ISSN 2284-0486
DIALOGHI ADLERIANI
OSSERVATORIO DI PSICOLOGIA INDIVIDUALE CONTEMPORANEA DELL’ISTITUTO ALFRED ADLER DI MILANO
Anno I, n. 1
Gennaio-Giugno 2014
EDITORIALE
“Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto” _________________________
Giuseppe Ferrigno
3
STUDI E RICERCHE
Alberto Mascetti
Il sentimento sociale di fronte alla crisi dei valori e alle modificazioni
socio-culturali del nostro tempo ____________________________________ 13
Rossella Ardenti
Endometriosi e femminilità ________________________________________ 19
Giorgio Bertino
La Psicologia Individuale come “filosofia dell’esistenza” _______________ 35
Roberto Callina
Applicabilità del modello adleriano all’intervento psicologico
in emergenza ____________________________________________________ 41
CASI CLINICI
Il caso di Giulia__________________________________________________ 56
Anna Ferbelli
ARTE E SOCIETÀ
Sibilla Aleramo: la protesta virile nella storia di una donna _____________ 68
Simona Brambilla
CONFRONTI
Eugenio Borgna
Adolescenze in crisi di senso _______________________________________ 76
Costanza Marzotto
Mediazione familiare e legami intergenerazionali _____________________ 81
INCONTRI E INTERVISTE
Giuseppe Ferrigno
Intervista ad Andrés Buschiazzo____________________________________ 90
Yaír Hazán
Lo stato epistemologico della psicologia adleriana _____________________ 95
IN LIBRERIA
APPUNTAMENTI
_______________________________________________________________ 101
_______________________________________________________________ 104
http://www.scuolaadleriana.it/index.php/rivista
DIALOGHI ADLERIANI
DIRETTORE RESPONSABILE
Giuseppe Ferrigno
COMITATO DIRETTIVO
Pietro Algisi, Alberto Anglesio, Anna Ferbelli, Giuseppe Ferrigno, Claudio Ghidoni,
Giulia Manzotti, Alberto Mascetti, Luca Milani, Biagio Sanfilippo.
COMITATO SCIENTIFICO INTERNAZIONALE
Alessandro Antonietti (Milano, Italy), Eugenio Borgna (Borgomanero, Italy),
Vittorio Cigoli (Brescia, Italy), Eva Dreikurs Ferguson (Edwardsville, USA),
Giuseppe Ferrigno (Milano, Italy), Claudio Ghidoni (Santo Stefano Lodigiano, Italy),
Yaír Hazán (Montevideo, Uruguay), Sadi Marhaba (Padova, Italy),
Alberto Mascetti (Varese, Italy), Anne-Marie Mormin (Paris, France),
Georges Mormin (Paris, France), Hironori Nakajima (Okayama, Japan),
Biagio Sanfilippo (Milano, Italy), Michael Titze (Tuttlingen, Germany),
Silvia Vegetti Finzi (Milano, Italy).
COMITATO DI REDAZIONE
Simona Brambilla, Roberto Callina, Monica Giarei.
DIREZIONE E SEGRETERIA
Giuseppe Ferrigno
Via della Marna, 3 - I-20161 Milano
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Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione anche parziale senza il consenso del Direttore.
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Traduzioni in inglese a cura di Ida Ferrigno - Composizione: Liberty s.a.s. - Via Palermo, 15 - 20121 Milano
DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 3-12 (2014)
EDITORIALE
“DAREMO IL BENVENUTO A QUALSIASI CONFRONTO”
Giuseppe Ferrigno
Riassunto
Abstract
L’Editoriale evidenzia come la rivista “Dialoghi adleriani” si rivolga a psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, medici, infermieri,
educatori e a tutti gli operatori della salute mentale nelle più svariate relazioni d’aiuto. Il periodico “Dialoghi adleriani” è stato
concepito in formato elettronico, gratuitamente accessibile via
internet a ogni studioso o a quanti in tutto il mondo intendano
seguire le orme adleriane. “Dialoghi adleriani” accoglie contributi adleriani, italiani e internazionali ed è disponibile a ospitare
quelle ricerche anche di altri orientamenti utili a stimolare una
dialettica di confronto tra la nostra Scuola adleriana milanese ed
altri modelli a noi affini. “Dialoghi adleriani” nel rispetto della
tradizione e nell’apertura al cambiamento si rivolge a tutti i colleghi adleriani sparsi in tutte le nazioni del mondo per stimolare interazione, cooperazione fra le varie riviste ed i vari istituti
adleriani attraverso uno scambio delle riviste e la pubblicazione
di articoli stranieri tradotti nelle rispettive riviste nazionali.
“WE WILL WELCOME ANY DEBATE”. The Editorial points
out that the journal “Dialoghi adleriani” is aimed at psychologists, psychotherapists, psychiatrists, physicians, nurses, educators and all mental health professionals in a variety of helping
relationships. The periodical “Dialoghi adleriani” has been conceived in electronic format, freely accessible via the Internet
from every scholar or how many all over the world wish to follow in the Adlerian footsteps. “Dialoghi adleriani” welcomes
not only Adlerian contributions, Italian and International, but
also the researches of other tendencies and orientations useful to spur to a dialectical comparison between our Adlerian
Milanese School and other models related to us. “Dialoghi adleriani”, in the respect for tradition and openness to change, is
aimed at all Adlerian colleagues dotted around in all the nations
of the world in order to spur to interaction, cooperation between
the various journals and the several Adlerian institutes through
an exchange of the journals and publishing foreign articles
translated in their respective national journals.
Parole chiave
Keywords
DIALOGHI ADLERIANI, COOPERAZIONE, RISPETTO DELLA TRADIZIONE/APERTURA AL CAMBIAMENTO, SENTIMENTO SOCIALE
ADLERIAN DIALOGUES, COOPERATION, RESPECT FOR
TRADITION/OPENNESS TO CHANGE, SOCIAL FEELING
I.Premessa
Non nascondo l’emozione provata nello scrivere il primo editoriale del nuovo periodico semestrale “Dialoghi adleriani” dell’Istituto Alfred Adler di Milano: grande è la responsabilità, una vera
e propria sfida, audace ed ardita a un tempo. “Audace” perché è la prima volta che l’Istituto Alfred
Adler di Milano assume sulle proprie spalle il carico della creazione di un proprio organo di opinione,
di documentazione e di diffusione dell’adlerismo più puramente di ricerca; “ardita” nel significato
pasoliniano più antidogmatico del termine, perché l’obiettivo del Corpo redazionale è di veleggiare
come l’Ulisse dantesco verso flutti inesplorati, messaggeri del “nuovo” nel rispetto del “vecchio”,
della tradizione su cui ci siamo forgiati.
Già il titolo dell’Editoriale, “Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto”, ambisce ad accendere
un dia­logo infinito e fruttifero con i Lettori proponendo come frase di avvio proprio le parole che
come materiale marmoreo indelebile rappresentano a mio avviso il testa­mento spirituale del nostro
comune maestro Alfred Adler: il titolo risuona come un aforisma para­dossale capace di emblematizzare la vocazione di spassionata e creativa apertura “relazionale” del modello adleriano. Lo stesso
Alfred Adler in “Psicologia del bambino difficile”1 scrive:
ADLER, A. (1930). Die Seele des schwererziehbaren Schulkindes. München: Bergmann. (Trad. it. Psicologia del bambino difficile.
Roma: Newton Compton, 1973).
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Giuseppe Ferrigno
“Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto”
«Il nostro vero compito sarà la pratica: nessuna educazione può essere
costruita nel vuoto. Dovrete combattere con le difficoltà che derivano da
interpretazioni diverse dalla ricerca scientifica. Daremo il benvenuto a
qualsiasi confronto, perché siamo tolleranti: dovrete studiare altre teorie e altri
punti di vista, mettere tutto a confronto con molta cura, e non credere
ciecamente a nessuna “autorità”, neppure a me» (p. 3).
Pier Paolo Pasolini (1975) con un piglio che definirei ereticamente adleriano a proposito dei propri “Scritti corsari”2 sottolinea: «Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza se non quella che mi
pro­viene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione
di non avere niente da perdere, e quindi di non essere fedele a nessun patto che non sia quello con un
lettore che io considero degno di ogni più scanda­losa ricerca» (p. 82).
Ed ogni ricerca non può che custodire nel suo nucleo più profondo lo slancio “scandaloso”,
che contrassegna la salgariana ricerca dell’avventura (dal latino ad-ventura=verso tutte le cose che
stanno per venire) tanto cara al “corsaro” appunto, la cui indole esplorativa, rapida e incisiva a un
tempo, non si rivolge aprioristicamente solo agli interpreti dogmatici della realtà, ai suoi depositari,
ma direttamente alla realtà “tutta”, olisticamente coerente, interdisciplinare, pluridisciplinare, senza
soluzioni di continuità, non manichea.
Credo che proprio a questa naturale e complessa vocazione interdisciplinare, pluridisciplinare
della ricerca alluda Alfred Adler, quando con passione pasoliniana invita al confronto e alla tolleranza verso altre teorie ed altri punti di vista che, solo dopo essere stati analizzati e messi a confronto,
possono anche non essere accolti ciecamente per il solo fatto di essere portatori del fascino stregato e
sirenesco dell’“Autorità” che li enuncia.
Il periodico “Dialoghi adleriani” dell’Istituto Alfred Adler di Milano, seguendo l’invito “paradossale” del nostro Maestro, dà volentieri, quindi, il benvenuto a qualsiasi confronto nel solco
della continua e affannosa ricerca della “verità assoluta”, che è il grado più conveniente di errore
(Vaihinger, 1911)3 e che presuppone sempre e comunque riflessione, relazionalità, dibattito, discussione, confronto, dialogo.
Credo, infatti, che il dialogo costituisca la matrice di ogni nucleo epistemologico e clinico adleriano. “Dialoghi adleriani” si propone come stimolo, strumento e spazio di lavoro, di ricerca, di documentazione, di diffusione, di divulgazione e, quindi, di “confronto” critico sui più svariati settori della
ricerca specialistica inerente la teoria e la pratica della Psicologia Individuale: la metapsicologia, la
teoria della clinica, la teoria della tecnica psicoterapeutica e analitica dell’adulto, dell’anziano, del
bambino e dell’adolescente, la testistica, il counseling, le tematiche specificamente legate alla formazione, al lavoro clinico e istituzionale, al campo scolastico e psicopedagogico, alla psicologia del
lavoro, dell’emergenza etc.
PASOLINI, P. P. (1975). Scritti corsari. Milano: Garzanti.
VAIHINGER, R. (1911). Die Philosophie des “Als Ob”. Berlin: Verlag von Reuther & Reichard. (Trad. it. La filosofia del “come
2
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se”. Roma, Ubaldini, 1967).
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Giuseppe Ferrigno
“Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto”
“Dialoghi adleriani” si rivolge a psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, medici, infermieri, educatori, tecnici della riabilitazione, insomma a tutti gli operatori della salute mentale e ai professionisti
impegnati nelle più svariate relazioni d’aiuto. Il periodico è concepito per essere letto da tutti i soci
dell’Istituto Alfred Adler di Milano, ma anche da chiunque, pur appartenendo ad altre associazioni
adleriane e non, in Italia e all’estero, intenda, seguendo lo slancio antidogmatico del pensiero adleriano, cooperare con noi con spirito di confronto e di apertura.
Non dobbiamo dimenticare la straordinaria lungimiranza utopica di Alfred Adler nell’esortarci a un universale “Gemeinsinn” e “Gemeinschaftsgefühl”, termini che noi traduciamo rispettivamente con “senso sociale” e con “sentimento sociale”. Adler già nel 1918 in Bolschewismus und
Seelenkunde4 scrive con un incredibile afflato cosmico queste bellissime parole:
«L’aspirazione al potere è un miraggio fatale che avvelena la convivenza degli uomini! Chi desidera la vita comunitaria [Gemeinschaft], deve rinunciare all’aspirazione al potere! [...]. La guerra non
costituisce una continuazione della politica attraverso l’uso di mezzi diversi, ma il più grande delitto
di massa contro la cooperazione umana. Chiunque abbia sperimentato l’ingiuria dell’ebbrezza del potere, sia che si tratti di individui che di popoli, “afferra in alto le stelle eterne” e si rammenta dell’onnipotenza dei sentimenti umanitari. A essi, che costituiscono nella loro verità eterna l’istanza più alta,
si rivolge l’appello più forte. […] Noi Tedeschi stessi – continua a scrivere Adler − siamo animati da
un forte sentimento di collettività che si estende oltre i confini e prosegue in uno speranzoso sentire di
“far parte dell’umanità” [Allmenscheitsempfinden]. Ci sentiamo, tuttavia, pronti a corteggiare l’idea
della cooperazione fra gli uomini e a fare sacrifici per essa. L’aspirazione al potere è un miraggio fatale che avvelena la convivenza degli uomini! Chi desidera la vita comunitaria [Gemeinschaft], deve
rinunciare all’aspirazione al potere! […] La nostra ricerca individualpsicologica e i risultati, sopra
menzionati, possono aspirare, oggi più che mai, a essere ascoltati ed esaminati. Quanto a noi, non
c’è punto di vista che riveli l’immagine degli smarrimenti del nostro tempo in modo più puro e più
chiaro della Psicologia Individuale, una scienza che già prima della guerra proclamava come scopo il
conseguimento di un futuro sistema di vita, basato sul rafforzamento del realismo, sulla responsabilità
e sull’eliminazione dell’odio, latentemente serpeggiante fra gli uomini, attraverso la “benevolenza
reciproca”. Non è difficile indovinare che cosa può e deve essere ottenuto con queste o simili mète
ambiziose. Occorre che ci sia, a questo riguardo, per tutti noi una preparazione consapevole, in grado
di incrementare un sentimento sociale così smisurato da abolire totalmente l’ebbrezza del potere, sia
nell’individuo che nei popoli» (p. 7).
A distanza di un secolo circa, un grande intellettuale come Aleksandr Solzenicyn (2000)5 in
“Autolimitazione o il mondo non ce la farà” rafforza i medesimi concetti adleriani: «Il Novecento non
ha dato testimonianza di una crescita di moralità del genere umano. Che motivo abbiamo di aspettarci che il Duemila sia più generoso? [...] Ci sono l’esplosione demografica mondiale e il colossale
problema del Terzo Mondo, che costituisce i quattro quinti del genere umano e presto raggiungerà i
cinque sesti, diventando la componente più importante del pianeta. Annegando nella povertà e nella
ADLER, A. (1918). Bolschewismus und Seelenkunde. Internationale Rundschau, Zürich, IV, 597-600. (Trad. it. Bolscevismo e
psicologia. Rivista di Psicologia Individuale, 47, 7-14).
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SOLZENICYN, A. (2000). Note di civiltà. Autolimitazione o il mondo non ce la farà, Corriere della sera, 12 marzo 2000.
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Giuseppe Ferrigno
“Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto”
miseria, i Paesi in via di sviluppo avanzeranno sempre maggiori richieste alle nazioni progredite. Con
il rischio di nuovi e minacciosi conflitti, guerre per la sopravvivenza. L’Occidente si trova a dover
compiere un’azione complessa di bilanciamento [...]. Questo equilibrio ci chiede di limitare le nostre
esigenze, di subordinare i nostri interessi a criteri morali. Direi che noi potremmo provare vera soddisfazione spirituale non nel potere, ma nel rifiuto del nostro potere. In altre parole: autolimitazione».
II. Alfred Adler, cantore di emozioni e di sentimenti
Alfred Adler fin dal 1907 introduce nel suo sistema teorico significanti come “inferiorità, superiorità, aggressività”, creando sempre di più basi concettuali ruotanti intorno alla relazione, che lo
porteranno a divenire più tardi l’antesignano del modello socioculturale, bipersonale della psicologia
del profondo in contrapposizione al modello pulsionale classico freudiano. I lemmi “inferiorità”, “superiorità”, “aggressività”, se scomposti nel loro etimo latino, denotano, infatti, i primi due (infěrior,
supěrior) “confronto” e “contatto”, il terzo (ad-gradior = avvicinarsi per gradi) “contrapposizione”,
“avvicinamento verso”. Alfred Adler, dopo il 1911, si distanzia dal modello deterministico pulsionale
per abbracciare una psicologia fenomenologica delle finzioni, teleologicamente orientata, individuando nel “sentimento d’inferiorità” il motore, il principio motivazionale e dinamico della vita psichica,
il che gli consente di privilegiare come area elettiva della sua ricerca il rapporto dialettico fra stati
emotivi e relazione: l’emozione dell’insicurezza è sempre di natura relazionale e regna incontrastata
in ogni individuo, che sperimenta costantemente emozioni, sentimenti, stati d’animo, dubbi e timori
per un futuro incerto e solo immaginabile. L’individuo indivisibile adleriano, in quanto fenomeno
temporale, finito e limitato nello spazio e nel tempo, inferiore dunque, si trova catapultato, “gettato”
heideggerianamente in “questo” mondo, sempre affascinato dall’infinita ricerca di un senso, di un
significato da dare alla propria vita. Alfred Adler, l’eretico, è quindi in controtendenza: contro l’opinione molto diffusa secondo cui le emozioni rappresentino un aspetto marginale, poco dignitoso e
scarsamente nobile della vita mentale di un individuo, egli ne decreta l’indispensabilità, tributando
all’emozione dell’insicurezza il ruolo di motore primario del divenire psichico.
Immanuel Kant (1781) in “Critica della ragion pura” 6 scrive che una colomba leggiadra, mentre
vola vorticosamente fendendo l’aria di cui avverte l’opposizione e la resistenza, potrebbe paradossalmente desiderare di librarsi più velocemente nello spazio privo di aria, nella convinzione erronea
che riuscirebbe a volteggiare ancora più liberamente e senza alcuno sforzo se non ci fosse proprio
quell’impedimento che le procura tanta fatica. Noi sappiamo che senza l’aria la colomba non potrebbe neppure volare (Carotenuto, 1986)7. Così come l’essere umano senza relazioni, senza contatti
con l’altro da Sé, senza emozioni e senza sentimenti, che spesso lo tormentano in quanto gli rendono
gravosa e dura la vita, non potrebbe letteralmente vivere trasformandosi in una monade chiusa senza
finestre: emozioni, sentimenti, gioie, dolori, perdite e speranze fanno parte del nostro essere al mondo
e ci mettono in contatto con gli altri (Ferrigno & Borgna, 2012)8.
KANT, I. (1781). Kritik der reinen Vernunft. Riga: Hartknoch. (Trad. it. Critica della ragion pura. Roma-Bari: Laterza, 1987).
CAROTENUTO, A. (1986). La colomba di Kant. Milano: Bompiani.
6
7
FERRIGNO, G. & BORGNA, E. (2012). La comunicazione non è se non relazione. Rivista di Psicologia Individuale, 71, 59-78.
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Giuseppe Ferrigno
“Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto”
Alfred Adler, allontanandosi da qualsiasi movimento politico di parte, passeggero e transitorio,
desidera fare della sua Psicologia Individuale l’erede di tutti i grandi movimenti il cui scopo è il
benessere dell’umanità, formulando il concetto di “sentimento sociale” come barometro della “salute mentale”: sentimento sociale sub specie aeternitatis (Vahinger, 1911)9 non limitato, quindi, a un
gruppo specifico e contingente, ma proiettato costantemente verso una società ideale ancora tutta da
costruire finzionalmente nel corso del tempo in un’ottica intergenerazionale.
III. Alfred Adler e il senso della vita
Il termine “inter-generazionale” connota un significato relazionale, rafforzato dal suffisso latino
inter, che specifica una posizione intermedia tra “due” cose o “due” limiti di spazio o di tempo. Il
significante “generazionale”, inoltre, deriva dal greco γíγνοµαι (ghignomai)=nasco, da cui anche il
latino “gignere”, generare, creare, partorire, far sorgere, produrre qualcosa di altro da Sé: la locuzione
“inter-generazionale”, quindi, ha a che fare con il rapporto tra generazioni, con il dare alla luce, con il
far nascere, con l’accogliere, con il preservare, con il fare crescere ed il prendersi cura, con il divenire,
con il “movimento” che si sviluppa, insomma, nel corso del tempo.
Il termine “intergenerazionale” è strettamente collegato alla generatività che promuovendo affettività e legami fra le varie dimensioni del tempo, passato, presente e futuro, collega in un affettuoso
dialogo, che si trasforma in un abbraccio, le generazioni a venire con le contemporanee e con quelle
anteriori. Per questo motivo il sentimento sociale adleriano sub specie aeternitatis (Adler, 1931)10
riesce a donare all’individuo l’esperienza magica del sentirsi attraversato dal soffio vitale nel mentre
si affanna a ricercare finzionalmente un senso da dare alla vita.
E il senso della vita per Alfred Adler si ipostatizza proprio nella magia della relazione, dell’incontro, del contatto, del dialogo fra una mente e un’altra mente, fra un cuore e un altro cuore, fra una
generazione e un’altra generazione in una visione laica della vita che concepisce brechtianamente
l’essere umano come sintesi unitaria di corpo e di anima.
Non a caso precursore dell’empatia e, di conseguenza, del sentimento sociale adleriano è il concetto di Zärtlichkeitsbedürfnis (Adler, 1908)11, il bisogno di tenerezza primaria. Il bisogno (Bedürfnis),
che il bambino sperimenta, appena si affaccia sulla scena del mondo, di ricevere “delicatezza” (Zärt),
affetto, dedizione, amore, carezze, se è adeguatamente riconosciuto e quindi reso fertile attraverso
scambi emozionali fatti di corrispondenza biunivoca «da parte del caregiver che si prende cura di lui,
consente di “afferrare in alto le stelle eterne” che vivificano un buon “legame di attaccamento”: l’innato senso sociale del bambino, si raffina, col tempo, nel linguaggio della tenerezza, della reciprocità,
del sentimento sociale» (Ferrigno, 2004, p. 4)12.
VAIHINGER, R. (1911). Die Philosophie des “Als Ob”, cit.
ADLER, A. (1931). What Life Could Mean to You. Boston: Little, Brown & Company. (Trad. it. Cosa la vita dovrebbe significare
9
10
per voi. Roma: Newton Compton, 1994).
ADLER, A. (1908). Das Zärtlichkeitsbedürfnis des Kindes. In A. ADLER & C. FURTMÜLLER. (Eds.). (1914). Heilen und Bilden:
Ärztlich-pädagogische Arbeiten des Vereins für Individualpsychologie. München: Reinhardt. (Trad. it. a cura di G. Ferrigno e C.
Canzano, Il bisogno di tenerezza del bambino. Rivista di Psicologia Individuale, 59, 2006, 7-15).
11
FERRIGNO, G. (2004). L’intersoggettività fra “Adlerismo” e “Teoria della mente”. Rivista di Psicologia Individuale, 56, 3-8.
12
7
Giuseppe Ferrigno
“Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto”
Il sentimento sociale se seminato, perciò, adeguatamente nell’ambiente familiare, sotto forma
di fiducia nei legami (Cigoli, Galimberti & Mombelli, 1988)13, può in un secondo tempo estendersi
all’intera umanità, con la possibilità di includere la totalità del cosmo, su un piano appunto intergenerazionale. Solo chi si considera una parte del tutto può sentirsi a casa propria nel mondo e può
raggiungere quella tranquillità d’animo e quel coraggio indispensabili per affrontare la complessità
della vita.
IV. “Dialoghi adleriani” come canale di cooperazione
Sulla scia di questo grande e accorato insegnamento del nostro Maestro, finalizzato a una cooperazione universale fra esseri umani e fra popoli diversi nel mondo, il periodico “Dialoghi adleriani”
è stato concepito in formato elettronico. Esso è, quindi, liberamente e gratuitamente accessibile via
internet ad ogni studioso, ricercatore, studente o curioso, adleriano e non, e a quant’altri in tutto il
mondo intendano seguire le orme adleriane. “Dialoghi adleriani” accoglie contributi adleriani, italiani e internazionali, ma è disponibile a dare ospitalità a quegli studi e a quelle ricerche anche di altri
orientamenti che possano concorrere ad approfondire gli aspetti epistemologici e clinici o che risultino utili a stimolare una dialettica di confronto tra l’identità della nostra Scuola adleriana milanese ed
altri modelli a noi affini.
Gli studi e le ricerche, che pubblichiamo e pubblicheremo all’interno del periodico “Dialoghi
adleriani”, vanno considerati come veri e propri “dialoghi”, come espressione di un infinito “comunicare adleriano”, inteso sempre come verbo sia transitivo sia intransitivo: «Ci sono due modi radicalmente diversi nel comunicare: il comunicare come fare conoscere, diffondere, mettere qualcosa in
comune: il comunicare come verbo transitivo; e il comunicare come essere in comunicazione, essere
in relazione con qualcuno: il comunicare come verbo intransitivo, e cioè il comunicare come partecipare: come con-dividere. Nella struttura linguistica del comunicare, del partecipare, del prendere
parte e del condividere, riemerge sempre, come dice Heidegger, il radicale della parte: in tedesco
Mit-teilung e Mitteilen. Questa parte è la parola tematica di ogni comunicazione: noi siamo solo la
parte di un tutto: siamo una soggettività amputata nella relazione con gli altri: siamo una soggettività
che non si realizza fino in fondo se non nella intersoggettività: nel recupero della soggettività altrui.
[Perciò] la comunicazione intesa come relazione, e come partecipazione, è riscoperta dell’alterità e
rifiuto dell’alienità. L’alter non è l’alienus; e questo non solo in psicopatologia ma anche nel contesto delle comuni relazioni interpersonali. L’alienus è chi è, o meglio chi viene considerato, diverso
da noi: chi è, o sembra essere, al di fuori della nostra comunità di vita. La comunicazione autentica
si realizza fino in fondo solo quando diviene relazione fra una soggettività e l’altra, fra una parte e
l’altra, e questo nel contesto della clinica e della cura ma anche in quello della famiglia e della società» (Ferrigno & Borgna, 2012, p. 71)14.
CIGOLI, V., GALIMBERTI, C. & MOMBELLI, M. (1988). Il legame disperante. Il divorzio come dramma di genitori e figli.
Milano: Raffaello Cortina.
13
FERRIGNO, G. & BORGNA, E. (2012). La comunicazione non è se non relazione, cit.
14
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Giuseppe Ferrigno
“Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto”
V. “Dialoghi adleriani”: gli editoriali e i cori manzoniani
Nelle tragedie greche si dava ampio rilievo al Coro che era costituito da un gruppo di cittadini,
di prigionieri, di schiavi, di anziani. Il coro conversava con i protagonisti con la funzione specifica di
dar voce al popolo, che così poteva commentare passo dopo passo lo sviluppo dell’azione drammatica “come se” fosse un vero e proprio personaggio. Il Manzoni utilizza il Coro (uno ne Il conte di
Carmagnola e due nell’Adelchi) mutandone la funzione: il coro non costituisce più una parentesi di
dialogo tra i protagonisti con il popolo, ma diventa un cantuccio lirico, “quasi separato”, che l’autore
riserva a se stesso, staccandosi dalla narrazione vera e propria, per esprimere le proprie emozioni,
le proprie opinioni personali, le soggettive riflessioni sugli accadimenti e sulle vicende narrate, per
offrire al lettore una chiave di lettura interpretativa intellettuale e morale (Ferrigno, 2011)15.
La Direzione intende utilizzare gli editoriali, come abitualmente era solito fare il Manzoni nei
Cori delle sue tragedie, come un angolino silenzioso ed appartato in cui ci si rifugia per riflettere,
definire, commentare, interpretare, chiarire con l’obiettivo di aprire con i Lettori un ampio, vivace e
infinito “dialogo” su vari temi e argomenti.
La Rivista si articola, inoltre, in varie sezioni: “Studi e ricerche”, “Casi clinici”, “Arte e società”,
“Confronti”, “Incontri e interviste”, “In libreria” e “Appuntamenti”. Si prevede, inoltre, di dar spazio
in alcuni numeri alla trattazione di uno specifico tema particolarmente stimolante che costituirà oggetto di un “approfondimento monotematico”.
VI. “Dialoghi adleriani” e l’epistemologia
La Psicologia Individuale di Alfred Adler, essendo una psicologia del profondo, non può esimersi dalla necessaria e costante riflessione epistemologica sulle proprie condizioni di possibilità,
d’attendibilità e di rigore (Ferrigno & Pagani, 2004)16, sebbene i cardini teorici caratterizzanti il
modello individualpsicologico si presentino come sistema aperto e flessibile in tutta la loro singolare
attualità al punto che lo stesso Alfred Adler (1930)17 dice: «Quando insisto sull’aspetto artistico del
nostro lavoro cammino su un vulcano» (p. 225).
Soggettivismo fenomenologico, intenzionalità finalistica, causalità teleologica, empatia, relazione, lavoro artistico della coppia creativa: ecco i nuclei concettuali adleriani che nella loro copernicana eresia rispetto all’enstablishment accademico della Vienna fin de siècle hanno sempre rappresentato un forte ostacolo all’ottenimento dell’imprimatur scientifico, in quanto per la scienza sperimentale soltanto le cause efficienti sono oggetto di studio sperimentale e di falsificazione, mentre le
ragioni, i fini, la creatività rimarrebbero imprigionati nella soggettività dell’individuo.
Il timore che la psicologia del profondo possa confondersi con metodologie scarsamente scien-
FERRIGNO, G. (2011). «Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto»: l’adlerismo fra rispetto della tradizione e apertura al cambiamento. Rivista di Psicologia Individuale, 69, 3-7.
15
FERRIGNO, G. & PAGANI, P. L. (2004). La Psicologia Individuale e le psicologie del profondo alla luce delle nuove epistemologie. In
G. G. ROVERA, N. DELSEDIME, S. FASSINO. & U. PONZIANI. (Eds). La ricerca in Psicologia Individuale (pp. 49-56). Torino: CSE.
16
ADLER, A. (1930). Die Seele des Schwererziehbaren Schulkindes. Monaco: Bergmann. (Trad. it. Psicologia del bambino difficile.
Roma: Newton Compton, 1976).
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“Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto”
tifiche ha originato, in particolar modo, la tendenza a minimizzare il potere dell’“empatia” come
agente terapeutico. Il modello adleriano considera, difatti, ogni incontro con il paziente come unico
e irripetibile, quindi né programmabile né “verificabile”, al punto tale da definire la coppia pazienteterapeuta come “coppia creativa”, contrapponendosi a quei modelli che sopravvalutano la “nobiltà”
del metodo curativo basato sulla logica, sulla razionalità, sulle parole “svuotate” d’emozioni, sull’interpretazione insomma. Abbiamo già detto prima come il tentativo di svuotare l’uomo della ricchezza
delle emozioni significhi prosciugarlo della sua linfa vitale, abbassandolo al rango di un manichino
senz’anima: l’essere umano adleriano, invece, è un fenomeno temporale sempre in bilico fra passato,
presente e futuro in un continuo “divenire” sotto la spinta di un ineliminabile sentimento d’insoddisfazione, di fragilità, di debolezza, d’inferiorità.
Da un lato, l’approccio chirurgico delineato soprattutto da Freud, dall’altro il processo d’incoraggiamento empatico adleriano che considera il rapporto terapeutico come vulcanico lavoro artistico contrassegnato da un costante flusso biunivoco di risonanze emozionali fra chi cura e chi è curato:
gli irripetibili “momenti presenti” e “momenti d’incontro”, vissuti nel qui e ora del setting (Ferrero,
2009; Bianconi, 2010)18 dalla coppia creativa terapeutica, si scontrerebbero, quindi, con l’improrogabile richiesta di falsificabilità della scienza esatta.
Secondo la prospettiva antidogmatica, storicistica e creativa dell’epistemologia contemporanea,
la verificabilità, la riproducibilità, la ripetibilità, l’attendibilità, principi fondanti del positivismo e
del neopositivismo, sono stati sostituiti dagli innovativi concetti di approfondimento scientifico, di
rigore e di legittimità scientifica: un modello teorico necessita di un incessante accordo intersoggettivo sui principi epistemologici di base e sugli strumenti operativi utilizzati, il tutto intrecciato a un
diligente controllo ed a una continua e ininterrotta riflessione (Ferrigno, 2011)19.
Il concetto di controllo riconduce automaticamente alla “formazione” del terapeuta adleriano,
alla meticolosità con cui ha completato il training personale, alla sua preparazione sia sul piano teorico che clinico: un terapeuta adleriano deve essere capace di monitorare costantemente attraverso un
“controllo clinico diretto” l’intrapsichico, l’intersoggettivo, l’interindividuale all’interno della stanza
d’analisi, che diventa un vero e proprio “laboratorio”: il saper autosservare sul piano controtransferale se stesso, i propri stati d’animo, le proprie emozioni, la propria soggettività, le proprie ferite rafforza la capacità di riconoscere i pensieri, le emozioni, i sentimenti, le ferite del paziente così come si
rivelano nell’hic et nunc del setting.
Il “controllo extra setting” prevede, invece il ricorso alla supervisione, attraverso cui un analista/
terapeuta formato riesce a rilevare a posteriori, a leggere nuovamente l’operare specifico del collega,
soffermandosi a riesaminare il flusso biunivoco delle risonanze emozionali, transferali e controtransferali, originatesi nel setting, il “come”, il “quando” e il “perché” siano state fatte alcune interpretazioni o siano stati provati alcuni vissuti emozionali sia dal terapeuta sia dal paziente.
FERRERO, A. (2009). Le strategie dell’incoraggiamento nelle psicoterapie time-limited. Rivista di Psicologia Individuale, 66, 65-79;
BIANCONI, A. (2010). Finzione e contro-atteggiamento. Rivista di Psicologia Individuale, 68, 7-27.
18
FERRIGNO, G. (2011). «Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto»: l’adlerismo fra rispetto della tradizione e apertura al cambiamento, cit.
19
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Giuseppe Ferrigno
“Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto”
VII.La formazione, la ricerca e l’aggiornamento permanente
Se la formazione permanente dei terapeuti, in genere, e, in particolare, la formazione permanente
dei formatori costituiscono i pilastri su cui si fondano i risvolti etici e deontologici del nostro fare
ed essere terapeuti, la professionalizzazione di chi opera nel campo della salute mentale si costruisce
nella e attraverso la ricerca e l’aggiornamento continuo. Esigenza ineludibile di tutti gli operatori
della salute mentale è la riflessione costante sulla coerenza dei principi epistemologici adleriani, sulla
loro impostazione sociale, sul loro senso clinico, sulla loro applicazione nella prassi terapeutica, così
come è indispensabile il confronto con altri modelli teorici per un rinnovarsi della teoria e della prassi, degli strumenti per le indagini scientifiche, per la ricerca, per gli interventi (Rovera, Delsedime,
Fassino & Ponziani, 2004)20. Si apre, a questo proposito, la “questione” della complessità della ricerca sugli aspetti teorici, tecnici, metodologici e clinici del modello bio-psico-sociale adleriano.
Il periodico “Dialoghi adleriani” dell’Istituto Alfred Adler di Milano, per questi motivi, si propone sia come stimolo sia come strumento sia come spazio di lavoro, di ricerca e di confronto critico
a livello nazionale e internazionale, sia come cassa di risonanza e di diffusione sia come organo di
opinione e di documentazione del dibattito epistemologico in atto sulle varie tematiche adleriane.
VIII. Obiettivi
“Dialoghi adleriani”, in quanto organo di documentazione e di opinione, può pubblicare articoli
di Autori i cui punti di vista non necessariamente coincidono con quelli della Direzione, pur assumendo l’importante funzione di stimolare un dibattito vitale e dialettico in seno all’adlerismo nazionale
e internazionale.
“Dialoghi adleriani” si prefigge il compito di attivare fra gli adleriani una circolarità comunicativa che apra un filone di studio, di riflessione, di ricerca che sviluppi un dibattito fecondo non soltanto
sulla terminologia di scuola, che condurrebbe a una banalizzazione nominalistica, ma soprattutto su
quanto si stratifica dietro l’involucro finzionale delle “parole”.
Spero che col tempo il nostro periodico possa acquisire l’autorevolezza di una rivista prestigiosa
grazie al lavoro attivo e diligente di un corpo redazionale che in questi ultimi mesi si è prodigato in
un impegno assiduo, intenso, creativo e prospetticamente utopico.
“Dialoghi adleriani” aspira a diventare col tempo un laboratorio di ricerca, un opificio, un “osservatorio” che consenta di rivisitare le nostre radici storiche in una dialettica sempre oscillante fra il
rispetto della tradizione e l’apertura al cambiamento.
È nostra ambizione che “Dialoghi adleriani”, rivolgendosi a collaboratori e studiosi adleriani di
tutte le nazioni del mondo, possa incoraggiare un primo passo d’interazione, cooperazione, socializzazione fra le varie Riviste e i vari Istituti per aprire un virtuoso confronto fra scuole che preveda lo
scambio delle riviste, la segnalazione, la traduzione e la pubblicazione di studi e ricerche particolarmente rilevanti nelle rispettive riviste nazionali al fine di alimentare un confronto sulla teoria e sulla
ROVERA, G. G., DELSEDIME, N., FASSINO, S. & PONZIANI, U. (Eds). (2004). La ricerca in Psicologia Individuale. Torino:
CSE.
20
11
Giuseppe Ferrigno
“Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto”
prassi individualpsicologiche (Ferrigno, 2011)21.
Ci aspettiamo da voi Lettori suggerimenti e anche critiche costruttive, oltre che, naturalmente,
scritti e articoli. In questo caso, sarà, però, fondamentale attenersi con molta cura alle indicazioni
fornite nelle “Norme redazionali”.
Alfred Adler, ispirato cantore del sentimento sociale concepito come “esperienza quotidiana” e
non come sporadica finzione rafforzata con intenti moraleggianti, ci esorta costantemente affinché “il
nostro vero compito sia la pratica del sentimento sociale”.
Spero che “Dialoghi adleriani” con lo sguardo rivolto verso orizzonti di ricerca e di confronto
possa offrire ai ricercatori, agli studiosi, agli studenti, ai simpatizzanti e a tutti gli adleriani sparsi per
il mondo una rivista dal respiro interculturale fondata sulla pratica del sentimento sociale sub specie
aeternitatis, il cui intento utopico possa essere colto e arricchito sempre di più da chiunque intenda
arrecare negli anni a venire nuovi apporti di sviluppo, di accuratezza e di crescita.
Giuseppe Ferrigno
Via Copernico, 39
I-20125 Milano
E-mail: [email protected]
PEC: [email protected]
FERRIGNO, G. (2011). A quarant’anni dalla nascita della Psicologia Individuale. Rivista di Psicologia Individuale, 70, 3-7.
21
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DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 13-18 (2014)
STUDI E RICERCHE
IL SENTIMENTO SOCIALE DI FRONTE ALLA CRISI DEI VALORI
E ALLE MODIFICAZIONI SOCIO-CULTURALI DEL NOSTRO TEMPO
Alberto Mascetti
Riassunto
Abstract
L’Autore analizza il concetto di sentimento di comunità,
mostrando la difficile praticabilità di tale assunto fuori della
condizione nevrotica. Viene criticata la pretesa utopica
d’incrementare il sentimento di comunità al di fuori della
dimensione finzionale e ribadita la grande significatività dello
stile di vita. L’Autore suggerisce il superamento, in linea con
la prospettiva adleriana, della dicotomia fra volontà per il
proprio scopo e sentimento sociale attraverso un processo
incoraggiante che conduce all’amore per il proprio destino,
inteso in senso squisitamente psicologico e psicoterapeutico,
lontano dall’accezione filosofica nietscheziana.
THE SOCIAL FEELING FACING THE CRISIS OF VALUES
AND THE SOCIO-CULTURAL CHANGES OF OUR TIME.
The author analyzes the concept of feeling of community
showing the difficult feasibility of such a thesis out of the neurotic
condition. It’s criticized the utopian claim to increase the feeling
of community outside the fictional dimension and emphasized
the great significance of lifestyle. The author suggests, in line
with the Adlerian perspective, overcoming the dichotomy
between desire for their own purpose and social feeling, through
an encouraging process that leads to love for their own destiny,
considered in a purely psychological and psychotherapeutic
sense, away from the philosophical Nietzschean meaning.
Parole chiave
Keywords
SENTIMENTO DI COMUNITÀ, TRASFORMAZIONI SOCIOCULTURALI, NEVROSI, AMOR FATI
FEELING OF COMMUNITY, SOCIO-CULTURAL CHANGES,
NEUROSIS, AMOR FATI
I. Premessa
Il termine “Gemeinschaftsgefühl”, concetto nuovo e creativo ideato da A. Adler, è stato introdotto
nel tempo a volte come sentimento di comunità, a volte come interesse sociale.
Da parte nostra abbiamo sempre privilegiato la dizione sentimento di comunità, non per mera
scelta semantica, ma perché per Adler la comunità in cui noi nasciamo e viviamo, con la sua cultura,
le sue regole, le sue tradizioni, diviene parte di noi a cui siamo strettamente legati.
Nella costruzione del proprio mondo il bambino e la bambina assorbono in modo naturale le
modalità, lo stile, potremmo dire, della comunità, che noi nel tempo ritroviamo con i segni e con le
tracce di tale condivisione.
E se per gli esistenzialisti l’essere al mondo è un mit-dasein, l’essere con l’altro, che appare
quasi come una fotografia della condizione umana, per Adler e gli adleriani l’adesione all’altro passa
attraverso la comunità, è impregnata di impegno comunitario.
Nel passato diverse critiche pronunciate da altre scuole e visioni del mondo si erano levate nei
confronti di una tale prospettiva indicata da Adler, che avrebbe sospinto l’uomo verso una accettazione
conformistica della propria realtà, intesa come adesione pedissequa ai canoni uniformanti il contesto
sociale di appartenenza.
Attraverso la comunità, attraverso la mediazione della comunità, il soggetto accoglie e aderisce
a organismi più vasti, fino ad abbracciare tutto il cosmo, sviluppando un sentimento universale come
se questa fosse una verità assoluta a cui uniformarsi.
Nel gioco della fratria, nel gioco dei rapporti tra fratelli e sorelle, Adler scorge e indica un
13
Alberto Mascetti
Il sentimento sociale di fronte alla crisi dei valori
addestramento che presagisce il futuro intreccio dei ruoli nella società fuori dalla famiglia.
Così sembrerebbe che l’uomo, proprio attraverso l’allenamento comunitario, la gestione dei
rapporti all’interno del gruppo d’origine, sia capace e in grado di costruire un ponte verso una realtà
più vasta, vivendo un sentimento che possa superare lo straniamento della solitudine e vincere
l’inquietudine di essere “gettato nel mondo”, perché originariamente fuori dal mondo.
Esistenza deriva da “ex-sistere”, “star fuori”. L’uomo per entrare nel mondo deve costruirsi un
mondo; il sentimento cosmico adleriano fa parte di questa costruzione, ponendosi al suo culmine.
Ma se è vero che alla sintonia nei confronti del mondo, ultimo stadio dello sviluppo del sentimento
sociale, si giunge per diversi gradi e diverse esperienze, che vanno dalla relazionalità della fratria
all’adesione alla cultura della comunità di riferimento, all’accettazione e alla elaborazione degli
stereotipi ad essa legati, come è possibile oggi parlare ancora di sentimento di comunità, di sentimento
sociale, davanti alla dissoluzione dell’identità nazionale, allo spaesamento di fronte alle comunità
scomparse sostituite da una mescolanza etnica e culturale, all’anomia legata a una globalizzazione
estranea al nostro sentire consociativo e alla conseguente perdita del sentimento di appartenenza?
Non dobbiamo dimenticare che la visione del mondo della Psicologia Individuale, sin dalle
origini del sodalizio psicoanalitico, presenta radicali differenze già lontane dall’opzione freudiana,
che fa della pulsione libidica la molla dell’agire umano annidata nel nostro inconscio e modulata dalle
rimozioni e dai tabù, quali prepotenti organizzatori e promotori della nostra realtà inconscia.
Adler invece indica, nella volontà di potenza prima e nella ricerca poi della realizzazione di sé e
di conquista di una inconsapevole meta, le vere matrici, i veri motori dell’agire umano.
Ma la particolare sensibilità rivolta alla sfera sociale, fin dalle prime mosse della convivenza
psicoanalitica, spinge Adler a riconoscere già ne “L’inferiorità degli organi”, (Adler, 1907), che rimane
una pietra miliare dell’indagine psicologica di ogni tempo, l’importanza fondamentale dello sfondo
socio-culturale in cui si muove l’uomo, che sempre modula e declina il sentimento di inferiorità in
una prospettiva di stretta relazione tra le richieste della società e l’inferiorità medesima.
Quasi che l’inferiorità non si presenti e non venga percepita per quella che è dal vissuto soggettivo,
ma sempre in relazione con i vissuti inerenti alla società, che in qualche modo la vivifica e la declina
nell’animo del soggetto.
Tale inferiorità appartenente alle varie forme organiche prima, accomuna poi anche le inferiorità
psicosociali nel quadro di una spinta dinamica di tutta la personalità, chiamata a mettere in atto ogni
sforzo psicologico, volto al superamento di tale condizione di sofferenza e di pena.
II. Malattia mentale e sentimento sociale
L’idea del sentimento sociale permeerà sempre più la prospettiva psicologica adleriana, sia
nell’ambito della condizione umana nel campo della normalità che in quello della patologia.
Il sentimento sociale assumerà la funzione vera e propria di spartiacque tra il soggetto normale
nei confronti di quello che mostra i segni patologici della nevrosi, della psicopatia e della psicosi.
Sarà allora un diverso grado di sentimento sociale, nelle varie declinazioni carenziali, a scandire
la modulazione psicopatologica nelle sue differenti forme e manifestazioni. Anche qui sul versante
psicopatologico, la visione e le prospettive unitarie assumono un significato di grande valore
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Alberto Mascetti
Il sentimento sociale di fronte alla crisi dei valori
psicoterapeutico, utile ed appropriato nell’approccio alla sofferenza personologica e mentale dentro
il rapporto analitico, che in tale modo si libera dalle anguste categorie diagnostiche e linguistiche,
che il più delle volte ingabbiano la relazione interpersonale attraverso un’ingombrante e pletorica
tassonomia piuttosto che risolverla.
Ma se da un lato dobbiamo riconoscere la grande intuizione adleriana che prospetta nella
congerie di forme psicopatologiche un filo conduttore, una linea che in diverso grado e forma le
unisce, dall’altro non possiamo accettare la semplificazione e l’uniformità del sentimento sociale
quale principale elemento discriminatore delle varie forme patologiche indagate.
A nostro sommesso avviso è la forma psicopatica o sociopatica o psicotica che promuove un
affievolimento o una carenza di sentimento sociale e non il caso contrario.
Per continuare, cerchiamo allora di illuminare altre zone d’ombra legate al pensiero adleriano
e di sgomberare il campo dalle facili illusioni di cui il Nostro si era nutrito, in seguito alle crudeli
disillusioni provate davanti al primo conflitto mondiale, avendo partecipato come medico e neurologo
militare alla cura delle manifestazioni psicopatologiche, derivate dai tormenti e dagli spaventi vissuti
sui campi di battaglia.
La disillusione dei suoi ideali psicologici e umanitari che si esprimevano attraverso la fede nel
sentimento sociale, con il conseguente sperato riscatto dell’uomo, teso all’incontro con l’altro e
che avrebbe aperto nuovi orizzonti all’umanità, farà da volano al riconoscimento dell’essenzialità e
dell’improrogabilità della diffusione e dell’incremento di tale benefica medicina sociale.
Le vicende successive a tale drammatico impatto, che hanno spinto Adler a divenire il profeta del
sentimento sociale, si sono sviluppate in altro modo, nei modi della storia, che con le sue imprevedibili
scansioni è stata continua testimonianza di lutti e rovine, che gli uomini non solo non sono stati capaci
di evitare, ma che hanno artatamente fomentato e incrementato.
Le mutazioni socio-economiche sopraggiunte con la massificazione e la globalizzazione non
solo delle risorse e dei mezzi di sussistenza, ma anche degli uomini, delle persone, che svuotate della
loro identità psico-socio-culturale vivono una condizione di anonimato e di anomia, lontani sempre
più dai loro luoghi di riferimento e sicurezza.
Davanti a una tale condizione umana privata del senso di appartenenza, di unità nella diversità,
di sintonia col proprio nucleo culturale, appare molto difficile parlare di sentimento sociale, di
sentimento di adesione a una comunità, oramai dissolta.
Il sentimento di comunità, se a livello psicologico e filosofico, così come è stato formulato da
Adler, ha mostrato soprattutto nel tempo i segni di un’infatuazione lontana dalla realtà, di un’utopia
in gran parte legata ai miti del suo tempo, a livello conoscitivo e analitico, riferito alla scoperta dei
meccanismi consci e inconsci che sottendono il variegato mondo delle nevrosi, è ancora momento e
modo fondamentale nell’approccio clinico a tali disturbi psicologici.
Già abbiamo notato che Adler fin dai primordi del sodalizio psicoanalitico si muove seguendo
l’idea che lo sfondo sociale non agisce soltanto come quinta ambientale, ma come elemento di
riferimento e di promozione delle modulazioni e dei rimandi, che i sentimenti di insicurezza e
inferiorità sollecitano e organizzano.
Nel prosieguo poi e nella disamina della costruzione e della presentazione del mondo della
nevrosi e dei disturbi di personalità, il sentimento di comunità rivestirà un ruolo fondamentale nella
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Alberto Mascetti
Il sentimento sociale di fronte alla crisi dei valori
comprensione della conflittualità nevrotica e psicopatica.
L’altra grande intuizione adleriana, che riconosciamo fondamentale nell’approccio con l’altro,
è quella dello stile di vita, che è il risultato dei movimenti psicologici interni e delle afferenze socioculturali esterne: una sintesi dinamica volta verso una meta, che può essere modificata nel tempo
dallo stesso soggetto o attraverso una presa di coscienza dentro un percorso analitico.
Da un punto di vista analitico, lo spartiacque delle evidenze nevrotiche e psicopatiche, che
definisce la normalità o la patologia, è il sentimento sociale, la cui carenza a livello personologico è
particolarmente analizzata e studiata da parte di Adler.
È necessario a questo punto un doveroso chiarimento circa l’organizzazione del sentimento
sociale nelle persone, che presentano problemi psicopatologici al di fuori del mondo delle psicosi.
L’equazione carenza di sentimento sociale=nevrosi dovrebbe essere ribaltata nel senso di
nevrosi=carenza di sentimento sociale.
A nostro avviso non può essere imputato al sentimento sociale carente il riverbero nevrotico, ma
è la stessa organizzazione nevrotica che porta con sé una carenza relazionale e sociale.
III. Sentimento sociale e stile di vita nevrotico
Analizziamo in breve lo sviluppo di una nevrosi, la cui organizzazione è espressione di una
conflittualità tra diverse istanze, che si possono riassumere in uno stile di vita che tende a compensare
il sentimento di insicurezza o inferiorità, con una iperattività psicologica volta ad arginare una tale
temperie dalla problematica gestione.
Il nevrotico si rivela incapace di superare tale condizione inferiorizzante, anche perché presenta
una situazione di dipendenza nei confronti di una figura parentale reale e/o finzionale che lo tiene
legato e “rassicurato”.
Tale condizione di dipendenza viene organizzata anche nei rapporti con gli altri, ma soprattutto
nel rapporto con l’altro, in modo da costituire una coppia dagli stili di vita congeniali, volti alla
esclusione della paritarietà e della libertà.
La libertà, caratteristica dell’uomo adulto, è assai temuta dal soggetto nevrotico che rifugge dal
rischio ad essa connesso, il rischio dell’abbandono e della delusione, che accentuerebbe lo stato di
sofferenza e insicurezza, legato al senso di inadeguatezza che è sempre presente nella condizione
conflittuale.
Il soggetto nevrotico, dunque, mette in atto rapporti di dipendenza nei confronti dell’altro, che
assume il ruolo di “persona che rassicura”, in modo da costruire un legame “privilegiato” di tipo
adolescenziale o infantile, lontano dalla temuta condizione adulta.
Lo stile di vita nevrotico, portando con sé una condizione di antieconomicità (il rimedio:
l’ipercompensazione è presidio peggiore del male che si traduce nella sofferenza esistenziale) e
di adesione estetica alla persona-maschera che lo rappresenta, di risentimento moralistico poi, nei
confronti di vere o presunte disattenzioni e offese a vario livello subite, si muove con una pretesa di
revanche, di rivendicazione, che pone al centro della scena se stesso con la conseguente esclusione
dell’altro, mero soggetto da utilizzare e da ricattare.
Nella congerie di tale conflittualità che abbiamo provato per sommi capi a dipanare, l’altro, la
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Alberto Mascetti
Il sentimento sociale di fronte alla crisi dei valori
dimensione dell’altro appare sfuocata, sfumata, manipolata, dove la carenza del cosiddetto sentimento
sociale gioca un ruolo fondamentale nell’espressività nevrotica.
In tali frangenti il sentimento sociale non può essere che in condizione di livello larvale, sminuito,
disfonico, messo in scena con opportune mascherature. La carenza è la naturale conseguenza della
“mirabile costruzione nevrotica”, che è messa in campo proprio per eludere tale sentimento, per non
tenerlo in nessun conto.
La risoluzione dell’istanza nevrotica nell’incoraggiante processo analitico tende a recuperare in
maniera evidente l’interesse per l’altro che diviene genuino, sincero, coinvolgente.
L’insegnamento del sentimento sociale, il suo potenziamento non sembrano essere dunque
un’operazione praticabile, se disgiunta da una ritrovata e ripristinata risoluzione della problematica
nevrotica.
Un nuovo sentimento per l’altro non può che scaturire naturalmente durante il procedere
analitico, significativo e risolutivo. Un processo analitico corretto suscita di per sé, attraverso la
mediazione terapeutica, un sentimento benefico per l’altro, per il terapeuta che assume il ruolo di
prototipo dell’altro significante.
A nostro avviso non è necessario né opportuno enfatizzare l’incremento di tale sentimento, che è
evidentemente legato e presente nella condizione umana articolata nei modi della autenticità.
IV. Sentimento sociale e amore per il proprio destino
Per concludere allora tale dissertazione su nevrosi e sentimento sociale, ribadiamo la nostra
convinzione che tale sentire deve essere analizzato come riferito e legato al disvelamento incoraggiante
e al superamento della condizione nevrotica.
Al di fuori di tale rigoroso procedimento terapeutico disquisire di sentimento di comunità,
alla luce delle modificazioni socio-culturali del nostro tempo, appare illusorio, utopico e piuttosto
appannaggio di “anime belle e sensibili”.
La dicotomia congeniale adleriana, che assembla nella prospettiva un ricercato equilibrio tra
volontà di raggiungere il proprio fine e il sentimento di comunità, è anche qui un “come se” difficilmente
raggiungibile ai giorni nostri come al tempo di Platone, che già riconosceva l’impraticabilità di tale
armonioso equilibrio.
Proviamo allora ad indicare per superare tale impasse davvero singolare e problematica un
suggerimento che si mantenga in linea con la prospettiva e la promessa adleriane, che cercano di
assemblare e risolvere il dilemma, ma che allo stesso tempo le riproponga in una condizione di
finzione ineludibile: quella dell’amore per il proprio destino.
Tale proposta, che ha dentro di sé la duplice opzione adleriana del sentimento di comunità e
della competizione alla ricerca di una meta, nello stesso tempo la promuove e la spinge verso una
dimensione esistenziale, che è espressione di ben-essere e di salute mentale.
Nell’amore per il proprio destino si conclude dunque l’itinerario personologico e psico-sociale
di un’esistenza autenticamente vissuta, o quello finale di un percorso psicoterapeutico davvero
risolutivo, centrato su un destino non più combattuto, ma finalmente incorporato nella propria storia.
Il concetto di amore per il proprio destino, di amor fati, che noi utilizziamo in senso squisitamente
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Alberto Mascetti
Il sentimento sociale di fronte alla crisi dei valori
psicologico e psicoterapeutico, viene elaborato in un’accezione diversa da quella nietzschiana
dell’eterno ritorno dell’uguale, che traduce un’esigenza filosofica tutta particolare legata alla
Weltanschauung del filosofo tedesco, lontana dal nostro pragmatico interesse.
Sarà nostra cura approfondire tale assunto con una successiva trattazione, che lo possa inquadrare
in un’originale proposta psicologica e psicoterapeutica.
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Alberto Mascetti
Via Maspero,10
I-21100 Varese
E-mail:[email protected]
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DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 19-34 (2014)
STUDI E RICERCHE
ENDOMETRIOSI E FEMMINILITÀ
Rossella Ardenti
Riassunto
Abstract
L’endometriosi è una malattia infiammatoria cronica femminile
enigmatica e complessa. Nonostante la sua incidenza sia superiore al 10% della popolazione femminile in età fertile e la sua
scoperta da quasi un centennio, è una malattia poco conosciuta, soprattutto su un piano eziopatogenetico, e i numerosi studi
scientifici in campo internazionale non hanno ancora risolto i
molti interrogativi sulla malattia, sulla ricorrenza dei sintomi,
sulla recidiva e sulle modalità diagnostiche e terapeutiche più
efficaci. Psicologicamente, le ricadute dell’endometriosi sulla
qualità della vita e sulla dimensione personale e relazionale della personalità sono di notevole rilevanza e già riconosciute dalla
comunità scientifica internazionale. Questo lavoro vuole mettere in luce la profondità e la reciprocità del legame inscindibile
tra endometriosi e femminilità.
ENDOMETRIOSIS AND FEMININITY. Endometriosis is a
complex and mysterious inflammatory chronic disease affecting women. It’s still a little known disease especially on aetiopathogenic level, despite the fact that more than 10% of the
women in fertile age are affected by it and that it was discovered
almost a hundred years ago. Furthermore, the numerous international scientific studies which have been carried out haven’t
yet solved the many questions on the disease, on the recurring
symptoms, on the relapse and on the most effective diagnostic
and therapeutic methods. From a psychological point of view,
the effects of endometriosis on the quality of life as well as on
the personal and relational sizes of personality, have a remarkable importance and have already been recognized by the international scientific community. This work aims at highlighting
the depth and the reciprocity of the close connection between
endometriosis and femininity.
Parole chiave
Keywords
ENDOMETRIOSI, FEMMINILITÀ, UNITÀ BIOPSICHICA/
PSICOSOMATICA, STILE DI VITA
ENDOMETRIOSIS, FEMININITY, BIOPSYCHOLOGICAL
UNIT/PSYCHOSOMATIC, LIFESTYLE
I. L’endometriosi: una malattia enigmatica
L’endometriosi è una malattia cronica femminile enigmatica, subdola e ancora poco conosciuta
(Adamson, 2011; Guo, 2009; Jacobson, 2011; Serracchioli, Frascà & Matteucci, 2012; Vercellini,
1997; Vercellini et al., 2008). In questa malattia, l’endometrio (la mucosa che ricopre la cavità interna
dell’utero) è presente in modo anomalo in altri organi, quali per esempio le ovaie, le tube, il peritoneo,
la vagina e talvolta anche l’intestino, la vescica, il sigma, il Douglas. Per questa presenza anomala, gli
organi in cui sono presenti i nuclei di endometrio sono sottoposti a un’infiammazione ciclica e cronica
segnalata da un forte dolore, spesso invalidante. La diagnosi arriva molto tempo dopo l’esordio dei
sintomi, in media dopo 9 anni, e questo per ragioni multiple: la tendenza erronea a normalizzare il
dolore, senza riconoscerne il carattere patologico, sia da parte delle donne, sia da parte del medico
di medicina generale; la sintomatologia aspecifica (ad esempio: disturbi gastro-intestinali, disturbi
urinari, infertilità, dispareunia) che spesso porta ad ipotizzare altre forme di malattia; le tecniche
diagnostiche non invasive non evidenziano efficacemente e chiaramente l’endometriosi, l’unico strumento attualmente riconosciuto a livello internazionale come l’unico attraverso cui si può fare con
certezza questa diagnosi è la laparoscopia (Ballard et al., 2006; Farquhar, 2007; Giudice & Cao, 2004;
Giudice, 2010; Serracchioli et al., 2012; Vercellini et al., 1990).
L’endometriosi incide sul 10% delle donne in età infertile, ma la comunità scientifica nel suo
complesso ritiene che questo sia un dato che sottostima la realtà, proprio perché è riferito alle dia19
Rossella Ardenti
Endometriosi e femminilità
gnosi accertate attraverso laparoscopia (Fauconnier et al., 2005; Farquhar, 2007; Giudice et al., 2004;
Viganò et al., 2004). Per rendere più breve il ritardo diagnostico, così da ridurre l’aggravamento della
malattia ad esso correlato, è grande l’impegno medico-scientifico per affinare tecniche diagnostiche
meno invasive, ma altrettanto efficaci rispetto alla laparoscopia.
Sono molti gli interrogativi sull’endometriosi che la ricerca scientifica internazionale non ha
risolto. Oltre agli interrogativi sull’incidenza, l’eziologia, la ricorrenza, le localizzazioni e la clinica
diagnostica, terapeutica e chirurgica, il principale punto oscuro, che molto fa dibattere, riguarda la
patogenesi dell’endometriosi. La teoria più accreditata, perché riesce a spiegare la maggior parte delle
localizzazioni della malattia, è quella cui è giunto Sampson (1921, 1922, 1927) dopo i suoi studi, secondo cui la presenza di endometrio al di fuori delle pareti dell’utero è dovuta al rigurgito attraverso
le tube e alla disseminazione di frammenti di cellule di sfaldamento durante la mestruazione. Gli studi
più recenti, pur avendo mantenuto la validità di questa teoria, hanno rilevato la complessità di questa
condizione, riconoscendo nella patogenesi dell’endometriosi anche anomalie immunologiche e alterazioni endocrine, sulle quali la ricerca medica sta effettuando importanti approfondimenti scientifici
(Farquhar, 2007; Giudice et al., 2004; Serracchioli et al., 2012; Vignali et al., 2002).
II. L’endometriosi nella polarità psichica
La complessità dell’endometriosi nella polarità organica si riflette così visibilmente nella polarità psichica da essere stata oggetto di altrettanto interesse scientifico. Si è studiato l’effetto del dolore
rispetto alla qualità della vita (Denny, 2009; Eriksen et al., 2007; Nnoaham et al., 2011; Siedentopf et
al., 2008), l’impatto della malattia sul lavoro e sulla partecipazione sociale (Gilmour, 2008; Malkovic
et al., 2008), le sue ripercussioni sulla vita sessuale (Ferrero et al., 2005), gli effetti stressanti dell’ospedalizzazione e della tendenza all’isolamento (Gammon, 1998), le strategie di coping delle donne
affette da endometriosi (Kaatz et al., 2010), l’influenza dei sintomi depressivi e ansiogeni (Herbert et
al., 2010; Sepulcri et al., 2009).
Ho iniziato a conoscere parzialmente l’endometriosi negli anni ’90, per la componente di infertilità a cui a volte conduce, durante la mia lunga attività di psicologa volontaria presso il Centro
di Procreazione Medicalmente Assistita della Divisione di Ostetricia e Ginecologia dell’Azienda
Ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia. Ne ho approfondito più pienamente la conoscenza
nella successiva esperienza all’interno dell’Associazione Progetto Endometriosi- A.P.E. onlus, nata
nel 2003 da un piccolo gruppo di donne reggiane e diventata presto un punto di riferimento nazionale
per le donne affette da endometriosi.
Sin dalla sua nascita, ma non senza difficoltà (Ardenti, 2010a), ho scelto di accogliere la loro
richiesta e così di mettere al servizio delle donne affette da endometriosi le mie conoscenze, la mia
esperienza, la mia professionalità e parte del mio tempo. In questi anni ho ascoltato storie e vissuti,
raccolto testimonianze (Sanders, 2009), accompagnato alcune donne in gruppo nel tortuoso percorso
di accettazione della malattia, risposto ai loro bisogni emotivi attraverso il forum, curato una rubrica
nella rivista interna. Alcune donne, inoltre, si sono rivolte a me privatamente per fare un lavoro più
profondo e abbiamo iniziato un percorso di psicoterapia analitica (Ardenti, in press) e con altre abbiamo fatto un’esperienza di terapia breve di gruppo (Ardenti, 2012).
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Endometriosi e femminilità
Da subito, mi è apparso uno scenario psichico molto articolato e complesso, in cui orientarsi,
risultava un’impresa irta di difficoltà; gli insegnamenti adleriani sono stati la mia bussola e i fondamentali concetti di unicità e di unità biopsichica dello Stile di Vita sono stati la mia stella polare
(Adler, 1912, 1920, 1927, 1933; Ansbacher & Ansbacher, 1964) Per lungo tempo sono rimasta in
posizione d’ascolto empatico, con l’obiettivo di arrivare a sentire dentro di me più chiaramente la loro
sofferenza emotiva (Alder, 1931, 1928-1932; Ansbacher & Ansbacher, 1997; Parenti, 1983) e i miei
interventi, inizialmente fondati sulla mia ancora breve esperienza terapeutica e sul buon senso, sono
diventati mirati, specifici ed anche incisivi solo progressivamente.
Negli incontri di gruppo, facilitate soprattutto dal sentirsi all’interno di un contesto favorevole
perché composto da donne nella stessa condizione, dopo alcune mie brevi considerazioni introduttive, le donne hanno iniziato a raccontarsi ampiamente, con dovizia di particolari clinici e con grande
partecipazione emotiva, mettendo così in luce un caratteristico stile di narrazione (Good, 1994; Grassi, 2010). Al centro della narrazione iniziale c’è stato sempre il corpo con il suo periodico o costante
dolore invalidante o con le sue modificazioni a seguito delle importanti terapie ormonali e degli
interventi a volte ripetuti nel tempo; un corpo che assume più le sembianze di un nemico da combattere piuttosto che una parte di sé malata di cui prendersi cura; un corpo che utilizza un linguaggio
assordante, che disturba e spaventa e che, per questo, vuole essere allontanato; un corpo odiato perché
veicola solo dolore e sensazioni spiacevoli.
Nella narrazione è stato utilizzato il canale razionale, privilegiando la descrizione precisa di fatti,
visite, interventi, terapie, recidive, complicanze; le emozioni difficilmente venivano spontaneamente
nominate o esplicitate, ma sono state veicolate molto chiaramente attraverso il canale non-verbale.
Tra le donne diventava visibile la reciproca immedesimazione e la forte suggestionabilità.
Stimolate a parlare più delle proprie emozioni, quella che ha preso molti spazi è stata la rabbia:
per una malattia che non si riesce a controllare e che rende più difficile il concepimento; per un corpo
così malato; per il loro essere donna; per un dolore che non passa; per non essere capita dai propri
familiari o dalle donne che non hanno l’endometriosi o dai loro partner; per non essere state ascoltate
dai medici di medicina generale e dai ginecologi che, invece, hanno a lungo sottovalutato l’entità e
l’intensità dei sintomi, insistendo sul loro essere isteriche, dunque bisognose di supporto psicologico; per il loro aver peregrinato nei vari centri specializzati e da diversi specialisti che davano scarse
informazioni sulla malattia o sulla prognosi e prospettavano interventi diversi tra loro con poche
certezze di risultato; per il loro essere state lasciate da sole con la loro incomprensibile, inspiegabile
e imprevedibile malattia. Si tratta di una rabbia molto profonda e radicata ma altrettanto controllata
e repressa, che trova spazio di condivisione solo nelle relazioni in cui la donna sente di essere veramente capita, quindi, con donne che condividono la stessa malattia. Nella loro quotidianità, le donne
indossano una “maschera”, quella in cui “tutto va bene”
Le altre emozioni che s’intrecciano alla rabbia sono: senso di mortificazione, per tutte le volte
che il loro dolore è stato sottovalutato e svilito o sul quale si è anche ironizzato; senso di frustrazione,
per tutti i tentativi terapeutici o chirurgici non andati a buon fine; senso d’impotenza, per una malattia
difficilmente gestibile anche clinicamente; profondo sentimento d’inadeguatezza in quanto donna,
per non riuscire sia ad avere una vita sessuale soddisfacente sia a coronare il pressante desiderio di
maternità; schiacciante vissuto di colpa, per non essere in grado di condurre una vita “normale” nelle
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quotidiane attività, per costituire un peso per la famiglia o per il partner, per non dare un figlio al
proprio partner; senso di diversità e di “unicità” per avere una malattia così particolare e invalidante;
senso di solitudine, perché nessuno può capire le difficoltà che stanno vivendo e che devono affrontare; senso di vergogna, per avere un ciclo così doloroso e per non riuscire a rimanere incinta; profondo
senso di vuoto, sentito come incolmabile, per una maternità negata (Ardenti, 1999, 2000, 2001, 2011,
Ardenti & La Sala, 2003). Schiacciate da questo carico emotivo, le donne hanno mostrato di vivere un profondo scoraggiamento nei confronti della propria inferiorità d’organo con un conseguente
evitamento, come se l’unica possibilità fosse quella di compensare rinunciando alla vita; e rispetto al
sentire di non poter contare su qualcuno con cui condividere, e da cui sentirsi compresa, il chiudersi
e il compiangersi in solitudine diventano la soluzione privilegiata (Ardenti, 2008, 2010a).
Sin dai primi incontri mi fu chiaro che mi trovavo insieme a donne con una profonda sofferenza
emotiva e mi colpiva il fatto che fossero state lasciate a se stesse dai medici con i quali avevano fino a
quel momento interagito. A parte qualche eccezione, mi arrivava la descrizione di medici che si occupavano solo della dimensione organica e qualora riconoscevano il loro bisogno emotivo lo rilevavano
con atteggiamento svalorizzante e colpevolizzante.
In una variabilità organica molto ampia di sintomatologia, di localizzazioni, di gravità e di estensione dell’endometriosi, il funzionamento psichico delle donne che ne sono affette si presenta in
modo molto più uniforme. Avere dato spazio di ascolto in un clima di accoglienza e di comprensione
ha consentito alle donne di sentire la libertà di esprimere la gravosità dei propri vissuti e sperimentare
il sollievo che deriva dalla condivisione; per me ha significato conoscere il loro Stile di Vita (Ardenti,
2009; Ferrero, 2010; Ferrigno, 2005; Mascetti & Maiullari, 1983) e provare empaticamente il carico
della sofferenza emotiva espressa a tutto tondo dalle donne, una sofferenza troppo profonda e intensa per essere solo una reazione alla malattia (Ferrigno, 2008, 2010). «Depressione e senso di vuoto,
mancanza di senso della vita, paura dell’impoverimento psichico e solitudine, continua a rivelarsi
come la tragedia della perdita del Sé, ossia dell’autoestraniazione, che prende sempre avvio nell’infanzia» (Miller, 1996, p. 43).
III. La visione della medicina psicosomatica
In linea con la rivoluzione psicoanalitica, nella prima metà del XX secolo nasce la medicina
psicosomatica, una disciplina scientifica che ha come scopo l’indagine delle cause e degli effetti delle
relazioni fra mente e corpo, nello specifico la ricerca dell’eziologia di natura psicologica di un disturbo somatico. Partendo dall’innovativo concetto di unità mente-corpo, la medicina psicosomatica ha
svolto le sue ricerche su un modello dualistico e con un principio di determinazione. Ed è sulla base
di questo principio metodologico che si è giunti a differenziare una condizione clinica organica, in
cui è documentabile una lesione d’organo, da una condizione clinica funzionale, in cui è colpita una
funzione d’organo senza evidenza di danno d’organo, ed anche a distinguere una malattia in cui è
nota l’eziologia (infettiva, genetica o ambientale) da quella in cui il disturbo non è determinato da un
agente causale noto.
Seppure si tratti di diversificazioni categoriali chiaramente definite, si è acceso un dibattito molto
appassionato sulla “collocazione” di una malattia in una specifica categoria, che ha portato ad una
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lotta di appartenenza di una malattia tra le scienze biologiche e quelle psicologiche. Ne è un esempio
la posizione non uniforme sull’ulcera peptica: oggi è ritenuta una patologia organica poiché endoscopicamente è visibile un danno d’organo causato da un agente esterno, il batterio Helicobacter pylori;
tuttavia ci sono casi di ulcere senza il riscontro del batterio e casi di ulcere causate da stress psicologico. Il modello dualistico rende impossibile una netta distinzione di appartenenza, poiché persegue
una logica autoescludente, che consiste nel trovare le evidenze che dimostrino che una malattia abbia
una causa organica oppure psichica. Un’obiezione che circola nel dibattito interno della medicina psicosomatica (Lipowski, 1989; Todarello et al., 1992) e che ha portato a definire la psicosomatica come
un “paradosso epistemologico”, proprio perché intende analizzare l’unità mente-corpo attraverso il
modello dualistico (Porcelli, 2012).
Le prime teorie psicosomatiche vedevano applicare alla medicina i concetti fondamentali della
psicoanalisi: il nucleo centrale dei disturbi psicosomatici è un conflitto intrapsichico; sulla base di
questo conflitto e dei meccanismi di difesa ad esso riferiti, vennero individuate alcune patologie che
non erano spiegate dalla medicina e che vennero identificate come disturbi psicosomatici. La psicoanalisi ha avuto la sua influenza anche sull’aspetto terapeutico: così come per il nevrotico, anche per
il paziente con disturbo psicosomatico, il trattamento elettivo è quello analitico (Alexander, 1950;
Deutsch, 1959).
In ambito psicoanalitico il rapporto mente-corpo è stato costante oggetto d’attenzione e di studio (Assoun, 2004; Buzzatti & Salvo, 1998; Carignani & Romani, 2006; Chasseguet-Smirgel, 2005;
Zannini, 2004).
Fuori dal contesto psicoanalitico, fra il 1920 e il 1950, si diffuse l’ipotesi psicogenetica, secondo la quale le malattie fisiche potevano essere determinate da costellazioni specifiche di personalità
(Porcelli, 2009) e nella seconda metà del novecento ci sono stati importanti contributi per la moderna
concezione della psicosomatica. Per esempio, il contributo di Kissen (1963), secondo cui le malattie sono entità eterogenee e multifattoriali, non entità omogenee come fino a quel momento erano
considerate; secondo l’Autore, il punto fondamentale non può essere individuare se una malattia è
organica o psicosomatica, ma identificare quali sono i fattori, organici e psichici, che sono alla base
della malattia di quel paziente. Di rilievo anche il contributo di Engel (1977, 1980), riconosciuto per
il suo modello biopsicosociale, secondo cui la malattia è il risultato dell’interazione multifattoriale di
vari sistemi (cellulare, tissutale, organico, interpersonale e ambientale) e a più livelli: comprenderne
l’origine vuol dire trovare il contributo e il “peso relativo” che ha ciascun fattore e ciascun sistema
nel co-determinarla.
Eppure, già all’epoca di Freud, Adler aveva espresso a gran voce le sue critiche al modello psicoanalitico. Adler (1912) aveva compreso la complessità dell’essere umano e non poteva riconoscersi
nel riduzionismo a cui la teoria del conflitto e il suo conseguente riduzionismo conducevano. Per
Adler l’individuo è un’unità biopsichica; corpo e psiche non possono essere scissi, così come la psiche non può essere scissa in topiche. Quindi, l’individuo non è l’insieme di parti tra loro scisse, legate
solo da una relazione lineare causa-effetto, ma è un’unità complessa le cui componenti sono tra loro
interconnesse e dialogano in modo circolare. «Tanto la mente quanto il corpo sono manifestazioni
della vita: sono parti della vita nella sua totalità e quindi cominciamo a comprendere i loro reciproci
rapporti all’interno di questa totalità» (Adler, 1931, p. 39).
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Rossella Ardenti
Endometriosi e femminilità
Anche lo sviluppo dell’individuo è un processo complesso, che non avviene solo all’interno
dell’intrapsichico, ma in un mondo di relazioni: è la risultante di eredità, genetica, contesto ambientale e Sé creativo. Le malattie o le anomalie di comportamento non sono l’esito di un conflitto, ma di
una carenza, di un deficit e tra queste Adler riserva un posto di gran rilevo alla trascuratezza affettiva
(Adler, 1908a, 1908b, 1912, 1920, 1927). «Fra tutti i fenomeni psichici che divengono chiaramente
percepibili, il bisogno di affetto compare molto precocemente» (Adler, 1904-1913, p. 76).
Un bambino che cresce in un contesto educativo in cui è negato il bisogno di affetto è lasciato
«solo con la sua personale perduta ricerca d’amore. Privato di tutti gli oggetti d’amore, al bambino
non rimane come scopo della sua ricerca nient’altro che la propria persona, i sentimenti sociali restano rudimentali e prevalgono solo le tendenze di soddisfazione che hanno come oggetto l’amore di sé
in tutte le sue forme. Oppure il bambino assume la posizione aggressiva. Ogni istinto non soddisfatto
finisce per orientare l’organismo in modo tale che esso opponga al proprio ambiente aggressività.
I caratteri violenti, i bambini senza freni, resistenti a ogni educazione, possono insegnarci che se il
bisogno di tenerezza resta a lungo insoddisfatto, sollecita e stimola le vie dell’aggressività» (Adler,
1908b, p. 10). Come Adler, altri Autori contemporanei hanno rilevato le importanti conseguenze
sulla salute psichica delle carenze affettive in infanzia (Ferrero, 1995; Miller, 1996; Schellembaum,
1988; Valcarenghi, 2011).
A parte la critica concettuale al corpo teorico della psicoanalisi, di cui è piena la letteratura
internazionale, e le critiche che si sono sollevate a seguito dei riconosciuti fallimenti della psicoanalisi come cura per le malattie psicosomatiche, diversi sono stati gli psicoanalisti le cui obiezioni
traevano forza propulsiva dalla pratica clinica e dalle relative evidenze. Non trovando alcuna forma
di armonizzazione tra la visione teorica psicoanalitica e quanto da loro osservato nella quotidianità
delle analisi con i pazienti, alcuni Autori ne hanno preso parzialmente le distanze, pur rimanendovi
all’interno, ed altri si sono definitivamente distaccati dando origine a un pensiero autonomo. Tra questi ultimi, ci sono quelli che hanno rivalutato il rapporto mente-corpo e che hanno dato al corpo un
ruolo di rilievo nel lavoro terapeutico. Ne sono un esempio A. Lowen (1980, 1983, 1985) e A. Miller
(1980, 1981, 1996, 2002, 2004, 2007).
Lowen è esplicito nel ritenere che l’inefficacia o il fallimento dei trattamenti psicoanalitici sia
ascrivibile alle difficoltà inerenti al rapporto corpo-mente «finché persiste la tesi del dualismo corpo
mente, la difficoltà resta insuperabile» e che «nella sua espressione emotiva l’individuo è un’unità. Non
è la mente che va in collera né il corpo che colpisce; è l’individuo che si esprime» (Lowen, 1985, p. 3).
Miller ritiene che il corpo sia la “fonte di tutte le informazioni vitali”, che la malattia sia l’esito
di una scissione avvenuta nel corpo delle emozioni vissute nel corso della propria vita e che si può
uscire dal vincolo che lega al proprio passato solo facendo luce nella propria “verità storica” e arrivando a percepire e a vivere liberamente quelle emozioni rimaste prigioniere nel corpo. Le carenze
affettive vissute nell’infanzia generano un «vuoto che si aspetta di essere colmato: […] il bambino
che ha ricevuto poco amore, che si è sentito negato ed è stato maltrattato con il pretesto dell’educazione, in età adulta dipenderà tanto dai genitori o dai suoi sostituti, dai quali si aspetta tutto ciò che
gli hanno sottratto nel momento decisivo» (Miller, 2004, p. 12). Il corpo conserva la memoria, quindi
sa che cosa manca, di che cosa si ha bisogno, ciò che è stato sopportato a fatica e cerca per tutta la
vita il nutrimento di cui avrebbe avuto bisogno e che gli è stato negato. «Le funzioni corporee, come
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il respiro, la circolazione del sangue, la digestione, reagiscono soltanto alle emozioni vissute. […] Il
corpo si attiene ai fatti» (Ibid., p. 20).
IV. Le nuove evidenze scientifiche del complesso rapporto tra mente e corpo nella malattia
Nonostante l’ampia Letteratura scientifica a supporto dell’unità biopsichica, il modello dualistico è persistente e di difficile superamento; inoltre, gli specialisti si adoperano con tecniche d’indagine
e di studio sempre più sofisticate per dimostrare l’organicità o l’ereditarietà genetica delle malattie.
Gli anni ’90 segnano un grande passaggio, poiché è in questo decennio che, anche grazie alle
neuroscienze, si sviluppano progetti di ricerca volti a rendere evidente il legame inscindibile tra mente
e corpo. Il più autorevole riferimento è lo studio ACE (The Adverse Childhood Experiences Study)
iniziato nel triennio 1995-1997 a San Diego e svolto su un campione superiore ai 17.000 adulti che
stavano effettuando degli accertamenti clinici; lo studio è poi proseguito anche negli anni successivi e,
attualmente, conta un campione di 50.000 soggetti (Anda et al., 2002, 2006, Dube et al., 2003; Felitti et
al., 1998). In questi studi è dimostrato che «�����������������������������������������������������������
l’esposizione precoce a esperienze sfavorevoli altera l’an�
damento dello sviluppo cerebrale che, a sua volta, determina disabilità cognitiva e socio-emozionale,
seguita dall’adozione di comportamenti rischiosi per la salute» (Lanius et al., 2010, p. 189).
Nello studio ACE sono riconosciuti e differenziati diversi tipi di eventi traumatici: abuso fisico,
abuso sessuale, testimonianza di violenza domestica, abuso verbale/minacce da parte dei genitori e
interazioni genitore-figlio interrotte o disturbate (ad esempio situazioni familiari in cui un membro
ha problemi mentali o abusa di sostanze o è in carcere e perdita di un genitore per morte, divorzio o
separazione). Quindi, eventi traumatici e/o disregolazione nella qualità della relazione genitore-figlio
sono “esperienze infantili sfavorevoli”, le quali aumentano in modo sostanziale il rischio di malattia
ischemica, cancro, bronco-pneumopatia cronica ostruttiva, malattie epatiche, obesità, fratture ossee e
malattie sessualmente trasmissibili (Felitti et al., 1998); esse accrescono anche il rischio di alcolismo,
abuso di sostanze tossiche, depressione e suicidio (Anda et al., 2002; Dube et al., 2003); portano a un
uso precoce di tabacco, alcool e droga, come a comportamenti sessuali a rischio (Anda et al., 2006);
aumentano il rischio di morte prematura (Brown et al., 2009).
Lo studio ACE ha dimostrato: che la presenza di eventi avversi nell’infanzia amplifica il rischio
di malattie organiche e psichiatriche in modo direttamente proporzionale al numero e alla gravità degli eventi avversi stessi; che il punteggio ACE è correlato positivamente con i fattori di rischio per le
principali cause di morte (all’aumentare del primo corrisponde un aumento del secondo). Pertanto le
persone con un elevato punteggio ACE con il passare del tempo saranno maggiormente a rischio per
le condizioni sia di salute che di malattia.
I rimedi che sono stati “scelti” a seguito degli eventi avversi nell’infanzia per alleviare il dolore
affrontato e vissuto, che nel breve termine sono stati efficaci, portano in sé un elevato potenziale per
serie problematiche di salute nel lungo termine, quali: malattie cardiovascolari, cancro, AIDS e altre malattie a trasmissione sessuale, malattie croniche polmonari, malattie del sistema immunitario,
eccetera. «Le cause di questi problemi hanno una elevata probabilità di rimanere nascoste a causa
della vergogna, del “segreto” e di tabù sociali, e allo stesso tempo la loro esistenza permane anche nel
setting di cura a causa degli stessi meccanismi. Anche se può non essere così indispensabile lo sve25
Rossella Ardenti
Endometriosi e femminilità
lamento e la condivisione di questi eventi, i curanti devono però essere consapevoli del meccanismo
che questi fattori hanno nell’eziopatogenesi di queste malattie e offrire ai pazienti degli strumenti di
cura che permettano di trovare delle modalità di adattamento più salutari» (www.synergieaosta.com).
Attualmente, l’interesse scientifico internazionale nei confronti dello studio ACE è in aumento.
A Puerto Rico la correlazione tra gli abusi emozionali, fisici o sessuali vissuti in infanzia e la malattia
cardiovascolare femminile è stata riscontrata. In Canada, Cina, Giordania, Norvegia, nelle Filippine
e nel Regno Unito si stanno effettuando ricerche analoghe (www.cdc.gov).
Lo stretto legame tra eventi traumatici e dissociazione è oramai ampiamente riconosciuto (Liotti & coll, 2011): «la dissociazione somatoforme può manifestarsi tipicamente con la comparsa di
dolori acuti e cronici. Le memorie degli abusi fisici e sessuali possono presentarsi attraverso la sola
componente somatica (implicita) del ricordo, dissociata dagli eventi che l’hanno prodotta […] anche
se la mente non ricorda l’abuso il corpo ne ha memoria, ne tiene conto» (Ibid., pp. 57-58). Quando
gli eventi traumatici si verificano in tenera età, «può diventare adattivo un processo che può creare i
presupposti per un disturbo dissociativo di personalità. Infatti, è necessario dimenticare l’abuso per
mantenere l’attaccamento coi membri della famiglia» (Casonato, 2001, p. 9). Inoltre, sono anche am�
piamente riconosciuti gli effetti neurobiologici dell’abuso fisico, sessuale o dell’abbandono (Lanius
et al., 2010). Per esempio, si è dimostrato che l’ippocampo è particolarmente sensibile ai danni indotti
da stress precoce e le regioni mielinizzate come il corpo calloso sono vulnerabili all’impatto della
precoce esposizione a livelli eccessivi di ormoni dello stress.
Un altro filone di studi ha confermato che non è tanto l’espressione negativa o positiva delle
emozioni ad avere un effetto riscontrato sulla salute, come per lungo tempo teorizzato e ancora oggi
troppo facilmente sostenuto, quanto piuttosto la loro elaborazione che si integri armonicamente con
i fatti ed i pensieri. «Un’emozione può diventare “negativa” non per il suo contenuto, ma quando,
insufficientemente elaborata, viene negata, dissociata, confinata in un’area isolata della mente o, al
contrario, emerge in forma violenta perché insufficientemente elaborata» (Solano, 2013, p. 262).
Gli studi, tuttavia, stanno anche portando alla luce la complessità delle interconnessioni, attive
reciprocamente, tra mente e corpo. «������������������������������������������������������������
Il concetto di unità corpo/mente […] può apparire molto con�
vincente, e a qualcuno, quasi scontato, nell’attuale prospettiva culturale. Quello che le definizioni
non esprimono è l’enormità dei problemi che pongono, e che ha fatto sì, e fa sì tuttora, che nel pensiero e nel linguaggio questa posizione, che abbiamo definito “monismo non riduzionista unito a un
dualismo conoscitivo”, venga utilizzata in concreto molto raramente. Affermare che la mente e il
corpo sono la stessa cosa significa infatti attribuire al corpo le stesse caratteristiche che siamo soliti
attribuire al mentale; significa concepire un corpo che sente, risponde, soffre, gioisce, ha delle motivazioni; si costruisce nello sviluppo, fin dalla vita uterina, come un precipitato di relazioni; presenta
dei movimenti che possono avere, o assumere, un significato; presenta dei movimenti direzionali non
solo all’interno del soggetto, ma che mostrano anche una componente relazionale» (Ibid., pp. 67-68).
Secondo questa visione, «�����������������������������������������������������������������������
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il corpo, come la mente, si sviluppa all’interno delle relazioni primarie, e il suo funzionamento sarà fortemente influenzato da come queste si svolgono, fin dalla situazione intrauterina» (Ibid., p. 71). Da qui ne deriva che «il senso del somatico può essere compreso
soltanto all’interno di una relazione, come quella analitica, in cui sia possibile analizzare i movimenti della relazione stessa» (Ibid., p. 73). «Il significato di un sintomo somatico non esiste in partenza,
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Rossella Ardenti
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né può quindi essere considerato universale, ma può essere co-costruito, all’interno della relazione
analitica, esattamente come avviene per l’interpretazione di un sogno» (Ibid., p. 75).
Quanto finora scritto non è che una sintesi alquanto riduttiva della mole dei lavori che sono stati effettuati nell’ultimo ventennio (Lanius et al., 2010; Liotti & Farina, 2011; Solano, 2013; Porcelli, 2009).
Questi studi gettano nuova luce nella visione delle malattie nel suo complesso e mostrano l’ampia panoramica di un territorio ancora poco esplorato. Comunque, nonostante queste evidenze abbiano fatto assumere una posizione attiva e propositiva al Governo degli Stati Uniti d’America (www.
cdc.gov/ace), gli specialisti continuano a spendere le loro energie e a sostenere con sempre maggiore
forza quanto le malattie organiche e le sofferenze psichiche degli adulti siano riconducibili ad agenti
patogeni o a eredità genetiche e non alle offese concrete ricevute nell’infanzia.
Oggi possiamo riconoscere in Alfred Adler la grande capacità di conoscere l’uomo, l’acutezza
delle riflessioni cliniche, lo spiccato intuito innovativo e lungimirante ed anche una grande umiltà.
Adler aveva capito la complessità del rapporto mente corpo: «Non si è mai esplorato abbastanza
profondamente per stabilire in che modo il corpo venga influenzato e probabilmente non si avrà mai
una spiegazione esatta e completa di questo fenomeno. La tensione mentale influenza tanto il sistema
nervoso volontario quanto quello vegetativo. Nel sistema volontario, se c’è tensione c’è azione. L’individuo tamburella sulla tavola, si tormenta le labbra, fa a pezzetti un foglio di carta. Se è molto teso,
deve muoversi in qualche modo: masticare una matita o un sigaro fornisce uno sfogo alla sua tensione. Questi movimenti ci dimostrano che egli sente di non essere all’altezza della situazione. Lo stesso
si può dire se, quando si trova fra estranei, arrossisce, comincia a tremare o mostra con evidenza un
tic: sono tutti effetti della tensione. Il sistema vegetativo comunica la tensione a tutto il corpo, e così,
a ogni emozione, è l’intero corpo che viene a trovarsi in una situazione di tensione. Le manifestazioni
di questa tensione, però, non sono sempre così chiare, e noi possiamo chiamare sintomi solo quegli
aspetti di cui si possono individuare gli effetti. A un esame più accurato noi scopriamo che ogni parte
del corpo è coinvolta in un’espressione emotiva, e che queste manifestazioni fisiche sono la conseguenza dell’attività della mente e del corpo. È sempre necessario prendere in considerazione questo
interscambio di influenza della mente sul corpo e viceversa, dato che entrambi sono parti dell’insieme
di cui ci occupiamo» (Adler, 1927, pp. 51-52).
Per Adler, era proprio l’analisi dei casi a mostrare «molto bene l’influenza che la mente esercita
sul corpo: con ogni probabilità la mente non influisce soltanto sulla scelta di un particolare sintomo somatico; esso governa e influenza tutta la struttura del corpo. Noi non abbiamo prove dirette per confermare questa ipotesi ed è difficile vedere in che modo si potrebbe trovare una prova: gli indizi, tuttavia,
sembrano abbastanza chiari» (Ibid., p. 50). Oggi siamo, invece, molto più vicini alle “prove dirette”,
dunque alla comprensione scientifica di quanto Adler aveva osservato nella clinica un secolo fa.
V. Endometriosi e femminilità
«Il corpo è il custode della nostra vita e fa in modo che ci sia possibile vivere con la verità del
nostro organismo. Con l’aiuto dei sintomi, ci costringe ad ammettere tale verità anche a livello cognitivo, per consentirci di comunicare con il bambino che è vivo in noi e che in anni lontani è stato
disprezzato e umiliato» (Miller, 2004, p. 19).
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Rossella Ardenti
Endometriosi e femminilità
Cosa sta comunicando attraverso l’endometriosi il corpo della donna che ne è affetta? Quale “verità” custodisce quel corpo, che lascia trasparire attraverso quei sintomi? Qual è il significato di una
sofferenza così profonda e acuta che colpisce, prevalentemente, gli organi sessuali interni?
Ascoltare le donne consente di cogliere alcune relazioni tra mente e corpo (Ardenti, 2006a,
2006b, 2010b) e di dare risposte a questi interrogativi; la testimonianza di Anna sintetizza molte
esperienze (Ardenti, 2013).
Anna è una giovane donna che all’età di ventinove anni, in un giorno come tanti, sente un dolore
acuto nel basso ventre che si irradia fino alla gamba. Il giorno successivo il dolore ������������������
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persistente e decide di andare al pronto soccorso. La prima ipotesi è appendicite, così viene ricoverata d’urgenza in
chirurgia, ma c’è qualcosa che insospettisce il chirurgo, il quale ritarda l’intervento e chiede un parere
a un collega ginecologo. Il consulto, tuttavia, conduce ad una diagnosi troppo evasiva per Anna che,
grazie al suo carattere determinato, non accetta una tale diagnosi e spinge perché i medici intervengano chirurgicamente. Al suo risveglio la diagnosi è più precisa: il suo dolore era l’esito di una rottura
di una ciste endometriosica.
In quel momento sono poche le spiegazioni che le vengono date sulla malattia: viene a sapere
che si tratta di una malattia con ampi cicli di remissione e ricorrenza, le viene caldamente suggerito di
cercare quanto prima una gravidanza e le viene prescritta una cura ormonale. Anna è una donna molto
esigente per accontentarsi di queste brevi informazioni: inizia cercando in internet, acquista alcuni
libri sulla malattia e contatta un’associazione di donne affette da endometriosi. In pochi mesi raccoglie una vasta quantità d’informazioni, molte delle quali fanno apparire uno scenario sfavorevole
fatto d’infertilità, recidive, interventi e menopausa farmacologica. Poche certezze e molta angoscia.
Vuole saperne ancora di più! Il suo impegno all’interno dell’associazione diventa sempre più
attivo e partecipativo, raccoglie le storie di numerose donne e, nonostante all’apparenza si tratti di
storie molto diverse tra loro, Anna si domanda se esista qualcosa che accomuni tutte le donne con
endometriosi. L’interrogativo rimane in sospeso per qualche anno e la risposta arriva casualmente.
Per un problema di salute indipendente dall’endometriosi consulta una naturopata che, attraverso la
raccolta delle informazioni anamnestiche, viene a sapere della malattia di Anna e le fa leggere ciò che
Dahlke (2000) ha scritto sull’endometriosi: «femminilità (inconscia) nel luogo sbagliato; il proprio
ritmo viene imposto ad ambiti problematici (ciclo dove è fuori luogo); gli aspetti collaterali della femminilità su un piano sbagliato sono indomabili (l’eliminazione dei prodotti di rifiuto del mutamento
ritmico della mucosa può avvenire solo chirurgicamente); la femminilità deviata (attività tipicamente
femminili in luoghi inadatti) costringe il polo opposto ad intervenire (la medicina attiva chirurgica,
come aspetto tipicamente maschile); dolori durante i rapporti dimostrano la presenza di conflitti in
quest’ambito; la femminilità a livelli inadeguati porta al blocco della fertilità femminile» (Dahlke,
2000, p. 249).
Per Anna si tratta di quella spiegazione che cercava, nella quale si riconosce pienamente e che
può essere quel denominatore comune, da lei cercato, alle tante storie di donne così diverse che
negli anni ha raccolto. Questa breve lettura porta Anna ad elaborare la sua sintesi sull’endometriosi: «femminilità impazzita che colpisce le donne che si sottraggono inconsciamente ad un compito
archetipicamente femminile. Spesso sono colpite donne che lottano su molti fronti e che per questi
conflitti fondamentali si sono private, per così dire, della veste femminile dell’anima, per essere meno
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Rossella Ardenti
Endometriosi e femminilità
vulnerabili. Spesso tendono a prendersi troppe responsabilità e a tenere il proprio lato femminile severamente sotto controllo, per poter assolvere a ruoli così esigenti. Ma la ferita alla loro femminilità
continua a sanguinare anche di più a livello fisico e attrae così la loro attenzione su questo aspetto,
per lo meno una volta al mese» (Ardenti, 2013).
Anna inizia a riflettere su di sé e sulla sua storia e riconosce di avere ricevuto prematuramente
responsabilità da adulta che lei ha fatto sue e che ha portato avanti positivamente e con serietà; riconosce di essere diventata una “donna guerriera” e di esserlo ancora; e riconosce anche che l’endometriosi ha avuto il suo esordio in un momento della sua vita in cui la sua femminilità era particolarmente repressa, un periodo in cui teneva soffocato il suo desiderio di maternità. Per lei l’endometriosi
ha significato dare spazio a questo desiderio e, seguendo le indicazioni a lei date nel post operatorio,
dopo il ciclo di terapia ormonale a lei prescritto, cerca una gravidanza e circa un anno dopo Anna
diventa mamma di una bimba.
«Se nel corpo di una persona si manifesta un sintomo, questo attira più o meno l’attenzione su
di sé e spezza sovente in modo brusco la continuità della vita. Un sintomo è un segnale che calamita
attenzione, interesse ed energia e mette quindi in discussione tutta la normale esistenza. Un sintomo
esige da noi osservazione, che lo vogliamo o no. Questa interruzione, che sembra venire dall’esterno,
noi la percepiamo come un disturbo e in genere abbiamo soltanto uno scopo: far sparire al più presto
ciò che disturba (il disturbo). L’uomo non vuole avere disturbi, e in questo modo comincia la lotta
contro il sintomo. Anche la lotta significa attenzione e dedizione, e così il sintomo riesce a far sì che
ci occupiamo di lui. Dai tempi di Ippocrate la medicina ufficiale cerca di convincere l’ammalato che
il sintomo è un fatto più o meno casuale, la cui causa è da ricercare nei processi funzionali, che ci si
sforza tanto di studiare. La medicina ufficiale evita con cura di interpretare il sintomo e toglie quindi
importanza sia al sintomo stesso che alla malattia. In questo modo però il segnale perde la sua autentica funzione: i sintomi si sono trasformati in segnali insignificanti» (Dethlefsen & Dahalke, 1990,
pp. 20-21).
Anna, invece, ha fatto altro, ha cercato di capire qualcosa di più del proprio sintomo, andando un
po’ più in profondità per trovarne un significato (Dethlefsen, 1986). Con la sua testimonianza, Anna
mette in luce le elaborazioni e le considerazioni personali, frutto di un percorso di ricerca interiore,
caratterizzato anche da incontri e condivisione, orientato a una comprensione dell’endometriosi che
va oltre la sola spiegazione organica. Attraverso di esse, Anna ha mostrato la “voglia di verità” e la
recettività con cui ha accolto e fatto proprie interpretazioni psicologiche della malattia organica che
più spesso e per varie ragioni sono respinte e/o rifiutate e/o sottovalutate. Tuttavia, la sua ricerca si
è fermata a un primo livello di profondità; altro può venire scoperto approfondendo la ricerca nella
verità della propria storia attraverso un’analisi personale.
L’individuo non è solo un’unità indissolubile fatta di corpo e psiche, ma è anche un essere, si
evolve all’interno di relazioni con altri esseri umani e con l’ambiente. Il legame che unisce il corpo
alla psiche non è di causalità (un conflitto psichico causa una malattia organica), ma è di reciprocità
(corpo e psiche s’influenzano vicendevolmente); inoltre, un legame di reciprocità lega l’individuo
sia al contesto relazionale e ambientale in cui cresce, sia alle esperienze che vive nella propria storia.
Sul piano scientifico, l’endometriosi è una malattia complessa che potrà certamente beneficiare
degli approfonditi e innovativi studi multidisciplinari e, attraverso questi, potranno essere trovate
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Rossella Ardenti
Endometriosi e femminilità
risposte scientifiche ai numerosi interrogativi che tuttora rimangono sospesi. Non sono ancora state
pubblicate ricerche scientifiche sulla relazione tra eventi sfavorevoli dell’infanzia ed endometriosi;
tuttavia, è già stata riconosciuta e provata la correlazione tra abusi sessuali e dolore pelvico cronico e
sessualità femminile (Weaver, 2009).
Sul piano della vita, una donna che ha l’endometriosi può cercare di scoprire molto della propria
malattia se, come è accaduto ad Anna, oltre alla propria dimensione organica, si apre alla propria dimensione psicologica e relazionale, collocandole entrambe all’interno della propria “verità storica”.
Il dinamismo inconscio (cioè ricordi, emozioni e bisogni che sono rimossi, negati o scissi) «di
ogni essere umano coincide, a mio giudizio, con la sua storia, che è interamente depositata all’interno
del corpo ma rimane accessibile alla coscienza soltanto per piccoli frammenti» (Miller, 2004, p. 9).
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lare a se stessi la propria verità, riconoscere le proprie compensazioni fittizie
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e le finzioni rafforza�
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te per poi confutarle, comprendere le proprie emozioni ed avviare un’elaborazione più autentica sono obiettivi irraggiungibili in solitudine, ma realizzabili all’interno di una relazione terapeutica sicura,
attraverso un percorso che conduca verso un’armonia bio-psichica complessiva, che corrisponde a un
migliore stato di salute integrata, sia psichica sia fisica, e a una riconciliazione con il proprio passato.
Ed è attraverso il percorso di analisi, che alcune donne hanno deciso di intraprendere, passando
anche attraverso molte difficoltà e prove (Weiss, 1993; Casonato, 2001; Miller, 1996) che sono
emersi i ricordi delle esperienze infantili sfavorevoli ed i relativi vissuti, svelando così a se stesse la
“propria verità”.
L’endometriosi è una malattia che segnala la sua presenza attraverso sintomi corporei localizzati
prevalentemente negli organi sessuali interni, che sul piano psico-relazionale coinvolge aspetti dell’identità e del ruolo sessuale, di cui la femminilità occupa una parte importante, e che sul piano sociale
richiama il contesto culturale e familiare in cui la donna è cresciuta e da cui ha molto assorbito. La
sofferenza emotivo-affettivo-relazionale è troppo grande per essere sminuita considerandola solo una
reazione a una malattia complessa oppure considerando “isteriche” le donne che ne sono affette. Si
tratta di una sofferenza psichica molto profonda e variegata e di un corpo particolarmente sofferente,
quindi di un’unità biopsichica che chiede a gran voce di essere ascoltata e compresa.
«Il corpo è il palcoscenico di eventi psicologici nascosti. […] Si tratta quindi di scoprire che cosa
abbia offeso l’anima e, a tal fine, il corpo fornisce le indicazioni necessarie» (Dahlke, 2000, p. 8).
«Che ci piaccia o no (e che piaccia o no alla medicina ufficiale) i pesi del corpo e dell’anima, sui piatti
della bilancia della vita, sono simili. Se non riusciamo a superare psichicamente qualcosa, il corpo
interviene e lo fa a suo modo. Solo così, evidentemente, è possibile mantenere i piatti della bilancia
in posizione orizzontale. Se poi, alla fine, cominciamo ad elaborare psichicamente il tema, il corpo
può allentare i suoi sforzi sintomatici, la bilancia rimane in equilibrio e noi parliamo di guarigione.
L’anima ritorna alla sua responsabilità e vive consapevolmente la tematica che, prima, è dovuta essere
rappresentata inconsciamente nel corpo, mediante il quadro clinico» (Ibid., p. 28).
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Rossella Ardenti
Endometriosi e femminilità
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Rossella Ardenti
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Rossella Ardenti
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DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 35-40 (2014)
STUDI E RICERCHE
LA PSICOLOGIA INDIVIDUALE COME
“FILOSOFIA DELL’ESISTENZA”
Giorgio Bertino
Riassunto
Abstract
Si è osservato che coloro che possiedono forza di carattere, “robustezza” psicologica, creatività, ottimismo e una salda filosofia
dI vita escono da un’esperienza traumatica psicologicamente
rafforzati. Per aiutare il paziente a superare il momento critico,
che lo ha condotto alla richiesta di psicoterapia, e soprattutto
per consolidare la difesa da successive ricadute, occorre aiutarlo a costruire la “sua” filosofia. Le pagine dell’opera di Adler,
in cui dedica attenzione all’aspetto “metafisico” della sua teoria, si sono rivelate molto interessanti e utili a questo scopo.
HANS SELYE (1956)
THE INDIVIDUAL PSYCHOLOGY AS “ PHILOSOPHY OF
EXISTENCE”. It was observed that the people who possess
strength of character, psychological “resilience”, creativity,
optimism and a strong philosophy of life, come out of a
traumatic experience psychologically strengthened. To help
the patient to overcome the critical moment which led to his
request for psychotherapy and, above all, to consolidate the
defense by subsequent relapses, you should help him to build
“his” philosophy”. The pages of Adler’s work, in which he
turns his attention to the “metaphysical” aspect of his theory,
proved to be very interesting and useful to this purpose.
Parole chiave
Keywords
STRESS, FILOSOFIA DELL’ESISTENZA, TRAUMA,
RESILIENZA
STRESS, PHILOSOPHY OF EXISTENCE, TRAUMA,
RESILIENCE
«La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quanto si possa pensare, noi non dobbiamo,
ed in realtà non possiamo evitare lo stress, ma possiamo andargli incontro in modo efficace traendone
vantaggio, imparando di più sui suoi meccanismi ed adattando ad esso la nostra filosofia dell’esistenza».
I.
Hans Selye (1956), The stress of life
Premessa
La possibilità di superare il disagio, determinato da un trauma, non sempre dipende dalla
gravità obiettiva dell’evento stesso. Avvenimenti socialmente rilevanti, quali guerre, epidemie,
catastrofi naturali generano emozioni e sentimenti condivisi dalla maggior parte della collettività.
La compartecipazione, offrendo al singolo l’opportunità di esprimere, condividere e legittimare il
proprio vissuto, lo aiuta a risolvere e a dare un senso alla sua sofferenza. Al contrario, eventi non
particolarmente gravosi, ma strettamente personali, richiedono strategie di compenso da elaborare
individualmente. In questo caso, la risposta ad avvenimenti simili, può assumere connotazioni molto
diverse: ci sono persone che si arrendono davanti alle più piccole difficoltà, incapaci di reagire, altre
che riescono a trarre vantaggio dalle “brutte esperienze” tanto da uscirne psicologicamente rafforzate.
Gli studi condotti su soggetti affetti da sindrome post-traumatica da stress (PTSD) ci consentono
di conoscere le caratteristiche di personalità e i relativi processi di coping dei soggetti resistenti allo
stress acuto e cronico. Secondo Bartoli e Bonaiuto (1977) si tratta di persone dotate di:
1. sicurezza, identità e autostima, necessari per affrontare i rischi e i disagi dell’esistenza;
2. “robustezza psicologica” (hardiness), cioè resistenza, costanza, controllo e disponibilità di
fronte alla sfida;
35
Giorgio Bertino
La Psicologia Individuale come “filosofia dell’esistenza”
3. capacità di cogliere gli aspetti paradossali della realtà e del trauma (humour);
4. creatività e ottimismo.
Il potenziamento di questi aspetti caratteriali può rivelarsi utile in un progetto finalizzato alla
prevenzione del disagio e delle recidive? Quali strategie adottare?
II. Stress, intelligenza adattativa e sentimento sociale
Selye (1956) ha descritto le reazioni biologiche di un organismo ad un evento ambientale,
definendole come “sindrome generale di adattamento” (stress). Tali reazioni, adattative e difensive,
non sempre conducono al successo e possono talvolta causare danni irreversibili (distress). D’altra
parte, un certo grado di stress (eustress) può stimolare, soprattutto nell’uomo, la mobilitazione di
energie fisiche ed intellettuali per produrre nuove e migliori condizioni di adattamento.
Dalla sua prima formulazione il concetto di stress si è arricchito di precisazioni, approfondimenti
e anche la sua accezione si è trasformata: nel linguaggio quotidiano, questo termine, designa il
disagio psico-fisico-sociale più che l’insieme delle manifestazioni adattative correlate ad uno stimolo
ambientale. In entrambe le accezioni, ciò che caratterizza e differenzia gli uomini, di primaria
importanza nell’innescare le reazioni allo stress è la personalità o, ancora di più, lo “stile” con cui
si affrontano gli eventi: fattori soggettivi di tipo cognitivo ed emozionale modulano la risposta
psicobiologica allo stressor, anche quando questo è semplicemente immaginato.
Diversi esperimenti condotti su cavie in laboratorio hanno dimostrato che la produzione ematica
di markers dello stress (cortisolo) varia, in modo significativo, in rapporto alla quantità di informazioni
fornite all’animale. I topi reagiscono con una ridotta produzione ormonale se è segnalato l’avvio o
la cessazione dello shock. Rispondono, invece, con un aumento del cortisolo se l’evento è nuovo, e
quindi non prevedibile, o se è discordante dalle attese, indipendentemente dal fatto che sia più o meno
dannoso. Secondo Sapolsky (1992) l’impossibilità di controllare lo stimolo, di prevederne gli effetti
e le manifestazioni è decisivo nel favorire risposte patogene allo stress. La mancanza di feedback di
informazione attiva nel soggetto la ricerca di nuove soluzioni che, se non soddisfatte, generano ansia
e frustrazione.
La costruzione di schemi interpretativi è basilare nel determinare ciò che è stressogeno e ciò
che non lo è. La definizione di questo confine è multifattoriale: elementi personali, familiari, sociali
e culturali contribuiscono a stabilire qual è il limite di “sofferenza” che la persona ritiene di poter
affrontare in una situazione di conflitto psichico, senza incorrere in danni irreversibili. Più è “elevata”
la soglia, il “punto di rottura”, il “limite di sopportazione” dello stress (resilience), tanto più sarà
possibile il recupero psicobiologico dopo un grave trauma.
Quali sono le caratteristiche di un soggetto psicologicamente “robusto” e dotato di una buona
resilience? Quali le richieste per un collaudo efficace?
Prendiamo ad esempio un caso “eccellente”: Giobbe, il protagonista dell’omonimo libro
dell’“Antico Testamento”, simbolo indiscusso della forza di sopportazione nelle avversità. È un uomo
onesto e profondamente religioso e, con buona volontà e impegno, ha raggiunto un discreto benessere
per sé e la sua famiglia. Dio accorda a Satana il permesso di “metterlo alla prova”. A causa di questo
progetto diabolico egli perde tutti i suoi beni, il bestiame, i figli e le figlie e, da ultimo, è anche colpito
36
Giorgio Bertino
La Psicologia Individuale come “filosofia dell’esistenza”
da una malattia devastante. Ciononostante affronta sempre con coraggio e “rassegnazione” le disgrazie
che si susseguono senza mai perdere la fede. Saputo delle sue disavventure, tre amici vanno a trovarlo
per offrirgli solidarietà e conforto. L’incontro è occasione per aprire quel dibattito che è il motivo
centrale dell’opera: il tentativo umano di “comprendere” il progetto divino. La conclusione è che se
Giobbe, nonostante la sua evidente onestà, è stato punito da Dio, deve essersi macchiato di qualche
colpa che può espiare solo attraverso la sofferenza. Allora Dio si rivela agli uomini e rimprovera loro
di aver preteso di valutare, con limite umano, l’umanamente incomprensibile disegno divino. Giobbe,
compreso l’errore, può essere “riabilitato” e ricondotto ad una salute e ad una prosperità migliori di
prima.
Giobbe resiste tenacemente, nonostante l’incalzare degli eventi sfavorevoli, perché motivato da
una fede incrollabile: non solo perché crede in Dio, ma anche perché è certo di sé. Almeno finché gli
amici, esponendo le loro opinioni, non propongono una “finzione” che salva loro, “uomini giusti”,
dal rischio di essere vittime di simili imprevisti: la sofferenza come punizione di peccati “invisibili”.
Giobbe partecipa alla discussione, ma è subito pronto a riconoscere il suo errore ed a ritornare alle
certezze di prima. La religione gli conferisce robustezza ed una buona resilience, perché gli offre la
possibilità di interpretare, in ogni momento, se stesso, il mondo ed il senso degli eventi.
L’adattamento non è, quindi, un comportamento passivo o statico: l’attuazione di un efficace
“progetto” di risposta agli eventi stressogeni richiede un’attenta e realistica stima delle condizioni
oggettive e soggettive. Per formulare l’ipotesi più conveniente è necessario considerare,
simultaneamente, sia gli accadimenti intrapsichici sia quelli interpersonali. Una proficua interazione
con la realtà richiede, perciò, il possesso di schemi di valutazione capaci di interpretare e di
classificare, rapidamente, ogni elemento utile alla risoluzione dello stato di necessità. L’intelligenza,
indispensabile per realizzare queste operazioni, si avvale di facoltà diverse. Howard Gardner (1983)
afferma che ci sono sette intelligenze: l’intelligenza linguistica-verbale, l’intelligenza logicomatematica, l’intelligenza musicale, l’intelligenza cenestesica, l’intelligenza spaziale, l’intelligenza
intrapersonale e l’intelligenza interpersonale.
Soprattutto queste ultime due sono, per noi, di particolare interesse. L’intelligenza intrapersonale
è la capacità di capire se stessi, i propri bisogni e desideri, le proprie abilità e la loro applicazione.
L’intelligenza interpersonale ci aiuta a comprendere gli altri ed il loro punto di vista. La Psicologia
Individuale è attenta a sollecitare queste abilità attraverso l’incremento del sentimento sociale che,
in questo caso, è a tutto diritto definibile come “sentimento” poiché la sua radice esprime proprio la
capacità di sentire. Adler afferma che l’uomo è “sano” quando partecipa, come membro attivo, alla
comunità in cui è inserito conformandosi “alle regole del gioco della società umana”.
La richiesta di aiuto, attraverso la psicoterapia è spesso preceduta da espressioni, che sottendono
il timore di non essere “in linea” con il comportamento più diffuso, come ad esempio: “È normale
che io provi questi sentimenti?” oppure “Gli altri come si comportano in questo caso?” oppure ancora
“Chissà cosa starà pensando di me!”.
Così l’ansia, generata dall’interpretazione della propria diversità come segno di patologia, è
risolta dalla finzione di “norma” come sinonimo di normalità, mentre il recupero dell’autostima può
essere garantito dalla consapevolezza che nessuno è esente da frustrazioni ed insuccessi. Condividere
con gli “altri” comportamenti, valori e principi è, per alcuni, sufficiente a riconoscersi in sintonia
37
Giorgio Bertino
La Psicologia Individuale come “filosofia dell’esistenza”
col pensiero corrente e con le richieste della società. In questo caso, il criterio per valutare ogni altra
situazione si basa sui parametri del “buon senso comune”.
Lo “smascheramento” della finzione, adottata per convalidare il proprio vissuto, si presta ad
un successivo approfondimento. La finzione, in quanto modalità interpretativa, è utilizzata come
criterio per valutare ogni fenomeno dell’esistenza. Il carattere soggettivo e la coerenza con lo stile
di vita, ponendola al servizio della meta prevalente, la limitano ad essere solo una delle possibili
“interpretazioni” di un evento. L’esistenza di molteplici “spiegazioni” di un fenomeno offre l’occasione
di formulare, ad esempio, l’ipotesi del perseguimento di un obiettivo, come momento che unifica e
motiva ogni azione umana. L’acquisizione di una metodologia, basata sulla valutazione pragmatica
del comportamento, può essere un buon punto di partenza per un riesame del materiale raccolto nel
corso dell’esperienza. Scopo della psicoterapia adleriana è la ricostruzione dell’orientamento della
personalità, quando questo si dimostri indirizzato verso una meta fittizia. L’identificazione della
“meta” individuale e delle caratteristiche del percorso da compiere per il suo perseguimento può
essere sufficiente a motivare l’abbandono del vecchio stile di vita, improduttivo, per uno nuovo e più
efficace.
Lo stile di vita rappresenta il modo, individuale e personale, di “essere nel mondo”. Generato
all’interno di una situazione “sociale” è direttamente correlato con l’ambiente in cui si manifesta
e da cui è influenzato in modo duplice: da una parte perché le sue manifestazioni devono essere
socialmente accettabili, dall’altra perché la sua evoluzione si riferisce costantemente all’ideale di
personalità, che è un prodotto culturale. L’espressione “È normale che …” è una finzione sociale che
esprime il bisogno di conformarsi alla collettività per essere, da questa, protetti. Confrontarsi con
gli altri, condividere opinioni, principi e valori, adeguarsi alle regole di comportamento prescritte
testimoniano la propria identità come membri di una comunità.
III. La psicoterapia come filosofia di vita
“Platone è meglio del Prozac” è il titolo suggestivo di un saggio sull’uso della filosofia come
“terapia”. Marinoff (1999) ritiene che qualsiasi dubbio, sull’uomo o sulla realtà che lo circonda, può
trovare chiarimento nel “pensiero” dei grandi filosofi, poiché non c’è problema dell’esistenza che
non sia stato affrontato e risolto nel dibattito filosofico. Anche Wittengstein (1930) dimostra che la
filosofia è terapeutica poiché, cambiando le “abitudini mentali” attraverso le quali si analizzano i fatti
della realtà, porta chiarezza e consente di avere una visione più serena della realtà. La filosofia è il
mezzo per organizzare il comportamento e comprendere il mondo.
Il XX secolo sembra aver favorito il dibattito sull’evoluzione della scienza e della tecnologia a
scapito della riflessione sul rapporto uomo-società. La crisi dei valori tradizionali e delle religioni, e la
conseguente mancanza di modelli di riferimento, hanno determinato, a partire dagli anni sessanta, un
crescente interesse e un fiorente “mercato” per quelle pseudofilosofie che potremmo genericamente
definire come cultura “New Age”.
È difficile definire cosa sia in realtà la New Age. Non è un “movimento” né religioso né
filosofico. Secondo J. Gordon Melton (1994), la New Age è il tentativo di una “teologia” che abbraccia
l’intero corso della vita umana, dalla culla alla bara e oltre, un programma che prevede attività per
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Giorgio Bertino
La Psicologia Individuale come “filosofia dell’esistenza”
tutto l’anno e per tutti i livelli di aderenti. La New Age propone una visione olistica dell’uomo.
La cura dell’organismo deve essere fisica e mentale. Di fondamentale importanza sono, dunque,
la dieta vegetariana, la pratica della meditazione, l’ascolto di un certo tipo di musica, le escursioni
naturalistiche, l’astrologia e le attività di gruppo. La disponibilità di manuali, che segnalano la via
ed i metodi per ottenere un “benessere” totale, è ricca ma prevalentemente centrata su channeling (o
comunicazione con le entità del mondo invisibile), reincarnazione, astrologia, tecniche di espansione
della coscienza, medicine alternative, aspetti deboli del pensiero new ager.
Negli Stati Uniti, l’interesse per le pratiche magico-esoteriche sta subendo una notevole
deflessione, mentre in Italia, nel 1994, è stata pubblicata “La Profezia di Celestino” che, in pochi mesi,
ha superato le 100.000 copie vendute e, nel corso dello stesso anno, ha raggiunto quattro riedizioni.
“La Profezia di Celestino” di James Redfield, una sorta di testamento della New Age, promette al
lettore di acquisire, attraverso nove passi successivi o “illuminazioni”, consapevolezza, evoluzione
spirituale e coscienza della propria missione nel mondo. L’enorme successo internazionale de “La
profezia di Celestino” (tradotta in quindici lingue e venduta in tutto il mondo) nasce dalla capacità di
sintetizzare il “dissenso”, della New Age, sui temi centrali dell’origine e del destino dell’uomo. Questo
romanzo non è né un’opera letteraria né un trattato di filosofia. È espressione del bisogno, presente già
da molto tempo nel mondo “occidentale”, di interpretare il “senso della vita” in una visione diversa
da quella del Cristianesimo. Il tentativo di differenziarsi dalla “religione” fa sì che, alla fine, l’effetto
sia proprio quello di aver sostituito i “santi” con altre divinità a noi estranee per tradizione e cultura.
La “filosofia” della Psicologia Individuale ci sembra una buona interpretazione, laica ed europea,
del “cammino” dell’uomo. L’idea del comportamento, teleologicamente indirizzato al raggiungimento
della meta finale, è una finzione capace di rappresentare il senso dell’esistenza umana. Questo schema,
utilizzando il passato (primi ricordi e costellazione familiare) ed il futuro (meta) come coordinate,
simili a meridiani e paralleli, consente di individuare l’attuale posizione della persona rispetto alla
traiettoria della sua vita e alla distanza dal traguardo (meta finale). La realizzazione dei tre compiti
vitali è, in “pratica”, il senso di questo percorso.
L’unicità e l’irripetibilità della natura individuale stimolano la creatività alla ricerca di soluzioni
nuove ed originali che, oltre tutto, incrementano l’autonomia nell’affrontare le difficoltà. L’uomo,
arbiter fortunae suae, può intervenire sul corso degli eventi imponendo loro una connotazione
più favorevole. Il libero arbitrio costringe ad una maggior attenzione alle proprie azioni ed al loro
effetto sull’ambiente circostante. Va da sé che un comportamento deviante, se adottato come finzione
rafforzata, si risolverà con il superamento dell’inferiorità da cui scaturisce, mentre il perseguimento
di obiettivi “sani”, cioè non fittizi, è inevitabilmente utile anche per la società.
Nel corso della psicoterapia, insieme alla risoluzione del disagio, si acquisisce lo schema
interpretativo della Psicologia Individuale che è, a pieno diritto, una “filosofia di vita” capace di
integrarsi, senza modificarne sostanzialmente la struttura, con qualsiasi ideologia o credo.
«Vivere significa evolvere […]. La migliore rappresentazione finora concepita dall’umanità di
tale elevazione ideale è il concetto di Dio che − in quanto meta concreta della perfezione – corrisponde
più di ogni altro all’inconscia aspirazione dell’uomo a raggiungere la perfezione […]. Devo ammettere
che non ha torto chi ravvisa nella psicologia un pizzico di metafisica. Alcuni approvano, altri no.
Purtroppo molti hanno un’idea sbagliata della metafisica, pensano erroneamente che tutto ciò che non
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Giorgio Bertino
La Psicologia Individuale come “filosofia dell’esistenza”
riescono a capire direttamente sia escluso dalla vita dell’umanità […]. Speculativa o trascendente,
chiamatela come volete, non esiste scienza che non sfoci nella metafisica […]. La nostra idea del
senso comunitario quale ultima forma dell’umanità, di uno stato di cose nel quale immaginiamo
risolti tutti i problemi della vita e realizzati tutti i rapporti col mondo esterno, è un ideale che fornisce
valide direttive» (Adler, 1933, pp. 148-151).
Si tratta delle direttive che modificano la resilience rendendo più forti e capaci di fare fronte,
in futuro, a ogni altra difficoltà: il “senso della vita”, proposto da Adler, si configura come modello
interpretativo per affrontare, con successo, non solo contrarietà, ma anche eventi lieti o situazioni
nuove in cui sia necessario elaborare strategie insolite o comportamenti inusuali.
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DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 41-55 (2014)
STUDI E RICERCHE
APPLICABILITÀ DEL MODELLO ADLERIANO
ALL’INTERVENTO PSICOLOGICO IN EMERGENZA
Roberto Callina
Riassunto
Abstract
Partendo da un’esperienza diretta sul campo, ci si interroga su
quali contributi possa offrire la Psicologia Individuale di Alfred
Adler alla Psicologia dell’Emergenza, disciplina nata in Italia
da poco più di un decennio. Si individuano gli obiettivi che uno
psicologo adleriano dovrebbe porsi nel corso di un intervento in
contesti emergenziali e quali paradigmi metodologici vi si possano esportare dal setting clinico tradizionale. Il setting emergenziale, per sua natura assolutamente non strutturato, deve,
infatti, prevedere una capacità personale di uscire dagli schemi
rigidi-interpretativi più tipici dell’intervento clinico abituale a
favore di un intervento strategico, flessibile e personalizzato,
rivolto a cogliere l’unicità individuale. Appare assai rilevante
la convergenza tra Alfred Adler e una modalità, in Psicologia
dell’Emergenza, d’intervento psicosociale; una prassi che tiene in considerazione primaria gli elementi che si riferiscono al
contesto ambientale, alla fitta rete di relazioni tra le persone,
all’organizzazione degli individui tra loro e in rapporto con le
tradizioni culturali, alla dimensione sociale insita in ciascun essere umano e in grado di modularne il comportamento.
APPLICABILITY OF THE ADLERIAN MODEL TO THE
PSYCHOLOGICAL INTERVENTION IN EMERGENCY.
Based on direct experience, we wonder about what contributions
the Individual Psychology of Alfred Adler can offer to Emergency
Psychology, a discipline born in Italy just little more than a
decade ago. We pick out the goals that an Adlerian psychologist
should ask during an intervention in emergency situations and
which methodological paradigms there can be exported from the
traditional clinical setting. The emergency setting , by its very
nature not structured at all, must, in fact, provide for a personal
ability to break the rigid-interpretative schemes typical of the
clinical routine in favor of a strategic intervention, flexible and
personalized, targeted to capture the uniqueness of the individual.
It seems very significant convergence between Alfred Adler and
the method of psychosocial intervention used by Emergency
Psychology; it’s an usual practice that gives primary importance
to the elements that relate to the environment, to the close
network of relationships between people, to the organization of
the individuals among themselves and in relation to the cultural
traditions, to the social dimension innate in every human being
and able to modulate his behavior.
Parole chiave
Keywords
PSICOLOGIA DELL’EMERGENZA, INTERVENTO PSICOSOCIALE, FENOMENI CATASTROFICI, INCORAGGIAMENTO
EMERGENCY PSYCHOLOGY, PSYCHOSOCIAL INTERVENTION, CATASTROPHIC PHENOMENA, ENCOURAGEMENT
I.Introduzione
I fenomeni catastrofici legati a rapide trasformazioni ecologiche sono in continuo aumento nel
mondo (Santoianni, 1996); nel 2009 le fonti internazionali hanno registrato 335 disastri naturali che
hanno coinvolto oltre 100 milioni di persone in 111 paesi del mondo1.
Credo sia, quindi, importante che ci si interroghi sull’argomento “emergenze” da un punto di
vista psicologico e, personalmente, ritengo che Adler e le sue illuminanti idee possano essere di
grande aiuto per attuare un insieme di pratiche e di conoscenze utili a comprendere e sostenere le
menti (individuali e collettive) che fronteggiano eventi potenzialmente distruttivi, prima durante e
dopo il loro manifestarsi.
Anche perché, fin da subito, appare assai rilevante la convergenza tra Alfred Adler e una modalità,
in psicologia dell’emergenza, d’intervento psicosociale; una prassi che tiene in considerazione
primaria gli elementi che si riferiscono al contesto ambientale, alla fitta rete di relazioni tra le persone,
all’organizzazione degli individui tra loro e in rapporto con le tradizioni culturali, alla dimensione
1
Fonte WHO (World Health Organization).
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Roberto Callina
Applicabilità del modello adleriano
sociale insita in ciascun essere umano e in grado di modularne il comportamento (Bellagamba &
Fenoglio, 2005).
Il presente contributo prende spunto dalla mia personale esperienza, effettuata nel maggio del
2009, presso i campi tendati di Monticchio (AQ), in cui erano ospitati migliaia di sfollati, a seguito
della violenta scossa di terremoto che colpì l’Abruzzo nella notte tra il 5 e il 6 aprile 2009, alle ore
3,32, provocando ingenti danni e una grande paura nella popolazione. Le prime stime parlavano di
oltre 150 morti, 250 dispersi, 1.500 feriti e circa 70.000 sfollati2.
Da allora si sono verificate altre circostanze analoghe sul territorio italiano, seppur con danni
meno ingenti e molte altre nel mondo, con danni notevolmente superiori; basti ricordare il devastante
sisma che ha colpito il Giappone nel marzo del 2011.
Appare quindi evidente l’importanza di interrogarsi su quale possa essere l’aiuto dello psicologo
adleriano in tali contesti, vere e proprie emergenze umanitarie che, oltre a compromettere la salute e
l’incolumità fisica delle persone, coinvolgono anche la sfera psicologica.
Purtroppo la letteratura al riguardo, e mi riferisco a una lettura adleriana della psicologia
dell’emergenza, è davvero povera e la piccola “valigetta teorica” piena di quei concetti che negli
anni abbiamo appreso, che ben sappiamo utilizzare in ambito clinico, spesso non è sufficiente in un
contesto meno clinico di quello tradizionalmente conosciuto.
Il titolo dell’articolo apre la discussione su un tema che ritengo interessante quanto complesso
e su cui, a oggi, non trovo grandi riscontri in letteratura. L’obiettivo è di poter stimolare l’interesse
su un filone di ricerca, quello della Psicologia dell’Emergenza, ancora abbastanza inesplorato dalla
corrente di pensiero adleriana.
Non rientra nelle finalità di questo lavoro definire quali siano i confini, gli ambiti d’intervento, le
linee guida ufficiali, le norme, i modi di attivazione e i dettagli operativi burocratici di questa recente
disciplina che passa sotto il nome di Psicologia dell’Emergenza3.
Per lo scopo di questo lavoro sarà sufficiente tenere presente che «dal punto di vista psicologico
ci troviamo in uno stato di emergenza quando capiamo che la nostra vita, la nostra sopravvivenza, è
a rischio, o quando capiamo che è a rischio la vita delle persone a cui vogliamo più bene, il nostro
coniuge o i nostri figli» (Axia, 2006, p. 13).
«Un contesto d’emergenza è una situazione interattiva caratterizzata dalla presenza di una
minaccia; da una richiesta di attivazione rapida e di rapide decisioni; dalla percezione di una
sproporzione improvvisa tra bisogno (cresciuto per intensità, ampiezza, numerosità, ritmo) e
potenziale di risposta attivabile dalle risorse immediatamente disponibili; da un clima emotivo
congruente» (Sbattella, 2009, p. 21). L’intento è quello, quindi, di attualizzare il pensiero di Adler il
cui sguardo era rivolto oltre i confini del setting, o meglio, era rivolto al “suo” setting, che era l’intero
mondo. In piena coerenza con tale slancio viaggiavano le sue scelte personali e professionali, la sua
abitudine a discutere di psicologia nei luoghi della “chiacchiera” amichevole, come i tavolini dei
caffè viennesi o le assemblee di genitori, insegnanti e cittadini comuni (Varriale, 2005)
Saper andare “oltre i confini del setting” è esattamente una delle principali caratteristiche di cui
2
“Corriere della Sera” del 6 aprile 2009.
3
Per gli approfondimenti al riguardo rimando il lettore ai testi di Axia (2006), Sbattella (2009), Young, Ford, Ruzek, Friedman, &
Gusman (2002), citati in bibliografia.
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Roberto Callina
Applicabilità del modello adleriano
uno psicologo in emergenza deve essere dotato; la capacità di sapersi adattare al sociale, al nuovo,
all’inatteso, al diverso, a tutto ciò che non è preventivabile, a tutto ciò che inevitabilmente allontana
dalla sicurezza del proprio studio; la curiosità di voler conoscere l’uomo nella sua unicità, nella sua
irripetibilità, nella sua individualità e, allo stesso tempo, l’uomo così interdipendente dal suo mondo
sociale, dalla convivenza con i suoi simili, dalla compartecipazione emotiva con l’altro, l’uomo così
indivisibile e così ugualmente relazionale; la curiosità di conoscere l’uomo nel, e con il suo, stesso
ambiente emotivo-relazionale; la curiosità di voler scendere in campo e il coraggio di mettersi in
gioco in prima persona con e per l’altro.
E chi meglio di Adler può incarnare il modello dello psicologo sociale cui mi riferisco? Proprio
Alfred Adler che provava un genuino interesse per tutti gli esseri umani e compassione per le loro
sofferenze, che per primo aveva concepito ed espresso idee originali nel campo della medicina sociale,
che dedicò molti anni della sua vita alle organizzazioni per l’educazione terapeutica e che può essere,
a tutti gli effetti, considerato il padre di una psicologia sociale e pragmatica che ci fornisce principi in
grado di acquisire una conoscenza pratica di noi stessi e degli altri (Ellenberger, 1970).
“Che cosa succede al sé creativo dell’individuo nel momento in cui la sua progettualità è messa
a dura prova da un evento catastrofico?”; “cosa cambia nel sistema finzionale individuale?”; e ancora
“che fine fa il sentimento sociale nel contesto emergenziale, quando le condizioni di vita comunitaria
mettono a dura prova l’individuo?”.
Saranno queste le domande cui cercherò di rispondere, integrandole con la mia personale
esperienza sul campo, per provare a tracciare alcune linee guida per un intervento in contesti di
emergenza in ottica adleriana.
II. Descrizione del contesto: campi di accoglienza per sfollati di Monticchio (AQ)
II. 1. Organizzazione generale dei campi
I due campi di Monticchio 1 e Monticchio 2 erano gestiti e coordinati da Regione Lombardia
che, grazie a squadre di volontari operanti nei diversi ambiti di necessità, si occupava di far fronte a
tutte le esigenze di natura pratica, organizzativa, logistica e di salute fisica e mentale. Le squadre di
volontari, inviate da associazioni autonome, eseguivano turnazioni settimanali con inizio del turno
nella giornata di sabato.
Ogni squadra aveva una sua specifica funzione e una propria autonomia gestionale, ma era
costantemente in coordinamento con la direzione del campo, che si occupava prevalentemente di
raccordare le varie attività, al fine di dare un senso unitario alla vita di campo e di meglio rispondere
alle esigenze dei residenti; a tale scopo erano previste riunioni giornaliere, in orario serale, cui
partecipavano tutti i capisquadra referenti di ogni singolo ambito operativo.
II. 2. La comunità
Al nostro arrivo, il quadro comunitario all’interno del campo di Monticchio 1 presenta una
grande complessità caratterizzata da aspetti di criticità non sottovalutabili. Conseguentemente
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Roberto Callina
Applicabilità del modello adleriano
all’evento sismico sono stati, infatti, riuniti, presso il campo, ospiti provenienti da differenti contesti:
residenti locali della cittadina colpita dal terremoto e cittadini provenienti da altre zone della regione.
I residenti di Monticchio, in minoranza rispetto al numero complessivo di ospiti del campo (circa 600
persone in tutto), manifestano disagio per la situazione e temono che, con la futura riedificazione, il
loro contesto comunitario possa risultare mutato dalla presenza di questi nuovi nuclei familiari, molti
dei quali appartenenti ad altre etnie (macedoni, marocchini, albanesi e rumeni).
È come se la naturale progettualità umana, la spinta motivazionale verso la mèta di sicurezza, oltre
ad essere stata minata dalla catastrofe, sia rimasta imbrigliata in una nuova finzione disfunzionale:
“Nulla potrà più essere come prima”.
Lo scoraggiamento che si respira tra la gente sembra evidenziare una paralisi del Sé creativo degli
individui, è come se avessero perso il loro potere creativo, “come se” non riuscissero più a immaginare
un futuro, a riprogettare un piano di vita che tenga conto della nuova catastrofica situazione; “come
se” l’interpretazione creativa di tale esperienza fosse impossibile.
Sempre gli stessi esprimono biasimo nei confronti della direzione del campo per la scelta di aver
accolto in questa zona quelli che considerano dei “forestieri” e citano, ad esempio, quanto accaduto
presso il campo di Monticchio 2 dove, invece, risiedono quasi esclusivamente famiglie locali.
Tra i due gruppi è pressoché assente l’integrazione. Questo comporta che la partecipazione alle
attività del campo sia limitata a poche unità; la maggior parte dei locali rifiuta di impegnarsi a favore
di coloro che ritiene degli estranei. Gli stranieri viceversa mostrano disinteresse ed appaiono, anche
per questioni linguistiche, poco contattabili.
Il sentimento sociale, che nella prima fase dell’emergenza ha spinto tutti, indistintamente, a
una compartecipazione emotiva attiva, a vivere un senso di appartenenza con il gruppo colpito dalla
stessa calamità, sembra ora essersi dissolto; gran parte degli ospiti sembra ragionare secondo una
logica assolutamente “privata”, non preoccupandosi dell’altro, non considerando l’importanza della
comunità, del bene comune, dello sforzo collettivo necessario ad uscire vincenti dall’emergenza.
Differente è la situazione che riscontriamo presso il secondo campo di nostra competenza
(Monticchio 2) in cui il minor numero di ospiti (circa 300), la loro provenienza dal medesimo
contesto socio-culturale, la collaborazione attiva che, fin da subito, si è innescata tra i vari membri e
con le squadre dei soccorritori, inclusa la direzione del campo, evidenziano un contesto comunitario
decisamente più propenso a una pacifica convivenza, dove il sentimento sociale sembra essere l’arma
vincente per combattere la situazione di crisi, dove il potere creativo individuale, seppur fortemente
compromesso dall’evento traumatico, sembra ricercare soluzioni che possano dare di nuovo un
significato all’esistenza.
Da un punto di vista individuale anche in questo campo non mancano, tuttavia, episodi di
scoraggiamento, situazioni che necessitano di monitoraggio e richieste di colloqui di natura clinica.
II. 3. Obiettivi e funzioni in carico all’équipe che opera in ambito psicologico
Esiste oggi anche in Italia un certo consenso sui tempi e modi per coinvolgere i professionisti
della psiche nei contesti di emergenza (Sbattella, 2009).
Tale consenso è aggregato attorno ad una direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri,
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Applicabilità del modello adleriano
pubblicata nel 2006 e concordata tra Stato e Regioni4.
Non ritengo necessario dilungarmi sul dettaglio di tutti gli obiettivi previsti dalla direttiva citata;
sarà sufficiente, ai fini del contributo, ricordare che le manovre prioritarie previste identificano un
intervento mirato alla tutela della salute psichica attraverso l’attivazione di tutte le risorse personali
e comunitarie.
In un contesto emergenziale mente, corpo, legami sociali e territorio costituiscono un sistema
unitario; l’intervento, in ottica bio-psico-sociale, deve tener conto di questa complessità e saper
valutare gli effetti di ogni azione a tutti gli altri livelli (Sbattella, 2009).
L’intervento deve garantire la raccolta delle domande di aiuto spontanee oltre a processi
d’identificazione attiva dei bisogni, riconoscendo ad ogni destinatario il diritto di operare scelte
consapevoli riguardo alla propria salute, tutelandone la dignità ed il rispetto in tutte le azioni di
soccorso; deve, altresì, tenere in alta considerazione le differenze e le specificità culturali dei destinatari
affinché non insorgano processi di stigmatizzazione.
In base a tali obiettivi, alle linee guida fornite da accreditati autori (Axia, 2008; Sbattella, 2009;
Young, Ford, Ruzek, Friedman, & Gusman, 2002), a quelle ufficialmente redatte dall’Inter Agency
Standing Committee -IASC- (2007) e alla mia personale esperienza sul campo, possiamo identificare
un nucleo di funzioni che fanno capo all’équipe di psicologi che operano in un contesto di questo
genere:
• identificazione dei bisogni psico-sociali della popolazione colpita;
• organizzazione di attività cliniche, sociali e ricreative per bambini, adulti ed anziani;
• mantenimento del coinvolgimento attivo della comunità;
• monitoraggio costante delle dinamiche comunitarie per l’individuazione attiva di situazioni a
rischio;
• mediazione socio-culturale tra i residenti, tra i differenti gruppi etnici e con il management del
campo.
In realtà, le funzioni richieste a uno psicologo dell’emergenza sono molto più estese e includono
ruoli organizzativi e gestionali che si realizzano attraverso il coordinamento di progetti complessivi o
specifici programmi (Sbattella, 2009). Tuttavia, ai fini di questo contributo, ritengo utile focalizzare
l’attenzione solo su quegli aspetti di natura clinica, sociale, educativa e di comunità di cui, peraltro,
ho fatto esperienza diretta.
Ad integrazione delle attività proposte tengo a precisare, in un’ottica adleriana, quali siano gli
obiettivi che personalmente mi sono posto nel corso dell’intervento:
• favorire lo sviluppo del sentimento sociale, laddove l’evento traumatico abbia minato fortemente
la capacità individuale di cooperare, di compartecipare emotivamente con l’altro; laddove la
visione di un progetto comune, di un fine comunitario, di una collaborazione attiva e fattiva sia
stata soppiantata da una logica individuale e privata;
• incoraggiare la riattivazione del “potere creativo” individuale qualora sembri essere paralizzato o
comunque rivolto a finalità immediate volte “sul lato inutile della vita”; in altri termini, favorire
4
Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 13/06/2006 (GU 29/08/2006 n. 200). Criteri di massima sugli interventi psicosociali da attuare nelle catastrofi.
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Applicabilità del modello adleriano
la ricostruzione di un sistema finzionale adattivo e adeguato alla mutata situazione; infatti, «dopo
un’emergenza che ha provocato traumi e dolori e sconvolgimenti della vita quotidiana, le persone
devono non solo ricostruire, cioè riparare i danni, ma devono anche costruire, cioè trovare un
senso, un significato alla vita che va avanti in circostanze ormai mutate irrevocabilmente» (Axia,
2006, p. 91).
III. Riflessioni per un intervento in emergenza con l’adozione del modello adleriano
III. 1. Premessa
Credo sia doverosa una premessa concettuale che giustifichi alcune delle riflessioni che
seguiranno, qualora possa apparire al lettore che il pensiero adleriano sia stato contaminato da
considerazioni appartenenti a una matrice teorica differente; saranno, infatti, citati autori che nulla
hanno a che vedere con la tradizione adleriana.
In realtà, trattandosi di una dottrina relativamente nuova e poco approfondita dalla Psicologia
Individuale, lo sforzo sarà proprio quello di integrare le originali intuizioni di Adler con la mia
personale esperienza e con le idee di quanti hanno tracciato un itinerario teorico-metodologico della
Psicologia dell’Emergenza in una cornice concettuale differente.
In quest’ottica mi sento di condividere il convincimento di Leccardi (2009), secondo cui, «il
confronto con l’attualità e con le problematiche che vengono portate riguardi, inevitabilmente, la
Psicologia Individuale. […] non può, inoltre, che esserci un “mettersi allo specchio” partendo dalle
intuizioni geniali del proprio fondatore e cogliendo allo stesso tempo quegli elementi che hanno
modificato profondamente il pensiero e i modi di vivere della società occidentale nel secolo che è
intercorso dalle prime formulazioni teoriche di Alfred Adler ad oggi» (p. 18).
Nella medesima direzione vanno, peraltro, le considerazioni di Rovera e Ferrigno (2006): «nel
futuro della ricerca l’adlerismo dovrà confrontarsi costantemente con altri modelli e indirizzi, non
dovendo peraltro venir meno ai principi teorico-pratici compatibili con la metodologia scientifica e
con il recupero del significato profondo dell’individuo umano» (p. 3).
In ultima analisi vorrei qui condividere il pensiero di Varriale (2009), secondo cui il modello
adleriano conterrebbe “in nuce” una forte impronta cognitivo-costruttivistica, un approccio di comunità,
una visione ottimistica e incoraggiante; un modello che fu un precursore non soltanto delle psicoterapie
interpersonali, umanistiche, esistenzialistiche e della psicologia dei «costrutti personali», ma anche
degli orientamenti che attualmente caratterizzano la ricerca e l’applicazione in psicologia positiva.
III. 2. L’incoraggiamento empatico
Ritengo utile condividere con Garibaldi, Nassi e Tesa (2004), la constatazione che «il modello
adleriano, grazie alla sua peculiarità di porre enfasi sul rapporto paritario con il paziente e sulla sua
semplicità di linguaggio, ha dimostrato di avere già dai primi incontri caratteristiche di accoglienza,
comprensibilità ed efficacia, che risultano facilitare il contatto terapeutico. I pazienti mostrano di
comprendere il lessico del terapeuta e – più avanti – di acquisirlo, riuscendo a esprimere in modo più
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Roberto Callina
Applicabilità del modello adleriano
particolareggiato il proprio disagio psichico, sentendosi accolti e incoraggiati» (p. 127).
Quest’aspetto mi sembra particolarmente rilevante in un contesto in cui i tempi d’intervento
devono essere concretamente rapidi; già dal primo contatto lo psicologo deve riuscire a creare un
clima empatico ed accogliente e gettare le basi per una “relazione terapeutica” che non durerà nel
tempo, una “relazione terapeutica” destinata a finire molto presto; l’obiettivo è anche quello di
preparare il terreno per il passaggio di consegne a un nuovo operatore che verrà a sostituirlo nella
turnazione successiva.
Incoraggiare in emergenza significa «mantenere un atteggiamento di fiduciosa pazienza» (Axia,
2006, p. 179), permettere, attraverso la propria umanità, «alla vera umanità dell’altro di ristabilirsi e
di funzionare al meglio: riflettere, piangere, sentire, abbracciarsi, fermarsi, quietarsi e pensare, agire
intelligentemente, prendersi cura degli altri, sperare» (Ibid., p. 161); incoraggiare adlerianamente,
in un contesto d’emergenza, significa primariamente esserci, mettendosi in gioco in prima persona;
significa saper ascoltare profondamente ed attivamente, accogliendo le emozioni difficili senza
soffocarle con giudizi, suggerimenti o interpretazioni (Varriale, 2009).
È necessario creare una comunicazione autentica se vogliamo “ascoltare” il dolore dell’altro, per
immedesimarci nella sua vita interiore, per sondare, condividere, vivere e rivivere le sue emozioni; è
ciò è tanto più intenso e terapeutico quanta più passione è in noi (Borgna, 2001, 2011).
La tragedia che colpisce la popolazione è spesso vissuta come un limite personale; la causa
esterna, facilmente, diviene interna, si trasforma in un limite avvertito come appartenente al Sé, in
un’inferiorità percepita rispetto al proprio essere.
L’incoraggiamento rappresenta quindi, come suggerisce Canzano (2009), un’intenzione di base;
si pone, rispetto all’inferiorità vissuta dal paziente, di fronte nell’ascolto, accanto nella ricerca di un
senso, dentro nella trasformazione del limite in misura. L’essenza dell’aiutare consiste nell’indurre gli
individui a minimizzare l’impatto di fattori incontrollabili (nel nostro caso l’evento sismico) e a far si
che ottimizzino l’uso di quelli controllabili per arricchire le loro esperienze di vita (Sweeney, 1998).
L’incoraggiamento, nel contesto d’emergenza, deve tener conto di un focus aggiuntivo, il lutto,
che corrisponde anche alla rapida conclusione della relazione terapeutica; si traduce anche nel cercare
insieme di dare una nuova progettualità all’individuo e alla comunità (Ferrero, 2009); ha a che fare
con la capacità di attivare, nella persona in difficoltà, un processo diretto all’autonomia (Varriale,
2009).
Ho potuto personalmente constatare che non esiste una “tecnica” efficace d’incoraggiamento
che possa essere codificata e che sia valida per tutti gli individui: ciò che realmente conta, e fa la
differenza, è il “coraggio”, inteso in senso adleriano, dell’operatore, la sua capacità di esserci, di
mettersi in gioco, di comprendere che ogni comunicazione e relazione che si sviluppa in emergenza
è densa di emozioni complesse differenti da individuo a individuo; è necessaria una sensibilità
relazionale attenta alle differenze individuali e culturali, una capacità di differenziare e calibrare il
proprio comportamento in relazione ai diversi interlocutori (Sbattella, 2009).
«Il counselor efficace è quello che punta a rendere la persona, il gruppo, l’organizzazione partecipe
ed empowered (più «potente», nel senso di più efficiente, efficace e più autonomo nell’affrontare
situazioni difficili e più capace di fronteggiare gli stressor derivanti da tali situazioni). È quello che
aiuta empaticamente l’utente a guardare al problema da altre prospettive interpretative affinché possa
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Applicabilità del modello adleriano
“costruire” diverse mappe di significato e muoversi nella direzione critica del cambiamento. È quello
che aiuta l’helpee ad uscire dal circolo vizioso dell’autoscoraggiamento e del pensiero pessimistico
[...]; dovrebbe puntare […] a trasmettere all’helpee un senso di speranza, una modalità di pensiero
razionale-emotivo positivo ed emancipante» (Varriale, 2009, p. 91).
Il punto cardine su cui dovrebbe ruotare tutta la strategia d’incoraggiamento è rappresentato
dal concetto, ormai forse inflazionato e utilizzato da molti autori di orientamenti teorici differenti,
di empowerment. Tale costrutto, introdotto originariamente da Rappaport (1997), si riferisce alla
capacità di fronteggiare gli eventi stressanti, utilizzando e stimolando competenze e risorse sul campo
in grado di dare risposte costruttive agli eventi di natura problematica; personalmente intendo definire
con questo termine il mantenimento di un coinvolgimento attivo della comunità; in altre parole,
incoraggiare il singolo e la collettività a una partecipazione attiva in tutte le fasi dell’emergenza,
enfatizzando e valorizzando le qualità, le capacità e le potenzialità inespresse dei membri che la
compongono.
Il processo di empowerment dovrebbe mirare a sviluppare l’autonomia e ad incrementare il
controllo e le competenze di coping, ossia di fronteggiamento degli eventi stressogeni; il suo obiettivo
è quello di favorire una partecipazione attiva e consapevole dell’individuo alla vita della comunità,
riducendo al minimo la delega allo specialista (Varriale, 2009).
È fondamentale la rinuncia, da parte dei soccorritori, alla tentazione di credersi gli unici competenti
nella situazione di crisi al fine di contrastare, nella popolazione soccorsa, sentimenti d’impotenza,
scoraggiamento e perdita di controllo sul territorio (Sbattella, 2009).
Ho potuto constatare che il processo d’incoraggiamento in un’ottica di empowerment, spesso,
avviene in modo quasi spontaneo, inconsapevole; per citare Ferrigno (2008, 2010), possiamo dire
che la comunicazione intenzionale implicita viene a crearsi in maniera automatica, inconscia,
preriflessiva; la vicinanza emotiva tra menti, di per sé riparativa ed incoraggiante, tende a creare uno
spazio mentale intersoggettivo noi-centrico condiviso; l’emergenza favorisce la vicinanza tra menti
che diviene, essa stessa, il primo strumento di lavoro laddove l’interpretazione di quanto il terapeuta
abbia compreso dell’impianto finzionale del paziente perde di pregnanza.
Si può desumere che, anche in emergenza, nonostante il tempo d’intervento sia decisamente
ridotto rispetto ai tempi classici di una psicoterapia, ciò che cura, ciò che stimola veramente il
cambiamento e l’accettazione del limite è la genuinità della relazione; «intervenire professionalmente
sugli aspetti relazionali dei momenti di crisi significa saper gestire le emozioni, proprie ed altrui,
saper lavorare con le dimensioni che sostengono le azioni personali e quelle collettive, che motivano
i piani d’azione e le organizzazioni stesse» (Sbattella, 2009, p. 54).
III. 3. Favorire lo sviluppo del sentimento comunitario
Alcuni studi condotti in contesti emergenziali avrebbero ipotizzato che, all’interno della
comunità colpita dall’evento traumatico, spesso si riscontrino dinamiche altruistiche, che vi sia
un’intensificazione dell’identificazione con la collettività. L’esperienza del disastro sembrerebbe
quindi rafforzare il senso di appartenenza e tutto tenderebbe verso un comune scopo (Lavanco, 2003).
Tuttavia in base ad altre evidenze (Sbattella, 2009; Villone Betocchi, 1992), confermate anche
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Roberto Callina
Applicabilità del modello adleriano
dalla mia personale esperienza, sembra che il dover vivere a stretto contatto forzato, quando la
quotidianità del pre-emergenza permetteva di evitare il confronto, può portare alla slatentizzazione di
conflitti e dinamiche aggressive in precedenza sopite, oltre che a processi di disgregazione in gruppi
normalmente funzionali.
È molto importante, quindi, entrare nella logica delle dinamiche comunitarie per prevenire
episodi violenti e per incoraggiare lo sviluppo di un sano sentimento comunitario.
Agire in emergenza significa spesso cercare di dimostrare che laddove il singolo soccombe
il gruppo può sostenere (Sbattella, 2009); la fragilità del singolo, colpito dall’evento tragico, può
divenire forza, se uno degli obiettivi che ci poniamo è quello di rinsaldare i legami comunitari.
Sappiamo che il sentimento sociale rappresenta una vera e propria necessità umana, che trae
le sue origini nel primitivo bisogno di tenerezza del bambino, posta al servizio di due obiettivi
fondamentali: l’interesse comunitario e la compartecipazione emotiva.
L’interesse comunitario si esprime nell’intima necessità di cooperare con la collettività in cui
l’individuo vive; la compartecipazione emotiva rappresenta un processo dinamico mediante cui
l’individuo condivide emozioni con i propri simili (Parenti e coll, 1989).
Questo è valido anche, e soprattutto, in un contesto d’emergenza, in cui il singolo, senza il
supporto e la condivisione con l’altro, è destinato a fallire. Del resto, le recenti scoperte di Gallese,
Fadiga, Fogassi, e Rizzolatti (1996) sembrano confermare le intuizioni di Adler (1912, 1920, 1927,
1933, 1935) anche in una prospettiva neurofisiologica: i “neuroni specchio” confermano, infatti, una
consonanza intenzionale con il mondo dell’altro, resa possibile non solo dal fatto che condividiamo
le medesime modalità d’azione, le stesse sensazioni ed emozioni, ma anche perché condividiamo
fisiologicamente con l’altro alcuni dei meccanismi nervosi che presiedono quelle stesse azioni,
sentimenti ed emozioni.
In altre parole, le evidenze empiriche suggeriscono che le stesse strutture nervose coinvolte
nell’analisi delle sensazioni ed emozioni esperite in prima persona sono attive anche quando tali
emozioni e sensazioni vengono riconosciute negli altri. Il meccanismo di simulazione non è quindi
confinato al dominio dell’azione ma appare essere una modalità di funzionamento di base del nostro
cervello quando siamo impegnati in una qualsivoglia relazione interpersonale (Gallese, 2007).
Tale conferma, su base biologica, rafforza il concetto di sentimento sociale e lo rende in una
certa misura “specie-specifico”, caratteristica dell’uomo in quanto tale, irrinunciabile in quanto
biologicamente determinato. Bisogna, quindi, permettere che l’esperienza d’impotenza, di fallimento,
di sopraffazione, di scoraggiamento venga condivisa empaticamente con il gruppo sociale;
diversamente il rischio è che prenda il sopravvento la “logica privata” individuale, che il singolo cessi
di cooperare nelle attività quotidiane e aumenti il proprio distacco emotivo dal resto della comunità.
Tale attenzione tende anche a prevenire l’accanimento, da parte di alcuni, su soggetti che assolvono
la funzione di capri espiatori, su cui indirizzare rabbia e aggressività (Sbattella, 2009). È necessario che
il singolo continui a sentirsi emozionalmente legato alla collettività, che, per dirla in termini adleriani,
mantenga desto il sentimento sociale che l’emergenza può aver temporaneamente sopito.
L’intervento di gruppo, in emergenza, al fine di sviluppare il sentimento comunitario, può
tradursi nella narrazione di sé; una narrazione rivolta non solo al passato, ma che esprime anche
la proiezione verso il futuro.
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Applicabilità del modello adleriano
Nella riflessione autobiografica, così ricca di anticipazioni, progetti, proiezioni e speranze è
fortemente presente il tempo dell’avvenire; ed è proprio dalla dimensione del futuro che è possibile
innescare un fruttuoso processo d’incoraggiamento di matrice adleriana. «Pensare in modo narrativo
sembra, peraltro, alimentare lo sviluppo della weness (il sentimento di «noità»-interdipendenza
affettiva di uno psicogruppo), la capacità di compartecipazione e collaborazione con gli altri
(l’adleriano Sentimento Comunitario), per realizzare i propri progetti e imparare a rispettare quelli
altrui» (Varriale, 2009, p. 223).
In quest’ottica ritengo possa essere favorevole anche l’utilizzo di una strategia di peer education,
che mira a recuperare «i potenziali della relazione tra pari (vision, patrimonio esperienziale e codici
linguistico-comunicativi comuni) e potenzia in un approccio di empowerment le competenze
psicosociali di soggetti, che, opportunamente formati, favoriranno nel gruppo di appartenenza
esperienze di cooperazione, sostegno reciproco, negoziazione e risoluzione condivisa dei problemi»
(Orlando e Varriale, 2004, pp. 135-136).
Emblematica in tal senso, nel campo di Monticchio 1, è stata l’attività svolta con i “rappresentanti
di via”; sono state individuate figure con caratteristiche di natural helper, con i quali si sono tenuti
incontri programmati volti a potenziare le personali competenze relazionali. I rappresentanti sono stati
quindi “utilizzati” come facilitatori per sviluppare la cooperazione e la compartecipazione emotiva tra
gli ospiti del campo; il coinvolgimento a cascata derivante da tale strategia si è tradotto in quella che
Orlando e Varriale (2004) definiscono “esperienza di apprendimento intersoggettivo”; un’esperienza
di tipo collaborativo nello sviluppo della pro-socialità intesa in termini di interdipendenza positiva in
un’ottica di empowerment individuale e di gruppo.
La promozione della pro-socialità, nell’adulto, ha come effetto benefico anche la costruzione di
un ambiente educativo funzionale ai bisogni di crescita dei bambini, scossi anch’essi dalla catastrofe,
proprio nel pieno sviluppo del loro personale modo di interpretare gli eventi, del loro mondo finzionale.
È comunque necessario, parallelamente, organizzare spazi in cui i bambini possano, attraverso il
gioco, incontrarsi, condividere esperienze ed emozioni, cooperare tra loro per affrontare, affiancati da
figure adulte incoraggianti, l’esperienza traumatica e coltivare il sentimento comunitario.
Ho potuto constatare personalmente che, come suggerito anche dalla letteratura specializzata
in emergenza (Axia, 2006; Sbattella, 2009), un robusto “facilitatore sociale” è l’umorismo, la cui
funzione è quella di rafforzare le relazioni come una “specie di collante”.
Ritengo che, se utilizzato e stimolato nella giusta misura, in modo creativo e con intelligenza pratica
ed emotiva, possa essere un utile strumento per favorire lo sviluppo del sentimento comunitario,oltre
a facilitare la prevenzione di fenomeni di burn-out tra gli operatori dell’emergenza.
III. 4. Comprendere l’unicità individuale e riorientare il “Sé creativo”
Comprendere lo specifico significato che gli eventi assumono per il soggetto favorisce il processo
di aiuto nella ricerca di senso alle proprie reazioni e fa in modo che l’evento possa essere pensato,
elaborato ed integrato come parte significativa dell’esistenza conscia (Sbattella, 2009).
La ricerca ha dimostrato che la relazione tra gli eventi stressanti e catastrofici della vita e lo
stress percepito dal singolo individuo non è lineare; l’effetto degli stressor sarebbe, infatti, fortemente
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Roberto Callina
Applicabilità del modello adleriano
mediato da variabili individuali (Cassidy, 1999); molto dipenderebbe dal modo in cui i soggetti
percepiscono, classificano e “significano” gli eventi (Sbattella, 2009); evidentemente l’interpretazione
dell’episodio calamitoso è del tutto personale e risponde alle caratteristiche di unicità individuale.
È importante, quindi, in un contesto d’emergenza, non generalizzare a priori e comprendere
quale sia il vissuto soggettivo del singolo per favorire l’instaurarsi di una relazione sinceramente
empatica.
È facile accorgersi, parlando con i superstiti di un evento calamitoso, che il “Sé creativo” appare
spesso paralizzato, forse ripiegato su se stesso in un circolo vizioso senza via d’uscita, o comunque si
muove in modo da contrastare la precedente dinamica di aspirazione alla superiorità, verso mete che
non sono facilmente intuibili ma che sono, certamente, mutate rispetto al pre-emergenza.
La progettualità appare bloccata; è “come se” non ci fosse più spazio mentale per interpretare
l’esperienza traumatica legata al vissuto catastrofico; la necessità di “costruire un senso” diviene allora
prioritaria. La ricerca di un senso, di un significato, in una visione finalistica, può essere facilitata
dalle strategie narrative di cui ho già accennato nel precedente paragrafo.
L’intelligenza narrativa di cui parla Bruner (1990) rappresenta, infatti, lo strumento migliore
per attribuire significato agli eventi offrendo il vantaggio di organizzare i dati di realtà attraverso
la mediazione di “soggetti agenti” dotati di intenzionalità, scopi, desideri e valutazioni soggettive;
in questo modo, attraverso la narrazione, si facilita una rilettura dei fatti in una visione finalistica
e “scopistica” degli stessi, si ha la sensazione di padroneggiare il processo da cui si viene travolti.
La costruzione di senso, oltre che al significato, si riferisce quindi anche alla direzione verso cui
sembrano organizzarsi alcune concatenazioni di eventi (Sbattella, 2009). «Davanti ai problemi di
significazione e senso posti dalle emergenze, gli specialisti […] dovrebbero anche caratterizzarsi
per una forte capacità di strutturare contesti, facilitare le interazioni sociali costruttive, ricollocare le
azioni apparentemente incomprensibili all’interno degli sfondi di riferimento, usare molte tecniche di
tipo narrativo.» (Ibid., p. 116).
Axia (2006) parla di routine quotidiane spezzate dall’evento traumatico; la routine quotidiana
medierebbe gli incontri con la realtà esterna e le personali esperienze creando particolari sistemi di
significato organizzati in script cognitivi (copioni) per agire nell’ambiente sociale, in schemi ambientali,
riferiti al cosa trovare e dove trovarlo, e in concetti basati sui prototipi più frequenti nell’ecocultura
di riferimento. Ritengo che le routine quotidiane, di cui parla Axia, siano parte del costrutto adleriano
di Sé creativo, siano la controparte comportamentale delle finzioni; gli script altro non sono che i
personali “schemi appercettivi”. L’esperienza, la costruzione delle proprie mete di superiorità, del
proprio piano di vita, si modulano anche attraverso la quotidianità, attraverso il significato personale
che viene attribuito alle azioni quotidiane, oltre che ai pensieri e alle emozioni ad esse associate.
Quando la routine è spezzata, le persone devono re-imparare il mondo, avvertono un senso di
smarrimento giacché le normali motivazioni all’azione non sono più applicabili alla nuova realtà,
cessano di funzionare in modo automatico (Axia, 2006); le giornate trascorse in un campo sono tutte
uguali, non c’è differenza tra il martedì e la domenica, non ci sono significative differenze neppure
tra l’alba e il tramonto.
È per questo che credo sia fondamentale favorire una strutturazione del tempo, facilitare
l’organizzazione di attività ludiche, ricreative, educative, lavorative, rivolte alle varie fasce di
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Roberto Callina
Applicabilità del modello adleriano
popolazione interessata (bambini, adulti, anziani) che consentano di cominciare a riprogettare la
quotidianità; le nuove routine quotidiane potranno favorire la ristrutturazione di un senso (significato e
direzione) nell’ottica di una nuova progettualità individuale; l’intenzionalità nelle routine quotidiane e
le azioni ad esse associate, saranno da stimolo per una ristrutturazione creativa globale, riferita non solo
al comportamento ma anche alla sfera cognitiva ed emotiva: potranno, a mio parere, progressivamente,
riattivare il movimento finalistico ascensionale verso mete “sul lato utile della vita”.
Anche il processo di mediazione tra management del campo e residenti, funzione richiesta allo
psicologo dell’emergenza, può essere modulato al fine di rendere protagonista attiva la popolazione
colpita dalla calamità. In un’ottica di empowerment, favorire la partecipazione attiva degli abitanti
nei processi decisionali è fondamentale per consentire loro di riprendere creativamente possesso della
propria vita, per ricominciare a progettare il futuro in un’ottica adlerianamente finalistica.
Tornando al tema dell’umorismo, di cui ho già detto nel paragrafo dedicato allo sviluppo del
sentimento comunitario, ritengo che il primo effetto da esso generato rispetto agli eventi stressanti
sia una reinterpretazione e una ristrutturazione dell’evento stesso; penso, quindi, che il suo utilizzo,
dosato ed utilizzato con buon senso, possa favorire la rilettura creativa dell’avvenimento e combattere
l’incapacità, diffusa tra le vittime, di prendere decisioni.
Peraltro, l’ironia è efficace nel canalizzare l’aggressività generata dalla frustrazione dell’evento
verso il “lato utile della vita”, favorendo così una spinta motivazionale in direzione di una nuova
strutturazione creativa. È necessario stimolare una nuova interpretazione della disgrazia per lasciare
il posto a nuovi adattamenti nella realtà modificata dagli eventi.
Nei mesi successivi alla catastrofe, capita di vedere che alcune persone hanno sfruttato l’incontro
con il dolore per una crescita individuale, cominciando a vivere con più saggezza, dedicandosi a ciò
che maggiormente conta nella vita, rinsaldando i legami sociali in un clima di prudenza e ottimismo
(Sbattella, 2009); forse uno dei più importanti obiettivi che dobbiamo inseguire intervenendo in
emergenza è proprio quello di facilitare tale processo “ri-creativo” negli individui, fare in modo
che il dolore possa essere integrato nella propria personale storia di vita ed essere da stimolo per
compensazioni in direzione di una “sana” aspirazione alla superiorità.
III. 5. Altre riflessioni metodologiche
Particolare attenzione va posta nei confronti dei soggetti che mostrano di non possedere una
sufficiente rete di risorse relazionali informali; la carenza di tali risorse appare, infatti, essere un
grande fattore di rischio per la salute mentale a breve e lungo termine e, in tali casi, è indispensabile
una presa in carico che si connetta ai servizi socio-sanitari della comunità di appartenenza (Sbattella,
2009).
La sensibilità dello psicologo e la sua capacità di lasciare da parte l’insidioso “senso di
onnipotenza terapeutica”, di riconoscere il limite dettato dalla breve durata dell’intervento, deve
metterlo in condizione di individuare tali situazioni particolari e di attivare i servizi sul territorio per
fornire l’assistenza necessaria nel lungo periodo.
In tali casi è consigliabile non favorire relazioni che possano incatenare il soggetto in rapporti
disfunzionali di natura affettiva profonda; lo psicologo dell’emergenza, in nessun caso, può supplire
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Roberto Callina
Applicabilità del modello adleriano
alle carenze affettive, emotive e relazionali dell’individuo privo di una naturale rete di attaccamento;
ciò proprio in virtù della natura transitoria dell’intervento stesso.
Il setting emergenziale, per sua natura assolutamente non strutturato, deve prevedere una
capacità personale di uscire dagli schemi rigidi-interpretativi più tipici del tradizionale setting clinico.
Parlando, quindi, di tecniche di empowerment, di peer education o di altre metodologie particolari
bisogna sempre pensare a un intervento strategico personalizzato sul campo; un intervento che può
ispirarsi a tali tecniche ma di natura flessibile, rivolto a cogliere l’unicità individuale; un intervento
il cui valore aggiunto è dato dalla soggettività e dalla creatività individuale del terapeuta nonché
dalla creatività “noi-centrica” della coppia terapeutica così come, del resto, suggerito dalla dottrina
adleriana.
È comunque sempre necessario focalizzare l’intervento considerando che ci si trova in un
contesto emergenziale e quindi temporaneo; le relazioni che si instaurano vanno quindi costantemente
monitorate per far si che, pur non rinunciando alla creatività “noi-centrica” della coppia, si pervenga
ad una sorta di “giusta distanza”, né troppo coinvolti né troppo distaccati.
IV. Note conclusive
È evidente che tale contribuito non ha la pretesa di voler esaurire l’argomentazione sull’applicazione
del modello adleriano in un contesto di emergenza; l’obiettivo che mi sono posto, casomai, è di poter
cominciare una riflessione globale su tale possibilità, ad oggi ancora forse inesplorata.
Ritengo che la scuola adleriana abbia molti punti di forza da poter spendere nei contesti
emergenziali e credo che la Psicologia dell’Emergenza, dottrina nata ufficialmente in Italia da
poco più di un decennio, essendo ancora abbastanza giovane, abbia realmente bisogno di contributi
che spazino oltre i confini delle “tradizioni” cognitivo-comportamentali; dico “tradizioni” poiché
la maggior parte della letteratura italiana disponibile sull’argomento affronta l’emergenza con
proposte che provengono, fin dagli albori della sua nascita, dalla corrente di pensiero di matrice
comportamentista e cognitivista.
Nonostante i nuovi orientamenti di stampo cognitivo si siano progressivamente sviluppati
enfatizzando sempre più il ruolo centrale della relazione e l’importanza degli aspetti emotivi nel
processo di cambiamento (Bara, 1996), non si può, a mio avviso, sottovalutare che il pensiero
adleriano ha, in tal senso, una tradizione certamente più radicata. Il processo terapeutico adleriano è,
infatti, da sempre caratterizzato dalla qualità della relazione terapeuta-paziente e da tutti gli aspetti
emotivi, transferali e controtransferali che ad essa sono connessi.
La creatività e l’empatia sono alla base di ogni relazione d’aiuto per la scuola adleriana, sono
centrali in ogni percorso e consentono al terapeuta una flessibilità maggiore nell’uso di particolari
tecniche che, in contesti come quelli emergenziali, rischierebbero, se troppo rigidamente applicate,
di far perdere di vista l’uomo e la sua sofferenza, penalizzando lo sviluppo della compartecipazione
emotiva necessaria al buon superamento della crisi.
Credo che, in un’ottica squisitamente adleriana, sarebbe utile apportare nuova linfa individualpsicologica allo studio dei contesti d’emergenza e mi auguro di aver fatto un piccolo passo in tale
direzione.
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Roberto Callina
Applicabilità del modello adleriano
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Roberto Callina
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DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 56-67 (2014)
CASI CLINICI
IL CASO DI GIULIA
Anna Liggeri Ferbelli
Riassunto
Abstract
Questo lavoro presenta il caso di una giovane donna affetta da
una malformazione congenita, alla quale reagisce sperimentando modalità compensatorie ambivalenti ed in reciproca contraddizione, che originano linee comportamentali apparentemente
imprevedibili e spesso fuori misura. La ragione di ciò risiede
nell’impianto antitetico del pensiero e nella rigida adesione della paziente ai suoi vecchi schemi finzionali, sempre orientati in
senso non collaborativo. Il rapporto tra i primi ricordi e sogni
illustra l’antitesi che fa da sfondo alla struttura nevrotica della
paziente: l’opposizione tra il privilegio accordatale da sempre
in famiglia e l’incapacità di trovare adattamenti alla realtà sociale cui è del tutto impreparata.
GIULIA’ S CASE. This article intends to present the case of a
young woman suffering from a birth defect, to which she reacts
experiencing compensatory methods, ambivalent and in mutual
contradiction, which cause behavioral lines, apparently unpredictable and often out of control. The reason for this lies in
the antithetical structure of thought and in the rigid adhesion
of the patient to her old fictional schemes, always oriented in
a non-collaborative sense. The relationship between her first
memories and her dreams, illustrates the antithesis that is the
backdrop to the neurotic structure of the patient: the opposition
between the privileges always granted to her in the family and
the inability to find adaptations to the social reality to which she
is totally unprepared.
Parole chiave
Keywords
PROTESTA VIRILE, PENSIERO ANTITETICO,
RESISTENZA, SETTING
MASCULINE PROTEST, ANTITHETICAL THOUGHT,
RESISTANCE, SETTING
I.
Premessa
Il caso clinico che segue tratteggia una personalità contraddittoria, ambivalente, le cui modalità
espressive sembrano sempre in un certo grado “fuori misura”, impulsive, enfatiche ed apparentemente prive di controllo. Si percepisce un’impronta istrionica mirata ad esercitare una forte pressione
sull’ambiente.
La mutevolezza dei comportamenti e delle emozioni che fanno da background appare talora
ricercata come fattore sorpresa, destinato a destabilizzare l’interlocutore. L’intento manipolatorio è
palese ed è facile intuire come l’impianto nevrotico sia stato sperimentato nel tempo e selezionato in
quanto giudicato vincente dalla paziente. Erronei tentativi compensatori del complesso d’inferiorità,
il timore dei collaudi della vita, possibili rivelatori di un’inadeguatezza temuta e negata, costituiscono
il sottofondo psicodinamico di tale struttura di personalità.
Ciò comporta una visione della realtà marcatamente autoreferenziale che, attenuando finzionalmente ogni tentazione di autocritica, orienta la paziente alla ricerca di un potere prevaricatorio. Prevalgono, dunque, le influenze ostili della volontà di potenza, attivatrici di rapporti di forza e la scelta
delle armi in questa lotta, sarà frutto del potere creativo individuale.
Giulia è una giovane donna sempre in armi contro il mondo, per la quale la sicurezza coincide finzionalmente con il dominio sugli altri, perseguito spesso con modalità dirette, costrittive, polemiche ed
oppositive. A ciò s’intercala il repertorio dell’ostentazione della debolezza, espresso con ansia, vittimismo e stati depressivi, carichi di finalità accusatorie nei confronti della famiglia e del mondo. In alcuni
momenti il vittimismo acquisisce valenze seduttive, come richiesta di protezione o complicità.
56
Anna Liggeri Ferbelli
Il caso di Giulia
Il feedback sul piano relazionale è fallimentare: le tematiche affettive e sociali, infatti, scandiscono i temi della competizione e del possesso e sono talmente intrise del timore dell’abbandono da
indurre Giulia ad auspicare relazioni prive di legami autentici ed intensi, naturalmente da parte sua.
In questo quadro s’intuisce il bisogno imperioso e l’urgenza della paziente di trovare soluzione al suo
sentirsi disarmata ed indifesa in un mondo che ritiene ostile. La sua visione della realtà, pertanto, la
conduce ad elaborare e a mettere in atto strategie autoaffermative ed autodifensive, lontane dal suo
sentimento comunitario, tattiche che l’hanno portata ormai a sconfinare nel pensiero nevrotico.
La presentazione di questo caso clinico vuole evidenziare alcuni artifizi psichici erronei mirati
all’innalzamento dell’autostima, ciò che Adler nelle prime opere denomina efficacemente “apparati
di sicurezza”.
Adler (1920) utilizza il termine sicurezza nei primi lavori in cui analizza la psiche nevrotica.
Nelle opere della maturità, invece, privilegia l’uso di termini quali superiorità o perfezione, con cui
indica il perseguimento di una meta sana. A tal proposito asserisce che il fine della sicurezza è comune a tutti gli uomini, ma «ciò che distingue il soggetto nevrotico dal soggetto sano è la sua maggiore
tendenza alla sicurezza» (p. 35).
Ciò allude al fatto che l’individuo in armonia con sé e ben integrato nel contesto sociale riesce a
tollerare un certo grado di frustrazione, riconosce la propria fallibilità traendone uno stimolo migliorativo. Nell’ambito della psicopatologia, al contrario, il rischio d’insuccesso corrisponde a ciò che Adler
definisce come una “caduta in un abisso pieno di orrori” corrispondente alla perdita dell’autostima.
Proprio il timore della perdita dell’autostima induce la paziente a creare molteplici “artifizi”
psichici in virtù dei quali possa negare a se stessa il proprio disagio interiore e recitare la parte di
personaggio vincente. Tale processo mentale è naturalmente in molto larga misura inconscio, benché
intervallato da sporadici momenti di consapevolezza, immediatamente respinta.
II. Il caso di Giulia
Giulia ha quarantacinque anni, una laurea in Economia a pieni voti, un avviato studio professionale come “Dottore Commercialista”. Secondogenita, è preceduta da un fratello di quattro anni maggiore, che svolge la medesima professione ed è suo socio. C’è poi una sorella più giovane di cinque
anni, la quale già dall’infanzia vive in un’altra città.
La famiglia d’origine abita da sempre in un piccolo paese isolato, dove gestisce un’azienda agricola. Qui la paziente torna con grande frequenza e vi si stabilisce nei periodi di depressione. I genitori,
ormai piuttosto anziani, sembrano conservare un ruolo di riferimento significativo per Giulia, sia pure
in modo ambivalente.
Schematici i tratti con cui Giulia li descrive: la madre forte, lungimirante, decisionista, si configura come oggetto d’ammirazione e modello positivo per la figlia, in opposizione al padre definito
debole, esitante, sempre benevolo ed accomodante, relegato al ruolo di esecutore delle disposizioni
della moglie. Il fratello viene tratteggiato come instabile caratterialmente, incostante e poco produttivo nel lavoro, irritabile e reattivo. Litigano molto spesso tra di loro, ma la paziente riconosce che il
fratello si fa carico di tutti i problemi e delle seccature che lei non vuole affrontare.
Iniziano a delinearsi qui le dicotomie che scandiscono l’organizzazione del pensiero di Giulia
57
Anna Liggeri Ferbelli
Il caso di Giulia
e sottintendono un giudizio netto. Le figure dei genitori si connotano secondo schemi opposti: alla
prevalenza materna fa da contrappunto la sottomissione paterna, così come la presunta instabilità
del fratello serve a rimarcare la propria dichiarata efficienza professionale. Il fratello, come il padre,
gioca un ruolo solo apparentemente secondario, in realtà rinunciando alla sua libertà, si pone come
paladino della sorella.
Giulia cita appena la sorella minore. Riferisce che questa è stata affidata alla nonna già dai primi
mesi di vita, è cresciuta ed ha compiuto gli studi lontano dalla famiglia, solo con brevi rientri nella
casa dei genitori. Il disinteresse dimostrato dalla paziente può essere in parte giustificato proprio dalla
distanza e dalle rare occasioni di contatto con la sorella. D’altra parte non si può escludere che tale
atteggiamento sia un’espressione di rivalità fraterna. L’indifferenza ostentata, peraltro, è una delle
tante modalità utilizzate tuttora da Giulia per negare l’importanza di qualcuno ed elevare una barriera.
Alla nascita della sorella, Giulia aveva già consolidato il suo potere in famiglia e, visti i tratti del
carattere che andava strutturando, non avrebbe consentito nemmeno in tenera età, ad alcun rivale di
contenderle il trono.
III. Giulia e la significazione soggettiva del proprio deficit fisico
Strumento di tanto potere era nell’infanzia ed è tuttora una malformazione fisica che la paziente
presenta alla nascita. Questa, pur non interferendo con la sua autonomia, è tuttavia visibile e non
passa inosservata. Come adleriani, riconosciamo al deficit fisico la potenzialità di stimolo, che può
originare sia risposte rinunciatarie e di ripiegamento sia reazioni costruttive animate da uno slancio
verso mete autoassertive di superamento.
L’orientamento della risposta dipende, quindi, dalla “significazione” personale che ciascun individuo attribuisce alla propria condizione, coerentemente con il proprio stile di vita e con la propria
meta finale. Giulia vive la propria situazione in un’alternanza di emozioni che si susseguono e s’intrecciano di continuo, regolate dagli accadimenti e dalle impressioni, ma sempre dirette alla ricerca
di un successo compensatorio.
Comune denominatore di questi stati d’animo è una rabbia sorda insieme ad un potente desiderio
di vendetta nei confronti del mondo esterno. Di qui prende corpo il bisogno rivendicativo di dimostrare la propria superiorità in ogni ambito. Prima fra tutte la supremazia intellettuale, già enfatizzata
in famiglia, poi uno sforzo senza fine per possedere la casa più lussuosa, l’automobile più costosa, lo
studio più prestigioso, anche se non riesce a sostenerne i costi.
C’è inoltre la ricerca di un aspetto fisico smagliante, perseguito con diete e cure estetiche di ogni
genere. I risultati, però, sono deludenti. L’aspetto fisico denuncia in modo inequivocabile, l’alternanza di sentimenti ed emozioni, passando dall’estrema cura dei periodi positivi, alla massima trascuratezza delle fasi di grande scoraggiamento. In entrambi i casi si ravvisa una sottolineatura enfatica che
tradisce tentazioni di platealità.
IV. I primi ricordi
Ogni evento, costituisce per la paziente un’opportunità di richiamo d’attenzione cui la famiglia
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Anna Liggeri Ferbelli
Il caso di Giulia
risponde con grande risonanza, in un atteggiamento corale di sollecitudine e condivisione. È un diritto, secondo Giulia, tutta l’attenzione che riceve da sempre. Il primo ricordo delinea efficacemente il
privilegio accordatole dai genitori e confermato di continuo:
«Quando è nata mia sorella, io avevo cinque anni. La mamma ha deciso di affidarla alla nonna,
spiegando che non poteva occuparsene, perché doveva dedicarsi a me che necessitavo di cure».
Ma anche il fratello non è esentato da penalizzazioni:
«Il giorno della Prima Comunione di mio fratello, il mio abito era bellissimo, così come i regali
ricevuti. Tutti prestavano attenzione solo a me, io ero la festeggiata! Ricordo bene che la mamma ha
spiegato a mio fratello che io avevo più diritti di lui, in quanto penalizzata dalla malattia».
Quest’altro ricordo si colloca nello stesso periodo del precedente e ne costituisce un rafforzamento:
«Ricordo anche la volta in cui la mamma ha detto a mio fratello che avrebbe dovuto sempre
sentirsi responsabile nei miei confronti, anteponendo i miei bisogni ai suoi. Lui ha pianto ma poi ha
capito che è giusto».
Commenta affermando che il fratello nell’infanzia e nell’adolescenza veniva punito quando trascurava la sorella per stare con i suoi amici.
Ancora un ricordo:
«Una notte, avevo allora dieci anni circa, ho sentito i miei genitori che parlavano di me. Di
soppiatto sono andata ad origliare. Il papà stava dicendo che ero prepotente ed arrogante, che lui
avrebbe voluto rimproverarmi. Ma la mamma lo ha zittito dicendogli che lui sbagliava sempre e che
era lei a sapere come agire, era lei a decidere come ci si doveva comportare. Così lui ha taciuto».
In tal modo l’unico tentativo di contenimento falliva!
«È giusto che io sia privilegiata, perché sono stata sfortunata!».
È questo il convincimento profondo che traccia tutti i percorsi mentali e le linee comportamentali
di Giulia.
Questo diritto a ricevere, nato ed alimentato in famiglia, si è trasformato in dogma, mentre,
nell’impatto con la quotidianità tutto si capovolge e la rivendicazione del diritto trova solo disconferme ed evoca forti frustrazioni.
La pretesa di privilegi può essere interpretata come importante segnale psicodiagnostico, in
quanto suggerisce le linee programmatiche esistenziali di Giulia, il suo orientamento teleologico e
fornisce la misura del suo allontanamento dalla realtà e dagli altri.
La paziente, infatti, tende ad elaborare fantasie ed anticipazioni che la descrivono tendenziosamente al centro della scena, come protagonista indiscussa. Ciò può sollecitare il sospetto di uno
sganciamento patologico dalla realtà, tuttavia si conferma come fatto episodico, sostenuto da una
finalità consolatrice in momenti di grande sconforto. Il contatto con la realtà non è realmente pregiudicato.
È facilmente percepibile come il racconto dei primi ricordi, che la paziente considera espressioni
del proprio successo, sia per lei motivo di compiacimento. Tuttavia, in filigrana, si coglie una sorta di
monito diretto all’analista: «Ricorda che io devo essere privilegiata!» ed anticipa inconsciamente la
belligeranza che porterà nel setting così come nella vita.
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Anna Liggeri Ferbelli
Il caso di Giulia
V. I sogni
Giulia procede nella sua vita adulta guidata dai suggerimenti “faziosi” dei primi ricordi, con l’attesa di riprodurre in ambito sociale le medesime dinamiche relazionali sperimentate in famiglia. Ma
la realtà è inesorabilmente disconfermante. Già dai tempi del liceo si accorge con stupore che nessuno
le riconosce dei particolari privilegi né le riserva benevoli riguardi. Ciò non sollecita nella paziente
tentazioni di autocritica o cambiamenti nello stile di vita, al contrario, origina reazioni rancorose,
ostili, sostenute dal desiderio di vendetta.
Tali emozioni si esprimono in modo esplicito in un sogno del periodo delle scuole superiori, ben
ricordato perché ricorrente.
«C’è un incendio a scuola, la mia aula è invasa dal fumo, si diffonde il panico tra i presenti.
Solo io trovo la finestra ed esco senza difficoltà, mentre gli altri rimangono intrappolati. L’incendio
si estende a tutto l’edificio. Subito mi allontano di corsa, poi mi fermo e vedo che nessuno è riuscito
a seguirmi. Un po’ mi dispiace per loro, ma non hanno riconosciuto la mia lungimiranza».
Indubbiamente intriso di aggressività, valenze punitive e desideri d’onnipotenza, questo sogno,
che ricorre nei periodi di maggiore frustrazione, è carico dell’angoscia derivante dalla convinzione
che niente potrà migliorare. Non resta che distruggere!
La ricorsività del sogno evidenzia la rigidità del pensiero di Giulia, che continua ad aderire fortemente alla sua logica autoreferenziale. Si coglie qui una sorta di forzatura, come se, rimanendo legata
a vecchi schemi, riuscisse, prima o poi, a piegare la realtà ai suoi voleri.
Il tema della solitudine è raffigurato non tanto dall’essere l’unica sopravvissuta, ma dal fatto che
gli altri non si siano accorti che lei aveva trovato una via di fuga. Giulia si sente invisibile agli occhi
degli altri, avvolta in una cortina di fumo, appunto: grossa delusione per una persona cresciuta al
centro dell’attenzione.
Commentando il sogno, la paziente lamenta l’esclusione dal contesto sociale, accusa gli altri ritenendoli responsabili della propria solitudine, enfatizza la propria sensibilità che, a suo dire, la rende
vulnerabile nei rapporti umani, teme eventuali giudizi negativi. Ciò la induce al ritiro. Non rivela,
peraltro, alcun interesse umano né prende iniziative di contatti con altri, ritenendolo umiliante. Residuano i soli rapporti di natura professionale in cui si sente sicura, perché tutelata dal ruolo.
I genitori incoraggiano le scelte d’isolamento della figlia, sollecitando rientri a casa. Ciò evidenzia la loro protettività, ma anche condivisione di uno stile di vita improntato all’isolamento. L’assenza
di figure estranee al nucleo famigliare nei primi ricordi già suggeriva l’ipotesi di una disposizione al
ritiro da parte dei genitori.
Nel corso dell’analisi, la paziente ribadisce spesso ciò che lei definisce la propria intolleranza per
le amicizie, soprattutto femminili, aggravata dalla diffidenza nei confronti del mondo intero. Adler
(1920) individua nella distanza interposta tra sé e gli altri una difesa estrema «come se l’individuo
fosse circondato ed immobilizzato da un cerchio di fuoco fatto dalle streghe» (p. 124).
Il soggetto, quindi, delimita il proprio raggio d’azione solo ad ambiti sicuri, in cui il proprio dominio è certo ed elude qualsiasi collaudo, minaccioso per l’autostima.
L’eccessiva protezione della famiglia ha creato e mantenuto una rete di sicurezza attorno a Giulia
a tal punto che ora, nella vita adulta, è realmente disarmata, incapace di superare ostacoli, tollerare
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Anna Liggeri Ferbelli
Il caso di Giulia
piccole frustrazioni o districarsi in situazioni che richiedano un atteggiamento interlocutorio o di mediazione. «Quante contraddizioni e quante antinomie, quante dimensioni e quante stratificazioni, si
condensano in un’esperienza emozionale ed esistenziale, apparentemente semplice e lineare com’è la
solitudine. La cosa più importante, in ogni caso, è la constatazione che una condizione di solitudine
sociale possa essere sorgente, e causa, di malattia. […] Ha bisogno di cura la solitudine dolorosa, la
solitudine autistica, la solitudine-isolamento, che ci imprigiona nella separatezza e nella inclusione
nei confini del nostro io; dai quali non è possibile uscire» (Borgna, 2011, p. 183).
I temi dell’isolamento e del timore degli altri vengono ribaditi in un sogno composto di due parti
diverse in cui la seconda traspone nel presente la prima caricandola di ulteriore tensione.
Il sogno inizia e si conclude con una fuga. Qui Giulia si descrive come una principessa delle
favole, ritirata in una torre, circondata da arredi lussuosi, sete e broccati. Esce, si trova nel deserto e
subito s’imbatte nei predoni che la inseguono con il chiaro intento di ucciderla. Dopo la fuga, il rientro nella torre è salvifico. Di facile decodifica il monito del sogno che la invita a stare al sicuro, ma la
vera natura dell’aggressione temuta si esprime più esplicitamente nella seconda parte.
In questa, sempre principessa, Giulia viene invitata ad interpretare la parte della protagonista in
un nuovo film di un noto regista cinematografico. Fiera di sé, si dirige verso il teatro di posa e, mentre sale ai piani superiori, si accorge che le persone che incontra la deridono, la criticano, perché un
dettaglio del suo abbigliamento è inadeguato, di pessimo gusto. Dopo inutili tentativi di spiegare che
tale oggetto non le appartiene, che l’ha raccolto lungo la strada, senza essere ascoltata, si allontana
di corsa, raggiunge un ripostiglio, vi si chiude e decide che ne uscirà solo quando sarà certa che tutti
se ne siano andati.
I temi reiterati della fuga e del ritiro provvidenziali, trovano più chiaramente ragione nella preoccupazione relativa al giudizio degli altri, i quali nel sogno dell’incendio non la vedono, quindi non
le offrono la possibilità di discolparsi, le impediscono il raggiungimento del successo e la deridono,
con specifico riferimento ad un particolare del suo aspetto.
Il percorso verso il luogo delle riprese, in cui si ravvisa l’ambizione del porsi “in alto”, “più in
alto” degli altri, è la metafora della vita di Giulia.
L’ultimo sogno condensa l’interpretazione di Giulia relativa alla propria esistenza tra gli altri.
Qui la paziente partecipa ad una competizione in cui le contendenti, tutte donne, devono sfidarsi
stando su trampoli i quali poggiano su pattini a rotelle. È consentito l’uso di armi. Giulia, con uno
stratagemma, riesce ad impossessarsi dei trampoli più lunghi e delle armi più pericolose.
Ciò le procurerebbe un certo vantaggio, ma purtroppo a breve si accorge della netta superiorità
atletica di alcune sfidanti. Inoltre, la sua allenatrice, è assente, non può intervenire. Costretta a rimanere in competizione, decide che combatterà anche slealmente, usando armi improprie, per non
soccombere, ma le altre contendenti sono comunque più forti. E il sogno s’interrompe. Interruzione
opportuna, forse, per non assistere alle propria sconfitta.
«Unicamente centrato su di sé e sul suo prestigio, il nevrotico sviluppa una serie di tratti caratteriali
che testimoniano il suo perpetuo bis�������������������������������������������������������������������
ogno di misurarsi con gli altri, con lo scopo di assicurarsi la superiorità» (Shaffer, 1976, p. 109).
La suggestione più forte del sogno è il senso di precarietà evocato tanto dai trampoli, quanto
dai pattini, che contrasta di netto con l’esigenza della paziente di esercitare un controllo continuo
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Anna Liggeri Ferbelli
Il caso di Giulia
su ogni cosa.
C’è poi la scelta di armi vietate, che Giulia si concede benevolmente anche sul piano conscio
e, verbalizzando, afferma che la vita è una continua battaglia, in cui si potrebbe essere sopraffatti se
talora non si facesse ricorso a qualche scorrettezza.
VI. Gli artifizi
Si ravvisano nei sogni e nelle verbalizzazioni, quelle idee persecutorie che nel quotidiano spesso
precludono alla paziente la possibilità di contatti che non siano solo formali e la forzano a ricercare
ambiti in cui il proprio predominio sia certo. In questi contesti, al contrario, si esprime quella suggestione teatrale già citata.
Tuttavia, tali tratti, suscettibili di reciproca contaminazione, non definiscono quadri psicopatologici specificatamente tipicizzati, ma riconducono alla comune matrice: una volontà di potenza ormai
fuori controllo, in quanto non sufficientemente orientata e contenuta dall’istanza collaborativa.
Il termine isolamento nel caso di Giulia fa riferimento non tanto ad una condizione di autentico
patologico ritiro dalla realtà, quanto a vari gradi di distanza che la paziente interpone tra sé e gli altri
con intento autodifensivo. Tale distanza si rimodula sottilmente di continuo, in relazione al rischio
d’insuccesso ipotizzato nelle diverse situazioni.
La ricaduta sul piano pratico si concretizza quindi nell’accentuazione di emozioni “che separano”, come l’ira, la tristezza esibita carica di accuse e le manifestazioni rivendicative plateali. I tratti
del carattere, poi, si configurano come «una routine protettiva» (Adler, 1912, p. 303), permeata di
ostilità verso il mondo che genera l’incapacità di stabilire rapporti empatici e di condivisione.
Sono molteplici gli “artifizi” utilizzati da Giulia nella ricerca della superiorità personale. Tra
questi la menzogna orientata a finalità deresponsabilizzanti o l’astuzia con cui s’illude di trarre in
inganno gli altri, così come la ricerca esasperata della verità, che si trasforma in una «terribile arma
aggressiva» (Way, 1956, p. 111).
La vanità, che la spinge a volere essere sempre la migliore, rivela la forza del suo sentirsi inadeguata. Gelosia ed invidia esprimono l’intolleranza di Giulia per i successi altrui, interpretati come
propria sconfitta. Fuga ed immobilità si collocano tra gli espedienti che le consentono di eludere
prove troppo collaudanti.
VII. Primi ricordi e sogni: lo stile di vita di Giulia
Primi ricordi e sogni gettano un fascio di luce sul complesso impianto di personalità di Giulia
e consentono la comprensione di tratti del carattere e modalità comportamentali opposte che talora
rendono la paziente imprevedibile.
I primi ricordi indicano una traccia di quasi accettazione della malformazione fisica, giudicata
strumento di potere indiscusso che costringe tutti a ruoli di subordine. La cortina protettiva, costruitale attorno dalla famiglia, impedisce alla paziente di collaudarsi sul piano sociale, trattenendola nella
convinzione che ogni privilegio accordatale sia un diritto. Giulia, quindi, elabora progetti, fantasie e
speranze per il futuro, nell’illusione che tutta la sua vita si svolgerà lungo i percorsi già sperimentati.
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Anna Liggeri Ferbelli
Il caso di Giulia
Solo ai tempi del liceo s’imbatte nella realtà, che non le riconosce alcun vantaggio. Ciò procura una
sorta di stupore, che tuttora manifesta, quasi non riuscisse ad orientarsi.
L’emozione associata è l’ira, il desiderio di distruggere e l’accusa. La reazione immediata è il
ritiro rancoroso dalla vita relazionale, ritiro che prelude ad un rientro belligerante.
Se i primi ricordi rappresentano simbolicamente il progetto di vita in virtù del quale la paziente
nell’infanzia si vedeva proiettata, vincente, nel futuro, i sogni costituiscono la metafora della realtà.
Di nuovo l’antitesi: la situazione infantile viziante e di certa valorizzazione, in opposizione al
contesto sociale dell’età adulta, sconosciuto che non le assegna alcuna priorità, anzi le è ostile.
I sogni raccontano tentativi incerti e sempre fallimentari d’inserimento, tentativi fondati non
sul bisogno di comunicazione o scambio, ma sulla ricerca di dominio. La fuga conclude i sogni, lasciando una traccia scoraggiante. La vita sociale di Giulia si svolge realmente con questo movimento
circolare tra prove di avvicinamento e successive fughe, seguendo rigidamente lo schema finzionale
iniziale. Al contrario, le strategie autoaffermative ed autodifensive, si modificano di continuo in relazione all’interpretazione soggettiva ed autoreferenziale operata dalla paziente rispetto ad eventi e
situazioni.
VIII. Le dicotomie dei processi mentali e la protesta virile
A partire dunque dal temuto senso di sconfitta e di debolezza, Giulia si dirige reattivamente alla
ricerca di una condizione di superiorità e forza: le dicotomie che scandiscono i processi mentali della
paziente si manifestano chiaramente nei modi opposti di reagire e tratteggiano le linee della Protesta
Virile. Il processo ideatorio della Protesta Virile affonda le sue radici nell’antitesi uomo/donna, in cui
i termini opposti indicano simbolicamente la dicotomia forza/debolezza e le conseguenti dimensioni
sociali di potere/sottomissione.
Ciò spiega come Giulia, temendo tutte le emozioni che la fanno sentire debole, donna quindi,
tenti di negare la debolezza ed aderisca a linee di pensiero che illusoriamente la facciano sentire forte,
dominante, identificandosi in modelli maschili. Così ogni comportamento della paziente acquisisce
una coloritura maschile, dall’abbigliamento, all’acconciatura, all’espressione verbale.
Naturalmente tale processo mentale è largamente inconscio. Ne “I Verbali della Società Psicoanalitica di Vienna” (Ferrigno et Al., 2006) Adler precisa che nell’ambito della Protesta Virile
l’individuo coscientemente cerca di comportarsi come un uomo, ma inconsciamente vive emozioni
femminili cui si oppone.
L’esacerbazione dei tratti che la cultura attribuisce alla convenzione maschile (aggressività, decisionismo, intraprendenza) porta nelle relazioni sociali e sentimentali di Giulia i segni della prevaricazione e della volontà di sottomettere. Le scelte amicali e sentimentali ricadono, pertanto, su persone
che la paziente considera deboli a lei, inferiori per cultura o collocazione sociale. Le sarà quindi
facile, in seguito, sottolineare la propria superiorità intellettuale o economica, con l’intento di porre
gli altri “in basso”.
Si coglie un riferimento, pur accentuato, al modello materno descritto nei primi ricordi. Giulia
delimita progressivamente lo spazio personale di amici e del partner, in particolare, nel tentativo di
allontanarli dal loro ambiente e li sottopone a prove continue per valutarne il grado di sottomissione.
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Anna Liggeri Ferbelli
Il caso di Giulia
Tenta dunque di riprodurre, con una grossa forzatura, lo stato di potere descritto nei primi ricordi. Anche la scelta di “mezzi femminili” affonda le radici negli strati profondi della personalità,
conservando carattere largamente inconscio, sebbene residui una componente di consapevolezza che
ne favorisce in parte un uso strategico.
L’ostentazione della debolezza, la richiesta esplicita o indiretta di protezione, l’apparente sottomissione sono alcuni movimenti espressivi della Protesta Virile realizzata lungo la linea femminile.
Nelle sue relazioni affettive e sociali, Giulia porta questo scambio imprevedibile tra durezza e fragilità, confusivo e disconfermante per i suoi interlocutori. Un ulteriore e più raffinato strumento di
dominio.
La chiave di lettura della mutevolezza di questi movimenti espressivi risiede nell’impianto antitetico della nevrosi, in cui il gioco ricorsivo tra inferiorità percepita ed ambizione smisurata permea
ogni funzione mentale e si esprime nell’elaborazione creativa di tutti i percorsi mirati all’affermazione di sé.
Questo movimento progettuale e creativo compenetra tutte le forze, le istanze ed i contenuti
della psiche e li unifica nel perseguimento del fine comune rappresentato dalla tutela del sentimento
di personalità. Ne deriva che contraddizioni ed ambivalenze esprimono modi diversi di raggiungere
l’unico scopo.
Adler (1927) afferma che «la vita psichica […] appare in grado di sviluppare, in un impulso
innato, la capacità di identificarsi come organo di attacco, difesa, sicurezza, protezione» (p. 36).
IX. Il trattamento
La paziente ha iniziato il percorso analitico solo da pochi mesi. La motivazione d’accesso, come
quasi sempre accade e come sottolinea Kurt Adler (1967), è solamente il tentativo e la speranza di
attenuare il disagio esistenziale o ridimensionare la sintomatologia in atto ed autocostruita, ma ormai
fuori controllo, non un’autentica, profonda esigenza di cambiamento.
Un reale cambiamento comporterebbe la rinuncia consapevole tanto alla meta fittizia perseguita, quanto a tutti gli espedienti creati e selezionati per elevare l’autostima ed allontanare il vissuto
d’inadeguatezza. Ciò potrà verificarsi solo nel prosieguo del trattamento, nella fase “trasformativa”,
quando la paziente avrà raggiunto un certo grado di coscienza dei propri movimenti psichici.
Sulla sorta dell’immagine di sé e della realtà costruita nell’infanzia, Giulia ha creato e collaudato
i suoi percorsi affermativi che, da allora, improntano affetti, emozioni, tratti del carattere, fantasie ed
anticipazioni, in modo tale da disporla all’isolamento, alla difesa o all’attacco, ma mai alla collaborazione.
L’incapacità a collaborare di Giulia si erige pertanto a barriera, creando ostacoli ed incrementando distanze anche all’interno del setting, processo la cui essenza risiede proprio nello scambio empatico. Il concetto adleriano di coppia creativa finalisticamente orientata, riferito al binomio terapeuta/
paziente, colloca, infatti, la relazione emotivamente compartecipe come premessa imprescindibile e
fulcro di tutte le fasi della psicoterapia individualpsicologica.
L’analista rappresenta l’altro da sé, quindi la logica comune cui la paziente contrappone la propria belligerante logica privata, interponendo una fittizia distanza. In ciò si vale di processi mentali
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Anna Liggeri Ferbelli
Il caso di Giulia
già utilizzati, primo fra tutti, e a lei ben noto, il tentativo di svalutare l’altro.
Il meccanismo della svalutazione si può esprimere in modo diretto, attraverso ad esempio la
disposizione polemica o l’oppositività quasi provocatoria, oppure più indirettamente con l’accentuazione della sintomatologia o con un silenzio ostinato. Ognuno di questi atteggiamenti tradisce il
desiderio della paziente di prevalere sugli altri, quindi, anche sull’analista.
Frutto del potere creativo individuale, le espressioni della resistenza sono multiformi. Il seguente episodio, ad esempio, illustra un tentativo di svalutazione fallito nei confronti della terapeuta. In
concomitanza con un periodo di ferie dell’analista, la paziente, forse per protesta a causa del presunto
breve abbandono, consulta un terapeuta di un’altra città e di altra formazione. Questo, sulla base delle
insufficienti e tendenziose informazioni di sé che Giulia gli fornisce, sdrammatizza il quadro patologico, invitandola a migliorare la qualità di vita, suscitando in tal modo il risentimento della paziente
che si vede poco considerata.
Fallisce, dunque, sul nascere un tentativo di mettere in contrapposizione, in gara, i due terapeuti,
ponendo sé come oggetto di contesa. Nonostante il proprio insuccesso, Giulia riferisce poi l’accaduto
all’analista, con la residua speranza di ferire. L’assenza di reazioni negative, la priva di qualsiasi possibilità di lotta e rende parzialmente conscia la resistenza. Afferma, infatti, che curarla non sarà facile,
perché lei non si fida di nessuno. Un monito e una sfida, dunque!
Adler sollecita a “ricercare” sempre il fenomeno della resistenza nel corso del trattamento al fine
di evitare che l’analista diventi vittima del tentativo operato dal paziente di sottometterlo al suo dominio. Non a caso Adler definisce il setting “campo di battaglia” alludendo alle continue schermaglie
che vi si generano.
La Psicologia Individuale inquadra il fenomeno della resistenza al trattamento come manifestazione dello stile di vita, mosso dalla volontà di potenza che si avvale dell’aggressività, in opposizione alla Psicoanalisi freudiana che lo interpreta come «azione e difesa della rimozione» (Freud,
1926, p. 99).
Ma l’episodio non scoraggia la disposizione combattiva di Giulia, che ricorre alla mediazione
della famiglia. Ecco, allora, la telefonata della madre che vorrebbe un appuntamento con la psicoterapeuta per illustrarle i problemi della figlia e, presumibilmente, fornire precise indicazioni sul comportamento da tenere con questa. Un altro tentativo fallito. Poi, ancora, un succedersi di polemiche e
contestazioni che, inficiate dall’interpretazione, si trasformano in richiesta di attenzioni per la propria
patologia fisica. Giulia è disorientata dalla proposta di collaborazione dell’analista in risposta alla sua
dichiarazione di guerra.
Col tempo, andati a vuoto altri progetti di lotta, Giulia struttura la propria opposizione in modo
antitetico rispetto al passato, pur mantenendo inalterata la finalità autodifensiva.
Ad armi, apparentemente deposte, sorridente, addirittura gioviale, tesse lodi all’analista, esprime
apprezzamenti fuori luogo, propone reiteratamente un rapporto amicale. Tentativi di seduzione questi, anche piuttosto maldestri. In questo caso i sentimenti vengono utilizzati come strumenti di potere.
«La volontà di conquista si indirizza a volte a mezzi femminili e il fatto di risvegliare sentimenti può
essere interpretato come espressione della volontà di potenza» (Adler, 1920, p. 151).
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Il caso di Giulia
X. Alcune considerazioni
La Psicologia Individuale assegna grande rilievo alla tematica dell’inferiorità organica, addirittura tutto l’impianto dottrinario adleriano prende le mosse proprio da tale questione. L’intenzione
di questo articolo, tuttavia, non è ribadire l’importanza del suddetto problema, ma evidenziare come
l’organo psichico interpreti soggettivamente stimoli, esperienze, ricordi, anticipazioni e sogni ed elabori di continuo sempre nuovi ed immaginifici espedienti mirati a compensare l’inferiorità percepita
o, in caso di psicopatologia, a negarla.
Il caso di Giulia, qui presentato brevemente, rivela di certo una ricorsività nei movimenti espressivi, ma anche una sorprendente creatività nell’instancabile ricerca di nuove strategie di autoasserimento, siano esse improntate all’attacco piuttosto che alla difesa. Nelle scelte esistenziali della paziente si coglie l’azione del potere creativo che si esprime a diversi livelli e con vari gradi di finzione,
dall’interpretazione del reale alla selezione dei percorsi mirati alla sicurezza.
L’orientamento di Giulia, sostenuto da una logica autoreferenziale lontana dal sentimento comunitario, si dirige verso quella vittoria fittizia che, secondo Adler, esiste solo nell’immaginazione del
nevrotico e ben evidenzia come la nevrosi sia un atto creativo.
In questo quadro si inserisce anche la resistenza, in cui la paziente esprime quella stessa componente artistica già manifestata nella sua rete di difese. A proposito della resistenza Adler (1920)
afferma: «La stessa ostilità che nella vita avvelena i rapporti sociali del nevrotico, si trova nelle sue
relazioni con il medico, ma sotto forma più nascosta. Bisogna ricercarla con cura, perché in ogni
terapia ben condotta, essa tradisce la tendenza del malato a raggiungere la superiorità grazie alla sua
nevrosi» (p. 61). La locuzione “Terapia ben condotta” sta ad indicare come il fenomeno dell’insorgenza della tendenza a raggiungere la superiorità sia da ricercarsi in ogni terapia e segnali l’opporsi
del paziente allo smascheramento delle finzioni rafforzate che hanno favorito la cristallizzazione del
piano di vita costruito nell’infanzia e di cui egli inizia ad avere consapevolezza. Ciò sta ad indicare
che il percorso terapeutico è impostato correttamente.
Le altre Scuole del Profondo condividono questo approccio: la Psicologia Analitica junghiana
riconosce la forza della resistenza nell’azione oppositiva del paziente contro i tentativi dell’analista
di abbattere la fortezza che lo fa sentire al sicuro. La Psicoanalisi Freudiana definisce tale fenomeno
come una tenace forza censurante che il paziente oppone ai tentativi dell’analista di renderlo conscio
di contenuti negati.
Alla luce di queste considerazioni si può ipotizzare che Giulia, caparbiamente, continuerà per
ora a creare originali e raffinati “ostacoli e tranelli” a difesa del proprio Ideale di Personalità e ad
interporre una fittizia distanza tra sé e la terapeuta, con la segreta speranza di stabilire anche qui una
posizione di dominio. Sarà, pertanto, indispensabile privarla di ogni possibilità di attacco e lotta, conducendola verso la sua prima esperienza collaborativa.
In questo progetto, scambi e condivisioni all’interno della coppia creativa non dovranno mai
sfuggire ad un attento controllo affinché, come sostiene Adler, il terapeuta non sia mai preso in cura
dal paziente.
La compartecipazione empatica, incoraggiante e tranquillizzante della relazione analitica, dovrà
ridimensionare le esigenze difensive di Giulia fornendole il contenimento ed il sostegno necessari per
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Il caso di Giulia
collocarsi in una nuova dimensione relazionale fondata sul sentimento sociale.
Lungo questo percorso la paziente scoprirà come la sua visione della realtà sia fondata su ciò che
Adler (1920) definisce «falsificazione, amplificazioni tendenziose, attese irrealizzabili, indirizzate
verso il quinto atto glorioso (la superiorità personale)» (p. 77) e potrà individuare, finalmente, ambiti
più sani in cui possa esprimere produttivamente la propria creatività.
BIBLIOGRAFIA
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WAY, L. (1956). Alfred Adler: an introduction to his Psycology. Harmondsworth: Penguin Books. (Trad. it.
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Anna Liggeri Ferbelli
Via Guala, 56
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E-mail: [email protected]
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DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 68-75 (2014)
ARTE E SOCIETÀ
SIBILLA ALERAMO: LA PROTESTA VIRILE
NELLA STORIA DI UNA DONNA
Simona Brambilla
Riassunto
Abstract
Nella storia di Sibilla Aleramo, madre, scrittrice, poetessa,
oltre che impegnata in ambito sociale, possiamo rileggere in
chiave adleriana la protesta virile di una donna che ha sfidato le
contingenze della sua vita e del suo tempo per affermare le sue
convinzioni e il suo senso di libertà. Alla luce di quanto accade
nei nostri giorni, la sua vicenda ci sembra più che mai attuale.
The MASCULINE PROTEST IN A WOMAN’S STORY. In the
story of Sibilla Aleramo, mother, writer, poet and also involved
in social work, we can reread from an Adlerian perspective the
masculine protest of a woman who defied the difficulties of her
life and her times to assert her beliefs and her sense of freedom.
In the light of what is happening nowadays, her story seems
more relevant today than ever before.
Parole chiave
Keywords
DONNA, MADRE, PROTESTA VIRILE, LIBERTÀ
WOMAN, MOTHER, MASCULINE PROTEST, FREEDOM
1. La vita di Sibilla Aleramo
Sono state le pagine ingiallite di quegli scritti a richiamare la mia attenzione. Sfogliati e letti molti anni fa, oggi, gli scritti dal 1897 al 1910 di Sibilla Aleramo (Conti, 1978) si rivelano di incredibile
attualità.
Rina Faccio (il vero nome della scrittrice e poetessa Sibilla Aleramo), nata ad Alessandria il 14 agosto 1876 e morta a Roma il 13 gennaio 1960, ci racconta della sua vita nella sua opera autobiografica più
famosa e conosciuta, il romanzo “Una donna” pubblicato per la prima volta nel 1906 (Aleramo, 1906).
Primogenita di quattro fratelli, due sorelle e un maschio, visse la sua infanzia a Milano e poi
nell’attuale Civitanova Marche, seguendo le vicissitudini di carriera di suo padre, ingegnere e poi
insegnante di chimica e successivamente dirigente in ambito industriale. Lo stesso padre le trovò un
impiego come contabile presso la fabbrica da lui diretta.
Un rapporto pressoché inesistente con la madre, fragile e malinconica, la portò ad una verosimile assenza di un significativo legame affettivo con lei, nonostante il verificarsi di un tentativo di
suicidio della madre nel 1889 e il suo successivo ricovero in manicomio fino alla sua morte nel 1917
(Strappini, 1994).
Tutto ciò segnerà la sua vita futura: i sentimenti travagliati nei confronti della figura materna
rappresenteranno il punto di partenza della sua protesta. Lo possiamo leggere in queste sue parole:
«Quante volte ho visto brillare per una lagrima trattenuta i begli occhi profondi e bruni di mia
madre! Saliva in me un disagio invincibile, che non era pietà, non era dolore neppure, e neppure
reale umiliazione, ma piuttosto un oscuro rancore contro l’impossibilità di reagire, di far che non
avvenisse ciò che avveniva. Che cosa? Non sapevo bene. Verso gli otto anni avevo come lo strano
timore di non possedere una mamma “vera”, una di quelle mamme, dicevano i miei libri di lettura,
che versano sulle figliolette, col loro amore, una gioia ineffabile, la certezza della protezione costante» (Aleramo, 1906, p. 4).
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A soli quindici anni, per l’affetto profondo e l’ammirazione per il padre, accettò con entusiasmo
di lavorare nella sua fabbrica. Esprime così il suo “distacco” dagli operai del tempo:
«Io mi esaltavo in cuore misurando la distanza fra noi e “tutti quegli altri”. Quando rientravo a
casa dalla fabbrica, col berretto di lana rossa sui miei capelli corti e colla andatura rapida di persona affaccendata, udivo dei sussurri dietro di me: in faccia al caffè i soliti scioperati mi guardavano
sorridendo; sentivo che da una parte destavo la loro curiosità, dall’altra offendevo la loro abitudine
di veder le fanciulle passar timide, guardinghe e lusingate dai loro sguardi» (Ibid., p. 15).
«L’amore per mio padre − dice ancora − mi dominava unico. Alla mamma volevo bene, ma
per il babbo avevo un’adorazione illimitata; e di questa differenza mi rendevo conto, senza osare di
cercarne le cause. Era lui il luminoso esemplare per la mia piccola individualità, lui che mi rappresentava la bellezza della vita […]. Nessuno gli somigliava» (Ibid., p. 1).
Il tutto verrà meno quando scoprirà la relazione del padre con un’altra donna. Rina Faccio fu
sedotta e violentata a sedici anni da un impiegato della fabbrica e costretta, successivamente, ad un
matrimonio riparatore. Sarà proprio questo atto di riparazione ad interrompere le sue aspirazioni.
Il bimbo che nascerà rappresenterà in seguito un ulteriore legame, un impegno riversato totalmente sulle sue spalle e che non modificherà certamente il rapporto con il marito, così lontano dai
suoi interessi e soprattutto dai suoi diritti.
Oramai ingabbiata, vittima di una violenza sia sessuale che psicologica, iniziò per lei il declino
della depressione fino ad un tentativo di suicidio. Sono questi i dati che attingiamo dall’opera autobiografica “Una donna” della scrittrice Rina Faccio che deciderà, proprio in occasione della pubblicazione di questo romanzo, di adottare lo pseudonimo di Sibilla Aleramo (Aleramo, 1906).
È allora la nuova donna, Sibilla, che inizia a scrivere, a collaborare con riviste femminili, a
produrre recensioni, critiche, ma anche commenti di vita quotidiana (Strappini, 1994), oltre che a
collaborare con donne e autrici di successo quali Matilde Serao, Ada Negri, Maria Montessori, Anna
Kuliscioff, Alessandrina Ravizza, Grazia Deledda ed Eleonora Duse.
Da Milano, il marito la costringe a trasferirsi in un piccolo paese. Privata della sua libertà oltre
che della sua dignità, matura la decisione di salvare se stessa da un destino simile a quello di sua madre e di altre donne. Lascia il figlio e per lei inizia una seconda vita.
Intraprende collaborazioni letterarie con autori significativi del tempo come Giovanni Cena, che
sarà suo compagno per un certo periodo, e Dino Campana oltre che relazioni amorose etererosessuali con Quasimodo, Cascella, Rebora, Boccioni e omosessuali con Eleonora Duse. È sempre la sua
personalità ambivalente che la porterà ad un impegno politico dapprima con il partito fascista e poi
con il partito comunista. Nel frattempo mantiene alto l’impegno sociale con l’istituzione di scuole e
consultori nell’Agro romano e nel Mezzogiorno.
II. Il nucleo generatore di “Una donna”
Tra gli scritti sopra nominati dal 1897 al 1910 ho scelto di riproporre il nucleo generatore di “Una
donna” (Conti, 1978) dove l’ancora Rina Faccio comincia ad abbozzare le problematiche che hanno
permeato la sua vita, il focus a partire dal quale svilupperà l’intero suo percorso creativo.
Il punto di partenza è la maternità, sicuramente il più bell’evento nella vita di una donna. Proprio
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Sibilla Aleramo: la protesta virile nella storia di una donna
per la gioia e la felicità che la maternità arreca, una madre si sacrifica per il proprio figlio al punto da
dimenticare completamente se stessa. Se per il suo modo di pensare i figli dovrebbero essere debitori
verso chi ha dato loro la vita, nella sua riflessione accenna alla potenziale creatività del nuovo essere
che potrebbe così aprire una futura via ai rapporti intergenerazionali: non dunque la pedissequa ripetizione di una routine esistenziale, bensì la formazione di uno stile di vita più consono alle esigenze
attuali oltre che proprie dell’individuo. Ecco come si esprime in queste righe:
«Tutti siamo ingrati verso chi ci ha generato. Il ricordo e il rimorso di questa ingratitudine ci
colpiscono allorché a nostra volta abbiamo, nella maggiore commozione che sia data all’umanità,
generato un nuovo essere: e ne consegue istintivamente uno slancio di dedizione, una sete di sacrificio verso questo figlio, quasi per prevenire la di lui ingratitudine, per assicurarci quel conforto che
fu da noi negato a nostra madre e a nostro padre, forse anche l’oscuro desiderio di evitare a lui il
presente nostro rimorso.
Così la triste catena si svolge, ininterrotta, perpetuando sofferenze inaudite, violando l’essenza
della vita e della natura.
Oggi che si principia timidamente, lentissimamente, a spogliarci dei pregiudizi interiori, ben
altrimenti possenti e radicati di quelli che crearono leggi e regole sociali, a scorgere, pur tra l’ombra
incombente, alcune verità semplici e profonde, si dovrebbe tentare di rompere il filo assurdo e insieme logico che tramanda come un dovere l’idea del sacrificio, da discendenza a discendenza.
Che ogni essere viva per la maggior sua espansione, non intralciando altrui ma nemmeno ad
altri sottomettendosi, dovrebbe essere la norma unica.
Quando il figlio saprà che la madre non ha rinunciato per lui alla sua parte di sole, di amore, di
lavoro, di lotta, che ha rispettato in se stessa i diritti umani, saprà a sua volta essere intrepido nella
conquista del bene, a sua volta non troncherà la sua esistenza miseramente, per un’astratta quanto
falsa concezione del dovere dei genitori verso i generati.
Egli intenderà che questo dovere va inteso e applicato specialmente innanzi di dar vita al nuovo
essere, e che da posteriore deve trasformarsi in interiore: cioè che l’uomo e la donna devono sentire
l’immane responsabilità che essi hanno col futuro appunto quando più la vita urge in essi imperiosa,
violenta, seduttrice: attraverso la fiamma sovrumana e misteriosa dell’amore essi non devono obliare
la funzione suprema e insieme precipua di questo sentimento che li unisce attraverso lo spazio, le
cose, talvolta perfino attraverso altri esseri: devono conservare lucida la coscienza visuale, sì che
riesca loro possibile attingervi la certezza di portare gli elementi necessari per la formazione di una
creatura integra e possente, degna di vivere, degna di glorificare la vita.
Allorché la coppia può avere in sé questa superba sicurezza, allorché da essa il nuovo fiore
umano è nato, essa ha pagato il suo tributo alla specie: se debitore vi ha, in questo miracolo della
perpetuazione della vita, quegli è il figlio, da quel momento.
E adesso rinnoverà l’antica vicenda ereditaria assumendo e perfezionando, quando avrà raggiunto il rigoglio della virilità, l’alto senso di responsabilità verso la creazione di un uomo, d’ un’èra,
d’un mondo.
Fardello grave sempre questo che l’una discendenza passerà all’altra − e come potrebbe esser
bella e forte la vita senza una gravità serena e conscia? − ma non più materiato di amarezze, di ironia, di tutte le atroci sofferenze sterili indissolubili dal retaggio fin qui consacrato in forza di virtù
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Sibilla Aleramo: la protesta virile nella storia di una donna
negative, di bontà cieche, d’istinti deboli sopraffatti da artifici sentimentali».
(Giugno 1901, dopo una notte insonne).
Se questo brano è il “nucleo generatore” del romanzo, in esso vi sono i presupposti che porteranno alla massima espressione la protesta virile della donna che lo ha scritto. Comprendiamo dunque
come, adottando lo pseudonimo di Sibilla Aleramo, la ormai celata Rina Faccio, abbia pensato di
iniziare la sua “seconda vita”, coerentemente con le sue intime scelte di compenso, oltre che con le
rivendicazioni e ribellioni di cui sarebbe stata poi protagonista. È lei il “nuovo essere” che individualmente e poi collettivamente reagirà alla condizione del tempo.
III. La protesta virile di “Una donna”
Se vogliamo ripercorrere la vicenda di Sibilla Aleramo in un’ottica adleriana dobbiamo riferirci
alla sua costellazione familiare, all’insieme delle persone con lei conviventi e che influirono su di lei
nel periodo dell’età evolutiva.
Sono fondamentali per l’individuo (Adler, 1927; Pagani, 2003; Parenti, 1983) i primi quattro
o cinque anni della sua esistenza per la formazione della sua personalità, confermando quindi l’importanza del contesto familiare e sociale in cui il bambino nasce e poi cresce, oltre che delle sue doti
genetiche ereditate.
È così che ogni soggetto impronta il proprio stile di vita agli stimoli che riceve nell’ambito familiare, accogliendoli o rifiutandoli, secondo le proprie specifiche caratteristiche e attitudini. La relazione “con” i genitori e “tra” i genitori, “con” i fratelli e “tra” i fratelli, in altre parole “con” l’altro,
fornisce al bambino la capacità di pensare l’altra persona e quindi di comprenderla, rappresentandosi
così come dovrebbero essere i rapporti e le relazioni tra le persone. Questi presupposti sono alla base
dello sviluppo del sentimento sociale e il contesto sociale, percepito soggettivamente dal bambino,
offrirà il terreno opportuno per lo sviluppo e la crescita di questa potenzialità innata (Adler, 1935).
La figura materna rappresenta il «primo ponte verso la vita sociale» (Ansbacher & Ansbacher,
1956, p. 416), anche se pure alla figura paterna Adler riserva un ruolo educativo e cooperativo «con la
propria compagna nella cura e nella protezione della famiglia, su un piano di reale uguaglianza» (Ibid.,
p. 418).
Tornando alla scrittrice, la figura della madre, dal carattere dolce e remissivo, «cenerentola della
casa» (Aleramo, 1906, p. 3), «poco temuta da noi bambini, poco ubbidita» (Ibid., p. 4) e quella del
padre, tipico uomo borghese, oltre che il contesto socioculturale del tempo, la portarono a momenti di
riflessione profonda da lei definiti «uno di quegli stupori meditativi che costituivano il secreto valore
della mia esistenza» (Ibid., p. 5).
Dei rapporti con i genitori e in seno alla fratria ella dice: «Ero la figliuola maggiore, esercitavo
senza timori la mia prepotenza sulle due sorelline e sul fratello […] io avevo salute, grazia, intelligenza − mi si diceva − e giocattoli, dolci, libri, e un pezzetto di giardino mio. La mamma non si opponeva
mai a’ miei desideri. Perfino le amiche mi erano soggette spontaneamente» (Ibid., p. 1).
Da questi presupposti individuali inseriti nel contesto familiare, storico e socio-culturale del
tempo, possiamo leggere, quale linea di compenso, una protesta virile che riveste il significato di
rivendicazione del suo diritto in quanto donna ad essere non solo oggetto d’amore, ma soprattutto
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Sibilla Aleramo: la protesta virile nella storia di una donna
persona, individuo, unicità.
Nella teoria adleriana, in senso cronologico la protesta virile rappresenta in un primo tempo la
legge del movimento, dal minus al plus, dal “femminile” al “maschile”; in seguito essa si trasformerà,
«evolvendosi in altre formulazioni e, infine, [… nel] concetto di “aspirazione alla superiorità o alla
perfezione|”» (Ferrigno, 2006a, p. 78); l’aspirazione alla superiorità, vera e propria gara che l’individuo indice con se stesso non per competere con i propri simili ma per raggiungere la perfezione
(Adler, 1933; Pagani, 2003), rappresenta il dinamismo dialettico-compensatorio del sentimento di inferiorità. Quando l’aspirazione alla superiorità sostituirà il concetto di protesta virile, codesto termine verrà circoscritto al significato di lotta della donna che protesta contro il proprio ruolo femminile,
contro il potere maschile (Ansbacher & Ansbacher, 1956).
Nell’impianto teorico della protesta virile sono pertanto compresi molti argomenti cardine della
Psicologia Individuale: il pensiero antitetico, il concetto di compensazione, l’identità socio-sessuale,
l’ermafroditismo psichico in un intreccio costante operato dal potere creativo individuale, tra dinamiche psichiche profonde e aspetti sociali (Sanfilippo, 1998). Secondo la teoria adleriana, la protesta
virile è «un processo psicologico reattivo, cosciente-inconsapevole, per mezzo del quale l’uomo enfatizza la supremazia della propria virilità e la donna porta avanti la sua rivolta, palese o nascosta, contro
l’antico assoggettamento al maschio» (Pagani, 2003, p. 22). La compensazione è sia maschile che femminile e si sviluppa sia con mezzi propri dell’uomo che con mezzi propri della donna (Adler, 1930).
Se queste scelte di compenso sono indirizzate in senso individualmente e socialmente positivo, si
avrà un effettivo appagamento lungo la linea del fine ultimo prescelto, altrimenti la protesta può radicalizzarsi sotto forma di compensazioni abnormi e fittizie, orientate nel senso della non accettazione
di sé e dell’opposizione al mondo (Pagani, 2000).
La protesta virile è dunque una dinamica compensatoria, un “artificio” che va a bilanciare il
sentimento di inferiorità, un “espediente finzionale difensivo” di cui si serve la volontà di potenza
per superare l’inferiorità basica vissuta come ferita ontologica, il tutto in una visione soggettivamente
fenomenologica e al contempo sociale.
Essa può collocarsi tra la compensazione positiva e la nevrosi, nel qual caso può degenerare in
una supercompensazione che porta oltre i confini del “senso comune”.
E Sibilla Aleramo è al confine, al “limite”; esprime la sua protesta con tratti affermativi, di coraggio, di intraprendenza, filtrati attraverso un sentimento sociale che riesce sempre a modulare le spinte
nevrotiche: la sua personalità creativa «ha incorporato l’idea finzionale dell’equilibrio individuale e
sociale» (Mascetti, 2010, p. 120).
Già nel 1908 Alfred Adler, preannunciando molti concetti attualmente recuperati e riscoperti,
considera la nozione di Zärtlichkeitsbedürfnis, ovverossia il bisogno di tenerezza primaria del bambino, un precursore dell’empatia e, conseguentemente, del sentimento sociale: «il bisogno (Bedürfnis),
provato fin dal primo vagito dal bambino, di ricevere tutto ciò che è condensabile col termine “delicato” (Zärt) e, di conseguenza, affetto, cura, amore, coccole, se è riconosciuto, coltivato e fertilizzato
con sufficienti attenzioni e scambi di reciprocità da parte del caregiver che si prende cura di lui,
consente di “afferrare in alto le stelle eterne” che vivificano un buon “legame di attaccamento”» (Ferrigno, 2004, p. 4), una matrice nutritiva interna, capace di alimentare il «linguaggio della tenerezza,
della reciprocità, del sentimento sociale» [Ivi].
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Simona Brambilla
Sibilla Aleramo: la protesta virile nella storia di una donna
Attraverso questo rapporto fisico e insieme psicologico e affettivo si instaurano delle dinamiche
relazionali che sanciscono l’essere accolto dell’individuo in una comunità, la conferma del proprio
essere e dell’appartenere (Ghidoni, 2006). «L’innato senso sociale si vivifica col tempo, nel linguaggio della tenerezza, della reciprocità, del sentimento sociale» (Ferrigno, 2006b, p. 4).
Il “sentimento sociale” è dunque una potenzialità innata la cui evoluzione si sviluppa nel contesto sociale e familiare attraverso il filtro dell’interpretazione soggettiva dello stesso contesto di crescita e di vita (Ansbacher & Ansbacher, 1956). Questo bisogno profondamente radicato in ogni uomo
di cooperare e compartecipare emotivamente con gli altri esseri umani diviene la base della relazione,
in primis del bambino con la madre e poi dell’individuo cresciuto con il mondo esterno nell’ambito
dei compiti vitali dell’amore, dell’amicizia, del lavoro.
In tal senso l’individuo non va considerato come essere isolato, ma inserito in un contesto ambientale e socioculturale con il quale interagisce (Ferrigno, 2006a).
Infatti «per comprendere ciò che avviene nell’anima umana, occorre appurare come l’individuo
si comporti con i propri simili. I rapporti interpersonali sono in parte un’esigenza naturale (e pertanto
mutevoli) e in parte determinati da scopi ben precisi […]. La vita psichica dell’uomo può essere compresa solo inquadrandola nell’ambito di queste relazioni collettive» (Adler, 1927, p. 42).
Le relazioni significative di Sibilla Aleramo contemplano il rapporto con i genitori (a loro volta
generatori di ambivalenza e insicurezza), con i fratelli (nei confronti dei quali esprime prepotenza),
con il marito (che le impone sottomissione e violenza), con il figlio (che rappresenta gioia, dedizione
ma anche sacrificio). Le sue problematiche persistono dall’infanzia sino alla vita adulta, passando
attraverso un’adolescenza segnata dall’esperienza dello stupro. La relazione con la madre si è rivelata fallimentare a favore inizialmente di quella con il padre. Rileggendo in chiave adleriana il ruolo
del “paterno”, possiamo osservare come per la scrittrice il padre non abbia rivestito le caratteristiche
fondamentali di cooperazione con la propria donna per l’educazione e la crescita dei figli. Il momento
cruciale dell’adolescenza è stato, inoltre, per lei “bruciato” dal dramma dello stupro. Il modello maschile, che in questa fase di vita dovrebbe condurre il figlio verso la crescita, l’evoluzione e le nuove
esperienze di vita (Ghidoni, 2006) non appare come educativo e normativo, ma si scontra con la delusione di un vissuto della figura del maschio quale abusante e approfittatore.
Nella sua meta individuale intravediamo il desiderio di autoaffermazione, di libertà, di espressione della propria identità personale, sociale e sessuale, anche al di fuori della famiglia, in un necessario
cammino di rigenerazione che la vede consapevole dell’inutilità individuale e sociale di una dimensione di vita basata sulla rinuncia e sul sacrificio di sé.
IV. Riflessioni: dal passato al presente guardando al futuro
Dal punto di vista antropologico, è noto che la natura fisiologica della donna è l’espressione
della sua sessualità: la donna è legata al suo sesso come al suo destino; per questo anche i giudizi
che passano su di lei sono giudizi che passano attraverso il sesso e il suo comportamento sessuale
così significativo per la società. Per questo la donna ha potuto operare in proprio solo attraverso vie
“eversive” dell’ordine culturale costituito, che, più o meno direttamente, passano attraverso il sesso:
prostituzione, verginità, stregoneria, malattia mentale. Tutti momenti, questi, di rottura della norma,
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Sibilla Aleramo: la protesta virile nella storia di una donna
i soli in cui è stato concesso alla donna di esprimere il proprio conflitto. Per operare sulla realtà
storica la donna, dunque, nel corso del tempo, non ha avuto che una sola strada: rifiutare i valori in
cui era stata chiusa. Ma il suo rifiuto si è sempre svolto su linee subordinate alla cultura, anche se
eversive, perché sfruttano l’ambivalenza che la cultura stessa assegna alla “potenza” della donna
(Magli, 1974).
Forse in quest’ottica, possiamo rivedere la storia di Sibilla. La sua protesta non si è fermata solo
alla rinuncia del figlio, ma prenderà respiro nelle esperienze successive di vita. Rapporti culturali e
amorosi con nomi illustri di uomini e donne del tempo, sino al suo ultimo legame con un uomo molto
più giovane di lei.
I suoi orientamenti sessuali non appaiono come una “non scelta” di ruolo, richiamando così un
ermafroditismo psichico nevrotico, ma si possono leggere come modalità da lei utilizzate per mettere
in atto le sue intime finalità prevalenti.
A questo punto è possibile un parallelismo con il pensiero di un’altra donna, Simone de Beauvoir
(1949) che, ne Il secondo sesso ribadisce che la donna è femmina nella misura in cui ella si sperimenta
come tale. Non è la natura che definisce la donna, è lei che si definisce rielaborando in sé la natura,
secondo i propri moti affettivi. Il nocciolo dell’esistenzialismo della de Beauvoir è che ogni coscienza
si autodefinisce soggetto, contrapponendosi alle altre coscienze e definendole oggetti; ogni coscienza è
una trascendenza che realizza la propria libertà in un perpetuo superamento di se stessa in direzione di
altre libertà. Se un essere umano rifiuta di esercitare questa libertà, ricade in uno stato di immanenza, e
la sua libertà viene degradata al livello di attualità. Chiunque ostacoli o rifiuti la libertà di altri diviene
promotore di oppressione. Possiamo leggere l’adleriano concetto di potere creativo dell’individuo,
nelle parole conclusive di un’altra opera della de Beauvoir (1964): «di ciò che avviene all’uomo, nulla
è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mondo» (p. 102).
Come ci ricorda Parenti (1983,) «a cavallo fra l’ottocento e il novecento, le rivendicazioni di
ruolo da parte della donna cominciavano appena ad affacciarsi al vaglio dell’opinione pubblica e
suscitavano scandalo o derisione[…]. L’essere donna, d’altra parte, comportava svantaggi sociali,
minor potere decisionale, alcuni inconvenienti nel gestire le situazioni amorose e alcune antitetiche
connotazioni etiche come fonte di peccato» (p. 20).
C’è ancora molto di attuale in queste considerazioni, anche se ci troviamo oramai nel XXII
secolo. Non passa giorno in cui notiziari o quotidiani non commentino notizie relative alle problematiche delle donne di oggi: dalla ricerca di un proprio ruolo, anche all’interno di quello “materno” per
eccellenza (vedi maternità surrogata o utero in affitto), alla condizione della donna con il burka e che
in certi paesi come l’Arabia Saudita non può guidare l’automobile; dalle differenze di retribuzioni, di
partecipazione politica, di educazione, di diritto alla salute (lo Yemen è in testa alla classifica, mentre
l’Italia è al 71° posto tra i paesi mondiali), ai casi di stalking e femminicidio e per rimanere in casa
nostra alla problematica delle lavoratrici con figli e della carenza di asili nido (Alesina & Ichino,
2009). Quale il messaggio moderno di Sibilla Aleramo?
Sibilla Aleramo fugge dalla triade padre-marito-figlio. La sua realizzazione che sarebbe dovuta
essere nel figlio va “oltre” il figlio, verso una meta mai effettivamente raggiunta ma che le permetterà
di attuare di volta in volta il suo potere creativo portandola a superare la sua individualità per inserirsi
in un contesto più ampio di impegno socio-culturale.
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Sibilla Aleramo: la protesta virile nella storia di una donna
Questa è l’ultima frase che leggiamo in Una donna: «Mio figlio può odiarmi, ma non mi deve
dimenticare […]. Un giorno le mie parole lo raggiungeranno» (Aleramo, 1906, p. 165).
Parole che hanno raggiunto tutti noi, pure noi figli, pure noi donne.
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DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 76-80 (2014)
CONFRONTI
ADOLESCENZE IN CRISI DI SENSO
Eugenio Borgna
Riassunto
Abstract
Adolescenze in crisi di senso. L’articolo affronta la crisi
o la perdita del senso della vita presso gli adolescenti con
conseguente deserto emotivo, noia e rabbia. Il deserto
emozionale comporta un inaridirsi delle emozioni e dei
sentimenti in un orizzonte di individualismo esasperato. Dalla
noia nasce l’impulso verso un divertimento furibondo e verso
la disperazione che ne consegue; l’adolescente annoiato vive in
un presente che non ha passato e non ha futuro. La rabbia che
può sconfinare nella violenza rivolta verso persone e oggetti ci
mostra come sia difficile ai giorni nostri riuscire ad accettare
il dolore come dimensione ineliminabile della vita. Soltanto
l’apertura prospettica verso la speranza può ridare senso a una
vita apparentemente senza senso.
ADOLESCENCE IN CRISIS OF MEANING. The article deals
with the crisis or the loss of the meaning of life in adolescents
and the consequent emotional desert, boredom and anger.
The emotional desert involves the drying up of emotions and
feelings in a horizon of extreme individualism. The bored
teenager feels an impulse toward a furious fun with the despair
that follows and his indifference towards values lets him live
in a present that has no past and no future. Anger that can spill
over into violence towards people and objects shows us how
difficult it is nowadays to be able to accept pain as inescapable
dimension of life. Only the perspective openness to hope can
make a seemingly meaningless life worth living.
Parole chiave
Keywords
ADOLESCENZA, SENSO DELLA VITA, DESERTO
EMOZIONALE, SPERANZA
ADOLESCENCE, MEANING OF LIFE, EMOTIONAL
DESERT, HOPE
I.
Premesse
In questo mio discorso vorrei svolgere qualche riflessione sulla fenomenologia di esperienze
di vita adolescenziali, oggi sempre più frequenti, contrassegnate da quella che vorremmo definire
la crisi, o la perdita, del senso della vita; muovendo da tre possibili ragioni fondazionali che sono il
deserto emotivo, la noia e la rabbia. Ovviamente, ce ne sono altre ma queste consentono di avvicinarci
agli abissi motivazionali che si intrecciano gli uni agli altri nella genesi di queste crisi alle quali anche
la psichiatria, quella fenomenologica in particolare, non può non guardare con grande attenzione.
Come ha scritto Nietzsche (1999), chi ha un perché vivere, accetta qualsiasi come; e da qui vorrei
iniziare il mio discorso.
Come ha scritto Viktor Frankl (1998): «Viviamo nell’epoca del crollo e della vanificazione
delle tradizioni. Invece di creare nuovi valori con la ricerca di significati unici, capita esattamente il
contrario. I valori universali sono in declino. Questa è la ragione per cui un numero sempre maggiore
di persone piomba in un sentimento di assurdità e di vuoto o, come son solito chiamarlo, nel vuoto
esistenziale. Tuttavia, anche se tutti i valori universali scomparissero, la vita rimarrebbe piena di
significato, dal momento che i significati unici rimangono intatti nella perdita delle tradizioni. Certo,
se l’uomo deve cercare i significati anche in un’epoca priva di valori dovrà essere fornito di una forte
capacità di consapevolezza. È perciò evidente che in un’epoca come la nostra, un’epoca di vuoto
esistenziale, il compito principale dell’educazione non è quello di trasmettere delle conoscenze e
delle nozioni, ma piuttosto di affinare la coscienza in maniera tale che l’uomo possa scorgere le
esigenze racchiuse nelle singole situazioni».
76
Eugenio Borgna Adolescenze in crisi di senso
II. Il deserto emozionale
La crisi, e poi la perdita, di senso nella vita hanno molte radici, certo, ma una di queste è
rappresentata negli adolescenti e nei giovani, ma anche ovviamente negli adulti, dall’inaridirsi delle
emozioni: dei sentimenti.
Come dice Umberto Galimberti (2007), quello che nella nostra epoca si avverte sempre di
più è la sovrabbondanza di stimoli esterni, e la carenza di comunicazione, che conducono alla
indifferenza esistenziale, e alla mancanza di risonanze emozionali, di fronte ai fatti, e ai gesti che si
compiono. Ma quali possono essere le cause di questo deserto emozionale? Manca un’educazione
emotiva: in famiglia dove gli adolescenti trascorrono il loro tempo con la televisione e con internet
come compagni di vita, e a scuola dove non di rado chi insegna si preoccupa di offrire agli alunni
conoscenze teoriche e pratiche ma disancorate da una sincera e palpitante partecipazione emozionale
al loro destino, e in ogni caso troppo lontane da quelle semplificate, e nondimeno dotate di sensibilità
emozionale, della televisione. La scuola non è sempre all’altezza di un’educazione psicologica che
preveda una maturazione intellettuale, certo, ma anche una maturazione emotiva.
Ad accrescere il deserto emozionale si aggiunga il fatto che i valori dominanti della società di
oggi sono incentrati sul successo, sul denaro, sulla negazione del dolore, e della fatica di vivere, e
non sono se non di rado indirizzati alla solidarietà e alla comprensione dei doveri, e dei sacrifici.
Nel deserto della comunicazione emotiva, che da bambini non ci è arrivata, da adolescenti
non abbiamo incontrato, e da adulti ci hanno insegnato a controllare, crescono un individualismo
esasperato, e insieme una grande difficoltà ad una riflessione interiore che consenta di creare relazioni
autentiche. Ci si avvia, così, ad una lenta desertificazione delle emozioni che sono essenzialmente
relazione, e che sono soffocate dalla indifferenza, e dal divertimento, dalla noncuranza, e dalla
aggressività; e non si sa più mettere in contatto il cuore con la mente, la mente con il comportamento,
e il comportamento con il riverbero emozionale che gli avvenimenti destano nel loro cuore.
Ma gli adolescenti e i giovani di oggi hanno soprattutto bisogno di forza d’animo perché non
sono più sostenuti da una tradizione, perché si sono frantumate le tavole dove erano incise le leggi
della morale, perché si è smarrito, o si è definitivamente perduto, il senso dell’esistenza, e incerta ne
è divenuta la direzione. Le parole che i padri rivolgono ai figli sono insicure e incerte.
E la scuola? I professori entrano in classe; ma li vedono in faccia questi ragazzi? Li guardano
uno ad uno? Li chiamano per nome, o solo per cognome, quando devono interrogarli? Sanno che la
generazione di giovani con cui hanno a che fare, a causa delle rapidissime trasformazioni economiche,
sociali e tecnologiche, sono di una impressionante fragilità emozionale? Sanno che l’emozione, se
non trova il veicolo della parola, ricorre al gesto che può essere anche quello della violenza: della
violenza sugli altri, e talora della violenza su di sé? Come non sapere che le emozioni si lacerano
quando i figli non sono più capaci di comunicazione in famiglia, e il solo sbocco comunicativo è
quello dell’ambiente scolastico che su queste emozioni dovrebbe riflettere, e lavorare? Questo è il suo
primo compito perché senza emozioni non si crea nessun interesse, e senza interesse nessuna volontà
di applicazione.
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Eugenio Borgna Adolescenze in crisi di senso
III. La noia
La noia, l’esperienza della noia, è un’altra modalità che porta gli adolescenti a smarrire il senso
della vita, e dalla noia nasce l’impulso al divertimento e alla disperazione che ne consegue. Si assiste
ad una estesa amplificazione della noia, e contemporaneamente alla paura che essa trascina con sé, e
che porta alla ricerca di vie di fuga con la ricerca e la realizzazione di occasioni di aggressività che
consentano una momentanea interruzione della noia.
L’elemento, che sembra più contrassegnare l’orientamento dell’adolescente che si sente annoiato,
è l’indifferenza che ha due aspetti: l’indifferenza etica che non consente di distinguere il bene dal
male, e quella emozionale che induce a negare valore alle persone, e alle situazioni. L’indifferenza ai
valori e agli orizzonti di senso delle emozioni fa vivere in un presente che non ha passato, e non ha
futuro.
Dalla noia, dall’ansia di uscirne fuori, nasce la condizione di eccitamento momentaneo che
sconfina, nelle modalità adolescenziali di gruppo in particolare, in gesti “forti” come sono gli
atti aggressivi, i furti, la guida selvaggia in automobile, e, con frequenza crescente, l’assunzione
di sostanze alcoliche, e stupefacenti, con le fatali conseguenze. Ma, al di là di questi gesti, la vita
emozionale, divorata dalla noia, è arida, senza palpiti spontanei; e come è possibile vivere una vita
dotata di significato quando le emozioni hanno smarrito la loro spontaneità, e i loro bagliori?
L’ambito più consueto e familiare, nel quale hanno luogo le ambivalenze emozionali e relazionali
alimentate dalla noia, è quello di internet. In adolescenza, ma anche in età adulta, internet si costituisce
come esperienza antitetica alla noia ma senza che questa ne sia sconfitta: semmai, solo anestetizzata.
Ovviamente, internet è rivissuto non come strumento di conoscenza e di formazione, come è, o almeno
come può essere, ma come possibilità di mettersi in comunicazione con persone che si incontrano
nondimeno a distanza: in una astratta e gelida lontananza.
Ma dalla noia può nascere una vera e propria dipendenza da internet: in internet, epifania della
razionalità tecnica, si conosce stando fermi, si stabiliscono contatti senza entrare in contatto, si provano
sensazioni senza che si abbia vicinanza umana. Ne sono esempio emblematico le amicizie online che
nascono nei social network: in essi, che tendono invano a compensare la condizione di isolamento
di tanti adolescenti e di tanti adulti, l’amicizia non nasce dal reciproco scambio emozionale, ma solo
dalla occasionale e superficiale conoscenza che non lascia tracce nella memoria.
Nelle “Pensées” di Blaise Pascal (2000) le correlazioni fra la noia e le sue conseguenze
psicologiche, e umane, sono mirabilmente rappresentate, e in qualche modo anticipano quella che è
l’attuale fenomenologia della noia: della noia mortale in particolare. La condizione dell’uomo, egli
dice, è contrassegnata da queste vertiginose sequenze tematiche: ennui, divertissement, désespoir,
agitation e imagination. «Nulla è così insopportabile all’uomo dell’essere in piena inattività, senza
passioni, senza occupazione, senza divertimento e senza assidua applicazione».
I contesti emozionali delle famiglie, nelle quali nascono e crescono le adolescenze divorate
dalla noia, sono contraddistinti dalla inadeguatezza e dalla aridità delle relazioni, dalla incapacità di
ascoltare e di rimettere in discussione dialogica le proprie convinzioni, e dalla mancata volontà di
confrontarsi con i problemi interiori dei propri figli.
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Eugenio Borgna Adolescenze in crisi di senso
IV. La rabbia
L’esperienza della rabbia testimonia, in modi diversi da quelli della noia, delle inquietudini e
degli sbandamenti emozionali degli adolescenti e dei giovani di oggi. Anche quando assuma la sua
connotazione meno distruttiva, quella della parola, la rabbia modifica il modo di essere del corpo,
della mimica, dello sguardo, della voce, e rischia sempre di sconfinare nella violenza indirizzata alle
persone e agli oggetti.
La prima cosa, che riemerge dalla considerazione psicologica della rabbia, è la tendenza all’actingout: all’impulso inarrestabile all’agire in assenza di ogni adeguata elaborazione psicologica, e di
ogni riflessione interiore. La rabbia si manifesta dinanzi ad ogni esperienza di perdita, di scacco, o
di défaillance, ostacolandone la comprensione e l’accettazione, e indirizzando all’esterno la colpa
del fallimento, e la ricerca della punizione di chi ne sia ritenuto responsabile. Ma l’esperienza della
rabbia può insorgere anche quando si abbiano ad intraprendere nuovi percorsi, e a ricercare nuove
relazioni, che si rivelano deludenti e diversi da quelli immaginati e attesi, e ai quali non ci si adatta, e
ci si ribella, con modalità comportamentali aggressive e distruttive.
La nostra epoca tende a presentare un’atmosfera sociale e psicologica nella quale non si pratica
l’accettazione della perdita, della sconfitta, della malattia, delle frustrazioni, che si convertono invece
in rabbia incontrollata. Ma la nostra è ancora un’epoca nella quale, e non solo nell’adolescenza, si è
incapaci, ma non si ammette di esserlo, di svolgere, magari con lentezza e con pazienza, comportamenti
adeguati a conseguire le mete desiderate, gli obiettivi ricercati, e si è incapaci di realizzare difese
proporzionate alle offese che si subiscono, magari ingiustamente, da parte degli altri.
La rabbia diviene protesta, e grido, andando al di là di ogni misura, e di ogni controllo, e di
qui le aggressioni che nascono sulla scia di avvenimenti in sé banali. Così un incidente di macchina
si accompagna a comportamenti, che giungono non solo a ledere la reciproca dignità ma anche a
fare loro del male, e a suscitare sentimenti di avversione e di invidia, di rifiuto e di odio, tali da
lasciare tracce che non si cancellano, e che si accrescono nel corso del tempo: aggrovigliandosi, e
associandosi, a mille altri ingiustificati motivi di avversione.
Con la sua larga diffusione a livello sociale (c’è rabbia nelle famiglie, nella scuola, sul lavoro,
sulle strade, nella vita politica) la rabbia ci dice come oggi sia difficile accettare il dolore come
dimensione ineliminabile della vita, e solo si abbiano a desiderare analgesie chimiche che, quando
non bastino a frenare il dolore, si accompagnano ad esplosioni incontrollate di rabbia. La rabbia è
insomma un fenomeno sociale che indica come il nostro sia un tempo che non è alla ricerca di un
senso della vita, di un appagamento esistenziale, ma che è alla sola ricerca di soddisfazioni immediate.
L’ulteriore analisi tematica della rabbia ci consente di cogliere in essa lo snodarsi di una triplice
sfiducia: la sfiducia nel futuro come fonte di infinite nuove possibilità di vita che modificano le attuali;
la sfiducia nella dimensione della dualità, della relazione, della partecipazione al destino degli altri,
dell’essere in un mondo della vita comune a ciascuno di noi; e infine sfiducia nella volontà degli altri
ad accogliere i nostri desideri e le nostre attese: le nostre speranze. Ma, in fondo, nell’esperienza della
rabbia si nasconde una protesta invidiosa rivolta verso chi ha e non dà, e verso chi ha, o sembra avere,
di più.
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Eugenio Borgna Adolescenze in crisi di senso
V. La speranza
Come cambiare, cosa fare, o almeno cosa proporre, dinanzi a condizioni adolescenziali di vita
così ferite dal deserto emotivo, dalla noia e dalla rabbia? Sono condizioni di vita nelle quali entrano in
gioco motivazioni esistenziali e sociali, psicologiche e umane, religiose e metafisiche, e come arginarle
nella loro complessità e nelle loro articolazioni tematiche? Non ho potuto, ovviamente muovendo
dagli orizzonti di esperienza e di riflessione della psichiatria, se non indicare, fare la diagnosi, alcune
delle motivazioni che mi sono sembrate agire nella concatenazione delle circostanze alle quali
ancorare la crisi o la perdita del significato della vita. Il deserto emozionale, la noia e la rabbia sono
strutture portanti, ce ne sono altre ovviamente, che stanno a fondamento del malessere adolescenziale
e giovanile, oggi dilagante, nel quale si riverberano responsabilità congiunte e molteplici: quelle
delle famiglie e delle scuole, delle tecnologie sempre più implicate nell’articolazione di una vita
automatizzata e reificata alla quale viene meno la dimensione spirituale. Sì, rinascesse in noi, e nel
mondo della vita, la speranza umana e cristiana, la speranza di san Paolo, le cose cambierebbero.
BIBLIOGRAFIA
BORGNA, E. (2011). La solitudine dell’anima. Milano: Feltrinelli.
FRANKL, V. E. (1969). The will to meaning: Foundations and applications of logotherapy. New York and
Cleveland: The World Publishing Company. (Trad. it. Senso e valori per l’esistenza. Roma: Città Nuova,
1998).
GALIMBERTI, U. (2007). L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani. Milano: Feltrinelli.
NIETZSCHE, F. (1999). L’innocenza del divenire. Antologia dai frammenti postumi 1869-1888. Milano:
Rusconi.
PASCAL, B. (2000). Oeuvres completes, II. Paris: Gallimard.
SAN PAOLO. (I sec. d. C.). Le lettere. Torino: Einaudi, 1990.
Eugenio Borgna
Via Pietra Scritta, 12
I-28021 Borgomanero (No)
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DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 81-89 (2014)
CONFRONTI
MEDIAZIONE FAMILIARE
E LEGAMI INTERGENERAZIONALI
Costanza Marzotto
Riassunto
Abstract
Il testo presenta alcuni dati di ricerca sulla mediazione
familiare in casi di separazione o divorzio condotti all’interno
del modello relazionale simbolico. Quello che emerge su un
campione di 56 coppie mediate tra il 2004 e il 2005 in Italia,
da professionisti afferenti a tale paradigma teorico, è che il
successo del percorso mediativo è direttamente connesso alla
“globalità” di applicazione del modello stesso, ovvero alla
trattazione sia dei temi educativi che patrimoniali, alla base
dei conflitti post separazione. Inoltre la redazione degli accordi
finali avviene più facilmente se il mediatore si attiene alle
peculiarità del modello, ovvero nella misura in cui procederà
alla redazione di un contratto iniziale di lavoro con la coppia,
redigerà congiuntamente un’agenda dei punti da negoziare e
accompagnerà i genitori nella negoziazione analitica di tutti gli
aspetti in gioco tra cui la possibilità per i figli di continuare
ad accedere alle due stirpi familiari, quella paterna e quella
materna, fonti della propria identità.
FAMILY MEDIATION AND INTERGENERATIONAL TIES.
The text presents some research data on family mediation in
cases of separation or divorce, carried out within the relational,
symbolic model. Between 2004 and 2005 some professionals,
related to this theoretical paradigm, mediated a sample of 56
couples in Italy and it emerged that the success of the mediating
path is directly connected to the “totality” of application of
the model itself, that is to the discussion both of educational
themes and patrimonial ones, which are the main reason for
the post separation conflicts. Moreover the drafting of the final
agreements will happen more easily if the mediator follows the
peculiarities of the model , that is insofar he proceeds to the
draft of an initial contract of work with the couple, he draws
up agenda points to be negotiated and helps the parents in the
analytical negotiation of all the aspects at stake, including the
opportunity for the children to continue to be admitted to the
two family lineages, the paternal one and the maternal one,
sources of their identity.
Parole Chiave
Keywords
MEDIAZIONE FAMILIARE, TRASMISSIONE
INTERGENERAZIONALE, TRANSIZIONE DEL DIVORZIO,
PROCESSO MEDIATIVO
FAMILY MEDIATION, INTERGENERATIONAL
TRANSMISSION, TRANSITION OF DIVORCE, MEDIATING
PROCESS
I.Premessa
La domanda di fondo che possiamo porci − dopo molti anni di pratica e di formazione nel
campo della mediazione familiare come Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia e come
Alta Scuola di psicologia “A. Gemelli” dell’Università Cattolica − potrebbe essere così formulata:
“Come il modello relazionale simbolico ha influenzato l’intervento con le famiglie nella transizione
del divorzio?”. Ovvero, “Cosa caratterizza la mediazione familiare e i gruppi con genitori e figli alla
luce di questo paradigma?”. Dopo oltre quindici anni d’interventi clinici e di formazione nel campo
della mediazione, “cosa è stato possibile mettere a punto rispetto ad una concettualizzazione specifica
della teoria e della tecnica della mediazione familiare?”
Facciamo qui riferimento ad un modello organico di conoscenza e d’intervento sulla famiglia,
fondato su presupposti antropologici ed epistemologici precisi e dichiarati (Scabini, 1995; Cigoli,
1998; Scabini & Cigoli, 2000, 2012), dove si dispone di una teoria organica del funzionamento
familiare applicata per ogni fase del suo ciclo di vita, esplicativa del suo funzionamento “sano” e
patologico, che presenteremo brevemente qui di seguito.
Fin dall’inizio ripensammo al conflitto inteso come un’occasione di rigenerazione dei legami
e non come la ricerca di un semplice compromesso. Inoltre, come affermato in più occasioni, la
81
Costanza Marzotto
Mediazione familiare e legami intergenerazionali
negoziazione rappresenta una fase del processo trasformativo con la coppia separata, a differenza di
altri modelli di soluzione alternativa delle dispute, appiattiti sulle tecniche, per trovare un accordo.
Nel corso della mediazione, infatti, l’obiettivo è l’attenzione e la cura del legame come “oggetto
terzo”, generato dal legame matrimoniale e ora prodotto dal rito dello “smatrimonio” per usare un
termine un po’ insolito che traduce la parola francese “démariage”.
È noto a tutti che senza l’altro non ci si separa e che proprio perché c’è stato un engagement
reciproco, una presa in carico responsabile tra i partner, ora entrambi sono impegnati nel lavoro
di riformulazione del patto, di trasformazione del legame soprattutto in vista della continuità della
funzione genitoriale.
II. Cosa s’intende per mediazione familiare
La mediazione familiare è qui intesa come un percorso di 8/10 incontri di un’ora e mezza
ciascuno, di solito a cadenza quindicinale, intrapreso da coloro che vivono un’elevata conflittualità
e desiderano prendere accordi portando in salvo il legame che li unisce. Si tratta di un lavoro in cui
il professionista (un mediatore appositamente formato), a partire da un ascolto reciproco, conduce
il gruppo alla ricerca di soluzioni sufficientemente buone per genitori e figli (nella riorganizzazione
della vita familiare dopo la separazione della coppia) o per l’anziano e la sua parentela, in occasione di
conflitti tra le generazioni, in presenza di problemi legati alla malattia o alla morte di un componente
del corpo familiare.
Come noto, la separazione coniugale mette a dura prova il benessere dei componenti la
famiglia e i suoi membri corrono il rischio di perdere quella che siamo soliti definire “la continuità
intergenerazionale”, il proprium del familiare. Spesso la frattura della coppia rende problematico
l’accesso da parte dei figli alle due stirpi, non solo per le difficoltà a frequentare i nonni e i cugini se
i due clan sono in rotta tra loro, ma anche perché gli “oggetti del conflitto coniugale” sono spesso gli
oggetti/ambiti di trasmissione tra le generazioni.
Dalle nostre ricerche e in occasione della permanente revisione della pratica con gli ex-allievi
mediatori relazionali simbolici, risulta che nell’“agenda di lavoro” redatta con le coppie all’inizio della
mediazione, vengono indicati come temi da trattare, non solo il progetto educativo per i figli in tutte le
sue dimensioni, ma anche la divisione del patrimonio familiare (mobile e immobiliare). Fonte di litigi
e occasione di accordi sono, come si sa, i beni di famiglia (il patris-munus e il matris-munus): i figli, la
casa, gli oggetti dell’arredo, i regali di nozze, tutto quanto si è scambiato in occasione del matrimonio tra
un uomo e una donna e tra le due famiglie d’origine. Uno degli effetti devastanti del divorzio è spesso la
rottura di qualunque comunicazione tra le due stirpi e la richiesta ai figli di schierarsi da una parte, con
la conseguente perdita anche dei beni ereditari in senso reale e/o simbolico.
La mediazione familiare, nella misura in cui favorisce non solo il raggiungimento di accordi, ma
anche il “rilancio del patto coniugale oltre la sua fine”, è uno strumento prezioso per aiutare le persone
a salvaguardare la trasmissione intergenerazionale e a preservare le radici dei figli in entrambe le
stirpi, garantendo ad essi la posizione di “essere generato”.
Se il principale compito di sviluppo per il corpo famigliare in occasione della transizione del
divorzio è quello di realizzare la cooperazione tra ex-coniugi allo scopo di permettere l’esercizio
congiunto e responsabile della funzione genitoriale, la presenza del terzo è lì per ricordare la storia
familiare e facilitare l’accesso dei figli alle due famiglie d’origine e permettere anche ai nonni la
82
Costanza Marzotto
Mediazione familiare e legami intergenerazionali
frequentazione e lo scambio di doni con i nipoti. I due ex-coniugi infatti mantengono un compito
importante anche rispetto alle generazioni precedenti, per continuare uno scambio e un sostegno
reciproco ed evitare il rischio di un appiattimento in una relazione solo duale. Pensiamo in particolare
ai pericoli che corre il figlio unico nelle situazioni di un affidamento esclusivo alla madre, quando gli
viene chiesto di ricoprire il ruolo di “oggetto totale”, ovvero di svolgere per lei la funzione di partner
e di genitore del proprio genitore, come a volte ci comunicano i figli di genitori separati all’interno
del Gruppo di parola (Marzotto, 2010b).
Per permettere una transizione riuscita i genitori separati che vorrebbero rompere con il passato
e se fosse possibile, cancellarlo, vanno accompagnati a realizzare un processo di trasformazione
del legame, anche laddove ci sia già stato divorzio legale. Infatti, pensiamo che la cura del legame
familiare sia da preservare anche se si è verificata una violazione del patto dichiarato e/o del patto
segreto1, anche se c’è stato un tradimento, assai pesante per la coppia, ma non sufficiente per ledere
i diritti dei figli a mantenere l’accesso ai due sessi, alle culture dei due nuclei familiari, paterno e
materno. È questo uno degli obiettivi principali del lavoro dei mediatori familiari, professionisti, cioè
testimoni/rappresentanti del corpo sociale che si prende cura del corpo familiare.
III. Alcuni dati di ricerca
Qui di seguito presentiamo i risultati preliminari di uno studio valutativo “intra-modello” che
abbiamo avviato per verificare empiricamente l’efficacia del nostro approccio e per valutare in particolare:
● in che misura gli interventi di mediazione familiare producono i risultati attesi;
● quali sono i fattori processuali discriminanti, cioè quali le variabili e le condizioni critiche
connesse all’esito del processo di mediazione;
● come l’intervento di mediazione (attraverso quali oggetti di negoziazione) favorisce e tutela la
trasmissione intergenerazionale.
Questa risorsa dovrebbe infatti permettere una ritualizzazione del conflitto coniugale, il suo
riconoscimento/identificazione e una sua elaborazione/superamento: in altre parole la mediazione
familiare può essere riconosciuta come un sostegno del corpo sociale al corpo familiare per permettere
una “nuova pattuizione” tra i genitori. Cioè − se la famiglia è il frutto di un patto dichiarato,
indipendentemente dal patto segreto che la sostiene − in occasione della separazione si abbandona o
si rompe questo patto dichiarato, ma restano da liquidare altri bisogni soddisfatti dal versante segreto
dell’alleanza. E dunque la domanda potrebbe essere così formulata: quale nuovo patto sarà possibile
ricostruire affinché non ci sia solo ripetizione o manifestazione di sintomi?
Il presupposto è che il matrimonio o la coabitazione portano in sé una dimensione pubblica
socialmente importante e che l’assenza di un momento forte di passaggio non aiuta a mantenere
1
Definiamo “patto dichiarato” la promessa di restare insieme nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, come si dice in
occasione delle nozze; parliamo di “patto segreto” quando scopriamo, dopo anni o in occasione di una terapia o di una mediazione,
l’incastro specifico che ha impegnato i membri di una coppia per soddisfare i bisogni rispettivi, per far fronte alle reciproche attese,
contenere le paure e i pericoli della vita. L’elemento cruciale e specifico di questo evento critico è la fine del patto coniugale (contratto
esplicito + incastro segreto). Il compito evolutivo ad essa correlato è, conseguentemente, l’elaborazione della fine del patto coniugale
ed il rilancio del patto genitoriale: compito che può essere affrontato con esiti differenti e che espone a rischi specifici (transizione,
stallo disperante, chiusura endogamica, indifferenza generazionale) (Cigoli, 2000, 2008, 2013).
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Costanza Marzotto
Mediazione familiare e legami intergenerazionali
fiducia nel legame. In occasione del divorzio si rischia di interrompere la comunicazione (il livello
interattivo), di strappare la relazione (il livello relazionale), ma di non curare sufficientemente il
legame sociale (il livello simbolico). Alle nuove generazioni sarà possibile aver cura (essere dei
care-givers) di altre relazioni importanti, se le persone avranno fatto esperienza della giustizia e
della speranza al di là del conflitto. Ed è nella famiglia che è possibile fare quest’esperienza di base.
In occasione del divorzio il rischio è quello di abbandonare la speranza nei legami e di costruirne di
sempre più fragili per il timore di soffrire troppo quando questi si romperanno.
Nel nostro modello la mediazione prende il posto di un rito di transizione, di un momento in cui
riconoscere il conflitto coniugale come un’occasione di individuazione. Un conflitto a nostro parere
non sufficientemente riconosciuto, né “permesso”, nei tribunali e nelle cerimonie familiari e sociali.
Si tratta di un rito di passaggio per permetterne il riconoscimento, l’ identificazione e l’elaborazione
delle sue molteplici dimensioni ed accedere così alla dimensione simbolica, arrivare a scoprirne il
significato per sé, per i figli e per i nonni. Parliamo per questo di all issues mediation (Parkinson, 2013)
in quanto vi è un’apertura globale a tutti gli oggetti del conflitto e della negoziazione (sia riguardo ai
figli che ai beni materiali). Pur mantenendo un controllo del processo, c’è una flessibilità del setting e
degli strumenti, dove intravediamo la possibilità di ricorrere anche ad incontri individuali, o con i figli
o di “prescrivere” dei compiti attivi di facilitazione comunicativa e di insight emotivo sia in seduta
che tra un incontro e l’altro.
Già nel 1998, Vittorio Cigoli, in occasione del Convegno internazionale a Lione - FR, introdusse
la metafora del mediatore come traghettatore, riconoscendogli un ruolo ben distinto da quello di altre
figure professionali. Il mediatore ha per noi compiti circoscritti e uno “stile di lavoro forte” nel senso
che utilizza uno stile direttivo nella conduzione dell’incontro ed è incaricato di proteggere le tappe
del percorso stabilite nel contratto iniziale, ma in cui sono i partner che indicano la meta, il porto di
destinazione. Per questo la mediazione rappresenta una tappa fondamentale nell’impegno del corpo
sociale per garantire alle nuove generazioni la possibilità di accesso alle stirpi dell’uno e dell’altro
genitore, di pendere da entrambi i rami dei due alberi genealogici. A questo scopo il mediatore
relazionale simbolico utilizza spesso il noto strumento grafico simbolico detto “il genogramma o
ecogramma” affinché le diverse generazioni possano essere collocate nello spazio e nel tempo della
storia familiare (Montagano & Pazzagli,1989).
IV. La ricerca: gli obiettivi e il metodo
La ricerca si proponeva di verificare l’efficacia dell’approccio transizionale-simbolico alla
mediazione familiare non solo “misurando” i risultati ottenuti (ovvero la frequenza dei successi e
delle interruzioni), ma analizzando le connessioni esistenti tra le variabili di processo ed i risultati
ottenuti. La domanda che ha orientato il lavoro di ricerca non è stata soltanto “se” la mediazione
funziona, ma “come” e “perché” funziona. In altre parole si è trattato di un’analisi del processo di
mediazione per individuarne i fattori cruciali, specifici e distintivi di questo approccio e dall’altra per
esplorare le potenzialità del modello adottato nel promuovere e tutelare la continuità della trasmissione
intergenerazionale nelle situazioni di separazione.
Il campione comprendeva 56 processi di mediazione familiare condotti secondo questo
84
Costanza Marzotto
Mediazione familiare e legami intergenerazionali
modello da professionisti formati dallo staff del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia
dell’Università Cattolica di Milano e ASAG, sulla base di uno schema dettagliato e sistematico,
predefinito dall’équipe di ricerca e riferito ad ogni fase del processo.
Tra i risultati più significativi, prendiamo in considerazione, anzitutto, la distribuzione di
frequenza dei risultati ottenuti. Come è illustrato nel Graf. 1, sembra che il lavoro di mediazione sia
molto efficace, poiché produce nel 75% dei casi un risultato positivo (51,8% di accordi completi e
23,2% di accordi parziali o provvisori), poco più del 20% di interruzioni (ovvero di fallimenti ed
impraticabilità del percorso di mediazione) e conduce alla riconciliazione in due casi su 56 (3,6%).
Graf. 1 - Outcome
Veniamo ora a considerare i fattori del processo che possono essere assunti come elementi
distintivi dell’approccio teorico-metodologico adottato. La variabile che li riassume in modo sintetico
è l’adeguatezza del ruolo del mediatore, misurata in termini di conformità completa/parziale/scarsa
rispetto all’identificazione teorica del ruolo stesso. Nel campione preso in esame (cfr. Graf. 2) la
tecnica messa in atto dai mediatori risulta adeguata in più della metà dei casi e critica o problematica
solo nel 7.1% dei casi. Ovvero quanto più il mediatore si attiene al modello, tanto maggiore è il
successo del processo.
Graf. 2 – Il ruolo del mediatore
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Costanza Marzotto
Mediazione familiare e legami intergenerazionali
Tab. 1 – Le variabili di processo connesse alla costruzione del ruolo
Analisi della domanda esplicita o implicita
Definizione di un setting forte
Negoziazione completa o parziale degli obiettivi
Formalizzazione del contratto di lavoro
v.a.
47
34
47
25
%
83,9
60,7
83,9
44,6
Totale
56
100,0
Graf. 3 – Gli oggetti di lavoro
Già questo livello semplicemente descrittivo di analisi mette in luce alcune indicazioni interessanti
e particolarmente evidenti relativamente alla connessione tra le principali variabili di processo ed i
risultati. Due aspetti ci sembrano da segnalare: il rapporto tra i risultati del processo di mediazione e,
rispettivamente, il ruolo del mediatore (cfr. Graf. 4) e gli oggetti di lavoro (Graf. 5).
Graf. 4 – I risultati ed il ruolo del mediatore.
86
Costanza Marzotto
Mediazione familiare e legami intergenerazionali
Graf. 5 – I risultati e l’oggetto di lavoro.
Come è facile osservare queste variabili risultano essere connesse in modo molto evidente.
Per quanto riguarda il ruolo del mediatore, si può notare come laddove il ruolo è adeguato (cioè
completamente conforme alla metodologia ed alle tecniche che contraddistinguono l’approccio
relazionale-simbolico) la frequenza con cui si ottengono interruzioni o fallimenti è del 6.5%, a fronte
del 33.3% che si riscontra nel caso di un’adeguatezza solo parziale al ruolo e del 75.0% che si ritrova
laddove il ruolo attuato risulta essere difforme da quello teoricamente previsto.
Analogamente, ma forse ancor più significativamente, possiamo osservare che quando l’oggetto
di lavoro comprende sia l’area della genitorialità sia l’area del patrimonio riscontriamo il 3.7% delle
interruzioni, a fronte del 23.1% che si verifica nel caso di un approccio parziale, del 44.4% che si
riscontra quando la mediazione è concentrata su elementi specifici della genitorialità e del 50.0% nel
caso in cui l’oggetto di lavoro eccede l’ambito proprio della mediazione invadendo ad esempio l’area
della consulenza legale o della psicoterapia.
V.Conclusione
Anzitutto si conferma che quanto più il processo di mediazione riesce ad allargare l’oggetto delle
negoziazioni ed il mediatore a mantenersi nel ruolo specifico, tanto più è probabile arrivare ad un
accordo di separazione. Ed è interessante notare che questi fattori di processo sono associati anche a
quei casi che si concludono con la riconciliazione, mentre i drop out sono associati ad un’applicazione
limitata del modello
Il conseguimento di un accordo di fronte ad un terzo che copra tutti gli ambiti di conflitto (figli, beni
materiali, relazioni parentali) dovrebbe infatti proteggere sia dal rischio della chiusura endogamica,
sia dall’indifferenza genitoriale, poiché in mediazione non si può raggiungere un accordo senza il
coinvolgimento attivo ed il confronto/dialogo diretto dei coniugi, a differenza di quanto avviene
invece quando l’accordo consensuale è raggiunto attraverso una negoziazione delegata agli avvocati
o quando la definizione dei termini di separazione viene stabilita dal giudice.
Nel nostro caso specifico, poi, lavorando all’interno di una prospettiva che esplicitamente
87
Costanza Marzotto
Mediazione familiare e legami intergenerazionali
chiama in causa la valenza simbolica/intergenerazionale dei beni oggetto di conflitto ed assumendo
come obiettivo della mediazione la facilitazione del transito oltre la fine, ovvero il rilancio del patto
genitoriale, è ragionevole immaginare che il raggiungimento di un accordo di separazione comporti
una ridotta difficoltà nel consentire l’accesso dei figli alle famiglie di origine di entrambi i genitori e
renda quindi più facile la continuità ed il proseguimento delle relazioni intergenerazionali.
Se queste sono le finalità e gli obiettivi specifici della mediazione del divorzio, essa non può
essere che “scelta”. Sarebbe un controsenso rendere obbligatorio l’accesso a questo percorso in cui il
confronto con l’altro – al di là del conflitto e della diversità tra le parti − permette per la presenza di
un terzo, una creatività impensabile. Questo è quanto possiamo testimoniare non solo con la nostra
esperienza, ma è stato recentemente confermato anche dalla dichiarazione della Fédération Nationale
des Centres de Médiation Francese (18.10.2013) in cui si afferma che “ogni tappa del processo di
mediazione poggia sulla comprensione, la libera adesione e l’accesso spontaneo a questa via moderna
di risoluzione dei conflitti” (la traduzione è nostra). Si parla, infatti, di “libertà di intraprendere,
proseguire o interrompere la mediazione, dove le parti stesse redigono un accordo finale e con l’aiuto
di un terzo decidono di mettere fine ad un contenzioso, che poi liberamente sceglieranno se sottoporre
o meno al giudice per l’omologazione”.
Come scrive la collega mediatrice familiare francese Claire Denis (2013), «la mediazione
familiare rappresenta un progetto che reintroduce del tempo per parlare, per pensare, creare e ridare
il primo posto all’umano». Un percorso che non assolve a tutti i bisogni degli attori in gioco, che
si integra con altre risorse rivolte specificamente all’uno o all’altro genitore o ai figli come gruppo
bisognoso di mettere parola su cambiamenti sconcertanti.
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SCABINI, E. & CIGOLI, V. (2012). Alla ricerca del famigliare: Il modello relazionale-simbolico. Milano:
Raffaello Cortina.
Costanza Marzotto
Servizio di Psicologia Clinica per la Coppia e la Famiglia
Via Nirone, 15
I-20123 Milano
Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia
Università Cattolica del Sacro Cuore Milano
Largo Gemelli, 1
I-20123 Milano
E-mail: [email protected].
89
DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 90-98 (2014)
INCONTRI E INTERVISTE
INTERVISTA AD ANDRÉS BUSCHIAZZO
di
Giuseppe Ferrigno
Riassunto
Abstract
Andrés Buschiazzo è intervistato con una serie di domande,
le cui risposte ci fanno capire come la Psicologia Individuale di Alfred Adler sia riuscita a diffondersi in America latina
e, in particolar modo, in Uruguay, grazie al lavoro costante
di un gruppo di studiosi che arricchiscono quotidianamente il
pensiero adleriano con studi e ricerche. Andrés Buschiazzo affronta i concetti basici della Psicologia Individuale, gli ambiti
di applicabilità, il concetto di “malattia mentale”, le fasi in cui
si articola una psicoterapia adleriana, l’importanza dell’Etica e
della Deontologia e infine ci descrive lo sviluppo e gli obiettivi
del “Centro de Estudios Adlerianos” di Montevideo, Uruguay.
INTERVIEW WITH ANDRÉS BUSCHIAZZO. Andrés
Buschiazzo is interviewed with a series of questions and his
answers make us understand how the Individual Psychology of
Alfred Adler was able to spread in Latin America and especially
in Uruguay, thanks to the constant work of a group of scholars
who daily enrich Adlerian thought with studies and researches.
Andrés Buschiazzo discusses the basic concepts of Individual
Psychology, the areas of applicability, the concept of “mental
disease”, the phases of an Adlerian psychotherapy, the importance of Professional Ethics. Finally he describes the development
and the aims of “Centro de Estudios Adlerianos” in Montevideo,
Uruguay.
Parole chiave
Keywords
INTERVISTA, URUGUAY, CENTRO DE ESTUDIOS
ADLERIANOS, MODELLO ADLERIANO
INTERVIEW, URUGUAY, CENTRO DE ESTUDIOS ADLERIANOS, ADLERIAN MODEL
Inauguriamo la sezione “Incontri e interviste” sulla scia della volontà di accendere un ininterrotto dialogo che diventa un affettuoso abbraccio fra gli adleriani sparsi nel mondo, presentando a
tutti i Lettori come primo ospite Andrés Buschiazzo, psicologo clinico, psicoterapeuta adleriano,
coordinatore di gruppi terapeutici, Liaison Officer dell’International Association of Individual Psychology (IAIP), professore presso il “Centro de Estudios Adlerianos” di Montevideo, Uruguay.
Andrés Buschiazzo ha insegnato presso la facoltà di Psicologia de “Universidad de la República” ed è attualmente editorialista sia nel portale Psyciencia (Argentina) sia nella “Pubblicazione
Ufficiale” curata dal “Centro de Estudios Adlerianos”. Attraverso una serie di domande a cui Andrés
Buschiazzo risponde in modo chiaro e sintetico, possiamo capire come la Psicologia Individuale di
Alfred Adler sia riuscita a diffondersi e ad attecchire nel mondo, anche in America latina e, in particolar modo, in Uruguay, grazie al lavoro capillare, costante e appassionato di un gruppo di studiosi
che con entusiasmo e deteminazione arricchiscono quotidianamente il pensiero adleriano con contributi, studi e ricerche. Molto interessante mi sembra, in particolare, la parte dell’intervista in cui
Andrés Buschiazzo affronta il tema a noi molto caro del concetto di “malattia mentale”.
L’intervista sarà seguita da un articolo dal titolo “Lo stato epistemologico della Psicologia
Individuale”, scritto da Yaír Hazán, psicologo clinico, professore di psicologia, analista adleriano,
Presidente Onorario e Didatta del “Centro de Estudios Adlerianos” di Montevideo, Uruguay. L’articolo approfondisce quanto è stato detto nell’intervista del dott. Andrés Buschiazzo e riprende alcuni
nuclei tematici adleriani, analizzandoli in un’ottica di confronto e di dialogo col “Gruppo di studi
adleriano” dell’Istituto Alfred Adler di Milano: soltanto attraverso il dibattito e la discussione si può
contribuire ad arricchire la teoria e la pratica della Psicologia Individuale.
90
Giuseppe Ferrigno
Intervista ad Andrés Buschiazzo
Quali sono a suo parere le basi epistemologiche che caratterizzano con più pregnanza il modello
adleriano?
La psicologia adleriana, il cui finzionalismo è di derivazione neo-kantiana, è una psicologia: a)
del profondo; b) costruttivista; c) finalista; d) olistica.
a) La teoria dell’inconscio formulata da Freud, pietra angolare della Psicoanalisi, ha come presupposti lo “spiritismo” e l’“ipnosi” di Mesmer: «l’uomo ha sempre saputo che l’animo umano è come
un iceberg che, per la maggior parte, è nascosto ed invisibile». Janet è un altro dei progenitori più
rilevanti di tale teoria, con la sua formulazione delle “idee fisse subconsce” e, per questo, può essere considerato come l’iniziatore della “psicologia del profondo”.
Ernest Becker afferma che Adler, Stekel, Jung e Rank svilupparono la teoria del profondo modificando alcuni dei postulati maggiormente dominanti nell’epoca: il realismo ingenuo ed il positivismo. Questi autori smisero di credere che si possa conoscere la realtà direttamente attraverso i sensi,
attribuendo maggiore importanza all’interpretazione soggettiva. Per Adler l’inconscio smise di essere
un’entità separata dalla coscienza e lo concettualizzò come un continuum, «come quella parte che
l’individuo conosce ma che non comprende come facente parte del suo finalismo». Nel 1912, dopo
che Alfred Adler si era allontanato definitivamente dalla “Società Psicoanalitica di Vienna”, anche
Stekel si ritira contestando l’ipotesi dell’inconscio e sostenendo che la teoria della bipolarità fosse
sufficiente per interpretare i contenuti psicologici.
b) L’uomo conosce il mondo attraverso idee e ipotesi, che si muovono parallelamente alla realtà, funzionali ai finalismi dello stile di vita. Il filosofo Hans Vaihinger nella sua opera “Die Philosophie
des Als Ob” (“La filosofia del come se”) formula il concetto di “finzione” e dice che “la scienza è
l’errore più utile”. Non esistono verità permanenti, ma solo transitorie ed il cambiamento è l’unica
realtà (Claxton).
«Pensiamo, conosciamo e costruiamo concetti, non per scoprire la verità, ma per
procurarci mezzi e supporti allo scopo di preservare la vita e migliorarla indipendentemente dalla verità e dalla validità universale» (Vaihinger).
I postulati di Kelly, di derivazione adleriana, sono i seguenti: 1) l’uomo può essere considerato
come un potenziale scienziato e 2) ogni individuo edifica costrutti personali unici attraverso i quali
egli vede il mondo. L’uomo scienziato, come metafora, è un’astrazione di tutta l’umanità e non una
concreta classificazione di particolari uomini. Come diceva Kant, è impossibile conoscere la realtà
tale e quale a quella che si presenta a noi; disponiamo solamente di mezzi e di strumenti compresi
in un’ipotesi teorica che ci consente si avvicinarci approssimativamente ad una realtà in continuo
cambiamento. Kelly parla di “alternativismo costruttivo” dicendo che la persona come lo scienziato
si pone continuamente domande sul proprio mondo, con l’illusione di poterlo comprendere meglio.
Adler ha svincolato l’uomo da dottrine restrittive come quella basata sul paradigma “stimolorisposta” e sulle “teorie pulsionali” (Trieb) della personalità. Kelly, mezzo secolo più tardi, ci dice
che l’uomo nasce “vivo e lotta in un mondo psicologico” e rifiuta l’ipotesi di istinti “pulsionali” o
di stimoli “attivatori” dell’organismo. Il presupposto fondamentale dell’autore sta nell’affermazione
che tutte le interpretazioni che si formulano sul mondo sono soggette a revisioni o a sostituzioni.
M. L. von Franz prospetta nel suo libro “Alchimia” l’impossibilità di relazionarsi con una per91
Giuseppe Ferrigno
Intervista ad Andrés Buschiazzo
sona senza “proiezioni”. L’inizio di qualsiasi conoscenza di qualcosa o di qualcuno è una proiezione
inconscia che successivamente deve essere corretta. Fuori dalla proiezione non si può vedere niente.
La filosofia hindi afferma che la totalità della realtà è una proiezione (Maya). La realtà esiste perché
costruiamo proiezioni su di essa. Secondo Piaget:
«����������������������������������������������������������������������������
Mai possiamo conoscere veramente l’ambiente, se non le sole nostre ricostruzioni. La realtà è sempre una ricostruzione dell’ambiente, mai una copia».
c) L’obiettività e la causalità sono i pilastri del positivismo analitico che ha una peculiare propensione
a separare fatti, dati e meccanismi e a ridurre gli eventi a cause naturali. Per Ansbacher il pensiero
causale si domanda il “perché”, da cui dipendono risposte del tipo «Se… allora». «Se sono cattivo,
(quindi) andrò all’inferno», pensa il bambino, «però se prego la sera, (quindi) andrò in paradiso».
Szasz in “Ideologia e malattia mentale” afferma che la malattia mentale è una metafora che ha
finito per essere considerata come un dato di fatto. Anche Adler ha affermato che tre sono i compiti
vitali dell’uomo: lavoro, relazioni sociali e sessualità. Szasz allo stesso modo tenta semplicemente
di definire le difficoltà degli uomini comuni come “Problemi della vita”, che per la psichiatria e la
psicologia sono stati ridotti alla malattia mentale. Il concetto di malattia mentale deriva il suo fondamento principale da fenomeni come la sifilide cerebrale o come gli stati deliranti, in cui le “persone”
possono manifestare disturbi del pensiero e del comportamento. L’autore è preciso quando ci riferisce
che queste sono malattie del cervello e non della mente. Per alcune scuole, tutte le patologie chiamate
malattie mentali sono di questo tipo e partono dall’idea che, con una perizia esaustiva, si scoprirà un
difetto neurologico che spieghi tutti i disturbi del pensiero e del comportamento. Solo pochi scienziati ritengono che i disturbi o, come Adler li definisce, le “deviazioni sociali”, possono derivare da
esigenze personali, da opinioni soggettive, da aspirazioni e valori sociali. Il modello medico classico
attribuisce queste difficoltà a processi fisico-chimici.
Szaz denuncia due errori fondamentali nella concezione della malattia mentale. In primo luogo,
una malattia cerebrale, come avviene in una malattia al piede o alle ossa, implica un difetto neurologico, non un problema legato al vivere. Per esempio, si potrebbe spiegare una diminuzione del campo
visivo associandola a qualche lesione del sistema nervoso. Al contrario, l’opinione di un individuo
che si riferisca all’ambito religioso o al contesto politico oppure l’idea che qualcuno dei suoi organi
stia marcendo e che sia persino morto, non potrebbe essere spiegato solo a causa di un difetto o di una
malattia del sistema nervoso.
Il secondo errore è epistemologico e consiste nell’interpretare le comunicazioni riguardanti i
nostri simili e il mondo che ci ruota attorno come sintomi del funzionamento neurologico. L’errore
non è di osservazione, ma di organizzazione e di comunicazione della conoscenza. L’errore consiste
nel decretare un dualismo fra sintomi fisici e mentali, dicotomia che è un’abitudine linguistica e non
il risultato dell’osservazione empirica. La credenza nella malattia mentale come se fosse qualcosa di
differente dagli inconvenienti incontrati dall’uomo nel cercare di stare in armonia con i propri simili
è l’eredità della credenza nei demoni e nelle streghe. Così, la malattia mentale esiste o è “reale” esattamente e nello stesso senso in cui le streghe ed i demoni esistevano o erano “reali”. In accordo con
questo modo di pensare prodotto dalla causalità, si potrebbe affermare assieme a Szasz: «Al posto di
92
Giuseppe Ferrigno
Intervista ad Andrés Buschiazzo
nascere peccatore, l’uomo nasce malato». Questa è l’eredità ricevuta dalla psichiatria dalla teologia
imperante. Lo scrittore Anatole France criticò il positivismo, affermando che tale teoria:
«Ispirata dall’amore, è triste e tirannica. In essa si regolano strettamente gli atti della
vita e del pensiero. Essa converte l’esistenza in una figura geometrica. La minore curiosità intellettuale si ritrova condannata».
Adler riuscì a superare la causalità imperante dell’epoca e concedette maggiore rilevanza alla finalità, eliminando le categorie diagnostiche. La psicologia adleriana considera che il comportamento
è diretto verso mete finzionali. Sebbene si tenga conto della causalità (perché), si dà maggiore enfasi
alla teleologia (a quale scopo), all’intenzionalità del comportamento e all’interpretazione soggettiva
dei fatti.
Lidia Sicher, una delle prime discepole di Adler, classificò gli esseri umani in orizzontali ed in
verticali. L’uomo verticale è quello che punta al potere (“basso/alto”). Mentre l’uomo orizzontale è
più democratico e tende a salire dal “meno al più”.
d) Il filosofo sudafricano Smuts ha coniato il termine “olismo”, una parola greca che significa totalità
e che è concepita in riferimento all’universo, «un impulso verso la completezza, la totalità che si
manifesta in ogni individuo sotto forma di spinta verso lo sviluppo, la crescita, l’evoluzione che
emerge dall’interno e che si attua nel proprio ambiente, partendo da se stesso» (Ellenberger). Ira
Progoff nella sua opera “La psicologia profonda e l’uomo moderno” dice che Adler e Smuts fossero arrivati alla stessa conclusione: che l’obiettivo della psicologia è lo sviluppo delle potenzialità
dell’essere umano per indurlo a saper guardare al futuro con ottimismo.
In quali ambiti, a suo parere, è possibile applicare la Psicologia Individuale?
D’accordo con quanto espresso nell’ultimo “Congresso di Psicologia Individuale” (Vienna 2011)
dal Presidente Onorario Dr. Gian Giacomo Rovera, la Psicologia Individuale corre su tre corsie: la
psicoterapia, il counseling e l’educazione.
“El Centro de Estudios Adlerianos” nel 2010 ha fondato le prime cliniche adleriane per giovani,
genitori ed insegnanti in Sudamerica. Esse rappresentano una riproposizione del lavoro di Alfred
Adler, di Oskar Spiel e di Ferdinand Birnbaum, svolto dopo la Prima Guerra Mondiale. Ricordiamo,
grazie a Roll May, che sulle porte delle cliniche era affisso un cartello con un messaggio che diceva:
«Mai è troppo tardi».
Come si articola una psicoterapia adleriana?
La psicoterapia adleriana, grosso modo, può dividersi in tre fasi:
1) Relazione terapeutica, che consiste nella costruzione di un buon rapporto col paziente, nella riduzione delle sue resistenze e nella capacità del terapeuta di creare un clima di empatia.
2) Anamnesi, che ha lo scopo di individuare le finalità del comportamento (il perché), di comprendere
il piano di vita inconscio e la costellazione familiare.
3) Esplicazione (interpretazione) che consiste nella spiegazione delle motivazioni inconsce e degli
effetti di un comportamento inadeguato. Il processo d’incoraggiamento empatico (Ferrigno 2013)
93
Giuseppe Ferrigno
Intervista ad Andrés Buschiazzo
è l’aspetto più importante in questo momento, perché è indispensabile che il paziente adotti comportamenti costruttivi e sviluppi il sentimento di comunità (“Gemeinschaftsgefühl”).
Che importanza hanno l’etica e la deontologia in una terapia adleriana?
L’analista didatta Prof. Yaír Hazán sottolinea che l’etica e la deontologia sono elementi fondamentali del setting adleriano. Nell’atto del conferimento della laurea al termine dell’iter di “Formazione degli Psicoterapeuti”, ogni analista deve conoscere e sostenere i tre grandi voti del silenzio che
rappresentano ciò che guidano la professione dell’analista adleriano. Questi sono i principi esposti da
Künkel.
Il primo voto è il segreto confessionale, lo stesso dei sacerdoti cattolici. Tutto ciò che il paziente dice rimarrà nella mente dello psicoterapeuta con assoluta riservatezza, “I segreti del paziente
rimarranno al sicuro” e per raggiungere ciò è necessaria un’analisi completa della personalità dello
psicoterapeuta.
Il secondo è il voto della sincerità, con l’apertura a nuovi elementi e contenuti a beneficio del
bene comune e della società tutta: essere artista e strumento di vita per portare pace e gioia nella comunità.
Il terzo voto, quello della continuità, ci impone lo sforzo di continuare a studiare senza né classificare né stigmatizzare i pazienti.
Può descrivere ai lettori cos’è il “Centro de Estudios Adlerianos”, il “Centro di studi adleriani”?
Il “Centro de Estudios Adlerianos” (“Centro di studi adleriani”) viene fondato il 28 maggio 1997.
È una associazione scientifica senza scopo di lucro, erede dei principi di Alfred Adler, membro della
“International Association of Individual Psychology”�����������������������������������������������
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(IAIP) e della “Federazione Uruguaiana di Psicoterapia” il cui principale obiettivo è quello di diffondere la teoria adleriana e formare analisti psicologi e psichiatri. I requisiti per ottenere il titolo di psicoterapeuta adleriano, secondo quanto disposto
dalla regolamentazione nazionale e internazionale, prevedono che il candidato debba aver effettuato
la formazione teorico-pratica con un minimo di 844 ore di insegnamento, un’analisi personale non
inferiore alle 300 ore e un’analisi didattica di 100 ore. L’aspirante psicoterapeuta, inoltre, deve aver
partecipato a progetti comunitari e di ricerca che il “Centro adleriano” attiva nella comunità.
(Traduzione dallo spagnolo a cura di Giuseppe Ferrigno e Alberto Gennari)
94
DIALOGHI ADLERIANI I, n.1, 95-100 (2014)
INCONTRI E INTERVISTE
LO STATO EPISTEMOLOGICO
DELLA PSICOLOGIA ADLERIANA
Yaír Hazán
Riassunto
Abstract
L’articolo analizza lo stato epistemologico attuale della
psicologia adleriana, iniziando da Platone per giungere a
Kant, a Vaihinger. Illustra i rapporti fra modello adleriano
e altri modelli (Gestalt, comportamentismo, cognitivismo,
psicoanalisi di Freud e psicologia analitica di Jung). In
conclusione, fa un breve riepilogo delle caratteristiche essenziali della Psicologia Individuale che è un modello olistico,
teleologico, creativo, soggettivo, relazionale all’interno di una
psicologia del profondo.
THE EPISTEMOLOGICAL
STATUS OF ADLERIAN
PSYCHOLOGY. The article analyzes the current epistemological status of Adlerian Psychology starting from Plato up
to Kant and to Vaihinger. It explains the relationship between
Adlerian model and other models (Gestalt, behaviorism,
cognitivism, the psychoanalysis of Freud and the analytic
psychology of Jung). Finally, it sums up briefly the essential
features of Individual Psychology, which is a model not only
holistic and teleological, but also creative, subjective, relational
within a depth psychology.
Parole chiave
Keywords
EPISTEMOLOGIA, TELEOLOGIA, OLISMO, RELAZIONE
EPISTEMOLOGY, TELEOLOGY, HOLISM, RELATIONSHIP
I.Premessa
È un tema di grande complessità. La tradizione filosofica dalla Grecia classica divide il mondo
in due: il mondo sensibile e il mondo intellegibile. Il primo è il mondo della doxa (in greco significa
opinione) che è il contrario di epistème (in greco significa scienza), così da Platone a Kant c’è un
salto storico, ma non concettuale. In questo cammino verso la soggettività abbiamo scoperto che fra
l’uomo e il suo habitat c’è un conflitto o corto circuito, come dice Cassirer (1923-1929).
Questo divario è riempito dal simbolo (dal greco sym=con; ballein=lanciare). Un simbolo è
un oggetto, caricato d’interpretazione (in tedesco si dice Deutung), che comporta un certo grado di
soggettività e di significato (in tedesco si dice Bedeutung). Mentre Adler è ai primi e audaci passi sulla
via che lo condurrà alla teoria del costruttivismo, la Psicoanalisi trasporta ancora tutti gli orpelli di un
realismo ingenuo mescolati con elementi di positivismo logico.
All’altra estremità troviamo, invece, Watson e il comportamentismo che rifiutano il concetto di
coscienza, perché «non l’ho mai visto in una provetta» (Watson, 1914).
Freud, per portare in primo piano il concetto di un inconscio inconoscibile (Ellenberger, 1970) si
occupa dei simboli senza riuscire ad approfondire la loro polisemia, arrivando a dire (ingenuamente)
a Jung «Chi farà il nevrotico il giorno in cui si riusciranno a decifrare completamente i simboli?»
(Jung, 1962).
È possibile considerare Freud, Pavlov e Watson come rappresentanti della “psicologia oggettiva”,
portatori di una mentalità rigida in contrasto con la “psicologia soggettiva” dall’indole flessibile,
come è stato rilevato dagli Ansbacher (1956).
Varie correnti della psicologia, una volta abbandonati i presupposti della psicologia sperimentale,
si rendono conto della portata delle affermazioni dei primi rappresentanti della Gestalt (Kohler,
95
Yaír Hazán
Lo stato epistemologico della psicologia adleriana
Kofka e Wertheimer) che sostenevano che la scienza non dà risposte in sé, ma lo fa “a seconda del
nostro modo di chiedere”. Secondo Allport tutti gli psicologi sono discendenti di Kant (massimo
rappresentante dell’Idealismo ) o di Locke (empirista). Tra questi due filosofi non vi è alcuna possibilità
di riconciliazione. Se si produce una rottura nell’albero di Cartesio, che ha separato la metafisica
dalla scienza e questa dalla scienza applicata, noi possiamo ottenere un “divorzio” epistemologico,
come quello segnalato da Perls che, quando fonda la Gestalt, ricorre ai precursori dei teorici della
percezione che ho prima menzionato, affermando che la sua pratica “la deve più a Stalinvsky (regista
teatrale e formatore di attori) che non agli psicologi designati”.
È di fondamentale rilevanza prendere atto che la psicologia o la psicoterapia senza la filosofia
e l’epistemologia sarebbero come se si studiasse farmacologia senza sapere chimica, incorrendo
nell’uso ingenuo o distorto dell’applicazione. Gli Adleriani avevano ben chiara questa situazione.
Il primo giorno in cui si riunisce, infatti, la “Società per la libera ricerca psicoanalitica”, si delibera
all’unanimità di aderire all’“Associazione kantiana” guidata da Vaihinger, che con la Filosofia del
“come se” fornisce il supporto epistemologico al “Temperamento nervoso”, che, come Benrstein
stesso afferma, rappresenta una “vera e propria dichiarazione d’indipendenza della Psicologia
Individuale”.
Questo libro si ispira a Kant, il padre della grande metateoria le cui fonti noi ritroviamo
successivamente anche nel pensiero di Marx, soprattutto quando afferma che “l’umanità non si pone
i problemi che non può risolvere”: questa frase evidenzia come i problemi dell’uomo sono creati
dall’uomo medesimo. Adler aderisce alle idee sociali di Marx facendolo conoscere all’Associazione
Psicoanalitica di Vienna come il primo psicologo sociale, che credeva nel “senso sociale”, ma
non in quello “economico” (Ansbacher & Ansbacher, 1956). Un altro aspetto del costruttivismo è
rappresentato da Piaget.
II. Le basi delle teorie scientifiche
In greco “theoria” è una parola quasi mistica che significa “contemplazione”: il suo opposto
è “prassi” (in greco azione). Ne deriva, quindi, che la medicina non è una scienza, ma una scienza
applicata (oggi diciamo una tecnologia), mentre la scienza che sta alla sua base è la biologia.
Ora presento tre teorie a confronto per l’acquisizione della conoscenza, che è una forma di
intuizione, di insight, termine di Köhler che la Psicoanalisi ha preso in prestito senza mai spiegare in
cosa consista codesto “inserimento nel proprio campo visivo”, che quindi non è nemmeno elencato
nell’Enciclopedia di Laplanche e Pontalis.
Ecco la prima teoria che il mondo occidentale ha incontrato: analizziamo alcuni accostamenti
con l’aiuto di Psychology Today1. La prima teoria è stata definita “teoria della macchina fotografica”,
per l’analogia con la macchina fotografica appunto. Questa teoria sostiene che la realtà fuori della
nostra mente o del nostro cervello agisce esattamente come quando si scatta una foto. La realtà in sé
esiste ed è al di fuori dei nostri processi cognitivi e affettivi. Così, come fanno i bambini, facciamo
1
Psycology Today è una rivista bimestrale pubblicata negli Stati Uniti per un’utenza di massa. Psychology Today è stato tradotto nel 1967 da Nicolas
Charney. L’intento della Rivista era di divulgare una letteratura psicologica molto più accessibile al grosso pubblico. Psycology Today è tradotto in
Psicodeia: Psicologia de hoy.
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Yaír Hazán
Lo stato epistemologico della psicologia adleriana
fotografie e le conserviamo nella nostra memoria psicologica. È possibile, secondo l’autore, separare
quantitativamente i bambini dagli adulti. Gli adulti hanno scattato più fotografie dei bambini. Le
differenze individuali, normali o psicopatologiche, risiedono nella qualità della macchina fotografica
e nella velocità della pellicola. Così i meno intelligenti hanno una macchina fotografica di qualità
inferiore. Si tratta della vecchia idea di eredità.
Non dimentichiamo che Alfred Adler si è ribellato contro questo concetto, sebbene non abbia
negato la genetica. «D’importanza basica non sono né l’ambiente né l’eredità. Entrambi danno il
quadro normativo al quale l’individuo risponde con il proprio “stile di vita” personale e creativo»
(Ansbacher & Ansbacher, 1956). Proprio attraverso questi concetti essenziali Adler si ribella contro
la psichiatria statica di Kraepelin e contro l’ambientalismo del comportamentismo di Watson e dei
suoi seguaci: «Datemi una dozzina di bambini normali e farò di loro ciò che vuoi, medici, avvocati,
artisti, criminali, a prescindere dalle loro inclinazioni innate» (Watson, 1930). Tali posizioni sono
state mantenute fino a Skinner compreso: soltanto in seguito sarà introdotto anche il pensiero (la
conoscenza, la gnoseologia e ciò che definiamo “cognitivo”).
L’educazione è uno dei principali interessi di Adler e della sua psicologia, il quale ha sicuramente
subito il fascino e l’influenza di Maria Montessori (De Imaz, 1990), che per contrastare il concetto
di causalismo, formulava le sue riflessioni sulla psicologia del bambino prendendo spunto dai lavori
didattici a cui dedica gli ultimi anni della sua vita per lottare contro i comportamentisti americani: per
lei la morale è un “a priori”, essendo una kantiana.
La seconda teoria cambia lo strumento: si utilizza non più la macchina fotografica, ma un
proiettore cinematografico. Noi viviamo come se avessimo una cineteca incorporata, con i suoi
talenti, che chiamiamo con Howard Gardner (1983) “intelligenze multiple”. Secondo questa teoria,
la realtà è una “tabula rasa”, come amava asserire Locke e su questo schermo (la realtà esterna) noi
proiettiamo i film che portiamo dentro. Gli adulti hanno più esperienza, perché i film sono proiettati
più e più volte. Le differenze tra gli individui risiedono nella qualità e nel contenuto dei film.
La seconda teoria non ha mai avuto troppi seguaci. Una volta chiesero al vescovo Berkeley che
cosa sarebbe accaduto con la conoscenza, se camminando per Londra un oggetto pesante fosse caduto
sulla sua testa: dove sarebbe andata a finire la sua conoscenza? Tali dubbi sono stati chiariti da Henry
Laborit (1968) quando dice che «noi siamo gli altri e anche gli altri muoiono, quando noi moriamo».
Quest’ultima teoria, idealista con radici platoniche, ha avuto il coraggio di averci portato a scorgere
il valore fondante dell’immaginazione nella costruzione della realtà che non è indipendente dalla
mente umana. All’altro polo materialista e lockiano si incontrano il pavlovismo e il behaviorismo.
Lenin criticando l’“idealismo marcio” asseriva: «Gli esseri umani percepiscono la realtà così com’è
e né i sensi né il cervello ci ingannano» (Rosental & Iudin, 1959). Lontano dalle due teorie, più vicino
alla seconda rispetto alla prima, appare la prospettiva costruttivista elaborata da Piaget (1968) che,
continuando a ispirarsi al pensiero di Kant, ispiratore della rivoluzione copernicana del pensiero,
asserisce che «l’oggetto che appare non è più il centro del soggetto». Questo principio rappresenta
il fondamento sia della posizione soggettiva adleriana sia del suo modello artistico molto più del
realismo ingenuo tipico del positivismo logico (Popper stesso ha detto alla fine dei suoi giorni: «Il
positivismo logico è morto e io sono uno dei responsabili della sua morte»).
Secondo Piaget (1968) la realtà è costruita dal bambino sulla base delle proprie esperienze
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Yaír Hazán
Lo stato epistemologico della psicologia adleriana
maturate all’interno del proprio ambiente. La modalità è simile a quella utilizzata dagli artisti per
dipingere un quadro. Il quadro rappresenta ciò che l’artista vede e come egli percepisce i vari elementi
in relazione fra loro. Questo è uno dei punti fondamentali alla base del concetto di stile di vita, che è
sempre il prodotto creativo dell’appercezione tendenziosa o, in termini più divulgativi, come direbbe
Künkel (1935), «tutto è a seconda del colore della lente di chi guarda».
Barylko (1969) spiega attraverso lo psicologo dell’arte Ernst H. Gombrich: «Che senso ha parlare
della comprensione di un’opera d’arte? Noi non potremo mai sapere cosa significhi per il suo creatore,
perché, anche se non l’ha detto, potrebbe accadere che nemmeno lui sappia il suo significato. L’opera
d’arte significa ciò che significa per noi non ci sono altri criteri». In breve i quadri come gli stili di
vita sono sempre combinazioni irripetibili di ciò che l’artista (l’individuum) ha tratto, ha eliminato
dall’ambiente esterno e ha aggiunto di suo.
Per Piaget (1968) il reale è sempre una costruzione mediata e non una semplice copia, da cui
deriva la difficoltà di comprendere la realtà dell’altro: è possibile soltanto un avvicinamento empatico.
Egli cita come esempio il gioco di un bambino che con un carrello pieno di gelati risponde alla gente
che gli chiede che sapore essi abbiano. Quando gli è stato domandato che cosa stesse facendo, egli
ha risposto: «Io vado all’Università». Tutto questo è spiegabile per il semplice fatto che suo padre
gli aveva detto che avrebbe pagato l’università con la vendita di gelati disposti su un carrello. Egli
ha ricreato la realtà con il materiale offerto dal contesto. Per questo motivo gli Adleriani affermano a
gran voce e sempre l’importanza del contesto.
III. L’individuo e lo stile di vita visto dal triangolo al pentagono
Adler (1964) ha detto che non c’è malattia che non abbia sintomi inutili, così, per lui «i sintomi
come le classificazioni sono semplicemente spazzatura», proponendo di usare il maggior numero
possibile di test e di non credere ad alcuno.
Per primo egli ha elaborato uno schema a forma di prisma per analizzare ogni individuo attraverso
i tre principali compiti della vita (Flachier, 2000):
l’individuo e la comunità: qual è il suo posto nel mondo? Risulta molto utile leggere l’articolo
di Pier Luigi Pagani (2006) “Dalla pulsione aggressiva al sentimento sociale”;
la professione, il lavoro e le attività quotidiane;
l’amore o il problema sessuale;
l’arte: secondo Bottome (1934), durante le conversazioni Adler era solito aggiungere un quarto
compito, sostenendo che «gli artisti non possono mai essere totalmente egoisti perché hanno
sempre qualcosa da condividere attraverso la loro arte». Inoltre, l’autocreazione dello stile di vita
è un’arte, che dobbiamo indagare in relazione a cosa e a come esso sia stato costruito;
la relazione con la Trascendenza (Adler & Jahn, 1933): nel caso la psicoterapia sia confrontata
con l’orientamento spirituale, è necessario rispondere alle seguenti domande: «Come concepisco
la trascendenza? Qual è il mio rapporto con essa? Come si manifesta nelle mie attitudini?».
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Lo stato epistemologico della psicologia adleriana
IV. Breve riepilogo delle caratteristiche essenziali della Psicologia Individuale
La Psicologia Individuale (Hazan & Titze, 2011) è una psicologia d’uso. Di fronte a ciascun
individuo ci chiediamo come il soggetto utilizzi i suoi comportamenti, i suoi sentimenti o le sue funzioni,
se sono sovra o sotto utilizzati. Allo stesso modo la Psicologia Individuale si basa essenzialmente
sul pensiero antitetico, che costruisce la conoscenza attraverso gli opposti o le polarità contrastanti
(De Becker, 1997). Wurman (1989) asserisce che riconosciamo le cose grazie all’esistenza del loro
contrario: il giorno si oppone alla notte, il fallimento al successo, la pace alla guerra, il pericolo alla
sicurezza.
Un articolo presentato da Dreikurs a Stern sostiene che Adler anticipò di oltre 50 anni la scienza
del suo tempo, in quanto contrastò la gente che era caduta preda del realismo ingenuo di Freud, Pavlov
e Watson, smentiti da Adler epistemologicamente attraverso la sua regola d’oro: tutto può essere in
un altro modo. L’alternativa costruttivista di Adler conduce al principio che l’uomo si avvicina alla
realtà attraverso una teoria e che, quindi, la realtà è parte di una teoria. Nel realismo ingenuo si agisce
“come se” il mondo fosse pieno di insegnanti, bus e birre, nel costruttivismo noi ci chiediamo, invece, «Non è vero?», «Funziona?»
Claxton (1999) spiega la differenza tra Costruttivismo (fondamento epistemologico della
Psicologia Individuale) e il Cognitivismo, che è sostenuto e sostiene l’Associazionismo o l’Atomismo.
Questa tendenza emersa con Ebbinghaus nel XIX secolo e rimasta in vigore fino alla fine degli anni
sessanta del XX secolo, nell’ambiente psicologico ha ancora i suoi sostenitori. Dreikurs citato da
Stern (1958) asseriva correttamente, a suo tempo, che la Psicologia Individuale fosse una psicologia
olistica, teleologica e relazionale.
Oggi, nella sua apparente semplicità, possiamo ribadire che la Psicologia Individuale è una
psicologia:
1. del profondo, in quanto i fenomeni psichici non sono pienamente consapevoli (Ansbacher &
Ansbacher, 1956);
2. olistica, poiché Adler concepisce l’uomo nella sua complessa unità indivisibile;
3. teleologica, perché l’essere umano è guidato da obiettivi e mète;
4. terapeutica, in quanto non è soltanto una psicologia descrittiva, ma correttiva;
5. preventiva per il fatto che anticipa gli eventi (prevenzione), in altri termini è psicosanitaria;
6. positiva perché riesce a valorizzare la parte migliore degli esseri umani;
7. sociale per il fatto che concepisce l’uomo inserito nella e per la società;
8. assiologica2 perché uno dei suoi principali costrutti, il senso di comunità, è un valore di primo
piano.
2
Assiologia (dal greco άξιος “prezioso” e λόγος “trattato”) significa filosofia dei valori, è la branca della filosofia che studia la natura dei valori.
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Yaír Hazán
Lo stato epistemologico della psicologia adleriana
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Milano: Leonardo, 1991).
(Traduzione dallo spagnolo a cura di Giuseppe Ferrigno)
Yaír Hazán
Centro de Estudios Adlerianos
U-11000 Montevideo (Uruguay)
E-mail: [email protected]
100
DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 101-103 (2014)
IN LIBRERIA
IN LIBRERIA
a cura di
Monica Giarei
BORGNA, E. (2013). La dignità ferita. Milano: Feltrinelli.
L’ombra e la grazia si possono considerare categorie esistenziali, metafore, per esprimere la dignità
ferita e quella salvata. L’ombra è l’altra faccia della luce, come la pesantezza lo è della grazia. Vi
è qualcosa di misterioso in tale intrinseca relazione tra lacrime e sorrisi, tra tristezza dell’anima e
apertura alla speranza, a cui Eugenio Borgna presta attento ascolto e dà voce, riflettendo sulla dignità
della persona, sul suo valore, nelle sue varie declinazioni, umbratili e luminose. La dignità è un valore etico fondamentale ed è la fonte dei diritti umani, tuttavia è stata crudelmente lacerata nel corso
della storia, non ultima da quella psichiatria che ha distinto le vite degne di essere vissute da quelle
che non lo sarebbero. Il problema del rispetto dell’altro si ripropone nell’ambito della cura, al centro
della quale sta la fragilità del malato, fisico o psichico, esposto alla sofferenza della malattia e all’angoscia della morte. Il discorso sulla dignità non concerne solo l’aspetto doloroso dell’ombra, riguarda
anche l’attesa del futuro e dell’ignoto. Le attese altrui vanno riconosciute e rispettate, per non fare
al prossimo quanto non vorremmo fosse fatto a noi. Siano esse le attese di chi sta male o di chi per
qualche ragione sia vulnerabile, occorre rispettarne la fragilità e la sensibilità, le quali non potranno
proteggere la dignità dai colpi inferti dalla vita, ma consentono una più acuta e umana comprensione
del lato oscuro dell’essere, della parte invisibile delle cose.
CLERICI, C. A. & VENERONI, L. (2014). La psicologia clinica in ospedale. Consulenza e modelli
d’intervento. Bologna: Il Mulino.
Punto d’incrocio fra la soggettività del paziente e quella dell’equipe, fra l’oggettività della malattia
e gli aspetti istituzionali, l’attività di psicologia clinica in ospedale è oggi un ambito di intervento
di crescente rilevanza. Il professionista che in tale contesto fornisce la propria opera di consulenza
è chiamato ad affrontare la complessità dei fenomeni che agiscono sul paziente nel corso delle cure
mediche. Questo volume offre gli strumenti utili per comprendere i vissuti che si accompagnano alla
malattia in ottica fisiopatologica, psicopatologica, psicologica e relazionale.
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In libreria
COZZOLINO, M. (Ed). (2014). Motivazione allo studio e dispersione scolastica. Come realizzare
interventi efficaci nella scuola. Milano: Franco Angeli.
Un vero e proprio “kit didattico” per insegnanti, psicologi e per i diversi attori del mondo della scuola
che si trovano quotidianamente ad affrontare problematiche legate alla dispersione scolastica spesso
di difficile soluzione. Il volume mette a disposizione del docente modelli epistemologici con cui valutare la complessità delle variabili in gioco al fine di superare in modo strategico le situazioni di stallo
professionale. E insieme offre una metodologia operativa che lo accompagna nella messa in atto di
interventi efficaci per prevenire o arginare aspetti di insuccesso scolastico di cui la dispersione è soltanto la punta dell’iceberg. La problematica della dispersione scolastica viene dunque inquadrata da
un punto di vista teorico e applicativo, partendo da una lettura complessa e circolare del fenomeno in
cui assumono particolare importanza variabili contestuali, culturali, aspetti motivazionali ed emotivo/
relazionali.
ELIA, C. (2013). Un nuovo sguardo alla schizofrenia. Psicoterapia e psicodinamica. Milano: Franco
Angeli.
Il libro descrive in primo luogo la tecnica utilizzata nel trattamento dei pazienti dello spettro schizofrenico e in secondo luogo la psicodinamica della schizofrenia, o, se vogliamo, la sua metapsicologia;
questa non può non tener conto anche delle risultanze della ricerca neuroscientifica e degli apporti
dell’Infant research. L’idea del libro è nata da diverse motivazioni oltre che scientifiche anche affettive: tra queste ultime in primo luogo i desideri e i suggerimenti di diversi pazienti che si scrivesse
una testimonianza della loro sofferenza e della lotta per superarla. Inoltre il desiderio di offrire ai
colleghi, psichiatri, psicoterapeuti, psicologi, ma anche ai non addetti ai lavori comunque interessati
alla conoscenza dei processi psichici della schizofrenia, la possibilità di entrare nel vivo dell’incontro
terapeutico e di partecipare in qualche modo alla “verità” di queste relazioni. Un’altra importante
motivazione del libro è data dal desiderio di riaffermare l’importanza e la validità della psicoterapia
psicoanalitica dei pazienti gravi, in una fase culturale come questa nella quale molti settori psichiatrici, l’industria farmaceutica e la grancassa dei media sostengono che la terapia psicofarmacologica
sia sufficiente.
GENNI MILIOTTI, A. (2013). Adolescenti e adottati. Maneggiare con cura. Milano: Franco Angeli.
L’adolescenza è un periodo cruciale per tutti, ma è vero che per un adolescente adottato lo
è ancora di più? E come può rispondere un genitore adottivo alle tante sfide che suo figlio adolescente gli pone ogni giorno, senza soccombere di fronte alla sua rabbia e al suo dolore?
Questo libro vuole essere una proposta per un lavoro preventivo da fare perché l’adolescenza dei figli adottivi “trascorra” nella maniera più serena possibile, così come la vita familiare.
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In libreria
Troverete utili indicazioni per evitare o superare le sfide adolescenziali, che non sono altro che una
richiesta di aiuto. Partendo da quel primo incontro e dalle sue domande di bambino, l’autrice ci
guida in un percorso alla scoperta dei sentimenti e delle emozioni proprie di ogni giovane adottato.
Alla fine si riuscirà a capire meglio la loro storia e sarà possibile aiutarli a viverla meglio, non solo
nell’ambito familiare, ma anche nel mondo in cui stanno per lanciarsi. “Dopo - conclude l’autrice potremo goderci di nuovo i nostri figli e il loro amore, in un rapporto reso più maturo e consapevole
dalla loro e dalla nostra crescita”.
MUSIC, G. (2011). Nurturing natures: attachment and children’s emotional, sociocultural, and brain
development. New York: Psychology Press. (Trad. it. Nature culturali: attaccamento e sviluppo socioculturale, emozionale, cerebrale del bambino. Roma: Borla, 2013).
Questo libro costituisce una sintesi indispensabile delle teorie correnti sullo sviluppo emozionale
del bambino. Combina le ultime scoperte in aree quali teoria dell’attaccamento, le neuroscienze e la
psicologia evolutiva, intrecciandole in un testo di agevole lettura e facilmente comprensibile. Rappresenta un viaggio attraverso i fattori che segnano lo sviluppo del bambino, non trascurando mai
l’importanza della famiglia e del contesto sociale e analizzandone le tappe fondamentali, dalla vita
in utero agli anni prescolari fino all’adolescenza. Non trascura allo stesso tempo di esaminare in che
modo si sviluppano capacità cruciali quali linguaggio, gioco e memoria. Affronta la questione naturacultura e relativi corollari, evidenzia gli effetti dei diversi tipi di esperienze precoci in riferimento sia
a singoli bambini che a studi longitudinali su più larga scala. Il libro integra con grande cura concetti
psicologici e risultati delle ricerche con concetti tratti dalla neurobiologia e da altre culture riuscendo
a creare una visione logica ed equilibrata dello sviluppo del bambino nel suo contesto.
PARIS, J. (2012). Psychotherapy in an Age of Narcissism: Modernity, Science, and Society. New
York: Palgrave Macmillan. (Trad. it. La psicoterapia nell’età del narcisismo. Milano: Raffaello Cortina, 2013).
Il disturbo narcisistico di personalità è tra i più diffusi nella società contemporanea. Il mondo moderno, nel quale i bisogni individuali sono considerati di primaria importanza, incoraggia le persone a
concentrarsi su se stesse. Anche la psicoterapia utilizzata per il trattamento del narcisismo è in realtà
influenzata dagli stessi valori, e corre il rischio di rendere i pazienti peggiori invece che migliori. Questo libro, fondato sulla ricerca empirica nell’ambito della psicologia, della psichiatria e delle scienze
sociali, mostra come evitare tale rischio, inducendo il paziente a guardare oltre se stesso e a radicare
il proprio senso di sé nelle relazioni e negli impegni rivolti al mondo esterno.
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DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 1-6 (2014)
APPUNTAMENTI
APPUNTAMENTI
a cura di
Monica Giarei
Milano 15 febbraio 2014
CONVEGNO ACCREDITATO ECM DELL’ISTITUTO ALFRED ADLER
DI MILANO
“La violenza di genere nella società contemporanea”
con la partecipazione di WILLY PASINI
Il Convegno è aperto a Medici, Psicologi, Psicoterapeuti, Assistenti Sociali, Educatori Professionali, Infermieri Professionali, Avvocati, studenti universitari facoltà di Medicina, Psicologia e corso di laurea in Ostetricia.Il Convegno è accreditato ECM con n.5 crediti formativi
per tutte le figure professionali.
SEDE: Il Convegno si svolgerà presso la Sala Conferenze, Piazza San Marco n. 2 – Milano,
Italia
Per iscrizione contattare la Segreteria Organizzativa al seguente indirizzo mail:
[email protected]
Atene, 13-16 maggio 2014
XIX CONGRESSO INTERNAZIONALE DELL’ASSOCIATION OF
PSYCHOLOGY & PSYCHIATRY FOR ADULTS AND CHILDREN (A.P.A.C.)
“Recent Advances in Neuropsychiatric, Psychological and Social Sciences”
SEDE: il congresso si svolgerà presso l’hotel Hilton di Atene, Grecia
Per ulteriori informazioni:
www.appac.gr
[email protected]
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APPUNTAMENTI
Linköping, 12-14 giugno 2014
X CONGRESSO EUROPEO DELL’UNIVERSITÀ DI LINKOPING
“Psychological theory and research on Intellectual and Developmental Disabilieties”
SEDE: il congresso si svolgerà presso l’Università di Linköping, Svezia.
Per ulteriori informazioni:
[email protected]
Göttingen , 12-14 giugno 2014
III BIENNIAL SIG 22 CONFERENCE DELL’EUROPEAN ASSOCIATION
FOR RESEARCH ON LEARNING AND INSTRUCTION (EARLI)
“Neuroscience and education meeting 2014”
SEDE: il congresso si svolgerà presso il Dipartimento di Psicologia dell’Educazione della Georg-August University di Göttingen, Germania
Per ulteriori informazioni:
www.sig22neuroeducation.com
Cipro, 18-20 giugno 2014
XIV EUROPEAN WORKSHOP DELL’EXPERIMENTAL PSYCHOLOGY LAB
DEL DIPARTIMENTO DI PSICOLOGIA DELL’UNIVERSITÀ DI CIPRO
“European workshop of Imagery and Cognition”
SEDE: Almyra Hotel, Official Rating – 5*, Pafos, Cipro
Per ulteriori informazioni:
www.ewic2014.org
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APPUNTAMENTI
Cesena, 19-21 giugno 2014
X CONVEGNO NAZIONALE DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI PSICOLOGIA
DI COMUNITÀ (S.I.P.Co.)
“Costruire comunità ospitali e sostenibili. Nuove sfide per la Psicologia di Comunità”
SEDE: il convegno si svolgerà presso la sede di Psicologia di Cesena dell’Alma Mater Studiorum- Università di Bologna.
Per ulteriori informazioni contattare la segreteria organizzativa al seguente indirizzo e-mail:
[email protected]
Parigi, 9-13 luglio 2014
XXVI CONGRESSO DELL’INTERNATIONAL ASSOCIATION OF INDIVIDUAL
PSYCHOLOGY (I.A.I.P.)
“Precarity, Conflicts, Violence, a challenge to the Healing and Training processes”
SEDE: Il Congresso si svolgerà presso Les diaconesses de Reuilly,18 rue du Sergent Bauchat,
75012, Parigi, Francia.
Per ulteriori informazioni sul programma preliminare e sul modulo di iscrizione:
http://www.iaipwebsite.org/
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DIALOGHI ADLERIANI NORME PER GLI AUTORI
Norme per gli autori
1. La rivista “Dialoghi adleriani” è l’organo ufficiale dell’Istituto Alfred Adler di Milano e pubblica
sia contributi originali di ricerca ad orientamento individualpsicologico sia articoli particolarmente significativi che servano per un confronto ed un dibattito con altri modelli teorici affini. Saranno
presi in considerazione per la pubblicazione gli articoli che presentano i seguenti requisiti: casi
clinici arricchiti da riferimenti teorici; approfondimenti epistemologogici; ricerche rigorosamente
scientifiche scritte con chiarezza e semplicità espositiva, pertinenza e originalità degli argomenti
esposti, accuratezza e completezza della bibliografia; precisione nell’esposizione degli scopi della ricerca, della metodologia usata, degli strumenti utilizzati, dell’interpretazione e della riflessione conclusiva sui risultati ottenuti.
2. Saranno pubblicati solo articoli inediti e non sottoposti alla valutazione di altre riviste. Gli articoli,
in questa fase, devono essere proposti in forma anonima.
3. Gli articoli devono essere inviati al Direttore della Rivista all’indirizzo mail ferrigno.giuseppe@
fastwebnet.it accompagnati da una lettera di liberatoria firmata dagli Autori in cui si autorizza la
pubblicazione del materiale. Gli Autori, inoltre, devono garantire che l’articolo proposto sia originale e non sia stato sottoposto alla valutazione di altre riviste e devono concedere a “Dialoghi
adleriani” il diritto di riproduzione totale o parziale in qualsiasi lingua, in qualsiasi modo e forma
ed entro i limiti temporali massimi riconosciuti dalla normativa vigente (attualmente, 20 anni). In
caso di articolo a più nomi, la liberatoria va sottoscritta da tutti gli altri autori. L’accettazione di
un articolo implica l’impegno da parte degli Autori che esso o parti di esso non saranno pubblicati
altrove senza il consenso scritto di “Dialoghi adleriani”.
4. Ogni articolo giunto sarà sottoposto dalla Direzione alla valutazione di due referee anonimi (double-blind peer review), di cui almeno uno deve appartenere al Comitato Scientifico Internazionale.
Nel caso in cui il Direttore si trovi di fronte a due referaggi in contrasto, l’articolo dovrà essere
valutato da un terzo referee. La Direzione fornisce una scheda predisposta ai valutatori e può decidere di non sottoporre ad alcun referee l’articolo che venisse giudicato non consono agli obiettivi
della rivista e non rispondente alle norme redazionali e agli standard scientifici.
5. La Direzione si impegna a comunicare agli Autori i risultati del referaggio degli articoli inviati
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12 righe e a 120 parole; 5) testo diviso in paragrafi e sottoparagrafi numerati; 5) figure e tabelle
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in inglese.
7. Il testo dovrà risultare in carattere Times New Roman, corpo 12, interlinea singola. Le note dovranno essere scritte in carattere Times New Roman corpo 9.
8. Impostazione testo e citazioni. Sono previsti 3 tipi di carattere: normale, corsivo, grassetto. Il corsivo è usato per le parole in lingua straniera di uso non consueto e anche per mettere in evidenza
parole o frasi brevi a cui si desidera dare una particolare enfasi. Per citazioni non letterali si usano
107
NORME PER GLI AUTORI
le virgolette inglesi, mentre le citazioni testuali si scrivono tra «virgolette caporali». Se all’interno
di una citazione si salta una parte, occorre indicare la parte omessa con tre puntini tra parentesi
quadre [...]. Le citazioni tra virgolette caporali devono essere testuali seguite dai riferimenti delle
pagine tra parentesi tonde (pp. 73-74) qualora non siano già state indicate precedentemente, in
questo caso occorre inserire in corsivo [Ivi] per la stessa citazione e la stessa pagina; occorre, invece, inserire in corsivo (Ibid. p. 35) per la stessa citazione ed altra pagina.
9. I riferimenti bibliografici inseriti direttamente nel testo verranno riportati col cognome dell’autore
seguito da uno spazio e dall’anno della prima pubblicazione in lingua originale tra parentesi tonde
– “Adler (1912) disse che” – oppure col cognome dell’autore tra parentesi seguito da una virgola,
spazio e anno (Adler, 1912).
10. Indicazioni per la stesura degli articoli
10.1. a) La lunghezza massima dell’articolo dovrà essere di circa 50.000 battute (grafici, tabelle,
note e bibliografia, spazi inclusi); b) le note dovranno essere indicate con numeri progressivi; c)
i vari paragrafi e sottoparagrafi dovranno essere numerati; d) i riferimenti bibliografici devono
collocarsi alla fine del testo e devono essere elencati senza numerazione in ordine alfabetico secondo il cognome dell’autore e, per ciascun autore, nell’ordine cronologico di pubblicazione delle
opere (per opere dello stesso autore pubblicate nel medesimo anno, occorre utilizzare a, b, c; e).
la bibliografia alla fine dell’articolo dovrà essere compilata seguendo le norme del “Manuale di
Pubblicazione” dell’American Psychological Association (6a Edizione).
10.2. Articoli di rivista:
MASCETTI, A. (2012). Aspetti e peculiarità del rapporto analitico nella Psicologia Individuale. Rivista di Psicologia Individuale, 71, 79-86.
10.3. Articoli di rivista in corso di stampa:
FERRIGNO, G. (in press). La compensazione. Dialoghi Adleriani.
10.4. Libri:
PARENTI, F. (1983). La Psicologia Individuale dopo Adler. Roma: Astrolabio.
10.5. Saggio, articolo o capitolo di un libro:
MEZZENA, G. (1998). Le finzioni. In B. SANFILIPPO (Ed.). Itinerari adleriani (pp. 35-52). Milano: Franco Angeli.
ROSSI, G. & DE BERNARDI, B. (2001). Analisi testuale del concetto “fede”. In M. ALETTI &
G. ROSSI (Eds.). L’illusione religiosa: rive e derive (pp. 197-201). Torino: Centro Scientifico
Editore.
10.6. Versione italiana di un libro o articolo straniero:
WINNICOTT, D. W. (1971). Playing and reality. London: Tavistok. (Trad. it. Gioco e realtà. Roma:
Armando, 1974).
ELLENBERGER, H. F. (1970). The Discovery of the unconscious: The history and evolution of
dynamic psychiatry. New York: Basic Books. (Trad. it. La scoperta dell’inconscio, 2 voll. Torino:
Bollati Boringhieri, 1976).
ADLER, A. (1908). Der Aggressionenstrieb im Leben und in der Neurose. Fortschritte der Medizin,
26, 577-584. (Trad. it. La pulsione aggressiva nella vita e nella nevrosi. Rivista di Psicologia Individuale, 46, 1999, 5-14).
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NORME PER GLI AUTORI
ADLER, A. (1908b). Das Zärtlichkeitsbedürfnis des Kindes. In A. ADLER, C. FURTMÜLLER.
(Eds). (1914). Heilen und Bilden: Ärztlich-pädagogische Arbeiten des Vereins für Individualpsychologie. München: Reinhardt. (Trad. it. a cura di G. Ferrigno e C. Canzano, Il bisogno
di tenerezza del bambino. Rivista di Psicologia Individuale, 59, 2006, 7-15).
10.7. Libri “a cura di”:
SANFILIPPO, B. (Ed.). (1998). Itinerari adleriani. Milano: Franco Angeli.
10.8. Atti e relazioni a Convegni:
GHIDONI, C. (1992). La costellazione familiare come interprete della vita organizzata. Atti del 5°
Congresso Nazionale SIPI «La costellazione familiare». Stresa (Novara), 8-9 maggio 1992.
FERRIGNO, G. (1992). La costellazione familiare nel sogno. Relazione presentata al 5° Congresso
Nazionale SIPI «La costellazione familiare». Stresa (Novara), 8-9 maggio 1992.
10.9. Contributi in una raccolta o antologia:
ANTONIETTI, A., CASTELLI, I., FABIO, R. A. & MARCHETTI, A. (2005). Quando mancano le
parole. Ricerca e intervento sulla teoria della mente nelle bambine e ragazze con sindrome di Rett.
In O. LIVERTA SEMPIO, A. MARCHETTI & F. LECCISO (Eds.). Teoria della mente (pp. 261287). Milano: Raffaello Cortina.
10.10. Citazioni da un dizionario o da un’enciclopedia:
SHEEHY, N., CHAPMAN, A. J. & CONROY, W. (Eds.). (1997). Biographical dictionary of psychology. London: Routledge.
THE AMERICAN COLLEGE DICTIONARY. (1962). New York: Random House.
MARHABA, S. (1982). Psicoanalisi. In Enciclopedia Garzanti di filosofia (2nd ed., pp. 740-742).
Milano: Garzanti.
10.11. Fonti individuate su internet:
FERRIGNO, G. (2013). ENCUENTRO CON UN TERAPEUTA: PROF. DR. GIUSEPPE FERRIGNO, ITALIA
Disponibile in:
http://psyciencia.com/2013/07/18/encuentro-con-un-terapeuta: Prof. Dr. Giuseppe Ferrigno (Italia
10.12. Numero di autori:
Da 1 a 6 autori si scrivono i nomi di tutti e 6 gli autori.
Da 7 a più autori si scrive il primo autore seguito da ET AL. Tra il primo ed il secondo autore o, in
caso di più autori, prima dell’ultimo, si usa la & commerciale.
11.La Redazione si riserva di apportare al testo tutte le modifiche formali ritenute necessarie ai fini
dell’impaginazione.
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DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1