quello che ha spinto sotto l’autobus. Un altro... e questo ha cercato di buttarlo sotto un treno della metropolitana.» «Cosa collegata alla detenzione di droga» commentò Mallory a bassa voce, come se fosse fuori dal gioco. Era la personificazione della serenità e dell’equilibrio... e non pareva nutrire alcun rancore. «A Toby Wilder è stata somministrata una dose letale di narcotici.» Riker strinse la busta in pugno sotto il naso dell’avvocato. «Toby dice che gli ha drogato il vino.» «E se lo meritava!» strillò Willy, confessandosi colpevole prima che l’avvocato le sussurrasse: «Stia zitta!». «No! È stato Toby ad appendermi nel Ramble. Lui voleva uccidermi.» «Sta mentendo» disse Riker. «Lei non ha riconosciuto il suo rapitore. È confermato anche dal medico che l’ha visitata al pronto soccorso.» Mostrandosi collaborativa, Mallory indicò il rapporto del medico sul tavolo. «Qui è scritto che, in seguito al colpo alla nuca, dieci o quindici minuti sono stati cancellati dalla sua memoria. Quindi non poteva...» «Ma doveva essere Toby!» La voce di Willy si trasformò in un lamento acuto. «Non può essere stato quel verme di Rolland Mann. Nell’uccidere lui era solo un fottuto dilettante. Ed è morto, no? Quindi doveva essere Toby.» I detective si guardarono, avendo compreso entrambi la logica di Willy: lo aveva dedotto da un procedimento di eliminazione fisica. «Ricapitoliamo» disse Riker rivolgendosi all’unico adulto sull’altro lato del tavolo. «La sua cliente spinge un uomo sotto un autobus, poi ne droga un altro. Cerca di spingere anche quello sotto un treno in corsa. L’accusa di resistenza all’arresto ci riporta al bambino gettato sui binari. Ha visto il video della scena? È su tutti i canali televisivi.» «Sì, guardo i notiziari» rispose l’avvocato. «So che la detective Mallory è sopravvissuta dopo essere stata investita dal treno. Mi dicono che ci sono solo sessanta centimetri di spazio tra il binario e...» «No.» Con quell’unica sillaba Riker garantì all’avvocato che proseguire con quel ragionamento gli sarebbe costato caro. «Quando getti un bambino sui binari sai di procurargli delle lesioni, senza contare il rischio di morte!» Batté il pugno sul tavolo per sottolineare le ultime parole, poi si girò verso Willy. «Il bambino è salvo, ma la madre chiederà i danni e le porterà via fino all’ultimo centesimo.» Continuò rivolto all’avvocato: «Spero si sia fatto pagare in anticipo, amico. Abbiamo parlato con i genitori di Willy. Non hanno intenzione di sborsare un soldo per le spese legali. Le sue carte di credito sono annullate, ma ha circa cinquemila dollari in un sacchetto di carta. Bastano per la parcella?». L’avvocato era sorpreso. Il suo sorriso vacillò, sempre meno fiducioso. Fu facile leggergli nello sguardo, quando si rischiarò leggermente: Be’, cinquemila dollari. L’uomo lanciò un’occhiata all’orologio, quasi temendo che il denaro si dileguasse da un momento all’altro. «Propongo un ragionevole patteggiamento sulla base di una derubricazione dei reati.» «Cosa?» Riker scattò in piedi e si protese verso l’avvocato con l’aria di volerlo strozzare. Mallory gli posò una mano sul braccio e lui si calmò. Poi, sorridendo come se l’avvocato avesse proposto qualcosa di saggio, disse: «Credo che possiamo trovare un accordo». Dall’altro lato del finto specchio Jack Coffey scosse il capo, incredulo. Aveva sempre creduto che solo all’inferno Mallory avrebbe giocato a fare il poliziotto buono e Riker quello cattivo. Accanto a lui era seduto un personaggio importante, il procuratore distrettuale Walter Hamlin che, con gli occhi fuori dalla testa per lo stupore, si sporse verso il vetro mentre Mallory proponeva magnanimamente di trasformare l’omicidio del vice comandante della polizia in un incidente stradale. Un punto a favore del sorridente ispettore capo, seduto alla destra di Coffey. Il problema di Rolland Mann era risolto e al dipartimento di polizia sarebbe stato risparmiato lo scandalo peggiore degli ultimi vent’anni. Intanto Riker aveva alzato le mani disgustato ed era uscito dalla stanza degli interrogatori sbattendo la porta. Coffey udì la sua detective acconsentire alla cancellazione del tentato omicidio di Toby Wilder. «Lo chiameremo un equivoco» disse Mallory. «Perché no? Lui era stordito. Non ricorderà nulla.» L’avvocato di Willy annuì sorridendo. Il procuratore guardò Jack Coffey. «La detective Mallory sa che io sono qui... che sto ascoltando?». «Diavolo, sì» rispose Joe Goddard al posto del tenente. «Walt, sai che un tuo assistente non avrebbe le palle per firmare un accordo come questo. Ecco perché ho invitato te.» Intanto Mallory stava mettendo in chiaro che Willy si sarebbe dichiarata colpevole per lo spiacevole incidente del bambino. «Ma possiamo farlo passare per una bravata.» L’avvocato chiese a quella detective così disponibile cosa desiderasse in cambio. Mallory propose di scambiare i nuovi omicidi con i vecchi. «Willy era solo una bambina quando quel barbone morì nel Ramble. Mi interessa anche l’aggressione a un suo compagno di scuola. Se mi racconta tutto quello che sa, quei vecchi casi andranno davanti al giudice del tribunale minorile. Sarà giudicata come se fosse minorenne.» Riker raggiunse gli altri nella stanza di osservazione e si fermò accanto al vetro. «Quell’avvocato è incredibile. Willy deve averlo trovato sulle pagine gialle. Immagino che finora si sia occupato di infrazioni stradali. Non ha alcuna esperienza di diritto penale.» Era il difensore che ogni poliziotto si augurava. «Detective,» disse il procuratore Hamlin «anche se mettessi per scritto l’accordo di Mallory, in tribunale non reggerebbe. In questo momento otto milioni di newyorkesi stanno guardando il video del bambino. Qualsiasi giudice annullerebbe l’accordo e condannerebbe la signorina Fallon al massimo della pena.» Riker ridacchiò. «Sì, ci contiamo.» Il procuratore Hamlin non aveva finito. «Riguardo all’omicidio del barbone, se la signorina Fallon confessa, sebbene il reato sia stato commesso quando era minorenne, la pena verrà scontata in un carcere per adulti... e anche in questo caso probabilmente avrà il massimo. Ritiene che la donna abbia capito bene?» «No» disse Riker. «Ma io sono tenuto solo a leggerle i suoi diritti. Willy è un’idiota e il suo avvocato non è molto più sveglio. Guardi come sorride. Crede di aver concluso un buon accordo.» Un’ora dopo, il patteggiamento firmato fu posato sul tavolo della stanza degli interrogatori. Mallory vi aggiunse le fotografie del cadavere del barbone massacrato da tre bambini nel Ramble. «Conosco già gran parte dei dettagli. Posso dirle quante volte Aggy Sutton ha morsicato la vittima. Aggy la Morsicatrice... non è così che la chiamavate?» Willy Fallon fissava le fotografie. Pietrificata, gli occhi sbarrati, tratteneva il respiro... quasi una confessione di colpevolezza. «Se mente, Willy, anche una sola bugia, l’accordo salta e non posso più aiutarla. Marcirà in galera per il resto dei suoi giorni.» L’avvocato diede di gomito alla sua cliente, invitandola a parlare. E lei cominciò, esitando all’inizio... poi prendendoci gusto. Nella stanza accanto gli osservatori erano al buio, la condizione più adatta per ascoltare un racconto dell’orrore. Udirono le urla di un derelitto che giaceva sanguinante sull’erba, colpito da pietre e morso da piccoli denti. Seguì il lungo tormento di Ernest Nadler. Dopo averlo appeso all’albero per i polsi, i suoi tre torturatori erano tornati nei giorni seguenti per punzecchiarlo con dei bastoni... e prolungare l’agonia. Willy non la smetteva più. Rivelava tutte le torture, godendone. Divertendosi come una pazza. 41 Seduto in giardino, racconto la mia storia al signor Polanski, il tuttofare della scuola. «Credo che il barbone morto verrà cancellato» dico. «Come la povera Allison.» Guardo le pietre dove la bambina di gesso appare il primo giorno di primavera e gli chiedo: «Quando sarò morto, laverà via anche me con la pompa?». Lui scuote la testa e alza le mani. Non vuole sentire altro. Ma io ho bisogno di parlare con qualcuno. Gli dico: «Io amo i miei genitori. Come si fa a dire addio alle persone se loro non credono che te ne stai andando?». Il signor Polanski non si allontana lentamente. Scappa. Ernest Nadler L’ispettore capo Joe Goddard era accanto al sindaco durante la conferenza stampa. Su una parte dello schermo scorreva il video del bambino gettato sui binari della metropolitana, ormai il filmato più visto ovunque. E sebbene il primo cittadino avesse appena annunciato la cattura e la confessione della colpevole, un cronista fu così temerario da alludere ai delitti irrisolti dell’Artista della Fame. Quando il sindaco si impappinò, Joe Goddard ringhiò al microfono: «Voi sciacalli della stampa sapete bene come funzionano queste cose. L’indagine continua». Rabbrividendo per quel linguaggio, il sindaco proseguì coraggiosamente con l’annuncio della morte di Rolland Mann in un increscioso incidente stradale. Jack Coffey spense il televisore e guardò l’ispettore capo in carne e ossa che si era impossessato della sua scrivania. Il tenente non si sedette. Preferì restare in piedi come Riker e Mallory. «Per quanto riguarda i funerali di Rocket Mann» disse Joe Goddard «o gli concediamo ventun salve di cannone e le cornamuse o lo seppelliamo in una bara di pino come persona imbarazzante per il dipartimento. La vedova lascia fare a noi. Annie Mann non se ne cura, le basta non dover più uscire dal suo appartamento. Quello che mi preoccupa sono le ripercussioni. Cosa rischiamo?» «Ha ucciso Ernie Nadler» disse Riker. «E quel bastardo ha avuto quello che si meritava» replicò il capo. «Caso chiuso.» «No, non lo è» fece Riker. «E se dimostrassimo che Mann fu assoldato per uccidere il bambino? Che te ne pare come ripercussione?» Goddard ruotò sulla sedia mentre osservava quell’intrattabile detective. Poi si rivolse al suo superiore. «Jack, concentrati sull’Artista della Fame. Voglio che risolviate quel caso in fretta. Così forse qualcuno paga e qualcuno la passa liscia. Non andate troppo per il sottile, okay? E per favore ditemi che Rocket Mann non era implicato anche in questo.» «No» disse Mallory. «Non era il suo stile. Preferiva i delitti improvvisati, come spingere Willy sotto l’autobus... o soffocare un bambino in ospedale.» Stava lanciando l’esca a Goddard? «Mallory?» Coffey le batté sulla spalla. «Stai zitta!» E l’ispettore capo disse: «Non immaginiamo Rocket Mann che mette insieme il suo kit nel corso di molti anni. E non lo vediamo nei boschi con un trapano e un argano. Non avrebbe mai fatto tanta fatica per uccidere... però era un assassino. Un vero gelido...». «Be’, direi che abbiamo tre voti per la bara di pino» lo interruppe Goddard. «Ma qui la democrazia non conta. Rocket Mann avrà un funerale da eroe caduto in servizio. E la reputazione del dipartimento ne uscirà intatta.» Era l’ordine di stendere un velo pietoso su tutto. «E ora torniamo all’Artista della Fame. Dove avete messo quel drogato, Toby Wilder?» «È in ospedale» rispose Mallory «per una lavanda gastrica.» «E ci resterà, sotto custodia, fino a nuovo ordine.» Quanto all’altro caso, l’ispettore capo si oppose alla richiesta di un mandato di perquisizione. «L’assistente del procuratore è contrario. Heller e Slope non si sentono di certificare l’uso del cloroformio. Il test della Scientifica non era probante e i campioni di tessuto del medico legale sono stati riesaminati in laboratorio col medesimo risultato. E gli altri oggetti sulla vostra lista sono troppo vaghi. Non bastano un vecchio trapano e un argano. L’assistente del procuratore dice che dovete essere più specifici se volete avere accesso alla casa.» «Immagino che nessuno voglia irritare le persone sbagliate» commentò Mallory. Quel giorno era l’eroina della città, la perla del dipartimento di polizia, e a seguito del suo successo a One Police Plaza – superbia, il tuo nome è Mallory – credeva di potersi permettere di contraddire l’ispettore capo in presenza di testimoni. Si sbagliava. Coffey lo capì dal cambiamento di atmosfera, il silenzio che calò in quella stanza dove c’erano troppe pistole. «So come rendere più specifica la richiesta per il mandato di perquisizione» intervenne Riker per attirare l’attenzione di Goddard. E ancora una volta il tenente si chiese che tipo di potere avesse Mallory su quell’uomo. «Abbiamo una testimone esperta di suoni» continuò Riker. «Coco è in grado di identificare la marca di un aspirapolvere dal rumore del motore. L’ho vista in azione. Ed era nel Ramble la notte in cui Humphrey Bledsoe fu appeso all’albero. Se le facessimo ascoltare gli argani e i trapani raccolti dalla Scientifica?» Jack Coffey lanciò un’occhiata a Mallory, che non sembrava meno sorpresa di lui. Riker stava bluffando per salvare la sua collega dall’ira di Goddard... oppure le aveva tenuto nascosta quell’informazione. L’ispettore capo non si lasciò impressionare. «La tua testimone esperta di suoni sarebbe una bambina di otto anni?» «Un piccolo genio» Riker annuì convinto. «È infallibile in queste cose. Possiamo documentarlo. Abbiamo Charles Butler, un’autorità nel valutare le persone dotate di talenti speciali. Lo confermerà.» Sulla porta del distretto i due detective si separarono con l’accordo di ritrovarsi più tardi nell’appartamento di Charles. Riker doveva andare a prendere gli argani e i trapani, ma un’anziana signora gli bloccava la strada. «Quindi era proprio omicidio» disse la vicina di casa di Rolland Mann. «L’ho visto in televisione.» La signora Buford muoveva la testa nervosamente, guardinga e sospettosa degli agenti che passavano vicino a loro. Abbassò la voce riducendola a un sussurro. «Sono sicura che se l’è meritato.» Oh, no... questa proprio non ci voleva. Se a qualche cronista fosse venuto in mente di indagare nel palazzo di Mann e avesse interrogato quella donna, la verità sarebbe venuta a galla. Riker le scoccò un sorriso radioso. «No, è stato un incidente.» «La detective Mallory ha parlato di omicidio. Me l’ha detto quando ci siamo conosciute. Ed è stato prima che Rolland Mann venisse investito dall’autobus. Molto preveggente, non le pare?» Maledizione. «La mia collega si riferiva a un altro omicidio» replicò Riker «di molto tempo fa. E noi apprezziamo molto la sua...» «Alla televisione hanno intervistato una turista danese che ha visto tutto. Ha detto che Rolland Mann stava lottando con una donna quando è arrivato l’autobus. Era la detective Mallory? Spero proprio che non si sia messa nei guai.» Nella mente della signora Buford la detective era una veggente o un killer. Fortunatamente alla vecchia signora Mallory piaceva molto e, venti minuti dopo, davanti a un caffè, Riker era riuscito a convincerla che la morte improvvisa del suo vicino di casa non era stata causata da un complotto della polizia, o almeno così credeva a giudicare dai molti cenni di assenso e dai sorrisi della donna. Poi però lei gli strizzò l’occhio, e con quel lento calare della palpebra insinuò maliziosamente che fossero tutte bugie. «Capisco» disse infine. «Sarò muta come un pesce. Non direi mai nulla che possa danneggiare la detective Mallory. È una ragazza così dolce, così gentile.» «Già, è proprio così.» Riker guardò l’orologio. In quel preciso momento quel piccolo angelo stava torturando un cieco. Anthony Queen protestava lamentandosi delle tattiche da reparto d’assalto della legge. Seduta tranquillamente davanti alla scrivania, Mallory – la legge – contava di segargli le gambe per tenerlo lontano dai cronisti. «C’è una guardia fuori dalla stanza di Toby. La polizia mi impedisce di avvicinarmi al mio cliente. Io ho il diritto di...» «Toby ha dei diritti» lo interruppe Mallory. «Lei no. E il suo cliente non ha più bisogno del suo aiuto. Quando era un ragazzino, lei ha permesso che l’avvocato pagato dalla Scuola Driscol lo spedisse a Spofford. Lei è sempre stato convinto che Toby fosse colpevole.» «Mai.» «Lo è tuttora. Il giorno in cui si è presentato in tribunale con la madre di Toby, è stato allora che l’assistente del procuratore le disse che Toby aveva lasciato dei fiori nel punto esatto dove era morto il barbone. E lei ha capito che il ragazzo era un assassino.» «No, io mai...» «Bugiardo. Per questo ha permesso che Carlyle lo rinchiudesse in quel buco infernale. Avrebbe potuto bloccare il patteggiamento, ma era sicuro che Toby fosse colpevole, così ha pensato che una condanna a quattro anni fosse un buon affare... per un assassino.» «Io ho sempre creduto in lui.» «Sì, già. Ecco la sorpresa, vecchio. Non è stato Toby. Se ci fosse stato un processo, la difesa avrebbe potuto avvalersi di una prova a discolpa... la deposizione di un testimone che lo avrebbe scagionato. Ma non lo si è mai saputo a causa del patteggiamento. Così Carlyle ha mandato in carcere un ragazzo innocente, e lei lo ha aiutato a farlo... come un favore alla madre di Toby.» Avendo compreso quale era stato il suo ruolo nel rovinare Toby Wilder, l’avvocato assunse un’espressione profondamente addolorata. Ma poiché era un avvocato, Mallory attese che una luce si accendesse nei suoi occhi spenti... una scintilla rivelatrice di macchinazioni, schemi e complotti. E infine lui sorrise e maliziosamente disse: «Quindi Carlyle sapeva che il ragazzo era innocente». «Lasci perdere, vecchio. Non ci sarà nessun procedimento giudiziario per ingiusta detenzione. Se ci prova, Toby finirà all’ergastolo. Quindici anni fa le tre vittime dell’Artista della Fame accusarono Toby per la morte del barbone... La vendetta le sembra un movente plausibile per qualcuno che conosciamo?» La bocca di Queen si spalancò... e si chiuse. Non aveva più parole. Era scioccato, tuttavia Mallory sperava di farlo piangere. «So cosa ha fatto alla madre di Toby... eravate buoni amici. Ho parlato con i colleghi di Susan Wilder. Mi hanno detto che era innamorata del marito e continuò ad amarlo fino alla morte. Ma amava anche di più suo figlio. Così mi sono chiesta perché avesse accettato l’idea del patteggiamento. È stata opera sua, vero? Quella donna si fidava di lei. Toby era minorenne. Prima che il figlio si dichiarasse colpevole di omicidio davanti al giudice, lei doveva convincere la madre che era veramente colpevole... che aveva ucciso suo padre.» «Susan non sapeva chi fosse il barbone.» «Lo sapeva» ribatté Mallory «già prima che Toby venisse arrestato. E io posso dimostrarlo.» L’espressione di Anthony Queen diceva: Basta, per favore. Non ancora. Stava appena pareggiando i conti con quell’uomo. «Susan Wilder andò all’obitorio a vedere il cadavere del barbone... con le dita. Era cieca, ma riconobbe il marito. Ho un testimone che sostiene di averla vista piangere... Amava quell’uomo. E grazie a lei, Susan è morta credendo che il figlio lo avesse ammazzato di botte... Le ha avvelenato il poco tempo che le restava da vivere.» Lacrime. Perfetto. «Si sente in colpa adesso? Non mi costringa a tornare qui, vecchio.» Si alzò e andò verso la porta dell’ufficio. «E le consiglio di stare lontano da Toby Wilder.» 42 Ora mia madre mi sorride in continuazione. Sorrisi tristi. La sto facendo impazzire. Mi dispiace, mamma. Ernest Nadler «Forse non è una buona idea. I rumori forti la terrorizzano» disse Riker spingendo una piccola carriola nell’atrio del palazzo di Charles Butler. Trasportava un pesante scatolone pieno di trapani e argani. «Charles non sarà d’accordo.» «È a Chicago» disse Mallory. «C’è Robin Duffy con Coco.» Be’, problema risolto. Il vecchio avvocato avrebbe permesso alla sua collega di dare fuoco a un autobus carico di orfani pur di vederla sorridere. La porta si aprì e Mallory sopportò un abbraccio forte e affettuoso. Con un dito sulle labbra Duffy mormorò: «Coco sta facendo un sonnellino». Li portò in cucina dove il tavolo era coperto di documenti. «Charles ha trovato due persone meravigliose a Chicago, gli Harvey. Erano stati giudicati idonei per l’adozione un anno fa e sono entrambi insegnanti in una scuola privata. È molto importante. Così Coco sarà sotto il loro controllo tutto il giorno. Charles dice che la cosa migliore è che potrà andare a scuola e avere una vita normale.» Si sedette al tavolo e frugò tra le scartoffie. «Oh, eccolo.» Diede un foglio a Mallory. Leggendo al di sopra della sua spalla, Riker esaminò il modulo che avrebbe permesso alla loro testimone materiale di lasciare lo stato di New York. «Firma qui, Kathy.» Duffy indicò la linea tratteggiata in fondo alla pagina. «Gli Harvey arrivano oggi con Charles. Se tutto va bene, porteranno Coco in Illinois per un periodo di prova.» «Non se ne parla.» Mallory piegò il foglio. «La bambina non va da nessuna parte finché non abbiamo risolto il caso.» Posando il modulo sul tavolo, il vecchio avvocato rispose: «Charles ha detto che gli Harvey hanno un giardino pieno di lucciole. Pensa che sia importante fartelo sapere». «Coco resta finché...» «Bene.» Duffy alzò le mani in segno di resa. «Quando sarai pronta, Kathy. Gli Harvey si fermeranno in città per un po’.» «Ora puoi andare» disse Mallory. «Resterò io con Coco.» «Sì» fece Riker. «Vengo con te.» Robin Duffy esitò, incerto, e guardò l’orologio sul muro. «Charles mi ha chiesto di fermarmi fino al ritorno della signora Ortega. È andata a fare delle commissioni.» Il vecchio avvocato sembrava preoccupato. Riker era confuso. Mallory no. «Cos’altro ti ha detto Charles? Di non lasciarmi sola con Coco? Di non fidarti più di me?» Riker uscì dall’appartamento con un contrito Robin Duffy, e benché avesse chiuso la porta delicatamente, il rumore svegliò Coco. Schizzò fuori dalla sua camera come una scheggia e si precipitò ad abbracciare Mallory, così felice, con un sorriso così grande. E, sì, le sarebbe piaciuto risolvere un omicidio. Molto divertente. La detective portò la carriola in cucina e la bambina la osservò mentre tirava fuori il primo argano. Mallory lo collegò a un riduttore per adeguarlo al voltaggio della corrente. «Riker dice che hai buona memoria per i motori.» Coco elencò un catalogo di elettrodomestici susseguitesi negli anni in casa di sua nonna: frullatori e lavatrici, aspirapolvere, scope e coltelli elettrici. Passò poi a quelli dei vicini di casa, citando altre marche e modelli. Intanto osservava Mallory che stava disponendo sul tavolo gli elementi del kit di un omicida. Smise di parlare e guardò verso la porta. «Sta arrivando la signora Ortega. Sono le sue scarpe sul pianerottolo. Le senti?» No, Mallory non udiva nulla, ma un attimo dopo la chiave girò nella toppa della porta d’ingresso. Lasciò la bambina in cucina ed entrò in salotto in tempo per vedere la donna delle pulizie crollare su una poltrona, circondata dalle borse della spesa. «Ehi, Mallory.» La signora Ortega si chinò su una delle borse. «Aspetti di vedere cosa ho comprato per la bambina.» Tirò fuori una scatola e le mostrò un paio di scarpe da ginnastica rosa. «Un regalo per la partenza. Vere stringhe al posto di quella schifezza del velcro.» «Ma lei non è capace di allacciarle» obiettò Mallory. «Come ha imparato con i bottoni, imparerà con le stringhe» disse la signora Ortega. «Basta con quel dannato velcro. È come comprare una sedia a rotelle a un bambino che zoppica un po’. Non camminerà mai più.» «Ma lei non sa...» «Deve imparare!» Esasperata, la donna alzò le braccia. «Come potrà cavarsela nella vita se non sa neppure allacciarsi le scarpe?» Giusto. Mallory era sopravvissuta alla sua terribile infanzia tenendo delle lamette in tasca, rubando le scarpe migliori per correre veloce e sfuggire ai pedofili. E aveva imparato a addormentarsi solo dove era sicura di poter arrivare viva fino al mattino. Aveva rubato portafogli, carpito con le lusinghe denaro alle prostitute e acquisito abilità che Coco non avrebbe mai potuto raggiungere essendo sprovvista di scaltrezza. La bambina era sulla soglia e la guardava preoccupata. Aveva sentito tutto. Si avvicinò timidamente alla detective e le prese la mano. Gli occhi azzurri erano pieni di speranza... quindi incomprensibili per Mallory che considerava inutile la speranza. La signora Ortega andò a preparare l’appartamento per gli ospiti di Charles Butler, gli Harvey dell’Illinois. La detective si sedette sul pavimento e insegnò a Coco ad allacciarsi le scarpe affinché quella bambina potesse sopravvivere nel vasto mondo. Per ore le loro dita si intrecciarono mentre provavano insieme. Sebbene stanca, Coco amava a tal punto Mallory che non si sarebbe fermata finché non ci fosse riuscita. E il nodo finale fu un regalo che si scambiarono reciprocamente. Quando Charles Butler entrò in casa, udì il rumore di un motore e Coco che gridava: «Ferma! È questo!». Corse in cucina e trovò la bambina seduta al tavolo con le mani premute sulle orecchie e la bocca spalancata in un urlo muto. Mallory stava spegnendo un attrezzo meccanico. Ce n’erano altri dappertutto. Una tortura per chi soffriva di iperacusia. «Ciao.» Mallory gli sorrise come se fosse perfettamente normale intrattenere una bambina in quel modo. «Coco ha identificato i motori che ha sentito nel Ramble. Ora ho bisogno che tu mi scriva una lettera per confermare la sua abilità nel riconoscere i suoni.» Coco si dondolava abbracciandosi le ginocchia per calmarsi. Charles era allibito. «Mallory, vieni fuori un momento.» Non era un invito. La prese per il braccio e la trascinò sul pianerottolo, chiudendo tutte le porte affinché Coco non udisse le sue parole. «Sei pazza? Non riesco a credere che tu le abbia imposto uno strazio simile. Non avvicinarti mai più a quella bambina.» Lei si stava preparando a combattere. «Ho bisogno...» «Che importa? I genitori sono qui sotto. Non costringerla a scegliere fra te e loro. Nemmeno tu puoi essere così crudele.» Mallory accusò il colpo? Sì. E lui continuò. «Sono persone disposte ad amare quella bambina appena la vedranno. Tu provi solo un interesse superficiale per Coco. Togliti di torno, Mallory! Vattene!» La detective si voltò e stava dirigendosi verso l’ascensore quando Coco uscì di corsa dalla porta gridando: «Aspettami!». Liberatasi dalle braccia di Charles che cercava di trattenerla, la inseguì urlando: «Mallory! Mallory!». Senza girare la testa lei alzò una mano e ordinò: «Fermati». Ubbidiente come un cane, la bambina si immobilizzò. «Tu resti qui» disse Mallory entrando nell’ascensore. «No! No-o-o!» Coco batté le mani sulla porta dell’ascensore, poi crollò a terra singhiozzando. Charles cercò di tirarla su, ma lei agitava le braccia per tenerlo lontano... poi lo sguardo le cadde su una stringa slacciata. Stringhe? Con l’espressione angosciata di chi ha perso la sua ancora di salvezza, Coco allargò le braccia e strinse i pugni. Era il momento che Charles aspettava per sostituire un legame con un altro. Si inginocchiò accanto a lei. «Al piano di sotto ci sono due persone molto simpatiche. Sono venute fin dall’Illinois per conoscerti.» «Io voglio Mallory.» «Non tornerà.» Coco scosse il capo. «Mallory mi ama. Mi ama.» Charles la osservò chinare la testa e... allacciare la stringa. E dopo lei lo guardò, uno sguardo di sfida. Allungò il piede per mostrargli un goffo nodo infantile. «Questo ti sembra superficiale?» Oh, Dio... quel suo udito straordinario. Aveva sentito ogni parola detta sul pianerottolo. Coco si protese verso di lui e negli occhi umidi e scintillanti c’era rabbia quando disse con grande dignità: «Mallory mi amava». Tempo passato. Perse tutte le speranze, la bambina gli gettò le braccia al collo. Col corpo scosso dai singhiozzi e la voce rotta recitò una litania di lamenti. Rimasero così a lungo, Charles disperato, Coco in lacrime, soffrendo per tutto quello che avevano perduto, la casa, l’amore. Gli Harvey dell’Illinois avevano disfatto i bagagli nell’appartamento del piano inferiore e stavano salendo da Charles quando le porte dell’ascensore si aprirono davanti a una bambina con gli occhi rossi e gonfi. Senza esitare, la signora Harvey la prese in braccio e la portò in casa parlandole con voce dolce e materna. «Vedrai, andrà tutto bene.» Poi le asciugò la faccia con un fazzoletto di carta. Charles non era preparato alla reazione di Coco e ne fu sbalordito. Con un sorriso improvviso e raggiante – anche se forse non spontaneo – la bambina informò gli Harvey che i topi erano portatori di peste bubbonica. Subito dopo corse al pianoforte e suonò e cantò per gli ospiti. Tornò in salotto danzando e attaccò un monologo sul suo argomento preferito. Ce la metteva tutta per superare l’audizione che le avrebbe procurato una nuova casa e l’amore che aveva appena perduto. E la coppia era incantata da quella bambina che lottava per sopravvivere. Charles si scusò e andò in camera di Coco per restare solo con il suo dolore. Le tende erano tirate e l’unica luce proveniva dal barattolo delle lucciole. Molto luminoso. Molto strano. Quegli insetti avrebbero dovuto essere morti da tempo, invece erano tutti vivi. Che stupido! Meritava di morire tanto era stupido. Era così ovvio. Mallory era entrata di nascosto, ogni notte, portando nuove lucciole affinché Coco non si svegliasse al buio. L’uomo disperato cercò il cellulare sotto il cuscino. Premette l’unico pulsante. «Mallory?» E lei disse: «Ho firmato il modulo per lasciarla partire. È sul tavolo in cucina. Adesso sei contento?». «No.» Quel pomeriggio d’estate sarebbe rimasto nella sua memoria per sempre, un segnalibro lasciato in una pagina strana e triste che avrebbe riletto mille volte. Ultranovantenne e molto dopo la morte di Kathy Mallory, in una bella giornata estiva, in un giardino dove crescevano solo margherite, Charles avrebbe strappato i petali dei fiori. I suoi nipoti avrebbero sorriso vedendo il nonno che giocava a m’ama non m’ama, senza immaginare che lui si stava arrovellando con un vecchio problema di lucciole in un barattolo. A Charles, che era sano di mente e molto umano, non sarebbe mai venuto in mente di illuminare con le lucciole il viaggio notturno di una bambina. E ormai vecchio avrebbe straziato margherite pensando a Mallory e ripetendo all’infinito: «Non aveva cuore», e al petalo seguente: «Lo aveva». Riker camminava lungo una fila di gabbie di legno e rete metallica, fragile protezione per i beni di coloro che erano morti senza fare testamento, lasciando tutto ciò che possedevano in quel limbo. Si fermò accanto all’unica gabbia illuminata. Mallory si era data da fare per collegare i fili che ora pendevano dal soffitto in quel piccolo spazio zeppo di mobili. Quello più imponente era la cassaforte dei Nadler, grande come un armadio e spalancato. Evidentemente Mallory si era stancata di aspettare che il loro capo emanasse l’ordine per togliere il lucchetto. Sul pavimento c’era un grosso trapano, nella porta della cassaforte un buco... e la detective era dentro. «Trovato qualcosa di utile?» Riker si chinò per entrare ed emise un fischio di ammirazione vedendo che era piena di fumetti. In cima a una pila c’era una copia di Batman, più vecchia di lui e in condizioni perfette. Seduta a terra, Mallory stava leggendo un piccolo volume scritto a mano. «Se quindici anni fa avessero aperto quel dannato lucchetto avrebbero trovato il testamento dei Nadler.» «Per fortuna non l’hanno fatto.» Riker sfogliò i fumetti dalle antiche copertine. «I topi se li sarebbero mangiati. Questa non è la collezione di un bambino. Vale una fortuna.» «Quelli appartenevano al padre. Sono citati nel testamento. Ma ho trovato anche i fumetti di Ernie... ciò che ne resta.» Indicò uno scatolone fuori dalla cassaforte, tutto rosicchiato dai topi. Riker sollevò il coperchio di cartone. Lo strato superiore di carta maciullata ospitava una nidiata di topolini ciechi appena nati. Si agitavano e squittivano. Da buon newyorkese, Riker non li trovava affatto carini. Infilato un guanto di lattice, frugò sotto il nido ed estrasse due fumetti ancora intatti. «Un altro Batman... tale padre tale figlio. E qui c’è un Superman.» Si accorse che Mallory aveva spostato i mobili. Tutti gli effetti personali di Ernie erano radunati in un angolo intorno a un piccolo letto, con il suo comodino e una lampada di ceramica a forma di supereroe. «Ho trovato il biglietto d’addio dei Nadler.» Mallory uscì dalla cassaforte con in mano il volume rilegato in pelle che stava leggendo. «E questo è il diario di Ernie.» Prese un foglio infilato tra le pagine del libro e glielo porse. Riker aprì il biglietto e lesse la riga scritta da uno dei genitori prima di morire, un addio in cinque parole: Per chi vuole sapere perché. Mallory prese posto su una sedia della cameretta del bambino. «Le pagine del diario sono cosparse di frammenti di vetro di una lampadina.» Aprì il cassetto del comodino. «Guarda. Qui ce ne sono altri. Probabilmente teneva il diario qui dentro. Per questo il cassetto era aperto. Dev’essere andata così. Dopo la morte di Ernie, i Nadler tornarono a casa dall’ospedale. Andarono nella sua stanza e si sedettero sul letto... e lessero il diario. Quando finirono, uno di loro lo scagliò contro il muro, facendo cadere la lampada.» «E la lampadina si ruppe.» Riker vedeva i genitori di Ernie che si abbracciavano al buio. 43 Mi stanno addosso al Tavolo degli Sfigati... mi osservano mentre mangio un boccone. Non riesco a tenerlo giù e Aggy ridacchia quando vomito nel tovagliolo. Prendo il mio vassoio e attraverso la stanza per andarmi a sedere vicino a Toby Wilder, pur sapendo che a lui piace mangiare da solo e tutti gli lasciano sempre mezzo tavolo libero. Lui non mi nota neppure. Ha gli occhi socchiusi e con la forchetta dirige l’orchestra che ha in testa. Alzo gli occhi ed eccoli, si siedono all’altro lato del tavolo, tre corvi silenziosi venuti a beccarmi a morte. Maledetti. Mangio il mio pranzo, senza paura. Humphrey non oserebbe farmi del male, non qui, e Willy mi fissa con i suoi occhi da ragno. Ma Aggy non riesce a controllarsi. Sbatte continuamente i denti, minacciando un altro morso. Non l’ho mai accusata di mordermi – di aver ucciso un barbone, sì – ma non di molestie personali. Il rumore dei denti attira l’attenzione di Toby. Apre gli occhi e i tre si irrigidiscono. Poi lui dice: «Toglietevi dai piedi, mostri!». E loro si alzano, facendo cadere le sedie per la fretta. Adorerò Toby Wilder fino alla morte. Ernest Nadler I detective scesero dall’auto e proseguirono a piedi lungo Central Park West. Mentre svoltavano in una strada tranquilla Mallory chiamò la Scientifica e torturò Heller con la notizia che una bambina era riuscita dove la sua squadra aveva fallito: Coco aveva identificato marca e modello del trapano e dell’argano usati dall’Artista della Fame. Gli suggerì anche di far eseguire il test sul cloroformio da un laboratorio meglio attrezzato del suo, e concluse affermando che purtroppo non aveva più bambini a disposizione per analizzare le altre prove. Riker non ebbe difficoltà a colmare con parolacce le pause della conversazione e quando lei chiuse la telefonata domandò: «Heller ti ha di nuovo minacciata di morte?». «No, oggi è di buon umore. Dice che ora siamo pari.» Cosa? L’aveva perdonata per aver infilato il suo nuovo investigatore in un sacco dopo averlo legato come un salame? No... molto improbabile. In ogni caso Mallory aveva davvero insegnato a Pollard a prestare attenzione ai dettagli, e forse Heller era soddisfatto del risultato. Ma perché dirglielo? Perché rovinarle la giornata? La telefonata seguente era per Walter Hamlin. Il procuratore aveva ricevuto l’affidavit rapidamente redatto da Charles e poi aveva trovato un giudice disposto a certificare che una bambina era in grado di identificare un motore dal rumore. Mallory si infilò il cellulare in tasca. «Il nostro mandato è in arrivo.» Avevano una possibilità su mille di trovare qualche elemento del kit dell’omicida, ma quel giorno stavano cercando altro. Arrivati a metà dell’isolato, si fermarono davanti a una casa sorvegliata da due leoni di pietra in cima a una breve scalinata. Era grande il doppio di quelle intorno, ma non più alta. Alzando gli occhi si vedevano delle fronde sporgere dal tetto. I detective attraversarono la strada e suonarono tutti i campanelli degli appartamenti del palazzo accanto. La prima inquilina che rispose al citofono fu reclutata per condurli fino al quinto piano di un edificio secolare privo di ascensore. Riker arrivò alla meta senza fiato, ma non si ripromise ugualmente di smettere di fumare. In cima all’ultima rampa di scale congedarono la loro guida e uscirono sul tetto, tra camini, e cavi, decrepite sedie a sdraio e rivestimenti di catrame costellati di escrementi di piccioni. Una bella differenza rispetto al giardino lussureggiante sul tetto della casa accanto. Scavalcarono il basso parapetto e passarono su un morbido tappeto d’erba. Intorno c’erano alberi, felci e fiori come in un piccolo parco sospeso in cielo. Al centro di quel giardino da favola si ergeva una piccola struttura ammantata d’edera con la porta che immetteva nell’interno della casa. Sul lato della strada era stato ricavato un patio pavimentato da lastre di pietra e ammobiliato con un tavolo e sedie di ferro rivestite di cuscini. E un portacenere! Felice, Riker si sedette e si accese una sigaretta. «Non potrebbe essere meglio di così.» «Invece sì.» Mallory posò un pesante zaino sul tavolo e prese il telefono. Dopo aver parlato con Hoffman ed essersi finalmente messa in contatto con la padrona di casa, disse: «Ha dei poliziotti sul tetto». Erano tutti e tre nel patio e Grace Driscol-Bledsoe aveva scelto Riker come poliziotto di riferimento. Era con lui che conversava e quando accettò una sigaretta, lo conquistò definitivamente. Mallory assisteva in silenzio al rituale di quei due fumatori. E quando la signora mostrò di accorgersi di lei, posò sul tavolo il vecchio questionario ViCAP con un sorriso trionfante. «Credo che l’abbia già visto.» La gran dama arricciò il labbro superiore davanti a quella sgradevole sorpresa, ma aveva capacità di ripresa sbalorditive. Cercando la complicità di Riker, il suo compagno di fumo, lo pregò di chiamarla Grace. «E io come dovrei chiamarla?» chiese poi. «Detective. Io e la mia collega abbiamo lo stesso nome.» Spense la sigaretta. «Speravamo che ci chiarisse qualcosa... Grace.» Prese il questionario. «Serviva a Rolland Mann per ricattarla, quindi immaginiamo che non fosse stata sua l’idea di uccidere il piccolo Nadler.» La signora Driscol-Bledsoe non degnò il questionario di uno sguardo. Con un sorriso inossidabile disse: «Sospettate Rolland Mann di ricatto e omicidio? Il povero Rolland che adesso è morto? Be’, allora avete completato il vostro lavoro. Bravi». Riker si finse incredulo. Doveva essere un trucco, perché Mallory sapeva che nulla era più in grado di sorprenderlo. «È questa la sua strategia difensiva? Noi non riteniamo Rolland Mann responsabile dei delitti dell’Artista della Fame. E Willy Fallon non si è appesa da sola nel Ramble.» «Quindi cerchiamo un altro killer spietato» intervenne Mallory. «Un tipo paziente e capace di pianificare a lungo termine.» Lanciò un’occhiata ammirata al giardino sul tetto. «È stata un’idea brillante, Grace, quella di piantare gli alberi scostati dalla strada per evitare che qualche passante notasse redditi non dichiarati.» «Sette anni fa» proseguì Riker «l’Istituto Driscol ha sostenuto le spese per il rifacimento del tetto.» «L’Istituto è responsabile per la manutenzione della casa. Tutto perfettamente legale.» «Non proprio» ribatté il detective. «Lei aveva bisogno di denaro extra per questo dannato giardino. Quante tonnellate di terra...» «Una legittima spesa di rappresentanza» lo interruppe Grace. «L’Istituto Driscol è proprietario della casa e io ospito qui i ricevimenti per raccogliere le donazioni.» «Ma non quassù» la corresse Mallory. «Abbiamo parlato con il servizio di catering che manda il conto all’Istituto per i suoi ricevimenti settimanali. Nessuno è mai salito sul tetto.» La detective aprì lo zaino ed estrasse un pesante volume. Lo sbatté sul tavolo facendo traballare il portacenere di vetro. «Questo è lo statuto. Qui si parla di semplice manutenzione della casa... non del giardino sul tetto.» Con un ampio gesto circolare Mallory indicò alberi e cespugli. «L’Istituto Driscol ha pagato un’impresa per rifare il tetto. Ho visto l’assegno e il capitolato dei lavori. Ma il giardiniere lo ha pagato lei – in contanti – e molti. Da dove veniva tutto quel denaro?» Riker si allungò sulla sedia e raccolse un fiore rosa. Grace ansimò. Lui giocherellò con il gambo. «Non ne avevo mai visti come questo. Molto costosi, eh?» Si gettò il fiore dietro le spalle. «Al suo giardiniere è venuto un colpo quando gli hanno rubato il carrello?» E poiché il silenzio durava troppo, aggiunse: «Un carrello... forse lei lo definirebbe una carriola. Ha presente? Due ruote, manici lunghi. Aveva una batteria attaccata. Il suo giardiniere la usava per alimentare un montacarichi. È così che ha issato quegli alberi fin quassù... e tonnellate di terra». «Più economico di una gru» osservò Mallory. «Così era più facile nascondere quello che lei stava facendo... con denaro occulto, esente da tasse. Per installare una gru si deve chiedere l’autorizzazione al Comune... e ci si lascia dietro una scia di scartoffie che lei non poteva permettersi.» «Ma un montacarichi è esagerato» proseguì Riker «per appendere dei corpi agli alberi. Basta un argano leggero... tre volte di fila.» Posò sul tavolo il taccuino aperto alla pagina con l’elenco degli attrezzi dell’omicida. «Questo particolare carrello aveva una base più ampia degli altri. Le serviva qualcosa del genere per trasportare una persona priva di sensi nel Ramble.» La donna impiegò del tempo a rispondere. Quando finalmente parlò, il tono era accondiscendente. «Avrei fatto così?» «Già» disse Riker. «E ha dato al giardiniere una bella mancia per compensare il furto del carrello. Nessuna denuncia. Quante probabilità c’erano che la polizia risalisse fino a lei sette anni dopo?» «Infatti.» La donna sembrava d’accordo con lui e sorrideva. Era troppo calma, anche considerando che aveva a disposizione i migliori avvocati che il denaro sporco poteva comprare. Mallory guardò la sigaretta di Grace. Il lungo cilindro di cenere era scuro e spento. «Lei non inspira. Molto saggia.» Si protese in avanti e sfiorò il medaglione d’argento appeso al collo. «Funziona quassù questo aggeggio?» Istintivamente la mano di Grace corse a coprire il salvavita. «Sì, là c’è un piccolo ripetitore.» Indicò la costruzione con la porta. «Vuole una dimostrazione, detective Mallory?» «So come funzionano questi strumenti. Sono un ausilio per le persone anziane, molto più di lei, con problemi di salute e che vivono sole. Ma lei ha Hoffman.» «Ha un’infermiera fissa» disse Riker. «Eppure è così terrorizzata da portare sempre quel medaglione. Non si fida di Hoffman? Crede che la lascerebbe morire senza chiamare un’ambulanza?» «Ha paura perché ha già subìto un ictus» incalzò Mallory. Riker finse di consultare sul taccuino le informazioni razziate da Mallory nei database della compagnia di assicurazione. «Ne ha avuti due.» Grace Driscol-Bledsoe aveva assunto l’espressione di una donna denudata in pubblico. Si girò sentendo la porta che si apriva. Hoffman corse verso di lei gridando e agitando le braccia. C’erano dei poliziotti in casa. Erano dappertutto. Dappertutto! A ogni piano della casa le porte spalancate rivelavano la perquisizione in corso: uomini e donne in uniforme che rovesciavano cassetti e svuotavano armadi. A due rampe dal piano terra un agente consegnò a Grace Driscol-Bledsoe il mandato di perquisizione. Lo lesse mentre parlava con i detective che le stavano accanto sulla scala. «Ritengo che questo abbia a che fare con l’Artista della Fame.» «No» disse Mallory. Appena ottenuto il mandato per l’abitazione, lei vi aveva fatto inserire altre voci come alberi e piante. «Cerchiamo anche denaro. Molto denaro nascosto in giro.» «Ehi!» esclamò Riker. «Pare che lo abbiamo trovato.» Si appiattì contro il muro per lasciar passare gli agenti che scendevano le scale carichi di borse di plastica piene di soldi. Mallory osservò i fasci di banconote che le scorrevano sotto gli occhi. «Grace, non credo che la sua rendita giustificherà tutti questi contanti. Somme molto consistenti, forse trecentomila dollari per borsa... Le sembra una cifra plausibile?» Altri agenti passarono davanti a loro con un nuovo carico. «Stiamo parlando di milioni.» La signora Driscol-Bledsoe ricominciò a leggere il mandato. «Questa casa appartiene all’Istituto Driscol... mobili, quadri, argenteria. I miei avvocati non avranno difficoltà a dimostrare che la proprietà include anche il denaro contenuto al suo interno.» Giunti al primo piano, Mallory guardò dentro una stanza attrezzata come una piccola clinica. «Vedo che pensa al futuro.» Un armadio aperto rivelava un’impressionante scorta di farmaci. Il detective Janos indicava gli scaffali zeppi di medicinali mentre interrogava la Hoffman. «Che significa?» domandò Riker a Mallory. «Ha la fobia degli ospedali?» «No. Se Grace subisse un altro ictus non potrebbe permettersi una lunga degenza in ospedale. C’è una clausola nello statuto... inserita da suo nonno per costringere gli eredi a conservare la residenza di famiglia. Qualora un Driscol si assenti da questa casa per un periodo superiore a un anno, il consiglio di amministrazione deve venderla.» «Ma lei ha una figlia» obiettò Riker. «Phoebe è solo una Bledsoe. Il sangue non conta. I figli di Grace non hanno alcun diritto sulla rendita di famiglia o sulla proprietà. La madre ha trascurato di aggiungere “trattino Driscol” al loro certificato di nascita. Era essenziale. È scritto chiaro a pagina cinque dello statuto, e sicuramente gli avvocati glielo avevano ricordato quando nacque il primogenito. Immagino che lei se ne sia scordata.» «Due volte.» Riker si rivolse all’ultima dei Driscol. «Signora, lei è straordinaria.» «Grace pensava al futuro. Gli ictus sono frequenti nella sua famiglia. Voleva dare ai figli un valido motivo per tenerla in vita... ma non in una clinica.» Mallory guardò la gran dama. «E ci ha pensato quando i suoi figli erano appena nati... un piano a lunga scadenza.» «Lei crede che io...» «La prima volta che ci siamo incontrate» la interruppe Mallory «lei mi ha detto che tipo era. Ha detto che i mostri generano mostri.» La donna la sfidò con un sorriso. «Ma una giuria crederà che io ho appeso tre persone nel Ramble per coprire l’omicidio di mio figlio? Oppure i giurati si sentiranno solidali con una madre addolorata? Seriamente, Mallory, da mostro a mostro, come pensa che andrà a finire?» Mallory non la ascoltava. Il detective Janos stava venendo verso di lei con una boccetta di cloroformio in mano. Non avrebbe dovuto essere lì – ancora lì – ma c’era. «Qui è più confortevole di una cella del distretto.» Riker aprì la porta e si fece da parte. «Prima le signore.» La detenuta entrò nell’ultima gabbia di una lunga fila. Guardò stupita i mobili e le pile di scatoloni. «Pensate di rinchiudermi in un deposito?» «Oh, questo non è un deposito qualsiasi, Grace. Quando qualcuno muore senza aver fatto testamento, tutti i suoi beni finiscono qui... fino a quando il Comune può incamerare legalmente le proprietà dei defunti. Questi oggetti appartenevano ai genitori di Ernest Nadler.» Tuttavia, ora che il testamento era stato trovato, altri quindici anni sarebbero forse bastati per sbloccare gli effetti personali di quella piccola famiglia. Il detective aprì la borsa da dottore che Grace aveva preso a Hoffman prima di uscire di casa. Conteneva un flacone e una siringa. «Quindi se la spara in vena.» «Mi dia quella borsa! Se mi viene un ictus ho pochissimo tempo per fare l’iniezione ed evitare un danno permanente.» La mano corse al medaglione salvavita, inutile in quel sotterraneo non raggiungibile dai segnali. «Nessun problema. Quando me ne andrò, lascerò un poliziotto di guardia. Darò a lui il farmaco, okay?» Vedeva che la cosa non le piaceva, ma non gli avrebbe dato la soddisfazione di pregarlo. Riker posò la mano sullo schienale di una poltrona. «Mallory dice che è la più comoda.» Accese una lampada a stelo. «Una luce per leggere... ne avrà bisogno. La mia collega ha trascorso parecchio tempo quaggiù a leggere il diario di Ernie Nadler. Ne ha fatto una copia per lei.» Indicò dei fogli sul pavimento. «Così si farà un’idea delle prove prima dell’arresto.» «Prima dell’arresto? Sono già...» «No. Lei è trattenuta come persona informata sui fatti. Finché non la incriminiamo, non avrà diritto di chiamare gli avvocati. Non se lo aspettava, eh? Vediamo se riesco a indovinare il piano. A metà del processo il suo avvocato insinua l’idea che Phoebe sia pazza... sente delle voci... forse uccide delle persone.» E facendo eco alle parole del fratello di Aggy Sutton, aggiunse: «La pazzia è un buon alibi. Un ragionevole dubbio per una giuria». Si chinò per aprire uno scatolone che conteneva le cose preferite di Ernest Nadler: i suoi fumetti... e un nido di topolini appena nati. Grace Driscol-Bledsoe guardò quell’ammasso roseo con una smorfia di disgusto. «Dov’è la sua collega? Perché non è venuta con noi?» «Mallory è convinta che io mi sbagli.» Riker prese un albo di fumetti un po’ smangiucchiato e lo sfogliò. «Ha scommesso venti dollari che lei non ha mai trascinato suo figlio in questo orrore. Sostiene che ha altri progetti per Phoebe. Se le arriva un altro ictus, non vorrà trascorrere i prossimi trent’anni in una clinica pubblica.» «Dimentica che ho ereditato i milioni di mio figlio. Sono più che sufficienti per...» «No. Quel denaro resterà sotto sequestro in attesa della verifica del testamento.» Posò l’albo e ne prese un altro. «E i contanti trovati in casa sua sono stati confiscati. Se quando le viene l’ictus Phoebe è in prigione, gli amministratori la faranno giudicare incapace di badare a se stessa e la sbatteranno in una clinica da quattro soldi per poter vendere la casa. Quanto vale quella reggia? Dieci milioni? Scommetto che gli amministratori riusciranno a ricavarne venti. Sono squali. Persino Mallory ne è rimasta impressionata.» Posò il libro per rispondere al cellulare. «Sì?... È cosa fatta?... Bene.» Sorrise alla sua prigioniera. «Era Walter Hamlin, il procuratore distrettuale. Mi ha detto che ha appena perso il suo lavoro, signora.» E le spiegò cosa era successo durante il loro lungo viaggio verso il deposito. Il procuratore aveva convocato il consiglio di amministrazione dell’Istituto Driscol e posato sul tavolo le borse piene di soldi trovate in casa di Grace. «Quel denaro sono donazioni per opere di beneficenza.» «Già, come no? Sono stati i suoi lavori di giardinaggio a incastrarla. Il procuratore ha mostrato le fotografie del suo parco privato sul tetto.» E gli scenari di quei possibili reati erano bastati agli amministratori per decidere all’unanimità di non andare in prigione con Grace. «In soli cinque minuti, facendo leva sulla moralità richiesta al presidente, gli amministratori l’hanno sfiduciata.» «Congratulazioni» commentò lei. «Comunque, sa bene che non farò neppure un giorno di prigione.» «Forse no.» Riker le mostrò la borsa da dottore. «Ma non potrà più pagare lo stipendio a Hoffman.» Aprì la borsa e tirò fuori la siringa. «Cosa succederà se, quando le serve l’iniezione, l’infermiera non c’è?» «Dov’è la sua collega?» «Credo che Mallory abbia ragione. Lei non avrebbe mai permesso che Phoebe pagasse al posto suo. Ha bisogno di sua figlia per non finire nell’inferno di una clinica. Ha bisogno di qualcuno che controlli che le cambino i pannoloni e non la lascino nella merda. E Phoebe non l’abbandonerà mai. È troppo malata per cavarsela da sola... grazie alla sua cara vecchia mamma. È la nemesi per gli anni trascorsi a guardare i suoi figli impazzire, senza fare niente.» «Mia figlia non è pazza. È l’infermiera della scuola, efficiente, produttiva...» «Phoebe è pazza e non conserverà a lungo il suo lavoro. È sempre più confusa e inaffidabile. Però sarà ancora in grado di imboccarla quando lei non ricorderà più nemmeno come si chiama... Ma cosa succederebbe se scoprisse perché ha dato tutti quei soldi a Willy Fallon?» Finalmente Grace era spaventata. Compiuto metà del suo lavoro, il detective uscì dalla gabbia e chiuse a chiave la porta. Mentre percorreva il corridoio la donna ritrovò la voce e gridò: «Riker, dov’è Mallory? Cosa sta facendo?». 44 Stasera ricevo una telefonata da Phoebe. Basta il suono della sua voce per farmi felice. Non sono più solo. Ma poi lei dice che devo ritrattare la storia sull’omicidio del barbone. Insistere nella mia dichiarazione è “pura follia”. Piange mentre lo dice, ma non vuole spiegarmi perché. O forse non può. “Pura follia” non fa parte del vocabolario di Phoebe. Ritengo sia un’espressione in codice per “mia madre sta ascoltando”. Credo che quelle parole molto poco sue significhino che lei è e sempre sarà al mio fianco. Ernest Nadler Dopo aver letto il passaggio sottolineato, Phoebe Bledsoe chiuse il diario e lo posò sul tavolo. «Grazie. Sì, mia madre stava ascoltando. Fu l’ultima volta che parlai con Ernie.» Sotto le luci al neon della stanza degli interrogatori Mallory aprì il piccolo volume alla pagina successiva a quella dell’aggressione al barbone. «Dopo che quell’uomo fu ucciso, i suoi genitori la tennero a casa da scuola?» «Un’idea di mia madre. Papà non c’entrava. Lei era anche troppo brava a coprire le porcherie di Humphrey. E mio padre glielo disse... glielo gridò.» «Lei era presente mentre i suoi genitori litigavano?» «No, mi avevano chiuso a chiave in camera, ma sentivo le voci... e la porta d’ingresso sbattuta. Dopo che mio padre se ne andò, mia madre se la prese con Humphrey. Gli disse che avrebbe fatto meglio a rappacificarsi con papà oppure... Quel giorno a casa c’erano anche Aggy Sutton e Willy Fallon. Gridavano tutti insieme e io capivo appena quello che dicevano. Però udii il nome di Ernie, ripetuto più volte. E questo avvenne prima che lui sparisse.» «E dopo che Ernie era scomparso?» «I suoi genitori vennero a casa nostra con la polizia. Udii la signora Nadler che piangeva e il signor Nadler che gridava. Volevano parlare con me. Io battei i pugni sulla porta della mia camera e urlai finché mia madre non mi fece uscire. Dissi ai Nadler che Ernie era spaventato e forse si nascondeva nel Ramble. Il detective Mann non voleva crederci, ma il signor Nadler disse che avrebbe setacciato il parco da solo. Infine il detective acconsentì ad andare a cercarlo e fu quella notte che trovarono Ernie appeso a un albero. Dopo... quando Ernie morì... io crollai. Fu allora che papà mi portò dal mio primo psichiatra. Ma a mia madre non piaceva nessuno di loro. Interrompeva sempre le terapie.» Naturalmente. Meglio lasciar soffrire la figlia in silenzio che rischiare di farle confidare i segreti di famiglia a un terapista. La detective guardò il taccuino su cui non era scritto niente. «Suo padre le ha mai parlato di quello che faceva Humphrey?» «No, non in quei giorni. Lo fece più tardi... quando mio fratello aveva sedici anni. Al liceo Humphrey fu accusato di aver stuprato una bambina di sei anni. E non era la prima. Ma papà mi disse che sarebbe stata l’ultima. Fu allora che sciolse la sua società e aprì il fondo fiduciario per Humphrey. Mia madre era furibonda. Era così arrabbiata con mio padre... Dopodiché lui si trasferì in albergo.» «Sua madre ci ha detto che Humphrey era il preferito di suo padre.» Mallory posò due pezzi di tela sul tavolo, i ritratti di padre e figlio. Phoebe sorrise. «Quel quadro fu un’idea di mia madre quando Humphrey aveva dieci anni. Pensava che se avessero trascorso del tempo insieme si sarebbero avvicinati. Ma papà non lo ha mai amato. Nessuno poteva amarlo.» Be’, Grace doveva averlo amato... almeno quando lui aveva dieci anni. «Era un mostro» disse Phoebe. Come sua madre. «Non mi dispiace che mio fratello sia morto.» Certo che no. E l’unico rimpianto di Mallory era che Phoebe non sarebbe mai stata un testimone in grado di incastrare sua madre. Congedato l’agente di guardia, Mallory entrò nella gabbia che conteneva i beni dei Nadler e una prigioniera. Grace Driscol-Bledsoe aveva finito di leggere la copia del diario. Teneva le pagine ordinatamente impilate in grembo. «So che ha delle domande» disse Mallory. «Si sta chiedendo se ho rivelato a Phoebe perché lei ha dato un sacco di soldi a Willy Fallon.» «Posso solo immaginare quello che ha detto a mia figlia... non che lei ci abbia creduto.» «Potrei mostrarle la deposizione di Willy.» La detective passò dietro la poltrona della donna. «Willy afferma che lei l’ha pagata per terrorizzare sua figlia.» Mallory si chinò per parlarle all’orecchio. «Voleva che Phoebe impazzisse di paura. Pensava che così sarebbe tornata a casa... da lei.» «Quindi non le ha detto nulla. Sento odore di negoziati. Lei non ha neppure prove sufficienti per incriminarmi.» Grace aveva il sorriso di una belva affamata. «È debole, mia cara. Anche di questo sento l’odore.» Mallory sentiva solo puzza di muffa, topi e scarafaggi. Si sedette sul letto del piccolo Nadler. «Sa cosa è successo ai genitori di Ernie?» «Un doppio suicidio, così fu classificato.» «No, per come la vedo io, li ha uccisi lei. Mandando Rolland Mann ad assassinare il figlio, è come se li avesse spinti lei giù da quella finestra.» «Storia vecchia.» Con un gesto della mano Grace liquidò quelle morti insignificanti. Mallory accarezzò distrattamente il materasso. «Phoebe le ha rubato la scena.» Notò che la donna ruotava la testa. «Sua figlia ha preso l’iniziativa e ha ucciso con le sue mani... non attraverso un poliziotto killer e una gang di ragazzini perversi.» «Cosa ha...» Le pagine fotocopiate scivolarono dalle mani di Grace e caddero lentamente a terra. «Lei sapeva che l’Artista della Fame era sua figlia. Lo ha capito appena le abbiamo parlato del carrello del giardiniere. Povera Phoebe.» Mallory scosse il capo. «Era distrutta quando l’ho portata dentro. Con i nervi a pezzi. Ma dopo aver messo la sua confessione per scritto... ha smesso di mangiarsi le unghie.» «Quella confessione non vale niente!» Nella voce di Grace vibrava una nota isterica. «Mia figlia si lascia intimorire facilmente. Non poteva essere lucida quando...» «Be’, a New York la pazzia è un concetto relativo.» Mallory si chinò a raccogliere le pagine del diario. «Phoebe sa cosa ha fatto a Ernie? Intendo... prima di farlo uccidere. Non era a scuola quando quei piccoli delinquenti cambiarono tipo di tortura... quando lei ordinò loro di smettere di picchiarlo. Niente più lividi rivelatori o segni di morsi. Molto meglio la strategia del terrore. Fu lei a dire a quei tre di terrorizzare Ernie affinché ritrattasse.» Mallory non si affrettò a raccogliere gli ultimi fogli. «È tutto qui.» Sfogliò le pagine. «Gli appostamenti, le torture psicologiche da parte di tre bambini stupidi? No, Grace, quella era opera sua. Willy Fallon afferma che lei diceva loro esattamente cosa...» «Willy?» Gli occhi della dama dell’alta società si rischiararono. «Quella che ha gettato un bambino sotto il treno? Non certo una testimone affidabile. E il diario di Ernie non prova nulla.» «La sua gang di piccoli delinquenti ha esagerato. Non erano in grado di seguire delle semplici istruzioni. Non potevano evitare di fare del male a quel bambino. Se Ernie Nadler fosse uscito dal coma, Humphrey e le sue amichette sarebbero stati arrestati... e anche lei. È facile far confessare i bambini. Lei sapeva che suo figlio non avrebbe esitato ad accusarla. Così ha pagato un poliziotto perché uccidesse Ernie prima che potesse svegliarsi e parlare.» «Di nuovo quella storia. Che noia.» «Rolland Mann le ha mai detto che pasticcio ha combinato con quell’omicidio? Le ha detto che un’infermiera poteva testimoniare che lui era nella stanza quando il bambino morì?» Pareva di no. La donna era tesa, evidentemente agitata. «Lo immaginavo» proseguì Mallory «e quell’infermiera è ancora viva... e sta parlando. Rolland Mann era un poliziotto incapace, non aveva mai lavorato a un caso importante, mai avuto a che fare con un killer... con qualcuno come lei, Grace. Ricca, potente, disumana. Così ha sposato quell’infermiera e l’ha tenuta nascosta. Temeva che lei la facesse uccidere. E per proteggere la testimone, sua moglie, nel caso lei ne avesse scoperto l’esistenza, le mostrò un questionario ViCAP che documentava l’aggressione a un bambino nel Ramble, una prova sepolta in un computer governativo. Che lei non poteva comprare o distruggere. La cosa la spaventò? Eppure non era un ricatto. Era una specie di assicurazione per garantirsi che lei non avrebbe fatto del male ad Annie, sua moglie. Ma Rolland Mann non poteva dirglielo chiaramente. Non voleva che lei sapesse della sua esistenza. Così lei ha corrotto e ricattato dei politici per favorire la sua carriera... tutto inutile. Mann si sarebbe accontentato di proteggere Annie.» «Molto romantico, Mallory. Non me l’aspettavo da lei.» E ora la gran dama sorprese la detective quando si chinò lentamente per scacciare uno scarafaggio dalla punta della scarpa. «Ma non otterrà mai una condanna basata su questa teoria.» Estrasse un minuscolo fazzoletto dalla tasca. Il lino ricamato era così sottile da sembrare trasparente. Si pulì l’unghia che aveva toccato lo scarafaggio. Dunque quella donna d’acciaio era schifiltosa. «Sia realista, Mallory. Sa che io non finirò mai in tribunale.» Vero. Aveva troppi ostaggi in posizioni altolocate, troppi ricatti accumulati per rischiare un solo giorno di carcere. «Ma cosa le resta, Grace? Le ho tolto il controllo dell’Istituto Driscol. Non ha più potere. Le ho tolto anche i soldi. Quanto ai milioni di Humphrey, resteranno sotto sequestro fino alla sua morte. E come ultima mossa, posso portarle via Phoebe.» Grace strinse il fazzoletto, unica manifestazione di ansia. «Sappiamo entrambe che mia figlia non verrà mai processata per omicidio. È...» «Pazza? Be’, Grace, forse esagera. Phoebe possiede grandi capacità organizzative. Sa perché si è trasferita in quel cottage dietro la scuola? Aveva bisogno di privacy per raccogliere gli attrezzi necessari... a cominciare dal carrello che rubò al suo giardiniere. E questo avvenne sette anni fa. È la regina dei progetti a lungo termine. Ne siamo rimasti tutti molto impressionati. Non avevamo mai visto una simile premeditazione.» Grace si finse interessata a uno scarafaggio che si contorceva davanti ai suoi occhi. Erano così intenti a osservarsi, la signora e l’insetto, da non accorgersi che Mallory stava tirando fuori la pistola. Un tonfo sordo e lo scarafaggio finì schiacciato sotto il calcio dell’arma. Grace sobbalzò, il fazzoletto cadde a terra. Che soddisfazione. «Cosa stavo dicendo?» Mallory raccolse il delicato quadratino di stoffa e pulì la pistola. «Ah, già... la premeditazione. Sua figlia trovò gli avvocati per far uscire Humphrey dalla clinica. Aveva bisogno che le tre vittime si trovassero in città contemporaneamente. Phoebe è stata così paziente... per anni ha aspettato e raccolto strumenti per uccidere. Quasi tutta la sua attrezzatura era stata rubata, ma non il cloroformio. Non poteva usare quello di sua madre. Phoebe mi ha detto che quella boccetta è vecchia quasi come lei, Grace... un ricordo dei tempi di suo padre. Così ha mescolato gli ingredienti seguendo una ricetta trovata su internet.» Finito di pulire la pistola, Mallory sventolò il fazzoletto sporco spargendo attorno piccoli pezzi di scarafaggio mentre parlava. «E sua figlia è in grado di distinguere il bene dal male. Cosa che la rende legalmente sana di mente... ma questo non significa che non sia pazza. La decisione spetta a me. Posso fare quello che voglio di Phoebe. E tutti quei politici che ha corrotto? Ora li tengo in pugno io.» Le due donne si guardavano, entrambe perfettamente immobili. Scambiandole per oggetti, un topo scivolò in mezzo a loro e si fermò a leccarsi le zampe. Mallory sorrise. Il topo scappò via. «Cosa vuole, detective?» Mentire le venne naturale e Grace le credette quando disse: «Riparazione». E vennero a patti. La figlia di Grace sarebbe stata giudicata non idonea a sostenere il processo per incapacità mentale. Entro un anno o poco più, quando qualche psichiatra incompetente l’avrebbe dichiarata guarita, Toby Wilder sarebbe diventato il tossico più ricco di New York... ammesso che fosse ancora vivo per incassare e arrivare alla fine di una partita che nulla aveva a che fare con il denaro. Una vendetta grandiosa e terribile... quando Grace meno se la sarebbe aspettata. Mallory aveva fatto tesoro della lezione di Phoebe. Aveva imparato a pazientare. 45 Mio padre non possiede una pistola. Ho cercato ovunque, in tutti i cassetti e negli armadi, per tutta la notte. Ernest Nadler Quella settimana i vecchi compagni di poker di Louis Markowitz si erano riuniti dal rabbino Kaplan a Brooklyn, una zona dove la gente non abitava impilata nei grattacieli ma in case vere, con il prato davanti e dietro. Kaplan aprì la finestra per far entrare il fresco della sera e il profumo dell’erba tagliata si mescolò all’odore di birra e di sigaro. Raggiunse quindi gli altri intorno al tavolo di quercia coperto di feltro verde che era il suo mobile preferito per dedicarsi al gioco delle carte e agli amici di sempre. Con un coltello in mano, Edward Slope preparava panini a triplo strato mentre Robin Duffy dava a Charles Butler le fiches in cambio del denaro. Quelle bianche valevano cinque centesimi, le rosse dieci, ma quelle blu da venticinque... erano per le puntate alte. La figlia adottiva dell’ideatore di quelle partite settimanali ormai vi partecipava di rado. Secondo il rabbino, Kathy Mallory non sopportava più le regole che in circostanze speciali, per esempio nelle notti di luna piena, alteravano il valore delle carte. I fanti diventavano “matte” quando pioveva e i tre quando nevicava. Il rabbino ammetteva che un centinaio di regole di quel tipo erano troppe. O forse Kathy si era semplicemente stufata di vincere con troppa facilità. Ciò nonostante, aggiunse una sedia per lei, pur sapendo che quella sera non sarebbe venuta. Magari la settimana seguente. David Kaplan era un uomo paziente e credeva quindi che dopo averla fatta impazzire di rabbia sarebbe riuscito a riconquistarla con il suo affetto incondizionato. Prima o poi sarebbe successo. Ma non quella sera. Fu quindi una grande sorpresa sentire il campanello. Il detective Riker seguì il rabbino in salotto e sorrise ai volti familiari. Tutti gli uomini sulla lista nera di Mallory erano seduti intorno al tavolo da poker. «Lou diceva che potevo venire quando volevo. Qualche problema con voi, ragazzi?» «Niente affatto.» Il dottor Slope usò il sigaro per indicargli la sedia libera. «Sei sempre il benvenuto, ma Lou diceva che detesti il gioco.» «Intendeva questo gioco.» Chiarito il punto, Riker prese posto, accese una sigaretta e accettò una birra dal padrone di casa. «Ho saputo che giocate come delle vecchie signore.» Fece saltare il tappo della bottiglia. «Me l’ha detto Mallory. Credo che avesse dodici anni all’epoca.» Il detective posò due fogli davanti al medico legale. «Potresti firmarli?» Il primo era il modulo per ricoverare un tossico nella clinica privata del dottore. Edward Slope esaminò il secondo, un voucher a garanzia che il Comune avrebbe pagato le spese della terapia di disintossicazione. «Questo non è legale. Willy Fallon si è dichiarata colpevole. Perché mai Toby Wilder...» «Forse non è legale in senso stretto» lo interruppe Riker «ma è giusto. Quel ragazzo ha perso quattro anni della sua vita... e molto di più.» Slope spinse via i fogli, senza firmarli. «Allora il signor Wilder può fare causa al Comune. Gli auguro buona fortuna.» Con un’alzata di spalle, il detective posò dieci dollari sul tavolo. Robin Duffy gli diede una quantità di fiches che, in un gioco tra adulti, sarebbe equivalsa a un migliaio di dollari. Su quel tavolo, però, le puntate erano rimaste quelle corrispondenti alle possibilità economiche di una bambina. Lou Markowitz aveva creato il rito settimanale del poker per la sua Kathy, quella piccola creatura venuta dal nulla che non avrebbe avuto amici senza quei giocatori, quegli uomini così perbene. Riker era venuto per massacrarli. Immaginava che Slope non avrebbe firmato il voucher. L’onestà dell’anatomopatologo capo era leggendaria. «Okay, al diavolo il voucher. E quei letti per pazienti bisognosi?» «Ho una lunga lista d’attesa per ogni letto» rispose Edward Slope. Niente da fare. Come ospite d’onore, Riker ebbe il mazzo. Distribuì le carte, abile e rapido come un giocatore professionista, catturando l’attenzione degli altri che non si stupirono quando annunciò: «Stasera giochiamo duro. Il nome del gioco è teresina». Il preferito di Mallory. Molti anni prima era entrata nella mensa della stazione di polizia mentre era in corso una partita, e non del tipo gentile e addomesticato di Lou. Riker, che aveva occhio per il talento in erba, l’aveva fatta sedere al tavolo con uomini armati di pistole e muniti di soldi veri. E ora ripeté la regola della piccola Kathy. «E niente stupide “matte”.» Nessuna pietà. Si puntava sulle prime due carte, una coperta e una no. Le fiches bianche si ammucchiarono in mezzo al tavolo. Quando venne il suo turno, il dottore alzò la posta a dieci centesimi. Che squalo! Il detective distribuì altre tre carte e tutti restarono in gioco, forse scordando che le condizioni del tempo e le fasi lunari non avrebbero migliorato le loro possibilità. Riker aveva una buona mano e si dichiarò servito. «Carte?» Le distribuì in senso orario a chi ne aveva scartate. L’ultima la diede al dottore e chinandosi verso di lui disse sottovoce: «Giusto perché tu lo sappia, è Mallory che vuole far sopravvivere a tutti i costi Toby Wilder. Ma non ti chiederà di aiutarla. Probabilmente perché tu non le devi dei favori». Per un attimo sembrò che il fumo del sigaro del dottor Slope si congelasse. Nessuno disprezzava i drogati più di Mallory. Il dottore doveva trovare curioso che ne avesse adottato uno. Anche Riker se n’era meravigliato. Non sempre riusciva a seguire il vecchio gioco che la sua collega conduceva con Slope, una guerra iniziata nell’infanzia... far terra bruciata. Al rilancio seguente Robin Duffy posò le carte e uscì. E lo fece con un sorriso. «Kathy viene stasera?» «No» disse Riker. «Ce l’ha con voi. Le tengo caldo il posto finché non le passa.» L’avvocato era sbalordito. «Perché è arrabbiata con noi?» «Be’, forse non con te.» Chi poteva avercela con Robin Duffy? Riker si rivolse a Charles Butler. «Ma tu hai fatto di tutto per sabotare la sua indagine.» E poiché lui non capiva, il detective buttò lì un’allusione. «Coco? La testimone di Mallory?» Guardò il rabbino. «E ho saputo che anche tu hai fatto la tua parte. Parlare con un giudice a sua insaputa? È stato...» «Non credo alle mie orecchie.» Con uno sguardo ferito David Kaplan si posò una mano sul cuore. «Kathy ha fatto la spia contro di me?» E quando alzò la posta sorridendo, Riker capì che il rabbino stava bluffando. Ma la cosa non significava granché, non con quella gente. «David non ha colpa» disse Charles Butler. «Ho fatto tutto io. Quella bambina ha esigenze particolari. È...» «Coco aveva bisogno di protezione e l’ha avuta... da Mallory.» Riker lanciò la bomba per ricordargli che la sua collega aveva rischiato il distintivo per tenere Rolland Mann lontano dalla bambina. E per distruggerlo, il detective allungò la mano e batté il dito sulle carte di Charles. «Non hai niente.» Un intenso rossore confermò le sue parole, e lo psicologo posò le carte sul tavolo. «Esco.» Due giocatori fuori... e due quasi. Riker guardò le sue carte e ghignò soddisfatto, con la stessa espressione che assumeva quando puntava la pistola sui criminali incalliti invitandoli ad arrendersi, oppure... E il rabbino posò le carte sul tavolo. Solo il dottore resisteva. Prevedibile. Edward Slope era notoriamente spericolato con le fiches da cinque e dieci centesimi. Riker spinse tutte le sue fiches in mezzo al tavolo, alzando ancora la posta. «Posso immaginare perché Mallory ce l’ha con te, Doc. L’hai fatta penare con quelle autopsie.» Il detective guardò le carte scuotendo il capo. «No, non è per questo. Spararvi nella schiena davanti ai cadaveri... be’, è normale per voi due. Forse mi è sfuggito qualcosa?» Sorrise al dottore. «Cosa le hai fatto?» Edward Slope aveva messo sul tavolo anche l’ultima fiche bianca quando arrivò il momento di scoprire il gioco. Aveva una coppia di dieci... e perse tutto. Riker girò la carta coperta e gli mostrò un tris. E ora finalmente il detective comprese cosa intendeva Lou quando gli aveva detto che per perdere con quei giocatori bisognava barare. Il dottore era a secco e non poteva comprare altre fiches, essendo questa la regola più sacra di Lou Markowitz che nessuno avrebbe osato violare. Quindi il dottor Slope sarebbe rimasto fuori dal gioco anche se la serata era appena iniziata. «Doc?» Riker raccolse il mazzo e mescolò le carte. «Che ne dici di una puntata extra? Gioco pesante.» Batté la mano sul modulo di ricovero di Toby Wilder. «Questo contro tutto quello che ho.» Slope, che si considerava la reincarnazione di un baro da battello sul Mississippi, non avrebbe resistito alla tentazione. Lanciò un’occhiata agli amici che lo esortarono tacitamente ad accettare. Non parevano preoccupati di infrangere la vecchia regola. Riker tagliò il mazzo e lasciò coperta una regina così da poter esibire un insignificante tre di cuori, benché gli fosse stato detto che avrebbe potuto pescare una carta ancora più bassa e vincere comunque. Quando toccò a Slope tagliare, Riker capì da come gli brillavano gli occhi che la sua carta era più alta. «Vinci tu» disse Edward Slope al detective che sicuramente aveva perso. Poi coprì la carta con le altre e mescolò il mazzo. Dopo aver firmato il modulo di ricovero, appallottolò il voucher. «Non costerà nulla alla città. Ho le mie regole. Mi farò carico io di quel ragazzo.» Intervenne Charles Butler. «Edward, posso farti un assegno per coprire le...» «No, non puoi.» Il dottore, un gentiluomo che pagava i suoi debiti di gioco – che ne avesse o no – consegnò il modulo a Riker. Ottenuto quello che voleva, il detective si congedò. Ben giocato. A Charles Butler non restò che fare ipotesi sul perché Edward avesse gettato via una buona mano. Il buon dottore si illudeva di essere nato con una faccia da poker che non rivelava nulla, ma Charles aveva capito. Cosa aveva fatto il suo amico a Mallory che giustificasse un simile regalo? Sembrava che nemmeno Riker lo sapesse. Tuttavia anche Charles si sentiva in colpa per questioni di lucciole e stringhe. La sera seguente sarebbe andato da Mallory con un mazzo di fiori, in segno di pentimento, e lei non gli avrebbe aperto la porta. Ma dopo un’altra dozzina di tentativi lo avrebbe ricevuto e avrebbero ricominciato da capo, come due estranei, perché lui non avrebbe preteso di conoscerla. Restò accanto alla finestra a osservare Riker che camminava verso la metropolitana. Al giorno d’oggi il gesto compiuto quella sera dal detective appariva fuori moda e cavalleresco. Aveva vendicato una bella dama conquistandole un trofeo, e l’aveva fatto in un modo di cui Mallory non sarebbe mai stata capace. Tanto per cominciare, non aveva sparso sangue. Inoltre riserbo non era una parola presente nel linguaggio di Mallory, e neppure un’arma del suo arsenale. Riker arrivò in fondo alla strada alberata di Brooklyn, girò l’angolo e si chinò verso il finestrino dell’auto della sua collega. «Ha funzionato alla perfezione.» Salì accanto a lei e le consegnò la sua vincita, l’ammissione di Toby Wilder al programma di disintossicazione. «Adesso me lo spieghi? Perché il dottor Slope doveva vincere... per poter perdere?» Mallory abbassò la capote e accese la radio, stroncando qualsiasi possibilità di conversazione mentre viaggiavano tra le finestre illuminate e i prati verdi del quartiere. Riker aveva condotto quel gioco col dottore affidandosi ciecamente al copione di Mallory, ma non aveva idea del perché si fosse concluso con il beau geste di Edward Slope. Doveva pescare nei suoi ricordi dei vecchi film di Gary Cooper per descrivere con parole straniere un bel gesto che non si aspettava ringraziamenti. Benché gli sembrasse più appropriata l’idea del ricatto. Mallory aveva in mano qualcosa contro il dottore? No. Era impossibile immaginare che il capo del dipartimento di medicina legale avesse mai fatto un passo falso. Era più probabile che quell’uomo le dovesse un favore. Inutile fare domande. Non glielo avrebbe mai detto. Riker la guardò, e lei alzò il volume della radio. Accompagnati da un rock che spaccava i timpani, attraversarono il ponte di Brooklyn illuminato da festoni di luci che arrivavano fino a Manhattan. Era una notte bellissima. Sprecata, per Riker che continuava a pensare alla partita. Ricatto o vendetta... perché non si era seduta lei al tavolo da gioco? Aveva agito per procura per salvare la faccia al dottore? No. La partita tra Slope e Mallory era un eterno round di coltellate e pallottole schivate. Qualsiasi gesto di civiltà le avrebbe fatto perdere punti. Ma allora cos’era successo quella sera? Solo di una cosa Riker era sicuro: salvare il drogato era una scusa. A Mallory non importava nulla di Toby Wilder, ora che il caso era risolto. Per lei quelli come Toby contavano meno degli insetti. Riker non riusciva a capire. Quella faccenda gli sarebbe costata una notte insonne e lo avrebbe tormentato per molto tempo. Naturalmente Mallory non se ne curava. Era ancora arrabbiata con lui perché non le aveva rivelato quello che sapeva sull’ispettore capo. Non gli avrebbe mai perdonato di averglielo tenuto nascosto. E si sarebbe vendicata. Riker sorrise, poi scoppiò a ridere. La donna al volante era brava a poker, più di lui, ma farlo impazzire... era quello il gioco di Mallory per pareggiare i conti. Dopo aver mostrato il tesserino all’ingresso, Mallory entrò nel parcheggio della grande villa vittoriana che Edward Slope aveva trasformato in clinica per tossicodipendenti. Nelle intenzioni del dottore quel posto doveva evitare ai giovani pazienti di morire per overdose e finire sul suo tavolo da dissezione. Capitava di rado che qualcuno lasciasse la clinica prima di portare a termine il programma. I pini che circondavano la villa celavano una formidabile rete di sicurezza. Accanto a lei Toby Wilder era più nervoso e sveglio di quanto desiderasse essere... grazie a una lavanda gastrica. Potendo scegliere, avrebbe riesumato i suoi genitori e venduto i loro cadaveri in cambio di un paio di pasticche con cui porre fine all’inferno dell’astinenza. Be’, era davvero dura. Mallory scese dall’auto e aprì il baule per prendere la borsa che aveva preparato per lui. «Il resto delle tue cose le ho messe in un deposito. L’appartamento non c’è più.» Forse se n’era dimenticato. Non era lucido quando aveva firmato la cessazione del contratto d’affitto. «Non hai più una casa dove tornare.» Toby scese dall’auto e annuì: aveva capito che lei gli aveva tagliato le gambe. Le prese la borsa di mano e la seguì sulla scalinata persino troppo arrendevole. Mallory sapeva che avrebbe tentato di scappare appena lei se ne fosse andata, ma qualsiasi fantasia di fuga si sarebbe infranta al contatto della rete elettrificata, una sorta di elettroshock piuttosto efficace. Attraversarono la veranda ed entrarono nell’atrio simile a quello di un hotel di lusso, se non fosse stato per l’infermiere alla reception. Mallory gli consegnò il modulo di ricovero e ne compilò altri sul trasferimento del tossicodipendente da un ospedale della città. Ai lati di Toby Wilder apparvero due inservienti. Prima che lo portassero via Mallory gli mise in mano un pacchetto. «Ti servirà.» Tornata al parcheggio, restò seduta al volante a fissare il parabrezza, indifferente alla notte stellata. Aveva puntato molto sulla sopravvivenza del drogato. Il programma del dottor Slope dava spesso ottimi risultati ma non offriva certezze. E che speranze poteva avere Toby? Era così devastato nel corpo e nella mente che Mallory nel suo futuro vedeva solo desolazione. Tuttavia quella notte ci sarebbe stata musica. Toby portò il regalo della detective Mallory nella sua camera e si coricò sul letto. Regolò le cuffie del lettore cd e lo accese. L’orchestrazione annotata sulle pareti di casa prese vita con le prime battute dell’ouverture, sollevando un’ondata gigantesca di suoni per poi calare e scivolare nella sua sinfonia jazz. Sullo sfondo un pianoforte raccontava la storia e in primo piano le percussioni battevano al ritmo di un cuore in tumulto. All’inizio di quella partitura concepita quando il padre era nel fiore degli anni, quando la vita ancora sorrideva e Jess Wilder era giovane, sano e bello, il sassofono era un lampeggiare carismatico di melodie e riff che aggregava una folla di cornette e archi, tromboni e altre voci. Il ragazzo sul letto muoveva la testa a tempo per tenere il ritmo del sassofono di papà. 46 Questi sono i miei superpoteri. Corro come un coniglio, tremo come una foglia e strillo come una femminuccia. E rimango il testimone del barbone morto. Ernest Nadler Era trascorso più di un anno. Un’altra estate stava volgendo al termine e Coco inseguiva le lucciole nel lontano Illinois. A seguito di una soffiata anonima, venne alla luce che un assistente del procuratore col papillon giallo vendeva sistematicamente generosi patteggiamenti per finanziare le sue inutili campagne elettorali. Cedrick Carlyle aveva recentemente lasciato il suo ufficio in manette ed erano stati sciolti gli ultimi nodi di una matassa aggrovigliata. La detective Mallory amava l’ordine. Willy Fallon aveva perso un occhio durante una rissa nella lavanderia della prigione, cosa non priva di riferimenti biblici: l’occhio in cambio della mutilazione di un bambino. Nella contorta interpretazione malloryana delle Scritture, quella vendetta era merito suo, e lei non aveva ancora finito. Nel salone del palazzo nell’Upper West Side, la giovane detective, penna in mano, firmò come testimone la transazione tra Grace Driscol-Bledsoe e l’avvocato di Toby Wilder, un cieco che aveva visto la luce e imparato a ubbidire agli ordini. Secondo i termini dell’accordo, il risarcimento era diventato esigibile in seguito a un’udienza tenutasi quel pomeriggio. Come promesso, Mallory non aveva presenziato. Non aveva fatto nulla per impedire il rilascio anticipato di Phoebe Bledsoe, un’assassina per così dire sprovveduta, ora dichiarata guarita. Sì, già. «Che spreco di denaro» commentò l’ex decana della beneficenza newyorkese. «Quel ragazzo morirà per overdose prima di compiere trent’anni.» «Può darsi» disse Mallory che poneva scarsa fiducia nel lieto fine ma molta nella rivincita. I milioni di Humphrey ora appartenevano a Toby Wilder e la vicenda era conclusa. Quasi conclusa. L’avvocato se ne andò. La detective rimase. Ora che sua figlia era stata rilasciata, Grace Driscol-Bledsoe aspettava che Mallory si congedasse. La detective però non accennava a muoversi. La gran dama la sollecitò: «Il nostro affare è concluso». «Non del tutto.» La detective teneva in mano un libretto racchiuso in una busta di plastica e una scatola di latta grande come un mattone. Sembrava soppesarli. «Rancore, mia cara?» Oh, doveva essere insopportabile per lei stare così vicino a una criminale che la legge non poteva toccare. Ma la detective doveva proprio starle così vicina? Grace guardò il libro e la scatola. Mallory li maneggiava con cautela, come dei tesori... o delle bombe. «Dovrebbe andarsene prima che mia figlia...» «Appena esce Phoebe verrà subito qui.» Grace inclinò il capo. Ma come? Le ovvietà non si confacevano a quell’ospite indesiderata. «Lei sa benissimo che la mia supervisione è stata una delle condizioni del rilascio.» Inoltre Phoebe non aveva un altro posto dove andare. Il piccolo cottage era stato affittato durante l’anno che lei aveva trascorso in una clinica per pazzi ricchi e criminali. E il denaro dell’affitto era stato molto utile dopo il duro colpo inflitto alle loro finanze da Mallory. La detective si guardò attorno. «Dov’è Hoffman? Oh, già, non può più permettersi un’infermiera fissa?» «No... non posso.» La vita si era un po’ complicata da quando i funzionari del fisco si erano presentati alla porta notificando spese superiori alle sue possibilità, cercando di ricavare qualcosa da quelle entrate non dichiarate e, infine, confiscando l’affitto mensile del cottage dove un tempo viveva sua figlia. «Ma lei non ha bisogno di pagare un’infermiera... ora che Phoebe abiterà qui.» «E questo lo devo a lei.» Lo disse in tono acido. Per tante cose doveva ringraziare Mallory, ma ormai Grace non aveva più i mezzi per assoldare un killer che dimostrasse la sua gratitudine nel modo giusto. E aveva perso anche il potere di far licenziare la detective. L’unica carta che le restava era stata giocata per minacciare uno scandalo su grande scala: se lei fosse stata processata per un qualunque reato, un bel numero di politici le avrebbe tenuto compagnia in prigione. Grace osservò gli oggetti che la detective teneva in mano. Il libro era chiuso da un fermaglio. Che fosse un altro diario di Ernest Nadler? E cosa c’era nella scatola di latta? «Che consolazione» disse Mallory. «Una figlia devota che si prenderà cura di lei nell’autunno della sua vita.» Il tono della giovane donna era inquietante; detta da lei, quella frase insulsa suonava come una minaccia. «Sì, sono certa che saremo felici insieme, Phoebe e io.» Con un ennesimo invito a concludere la visita la gran dama passò nell’atrio ma, non udendo rumore di passi sul pavimento di marmo, si voltò. Le mancò il respiro. Mallory era così vicina da poterla colpire. La mano di Grace corse al medaglione sul petto, e subito si pentì di quel segno di debolezza. «C’è qualcos’altro, detective?» «Lei è molto più coraggiosa dei genitori di Willy e di Aggy. Loro non hanno voluto aver nulla a che fare con i figli assassini. Ma quella gente non è della sua categoria, Grace.» «Vuol dire che non sono mostri... come me.» Oh, c’era troppa fierezza nella sua voce? «Mia cara, se questa è la sua stoccata migliore...» «Non lo è.» La detective infilò i guanti di lattice ed estrasse il volume rilegato in pelle dalla busta di plastica. «Phoebe teneva un diario. L’ho trovato l’anno scorso, il giorno in cui l’ho arrestata.» Con la scatola di latta stretta sotto il braccio, Mallory aprì il diario e seguì con un dito le righe. «Ecco... la povera Allison.» La detective alzò gli occhi. «Se la ricorda?Una bambina con i capelli rossi. Fu spinta giù dal tetto due anni prima che il piccolo Nadler morisse.» «Allison Porter si è gettata! È stato...» con la bocca secca Grace gracchiò «suicidio.» «Omicidio» corresse Mallory. «Ho fatto una lunga chiacchierata con il guardiano notturno della scuola. Forse conosce il signor Polanski. A quell’epoca era il tuttofare, e vide Allison cadere. Poi salì sul tetto per controllare se c’erano altri bambini lassù. Trovò le mutandine della bambina e le portò al preside, quello che è andato in pensione. Ho rintracciato anche lui. Mi ha detto che le mutandine furono prese in consegna da qualcuno dell’ufficio del procuratore distrettuale, un uomo col papillon giallo. E così ho capito che era stato suo figlio a uccidere quella bambina, da questo e dai capelli rossi. Allison si era messa a urlare? Humphrey l’ha spinta giù... per farla stare zitta?» «Lei non sa cosa...» «Phoebe lo sa. L’ha sempre saputo.» Impossibile. «Povera Allison» disse Mallory. «Non riesco a trovare un fascicolo su di lei... nemmeno un rapporto della polizia. Ha seguito la stessa procedura per cancellare le tracce di Ernest Nadler? Mi è venuta in mente una cosa terribile. Ha pagato un piccolo extra a Cedrick Carlyle affinché rimettesse le mutandine alla bambina morta?» «È una storia vecchia, detective. Non creda di...» «La bambina di gesso nel giardino della scuola.» Mallory girò una pagina del diario. «È una vecchia tradizione, giusto? Compare il primo giorno di primavera, ogni anno... quella sagoma di gesso nel punto dove Allison cadde e morì.» La detective chiuse il diario. «Questo deve averla fatta impazzire. La povera Allison che non voleva saperne di sparire.» «Se ne vada!» «Era Phoebe a disegnare la bambina di gesso sulle pietre del giardino... perché nessuno dimenticasse cos’era successo. Eppure conosceva appena Allison. Ma poi lei ha aizzato quei tre ragazzini contro Ernie Nadler, l’amico di Phoebe, il suo miglior amico. Phoebe lo amava, ha persino cercato di farlo rivivere. Un ragazzino morto che parla e cammina.» Grace si girò e andò verso il centro dell’atrio. «Non voglio più ascoltare le sue...» Stavolta udì i passi che si avvicinavano e sentì alle spalle il calore emanato dalla giovane donna e il suo alito sul collo mentre parlava. «Quando Phoebe ha appeso agli alberi Humphrey e le sue amiche, non credo le importasse se vivevano o morivano. Voleva lasciare un segno nel Ramble, nel luogo dove loro avevano torturato Ernie... era un’altra versione della bambina di gesso. Phoebe non poteva permettere che sua madre la facesse franca dopo aver annientato il suo miglior amico. Quel pensiero la faceva impazzire.» «Hoffman!» «Hoffman non c’è» disse Mallory. «Se n’è scordata? Forse ha avuto un altro ictus? Forse gliene sta venendo uno adesso?» «Basta!» Grace ruotò su se stessa per fronteggiare la detective sorridente. «Mi ha già preso tutto.» «Non esattamente.» «Cos’altro può ancora...» «Voglio che legga questo.» Mallory le porse il diario. «Solo poche pagine. L’ultima è stata scritta il giorno dell’arresto di Phoebe.» E poiché Grace non si muoveva, Mallory glielo mise in mano. «Lo legga... prima che Phoebe torni a casa.» Grace aprì il diario, guardò le righe ordinate scritte da sua figlia e trovò il suo nome citato in ogni frase. Ogni pagina grondava di ricordi di un’infanzia che era stata un inferno in terra, dove i mostri e la mamma erano demoni intercambiabili; pagine di dolore e di odio. Le ultime righe raccontavano il nuovo progetto brutale e senza dubbio fatale concepito da quella paziente pianificatrice, una pazza il cui cuore ora era interamente dedito a un altro delitto: il matricidio. Con un gesto brusco Mallory si riprese il diario. Libro e scatola di latta in mano, attraversò l’atrio sulle sue lunghe gambe e senza voltarsi indietro disse: «Allora, Grace... sa correre veloce?». Domanda retorica. La porta sbatté. E arrivò lo sgomento. Le gambe tremanti non le permisero di raggiungere una poltrona e Grace si lasciò cadere sul freddo pavimento di marmo. Col medaglione che portava al collo poteva chiedere aiuto, in pochi minuti sarebbero arrivati i poliziotti per proteggerla da sua figlia. E poi, quando Phoebe fosse stata portata via? Forse sarebbero trascorsi anni prima di un altro attacco, anni solitari di angoscia crescente. Oppure già domani si sarebbe presentato il suo fattore ereditario, l’ictus devastante che colpiva tutti i Driscol e che l’avrebbe ridotta in uno stato di infermità e degradazione. Povera e in mani estranee: un incubo che poteva durare anche trent’anni. L’implacabile Mallory l’aveva lasciata di fronte a due opzioni entrambe agghiaccianti, prevedendo che lei avrebbe scelto quella meno spaventosa. Grace non premette il pulsante, ma strinse il medaglione come un crocifisso, un gesto per pregare. «Che capiti in fretta.» Passarono ore che le parvero minuti. Cadde la notte e lei era ancora nell’atrio al buio quando sentì una mano che girava il pomolo della porta. Poi udì il suono metallico della chiave nella toppa... la chiave di Phoebe. La sagoma di sua figlia si stagliava contro la luce dei lampioni della strada, sempre più grande e più vicina. Tuttavia l’ultimo pensiero di Grace non fu per la morte imminente. No, vedeva la scatola di latta nelle mani di Mallory. Strano pensare proprio a quello. E ora non avrebbe mai saputo cosa... Mallory percorse il corridoio fiocamente illuminato che conduceva al magazzino dei Nadler. Mentre apriva la porta della gabbia, qualcosa si mosse, un fruscio animalesco. Un topo corse sopra il letto del bambino e, giunto al bordo, continuò a muoversi con le zampette che pedalavano nell’aria. La detective accese una lampada. Teneva in mano i resti di Ernest Nadler. C’era voluto molto tempo per trovarli, frugando tra documenti falsificati e i crematori di tre stati. Il dottor Kemper, l’amministratore dell’ospedale, aveva pagato di tasca sua affinché il cadavere – la prova – fosse ridotto in cenere, ma non aveva provveduto all’urna. C’era solo una brutta scatola di latta con dentro i resti di un bambino. A sua volta, Mallory aveva distrutto il dottor Kemper. Davanti a quella scatola e alla minaccia di un processo per complicità nell’omicidio di Ernie, Kemper aveva preferito andare in prigione senza fare storie, con un’imputazione meno grave. E la patologa, la dottoressa Woods, sua complice nella manomissione delle prove, era morta di cirrosi epatica. Pesci grossi, pesci piccoli: tutti sistemati. Lavoro quasi finito. Mancava solo una cosa perché tutto fosse in ordine. Con questo scopo il diario di Phoebe, con le impronte della madre sulla copertina a prova che era stata avvertita, fu posto nel cassetto del comodino accanto al diario di un bambino ammazzato e al breve biglietto d’addio dei suoi genitori. In mancanza di eredi viventi dei Nadler e considerati i tempi lenti della burocrazia, sarebbero passati anni prima che qualcuno tornasse in quel luogo, e allora nessuno avrebbe mai immaginato quello che la detective aveva fatto. Secondo i suoi colleghi, Mallory l’Automa non provava sentimenti, né di empatia né di compassione, e infatti la giovane donna non manifestava alcuna emozione mentre sedeva tra le macerie della vita di una piccola famiglia, osservando con occhi freddi le loro cose e soffermandosi su un calzino spaiato. Mallory posò la scatola delle ceneri sul materasso. E ora che lo aveva messo a letto, spense la luce. «Buonanotte, Ernie.» Un bambino che aveva avuto coraggio, aveva sofferto ed era morto. E benché se ne fosse andato da tempo, quel bambino era riuscito a catturare l’attenzione della sua paladina tutt’altro che sentimentale con un lamento affidato a un diario, un grido che lei poteva capire: Sono perduto.