ISSN 2284-0486 DIALOGHI ADLERIANI OSSERVATORIO DI PSICOLOGIA INDIVIDUALE CONTEMPORANEA DELL’ISTITUTO ALFRED ADLER DI MILANO Anno I, n. 1 Gennaio-Giugno 2014 EDITORIALE “Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto” _________________________ Giuseppe Ferrigno 3 STUDI E RICERCHE Alberto Mascetti Il sentimento sociale di fronte alla crisi dei valori e alle modificazioni socio-culturali del nostro tempo ____________________________________ 13 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità ________________________________________ 19 Giorgio Bertino La Psicologia Individuale come “filosofia dell’esistenza” _______________ 35 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano all’intervento psicologico in emergenza ____________________________________________________ 41 CASI CLINICI Il caso di Giulia__________________________________________________ 56 Anna Ferbelli ARTE E SOCIETÀ Sibilla Aleramo: la protesta virile nella storia di una donna _____________ 68 Simona Brambilla CONFRONTI Eugenio Borgna Adolescenze in crisi di senso _______________________________________ 76 Costanza Marzotto Mediazione familiare e legami intergenerazionali _____________________ 81 INCONTRI E INTERVISTE Giuseppe Ferrigno Intervista ad Andrés Buschiazzo____________________________________ 90 Yaír Hazán Lo stato epistemologico della psicologia adleriana _____________________ 95 IN LIBRERIA APPUNTAMENTI _______________________________________________________________ 101 _______________________________________________________________ 104 http://www.scuolaadleriana.it/index.php/rivista DIALOGHI ADLERIANI DIRETTORE RESPONSABILE Giuseppe Ferrigno COMITATO DIRETTIVO Pietro Algisi, Alberto Anglesio, Anna Ferbelli, Giuseppe Ferrigno, Claudio Ghidoni, Giulia Manzotti, Alberto Mascetti, Luca Milani, Biagio Sanfilippo. COMITATO SCIENTIFICO INTERNAZIONALE Alessandro Antonietti (Milano, Italy), Eugenio Borgna (Borgomanero, Italy), Vittorio Cigoli (Brescia, Italy), Eva Dreikurs Ferguson (Edwardsville, USA), Giuseppe Ferrigno (Milano, Italy), Claudio Ghidoni (Santo Stefano Lodigiano, Italy), Yaír Hazán (Montevideo, Uruguay), Sadi Marhaba (Padova, Italy), Alberto Mascetti (Varese, Italy), Anne-Marie Mormin (Paris, France), Georges Mormin (Paris, France), Hironori Nakajima (Okayama, Japan), Biagio Sanfilippo (Milano, Italy), Michael Titze (Tuttlingen, Germany), Silvia Vegetti Finzi (Milano, Italy). COMITATO DI REDAZIONE Simona Brambilla, Roberto Callina, Monica Giarei. DIREZIONE E SEGRETERIA Giuseppe Ferrigno Via della Marna, 3 - I-20161 Milano E-mail: [email protected] Copyright@2014 - Editore “Istituto Alfred Adler di Milano” - Rappresentante legale Alberto Mascetti Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione anche parziale senza il consenso del Direttore. Registrazione del Tribunale di Milano n. 402 del 20.12.2013 Traduzioni in inglese a cura di Ida Ferrigno - Composizione: Liberty s.a.s. - Via Palermo, 15 - 20121 Milano DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 3-12 (2014) EDITORIALE “DAREMO IL BENVENUTO A QUALSIASI CONFRONTO” Giuseppe Ferrigno Riassunto Abstract L’Editoriale evidenzia come la rivista “Dialoghi adleriani” si rivolga a psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, medici, infermieri, educatori e a tutti gli operatori della salute mentale nelle più svariate relazioni d’aiuto. Il periodico “Dialoghi adleriani” è stato concepito in formato elettronico, gratuitamente accessibile via internet a ogni studioso o a quanti in tutto il mondo intendano seguire le orme adleriane. “Dialoghi adleriani” accoglie contributi adleriani, italiani e internazionali ed è disponibile a ospitare quelle ricerche anche di altri orientamenti utili a stimolare una dialettica di confronto tra la nostra Scuola adleriana milanese ed altri modelli a noi affini. “Dialoghi adleriani” nel rispetto della tradizione e nell’apertura al cambiamento si rivolge a tutti i colleghi adleriani sparsi in tutte le nazioni del mondo per stimolare interazione, cooperazione fra le varie riviste ed i vari istituti adleriani attraverso uno scambio delle riviste e la pubblicazione di articoli stranieri tradotti nelle rispettive riviste nazionali. “WE WILL WELCOME ANY DEBATE”. The Editorial points out that the journal “Dialoghi adleriani” is aimed at psychologists, psychotherapists, psychiatrists, physicians, nurses, educators and all mental health professionals in a variety of helping relationships. The periodical “Dialoghi adleriani” has been conceived in electronic format, freely accessible via the Internet from every scholar or how many all over the world wish to follow in the Adlerian footsteps. “Dialoghi adleriani” welcomes not only Adlerian contributions, Italian and International, but also the researches of other tendencies and orientations useful to spur to a dialectical comparison between our Adlerian Milanese School and other models related to us. “Dialoghi adleriani”, in the respect for tradition and openness to change, is aimed at all Adlerian colleagues dotted around in all the nations of the world in order to spur to interaction, cooperation between the various journals and the several Adlerian institutes through an exchange of the journals and publishing foreign articles translated in their respective national journals. Parole chiave Keywords DIALOGHI ADLERIANI, COOPERAZIONE, RISPETTO DELLA TRADIZIONE/APERTURA AL CAMBIAMENTO, SENTIMENTO SOCIALE ADLERIAN DIALOGUES, COOPERATION, RESPECT FOR TRADITION/OPENNESS TO CHANGE, SOCIAL FEELING I.Premessa Non nascondo l’emozione provata nello scrivere il primo editoriale del nuovo periodico semestrale “Dialoghi adleriani” dell’Istituto Alfred Adler di Milano: grande è la responsabilità, una vera e propria sfida, audace ed ardita a un tempo. “Audace” perché è la prima volta che l’Istituto Alfred Adler di Milano assume sulle proprie spalle il carico della creazione di un proprio organo di opinione, di documentazione e di diffusione dell’adlerismo più puramente di ricerca; “ardita” nel significato pasoliniano più antidogmatico del termine, perché l’obiettivo del Corpo redazionale è di veleggiare come l’Ulisse dantesco verso flutti inesplorati, messaggeri del “nuovo” nel rispetto del “vecchio”, della tradizione su cui ci siamo forgiati. Già il titolo dell’Editoriale, “Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto”, ambisce ad accendere un dialogo infinito e fruttifero con i Lettori proponendo come frase di avvio proprio le parole che come materiale marmoreo indelebile rappresentano a mio avviso il testamento spirituale del nostro comune maestro Alfred Adler: il titolo risuona come un aforisma paradossale capace di emblematizzare la vocazione di spassionata e creativa apertura “relazionale” del modello adleriano. Lo stesso Alfred Adler in “Psicologia del bambino difficile”1 scrive: ADLER, A. (1930). Die Seele des schwererziehbaren Schulkindes. München: Bergmann. (Trad. it. Psicologia del bambino difficile. Roma: Newton Compton, 1973). 1 3 Giuseppe Ferrigno “Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto” «Il nostro vero compito sarà la pratica: nessuna educazione può essere costruita nel vuoto. Dovrete combattere con le difficoltà che derivano da interpretazioni diverse dalla ricerca scientifica. Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto, perché siamo tolleranti: dovrete studiare altre teorie e altri punti di vista, mettere tutto a confronto con molta cura, e non credere ciecamente a nessuna “autorità”, neppure a me» (p. 3). Pier Paolo Pasolini (1975) con un piglio che definirei ereticamente adleriano a proposito dei propri “Scritti corsari”2 sottolinea: «Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di non avere niente da perdere, e quindi di non essere fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io considero degno di ogni più scandalosa ricerca» (p. 82). Ed ogni ricerca non può che custodire nel suo nucleo più profondo lo slancio “scandaloso”, che contrassegna la salgariana ricerca dell’avventura (dal latino ad-ventura=verso tutte le cose che stanno per venire) tanto cara al “corsaro” appunto, la cui indole esplorativa, rapida e incisiva a un tempo, non si rivolge aprioristicamente solo agli interpreti dogmatici della realtà, ai suoi depositari, ma direttamente alla realtà “tutta”, olisticamente coerente, interdisciplinare, pluridisciplinare, senza soluzioni di continuità, non manichea. Credo che proprio a questa naturale e complessa vocazione interdisciplinare, pluridisciplinare della ricerca alluda Alfred Adler, quando con passione pasoliniana invita al confronto e alla tolleranza verso altre teorie ed altri punti di vista che, solo dopo essere stati analizzati e messi a confronto, possono anche non essere accolti ciecamente per il solo fatto di essere portatori del fascino stregato e sirenesco dell’“Autorità” che li enuncia. Il periodico “Dialoghi adleriani” dell’Istituto Alfred Adler di Milano, seguendo l’invito “paradossale” del nostro Maestro, dà volentieri, quindi, il benvenuto a qualsiasi confronto nel solco della continua e affannosa ricerca della “verità assoluta”, che è il grado più conveniente di errore (Vaihinger, 1911)3 e che presuppone sempre e comunque riflessione, relazionalità, dibattito, discussione, confronto, dialogo. Credo, infatti, che il dialogo costituisca la matrice di ogni nucleo epistemologico e clinico adleriano. “Dialoghi adleriani” si propone come stimolo, strumento e spazio di lavoro, di ricerca, di documentazione, di diffusione, di divulgazione e, quindi, di “confronto” critico sui più svariati settori della ricerca specialistica inerente la teoria e la pratica della Psicologia Individuale: la metapsicologia, la teoria della clinica, la teoria della tecnica psicoterapeutica e analitica dell’adulto, dell’anziano, del bambino e dell’adolescente, la testistica, il counseling, le tematiche specificamente legate alla formazione, al lavoro clinico e istituzionale, al campo scolastico e psicopedagogico, alla psicologia del lavoro, dell’emergenza etc. PASOLINI, P. P. (1975). Scritti corsari. Milano: Garzanti. VAIHINGER, R. (1911). Die Philosophie des “Als Ob”. Berlin: Verlag von Reuther & Reichard. (Trad. it. La filosofia del “come 2 3 se”. Roma, Ubaldini, 1967). 4 Giuseppe Ferrigno “Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto” “Dialoghi adleriani” si rivolge a psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, medici, infermieri, educatori, tecnici della riabilitazione, insomma a tutti gli operatori della salute mentale e ai professionisti impegnati nelle più svariate relazioni d’aiuto. Il periodico è concepito per essere letto da tutti i soci dell’Istituto Alfred Adler di Milano, ma anche da chiunque, pur appartenendo ad altre associazioni adleriane e non, in Italia e all’estero, intenda, seguendo lo slancio antidogmatico del pensiero adleriano, cooperare con noi con spirito di confronto e di apertura. Non dobbiamo dimenticare la straordinaria lungimiranza utopica di Alfred Adler nell’esortarci a un universale “Gemeinsinn” e “Gemeinschaftsgefühl”, termini che noi traduciamo rispettivamente con “senso sociale” e con “sentimento sociale”. Adler già nel 1918 in Bolschewismus und Seelenkunde4 scrive con un incredibile afflato cosmico queste bellissime parole: «L’aspirazione al potere è un miraggio fatale che avvelena la convivenza degli uomini! Chi desidera la vita comunitaria [Gemeinschaft], deve rinunciare all’aspirazione al potere! [...]. La guerra non costituisce una continuazione della politica attraverso l’uso di mezzi diversi, ma il più grande delitto di massa contro la cooperazione umana. Chiunque abbia sperimentato l’ingiuria dell’ebbrezza del potere, sia che si tratti di individui che di popoli, “afferra in alto le stelle eterne” e si rammenta dell’onnipotenza dei sentimenti umanitari. A essi, che costituiscono nella loro verità eterna l’istanza più alta, si rivolge l’appello più forte. […] Noi Tedeschi stessi – continua a scrivere Adler − siamo animati da un forte sentimento di collettività che si estende oltre i confini e prosegue in uno speranzoso sentire di “far parte dell’umanità” [Allmenscheitsempfinden]. Ci sentiamo, tuttavia, pronti a corteggiare l’idea della cooperazione fra gli uomini e a fare sacrifici per essa. L’aspirazione al potere è un miraggio fatale che avvelena la convivenza degli uomini! Chi desidera la vita comunitaria [Gemeinschaft], deve rinunciare all’aspirazione al potere! […] La nostra ricerca individualpsicologica e i risultati, sopra menzionati, possono aspirare, oggi più che mai, a essere ascoltati ed esaminati. Quanto a noi, non c’è punto di vista che riveli l’immagine degli smarrimenti del nostro tempo in modo più puro e più chiaro della Psicologia Individuale, una scienza che già prima della guerra proclamava come scopo il conseguimento di un futuro sistema di vita, basato sul rafforzamento del realismo, sulla responsabilità e sull’eliminazione dell’odio, latentemente serpeggiante fra gli uomini, attraverso la “benevolenza reciproca”. Non è difficile indovinare che cosa può e deve essere ottenuto con queste o simili mète ambiziose. Occorre che ci sia, a questo riguardo, per tutti noi una preparazione consapevole, in grado di incrementare un sentimento sociale così smisurato da abolire totalmente l’ebbrezza del potere, sia nell’individuo che nei popoli» (p. 7). A distanza di un secolo circa, un grande intellettuale come Aleksandr Solzenicyn (2000)5 in “Autolimitazione o il mondo non ce la farà” rafforza i medesimi concetti adleriani: «Il Novecento non ha dato testimonianza di una crescita di moralità del genere umano. Che motivo abbiamo di aspettarci che il Duemila sia più generoso? [...] Ci sono l’esplosione demografica mondiale e il colossale problema del Terzo Mondo, che costituisce i quattro quinti del genere umano e presto raggiungerà i cinque sesti, diventando la componente più importante del pianeta. Annegando nella povertà e nella ADLER, A. (1918). Bolschewismus und Seelenkunde. Internationale Rundschau, Zürich, IV, 597-600. (Trad. it. Bolscevismo e psicologia. Rivista di Psicologia Individuale, 47, 7-14). 4 SOLZENICYN, A. (2000). Note di civiltà. Autolimitazione o il mondo non ce la farà, Corriere della sera, 12 marzo 2000. 5 5 Giuseppe Ferrigno “Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto” miseria, i Paesi in via di sviluppo avanzeranno sempre maggiori richieste alle nazioni progredite. Con il rischio di nuovi e minacciosi conflitti, guerre per la sopravvivenza. L’Occidente si trova a dover compiere un’azione complessa di bilanciamento [...]. Questo equilibrio ci chiede di limitare le nostre esigenze, di subordinare i nostri interessi a criteri morali. Direi che noi potremmo provare vera soddisfazione spirituale non nel potere, ma nel rifiuto del nostro potere. In altre parole: autolimitazione». II. Alfred Adler, cantore di emozioni e di sentimenti Alfred Adler fin dal 1907 introduce nel suo sistema teorico significanti come “inferiorità, superiorità, aggressività”, creando sempre di più basi concettuali ruotanti intorno alla relazione, che lo porteranno a divenire più tardi l’antesignano del modello socioculturale, bipersonale della psicologia del profondo in contrapposizione al modello pulsionale classico freudiano. I lemmi “inferiorità”, “superiorità”, “aggressività”, se scomposti nel loro etimo latino, denotano, infatti, i primi due (infěrior, supěrior) “confronto” e “contatto”, il terzo (ad-gradior = avvicinarsi per gradi) “contrapposizione”, “avvicinamento verso”. Alfred Adler, dopo il 1911, si distanzia dal modello deterministico pulsionale per abbracciare una psicologia fenomenologica delle finzioni, teleologicamente orientata, individuando nel “sentimento d’inferiorità” il motore, il principio motivazionale e dinamico della vita psichica, il che gli consente di privilegiare come area elettiva della sua ricerca il rapporto dialettico fra stati emotivi e relazione: l’emozione dell’insicurezza è sempre di natura relazionale e regna incontrastata in ogni individuo, che sperimenta costantemente emozioni, sentimenti, stati d’animo, dubbi e timori per un futuro incerto e solo immaginabile. L’individuo indivisibile adleriano, in quanto fenomeno temporale, finito e limitato nello spazio e nel tempo, inferiore dunque, si trova catapultato, “gettato” heideggerianamente in “questo” mondo, sempre affascinato dall’infinita ricerca di un senso, di un significato da dare alla propria vita. Alfred Adler, l’eretico, è quindi in controtendenza: contro l’opinione molto diffusa secondo cui le emozioni rappresentino un aspetto marginale, poco dignitoso e scarsamente nobile della vita mentale di un individuo, egli ne decreta l’indispensabilità, tributando all’emozione dell’insicurezza il ruolo di motore primario del divenire psichico. Immanuel Kant (1781) in “Critica della ragion pura” 6 scrive che una colomba leggiadra, mentre vola vorticosamente fendendo l’aria di cui avverte l’opposizione e la resistenza, potrebbe paradossalmente desiderare di librarsi più velocemente nello spazio privo di aria, nella convinzione erronea che riuscirebbe a volteggiare ancora più liberamente e senza alcuno sforzo se non ci fosse proprio quell’impedimento che le procura tanta fatica. Noi sappiamo che senza l’aria la colomba non potrebbe neppure volare (Carotenuto, 1986)7. Così come l’essere umano senza relazioni, senza contatti con l’altro da Sé, senza emozioni e senza sentimenti, che spesso lo tormentano in quanto gli rendono gravosa e dura la vita, non potrebbe letteralmente vivere trasformandosi in una monade chiusa senza finestre: emozioni, sentimenti, gioie, dolori, perdite e speranze fanno parte del nostro essere al mondo e ci mettono in contatto con gli altri (Ferrigno & Borgna, 2012)8. KANT, I. (1781). Kritik der reinen Vernunft. Riga: Hartknoch. (Trad. it. Critica della ragion pura. Roma-Bari: Laterza, 1987). CAROTENUTO, A. (1986). La colomba di Kant. Milano: Bompiani. 6 7 FERRIGNO, G. & BORGNA, E. (2012). La comunicazione non è se non relazione. Rivista di Psicologia Individuale, 71, 59-78. 8 6 Giuseppe Ferrigno “Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto” Alfred Adler, allontanandosi da qualsiasi movimento politico di parte, passeggero e transitorio, desidera fare della sua Psicologia Individuale l’erede di tutti i grandi movimenti il cui scopo è il benessere dell’umanità, formulando il concetto di “sentimento sociale” come barometro della “salute mentale”: sentimento sociale sub specie aeternitatis (Vahinger, 1911)9 non limitato, quindi, a un gruppo specifico e contingente, ma proiettato costantemente verso una società ideale ancora tutta da costruire finzionalmente nel corso del tempo in un’ottica intergenerazionale. III. Alfred Adler e il senso della vita Il termine “inter-generazionale” connota un significato relazionale, rafforzato dal suffisso latino inter, che specifica una posizione intermedia tra “due” cose o “due” limiti di spazio o di tempo. Il significante “generazionale”, inoltre, deriva dal greco γíγνοµαι (ghignomai)=nasco, da cui anche il latino “gignere”, generare, creare, partorire, far sorgere, produrre qualcosa di altro da Sé: la locuzione “inter-generazionale”, quindi, ha a che fare con il rapporto tra generazioni, con il dare alla luce, con il far nascere, con l’accogliere, con il preservare, con il fare crescere ed il prendersi cura, con il divenire, con il “movimento” che si sviluppa, insomma, nel corso del tempo. Il termine “intergenerazionale” è strettamente collegato alla generatività che promuovendo affettività e legami fra le varie dimensioni del tempo, passato, presente e futuro, collega in un affettuoso dialogo, che si trasforma in un abbraccio, le generazioni a venire con le contemporanee e con quelle anteriori. Per questo motivo il sentimento sociale adleriano sub specie aeternitatis (Adler, 1931)10 riesce a donare all’individuo l’esperienza magica del sentirsi attraversato dal soffio vitale nel mentre si affanna a ricercare finzionalmente un senso da dare alla vita. E il senso della vita per Alfred Adler si ipostatizza proprio nella magia della relazione, dell’incontro, del contatto, del dialogo fra una mente e un’altra mente, fra un cuore e un altro cuore, fra una generazione e un’altra generazione in una visione laica della vita che concepisce brechtianamente l’essere umano come sintesi unitaria di corpo e di anima. Non a caso precursore dell’empatia e, di conseguenza, del sentimento sociale adleriano è il concetto di Zärtlichkeitsbedürfnis (Adler, 1908)11, il bisogno di tenerezza primaria. Il bisogno (Bedürfnis), che il bambino sperimenta, appena si affaccia sulla scena del mondo, di ricevere “delicatezza” (Zärt), affetto, dedizione, amore, carezze, se è adeguatamente riconosciuto e quindi reso fertile attraverso scambi emozionali fatti di corrispondenza biunivoca «da parte del caregiver che si prende cura di lui, consente di “afferrare in alto le stelle eterne” che vivificano un buon “legame di attaccamento”: l’innato senso sociale del bambino, si raffina, col tempo, nel linguaggio della tenerezza, della reciprocità, del sentimento sociale» (Ferrigno, 2004, p. 4)12. VAIHINGER, R. (1911). Die Philosophie des “Als Ob”, cit. ADLER, A. (1931). What Life Could Mean to You. Boston: Little, Brown & Company. (Trad. it. Cosa la vita dovrebbe significare 9 10 per voi. Roma: Newton Compton, 1994). ADLER, A. (1908). Das Zärtlichkeitsbedürfnis des Kindes. In A. ADLER & C. FURTMÜLLER. (Eds.). (1914). Heilen und Bilden: Ärztlich-pädagogische Arbeiten des Vereins für Individualpsychologie. München: Reinhardt. (Trad. it. a cura di G. Ferrigno e C. Canzano, Il bisogno di tenerezza del bambino. Rivista di Psicologia Individuale, 59, 2006, 7-15). 11 FERRIGNO, G. (2004). L’intersoggettività fra “Adlerismo” e “Teoria della mente”. Rivista di Psicologia Individuale, 56, 3-8. 12 7 Giuseppe Ferrigno “Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto” Il sentimento sociale se seminato, perciò, adeguatamente nell’ambiente familiare, sotto forma di fiducia nei legami (Cigoli, Galimberti & Mombelli, 1988)13, può in un secondo tempo estendersi all’intera umanità, con la possibilità di includere la totalità del cosmo, su un piano appunto intergenerazionale. Solo chi si considera una parte del tutto può sentirsi a casa propria nel mondo e può raggiungere quella tranquillità d’animo e quel coraggio indispensabili per affrontare la complessità della vita. IV. “Dialoghi adleriani” come canale di cooperazione Sulla scia di questo grande e accorato insegnamento del nostro Maestro, finalizzato a una cooperazione universale fra esseri umani e fra popoli diversi nel mondo, il periodico “Dialoghi adleriani” è stato concepito in formato elettronico. Esso è, quindi, liberamente e gratuitamente accessibile via internet ad ogni studioso, ricercatore, studente o curioso, adleriano e non, e a quant’altri in tutto il mondo intendano seguire le orme adleriane. “Dialoghi adleriani” accoglie contributi adleriani, italiani e internazionali, ma è disponibile a dare ospitalità a quegli studi e a quelle ricerche anche di altri orientamenti che possano concorrere ad approfondire gli aspetti epistemologici e clinici o che risultino utili a stimolare una dialettica di confronto tra l’identità della nostra Scuola adleriana milanese ed altri modelli a noi affini. Gli studi e le ricerche, che pubblichiamo e pubblicheremo all’interno del periodico “Dialoghi adleriani”, vanno considerati come veri e propri “dialoghi”, come espressione di un infinito “comunicare adleriano”, inteso sempre come verbo sia transitivo sia intransitivo: «Ci sono due modi radicalmente diversi nel comunicare: il comunicare come fare conoscere, diffondere, mettere qualcosa in comune: il comunicare come verbo transitivo; e il comunicare come essere in comunicazione, essere in relazione con qualcuno: il comunicare come verbo intransitivo, e cioè il comunicare come partecipare: come con-dividere. Nella struttura linguistica del comunicare, del partecipare, del prendere parte e del condividere, riemerge sempre, come dice Heidegger, il radicale della parte: in tedesco Mit-teilung e Mitteilen. Questa parte è la parola tematica di ogni comunicazione: noi siamo solo la parte di un tutto: siamo una soggettività amputata nella relazione con gli altri: siamo una soggettività che non si realizza fino in fondo se non nella intersoggettività: nel recupero della soggettività altrui. [Perciò] la comunicazione intesa come relazione, e come partecipazione, è riscoperta dell’alterità e rifiuto dell’alienità. L’alter non è l’alienus; e questo non solo in psicopatologia ma anche nel contesto delle comuni relazioni interpersonali. L’alienus è chi è, o meglio chi viene considerato, diverso da noi: chi è, o sembra essere, al di fuori della nostra comunità di vita. La comunicazione autentica si realizza fino in fondo solo quando diviene relazione fra una soggettività e l’altra, fra una parte e l’altra, e questo nel contesto della clinica e della cura ma anche in quello della famiglia e della società» (Ferrigno & Borgna, 2012, p. 71)14. CIGOLI, V., GALIMBERTI, C. & MOMBELLI, M. (1988). Il legame disperante. Il divorzio come dramma di genitori e figli. Milano: Raffaello Cortina. 13 FERRIGNO, G. & BORGNA, E. (2012). La comunicazione non è se non relazione, cit. 14 8 Giuseppe Ferrigno “Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto” V. “Dialoghi adleriani”: gli editoriali e i cori manzoniani Nelle tragedie greche si dava ampio rilievo al Coro che era costituito da un gruppo di cittadini, di prigionieri, di schiavi, di anziani. Il coro conversava con i protagonisti con la funzione specifica di dar voce al popolo, che così poteva commentare passo dopo passo lo sviluppo dell’azione drammatica “come se” fosse un vero e proprio personaggio. Il Manzoni utilizza il Coro (uno ne Il conte di Carmagnola e due nell’Adelchi) mutandone la funzione: il coro non costituisce più una parentesi di dialogo tra i protagonisti con il popolo, ma diventa un cantuccio lirico, “quasi separato”, che l’autore riserva a se stesso, staccandosi dalla narrazione vera e propria, per esprimere le proprie emozioni, le proprie opinioni personali, le soggettive riflessioni sugli accadimenti e sulle vicende narrate, per offrire al lettore una chiave di lettura interpretativa intellettuale e morale (Ferrigno, 2011)15. La Direzione intende utilizzare gli editoriali, come abitualmente era solito fare il Manzoni nei Cori delle sue tragedie, come un angolino silenzioso ed appartato in cui ci si rifugia per riflettere, definire, commentare, interpretare, chiarire con l’obiettivo di aprire con i Lettori un ampio, vivace e infinito “dialogo” su vari temi e argomenti. La Rivista si articola, inoltre, in varie sezioni: “Studi e ricerche”, “Casi clinici”, “Arte e società”, “Confronti”, “Incontri e interviste”, “In libreria” e “Appuntamenti”. Si prevede, inoltre, di dar spazio in alcuni numeri alla trattazione di uno specifico tema particolarmente stimolante che costituirà oggetto di un “approfondimento monotematico”. VI. “Dialoghi adleriani” e l’epistemologia La Psicologia Individuale di Alfred Adler, essendo una psicologia del profondo, non può esimersi dalla necessaria e costante riflessione epistemologica sulle proprie condizioni di possibilità, d’attendibilità e di rigore (Ferrigno & Pagani, 2004)16, sebbene i cardini teorici caratterizzanti il modello individualpsicologico si presentino come sistema aperto e flessibile in tutta la loro singolare attualità al punto che lo stesso Alfred Adler (1930)17 dice: «Quando insisto sull’aspetto artistico del nostro lavoro cammino su un vulcano» (p. 225). Soggettivismo fenomenologico, intenzionalità finalistica, causalità teleologica, empatia, relazione, lavoro artistico della coppia creativa: ecco i nuclei concettuali adleriani che nella loro copernicana eresia rispetto all’enstablishment accademico della Vienna fin de siècle hanno sempre rappresentato un forte ostacolo all’ottenimento dell’imprimatur scientifico, in quanto per la scienza sperimentale soltanto le cause efficienti sono oggetto di studio sperimentale e di falsificazione, mentre le ragioni, i fini, la creatività rimarrebbero imprigionati nella soggettività dell’individuo. Il timore che la psicologia del profondo possa confondersi con metodologie scarsamente scien- FERRIGNO, G. (2011). «Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto»: l’adlerismo fra rispetto della tradizione e apertura al cambiamento. Rivista di Psicologia Individuale, 69, 3-7. 15 FERRIGNO, G. & PAGANI, P. L. (2004). La Psicologia Individuale e le psicologie del profondo alla luce delle nuove epistemologie. In G. G. ROVERA, N. DELSEDIME, S. FASSINO. & U. PONZIANI. (Eds). La ricerca in Psicologia Individuale (pp. 49-56). Torino: CSE. 16 ADLER, A. (1930). Die Seele des Schwererziehbaren Schulkindes. Monaco: Bergmann. (Trad. it. Psicologia del bambino difficile. Roma: Newton Compton, 1976). 17 9 Giuseppe Ferrigno “Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto” tifiche ha originato, in particolar modo, la tendenza a minimizzare il potere dell’“empatia” come agente terapeutico. Il modello adleriano considera, difatti, ogni incontro con il paziente come unico e irripetibile, quindi né programmabile né “verificabile”, al punto tale da definire la coppia pazienteterapeuta come “coppia creativa”, contrapponendosi a quei modelli che sopravvalutano la “nobiltà” del metodo curativo basato sulla logica, sulla razionalità, sulle parole “svuotate” d’emozioni, sull’interpretazione insomma. Abbiamo già detto prima come il tentativo di svuotare l’uomo della ricchezza delle emozioni significhi prosciugarlo della sua linfa vitale, abbassandolo al rango di un manichino senz’anima: l’essere umano adleriano, invece, è un fenomeno temporale sempre in bilico fra passato, presente e futuro in un continuo “divenire” sotto la spinta di un ineliminabile sentimento d’insoddisfazione, di fragilità, di debolezza, d’inferiorità. Da un lato, l’approccio chirurgico delineato soprattutto da Freud, dall’altro il processo d’incoraggiamento empatico adleriano che considera il rapporto terapeutico come vulcanico lavoro artistico contrassegnato da un costante flusso biunivoco di risonanze emozionali fra chi cura e chi è curato: gli irripetibili “momenti presenti” e “momenti d’incontro”, vissuti nel qui e ora del setting (Ferrero, 2009; Bianconi, 2010)18 dalla coppia creativa terapeutica, si scontrerebbero, quindi, con l’improrogabile richiesta di falsificabilità della scienza esatta. Secondo la prospettiva antidogmatica, storicistica e creativa dell’epistemologia contemporanea, la verificabilità, la riproducibilità, la ripetibilità, l’attendibilità, principi fondanti del positivismo e del neopositivismo, sono stati sostituiti dagli innovativi concetti di approfondimento scientifico, di rigore e di legittimità scientifica: un modello teorico necessita di un incessante accordo intersoggettivo sui principi epistemologici di base e sugli strumenti operativi utilizzati, il tutto intrecciato a un diligente controllo ed a una continua e ininterrotta riflessione (Ferrigno, 2011)19. Il concetto di controllo riconduce automaticamente alla “formazione” del terapeuta adleriano, alla meticolosità con cui ha completato il training personale, alla sua preparazione sia sul piano teorico che clinico: un terapeuta adleriano deve essere capace di monitorare costantemente attraverso un “controllo clinico diretto” l’intrapsichico, l’intersoggettivo, l’interindividuale all’interno della stanza d’analisi, che diventa un vero e proprio “laboratorio”: il saper autosservare sul piano controtransferale se stesso, i propri stati d’animo, le proprie emozioni, la propria soggettività, le proprie ferite rafforza la capacità di riconoscere i pensieri, le emozioni, i sentimenti, le ferite del paziente così come si rivelano nell’hic et nunc del setting. Il “controllo extra setting” prevede, invece il ricorso alla supervisione, attraverso cui un analista/ terapeuta formato riesce a rilevare a posteriori, a leggere nuovamente l’operare specifico del collega, soffermandosi a riesaminare il flusso biunivoco delle risonanze emozionali, transferali e controtransferali, originatesi nel setting, il “come”, il “quando” e il “perché” siano state fatte alcune interpretazioni o siano stati provati alcuni vissuti emozionali sia dal terapeuta sia dal paziente. FERRERO, A. (2009). Le strategie dell’incoraggiamento nelle psicoterapie time-limited. Rivista di Psicologia Individuale, 66, 65-79; BIANCONI, A. (2010). Finzione e contro-atteggiamento. Rivista di Psicologia Individuale, 68, 7-27. 18 FERRIGNO, G. (2011). «Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto»: l’adlerismo fra rispetto della tradizione e apertura al cambiamento, cit. 19 10 Giuseppe Ferrigno “Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto” VII.La formazione, la ricerca e l’aggiornamento permanente Se la formazione permanente dei terapeuti, in genere, e, in particolare, la formazione permanente dei formatori costituiscono i pilastri su cui si fondano i risvolti etici e deontologici del nostro fare ed essere terapeuti, la professionalizzazione di chi opera nel campo della salute mentale si costruisce nella e attraverso la ricerca e l’aggiornamento continuo. Esigenza ineludibile di tutti gli operatori della salute mentale è la riflessione costante sulla coerenza dei principi epistemologici adleriani, sulla loro impostazione sociale, sul loro senso clinico, sulla loro applicazione nella prassi terapeutica, così come è indispensabile il confronto con altri modelli teorici per un rinnovarsi della teoria e della prassi, degli strumenti per le indagini scientifiche, per la ricerca, per gli interventi (Rovera, Delsedime, Fassino & Ponziani, 2004)20. Si apre, a questo proposito, la “questione” della complessità della ricerca sugli aspetti teorici, tecnici, metodologici e clinici del modello bio-psico-sociale adleriano. Il periodico “Dialoghi adleriani” dell’Istituto Alfred Adler di Milano, per questi motivi, si propone sia come stimolo sia come strumento sia come spazio di lavoro, di ricerca e di confronto critico a livello nazionale e internazionale, sia come cassa di risonanza e di diffusione sia come organo di opinione e di documentazione del dibattito epistemologico in atto sulle varie tematiche adleriane. VIII. Obiettivi “Dialoghi adleriani”, in quanto organo di documentazione e di opinione, può pubblicare articoli di Autori i cui punti di vista non necessariamente coincidono con quelli della Direzione, pur assumendo l’importante funzione di stimolare un dibattito vitale e dialettico in seno all’adlerismo nazionale e internazionale. “Dialoghi adleriani” si prefigge il compito di attivare fra gli adleriani una circolarità comunicativa che apra un filone di studio, di riflessione, di ricerca che sviluppi un dibattito fecondo non soltanto sulla terminologia di scuola, che condurrebbe a una banalizzazione nominalistica, ma soprattutto su quanto si stratifica dietro l’involucro finzionale delle “parole”. Spero che col tempo il nostro periodico possa acquisire l’autorevolezza di una rivista prestigiosa grazie al lavoro attivo e diligente di un corpo redazionale che in questi ultimi mesi si è prodigato in un impegno assiduo, intenso, creativo e prospetticamente utopico. “Dialoghi adleriani” aspira a diventare col tempo un laboratorio di ricerca, un opificio, un “osservatorio” che consenta di rivisitare le nostre radici storiche in una dialettica sempre oscillante fra il rispetto della tradizione e l’apertura al cambiamento. È nostra ambizione che “Dialoghi adleriani”, rivolgendosi a collaboratori e studiosi adleriani di tutte le nazioni del mondo, possa incoraggiare un primo passo d’interazione, cooperazione, socializzazione fra le varie Riviste e i vari Istituti per aprire un virtuoso confronto fra scuole che preveda lo scambio delle riviste, la segnalazione, la traduzione e la pubblicazione di studi e ricerche particolarmente rilevanti nelle rispettive riviste nazionali al fine di alimentare un confronto sulla teoria e sulla ROVERA, G. G., DELSEDIME, N., FASSINO, S. & PONZIANI, U. (Eds). (2004). La ricerca in Psicologia Individuale. Torino: CSE. 20 11 Giuseppe Ferrigno “Daremo il benvenuto a qualsiasi confronto” prassi individualpsicologiche (Ferrigno, 2011)21. Ci aspettiamo da voi Lettori suggerimenti e anche critiche costruttive, oltre che, naturalmente, scritti e articoli. In questo caso, sarà, però, fondamentale attenersi con molta cura alle indicazioni fornite nelle “Norme redazionali”. Alfred Adler, ispirato cantore del sentimento sociale concepito come “esperienza quotidiana” e non come sporadica finzione rafforzata con intenti moraleggianti, ci esorta costantemente affinché “il nostro vero compito sia la pratica del sentimento sociale”. Spero che “Dialoghi adleriani” con lo sguardo rivolto verso orizzonti di ricerca e di confronto possa offrire ai ricercatori, agli studiosi, agli studenti, ai simpatizzanti e a tutti gli adleriani sparsi per il mondo una rivista dal respiro interculturale fondata sulla pratica del sentimento sociale sub specie aeternitatis, il cui intento utopico possa essere colto e arricchito sempre di più da chiunque intenda arrecare negli anni a venire nuovi apporti di sviluppo, di accuratezza e di crescita. Giuseppe Ferrigno Via Copernico, 39 I-20125 Milano E-mail: [email protected] PEC: [email protected] FERRIGNO, G. (2011). A quarant’anni dalla nascita della Psicologia Individuale. Rivista di Psicologia Individuale, 70, 3-7. 21 12 DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 13-18 (2014) STUDI E RICERCHE IL SENTIMENTO SOCIALE DI FRONTE ALLA CRISI DEI VALORI E ALLE MODIFICAZIONI SOCIO-CULTURALI DEL NOSTRO TEMPO Alberto Mascetti Riassunto Abstract L’Autore analizza il concetto di sentimento di comunità, mostrando la difficile praticabilità di tale assunto fuori della condizione nevrotica. Viene criticata la pretesa utopica d’incrementare il sentimento di comunità al di fuori della dimensione finzionale e ribadita la grande significatività dello stile di vita. L’Autore suggerisce il superamento, in linea con la prospettiva adleriana, della dicotomia fra volontà per il proprio scopo e sentimento sociale attraverso un processo incoraggiante che conduce all’amore per il proprio destino, inteso in senso squisitamente psicologico e psicoterapeutico, lontano dall’accezione filosofica nietscheziana. THE SOCIAL FEELING FACING THE CRISIS OF VALUES AND THE SOCIO-CULTURAL CHANGES OF OUR TIME. The author analyzes the concept of feeling of community showing the difficult feasibility of such a thesis out of the neurotic condition. It’s criticized the utopian claim to increase the feeling of community outside the fictional dimension and emphasized the great significance of lifestyle. The author suggests, in line with the Adlerian perspective, overcoming the dichotomy between desire for their own purpose and social feeling, through an encouraging process that leads to love for their own destiny, considered in a purely psychological and psychotherapeutic sense, away from the philosophical Nietzschean meaning. Parole chiave Keywords SENTIMENTO DI COMUNITÀ, TRASFORMAZIONI SOCIOCULTURALI, NEVROSI, AMOR FATI FEELING OF COMMUNITY, SOCIO-CULTURAL CHANGES, NEUROSIS, AMOR FATI I. Premessa Il termine “Gemeinschaftsgefühl”, concetto nuovo e creativo ideato da A. Adler, è stato introdotto nel tempo a volte come sentimento di comunità, a volte come interesse sociale. Da parte nostra abbiamo sempre privilegiato la dizione sentimento di comunità, non per mera scelta semantica, ma perché per Adler la comunità in cui noi nasciamo e viviamo, con la sua cultura, le sue regole, le sue tradizioni, diviene parte di noi a cui siamo strettamente legati. Nella costruzione del proprio mondo il bambino e la bambina assorbono in modo naturale le modalità, lo stile, potremmo dire, della comunità, che noi nel tempo ritroviamo con i segni e con le tracce di tale condivisione. E se per gli esistenzialisti l’essere al mondo è un mit-dasein, l’essere con l’altro, che appare quasi come una fotografia della condizione umana, per Adler e gli adleriani l’adesione all’altro passa attraverso la comunità, è impregnata di impegno comunitario. Nel passato diverse critiche pronunciate da altre scuole e visioni del mondo si erano levate nei confronti di una tale prospettiva indicata da Adler, che avrebbe sospinto l’uomo verso una accettazione conformistica della propria realtà, intesa come adesione pedissequa ai canoni uniformanti il contesto sociale di appartenenza. Attraverso la comunità, attraverso la mediazione della comunità, il soggetto accoglie e aderisce a organismi più vasti, fino ad abbracciare tutto il cosmo, sviluppando un sentimento universale come se questa fosse una verità assoluta a cui uniformarsi. Nel gioco della fratria, nel gioco dei rapporti tra fratelli e sorelle, Adler scorge e indica un 13 Alberto Mascetti Il sentimento sociale di fronte alla crisi dei valori addestramento che presagisce il futuro intreccio dei ruoli nella società fuori dalla famiglia. Così sembrerebbe che l’uomo, proprio attraverso l’allenamento comunitario, la gestione dei rapporti all’interno del gruppo d’origine, sia capace e in grado di costruire un ponte verso una realtà più vasta, vivendo un sentimento che possa superare lo straniamento della solitudine e vincere l’inquietudine di essere “gettato nel mondo”, perché originariamente fuori dal mondo. Esistenza deriva da “ex-sistere”, “star fuori”. L’uomo per entrare nel mondo deve costruirsi un mondo; il sentimento cosmico adleriano fa parte di questa costruzione, ponendosi al suo culmine. Ma se è vero che alla sintonia nei confronti del mondo, ultimo stadio dello sviluppo del sentimento sociale, si giunge per diversi gradi e diverse esperienze, che vanno dalla relazionalità della fratria all’adesione alla cultura della comunità di riferimento, all’accettazione e alla elaborazione degli stereotipi ad essa legati, come è possibile oggi parlare ancora di sentimento di comunità, di sentimento sociale, davanti alla dissoluzione dell’identità nazionale, allo spaesamento di fronte alle comunità scomparse sostituite da una mescolanza etnica e culturale, all’anomia legata a una globalizzazione estranea al nostro sentire consociativo e alla conseguente perdita del sentimento di appartenenza? Non dobbiamo dimenticare che la visione del mondo della Psicologia Individuale, sin dalle origini del sodalizio psicoanalitico, presenta radicali differenze già lontane dall’opzione freudiana, che fa della pulsione libidica la molla dell’agire umano annidata nel nostro inconscio e modulata dalle rimozioni e dai tabù, quali prepotenti organizzatori e promotori della nostra realtà inconscia. Adler invece indica, nella volontà di potenza prima e nella ricerca poi della realizzazione di sé e di conquista di una inconsapevole meta, le vere matrici, i veri motori dell’agire umano. Ma la particolare sensibilità rivolta alla sfera sociale, fin dalle prime mosse della convivenza psicoanalitica, spinge Adler a riconoscere già ne “L’inferiorità degli organi”, (Adler, 1907), che rimane una pietra miliare dell’indagine psicologica di ogni tempo, l’importanza fondamentale dello sfondo socio-culturale in cui si muove l’uomo, che sempre modula e declina il sentimento di inferiorità in una prospettiva di stretta relazione tra le richieste della società e l’inferiorità medesima. Quasi che l’inferiorità non si presenti e non venga percepita per quella che è dal vissuto soggettivo, ma sempre in relazione con i vissuti inerenti alla società, che in qualche modo la vivifica e la declina nell’animo del soggetto. Tale inferiorità appartenente alle varie forme organiche prima, accomuna poi anche le inferiorità psicosociali nel quadro di una spinta dinamica di tutta la personalità, chiamata a mettere in atto ogni sforzo psicologico, volto al superamento di tale condizione di sofferenza e di pena. II. Malattia mentale e sentimento sociale L’idea del sentimento sociale permeerà sempre più la prospettiva psicologica adleriana, sia nell’ambito della condizione umana nel campo della normalità che in quello della patologia. Il sentimento sociale assumerà la funzione vera e propria di spartiacque tra il soggetto normale nei confronti di quello che mostra i segni patologici della nevrosi, della psicopatia e della psicosi. Sarà allora un diverso grado di sentimento sociale, nelle varie declinazioni carenziali, a scandire la modulazione psicopatologica nelle sue differenti forme e manifestazioni. Anche qui sul versante psicopatologico, la visione e le prospettive unitarie assumono un significato di grande valore 14 Alberto Mascetti Il sentimento sociale di fronte alla crisi dei valori psicoterapeutico, utile ed appropriato nell’approccio alla sofferenza personologica e mentale dentro il rapporto analitico, che in tale modo si libera dalle anguste categorie diagnostiche e linguistiche, che il più delle volte ingabbiano la relazione interpersonale attraverso un’ingombrante e pletorica tassonomia piuttosto che risolverla. Ma se da un lato dobbiamo riconoscere la grande intuizione adleriana che prospetta nella congerie di forme psicopatologiche un filo conduttore, una linea che in diverso grado e forma le unisce, dall’altro non possiamo accettare la semplificazione e l’uniformità del sentimento sociale quale principale elemento discriminatore delle varie forme patologiche indagate. A nostro sommesso avviso è la forma psicopatica o sociopatica o psicotica che promuove un affievolimento o una carenza di sentimento sociale e non il caso contrario. Per continuare, cerchiamo allora di illuminare altre zone d’ombra legate al pensiero adleriano e di sgomberare il campo dalle facili illusioni di cui il Nostro si era nutrito, in seguito alle crudeli disillusioni provate davanti al primo conflitto mondiale, avendo partecipato come medico e neurologo militare alla cura delle manifestazioni psicopatologiche, derivate dai tormenti e dagli spaventi vissuti sui campi di battaglia. La disillusione dei suoi ideali psicologici e umanitari che si esprimevano attraverso la fede nel sentimento sociale, con il conseguente sperato riscatto dell’uomo, teso all’incontro con l’altro e che avrebbe aperto nuovi orizzonti all’umanità, farà da volano al riconoscimento dell’essenzialità e dell’improrogabilità della diffusione e dell’incremento di tale benefica medicina sociale. Le vicende successive a tale drammatico impatto, che hanno spinto Adler a divenire il profeta del sentimento sociale, si sono sviluppate in altro modo, nei modi della storia, che con le sue imprevedibili scansioni è stata continua testimonianza di lutti e rovine, che gli uomini non solo non sono stati capaci di evitare, ma che hanno artatamente fomentato e incrementato. Le mutazioni socio-economiche sopraggiunte con la massificazione e la globalizzazione non solo delle risorse e dei mezzi di sussistenza, ma anche degli uomini, delle persone, che svuotate della loro identità psico-socio-culturale vivono una condizione di anonimato e di anomia, lontani sempre più dai loro luoghi di riferimento e sicurezza. Davanti a una tale condizione umana privata del senso di appartenenza, di unità nella diversità, di sintonia col proprio nucleo culturale, appare molto difficile parlare di sentimento sociale, di sentimento di adesione a una comunità, oramai dissolta. Il sentimento di comunità, se a livello psicologico e filosofico, così come è stato formulato da Adler, ha mostrato soprattutto nel tempo i segni di un’infatuazione lontana dalla realtà, di un’utopia in gran parte legata ai miti del suo tempo, a livello conoscitivo e analitico, riferito alla scoperta dei meccanismi consci e inconsci che sottendono il variegato mondo delle nevrosi, è ancora momento e modo fondamentale nell’approccio clinico a tali disturbi psicologici. Già abbiamo notato che Adler fin dai primordi del sodalizio psicoanalitico si muove seguendo l’idea che lo sfondo sociale non agisce soltanto come quinta ambientale, ma come elemento di riferimento e di promozione delle modulazioni e dei rimandi, che i sentimenti di insicurezza e inferiorità sollecitano e organizzano. Nel prosieguo poi e nella disamina della costruzione e della presentazione del mondo della nevrosi e dei disturbi di personalità, il sentimento di comunità rivestirà un ruolo fondamentale nella 15 Alberto Mascetti Il sentimento sociale di fronte alla crisi dei valori comprensione della conflittualità nevrotica e psicopatica. L’altra grande intuizione adleriana, che riconosciamo fondamentale nell’approccio con l’altro, è quella dello stile di vita, che è il risultato dei movimenti psicologici interni e delle afferenze socioculturali esterne: una sintesi dinamica volta verso una meta, che può essere modificata nel tempo dallo stesso soggetto o attraverso una presa di coscienza dentro un percorso analitico. Da un punto di vista analitico, lo spartiacque delle evidenze nevrotiche e psicopatiche, che definisce la normalità o la patologia, è il sentimento sociale, la cui carenza a livello personologico è particolarmente analizzata e studiata da parte di Adler. È necessario a questo punto un doveroso chiarimento circa l’organizzazione del sentimento sociale nelle persone, che presentano problemi psicopatologici al di fuori del mondo delle psicosi. L’equazione carenza di sentimento sociale=nevrosi dovrebbe essere ribaltata nel senso di nevrosi=carenza di sentimento sociale. A nostro avviso non può essere imputato al sentimento sociale carente il riverbero nevrotico, ma è la stessa organizzazione nevrotica che porta con sé una carenza relazionale e sociale. III. Sentimento sociale e stile di vita nevrotico Analizziamo in breve lo sviluppo di una nevrosi, la cui organizzazione è espressione di una conflittualità tra diverse istanze, che si possono riassumere in uno stile di vita che tende a compensare il sentimento di insicurezza o inferiorità, con una iperattività psicologica volta ad arginare una tale temperie dalla problematica gestione. Il nevrotico si rivela incapace di superare tale condizione inferiorizzante, anche perché presenta una situazione di dipendenza nei confronti di una figura parentale reale e/o finzionale che lo tiene legato e “rassicurato”. Tale condizione di dipendenza viene organizzata anche nei rapporti con gli altri, ma soprattutto nel rapporto con l’altro, in modo da costituire una coppia dagli stili di vita congeniali, volti alla esclusione della paritarietà e della libertà. La libertà, caratteristica dell’uomo adulto, è assai temuta dal soggetto nevrotico che rifugge dal rischio ad essa connesso, il rischio dell’abbandono e della delusione, che accentuerebbe lo stato di sofferenza e insicurezza, legato al senso di inadeguatezza che è sempre presente nella condizione conflittuale. Il soggetto nevrotico, dunque, mette in atto rapporti di dipendenza nei confronti dell’altro, che assume il ruolo di “persona che rassicura”, in modo da costruire un legame “privilegiato” di tipo adolescenziale o infantile, lontano dalla temuta condizione adulta. Lo stile di vita nevrotico, portando con sé una condizione di antieconomicità (il rimedio: l’ipercompensazione è presidio peggiore del male che si traduce nella sofferenza esistenziale) e di adesione estetica alla persona-maschera che lo rappresenta, di risentimento moralistico poi, nei confronti di vere o presunte disattenzioni e offese a vario livello subite, si muove con una pretesa di revanche, di rivendicazione, che pone al centro della scena se stesso con la conseguente esclusione dell’altro, mero soggetto da utilizzare e da ricattare. Nella congerie di tale conflittualità che abbiamo provato per sommi capi a dipanare, l’altro, la 16 Alberto Mascetti Il sentimento sociale di fronte alla crisi dei valori dimensione dell’altro appare sfuocata, sfumata, manipolata, dove la carenza del cosiddetto sentimento sociale gioca un ruolo fondamentale nell’espressività nevrotica. In tali frangenti il sentimento sociale non può essere che in condizione di livello larvale, sminuito, disfonico, messo in scena con opportune mascherature. La carenza è la naturale conseguenza della “mirabile costruzione nevrotica”, che è messa in campo proprio per eludere tale sentimento, per non tenerlo in nessun conto. La risoluzione dell’istanza nevrotica nell’incoraggiante processo analitico tende a recuperare in maniera evidente l’interesse per l’altro che diviene genuino, sincero, coinvolgente. L’insegnamento del sentimento sociale, il suo potenziamento non sembrano essere dunque un’operazione praticabile, se disgiunta da una ritrovata e ripristinata risoluzione della problematica nevrotica. Un nuovo sentimento per l’altro non può che scaturire naturalmente durante il procedere analitico, significativo e risolutivo. Un processo analitico corretto suscita di per sé, attraverso la mediazione terapeutica, un sentimento benefico per l’altro, per il terapeuta che assume il ruolo di prototipo dell’altro significante. A nostro avviso non è necessario né opportuno enfatizzare l’incremento di tale sentimento, che è evidentemente legato e presente nella condizione umana articolata nei modi della autenticità. IV. Sentimento sociale e amore per il proprio destino Per concludere allora tale dissertazione su nevrosi e sentimento sociale, ribadiamo la nostra convinzione che tale sentire deve essere analizzato come riferito e legato al disvelamento incoraggiante e al superamento della condizione nevrotica. Al di fuori di tale rigoroso procedimento terapeutico disquisire di sentimento di comunità, alla luce delle modificazioni socio-culturali del nostro tempo, appare illusorio, utopico e piuttosto appannaggio di “anime belle e sensibili”. La dicotomia congeniale adleriana, che assembla nella prospettiva un ricercato equilibrio tra volontà di raggiungere il proprio fine e il sentimento di comunità, è anche qui un “come se” difficilmente raggiungibile ai giorni nostri come al tempo di Platone, che già riconosceva l’impraticabilità di tale armonioso equilibrio. Proviamo allora ad indicare per superare tale impasse davvero singolare e problematica un suggerimento che si mantenga in linea con la prospettiva e la promessa adleriane, che cercano di assemblare e risolvere il dilemma, ma che allo stesso tempo le riproponga in una condizione di finzione ineludibile: quella dell’amore per il proprio destino. Tale proposta, che ha dentro di sé la duplice opzione adleriana del sentimento di comunità e della competizione alla ricerca di una meta, nello stesso tempo la promuove e la spinge verso una dimensione esistenziale, che è espressione di ben-essere e di salute mentale. Nell’amore per il proprio destino si conclude dunque l’itinerario personologico e psico-sociale di un’esistenza autenticamente vissuta, o quello finale di un percorso psicoterapeutico davvero risolutivo, centrato su un destino non più combattuto, ma finalmente incorporato nella propria storia. Il concetto di amore per il proprio destino, di amor fati, che noi utilizziamo in senso squisitamente 17 Alberto Mascetti Il sentimento sociale di fronte alla crisi dei valori psicologico e psicoterapeutico, viene elaborato in un’accezione diversa da quella nietzschiana dell’eterno ritorno dell’uguale, che traduce un’esigenza filosofica tutta particolare legata alla Weltanschauung del filosofo tedesco, lontana dal nostro pragmatico interesse. Sarà nostra cura approfondire tale assunto con una successiva trattazione, che lo possa inquadrare in un’originale proposta psicologica e psicoterapeutica. BIBLIOGRAFIA ADLER, A. (1907). Studie über Mindwertigkeit von Organen. Berlin-Wien: Urban & Schwarzenberg. ADLER, A. (1912). Über den nervösen Charakter. Wiesbaden: J. F. Bergmann. (Trad. it. Il temperamento nervoso. Roma: Newton Compton, 1971). ADLER, A. (1927). Menschenkenntnis. Leipzig: Hirzel. (Trad. it. La conoscenza dell’uomo nella Psicologia Individuale. Roma: Newton Compton, 1994). ADLER, A. (1933). Der Sinn des Lebens. Wien und Leipzig: Passer. (Trad. it. Il senso della vita. Novara: De Agostini, 1990). ANSBACHER, H. L. & ANSBACHER, R. R. (1956). The Individual Psychology of Alfred Adler. New York: Basic Books. (Trad. it. a cura di U. Sodini e A. Teglia Sodini, La Psicologia Individuale di Alfred Adler. Firenze: Martinelli, 1997). COLLI, G. & MONTINARI, M. (Eds.). (1964-1986). Opere di Friedrich Nietzsche. Milano: Adelphi. ELLENBERGER, H. F. (1970). The discovery of the unconscious: The history and evolution of dynamic psychiatry. New York: Basic Books. (Trad. it. La Scoperta dell’inconscio, 2 voll. Torino: Bollati Boringhieri, 1976). GEHLEN, A. (1940), Der Mensch. Seine Nature und seine Stellung in der Welt. Berlin- Wiesbaden: Junker und Dünnhaupt. (Trad. it. L’uomo. La sua natura e il suo posto nel Mondo. Milano: Feltrinelli, 1983). GIAMETTA, S. (2009). Il Volo di Icaro, Elzeviri filosofici. Padova: Il Prato. MASCETTI, A. (1976). Psicologia Individuale e Antropoanalisi: analogie e corrispondenze. Rivista di Psicologia Individuale, 6-7, 9-22. MASCETTI, A. (2010). Finzioni e stili di vita. Rivista di Psicologia Individuale, 68, 117-122. NATOLI, S. (1989). L’Esperienza del Dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale. Milano: Feltrinelli. NATOLI, S. (1994). La Felicità. Saggio di teoria degli affetti. Repubblica, Classici del Pensiero Occidentale. Milano: Feltrinelli. REALE, G. (1995). Saggezza antica. Terapia per i mali dell’uomo d’oggi. Milano: Raffaello Cortina. REALE, G. & ANTISERI, D. (2004). Storia della Filosofia. Dai presocratici ad Aristotele. Milano: R.C.S. Quotidiani S.p.A. REALE, G. (2004). Platone. Repubblica, Classici del Pensiero Occidentale. Milano: R.C.S. Libri S.p.A. REALE, G. & ANTISERI, D. (2008). Storia della Filosofia, n. 9 da Nietzsche al Neoidealismo, Milano: R. C. S. Libri, Bompiani. ROVERA, G. G. (1979). Il sistema aperto della individualpsicologia. Quaderni della Rivista di Psicologia Individuale. Milano: Cortina. SAFRANSKI, R. (2000). Nietzsche. Biographie seines Denkens. Munich-Vienna: Carl Hanser Verlag. (Trad. it. Nietzsche, Biografia di un pensiero. Milano: Longanesi, 2001). VATTIMO, G. (1985). Introduzione a Nietzsche. Bari: Laterza. VITIELLO, V. (1983). Utopia del Nichilismo tra Nietzsche e Heidegger. Napoli: Guida. Alberto Mascetti Via Maspero,10 I-21100 Varese E-mail:[email protected] 18 DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 19-34 (2014) STUDI E RICERCHE ENDOMETRIOSI E FEMMINILITÀ Rossella Ardenti Riassunto Abstract L’endometriosi è una malattia infiammatoria cronica femminile enigmatica e complessa. Nonostante la sua incidenza sia superiore al 10% della popolazione femminile in età fertile e la sua scoperta da quasi un centennio, è una malattia poco conosciuta, soprattutto su un piano eziopatogenetico, e i numerosi studi scientifici in campo internazionale non hanno ancora risolto i molti interrogativi sulla malattia, sulla ricorrenza dei sintomi, sulla recidiva e sulle modalità diagnostiche e terapeutiche più efficaci. Psicologicamente, le ricadute dell’endometriosi sulla qualità della vita e sulla dimensione personale e relazionale della personalità sono di notevole rilevanza e già riconosciute dalla comunità scientifica internazionale. Questo lavoro vuole mettere in luce la profondità e la reciprocità del legame inscindibile tra endometriosi e femminilità. ENDOMETRIOSIS AND FEMININITY. Endometriosis is a complex and mysterious inflammatory chronic disease affecting women. It’s still a little known disease especially on aetiopathogenic level, despite the fact that more than 10% of the women in fertile age are affected by it and that it was discovered almost a hundred years ago. Furthermore, the numerous international scientific studies which have been carried out haven’t yet solved the many questions on the disease, on the recurring symptoms, on the relapse and on the most effective diagnostic and therapeutic methods. From a psychological point of view, the effects of endometriosis on the quality of life as well as on the personal and relational sizes of personality, have a remarkable importance and have already been recognized by the international scientific community. This work aims at highlighting the depth and the reciprocity of the close connection between endometriosis and femininity. Parole chiave Keywords ENDOMETRIOSI, FEMMINILITÀ, UNITÀ BIOPSICHICA/ PSICOSOMATICA, STILE DI VITA ENDOMETRIOSIS, FEMININITY, BIOPSYCHOLOGICAL UNIT/PSYCHOSOMATIC, LIFESTYLE I. L’endometriosi: una malattia enigmatica L’endometriosi è una malattia cronica femminile enigmatica, subdola e ancora poco conosciuta (Adamson, 2011; Guo, 2009; Jacobson, 2011; Serracchioli, Frascà & Matteucci, 2012; Vercellini, 1997; Vercellini et al., 2008). In questa malattia, l’endometrio (la mucosa che ricopre la cavità interna dell’utero) è presente in modo anomalo in altri organi, quali per esempio le ovaie, le tube, il peritoneo, la vagina e talvolta anche l’intestino, la vescica, il sigma, il Douglas. Per questa presenza anomala, gli organi in cui sono presenti i nuclei di endometrio sono sottoposti a un’infiammazione ciclica e cronica segnalata da un forte dolore, spesso invalidante. La diagnosi arriva molto tempo dopo l’esordio dei sintomi, in media dopo 9 anni, e questo per ragioni multiple: la tendenza erronea a normalizzare il dolore, senza riconoscerne il carattere patologico, sia da parte delle donne, sia da parte del medico di medicina generale; la sintomatologia aspecifica (ad esempio: disturbi gastro-intestinali, disturbi urinari, infertilità, dispareunia) che spesso porta ad ipotizzare altre forme di malattia; le tecniche diagnostiche non invasive non evidenziano efficacemente e chiaramente l’endometriosi, l’unico strumento attualmente riconosciuto a livello internazionale come l’unico attraverso cui si può fare con certezza questa diagnosi è la laparoscopia (Ballard et al., 2006; Farquhar, 2007; Giudice & Cao, 2004; Giudice, 2010; Serracchioli et al., 2012; Vercellini et al., 1990). L’endometriosi incide sul 10% delle donne in età infertile, ma la comunità scientifica nel suo complesso ritiene che questo sia un dato che sottostima la realtà, proprio perché è riferito alle dia19 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità gnosi accertate attraverso laparoscopia (Fauconnier et al., 2005; Farquhar, 2007; Giudice et al., 2004; Viganò et al., 2004). Per rendere più breve il ritardo diagnostico, così da ridurre l’aggravamento della malattia ad esso correlato, è grande l’impegno medico-scientifico per affinare tecniche diagnostiche meno invasive, ma altrettanto efficaci rispetto alla laparoscopia. Sono molti gli interrogativi sull’endometriosi che la ricerca scientifica internazionale non ha risolto. Oltre agli interrogativi sull’incidenza, l’eziologia, la ricorrenza, le localizzazioni e la clinica diagnostica, terapeutica e chirurgica, il principale punto oscuro, che molto fa dibattere, riguarda la patogenesi dell’endometriosi. La teoria più accreditata, perché riesce a spiegare la maggior parte delle localizzazioni della malattia, è quella cui è giunto Sampson (1921, 1922, 1927) dopo i suoi studi, secondo cui la presenza di endometrio al di fuori delle pareti dell’utero è dovuta al rigurgito attraverso le tube e alla disseminazione di frammenti di cellule di sfaldamento durante la mestruazione. Gli studi più recenti, pur avendo mantenuto la validità di questa teoria, hanno rilevato la complessità di questa condizione, riconoscendo nella patogenesi dell’endometriosi anche anomalie immunologiche e alterazioni endocrine, sulle quali la ricerca medica sta effettuando importanti approfondimenti scientifici (Farquhar, 2007; Giudice et al., 2004; Serracchioli et al., 2012; Vignali et al., 2002). II. L’endometriosi nella polarità psichica La complessità dell’endometriosi nella polarità organica si riflette così visibilmente nella polarità psichica da essere stata oggetto di altrettanto interesse scientifico. Si è studiato l’effetto del dolore rispetto alla qualità della vita (Denny, 2009; Eriksen et al., 2007; Nnoaham et al., 2011; Siedentopf et al., 2008), l’impatto della malattia sul lavoro e sulla partecipazione sociale (Gilmour, 2008; Malkovic et al., 2008), le sue ripercussioni sulla vita sessuale (Ferrero et al., 2005), gli effetti stressanti dell’ospedalizzazione e della tendenza all’isolamento (Gammon, 1998), le strategie di coping delle donne affette da endometriosi (Kaatz et al., 2010), l’influenza dei sintomi depressivi e ansiogeni (Herbert et al., 2010; Sepulcri et al., 2009). Ho iniziato a conoscere parzialmente l’endometriosi negli anni ’90, per la componente di infertilità a cui a volte conduce, durante la mia lunga attività di psicologa volontaria presso il Centro di Procreazione Medicalmente Assistita della Divisione di Ostetricia e Ginecologia dell’Azienda Ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia. Ne ho approfondito più pienamente la conoscenza nella successiva esperienza all’interno dell’Associazione Progetto Endometriosi- A.P.E. onlus, nata nel 2003 da un piccolo gruppo di donne reggiane e diventata presto un punto di riferimento nazionale per le donne affette da endometriosi. Sin dalla sua nascita, ma non senza difficoltà (Ardenti, 2010a), ho scelto di accogliere la loro richiesta e così di mettere al servizio delle donne affette da endometriosi le mie conoscenze, la mia esperienza, la mia professionalità e parte del mio tempo. In questi anni ho ascoltato storie e vissuti, raccolto testimonianze (Sanders, 2009), accompagnato alcune donne in gruppo nel tortuoso percorso di accettazione della malattia, risposto ai loro bisogni emotivi attraverso il forum, curato una rubrica nella rivista interna. Alcune donne, inoltre, si sono rivolte a me privatamente per fare un lavoro più profondo e abbiamo iniziato un percorso di psicoterapia analitica (Ardenti, in press) e con altre abbiamo fatto un’esperienza di terapia breve di gruppo (Ardenti, 2012). 20 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità Da subito, mi è apparso uno scenario psichico molto articolato e complesso, in cui orientarsi, risultava un’impresa irta di difficoltà; gli insegnamenti adleriani sono stati la mia bussola e i fondamentali concetti di unicità e di unità biopsichica dello Stile di Vita sono stati la mia stella polare (Adler, 1912, 1920, 1927, 1933; Ansbacher & Ansbacher, 1964) Per lungo tempo sono rimasta in posizione d’ascolto empatico, con l’obiettivo di arrivare a sentire dentro di me più chiaramente la loro sofferenza emotiva (Alder, 1931, 1928-1932; Ansbacher & Ansbacher, 1997; Parenti, 1983) e i miei interventi, inizialmente fondati sulla mia ancora breve esperienza terapeutica e sul buon senso, sono diventati mirati, specifici ed anche incisivi solo progressivamente. Negli incontri di gruppo, facilitate soprattutto dal sentirsi all’interno di un contesto favorevole perché composto da donne nella stessa condizione, dopo alcune mie brevi considerazioni introduttive, le donne hanno iniziato a raccontarsi ampiamente, con dovizia di particolari clinici e con grande partecipazione emotiva, mettendo così in luce un caratteristico stile di narrazione (Good, 1994; Grassi, 2010). Al centro della narrazione iniziale c’è stato sempre il corpo con il suo periodico o costante dolore invalidante o con le sue modificazioni a seguito delle importanti terapie ormonali e degli interventi a volte ripetuti nel tempo; un corpo che assume più le sembianze di un nemico da combattere piuttosto che una parte di sé malata di cui prendersi cura; un corpo che utilizza un linguaggio assordante, che disturba e spaventa e che, per questo, vuole essere allontanato; un corpo odiato perché veicola solo dolore e sensazioni spiacevoli. Nella narrazione è stato utilizzato il canale razionale, privilegiando la descrizione precisa di fatti, visite, interventi, terapie, recidive, complicanze; le emozioni difficilmente venivano spontaneamente nominate o esplicitate, ma sono state veicolate molto chiaramente attraverso il canale non-verbale. Tra le donne diventava visibile la reciproca immedesimazione e la forte suggestionabilità. Stimolate a parlare più delle proprie emozioni, quella che ha preso molti spazi è stata la rabbia: per una malattia che non si riesce a controllare e che rende più difficile il concepimento; per un corpo così malato; per il loro essere donna; per un dolore che non passa; per non essere capita dai propri familiari o dalle donne che non hanno l’endometriosi o dai loro partner; per non essere state ascoltate dai medici di medicina generale e dai ginecologi che, invece, hanno a lungo sottovalutato l’entità e l’intensità dei sintomi, insistendo sul loro essere isteriche, dunque bisognose di supporto psicologico; per il loro aver peregrinato nei vari centri specializzati e da diversi specialisti che davano scarse informazioni sulla malattia o sulla prognosi e prospettavano interventi diversi tra loro con poche certezze di risultato; per il loro essere state lasciate da sole con la loro incomprensibile, inspiegabile e imprevedibile malattia. Si tratta di una rabbia molto profonda e radicata ma altrettanto controllata e repressa, che trova spazio di condivisione solo nelle relazioni in cui la donna sente di essere veramente capita, quindi, con donne che condividono la stessa malattia. Nella loro quotidianità, le donne indossano una “maschera”, quella in cui “tutto va bene” Le altre emozioni che s’intrecciano alla rabbia sono: senso di mortificazione, per tutte le volte che il loro dolore è stato sottovalutato e svilito o sul quale si è anche ironizzato; senso di frustrazione, per tutti i tentativi terapeutici o chirurgici non andati a buon fine; senso d’impotenza, per una malattia difficilmente gestibile anche clinicamente; profondo sentimento d’inadeguatezza in quanto donna, per non riuscire sia ad avere una vita sessuale soddisfacente sia a coronare il pressante desiderio di maternità; schiacciante vissuto di colpa, per non essere in grado di condurre una vita “normale” nelle 21 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità quotidiane attività, per costituire un peso per la famiglia o per il partner, per non dare un figlio al proprio partner; senso di diversità e di “unicità” per avere una malattia così particolare e invalidante; senso di solitudine, perché nessuno può capire le difficoltà che stanno vivendo e che devono affrontare; senso di vergogna, per avere un ciclo così doloroso e per non riuscire a rimanere incinta; profondo senso di vuoto, sentito come incolmabile, per una maternità negata (Ardenti, 1999, 2000, 2001, 2011, Ardenti & La Sala, 2003). Schiacciate da questo carico emotivo, le donne hanno mostrato di vivere un profondo scoraggiamento nei confronti della propria inferiorità d’organo con un conseguente evitamento, come se l’unica possibilità fosse quella di compensare rinunciando alla vita; e rispetto al sentire di non poter contare su qualcuno con cui condividere, e da cui sentirsi compresa, il chiudersi e il compiangersi in solitudine diventano la soluzione privilegiata (Ardenti, 2008, 2010a). Sin dai primi incontri mi fu chiaro che mi trovavo insieme a donne con una profonda sofferenza emotiva e mi colpiva il fatto che fossero state lasciate a se stesse dai medici con i quali avevano fino a quel momento interagito. A parte qualche eccezione, mi arrivava la descrizione di medici che si occupavano solo della dimensione organica e qualora riconoscevano il loro bisogno emotivo lo rilevavano con atteggiamento svalorizzante e colpevolizzante. In una variabilità organica molto ampia di sintomatologia, di localizzazioni, di gravità e di estensione dell’endometriosi, il funzionamento psichico delle donne che ne sono affette si presenta in modo molto più uniforme. Avere dato spazio di ascolto in un clima di accoglienza e di comprensione ha consentito alle donne di sentire la libertà di esprimere la gravosità dei propri vissuti e sperimentare il sollievo che deriva dalla condivisione; per me ha significato conoscere il loro Stile di Vita (Ardenti, 2009; Ferrero, 2010; Ferrigno, 2005; Mascetti & Maiullari, 1983) e provare empaticamente il carico della sofferenza emotiva espressa a tutto tondo dalle donne, una sofferenza troppo profonda e intensa per essere solo una reazione alla malattia (Ferrigno, 2008, 2010). «Depressione e senso di vuoto, mancanza di senso della vita, paura dell’impoverimento psichico e solitudine, continua a rivelarsi come la tragedia della perdita del Sé, ossia dell’autoestraniazione, che prende sempre avvio nell’infanzia» (Miller, 1996, p. 43). III. La visione della medicina psicosomatica In linea con la rivoluzione psicoanalitica, nella prima metà del XX secolo nasce la medicina psicosomatica, una disciplina scientifica che ha come scopo l’indagine delle cause e degli effetti delle relazioni fra mente e corpo, nello specifico la ricerca dell’eziologia di natura psicologica di un disturbo somatico. Partendo dall’innovativo concetto di unità mente-corpo, la medicina psicosomatica ha svolto le sue ricerche su un modello dualistico e con un principio di determinazione. Ed è sulla base di questo principio metodologico che si è giunti a differenziare una condizione clinica organica, in cui è documentabile una lesione d’organo, da una condizione clinica funzionale, in cui è colpita una funzione d’organo senza evidenza di danno d’organo, ed anche a distinguere una malattia in cui è nota l’eziologia (infettiva, genetica o ambientale) da quella in cui il disturbo non è determinato da un agente causale noto. Seppure si tratti di diversificazioni categoriali chiaramente definite, si è acceso un dibattito molto appassionato sulla “collocazione” di una malattia in una specifica categoria, che ha portato ad una 22 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità lotta di appartenenza di una malattia tra le scienze biologiche e quelle psicologiche. Ne è un esempio la posizione non uniforme sull’ulcera peptica: oggi è ritenuta una patologia organica poiché endoscopicamente è visibile un danno d’organo causato da un agente esterno, il batterio Helicobacter pylori; tuttavia ci sono casi di ulcere senza il riscontro del batterio e casi di ulcere causate da stress psicologico. Il modello dualistico rende impossibile una netta distinzione di appartenenza, poiché persegue una logica autoescludente, che consiste nel trovare le evidenze che dimostrino che una malattia abbia una causa organica oppure psichica. Un’obiezione che circola nel dibattito interno della medicina psicosomatica (Lipowski, 1989; Todarello et al., 1992) e che ha portato a definire la psicosomatica come un “paradosso epistemologico”, proprio perché intende analizzare l’unità mente-corpo attraverso il modello dualistico (Porcelli, 2012). Le prime teorie psicosomatiche vedevano applicare alla medicina i concetti fondamentali della psicoanalisi: il nucleo centrale dei disturbi psicosomatici è un conflitto intrapsichico; sulla base di questo conflitto e dei meccanismi di difesa ad esso riferiti, vennero individuate alcune patologie che non erano spiegate dalla medicina e che vennero identificate come disturbi psicosomatici. La psicoanalisi ha avuto la sua influenza anche sull’aspetto terapeutico: così come per il nevrotico, anche per il paziente con disturbo psicosomatico, il trattamento elettivo è quello analitico (Alexander, 1950; Deutsch, 1959). In ambito psicoanalitico il rapporto mente-corpo è stato costante oggetto d’attenzione e di studio (Assoun, 2004; Buzzatti & Salvo, 1998; Carignani & Romani, 2006; Chasseguet-Smirgel, 2005; Zannini, 2004). Fuori dal contesto psicoanalitico, fra il 1920 e il 1950, si diffuse l’ipotesi psicogenetica, secondo la quale le malattie fisiche potevano essere determinate da costellazioni specifiche di personalità (Porcelli, 2009) e nella seconda metà del novecento ci sono stati importanti contributi per la moderna concezione della psicosomatica. Per esempio, il contributo di Kissen (1963), secondo cui le malattie sono entità eterogenee e multifattoriali, non entità omogenee come fino a quel momento erano considerate; secondo l’Autore, il punto fondamentale non può essere individuare se una malattia è organica o psicosomatica, ma identificare quali sono i fattori, organici e psichici, che sono alla base della malattia di quel paziente. Di rilievo anche il contributo di Engel (1977, 1980), riconosciuto per il suo modello biopsicosociale, secondo cui la malattia è il risultato dell’interazione multifattoriale di vari sistemi (cellulare, tissutale, organico, interpersonale e ambientale) e a più livelli: comprenderne l’origine vuol dire trovare il contributo e il “peso relativo” che ha ciascun fattore e ciascun sistema nel co-determinarla. Eppure, già all’epoca di Freud, Adler aveva espresso a gran voce le sue critiche al modello psicoanalitico. Adler (1912) aveva compreso la complessità dell’essere umano e non poteva riconoscersi nel riduzionismo a cui la teoria del conflitto e il suo conseguente riduzionismo conducevano. Per Adler l’individuo è un’unità biopsichica; corpo e psiche non possono essere scissi, così come la psiche non può essere scissa in topiche. Quindi, l’individuo non è l’insieme di parti tra loro scisse, legate solo da una relazione lineare causa-effetto, ma è un’unità complessa le cui componenti sono tra loro interconnesse e dialogano in modo circolare. «Tanto la mente quanto il corpo sono manifestazioni della vita: sono parti della vita nella sua totalità e quindi cominciamo a comprendere i loro reciproci rapporti all’interno di questa totalità» (Adler, 1931, p. 39). 23 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità Anche lo sviluppo dell’individuo è un processo complesso, che non avviene solo all’interno dell’intrapsichico, ma in un mondo di relazioni: è la risultante di eredità, genetica, contesto ambientale e Sé creativo. Le malattie o le anomalie di comportamento non sono l’esito di un conflitto, ma di una carenza, di un deficit e tra queste Adler riserva un posto di gran rilevo alla trascuratezza affettiva (Adler, 1908a, 1908b, 1912, 1920, 1927). «Fra tutti i fenomeni psichici che divengono chiaramente percepibili, il bisogno di affetto compare molto precocemente» (Adler, 1904-1913, p. 76). Un bambino che cresce in un contesto educativo in cui è negato il bisogno di affetto è lasciato «solo con la sua personale perduta ricerca d’amore. Privato di tutti gli oggetti d’amore, al bambino non rimane come scopo della sua ricerca nient’altro che la propria persona, i sentimenti sociali restano rudimentali e prevalgono solo le tendenze di soddisfazione che hanno come oggetto l’amore di sé in tutte le sue forme. Oppure il bambino assume la posizione aggressiva. Ogni istinto non soddisfatto finisce per orientare l’organismo in modo tale che esso opponga al proprio ambiente aggressività. I caratteri violenti, i bambini senza freni, resistenti a ogni educazione, possono insegnarci che se il bisogno di tenerezza resta a lungo insoddisfatto, sollecita e stimola le vie dell’aggressività» (Adler, 1908b, p. 10). Come Adler, altri Autori contemporanei hanno rilevato le importanti conseguenze sulla salute psichica delle carenze affettive in infanzia (Ferrero, 1995; Miller, 1996; Schellembaum, 1988; Valcarenghi, 2011). A parte la critica concettuale al corpo teorico della psicoanalisi, di cui è piena la letteratura internazionale, e le critiche che si sono sollevate a seguito dei riconosciuti fallimenti della psicoanalisi come cura per le malattie psicosomatiche, diversi sono stati gli psicoanalisti le cui obiezioni traevano forza propulsiva dalla pratica clinica e dalle relative evidenze. Non trovando alcuna forma di armonizzazione tra la visione teorica psicoanalitica e quanto da loro osservato nella quotidianità delle analisi con i pazienti, alcuni Autori ne hanno preso parzialmente le distanze, pur rimanendovi all’interno, ed altri si sono definitivamente distaccati dando origine a un pensiero autonomo. Tra questi ultimi, ci sono quelli che hanno rivalutato il rapporto mente-corpo e che hanno dato al corpo un ruolo di rilievo nel lavoro terapeutico. Ne sono un esempio A. Lowen (1980, 1983, 1985) e A. Miller (1980, 1981, 1996, 2002, 2004, 2007). Lowen è esplicito nel ritenere che l’inefficacia o il fallimento dei trattamenti psicoanalitici sia ascrivibile alle difficoltà inerenti al rapporto corpo-mente «finché persiste la tesi del dualismo corpo mente, la difficoltà resta insuperabile» e che «nella sua espressione emotiva l’individuo è un’unità. Non è la mente che va in collera né il corpo che colpisce; è l’individuo che si esprime» (Lowen, 1985, p. 3). Miller ritiene che il corpo sia la “fonte di tutte le informazioni vitali”, che la malattia sia l’esito di una scissione avvenuta nel corpo delle emozioni vissute nel corso della propria vita e che si può uscire dal vincolo che lega al proprio passato solo facendo luce nella propria “verità storica” e arrivando a percepire e a vivere liberamente quelle emozioni rimaste prigioniere nel corpo. Le carenze affettive vissute nell’infanzia generano un «vuoto che si aspetta di essere colmato: […] il bambino che ha ricevuto poco amore, che si è sentito negato ed è stato maltrattato con il pretesto dell’educazione, in età adulta dipenderà tanto dai genitori o dai suoi sostituti, dai quali si aspetta tutto ciò che gli hanno sottratto nel momento decisivo» (Miller, 2004, p. 12). Il corpo conserva la memoria, quindi sa che cosa manca, di che cosa si ha bisogno, ciò che è stato sopportato a fatica e cerca per tutta la vita il nutrimento di cui avrebbe avuto bisogno e che gli è stato negato. «Le funzioni corporee, come 24 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità il respiro, la circolazione del sangue, la digestione, reagiscono soltanto alle emozioni vissute. […] Il corpo si attiene ai fatti» (Ibid., p. 20). IV. Le nuove evidenze scientifiche del complesso rapporto tra mente e corpo nella malattia Nonostante l’ampia Letteratura scientifica a supporto dell’unità biopsichica, il modello dualistico è persistente e di difficile superamento; inoltre, gli specialisti si adoperano con tecniche d’indagine e di studio sempre più sofisticate per dimostrare l’organicità o l’ereditarietà genetica delle malattie. Gli anni ’90 segnano un grande passaggio, poiché è in questo decennio che, anche grazie alle neuroscienze, si sviluppano progetti di ricerca volti a rendere evidente il legame inscindibile tra mente e corpo. Il più autorevole riferimento è lo studio ACE (The Adverse Childhood Experiences Study) iniziato nel triennio 1995-1997 a San Diego e svolto su un campione superiore ai 17.000 adulti che stavano effettuando degli accertamenti clinici; lo studio è poi proseguito anche negli anni successivi e, attualmente, conta un campione di 50.000 soggetti (Anda et al., 2002, 2006, Dube et al., 2003; Felitti et al., 1998). In questi studi è dimostrato che «����������������������������������������������������������� l’esposizione precoce a esperienze sfavorevoli altera l’an� damento dello sviluppo cerebrale che, a sua volta, determina disabilità cognitiva e socio-emozionale, seguita dall’adozione di comportamenti rischiosi per la salute» (Lanius et al., 2010, p. 189). Nello studio ACE sono riconosciuti e differenziati diversi tipi di eventi traumatici: abuso fisico, abuso sessuale, testimonianza di violenza domestica, abuso verbale/minacce da parte dei genitori e interazioni genitore-figlio interrotte o disturbate (ad esempio situazioni familiari in cui un membro ha problemi mentali o abusa di sostanze o è in carcere e perdita di un genitore per morte, divorzio o separazione). Quindi, eventi traumatici e/o disregolazione nella qualità della relazione genitore-figlio sono “esperienze infantili sfavorevoli”, le quali aumentano in modo sostanziale il rischio di malattia ischemica, cancro, bronco-pneumopatia cronica ostruttiva, malattie epatiche, obesità, fratture ossee e malattie sessualmente trasmissibili (Felitti et al., 1998); esse accrescono anche il rischio di alcolismo, abuso di sostanze tossiche, depressione e suicidio (Anda et al., 2002; Dube et al., 2003); portano a un uso precoce di tabacco, alcool e droga, come a comportamenti sessuali a rischio (Anda et al., 2006); aumentano il rischio di morte prematura (Brown et al., 2009). Lo studio ACE ha dimostrato: che la presenza di eventi avversi nell’infanzia amplifica il rischio di malattie organiche e psichiatriche in modo direttamente proporzionale al numero e alla gravità degli eventi avversi stessi; che il punteggio ACE è correlato positivamente con i fattori di rischio per le principali cause di morte (all’aumentare del primo corrisponde un aumento del secondo). Pertanto le persone con un elevato punteggio ACE con il passare del tempo saranno maggiormente a rischio per le condizioni sia di salute che di malattia. I rimedi che sono stati “scelti” a seguito degli eventi avversi nell’infanzia per alleviare il dolore affrontato e vissuto, che nel breve termine sono stati efficaci, portano in sé un elevato potenziale per serie problematiche di salute nel lungo termine, quali: malattie cardiovascolari, cancro, AIDS e altre malattie a trasmissione sessuale, malattie croniche polmonari, malattie del sistema immunitario, eccetera. «Le cause di questi problemi hanno una elevata probabilità di rimanere nascoste a causa della vergogna, del “segreto” e di tabù sociali, e allo stesso tempo la loro esistenza permane anche nel setting di cura a causa degli stessi meccanismi. Anche se può non essere così indispensabile lo sve25 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità lamento e la condivisione di questi eventi, i curanti devono però essere consapevoli del meccanismo che questi fattori hanno nell’eziopatogenesi di queste malattie e offrire ai pazienti degli strumenti di cura che permettano di trovare delle modalità di adattamento più salutari» (www.synergieaosta.com). Attualmente, l’interesse scientifico internazionale nei confronti dello studio ACE è in aumento. A Puerto Rico la correlazione tra gli abusi emozionali, fisici o sessuali vissuti in infanzia e la malattia cardiovascolare femminile è stata riscontrata. In Canada, Cina, Giordania, Norvegia, nelle Filippine e nel Regno Unito si stanno effettuando ricerche analoghe (www.cdc.gov). Lo stretto legame tra eventi traumatici e dissociazione è oramai ampiamente riconosciuto (Liotti & coll, 2011): «la dissociazione somatoforme può manifestarsi tipicamente con la comparsa di dolori acuti e cronici. Le memorie degli abusi fisici e sessuali possono presentarsi attraverso la sola componente somatica (implicita) del ricordo, dissociata dagli eventi che l’hanno prodotta […] anche se la mente non ricorda l’abuso il corpo ne ha memoria, ne tiene conto» (Ibid., pp. 57-58). Quando gli eventi traumatici si verificano in tenera età, «può diventare adattivo un processo che può creare i presupposti per un disturbo dissociativo di personalità. Infatti, è necessario dimenticare l’abuso per mantenere l’attaccamento coi membri della famiglia» (Casonato, 2001, p. 9). Inoltre, sono anche am� piamente riconosciuti gli effetti neurobiologici dell’abuso fisico, sessuale o dell’abbandono (Lanius et al., 2010). Per esempio, si è dimostrato che l’ippocampo è particolarmente sensibile ai danni indotti da stress precoce e le regioni mielinizzate come il corpo calloso sono vulnerabili all’impatto della precoce esposizione a livelli eccessivi di ormoni dello stress. Un altro filone di studi ha confermato che non è tanto l’espressione negativa o positiva delle emozioni ad avere un effetto riscontrato sulla salute, come per lungo tempo teorizzato e ancora oggi troppo facilmente sostenuto, quanto piuttosto la loro elaborazione che si integri armonicamente con i fatti ed i pensieri. «Un’emozione può diventare “negativa” non per il suo contenuto, ma quando, insufficientemente elaborata, viene negata, dissociata, confinata in un’area isolata della mente o, al contrario, emerge in forma violenta perché insufficientemente elaborata» (Solano, 2013, p. 262). Gli studi, tuttavia, stanno anche portando alla luce la complessità delle interconnessioni, attive reciprocamente, tra mente e corpo. «������������������������������������������������������������ Il concetto di unità corpo/mente […] può apparire molto con� vincente, e a qualcuno, quasi scontato, nell’attuale prospettiva culturale. Quello che le definizioni non esprimono è l’enormità dei problemi che pongono, e che ha fatto sì, e fa sì tuttora, che nel pensiero e nel linguaggio questa posizione, che abbiamo definito “monismo non riduzionista unito a un dualismo conoscitivo”, venga utilizzata in concreto molto raramente. Affermare che la mente e il corpo sono la stessa cosa significa infatti attribuire al corpo le stesse caratteristiche che siamo soliti attribuire al mentale; significa concepire un corpo che sente, risponde, soffre, gioisce, ha delle motivazioni; si costruisce nello sviluppo, fin dalla vita uterina, come un precipitato di relazioni; presenta dei movimenti che possono avere, o assumere, un significato; presenta dei movimenti direzionali non solo all’interno del soggetto, ma che mostrano anche una componente relazionale» (Ibid., pp. 67-68). Secondo questa visione, «����������������������������������������������������������������������� ������������������������������������������������������������������������ il corpo, come la mente, si sviluppa all’interno delle relazioni primarie, e il suo funzionamento sarà fortemente influenzato da come queste si svolgono, fin dalla situazione intrauterina» (Ibid., p. 71). Da qui ne deriva che «il senso del somatico può essere compreso soltanto all’interno di una relazione, come quella analitica, in cui sia possibile analizzare i movimenti della relazione stessa» (Ibid., p. 73). «Il significato di un sintomo somatico non esiste in partenza, 26 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità né può quindi essere considerato universale, ma può essere co-costruito, all’interno della relazione analitica, esattamente come avviene per l’interpretazione di un sogno» (Ibid., p. 75). Quanto finora scritto non è che una sintesi alquanto riduttiva della mole dei lavori che sono stati effettuati nell’ultimo ventennio (Lanius et al., 2010; Liotti & Farina, 2011; Solano, 2013; Porcelli, 2009). Questi studi gettano nuova luce nella visione delle malattie nel suo complesso e mostrano l’ampia panoramica di un territorio ancora poco esplorato. Comunque, nonostante queste evidenze abbiano fatto assumere una posizione attiva e propositiva al Governo degli Stati Uniti d’America (www. cdc.gov/ace), gli specialisti continuano a spendere le loro energie e a sostenere con sempre maggiore forza quanto le malattie organiche e le sofferenze psichiche degli adulti siano riconducibili ad agenti patogeni o a eredità genetiche e non alle offese concrete ricevute nell’infanzia. Oggi possiamo riconoscere in Alfred Adler la grande capacità di conoscere l’uomo, l’acutezza delle riflessioni cliniche, lo spiccato intuito innovativo e lungimirante ed anche una grande umiltà. Adler aveva capito la complessità del rapporto mente corpo: «Non si è mai esplorato abbastanza profondamente per stabilire in che modo il corpo venga influenzato e probabilmente non si avrà mai una spiegazione esatta e completa di questo fenomeno. La tensione mentale influenza tanto il sistema nervoso volontario quanto quello vegetativo. Nel sistema volontario, se c’è tensione c’è azione. L’individuo tamburella sulla tavola, si tormenta le labbra, fa a pezzetti un foglio di carta. Se è molto teso, deve muoversi in qualche modo: masticare una matita o un sigaro fornisce uno sfogo alla sua tensione. Questi movimenti ci dimostrano che egli sente di non essere all’altezza della situazione. Lo stesso si può dire se, quando si trova fra estranei, arrossisce, comincia a tremare o mostra con evidenza un tic: sono tutti effetti della tensione. Il sistema vegetativo comunica la tensione a tutto il corpo, e così, a ogni emozione, è l’intero corpo che viene a trovarsi in una situazione di tensione. Le manifestazioni di questa tensione, però, non sono sempre così chiare, e noi possiamo chiamare sintomi solo quegli aspetti di cui si possono individuare gli effetti. A un esame più accurato noi scopriamo che ogni parte del corpo è coinvolta in un’espressione emotiva, e che queste manifestazioni fisiche sono la conseguenza dell’attività della mente e del corpo. È sempre necessario prendere in considerazione questo interscambio di influenza della mente sul corpo e viceversa, dato che entrambi sono parti dell’insieme di cui ci occupiamo» (Adler, 1927, pp. 51-52). Per Adler, era proprio l’analisi dei casi a mostrare «molto bene l’influenza che la mente esercita sul corpo: con ogni probabilità la mente non influisce soltanto sulla scelta di un particolare sintomo somatico; esso governa e influenza tutta la struttura del corpo. Noi non abbiamo prove dirette per confermare questa ipotesi ed è difficile vedere in che modo si potrebbe trovare una prova: gli indizi, tuttavia, sembrano abbastanza chiari» (Ibid., p. 50). Oggi siamo, invece, molto più vicini alle “prove dirette”, dunque alla comprensione scientifica di quanto Adler aveva osservato nella clinica un secolo fa. V. Endometriosi e femminilità «Il corpo è il custode della nostra vita e fa in modo che ci sia possibile vivere con la verità del nostro organismo. Con l’aiuto dei sintomi, ci costringe ad ammettere tale verità anche a livello cognitivo, per consentirci di comunicare con il bambino che è vivo in noi e che in anni lontani è stato disprezzato e umiliato» (Miller, 2004, p. 19). 27 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità Cosa sta comunicando attraverso l’endometriosi il corpo della donna che ne è affetta? Quale “verità” custodisce quel corpo, che lascia trasparire attraverso quei sintomi? Qual è il significato di una sofferenza così profonda e acuta che colpisce, prevalentemente, gli organi sessuali interni? Ascoltare le donne consente di cogliere alcune relazioni tra mente e corpo (Ardenti, 2006a, 2006b, 2010b) e di dare risposte a questi interrogativi; la testimonianza di Anna sintetizza molte esperienze (Ardenti, 2013). Anna è una giovane donna che all’età di ventinove anni, in un giorno come tanti, sente un dolore acuto nel basso ventre che si irradia fino alla gamba. Il giorno successivo il dolore è������������������� ����������������� persistente e decide di andare al pronto soccorso. La prima ipotesi è appendicite, così viene ricoverata d’urgenza in chirurgia, ma c’è qualcosa che insospettisce il chirurgo, il quale ritarda l’intervento e chiede un parere a un collega ginecologo. Il consulto, tuttavia, conduce ad una diagnosi troppo evasiva per Anna che, grazie al suo carattere determinato, non accetta una tale diagnosi e spinge perché i medici intervengano chirurgicamente. Al suo risveglio la diagnosi è più precisa: il suo dolore era l’esito di una rottura di una ciste endometriosica. In quel momento sono poche le spiegazioni che le vengono date sulla malattia: viene a sapere che si tratta di una malattia con ampi cicli di remissione e ricorrenza, le viene caldamente suggerito di cercare quanto prima una gravidanza e le viene prescritta una cura ormonale. Anna è una donna molto esigente per accontentarsi di queste brevi informazioni: inizia cercando in internet, acquista alcuni libri sulla malattia e contatta un’associazione di donne affette da endometriosi. In pochi mesi raccoglie una vasta quantità d’informazioni, molte delle quali fanno apparire uno scenario sfavorevole fatto d’infertilità, recidive, interventi e menopausa farmacologica. Poche certezze e molta angoscia. Vuole saperne ancora di più! Il suo impegno all’interno dell’associazione diventa sempre più attivo e partecipativo, raccoglie le storie di numerose donne e, nonostante all’apparenza si tratti di storie molto diverse tra loro, Anna si domanda se esista qualcosa che accomuni tutte le donne con endometriosi. L’interrogativo rimane in sospeso per qualche anno e la risposta arriva casualmente. Per un problema di salute indipendente dall’endometriosi consulta una naturopata che, attraverso la raccolta delle informazioni anamnestiche, viene a sapere della malattia di Anna e le fa leggere ciò che Dahlke (2000) ha scritto sull’endometriosi: «femminilità (inconscia) nel luogo sbagliato; il proprio ritmo viene imposto ad ambiti problematici (ciclo dove è fuori luogo); gli aspetti collaterali della femminilità su un piano sbagliato sono indomabili (l’eliminazione dei prodotti di rifiuto del mutamento ritmico della mucosa può avvenire solo chirurgicamente); la femminilità deviata (attività tipicamente femminili in luoghi inadatti) costringe il polo opposto ad intervenire (la medicina attiva chirurgica, come aspetto tipicamente maschile); dolori durante i rapporti dimostrano la presenza di conflitti in quest’ambito; la femminilità a livelli inadeguati porta al blocco della fertilità femminile» (Dahlke, 2000, p. 249). Per Anna si tratta di quella spiegazione che cercava, nella quale si riconosce pienamente e che può essere quel denominatore comune, da lei cercato, alle tante storie di donne così diverse che negli anni ha raccolto. Questa breve lettura porta Anna ad elaborare la sua sintesi sull’endometriosi: «femminilità impazzita che colpisce le donne che si sottraggono inconsciamente ad un compito archetipicamente femminile. Spesso sono colpite donne che lottano su molti fronti e che per questi conflitti fondamentali si sono private, per così dire, della veste femminile dell’anima, per essere meno 28 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità vulnerabili. Spesso tendono a prendersi troppe responsabilità e a tenere il proprio lato femminile severamente sotto controllo, per poter assolvere a ruoli così esigenti. Ma la ferita alla loro femminilità continua a sanguinare anche di più a livello fisico e attrae così la loro attenzione su questo aspetto, per lo meno una volta al mese» (Ardenti, 2013). Anna inizia a riflettere su di sé e sulla sua storia e riconosce di avere ricevuto prematuramente responsabilità da adulta che lei ha fatto sue e che ha portato avanti positivamente e con serietà; riconosce di essere diventata una “donna guerriera” e di esserlo ancora; e riconosce anche che l’endometriosi ha avuto il suo esordio in un momento della sua vita in cui la sua femminilità era particolarmente repressa, un periodo in cui teneva soffocato il suo desiderio di maternità. Per lei l’endometriosi ha significato dare spazio a questo desiderio e, seguendo le indicazioni a lei date nel post operatorio, dopo il ciclo di terapia ormonale a lei prescritto, cerca una gravidanza e circa un anno dopo Anna diventa mamma di una bimba. «Se nel corpo di una persona si manifesta un sintomo, questo attira più o meno l’attenzione su di sé e spezza sovente in modo brusco la continuità della vita. Un sintomo è un segnale che calamita attenzione, interesse ed energia e mette quindi in discussione tutta la normale esistenza. Un sintomo esige da noi osservazione, che lo vogliamo o no. Questa interruzione, che sembra venire dall’esterno, noi la percepiamo come un disturbo e in genere abbiamo soltanto uno scopo: far sparire al più presto ciò che disturba (il disturbo). L’uomo non vuole avere disturbi, e in questo modo comincia la lotta contro il sintomo. Anche la lotta significa attenzione e dedizione, e così il sintomo riesce a far sì che ci occupiamo di lui. Dai tempi di Ippocrate la medicina ufficiale cerca di convincere l’ammalato che il sintomo è un fatto più o meno casuale, la cui causa è da ricercare nei processi funzionali, che ci si sforza tanto di studiare. La medicina ufficiale evita con cura di interpretare il sintomo e toglie quindi importanza sia al sintomo stesso che alla malattia. In questo modo però il segnale perde la sua autentica funzione: i sintomi si sono trasformati in segnali insignificanti» (Dethlefsen & Dahalke, 1990, pp. 20-21). Anna, invece, ha fatto altro, ha cercato di capire qualcosa di più del proprio sintomo, andando un po’ più in profondità per trovarne un significato (Dethlefsen, 1986). Con la sua testimonianza, Anna mette in luce le elaborazioni e le considerazioni personali, frutto di un percorso di ricerca interiore, caratterizzato anche da incontri e condivisione, orientato a una comprensione dell’endometriosi che va oltre la sola spiegazione organica. Attraverso di esse, Anna ha mostrato la “voglia di verità” e la recettività con cui ha accolto e fatto proprie interpretazioni psicologiche della malattia organica che più spesso e per varie ragioni sono respinte e/o rifiutate e/o sottovalutate. Tuttavia, la sua ricerca si è fermata a un primo livello di profondità; altro può venire scoperto approfondendo la ricerca nella verità della propria storia attraverso un’analisi personale. L’individuo non è solo un’unità indissolubile fatta di corpo e psiche, ma è anche un essere, si evolve all’interno di relazioni con altri esseri umani e con l’ambiente. Il legame che unisce il corpo alla psiche non è di causalità (un conflitto psichico causa una malattia organica), ma è di reciprocità (corpo e psiche s’influenzano vicendevolmente); inoltre, un legame di reciprocità lega l’individuo sia al contesto relazionale e ambientale in cui cresce, sia alle esperienze che vive nella propria storia. Sul piano scientifico, l’endometriosi è una malattia complessa che potrà certamente beneficiare degli approfonditi e innovativi studi multidisciplinari e, attraverso questi, potranno essere trovate 29 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità risposte scientifiche ai numerosi interrogativi che tuttora rimangono sospesi. Non sono ancora state pubblicate ricerche scientifiche sulla relazione tra eventi sfavorevoli dell’infanzia ed endometriosi; tuttavia, è già stata riconosciuta e provata la correlazione tra abusi sessuali e dolore pelvico cronico e sessualità femminile (Weaver, 2009). Sul piano della vita, una donna che ha l’endometriosi può cercare di scoprire molto della propria malattia se, come è accaduto ad Anna, oltre alla propria dimensione organica, si apre alla propria dimensione psicologica e relazionale, collocandole entrambe all’interno della propria “verità storica”. Il dinamismo inconscio (cioè ricordi, emozioni e bisogni che sono rimossi, negati o scissi) «di ogni essere umano coincide, a mio giudizio, con la sua storia, che è interamente depositata all’interno del corpo ma rimane accessibile alla coscienza soltanto per piccoli frammenti» (Miller, 2004, p. 9). Sve�������������������������������������������������������������������������� lare a se stessi la propria verità, riconoscere le proprie compensazioni fittizie �������������� e le finzioni rafforza� ����������������� te per poi confutarle, comprendere le proprie emozioni ed avviare un’elaborazione più autentica sono obiettivi irraggiungibili in solitudine, ma realizzabili all’interno di una relazione terapeutica sicura, attraverso un percorso che conduca verso un’armonia bio-psichica complessiva, che corrisponde a un migliore stato di salute integrata, sia psichica sia fisica, e a una riconciliazione con il proprio passato. Ed è attraverso il percorso di analisi, che alcune donne hanno deciso di intraprendere, passando anche attraverso molte difficoltà e prove (Weiss, 1993; Casonato, 2001; Miller, 1996) che sono emersi i ricordi delle esperienze infantili sfavorevoli ed i relativi vissuti, svelando così a se stesse la “propria verità”. L’endometriosi è una malattia che segnala la sua presenza attraverso sintomi corporei localizzati prevalentemente negli organi sessuali interni, che sul piano psico-relazionale coinvolge aspetti dell’identità e del ruolo sessuale, di cui la femminilità occupa una parte importante, e che sul piano sociale richiama il contesto culturale e familiare in cui la donna è cresciuta e da cui ha molto assorbito. La sofferenza emotivo-affettivo-relazionale è troppo grande per essere sminuita considerandola solo una reazione a una malattia complessa oppure considerando “isteriche” le donne che ne sono affette. Si tratta di una sofferenza psichica molto profonda e variegata e di un corpo particolarmente sofferente, quindi di un’unità biopsichica che chiede a gran voce di essere ascoltata e compresa. «Il corpo è il palcoscenico di eventi psicologici nascosti. […] Si tratta quindi di scoprire che cosa abbia offeso l’anima e, a tal fine, il corpo fornisce le indicazioni necessarie» (Dahlke, 2000, p. 8). «Che ci piaccia o no (e che piaccia o no alla medicina ufficiale) i pesi del corpo e dell’anima, sui piatti della bilancia della vita, sono simili. Se non riusciamo a superare psichicamente qualcosa, il corpo interviene e lo fa a suo modo. Solo così, evidentemente, è possibile mantenere i piatti della bilancia in posizione orizzontale. Se poi, alla fine, cominciamo ad elaborare psichicamente il tema, il corpo può allentare i suoi sforzi sintomatici, la bilancia rimane in equilibrio e noi parliamo di guarigione. L’anima ritorna alla sua responsabilità e vive consapevolmente la tematica che, prima, è dovuta essere rappresentata inconsciamente nel corpo, mediante il quadro clinico» (Ibid., p. 28). 30 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità BIBLIOGRAFIA ADAMSON, G. D. (2011). Endometriosis classification: an undate. Current Opinion in Obstetrics and Gynecology, 23, 213-220. ADLER, A. (1908a). Der Aggressionstriebim Leben und in der Neurose. Fortschritte der Medizin, 26: 577-584. (Trad. it. La pulsione aggressiva nella vita e nella nevrosi. Rivista di Psicologia Individuale, 46, 5-14). ADLER, A. (1908b). Das Zärtlichkeitsbedürfnis des Kindes. In A. ADLER, C. FURTMÜLLER. (Eds). (1914). Heilen und Bilden: Ärztlich-pädagogische Arbeiten des Vereins für Individualpsychologie. München: Reinhardt. (Trad. it. a cura di G. Ferrigno e C. Canzano, Il bisogno di tenerezza del bambino. Rivista di Psicologia Individuale, 59, 2006, 7-15). ADLER, A. (1912). Über den nervösen Charakter. Wiesbaden: Bergmann. (Trad. it. Il Temperamento Nervoso. Roma: Astrolabio, 2003). ADLER, A. (1904-1913). Schriften. In A. ADLER, C. FURTMULLER. (Eds.). (1814). Heilen und Bilden. (Trad. it. Guarire ed educare. Roma: Newton Compton, 2007). ADLER, A. (1920). Praxis und Theorie der Individualpsychologie. München: Bergmann. (Trad. it. La������� Psicologia Individuale. Roma: Newton Compton, 1970). ADLER, A. (1927). Menschenkenntnis. Leipzig: Hirzel. (Trad. it. La conoscenza dell’uomo nella Psicologia Individuale. Roma: Newton Compton, 1994). ADLER, A. (1931). What Life Schould Mean to You. Boston: Little, Brown& Company. (Trad. it. Che cosa la vita dovrebbe significare per voi. Roma: Newton Compton, 1994). ADLER, A. (1932). Technik der Behandlung; Die Technik der Individualpsycologie 1. Die Kunst eine Lebens und Krankengeschichte zu Lesen (1928); Die Technik der Individualpsycologie 2. Die Seele des Schwererzichbaren Schulkindes (1930); The Case of Mrs. A (The Diagnosis of a Life-Stile) (1931). (Trad. it. La Tecnica della Psicologia Individuale. Roma: Newton Compton Editori, 2005). ADLER, A. (1933). Der Sinn des Lebens. Wien und Leipzig: Passer. (Trad. it. Il senso della vita. Roma: Newton Compton, 1997). ALEXANDER, F. (1950). Psychosomatic medicine. Its principles and applications. New York: Norton. (Trad. it. Medicina psicosomatica. Firenze: Editrice Universitaria, 1956). ANDA, R. F. ET AL. (2002). Adverse childhood, experiences, alchoholic, parents and later risk of alcoholism and depression. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 53, 1001-1009. ANDA, R. F. ET AL. (2006). The enduring effects of abuse and related adverse experiences in childhood: a convergence of evidence from neurobiology and epidemiology. European Archives of Psychiatry and Clinical Neuroscience, 256, 174-186. ANSBACHER, H. L. & ANSBACHER, R. R. (1956). The Individual Psychology of Alfred Adler. New York: Basic Book. (Trad. it. a cura di U. Sodini e A. Teglia Sodini, La Psicologia Individuale di Alfred Adler. Firenze: Martinelli, 1997). ANSBACHER, H. L. & ANSBACHER, R. R. (1964). Superiority and Social Interest. Evaston: Northwestern University. (Trad. it. a cura di U. Sodini e A. Teglia Sodini, Aspirazione alla superiorità e Sentimento comunitario. Roma: Universitarie Romane, 2008). ARDENTI, R. (1999). Il supporto psicologico durante l’iter della PMA. In Bambini e genitori speciali? Dal bambino desiderato al bambino reale. Atti del convegno internazionale RE, 30-31 ottobre 98. Roma: Percorsi Editoriali. ARDENTI, R. (2000). Sindrome da infertilità: gli aspetti psicologici. Il Sagittario, 7, 87-106. ARDENTI, R. (2001). La ricerca reggiana sul problema dell’infertilità. Il Sagittario, 10, 115-129. ARDENTI, R., LA SALA, G. B. (2003). La maternità possibile. I vissuti delle coppie sterili, la fede e la procreazione assistita. Reggio Emilia: Edizioni Diabasis. ARDENTI, R. (2006a). Il corpo tra sintomo e malattia. Verso un’alleanza tra corpo e psiche. Parte prima. Il Pungiglione, 1, 1, 6-8. ARDENTI, R. (2006b). Il corpo tra sintomo e malattia. Verso un’alleanza tra corpo e psiche. Parte seconda. Il Pungiglione, 1, 2, 7-8. ARDENTI, R. (2008). Il cammino di accettazione dell’endometriosi. Il Pungiglione, 1, 6, 9-11. ARDENTI, R. (2009). Lo stile di vita e la malattia cronica. In V. PRAMPOLINI, Costruendo. Casa editrice Mammeonline. ARDENTI, R. (2010a). Endometriosi e scoraggiamento. Rivista di Psicologia Individuale, 67, 12-19. ARDENTI, R. (2010b). Alcune considerazioni sulla dimensione bio-psichica dell’endometriosi. Il Pungiglione, 1, 13, 9-11. 31 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità ARDENTI R. (2011). Sindrome da Sterilità: il complesso d’inferiorità e la relativa compensazione. Rivista di Psicologia Individuale, 69, 51-61. ARDENTI, R. (2012). Un’esperienza di terapia di gruppo breve. Il Pungiglione, 1, 20, 10-13. ARDENTI, R. (2013). L’importanza della scoperta della dimensione psicologica e relazionale. Il Pungiglione, vol.1, 21, 13-15. ARDENTI, R. (in press), L’endometriosi è un trauma per lo stile di vita femminile? ASSOUN, P. L. (2004). La clinica del corpo. Lezioni psicoanalitiche. Milano: Franco Angeli. BALLARD, K., LOWTON, K. & WRIGHT, J. (2006). What’s the delay? A qualitative study of women’s experiences of reaching a diagnosis of endometriosis. Fertility and Sterility, 86 (5), 1296-1301. BUZZATTI, G. & SALVO, A. (1998). Il corpo-parola delle donne. Milano: Raffaello Cortina. BROWN, D. W. ET AL. (2009). Adverse Childhood Experiences and risck of premature mortality. The American Journal of Preventive Medicine, 37 (5), 389-396. CARIGNANI, P. & ROMANI, F. (Eds.). (2006). Prendere corpo. Il dialogo interiore tra corpo e mente in psicoanalisi: teoria e clinica. Milano: Franco Angeli. CASONATO, M. (Ed.). (2011). Josef Weiss, Harold Sampson: Convinzioni patogene. La scuola psicoanalitica di San Francisco. Urbino: QuattroVenti. CHASSEGUET-SMIRGEL, J. (2005). Il corpo come specchio del mondo. Milano: Raffaello Cortina. DAHLKE, R. (2000). Krankheit als Weg: Deutung und Be-Deutung der Krankheitsbilder. München: Goldmann. (Trad. it. Malattia come simbolo. Roma: Edizioni Mediterranee, 2005). DENNY, E. (2009). I never know from one day to another how I will feel: pain and uncertainty in women with endometriosis. Qualitative Health Research, 19(7): 985-995. DETHLEFSEN, T. (1980). Schicksal als Chance. München: Goldmann. (Trad. it. Il destino come scelta. Roma: Edizioni Mediterranee, 2005). DETHLEFSEN, T. & DAHALKE, R. (1990). Krankheit als weg. München: Goldmann. (Trad. it. Malattia e destino. Il valore e il messaggio della malattia. Roma: Edizioni Mediterranee, 2005). DEUTHSCH, F. (Ed.). (1959). On the mysterious leap from the mind to the body. New York: International University. Il “misterioso salto” dalla mente al corpo. Firenze: Martinelli, 1975. DUBE, S. R. ET AL. (2003). Childhood abuse, neglect, and hausehold disfunction and risk of illicit drug use: The adverse childhood experiences study. Pediatrics, 111, 564-572. ENGEL, G. L. (1977). The need for a new medical model: a challenge for biomedicine. Science, 196, 129-136. ENGEL, G. L. (1980). The clinical application of the biopsychosocial model. American Journal of Psychiatry, 137, 535-544. ERIKSEN, H. F. ET AL. (2007). Psychological aspect of endometriosis: Differences between patients with or without pain on four psycological variables. European Journal of Obstetrics & Gynecology and Reproductive Biology, 139, 100-105. FAUCONNIER, A. & CHAPRON, C. (2005). Endometriosis and pelvic pain: epidemiological evidence of the relationship and implications. Human Reprod Update, 11 (6), 595-606. FARQUHAR, C. (2007). Endometriosis. British Medical Journal, 334, 249-253. FASSINO, S. (2010). Finzioni e processo di cambiamento. Rivista Psicologia Individuale, 68, 59-79. FELITTI, V. J. ET AL. (1998). Relationship of childhood abuse and household disfunction to many of the leading causes of death in adult: the Adverse Childhood Experiences (ACE) Study. American Journal of Preventive Medicine, 14 (4), 245-258. FERRERO, A. (1995). Insula Dulcamara. Torino: CSE. FERRERO, A. (2010). Il lavoro sulle finzioni in psicoterapia: significato del setting. Rivista Psicologia Individuale, 68, 81-93. FERRERO, S. ET AL. (2005). Quality of sex life in women with endometriosis and deep dyspreunia. Fertility and Sterility, 83 (3), 573-579. FERRIGNO, G. (2005). Il “piano di vita”, i processi selettivi dello “stile di vita” e la comunicazione intenzionale implicita della “coppia terapeutica creativa”: dalla “teoria” alla “clinica”. Rivista Psicologia Individuale, 58, 59-97. FERRIGNO, G. (2008). La relazione empatica adleriana e la ricomposizione dell’interindividualità. Rivista Psicologia Individuale, 63, 3-13. GAMMON, J. (1998). Analysis of the stressful effects of hospitalisation and source isolation on coping and psychological constructs. International Journal of Nursing Practice, 4, 84-96. GILMOUR, J. A. (2008). The impact of endometriosis on work and social participation, International Journal of Nursing Practice, 14: 443-448. 32 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità GIUDICE, L. C. & KAO, L. C. (2004). Endometriosis. Lancet, 364, 1789-1799. GIUDICE, L. C. (2010). Clinical practice: endometriosis. The New England Journal of Medicine, 362 (25), 2389-2398. GOOD, B. J. (1994). Medicine, Rationality and Experience: an Anthropological Perspective. Cambridge: Polity Press. (Trad. it. Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente. Torino: Piccola Biblioteca Einaudi, 2006). GRASSI, I. (2010). Storie omeopatiche. La ricerca del sintomo bizzarro. Roma: Edi-Lombardo. GUO, S. W. (2009). Recurrence of endometriosis and its control. Uman Reprod Undate, 15 (4), 441-461. HERBERT, D. L., LUCKE, J. C. & DODSON, A. J. (2010). Depression: an emoziona obstacle to seeking medical advice for infertility. Fertility and Sterility, 94 (5), 1817-1821. JACOBSON, T. Z. (2011). Potential cures for endometriosis. Annals of the New York Academy of Sciences, 1221, 70-74. KAATZ, J. ET AL. (2010). Coping with endometriosis. Journal of Obstetric, Gynecologic, & Neonatal Nursing, 39, 220-226. KISSEN, D. M. (1963). The significante of syndrome shift and late syndrome association in psychosomatic medicine. Journal of Nervous and Mental Disease, 136, 34-42. LANIUS, R. A., VERMETTEN, E. & PLAIN, C. (2010). L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia. L’epidemia nascosta. Roma: Giovanni Fioriti, 2012. LIOTTI, G., FARINA, B. (2011). Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociative. Milano: Raffaello Cortina. LIPOWSKI, Z. (1989). Psychiatry: mindless or brainless, both or niether? Canadian Journal of Psychiatry, 34, 249-254. LOWEN, A. (1980). Fear of life. New York-London: MacMillan. (Trad. it. Paura di vivere. Roma: Astrolabio, 1982). LOWEN, A. (1983). Narcissism: Denial of the True Self. New York: Macmillan Publishing Company. (Trad. it. Il Narcisismo. L’identità rinnegata. Milano: Feltrinelli, 2011). LOWEN, A. (1985). Il linguaggio del corpo. Milano: Feltrinelli, 2010. MALKOVIC, M., MANDERSON, L. & WARREN, N. (2008). Endurance and contest: women’s narrative of endometriosis. Health, 12 (3), 349-367. MASCETTI, A. & MAIULLARI, F. (1983). L’analisi dello stile di vita, momento cruciale e unificante di ogni intervento psicoterapeutico adleriano. Rivista di Psicologia Individuale, 17-18, 56-57. MILLER, A. (1980). Am Anfang War Erziehung. Frankfurt am Main: Suhrkamp. (Trad. it. La persecuzione del bambino. Le radici della violenza. Torino: Bollati Boringhieri, 2007). MILLER, A. (1981). Das verbannte Wissen. Frankfurt am Main: Suhrkamp. (Trad. it. Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico. Torino: Bollati Boringhieri, 2010). MILLER, A. (1996). Drama des begabten Kindes und die Suche nach dem wahren Selbst. Frankfurt am Main. (Trad. it. Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé. Riscrittura e continuazione. Torino: Bollati Boringhieri, 2010). MILLER, A. (2002). Evas Erwachen. Über die Auflösung emotionaler Blindheit. Frankfurt am Main: Suhrkamp. (Trad. it. Il risveglio di Eva. Come superare la cecità emotiva. Milano: Raffaello Cortina, 2002). MILLER, A. (2004). Die Revolte des Körpers. Frankfurt am Main: Suhrkamp. (Trad. it. La rivolta del corpo. Milano: Raffaello Cortina, 2005). MILLER, A. (2007). Dein gerettetes Leben. Frankfurt am Main: Suhrkamp. (Trad. it. Riprendersi la vita. I traumi infantili e l’origine del male. Torino: Bollati Boringhieri, 2009). NNOAHAM, K. E. ET AL. (2011). Impact of endometriosis on quality of life and work productivity: a multi center study across ten countries, Fertility and Sterility, 96 (2), 366-373. PARENTI, F. (1983). La psicologia individuale dopo Adler. Roma: Astrolabio. PORCELLI, P. (2009). Medicina psicosomatica e psicologia clinica. Modelli teorici, diagnosi, trattamento. Milano: Raffaello Cortina. PORCELLI, P. (2012). Sviluppi contemporanei della psicosomatica. Psicoterapia e Scienze Umane, Vol. XLVI, 3, 359-388. SAMPSON, J. A. (1921). Perforating hemorrhagic (chocolate) cysts of ovary: their importance and especially their ralation to pelvic adenomas of endometrio tic type (“adenomyoma” of the uterus, rectovaginal septum, sigmoid, etc.). Archives of Surgery, 3, 245-261 SAMPSON, J. A. (1922). Ovarian hematomas of endometrial type (perforating hemorrhagic cysts of the ovary) and implantation adenomas of endometrial type. Boston Medical and Surgical Journal, 186, 445-473. 33 Rossella Ardenti Endometriosi e femminilità SAMPSON, J. A. (1927). Peritoneal endometriosis due to mestrua dissemination of endometriosis tissue into the peritoneal cavity. American Journal of Obstetrics & Gynecology, 14, 442-469. SANDERS, L. (2009). Every patient tells a Story. Medical Mysteries and the Art of Diagnosis. New York: Broadway Books. (Trad. it. Ogni paziente racconta la sua storia. L’arte della diagnosi. Torino: Einaudi, 2009). SCHELLEMBAUM, P. (1988). Die Wunde der Ungeliebten. München: Deutscher Taschenbuck. (Trad. it. La ferita dei non amati. Come cancellare il marchio della mancanza di amore. Milano: Red, 2002). SEPULCRI, R. P. & DO, AMARAL, V. F. (2009). Depressive symptoms, anxiety, and quality of life in women with pelvic endometriosis. European Journal of Obstetrics & Gynecology and Reproductive Biology, 142, 53-56. SERRACCHIOLI, R., FRASCÀ, C. & MATTEUCCI, C. (2012). L’endometriosi, Roma: L’Asino d’oro, 2012. SIEDENTOPF, F. ET AL. (2008). Immune status, psycological distress and reduced quality of life in infertile patients with endometriosis. American Journal of Reproductive Immunology, 60, 5, 449-461. SOLANO, L. (2013). Tra mente e corpo. Come si costruisce la salute. Milano: Raffaello Cortina. TODARELLO, O. & PORCELLI P. (1992). Psicosomatica come paradosso. Il problema della psicosomatica in psicoanalisi. Torino: Bollati Boringhieri. VALCARENGHI, M. (2011). Mamma non farmi male. Ombre della maternità. Milano: Bruno Mondadori. VERCELLINI, P. (1997). Endometriosis: what a pain it is. Seminars in reproductive endocrinology, 15, 251261. VERCELLINI, P. ET AL. (1990). Laparoscopy in the diagnosis of gynecologic chronic pelvic pain. International Journal of Gynecology & Obstetrics, 32, 261-265. VERCELLINI, P. ET AL. (2008). Postoperative oral contraceptive exposure and risk of endometrioma recurrence. American Journal of Obstetrics and Gynecology, 198, 504.e1-5. VIGANÒ, P. ET AL. (2004). Endometriosis: epidemiology and aetiological factors. Best Practice & Research Clinical Obstetrics & Gynaecology, 18 (2), 177-200. VIGNALI, M. ET AL. (2002). Endometriosis: novel etiopathogenetic concepts and clinical perspectives. Fertility and Sterility, 78 (4), 665-678. WEAVER, T. L. (2009). Impact of rape on female sexuality: rewiew of selected literature. Journal of Clinical Gynecology and Obstetrics, 52 (4), 702-711. WEISS, J. (1993). How psychotherapy works. Process and technique. New York: Guilford. (Trad. it. Come funziona la psicoterapia. Torino: Bollati Boringhieri, 1999). ZANNINI, L. (Ed.). (2004). Il corpo-paziente. Da oggetto a soggetto della relazione terapeutica. Milano: Franco Angeli. Rossella Ardenti Via Pasquale Marconi, 12 I-42123 Reggio Emilia www.rossellaardenti.com E-mail: [email protected] PEC: [email protected] 34 DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 35-40 (2014) STUDI E RICERCHE LA PSICOLOGIA INDIVIDUALE COME “FILOSOFIA DELL’ESISTENZA” Giorgio Bertino Riassunto Abstract Si è osservato che coloro che possiedono forza di carattere, “robustezza” psicologica, creatività, ottimismo e una salda filosofia dI vita escono da un’esperienza traumatica psicologicamente rafforzati. Per aiutare il paziente a superare il momento critico, che lo ha condotto alla richiesta di psicoterapia, e soprattutto per consolidare la difesa da successive ricadute, occorre aiutarlo a costruire la “sua” filosofia. Le pagine dell’opera di Adler, in cui dedica attenzione all’aspetto “metafisico” della sua teoria, si sono rivelate molto interessanti e utili a questo scopo. HANS SELYE (1956) THE INDIVIDUAL PSYCHOLOGY AS “ PHILOSOPHY OF EXISTENCE”. It was observed that the people who possess strength of character, psychological “resilience”, creativity, optimism and a strong philosophy of life, come out of a traumatic experience psychologically strengthened. To help the patient to overcome the critical moment which led to his request for psychotherapy and, above all, to consolidate the defense by subsequent relapses, you should help him to build “his” philosophy”. The pages of Adler’s work, in which he turns his attention to the “metaphysical” aspect of his theory, proved to be very interesting and useful to this purpose. Parole chiave Keywords STRESS, FILOSOFIA DELL’ESISTENZA, TRAUMA, RESILIENZA STRESS, PHILOSOPHY OF EXISTENCE, TRAUMA, RESILIENCE «La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quanto si possa pensare, noi non dobbiamo, ed in realtà non possiamo evitare lo stress, ma possiamo andargli incontro in modo efficace traendone vantaggio, imparando di più sui suoi meccanismi ed adattando ad esso la nostra filosofia dell’esistenza». I. Hans Selye (1956), The stress of life Premessa La possibilità di superare il disagio, determinato da un trauma, non sempre dipende dalla gravità obiettiva dell’evento stesso. Avvenimenti socialmente rilevanti, quali guerre, epidemie, catastrofi naturali generano emozioni e sentimenti condivisi dalla maggior parte della collettività. La compartecipazione, offrendo al singolo l’opportunità di esprimere, condividere e legittimare il proprio vissuto, lo aiuta a risolvere e a dare un senso alla sua sofferenza. Al contrario, eventi non particolarmente gravosi, ma strettamente personali, richiedono strategie di compenso da elaborare individualmente. In questo caso, la risposta ad avvenimenti simili, può assumere connotazioni molto diverse: ci sono persone che si arrendono davanti alle più piccole difficoltà, incapaci di reagire, altre che riescono a trarre vantaggio dalle “brutte esperienze” tanto da uscirne psicologicamente rafforzate. Gli studi condotti su soggetti affetti da sindrome post-traumatica da stress (PTSD) ci consentono di conoscere le caratteristiche di personalità e i relativi processi di coping dei soggetti resistenti allo stress acuto e cronico. Secondo Bartoli e Bonaiuto (1977) si tratta di persone dotate di: 1. sicurezza, identità e autostima, necessari per affrontare i rischi e i disagi dell’esistenza; 2. “robustezza psicologica” (hardiness), cioè resistenza, costanza, controllo e disponibilità di fronte alla sfida; 35 Giorgio Bertino La Psicologia Individuale come “filosofia dell’esistenza” 3. capacità di cogliere gli aspetti paradossali della realtà e del trauma (humour); 4. creatività e ottimismo. Il potenziamento di questi aspetti caratteriali può rivelarsi utile in un progetto finalizzato alla prevenzione del disagio e delle recidive? Quali strategie adottare? II. Stress, intelligenza adattativa e sentimento sociale Selye (1956) ha descritto le reazioni biologiche di un organismo ad un evento ambientale, definendole come “sindrome generale di adattamento” (stress). Tali reazioni, adattative e difensive, non sempre conducono al successo e possono talvolta causare danni irreversibili (distress). D’altra parte, un certo grado di stress (eustress) può stimolare, soprattutto nell’uomo, la mobilitazione di energie fisiche ed intellettuali per produrre nuove e migliori condizioni di adattamento. Dalla sua prima formulazione il concetto di stress si è arricchito di precisazioni, approfondimenti e anche la sua accezione si è trasformata: nel linguaggio quotidiano, questo termine, designa il disagio psico-fisico-sociale più che l’insieme delle manifestazioni adattative correlate ad uno stimolo ambientale. In entrambe le accezioni, ciò che caratterizza e differenzia gli uomini, di primaria importanza nell’innescare le reazioni allo stress è la personalità o, ancora di più, lo “stile” con cui si affrontano gli eventi: fattori soggettivi di tipo cognitivo ed emozionale modulano la risposta psicobiologica allo stressor, anche quando questo è semplicemente immaginato. Diversi esperimenti condotti su cavie in laboratorio hanno dimostrato che la produzione ematica di markers dello stress (cortisolo) varia, in modo significativo, in rapporto alla quantità di informazioni fornite all’animale. I topi reagiscono con una ridotta produzione ormonale se è segnalato l’avvio o la cessazione dello shock. Rispondono, invece, con un aumento del cortisolo se l’evento è nuovo, e quindi non prevedibile, o se è discordante dalle attese, indipendentemente dal fatto che sia più o meno dannoso. Secondo Sapolsky (1992) l’impossibilità di controllare lo stimolo, di prevederne gli effetti e le manifestazioni è decisivo nel favorire risposte patogene allo stress. La mancanza di feedback di informazione attiva nel soggetto la ricerca di nuove soluzioni che, se non soddisfatte, generano ansia e frustrazione. La costruzione di schemi interpretativi è basilare nel determinare ciò che è stressogeno e ciò che non lo è. La definizione di questo confine è multifattoriale: elementi personali, familiari, sociali e culturali contribuiscono a stabilire qual è il limite di “sofferenza” che la persona ritiene di poter affrontare in una situazione di conflitto psichico, senza incorrere in danni irreversibili. Più è “elevata” la soglia, il “punto di rottura”, il “limite di sopportazione” dello stress (resilience), tanto più sarà possibile il recupero psicobiologico dopo un grave trauma. Quali sono le caratteristiche di un soggetto psicologicamente “robusto” e dotato di una buona resilience? Quali le richieste per un collaudo efficace? Prendiamo ad esempio un caso “eccellente”: Giobbe, il protagonista dell’omonimo libro dell’“Antico Testamento”, simbolo indiscusso della forza di sopportazione nelle avversità. È un uomo onesto e profondamente religioso e, con buona volontà e impegno, ha raggiunto un discreto benessere per sé e la sua famiglia. Dio accorda a Satana il permesso di “metterlo alla prova”. A causa di questo progetto diabolico egli perde tutti i suoi beni, il bestiame, i figli e le figlie e, da ultimo, è anche colpito 36 Giorgio Bertino La Psicologia Individuale come “filosofia dell’esistenza” da una malattia devastante. Ciononostante affronta sempre con coraggio e “rassegnazione” le disgrazie che si susseguono senza mai perdere la fede. Saputo delle sue disavventure, tre amici vanno a trovarlo per offrirgli solidarietà e conforto. L’incontro è occasione per aprire quel dibattito che è il motivo centrale dell’opera: il tentativo umano di “comprendere” il progetto divino. La conclusione è che se Giobbe, nonostante la sua evidente onestà, è stato punito da Dio, deve essersi macchiato di qualche colpa che può espiare solo attraverso la sofferenza. Allora Dio si rivela agli uomini e rimprovera loro di aver preteso di valutare, con limite umano, l’umanamente incomprensibile disegno divino. Giobbe, compreso l’errore, può essere “riabilitato” e ricondotto ad una salute e ad una prosperità migliori di prima. Giobbe resiste tenacemente, nonostante l’incalzare degli eventi sfavorevoli, perché motivato da una fede incrollabile: non solo perché crede in Dio, ma anche perché è certo di sé. Almeno finché gli amici, esponendo le loro opinioni, non propongono una “finzione” che salva loro, “uomini giusti”, dal rischio di essere vittime di simili imprevisti: la sofferenza come punizione di peccati “invisibili”. Giobbe partecipa alla discussione, ma è subito pronto a riconoscere il suo errore ed a ritornare alle certezze di prima. La religione gli conferisce robustezza ed una buona resilience, perché gli offre la possibilità di interpretare, in ogni momento, se stesso, il mondo ed il senso degli eventi. L’adattamento non è, quindi, un comportamento passivo o statico: l’attuazione di un efficace “progetto” di risposta agli eventi stressogeni richiede un’attenta e realistica stima delle condizioni oggettive e soggettive. Per formulare l’ipotesi più conveniente è necessario considerare, simultaneamente, sia gli accadimenti intrapsichici sia quelli interpersonali. Una proficua interazione con la realtà richiede, perciò, il possesso di schemi di valutazione capaci di interpretare e di classificare, rapidamente, ogni elemento utile alla risoluzione dello stato di necessità. L’intelligenza, indispensabile per realizzare queste operazioni, si avvale di facoltà diverse. Howard Gardner (1983) afferma che ci sono sette intelligenze: l’intelligenza linguistica-verbale, l’intelligenza logicomatematica, l’intelligenza musicale, l’intelligenza cenestesica, l’intelligenza spaziale, l’intelligenza intrapersonale e l’intelligenza interpersonale. Soprattutto queste ultime due sono, per noi, di particolare interesse. L’intelligenza intrapersonale è la capacità di capire se stessi, i propri bisogni e desideri, le proprie abilità e la loro applicazione. L’intelligenza interpersonale ci aiuta a comprendere gli altri ed il loro punto di vista. La Psicologia Individuale è attenta a sollecitare queste abilità attraverso l’incremento del sentimento sociale che, in questo caso, è a tutto diritto definibile come “sentimento” poiché la sua radice esprime proprio la capacità di sentire. Adler afferma che l’uomo è “sano” quando partecipa, come membro attivo, alla comunità in cui è inserito conformandosi “alle regole del gioco della società umana”. La richiesta di aiuto, attraverso la psicoterapia è spesso preceduta da espressioni, che sottendono il timore di non essere “in linea” con il comportamento più diffuso, come ad esempio: “È normale che io provi questi sentimenti?” oppure “Gli altri come si comportano in questo caso?” oppure ancora “Chissà cosa starà pensando di me!”. Così l’ansia, generata dall’interpretazione della propria diversità come segno di patologia, è risolta dalla finzione di “norma” come sinonimo di normalità, mentre il recupero dell’autostima può essere garantito dalla consapevolezza che nessuno è esente da frustrazioni ed insuccessi. Condividere con gli “altri” comportamenti, valori e principi è, per alcuni, sufficiente a riconoscersi in sintonia 37 Giorgio Bertino La Psicologia Individuale come “filosofia dell’esistenza” col pensiero corrente e con le richieste della società. In questo caso, il criterio per valutare ogni altra situazione si basa sui parametri del “buon senso comune”. Lo “smascheramento” della finzione, adottata per convalidare il proprio vissuto, si presta ad un successivo approfondimento. La finzione, in quanto modalità interpretativa, è utilizzata come criterio per valutare ogni fenomeno dell’esistenza. Il carattere soggettivo e la coerenza con lo stile di vita, ponendola al servizio della meta prevalente, la limitano ad essere solo una delle possibili “interpretazioni” di un evento. L’esistenza di molteplici “spiegazioni” di un fenomeno offre l’occasione di formulare, ad esempio, l’ipotesi del perseguimento di un obiettivo, come momento che unifica e motiva ogni azione umana. L’acquisizione di una metodologia, basata sulla valutazione pragmatica del comportamento, può essere un buon punto di partenza per un riesame del materiale raccolto nel corso dell’esperienza. Scopo della psicoterapia adleriana è la ricostruzione dell’orientamento della personalità, quando questo si dimostri indirizzato verso una meta fittizia. L’identificazione della “meta” individuale e delle caratteristiche del percorso da compiere per il suo perseguimento può essere sufficiente a motivare l’abbandono del vecchio stile di vita, improduttivo, per uno nuovo e più efficace. Lo stile di vita rappresenta il modo, individuale e personale, di “essere nel mondo”. Generato all’interno di una situazione “sociale” è direttamente correlato con l’ambiente in cui si manifesta e da cui è influenzato in modo duplice: da una parte perché le sue manifestazioni devono essere socialmente accettabili, dall’altra perché la sua evoluzione si riferisce costantemente all’ideale di personalità, che è un prodotto culturale. L’espressione “È normale che …” è una finzione sociale che esprime il bisogno di conformarsi alla collettività per essere, da questa, protetti. Confrontarsi con gli altri, condividere opinioni, principi e valori, adeguarsi alle regole di comportamento prescritte testimoniano la propria identità come membri di una comunità. III. La psicoterapia come filosofia di vita “Platone è meglio del Prozac” è il titolo suggestivo di un saggio sull’uso della filosofia come “terapia”. Marinoff (1999) ritiene che qualsiasi dubbio, sull’uomo o sulla realtà che lo circonda, può trovare chiarimento nel “pensiero” dei grandi filosofi, poiché non c’è problema dell’esistenza che non sia stato affrontato e risolto nel dibattito filosofico. Anche Wittengstein (1930) dimostra che la filosofia è terapeutica poiché, cambiando le “abitudini mentali” attraverso le quali si analizzano i fatti della realtà, porta chiarezza e consente di avere una visione più serena della realtà. La filosofia è il mezzo per organizzare il comportamento e comprendere il mondo. Il XX secolo sembra aver favorito il dibattito sull’evoluzione della scienza e della tecnologia a scapito della riflessione sul rapporto uomo-società. La crisi dei valori tradizionali e delle religioni, e la conseguente mancanza di modelli di riferimento, hanno determinato, a partire dagli anni sessanta, un crescente interesse e un fiorente “mercato” per quelle pseudofilosofie che potremmo genericamente definire come cultura “New Age”. È difficile definire cosa sia in realtà la New Age. Non è un “movimento” né religioso né filosofico. Secondo J. Gordon Melton (1994), la New Age è il tentativo di una “teologia” che abbraccia l’intero corso della vita umana, dalla culla alla bara e oltre, un programma che prevede attività per 38 Giorgio Bertino La Psicologia Individuale come “filosofia dell’esistenza” tutto l’anno e per tutti i livelli di aderenti. La New Age propone una visione olistica dell’uomo. La cura dell’organismo deve essere fisica e mentale. Di fondamentale importanza sono, dunque, la dieta vegetariana, la pratica della meditazione, l’ascolto di un certo tipo di musica, le escursioni naturalistiche, l’astrologia e le attività di gruppo. La disponibilità di manuali, che segnalano la via ed i metodi per ottenere un “benessere” totale, è ricca ma prevalentemente centrata su channeling (o comunicazione con le entità del mondo invisibile), reincarnazione, astrologia, tecniche di espansione della coscienza, medicine alternative, aspetti deboli del pensiero new ager. Negli Stati Uniti, l’interesse per le pratiche magico-esoteriche sta subendo una notevole deflessione, mentre in Italia, nel 1994, è stata pubblicata “La Profezia di Celestino” che, in pochi mesi, ha superato le 100.000 copie vendute e, nel corso dello stesso anno, ha raggiunto quattro riedizioni. “La Profezia di Celestino” di James Redfield, una sorta di testamento della New Age, promette al lettore di acquisire, attraverso nove passi successivi o “illuminazioni”, consapevolezza, evoluzione spirituale e coscienza della propria missione nel mondo. L’enorme successo internazionale de “La profezia di Celestino” (tradotta in quindici lingue e venduta in tutto il mondo) nasce dalla capacità di sintetizzare il “dissenso”, della New Age, sui temi centrali dell’origine e del destino dell’uomo. Questo romanzo non è né un’opera letteraria né un trattato di filosofia. È espressione del bisogno, presente già da molto tempo nel mondo “occidentale”, di interpretare il “senso della vita” in una visione diversa da quella del Cristianesimo. Il tentativo di differenziarsi dalla “religione” fa sì che, alla fine, l’effetto sia proprio quello di aver sostituito i “santi” con altre divinità a noi estranee per tradizione e cultura. La “filosofia” della Psicologia Individuale ci sembra una buona interpretazione, laica ed europea, del “cammino” dell’uomo. L’idea del comportamento, teleologicamente indirizzato al raggiungimento della meta finale, è una finzione capace di rappresentare il senso dell’esistenza umana. Questo schema, utilizzando il passato (primi ricordi e costellazione familiare) ed il futuro (meta) come coordinate, simili a meridiani e paralleli, consente di individuare l’attuale posizione della persona rispetto alla traiettoria della sua vita e alla distanza dal traguardo (meta finale). La realizzazione dei tre compiti vitali è, in “pratica”, il senso di questo percorso. L’unicità e l’irripetibilità della natura individuale stimolano la creatività alla ricerca di soluzioni nuove ed originali che, oltre tutto, incrementano l’autonomia nell’affrontare le difficoltà. L’uomo, arbiter fortunae suae, può intervenire sul corso degli eventi imponendo loro una connotazione più favorevole. Il libero arbitrio costringe ad una maggior attenzione alle proprie azioni ed al loro effetto sull’ambiente circostante. Va da sé che un comportamento deviante, se adottato come finzione rafforzata, si risolverà con il superamento dell’inferiorità da cui scaturisce, mentre il perseguimento di obiettivi “sani”, cioè non fittizi, è inevitabilmente utile anche per la società. Nel corso della psicoterapia, insieme alla risoluzione del disagio, si acquisisce lo schema interpretativo della Psicologia Individuale che è, a pieno diritto, una “filosofia di vita” capace di integrarsi, senza modificarne sostanzialmente la struttura, con qualsiasi ideologia o credo. «Vivere significa evolvere […]. La migliore rappresentazione finora concepita dall’umanità di tale elevazione ideale è il concetto di Dio che − in quanto meta concreta della perfezione – corrisponde più di ogni altro all’inconscia aspirazione dell’uomo a raggiungere la perfezione […]. Devo ammettere che non ha torto chi ravvisa nella psicologia un pizzico di metafisica. Alcuni approvano, altri no. Purtroppo molti hanno un’idea sbagliata della metafisica, pensano erroneamente che tutto ciò che non 39 Giorgio Bertino La Psicologia Individuale come “filosofia dell’esistenza” riescono a capire direttamente sia escluso dalla vita dell’umanità […]. Speculativa o trascendente, chiamatela come volete, non esiste scienza che non sfoci nella metafisica […]. La nostra idea del senso comunitario quale ultima forma dell’umanità, di uno stato di cose nel quale immaginiamo risolti tutti i problemi della vita e realizzati tutti i rapporti col mondo esterno, è un ideale che fornisce valide direttive» (Adler, 1933, pp. 148-151). Si tratta delle direttive che modificano la resilience rendendo più forti e capaci di fare fronte, in futuro, a ogni altra difficoltà: il “senso della vita”, proposto da Adler, si configura come modello interpretativo per affrontare, con successo, non solo contrarietà, ma anche eventi lieti o situazioni nuove in cui sia necessario elaborare strategie insolite o comportamenti inusuali. BIBLIOGRAFIA ADLER, A. (1929). The science of living. New York: Greenberg. (Trad. it. La scienza del vivere. Roma: Edizioni Universitarie Romane, 2012). ADLER, A. (1931). What life should mean to you. Boston: Little, Brown & Company. (Trad. it. Cosa la vita dovrebbe significare per voi. Roma: Grandi Tascabili Economici Newton & Compton, 1976). ADLER, A. (1933). Der Sinn des Lebens. Wien und Leipzig: Passer. (Trad. it. Il senso della vita. Roma: Newton Compton, 1997). BARTOLI, G. & BONAIUTO, P. (1977). Psicodinamica e sperimentazione. Roma: Carocci. GARDNER, H. (1983). Frames of mind. The theory of multiple intelligences. New York: Basic Books. (Trad. it. Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza. Milano: Feltrinelli, 1987). MARINOFF, L. (1999). Plato, not Prozac! New York: Harper Collins. (Trad. it. Platone è meglio del Prozac. Casale Monferrato: Piemme, 2001). MELTON, G. J. (1994). The future of New Age Movement, Convegno sulle nuove religioni e la nuova religiosità, Rennord, Greve (Danimarca), 22-25 agosto 1994, 6-8. REDFIELD, J. (1989). The Celestine Prophecy. New York: Warner Books. (Trad. it. La Profezia di Celestino. Milano: Corbaccio, 1994). SAPOLSKY, R. M. (1992). Stress, the aging brain, and the mechanisms of neuron death. Cambridge: Bradford Book, The MIT Press. SELYE, H. (1936). A syndrome produced by diverse nocuous agents. Nature, 138, 32. SELYE, H. (1956). The stress of life. New York: McGraw-Hill. (Trad. it. Stress. Torino: Einaudi, 1957). SELYE, H. (1973). The evolution of the stress concept. The American Scientist, 61, 6, 692-699. SELYE, H. (1974). Stress without distress. Philadelphia: Lippincott. (Trad. it. Stress senza stress. Milano: Rizzoli, 1976). SHULMAN, B. H. & MOSAK, H. H. (1990). Manual for Life Style Assessment. New York: Brunner Routledge. (Trad. it. Manuale per l’analisi dello stile di vita. Milano: Franco Angeli, 2008). WITTGENSTEIN, L. (1930). Philosophische Bemerkungen, Oxford: Blackwell, 1964. (Trad. it. Osservazioni filosofiche. Torino: Einaudi, 1976). Giorgio Bertino Via Mazzini, 12 I-10040 Leinì (TO) E-mail: [email protected] 40 DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 41-55 (2014) STUDI E RICERCHE APPLICABILITÀ DEL MODELLO ADLERIANO ALL’INTERVENTO PSICOLOGICO IN EMERGENZA Roberto Callina Riassunto Abstract Partendo da un’esperienza diretta sul campo, ci si interroga su quali contributi possa offrire la Psicologia Individuale di Alfred Adler alla Psicologia dell’Emergenza, disciplina nata in Italia da poco più di un decennio. Si individuano gli obiettivi che uno psicologo adleriano dovrebbe porsi nel corso di un intervento in contesti emergenziali e quali paradigmi metodologici vi si possano esportare dal setting clinico tradizionale. Il setting emergenziale, per sua natura assolutamente non strutturato, deve, infatti, prevedere una capacità personale di uscire dagli schemi rigidi-interpretativi più tipici dell’intervento clinico abituale a favore di un intervento strategico, flessibile e personalizzato, rivolto a cogliere l’unicità individuale. Appare assai rilevante la convergenza tra Alfred Adler e una modalità, in Psicologia dell’Emergenza, d’intervento psicosociale; una prassi che tiene in considerazione primaria gli elementi che si riferiscono al contesto ambientale, alla fitta rete di relazioni tra le persone, all’organizzazione degli individui tra loro e in rapporto con le tradizioni culturali, alla dimensione sociale insita in ciascun essere umano e in grado di modularne il comportamento. APPLICABILITY OF THE ADLERIAN MODEL TO THE PSYCHOLOGICAL INTERVENTION IN EMERGENCY. Based on direct experience, we wonder about what contributions the Individual Psychology of Alfred Adler can offer to Emergency Psychology, a discipline born in Italy just little more than a decade ago. We pick out the goals that an Adlerian psychologist should ask during an intervention in emergency situations and which methodological paradigms there can be exported from the traditional clinical setting. The emergency setting , by its very nature not structured at all, must, in fact, provide for a personal ability to break the rigid-interpretative schemes typical of the clinical routine in favor of a strategic intervention, flexible and personalized, targeted to capture the uniqueness of the individual. It seems very significant convergence between Alfred Adler and the method of psychosocial intervention used by Emergency Psychology; it’s an usual practice that gives primary importance to the elements that relate to the environment, to the close network of relationships between people, to the organization of the individuals among themselves and in relation to the cultural traditions, to the social dimension innate in every human being and able to modulate his behavior. Parole chiave Keywords PSICOLOGIA DELL’EMERGENZA, INTERVENTO PSICOSOCIALE, FENOMENI CATASTROFICI, INCORAGGIAMENTO EMERGENCY PSYCHOLOGY, PSYCHOSOCIAL INTERVENTION, CATASTROPHIC PHENOMENA, ENCOURAGEMENT I.Introduzione I fenomeni catastrofici legati a rapide trasformazioni ecologiche sono in continuo aumento nel mondo (Santoianni, 1996); nel 2009 le fonti internazionali hanno registrato 335 disastri naturali che hanno coinvolto oltre 100 milioni di persone in 111 paesi del mondo1. Credo sia, quindi, importante che ci si interroghi sull’argomento “emergenze” da un punto di vista psicologico e, personalmente, ritengo che Adler e le sue illuminanti idee possano essere di grande aiuto per attuare un insieme di pratiche e di conoscenze utili a comprendere e sostenere le menti (individuali e collettive) che fronteggiano eventi potenzialmente distruttivi, prima durante e dopo il loro manifestarsi. Anche perché, fin da subito, appare assai rilevante la convergenza tra Alfred Adler e una modalità, in psicologia dell’emergenza, d’intervento psicosociale; una prassi che tiene in considerazione primaria gli elementi che si riferiscono al contesto ambientale, alla fitta rete di relazioni tra le persone, all’organizzazione degli individui tra loro e in rapporto con le tradizioni culturali, alla dimensione 1 Fonte WHO (World Health Organization). 41 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano sociale insita in ciascun essere umano e in grado di modularne il comportamento (Bellagamba & Fenoglio, 2005). Il presente contributo prende spunto dalla mia personale esperienza, effettuata nel maggio del 2009, presso i campi tendati di Monticchio (AQ), in cui erano ospitati migliaia di sfollati, a seguito della violenta scossa di terremoto che colpì l’Abruzzo nella notte tra il 5 e il 6 aprile 2009, alle ore 3,32, provocando ingenti danni e una grande paura nella popolazione. Le prime stime parlavano di oltre 150 morti, 250 dispersi, 1.500 feriti e circa 70.000 sfollati2. Da allora si sono verificate altre circostanze analoghe sul territorio italiano, seppur con danni meno ingenti e molte altre nel mondo, con danni notevolmente superiori; basti ricordare il devastante sisma che ha colpito il Giappone nel marzo del 2011. Appare quindi evidente l’importanza di interrogarsi su quale possa essere l’aiuto dello psicologo adleriano in tali contesti, vere e proprie emergenze umanitarie che, oltre a compromettere la salute e l’incolumità fisica delle persone, coinvolgono anche la sfera psicologica. Purtroppo la letteratura al riguardo, e mi riferisco a una lettura adleriana della psicologia dell’emergenza, è davvero povera e la piccola “valigetta teorica” piena di quei concetti che negli anni abbiamo appreso, che ben sappiamo utilizzare in ambito clinico, spesso non è sufficiente in un contesto meno clinico di quello tradizionalmente conosciuto. Il titolo dell’articolo apre la discussione su un tema che ritengo interessante quanto complesso e su cui, a oggi, non trovo grandi riscontri in letteratura. L’obiettivo è di poter stimolare l’interesse su un filone di ricerca, quello della Psicologia dell’Emergenza, ancora abbastanza inesplorato dalla corrente di pensiero adleriana. Non rientra nelle finalità di questo lavoro definire quali siano i confini, gli ambiti d’intervento, le linee guida ufficiali, le norme, i modi di attivazione e i dettagli operativi burocratici di questa recente disciplina che passa sotto il nome di Psicologia dell’Emergenza3. Per lo scopo di questo lavoro sarà sufficiente tenere presente che «dal punto di vista psicologico ci troviamo in uno stato di emergenza quando capiamo che la nostra vita, la nostra sopravvivenza, è a rischio, o quando capiamo che è a rischio la vita delle persone a cui vogliamo più bene, il nostro coniuge o i nostri figli» (Axia, 2006, p. 13). «Un contesto d’emergenza è una situazione interattiva caratterizzata dalla presenza di una minaccia; da una richiesta di attivazione rapida e di rapide decisioni; dalla percezione di una sproporzione improvvisa tra bisogno (cresciuto per intensità, ampiezza, numerosità, ritmo) e potenziale di risposta attivabile dalle risorse immediatamente disponibili; da un clima emotivo congruente» (Sbattella, 2009, p. 21). L’intento è quello, quindi, di attualizzare il pensiero di Adler il cui sguardo era rivolto oltre i confini del setting, o meglio, era rivolto al “suo” setting, che era l’intero mondo. In piena coerenza con tale slancio viaggiavano le sue scelte personali e professionali, la sua abitudine a discutere di psicologia nei luoghi della “chiacchiera” amichevole, come i tavolini dei caffè viennesi o le assemblee di genitori, insegnanti e cittadini comuni (Varriale, 2005) Saper andare “oltre i confini del setting” è esattamente una delle principali caratteristiche di cui 2 “Corriere della Sera” del 6 aprile 2009. 3 Per gli approfondimenti al riguardo rimando il lettore ai testi di Axia (2006), Sbattella (2009), Young, Ford, Ruzek, Friedman, & Gusman (2002), citati in bibliografia. 42 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano uno psicologo in emergenza deve essere dotato; la capacità di sapersi adattare al sociale, al nuovo, all’inatteso, al diverso, a tutto ciò che non è preventivabile, a tutto ciò che inevitabilmente allontana dalla sicurezza del proprio studio; la curiosità di voler conoscere l’uomo nella sua unicità, nella sua irripetibilità, nella sua individualità e, allo stesso tempo, l’uomo così interdipendente dal suo mondo sociale, dalla convivenza con i suoi simili, dalla compartecipazione emotiva con l’altro, l’uomo così indivisibile e così ugualmente relazionale; la curiosità di conoscere l’uomo nel, e con il suo, stesso ambiente emotivo-relazionale; la curiosità di voler scendere in campo e il coraggio di mettersi in gioco in prima persona con e per l’altro. E chi meglio di Adler può incarnare il modello dello psicologo sociale cui mi riferisco? Proprio Alfred Adler che provava un genuino interesse per tutti gli esseri umani e compassione per le loro sofferenze, che per primo aveva concepito ed espresso idee originali nel campo della medicina sociale, che dedicò molti anni della sua vita alle organizzazioni per l’educazione terapeutica e che può essere, a tutti gli effetti, considerato il padre di una psicologia sociale e pragmatica che ci fornisce principi in grado di acquisire una conoscenza pratica di noi stessi e degli altri (Ellenberger, 1970). “Che cosa succede al sé creativo dell’individuo nel momento in cui la sua progettualità è messa a dura prova da un evento catastrofico?”; “cosa cambia nel sistema finzionale individuale?”; e ancora “che fine fa il sentimento sociale nel contesto emergenziale, quando le condizioni di vita comunitaria mettono a dura prova l’individuo?”. Saranno queste le domande cui cercherò di rispondere, integrandole con la mia personale esperienza sul campo, per provare a tracciare alcune linee guida per un intervento in contesti di emergenza in ottica adleriana. II. Descrizione del contesto: campi di accoglienza per sfollati di Monticchio (AQ) II. 1. Organizzazione generale dei campi I due campi di Monticchio 1 e Monticchio 2 erano gestiti e coordinati da Regione Lombardia che, grazie a squadre di volontari operanti nei diversi ambiti di necessità, si occupava di far fronte a tutte le esigenze di natura pratica, organizzativa, logistica e di salute fisica e mentale. Le squadre di volontari, inviate da associazioni autonome, eseguivano turnazioni settimanali con inizio del turno nella giornata di sabato. Ogni squadra aveva una sua specifica funzione e una propria autonomia gestionale, ma era costantemente in coordinamento con la direzione del campo, che si occupava prevalentemente di raccordare le varie attività, al fine di dare un senso unitario alla vita di campo e di meglio rispondere alle esigenze dei residenti; a tale scopo erano previste riunioni giornaliere, in orario serale, cui partecipavano tutti i capisquadra referenti di ogni singolo ambito operativo. II. 2. La comunità Al nostro arrivo, il quadro comunitario all’interno del campo di Monticchio 1 presenta una grande complessità caratterizzata da aspetti di criticità non sottovalutabili. Conseguentemente 43 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano all’evento sismico sono stati, infatti, riuniti, presso il campo, ospiti provenienti da differenti contesti: residenti locali della cittadina colpita dal terremoto e cittadini provenienti da altre zone della regione. I residenti di Monticchio, in minoranza rispetto al numero complessivo di ospiti del campo (circa 600 persone in tutto), manifestano disagio per la situazione e temono che, con la futura riedificazione, il loro contesto comunitario possa risultare mutato dalla presenza di questi nuovi nuclei familiari, molti dei quali appartenenti ad altre etnie (macedoni, marocchini, albanesi e rumeni). È come se la naturale progettualità umana, la spinta motivazionale verso la mèta di sicurezza, oltre ad essere stata minata dalla catastrofe, sia rimasta imbrigliata in una nuova finzione disfunzionale: “Nulla potrà più essere come prima”. Lo scoraggiamento che si respira tra la gente sembra evidenziare una paralisi del Sé creativo degli individui, è come se avessero perso il loro potere creativo, “come se” non riuscissero più a immaginare un futuro, a riprogettare un piano di vita che tenga conto della nuova catastrofica situazione; “come se” l’interpretazione creativa di tale esperienza fosse impossibile. Sempre gli stessi esprimono biasimo nei confronti della direzione del campo per la scelta di aver accolto in questa zona quelli che considerano dei “forestieri” e citano, ad esempio, quanto accaduto presso il campo di Monticchio 2 dove, invece, risiedono quasi esclusivamente famiglie locali. Tra i due gruppi è pressoché assente l’integrazione. Questo comporta che la partecipazione alle attività del campo sia limitata a poche unità; la maggior parte dei locali rifiuta di impegnarsi a favore di coloro che ritiene degli estranei. Gli stranieri viceversa mostrano disinteresse ed appaiono, anche per questioni linguistiche, poco contattabili. Il sentimento sociale, che nella prima fase dell’emergenza ha spinto tutti, indistintamente, a una compartecipazione emotiva attiva, a vivere un senso di appartenenza con il gruppo colpito dalla stessa calamità, sembra ora essersi dissolto; gran parte degli ospiti sembra ragionare secondo una logica assolutamente “privata”, non preoccupandosi dell’altro, non considerando l’importanza della comunità, del bene comune, dello sforzo collettivo necessario ad uscire vincenti dall’emergenza. Differente è la situazione che riscontriamo presso il secondo campo di nostra competenza (Monticchio 2) in cui il minor numero di ospiti (circa 300), la loro provenienza dal medesimo contesto socio-culturale, la collaborazione attiva che, fin da subito, si è innescata tra i vari membri e con le squadre dei soccorritori, inclusa la direzione del campo, evidenziano un contesto comunitario decisamente più propenso a una pacifica convivenza, dove il sentimento sociale sembra essere l’arma vincente per combattere la situazione di crisi, dove il potere creativo individuale, seppur fortemente compromesso dall’evento traumatico, sembra ricercare soluzioni che possano dare di nuovo un significato all’esistenza. Da un punto di vista individuale anche in questo campo non mancano, tuttavia, episodi di scoraggiamento, situazioni che necessitano di monitoraggio e richieste di colloqui di natura clinica. II. 3. Obiettivi e funzioni in carico all’équipe che opera in ambito psicologico Esiste oggi anche in Italia un certo consenso sui tempi e modi per coinvolgere i professionisti della psiche nei contesti di emergenza (Sbattella, 2009). Tale consenso è aggregato attorno ad una direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 44 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano pubblicata nel 2006 e concordata tra Stato e Regioni4. Non ritengo necessario dilungarmi sul dettaglio di tutti gli obiettivi previsti dalla direttiva citata; sarà sufficiente, ai fini del contributo, ricordare che le manovre prioritarie previste identificano un intervento mirato alla tutela della salute psichica attraverso l’attivazione di tutte le risorse personali e comunitarie. In un contesto emergenziale mente, corpo, legami sociali e territorio costituiscono un sistema unitario; l’intervento, in ottica bio-psico-sociale, deve tener conto di questa complessità e saper valutare gli effetti di ogni azione a tutti gli altri livelli (Sbattella, 2009). L’intervento deve garantire la raccolta delle domande di aiuto spontanee oltre a processi d’identificazione attiva dei bisogni, riconoscendo ad ogni destinatario il diritto di operare scelte consapevoli riguardo alla propria salute, tutelandone la dignità ed il rispetto in tutte le azioni di soccorso; deve, altresì, tenere in alta considerazione le differenze e le specificità culturali dei destinatari affinché non insorgano processi di stigmatizzazione. In base a tali obiettivi, alle linee guida fornite da accreditati autori (Axia, 2008; Sbattella, 2009; Young, Ford, Ruzek, Friedman, & Gusman, 2002), a quelle ufficialmente redatte dall’Inter Agency Standing Committee -IASC- (2007) e alla mia personale esperienza sul campo, possiamo identificare un nucleo di funzioni che fanno capo all’équipe di psicologi che operano in un contesto di questo genere: • identificazione dei bisogni psico-sociali della popolazione colpita; • organizzazione di attività cliniche, sociali e ricreative per bambini, adulti ed anziani; • mantenimento del coinvolgimento attivo della comunità; • monitoraggio costante delle dinamiche comunitarie per l’individuazione attiva di situazioni a rischio; • mediazione socio-culturale tra i residenti, tra i differenti gruppi etnici e con il management del campo. In realtà, le funzioni richieste a uno psicologo dell’emergenza sono molto più estese e includono ruoli organizzativi e gestionali che si realizzano attraverso il coordinamento di progetti complessivi o specifici programmi (Sbattella, 2009). Tuttavia, ai fini di questo contributo, ritengo utile focalizzare l’attenzione solo su quegli aspetti di natura clinica, sociale, educativa e di comunità di cui, peraltro, ho fatto esperienza diretta. Ad integrazione delle attività proposte tengo a precisare, in un’ottica adleriana, quali siano gli obiettivi che personalmente mi sono posto nel corso dell’intervento: • favorire lo sviluppo del sentimento sociale, laddove l’evento traumatico abbia minato fortemente la capacità individuale di cooperare, di compartecipare emotivamente con l’altro; laddove la visione di un progetto comune, di un fine comunitario, di una collaborazione attiva e fattiva sia stata soppiantata da una logica individuale e privata; • incoraggiare la riattivazione del “potere creativo” individuale qualora sembri essere paralizzato o comunque rivolto a finalità immediate volte “sul lato inutile della vita”; in altri termini, favorire 4 Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 13/06/2006 (GU 29/08/2006 n. 200). Criteri di massima sugli interventi psicosociali da attuare nelle catastrofi. 45 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano la ricostruzione di un sistema finzionale adattivo e adeguato alla mutata situazione; infatti, «dopo un’emergenza che ha provocato traumi e dolori e sconvolgimenti della vita quotidiana, le persone devono non solo ricostruire, cioè riparare i danni, ma devono anche costruire, cioè trovare un senso, un significato alla vita che va avanti in circostanze ormai mutate irrevocabilmente» (Axia, 2006, p. 91). III. Riflessioni per un intervento in emergenza con l’adozione del modello adleriano III. 1. Premessa Credo sia doverosa una premessa concettuale che giustifichi alcune delle riflessioni che seguiranno, qualora possa apparire al lettore che il pensiero adleriano sia stato contaminato da considerazioni appartenenti a una matrice teorica differente; saranno, infatti, citati autori che nulla hanno a che vedere con la tradizione adleriana. In realtà, trattandosi di una dottrina relativamente nuova e poco approfondita dalla Psicologia Individuale, lo sforzo sarà proprio quello di integrare le originali intuizioni di Adler con la mia personale esperienza e con le idee di quanti hanno tracciato un itinerario teorico-metodologico della Psicologia dell’Emergenza in una cornice concettuale differente. In quest’ottica mi sento di condividere il convincimento di Leccardi (2009), secondo cui, «il confronto con l’attualità e con le problematiche che vengono portate riguardi, inevitabilmente, la Psicologia Individuale. […] non può, inoltre, che esserci un “mettersi allo specchio” partendo dalle intuizioni geniali del proprio fondatore e cogliendo allo stesso tempo quegli elementi che hanno modificato profondamente il pensiero e i modi di vivere della società occidentale nel secolo che è intercorso dalle prime formulazioni teoriche di Alfred Adler ad oggi» (p. 18). Nella medesima direzione vanno, peraltro, le considerazioni di Rovera e Ferrigno (2006): «nel futuro della ricerca l’adlerismo dovrà confrontarsi costantemente con altri modelli e indirizzi, non dovendo peraltro venir meno ai principi teorico-pratici compatibili con la metodologia scientifica e con il recupero del significato profondo dell’individuo umano» (p. 3). In ultima analisi vorrei qui condividere il pensiero di Varriale (2009), secondo cui il modello adleriano conterrebbe “in nuce” una forte impronta cognitivo-costruttivistica, un approccio di comunità, una visione ottimistica e incoraggiante; un modello che fu un precursore non soltanto delle psicoterapie interpersonali, umanistiche, esistenzialistiche e della psicologia dei «costrutti personali», ma anche degli orientamenti che attualmente caratterizzano la ricerca e l’applicazione in psicologia positiva. III. 2. L’incoraggiamento empatico Ritengo utile condividere con Garibaldi, Nassi e Tesa (2004), la constatazione che «il modello adleriano, grazie alla sua peculiarità di porre enfasi sul rapporto paritario con il paziente e sulla sua semplicità di linguaggio, ha dimostrato di avere già dai primi incontri caratteristiche di accoglienza, comprensibilità ed efficacia, che risultano facilitare il contatto terapeutico. I pazienti mostrano di comprendere il lessico del terapeuta e – più avanti – di acquisirlo, riuscendo a esprimere in modo più 46 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano particolareggiato il proprio disagio psichico, sentendosi accolti e incoraggiati» (p. 127). Quest’aspetto mi sembra particolarmente rilevante in un contesto in cui i tempi d’intervento devono essere concretamente rapidi; già dal primo contatto lo psicologo deve riuscire a creare un clima empatico ed accogliente e gettare le basi per una “relazione terapeutica” che non durerà nel tempo, una “relazione terapeutica” destinata a finire molto presto; l’obiettivo è anche quello di preparare il terreno per il passaggio di consegne a un nuovo operatore che verrà a sostituirlo nella turnazione successiva. Incoraggiare in emergenza significa «mantenere un atteggiamento di fiduciosa pazienza» (Axia, 2006, p. 179), permettere, attraverso la propria umanità, «alla vera umanità dell’altro di ristabilirsi e di funzionare al meglio: riflettere, piangere, sentire, abbracciarsi, fermarsi, quietarsi e pensare, agire intelligentemente, prendersi cura degli altri, sperare» (Ibid., p. 161); incoraggiare adlerianamente, in un contesto d’emergenza, significa primariamente esserci, mettendosi in gioco in prima persona; significa saper ascoltare profondamente ed attivamente, accogliendo le emozioni difficili senza soffocarle con giudizi, suggerimenti o interpretazioni (Varriale, 2009). È necessario creare una comunicazione autentica se vogliamo “ascoltare” il dolore dell’altro, per immedesimarci nella sua vita interiore, per sondare, condividere, vivere e rivivere le sue emozioni; è ciò è tanto più intenso e terapeutico quanta più passione è in noi (Borgna, 2001, 2011). La tragedia che colpisce la popolazione è spesso vissuta come un limite personale; la causa esterna, facilmente, diviene interna, si trasforma in un limite avvertito come appartenente al Sé, in un’inferiorità percepita rispetto al proprio essere. L’incoraggiamento rappresenta quindi, come suggerisce Canzano (2009), un’intenzione di base; si pone, rispetto all’inferiorità vissuta dal paziente, di fronte nell’ascolto, accanto nella ricerca di un senso, dentro nella trasformazione del limite in misura. L’essenza dell’aiutare consiste nell’indurre gli individui a minimizzare l’impatto di fattori incontrollabili (nel nostro caso l’evento sismico) e a far si che ottimizzino l’uso di quelli controllabili per arricchire le loro esperienze di vita (Sweeney, 1998). L’incoraggiamento, nel contesto d’emergenza, deve tener conto di un focus aggiuntivo, il lutto, che corrisponde anche alla rapida conclusione della relazione terapeutica; si traduce anche nel cercare insieme di dare una nuova progettualità all’individuo e alla comunità (Ferrero, 2009); ha a che fare con la capacità di attivare, nella persona in difficoltà, un processo diretto all’autonomia (Varriale, 2009). Ho potuto personalmente constatare che non esiste una “tecnica” efficace d’incoraggiamento che possa essere codificata e che sia valida per tutti gli individui: ciò che realmente conta, e fa la differenza, è il “coraggio”, inteso in senso adleriano, dell’operatore, la sua capacità di esserci, di mettersi in gioco, di comprendere che ogni comunicazione e relazione che si sviluppa in emergenza è densa di emozioni complesse differenti da individuo a individuo; è necessaria una sensibilità relazionale attenta alle differenze individuali e culturali, una capacità di differenziare e calibrare il proprio comportamento in relazione ai diversi interlocutori (Sbattella, 2009). «Il counselor efficace è quello che punta a rendere la persona, il gruppo, l’organizzazione partecipe ed empowered (più «potente», nel senso di più efficiente, efficace e più autonomo nell’affrontare situazioni difficili e più capace di fronteggiare gli stressor derivanti da tali situazioni). È quello che aiuta empaticamente l’utente a guardare al problema da altre prospettive interpretative affinché possa 47 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano “costruire” diverse mappe di significato e muoversi nella direzione critica del cambiamento. È quello che aiuta l’helpee ad uscire dal circolo vizioso dell’autoscoraggiamento e del pensiero pessimistico [...]; dovrebbe puntare […] a trasmettere all’helpee un senso di speranza, una modalità di pensiero razionale-emotivo positivo ed emancipante» (Varriale, 2009, p. 91). Il punto cardine su cui dovrebbe ruotare tutta la strategia d’incoraggiamento è rappresentato dal concetto, ormai forse inflazionato e utilizzato da molti autori di orientamenti teorici differenti, di empowerment. Tale costrutto, introdotto originariamente da Rappaport (1997), si riferisce alla capacità di fronteggiare gli eventi stressanti, utilizzando e stimolando competenze e risorse sul campo in grado di dare risposte costruttive agli eventi di natura problematica; personalmente intendo definire con questo termine il mantenimento di un coinvolgimento attivo della comunità; in altre parole, incoraggiare il singolo e la collettività a una partecipazione attiva in tutte le fasi dell’emergenza, enfatizzando e valorizzando le qualità, le capacità e le potenzialità inespresse dei membri che la compongono. Il processo di empowerment dovrebbe mirare a sviluppare l’autonomia e ad incrementare il controllo e le competenze di coping, ossia di fronteggiamento degli eventi stressogeni; il suo obiettivo è quello di favorire una partecipazione attiva e consapevole dell’individuo alla vita della comunità, riducendo al minimo la delega allo specialista (Varriale, 2009). È fondamentale la rinuncia, da parte dei soccorritori, alla tentazione di credersi gli unici competenti nella situazione di crisi al fine di contrastare, nella popolazione soccorsa, sentimenti d’impotenza, scoraggiamento e perdita di controllo sul territorio (Sbattella, 2009). Ho potuto constatare che il processo d’incoraggiamento in un’ottica di empowerment, spesso, avviene in modo quasi spontaneo, inconsapevole; per citare Ferrigno (2008, 2010), possiamo dire che la comunicazione intenzionale implicita viene a crearsi in maniera automatica, inconscia, preriflessiva; la vicinanza emotiva tra menti, di per sé riparativa ed incoraggiante, tende a creare uno spazio mentale intersoggettivo noi-centrico condiviso; l’emergenza favorisce la vicinanza tra menti che diviene, essa stessa, il primo strumento di lavoro laddove l’interpretazione di quanto il terapeuta abbia compreso dell’impianto finzionale del paziente perde di pregnanza. Si può desumere che, anche in emergenza, nonostante il tempo d’intervento sia decisamente ridotto rispetto ai tempi classici di una psicoterapia, ciò che cura, ciò che stimola veramente il cambiamento e l’accettazione del limite è la genuinità della relazione; «intervenire professionalmente sugli aspetti relazionali dei momenti di crisi significa saper gestire le emozioni, proprie ed altrui, saper lavorare con le dimensioni che sostengono le azioni personali e quelle collettive, che motivano i piani d’azione e le organizzazioni stesse» (Sbattella, 2009, p. 54). III. 3. Favorire lo sviluppo del sentimento comunitario Alcuni studi condotti in contesti emergenziali avrebbero ipotizzato che, all’interno della comunità colpita dall’evento traumatico, spesso si riscontrino dinamiche altruistiche, che vi sia un’intensificazione dell’identificazione con la collettività. L’esperienza del disastro sembrerebbe quindi rafforzare il senso di appartenenza e tutto tenderebbe verso un comune scopo (Lavanco, 2003). Tuttavia in base ad altre evidenze (Sbattella, 2009; Villone Betocchi, 1992), confermate anche 48 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano dalla mia personale esperienza, sembra che il dover vivere a stretto contatto forzato, quando la quotidianità del pre-emergenza permetteva di evitare il confronto, può portare alla slatentizzazione di conflitti e dinamiche aggressive in precedenza sopite, oltre che a processi di disgregazione in gruppi normalmente funzionali. È molto importante, quindi, entrare nella logica delle dinamiche comunitarie per prevenire episodi violenti e per incoraggiare lo sviluppo di un sano sentimento comunitario. Agire in emergenza significa spesso cercare di dimostrare che laddove il singolo soccombe il gruppo può sostenere (Sbattella, 2009); la fragilità del singolo, colpito dall’evento tragico, può divenire forza, se uno degli obiettivi che ci poniamo è quello di rinsaldare i legami comunitari. Sappiamo che il sentimento sociale rappresenta una vera e propria necessità umana, che trae le sue origini nel primitivo bisogno di tenerezza del bambino, posta al servizio di due obiettivi fondamentali: l’interesse comunitario e la compartecipazione emotiva. L’interesse comunitario si esprime nell’intima necessità di cooperare con la collettività in cui l’individuo vive; la compartecipazione emotiva rappresenta un processo dinamico mediante cui l’individuo condivide emozioni con i propri simili (Parenti e coll, 1989). Questo è valido anche, e soprattutto, in un contesto d’emergenza, in cui il singolo, senza il supporto e la condivisione con l’altro, è destinato a fallire. Del resto, le recenti scoperte di Gallese, Fadiga, Fogassi, e Rizzolatti (1996) sembrano confermare le intuizioni di Adler (1912, 1920, 1927, 1933, 1935) anche in una prospettiva neurofisiologica: i “neuroni specchio” confermano, infatti, una consonanza intenzionale con il mondo dell’altro, resa possibile non solo dal fatto che condividiamo le medesime modalità d’azione, le stesse sensazioni ed emozioni, ma anche perché condividiamo fisiologicamente con l’altro alcuni dei meccanismi nervosi che presiedono quelle stesse azioni, sentimenti ed emozioni. In altre parole, le evidenze empiriche suggeriscono che le stesse strutture nervose coinvolte nell’analisi delle sensazioni ed emozioni esperite in prima persona sono attive anche quando tali emozioni e sensazioni vengono riconosciute negli altri. Il meccanismo di simulazione non è quindi confinato al dominio dell’azione ma appare essere una modalità di funzionamento di base del nostro cervello quando siamo impegnati in una qualsivoglia relazione interpersonale (Gallese, 2007). Tale conferma, su base biologica, rafforza il concetto di sentimento sociale e lo rende in una certa misura “specie-specifico”, caratteristica dell’uomo in quanto tale, irrinunciabile in quanto biologicamente determinato. Bisogna, quindi, permettere che l’esperienza d’impotenza, di fallimento, di sopraffazione, di scoraggiamento venga condivisa empaticamente con il gruppo sociale; diversamente il rischio è che prenda il sopravvento la “logica privata” individuale, che il singolo cessi di cooperare nelle attività quotidiane e aumenti il proprio distacco emotivo dal resto della comunità. Tale attenzione tende anche a prevenire l’accanimento, da parte di alcuni, su soggetti che assolvono la funzione di capri espiatori, su cui indirizzare rabbia e aggressività (Sbattella, 2009). È necessario che il singolo continui a sentirsi emozionalmente legato alla collettività, che, per dirla in termini adleriani, mantenga desto il sentimento sociale che l’emergenza può aver temporaneamente sopito. L’intervento di gruppo, in emergenza, al fine di sviluppare il sentimento comunitario, può tradursi nella narrazione di sé; una narrazione rivolta non solo al passato, ma che esprime anche la proiezione verso il futuro. 49 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano Nella riflessione autobiografica, così ricca di anticipazioni, progetti, proiezioni e speranze è fortemente presente il tempo dell’avvenire; ed è proprio dalla dimensione del futuro che è possibile innescare un fruttuoso processo d’incoraggiamento di matrice adleriana. «Pensare in modo narrativo sembra, peraltro, alimentare lo sviluppo della weness (il sentimento di «noità»-interdipendenza affettiva di uno psicogruppo), la capacità di compartecipazione e collaborazione con gli altri (l’adleriano Sentimento Comunitario), per realizzare i propri progetti e imparare a rispettare quelli altrui» (Varriale, 2009, p. 223). In quest’ottica ritengo possa essere favorevole anche l’utilizzo di una strategia di peer education, che mira a recuperare «i potenziali della relazione tra pari (vision, patrimonio esperienziale e codici linguistico-comunicativi comuni) e potenzia in un approccio di empowerment le competenze psicosociali di soggetti, che, opportunamente formati, favoriranno nel gruppo di appartenenza esperienze di cooperazione, sostegno reciproco, negoziazione e risoluzione condivisa dei problemi» (Orlando e Varriale, 2004, pp. 135-136). Emblematica in tal senso, nel campo di Monticchio 1, è stata l’attività svolta con i “rappresentanti di via”; sono state individuate figure con caratteristiche di natural helper, con i quali si sono tenuti incontri programmati volti a potenziare le personali competenze relazionali. I rappresentanti sono stati quindi “utilizzati” come facilitatori per sviluppare la cooperazione e la compartecipazione emotiva tra gli ospiti del campo; il coinvolgimento a cascata derivante da tale strategia si è tradotto in quella che Orlando e Varriale (2004) definiscono “esperienza di apprendimento intersoggettivo”; un’esperienza di tipo collaborativo nello sviluppo della pro-socialità intesa in termini di interdipendenza positiva in un’ottica di empowerment individuale e di gruppo. La promozione della pro-socialità, nell’adulto, ha come effetto benefico anche la costruzione di un ambiente educativo funzionale ai bisogni di crescita dei bambini, scossi anch’essi dalla catastrofe, proprio nel pieno sviluppo del loro personale modo di interpretare gli eventi, del loro mondo finzionale. È comunque necessario, parallelamente, organizzare spazi in cui i bambini possano, attraverso il gioco, incontrarsi, condividere esperienze ed emozioni, cooperare tra loro per affrontare, affiancati da figure adulte incoraggianti, l’esperienza traumatica e coltivare il sentimento comunitario. Ho potuto constatare personalmente che, come suggerito anche dalla letteratura specializzata in emergenza (Axia, 2006; Sbattella, 2009), un robusto “facilitatore sociale” è l’umorismo, la cui funzione è quella di rafforzare le relazioni come una “specie di collante”. Ritengo che, se utilizzato e stimolato nella giusta misura, in modo creativo e con intelligenza pratica ed emotiva, possa essere un utile strumento per favorire lo sviluppo del sentimento comunitario,oltre a facilitare la prevenzione di fenomeni di burn-out tra gli operatori dell’emergenza. III. 4. Comprendere l’unicità individuale e riorientare il “Sé creativo” Comprendere lo specifico significato che gli eventi assumono per il soggetto favorisce il processo di aiuto nella ricerca di senso alle proprie reazioni e fa in modo che l’evento possa essere pensato, elaborato ed integrato come parte significativa dell’esistenza conscia (Sbattella, 2009). La ricerca ha dimostrato che la relazione tra gli eventi stressanti e catastrofici della vita e lo stress percepito dal singolo individuo non è lineare; l’effetto degli stressor sarebbe, infatti, fortemente 50 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano mediato da variabili individuali (Cassidy, 1999); molto dipenderebbe dal modo in cui i soggetti percepiscono, classificano e “significano” gli eventi (Sbattella, 2009); evidentemente l’interpretazione dell’episodio calamitoso è del tutto personale e risponde alle caratteristiche di unicità individuale. È importante, quindi, in un contesto d’emergenza, non generalizzare a priori e comprendere quale sia il vissuto soggettivo del singolo per favorire l’instaurarsi di una relazione sinceramente empatica. È facile accorgersi, parlando con i superstiti di un evento calamitoso, che il “Sé creativo” appare spesso paralizzato, forse ripiegato su se stesso in un circolo vizioso senza via d’uscita, o comunque si muove in modo da contrastare la precedente dinamica di aspirazione alla superiorità, verso mete che non sono facilmente intuibili ma che sono, certamente, mutate rispetto al pre-emergenza. La progettualità appare bloccata; è “come se” non ci fosse più spazio mentale per interpretare l’esperienza traumatica legata al vissuto catastrofico; la necessità di “costruire un senso” diviene allora prioritaria. La ricerca di un senso, di un significato, in una visione finalistica, può essere facilitata dalle strategie narrative di cui ho già accennato nel precedente paragrafo. L’intelligenza narrativa di cui parla Bruner (1990) rappresenta, infatti, lo strumento migliore per attribuire significato agli eventi offrendo il vantaggio di organizzare i dati di realtà attraverso la mediazione di “soggetti agenti” dotati di intenzionalità, scopi, desideri e valutazioni soggettive; in questo modo, attraverso la narrazione, si facilita una rilettura dei fatti in una visione finalistica e “scopistica” degli stessi, si ha la sensazione di padroneggiare il processo da cui si viene travolti. La costruzione di senso, oltre che al significato, si riferisce quindi anche alla direzione verso cui sembrano organizzarsi alcune concatenazioni di eventi (Sbattella, 2009). «Davanti ai problemi di significazione e senso posti dalle emergenze, gli specialisti […] dovrebbero anche caratterizzarsi per una forte capacità di strutturare contesti, facilitare le interazioni sociali costruttive, ricollocare le azioni apparentemente incomprensibili all’interno degli sfondi di riferimento, usare molte tecniche di tipo narrativo.» (Ibid., p. 116). Axia (2006) parla di routine quotidiane spezzate dall’evento traumatico; la routine quotidiana medierebbe gli incontri con la realtà esterna e le personali esperienze creando particolari sistemi di significato organizzati in script cognitivi (copioni) per agire nell’ambiente sociale, in schemi ambientali, riferiti al cosa trovare e dove trovarlo, e in concetti basati sui prototipi più frequenti nell’ecocultura di riferimento. Ritengo che le routine quotidiane, di cui parla Axia, siano parte del costrutto adleriano di Sé creativo, siano la controparte comportamentale delle finzioni; gli script altro non sono che i personali “schemi appercettivi”. L’esperienza, la costruzione delle proprie mete di superiorità, del proprio piano di vita, si modulano anche attraverso la quotidianità, attraverso il significato personale che viene attribuito alle azioni quotidiane, oltre che ai pensieri e alle emozioni ad esse associate. Quando la routine è spezzata, le persone devono re-imparare il mondo, avvertono un senso di smarrimento giacché le normali motivazioni all’azione non sono più applicabili alla nuova realtà, cessano di funzionare in modo automatico (Axia, 2006); le giornate trascorse in un campo sono tutte uguali, non c’è differenza tra il martedì e la domenica, non ci sono significative differenze neppure tra l’alba e il tramonto. È per questo che credo sia fondamentale favorire una strutturazione del tempo, facilitare l’organizzazione di attività ludiche, ricreative, educative, lavorative, rivolte alle varie fasce di 51 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano popolazione interessata (bambini, adulti, anziani) che consentano di cominciare a riprogettare la quotidianità; le nuove routine quotidiane potranno favorire la ristrutturazione di un senso (significato e direzione) nell’ottica di una nuova progettualità individuale; l’intenzionalità nelle routine quotidiane e le azioni ad esse associate, saranno da stimolo per una ristrutturazione creativa globale, riferita non solo al comportamento ma anche alla sfera cognitiva ed emotiva: potranno, a mio parere, progressivamente, riattivare il movimento finalistico ascensionale verso mete “sul lato utile della vita”. Anche il processo di mediazione tra management del campo e residenti, funzione richiesta allo psicologo dell’emergenza, può essere modulato al fine di rendere protagonista attiva la popolazione colpita dalla calamità. In un’ottica di empowerment, favorire la partecipazione attiva degli abitanti nei processi decisionali è fondamentale per consentire loro di riprendere creativamente possesso della propria vita, per ricominciare a progettare il futuro in un’ottica adlerianamente finalistica. Tornando al tema dell’umorismo, di cui ho già detto nel paragrafo dedicato allo sviluppo del sentimento comunitario, ritengo che il primo effetto da esso generato rispetto agli eventi stressanti sia una reinterpretazione e una ristrutturazione dell’evento stesso; penso, quindi, che il suo utilizzo, dosato ed utilizzato con buon senso, possa favorire la rilettura creativa dell’avvenimento e combattere l’incapacità, diffusa tra le vittime, di prendere decisioni. Peraltro, l’ironia è efficace nel canalizzare l’aggressività generata dalla frustrazione dell’evento verso il “lato utile della vita”, favorendo così una spinta motivazionale in direzione di una nuova strutturazione creativa. È necessario stimolare una nuova interpretazione della disgrazia per lasciare il posto a nuovi adattamenti nella realtà modificata dagli eventi. Nei mesi successivi alla catastrofe, capita di vedere che alcune persone hanno sfruttato l’incontro con il dolore per una crescita individuale, cominciando a vivere con più saggezza, dedicandosi a ciò che maggiormente conta nella vita, rinsaldando i legami sociali in un clima di prudenza e ottimismo (Sbattella, 2009); forse uno dei più importanti obiettivi che dobbiamo inseguire intervenendo in emergenza è proprio quello di facilitare tale processo “ri-creativo” negli individui, fare in modo che il dolore possa essere integrato nella propria personale storia di vita ed essere da stimolo per compensazioni in direzione di una “sana” aspirazione alla superiorità. III. 5. Altre riflessioni metodologiche Particolare attenzione va posta nei confronti dei soggetti che mostrano di non possedere una sufficiente rete di risorse relazionali informali; la carenza di tali risorse appare, infatti, essere un grande fattore di rischio per la salute mentale a breve e lungo termine e, in tali casi, è indispensabile una presa in carico che si connetta ai servizi socio-sanitari della comunità di appartenenza (Sbattella, 2009). La sensibilità dello psicologo e la sua capacità di lasciare da parte l’insidioso “senso di onnipotenza terapeutica”, di riconoscere il limite dettato dalla breve durata dell’intervento, deve metterlo in condizione di individuare tali situazioni particolari e di attivare i servizi sul territorio per fornire l’assistenza necessaria nel lungo periodo. In tali casi è consigliabile non favorire relazioni che possano incatenare il soggetto in rapporti disfunzionali di natura affettiva profonda; lo psicologo dell’emergenza, in nessun caso, può supplire 52 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano alle carenze affettive, emotive e relazionali dell’individuo privo di una naturale rete di attaccamento; ciò proprio in virtù della natura transitoria dell’intervento stesso. Il setting emergenziale, per sua natura assolutamente non strutturato, deve prevedere una capacità personale di uscire dagli schemi rigidi-interpretativi più tipici del tradizionale setting clinico. Parlando, quindi, di tecniche di empowerment, di peer education o di altre metodologie particolari bisogna sempre pensare a un intervento strategico personalizzato sul campo; un intervento che può ispirarsi a tali tecniche ma di natura flessibile, rivolto a cogliere l’unicità individuale; un intervento il cui valore aggiunto è dato dalla soggettività e dalla creatività individuale del terapeuta nonché dalla creatività “noi-centrica” della coppia terapeutica così come, del resto, suggerito dalla dottrina adleriana. È comunque sempre necessario focalizzare l’intervento considerando che ci si trova in un contesto emergenziale e quindi temporaneo; le relazioni che si instaurano vanno quindi costantemente monitorate per far si che, pur non rinunciando alla creatività “noi-centrica” della coppia, si pervenga ad una sorta di “giusta distanza”, né troppo coinvolti né troppo distaccati. IV. Note conclusive È evidente che tale contribuito non ha la pretesa di voler esaurire l’argomentazione sull’applicazione del modello adleriano in un contesto di emergenza; l’obiettivo che mi sono posto, casomai, è di poter cominciare una riflessione globale su tale possibilità, ad oggi ancora forse inesplorata. Ritengo che la scuola adleriana abbia molti punti di forza da poter spendere nei contesti emergenziali e credo che la Psicologia dell’Emergenza, dottrina nata ufficialmente in Italia da poco più di un decennio, essendo ancora abbastanza giovane, abbia realmente bisogno di contributi che spazino oltre i confini delle “tradizioni” cognitivo-comportamentali; dico “tradizioni” poiché la maggior parte della letteratura italiana disponibile sull’argomento affronta l’emergenza con proposte che provengono, fin dagli albori della sua nascita, dalla corrente di pensiero di matrice comportamentista e cognitivista. Nonostante i nuovi orientamenti di stampo cognitivo si siano progressivamente sviluppati enfatizzando sempre più il ruolo centrale della relazione e l’importanza degli aspetti emotivi nel processo di cambiamento (Bara, 1996), non si può, a mio avviso, sottovalutare che il pensiero adleriano ha, in tal senso, una tradizione certamente più radicata. Il processo terapeutico adleriano è, infatti, da sempre caratterizzato dalla qualità della relazione terapeuta-paziente e da tutti gli aspetti emotivi, transferali e controtransferali che ad essa sono connessi. La creatività e l’empatia sono alla base di ogni relazione d’aiuto per la scuola adleriana, sono centrali in ogni percorso e consentono al terapeuta una flessibilità maggiore nell’uso di particolari tecniche che, in contesti come quelli emergenziali, rischierebbero, se troppo rigidamente applicate, di far perdere di vista l’uomo e la sua sofferenza, penalizzando lo sviluppo della compartecipazione emotiva necessaria al buon superamento della crisi. Credo che, in un’ottica squisitamente adleriana, sarebbe utile apportare nuova linfa individualpsicologica allo studio dei contesti d’emergenza e mi auguro di aver fatto un piccolo passo in tale direzione. 53 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano BIBLIOGRAFIA ADLER, A. (1912). Über den nervösen Charakter. Wiesbaden: J. F. Bergmann. (Trad. it. Il Temperamento Nervoso. Roma: Astrolabio, 2003). ADLER, A. (1920). Praxis und Theorie der Individualpsychologie. München: J. F. Bergmann. (Trad. it. La Psicologia Individuale. Roma: Newton Compton, 1970). ADLER, A. (1927). Menschenkenntnis. Leipzig: Hirzel. (Trad. it. La conoscenza dell’uomo nella Psicologia Individuale. Roma: Newton Compton, 1994). ADLER, A. (1933). Der Sinn des Lebens. Wien und Leipzig: Passer. (Trad. it. Il senso della vita, Roma: Newton Compton, 1997). ADLER, A. (1935). The Fundamental Views of Individual Psychology. International Journal of Individual Psychology, 1, 3-7. (Trad. it. I concetti fondamentali della Psicologia Individuale. Rivista di Psicologia Individuale, 33, 1993, 5-9). ANSBACHER, H. L. & ANSBACHER, R. R. (1956). The Individual Psychology of Alfred Adler. New York: Basic Books. (Trad. it. La Psicologia Individuale di Alfred Adler. Firenze: Martinelli, 1997). ANSBACHER, H. L. & ANSBACHER, R. R. (1964). Superiority and Social Interest. Evaston: Northwestern University. (Trad. it. a cura di U. Sodini e A. Teglia Sodini, Aspirazione alla superiorità e Sentimento comunitario. Roma: Universitarie Romane, 2008). AXIA, V. (2006). Emergenza e psicologia – Mente umana, pericolo e sopravvivenza. Bologna: Il Mulino. BARA, B. (1996). Manuale di psicoterapia cognitiva. Torino: Bollati Boringhieri. BELLAGAMBA, M. & FENOGLIO, M. T. (2005). L’approccio psicosociale nella psicologia dell’emergenza. Paper presented at 23rd Congress of the International Association of Individual Psychology «Power and cultural living», Torino, 26-29 maggio 2005. BORGNA, E. (2001). L’arcipelago delle emozioni. Milano: Feltrinelli. BORGNA, E. (2011). La solitudine dell’anima. Milano: Feltrinelli. BRUNER, J. S. (1990). Acts of meaning. Cambridge MA: Harvard University. (Trad. it. La ricerca del significato. Per una psicologia culturale. Torino: Bollati Boringhieri, 1992). CANZANO, C. (2009). Il limite e il coraggio. Di fronte, accanto, dentro l’inferiorità. Relazione presentata al 21° Congresso Nazionale SIPI «Le strategie dell’incoraggiamento negli attuali contesti clinici e formativi», Bari, 29-31 maggio 2009. CASSIDY, T. (1999). Stress, Cognition and Health. New York: Routledge. (Trad. it. Stress e salute. Bologna: Il Mulino, 2002). DI IORIO, R. & BIONDO, B. (Eds). (2011). Psicosoccorso: dall’incidente stradale al terremoto. Roma: Magi. ELLENBERGER, H. F. (1970). The Discovery of the Unconscious: The History and Evolution of Dynamic Psychiatry. New York: Basic Books. (Trad. it. La Scoperta dell’inconscio, 2 voll. Torino: Bollati Boringhieri, 1976). FERRERO, A. (2009). Le strategie dell’incoraggiamento nelle psicoterapie time-limited. Relazione presentata al 21° Congresso Nazionale SIPI «Le strategie dell’incoraggiamento negli attuali contesti clinici e formativi», Bari, 29-31 maggio 2009. FERRIGNO, G. (2005). Il “piano di vita”, i processi selettivi dello “stile di vita” e la comunicazione intenzionale implicita della “coppia terapeutica creativa”: dalla “teoria” alla “clinica”. Rivista di Psicologia Individuale, 58, 59-97. FERRIGNO, G. (2006). Alfred Adler fra “tradizione” e “cambiamento”. Rivista di Psicologia Individuale, 60, 3-4. FERRIGNO, G. (2008). La relazione empatica adleriana e la ricomposizione dell’intersoggettività. Rivista di Psicologia Individuale, 63, 3-13. FERRIGNO, G. (2010). La rete delle finzioni nella relazione terapeutica attraverso il tempo passato-presentefuturo. Rivista di Psicologia Individuale, 68, 95-110. GALLESE, V. (2007). Dai neuroni specchio alla consonanza intenzionale. Meccanismi neurofisiologici dell’intersoggettività. Rivista di Psicoanalisi, LIII, 1, 197-208. GALLESE, V., FADIGA, L., FOGASSI, L. & RIZZOLATTI, G. (1996). Action recognition in the premotor cortex. Brain, 119, 593-609. GARIBALDI, L., NASSI, V. & TESA, A. (2004). Applicabilità del modello adleriano nell’ambito della relazione psicoterapica all’interno del servizio pubblico. In G. G. ROVERA, D. DELSEDIME, S. FASSINO, & U. 54 Roberto Callina Applicabilità del modello adleriano PONZIANI (Eds.). La ricerca in Psicologia Individuale (pp. 127-130).Torino: Centro Scientifico Editore. IASC (2007). IASC guidelines on mental health and psychosocial support in emergency settings Disponibile in: http://www.humanitarianinfo.org/iasc/content/products/docs. LAVANCO, G. (2003). Psicologia dei disastri. Milano: Franco Angeli. LECCARDI, G. (2009). Lo specchio di Adler: la fine del narcisismo. Rivista di Psicologia Individuale, 65, 17-51. ORLANDO, R. & VARRIALE, C. (2004). Il peer counseling a scuola: itinerari sperimentali di educazione del sentimento sociale. In G. G. ROVERA, D. DELSEDIME, S. FASSINO, & U. PONZIANI (Eds.). La ricerca in Psicologia Individuale (pp. 135-138). Torino: Centro Scientifico Editore. PAGANI, P. L. (2006). Dalla pulsione aggressiva al sentimento sociale: sulle tracce del pensiero di Adler. Rivista di Psicologia Individuale, 60, 5-36. PARENTI, F. (1983). La Psicologia Individuale dopo Adler. Roma: Astrolabio. PARENTI, F. e COLL. (Eds). (1989). Alfred Adler, Antologia Ragionata. Milano: Raffaello Cortina. RAPPAPORT, J. (1997). Community Psychology – Values, Research and Action. New York: Holt, Rinenehart & Winston. ROVERA, G. G., DELSEDIME, D., FASSINO, S. & PONZIANI, U. (Eds.). La ricerca in Psicologia Individuale. Torino: Centro Scientifico Editore. SANTOIANNI, F. (1996). Disastri, da Atlantide a Chernobyl. L’uomo e le grandi catastrofi. Firenze: Giunti. SBATTELLA, F. (2009). Manuale di psicologia dell’emergenza. Milano: Franco Angeli. SWEENEY, T. J. (1998). Adlerian Counseling: A Practitioner’s Approach (4th ed). New York: Taylor & Francis. VARRIALE, C. (2005). Alfred Adler psicologo di comunità – Attualità del modello etico e psicologico adleriano nella prospettiva dell’empowerment. Milano: Angelo Guerini e Associati. VARRIALE, C. (2006). Socio-costruttivismo e modello psicologico adleriano: significative somiglianze. Rivista di Psicologia Individuale, 59, 69-84. VARRIALE, C. (2009). Aiutare le persone ad aiutarsi – Il counseling adleriano-costruttivistico per operatori non clinici nelle reti sociali di cura. Milano: Angelo Guerini e Associati. VILLONE BETOCCHI, G. (1982). Il contributo della psicologia in situazioni di emergenza. Salerno: Palladio. YOUNG, B. H., FORD, J. D., RUZEK, J. I., FRIEDMAN, M. J. & GUSMAN, F. D. (2002). Disaster mental health services: a guidebook for clinicians and administrators. Washington DC: National Center for Post-Traumatic Stress Disorder. (Trad. it. L’assistenza psicologica nelle emergenze – Manuale per operatori e organizzazioni nei disastri e nelle calamità. Trento: Erickson, 2002). Roberto Callina Via Marco Greppi, 10 I-20135 Milano www.robertocallina.com E-mail: [email protected] PEC: [email protected] 55 DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 56-67 (2014) CASI CLINICI IL CASO DI GIULIA Anna Liggeri Ferbelli Riassunto Abstract Questo lavoro presenta il caso di una giovane donna affetta da una malformazione congenita, alla quale reagisce sperimentando modalità compensatorie ambivalenti ed in reciproca contraddizione, che originano linee comportamentali apparentemente imprevedibili e spesso fuori misura. La ragione di ciò risiede nell’impianto antitetico del pensiero e nella rigida adesione della paziente ai suoi vecchi schemi finzionali, sempre orientati in senso non collaborativo. Il rapporto tra i primi ricordi e sogni illustra l’antitesi che fa da sfondo alla struttura nevrotica della paziente: l’opposizione tra il privilegio accordatale da sempre in famiglia e l’incapacità di trovare adattamenti alla realtà sociale cui è del tutto impreparata. GIULIA’ S CASE. This article intends to present the case of a young woman suffering from a birth defect, to which she reacts experiencing compensatory methods, ambivalent and in mutual contradiction, which cause behavioral lines, apparently unpredictable and often out of control. The reason for this lies in the antithetical structure of thought and in the rigid adhesion of the patient to her old fictional schemes, always oriented in a non-collaborative sense. The relationship between her first memories and her dreams, illustrates the antithesis that is the backdrop to the neurotic structure of the patient: the opposition between the privileges always granted to her in the family and the inability to find adaptations to the social reality to which she is totally unprepared. Parole chiave Keywords PROTESTA VIRILE, PENSIERO ANTITETICO, RESISTENZA, SETTING MASCULINE PROTEST, ANTITHETICAL THOUGHT, RESISTANCE, SETTING I. Premessa Il caso clinico che segue tratteggia una personalità contraddittoria, ambivalente, le cui modalità espressive sembrano sempre in un certo grado “fuori misura”, impulsive, enfatiche ed apparentemente prive di controllo. Si percepisce un’impronta istrionica mirata ad esercitare una forte pressione sull’ambiente. La mutevolezza dei comportamenti e delle emozioni che fanno da background appare talora ricercata come fattore sorpresa, destinato a destabilizzare l’interlocutore. L’intento manipolatorio è palese ed è facile intuire come l’impianto nevrotico sia stato sperimentato nel tempo e selezionato in quanto giudicato vincente dalla paziente. Erronei tentativi compensatori del complesso d’inferiorità, il timore dei collaudi della vita, possibili rivelatori di un’inadeguatezza temuta e negata, costituiscono il sottofondo psicodinamico di tale struttura di personalità. Ciò comporta una visione della realtà marcatamente autoreferenziale che, attenuando finzionalmente ogni tentazione di autocritica, orienta la paziente alla ricerca di un potere prevaricatorio. Prevalgono, dunque, le influenze ostili della volontà di potenza, attivatrici di rapporti di forza e la scelta delle armi in questa lotta, sarà frutto del potere creativo individuale. Giulia è una giovane donna sempre in armi contro il mondo, per la quale la sicurezza coincide finzionalmente con il dominio sugli altri, perseguito spesso con modalità dirette, costrittive, polemiche ed oppositive. A ciò s’intercala il repertorio dell’ostentazione della debolezza, espresso con ansia, vittimismo e stati depressivi, carichi di finalità accusatorie nei confronti della famiglia e del mondo. In alcuni momenti il vittimismo acquisisce valenze seduttive, come richiesta di protezione o complicità. 56 Anna Liggeri Ferbelli Il caso di Giulia Il feedback sul piano relazionale è fallimentare: le tematiche affettive e sociali, infatti, scandiscono i temi della competizione e del possesso e sono talmente intrise del timore dell’abbandono da indurre Giulia ad auspicare relazioni prive di legami autentici ed intensi, naturalmente da parte sua. In questo quadro s’intuisce il bisogno imperioso e l’urgenza della paziente di trovare soluzione al suo sentirsi disarmata ed indifesa in un mondo che ritiene ostile. La sua visione della realtà, pertanto, la conduce ad elaborare e a mettere in atto strategie autoaffermative ed autodifensive, lontane dal suo sentimento comunitario, tattiche che l’hanno portata ormai a sconfinare nel pensiero nevrotico. La presentazione di questo caso clinico vuole evidenziare alcuni artifizi psichici erronei mirati all’innalzamento dell’autostima, ciò che Adler nelle prime opere denomina efficacemente “apparati di sicurezza”. Adler (1920) utilizza il termine sicurezza nei primi lavori in cui analizza la psiche nevrotica. Nelle opere della maturità, invece, privilegia l’uso di termini quali superiorità o perfezione, con cui indica il perseguimento di una meta sana. A tal proposito asserisce che il fine della sicurezza è comune a tutti gli uomini, ma «ciò che distingue il soggetto nevrotico dal soggetto sano è la sua maggiore tendenza alla sicurezza» (p. 35). Ciò allude al fatto che l’individuo in armonia con sé e ben integrato nel contesto sociale riesce a tollerare un certo grado di frustrazione, riconosce la propria fallibilità traendone uno stimolo migliorativo. Nell’ambito della psicopatologia, al contrario, il rischio d’insuccesso corrisponde a ciò che Adler definisce come una “caduta in un abisso pieno di orrori” corrispondente alla perdita dell’autostima. Proprio il timore della perdita dell’autostima induce la paziente a creare molteplici “artifizi” psichici in virtù dei quali possa negare a se stessa il proprio disagio interiore e recitare la parte di personaggio vincente. Tale processo mentale è naturalmente in molto larga misura inconscio, benché intervallato da sporadici momenti di consapevolezza, immediatamente respinta. II. Il caso di Giulia Giulia ha quarantacinque anni, una laurea in Economia a pieni voti, un avviato studio professionale come “Dottore Commercialista”. Secondogenita, è preceduta da un fratello di quattro anni maggiore, che svolge la medesima professione ed è suo socio. C’è poi una sorella più giovane di cinque anni, la quale già dall’infanzia vive in un’altra città. La famiglia d’origine abita da sempre in un piccolo paese isolato, dove gestisce un’azienda agricola. Qui la paziente torna con grande frequenza e vi si stabilisce nei periodi di depressione. I genitori, ormai piuttosto anziani, sembrano conservare un ruolo di riferimento significativo per Giulia, sia pure in modo ambivalente. Schematici i tratti con cui Giulia li descrive: la madre forte, lungimirante, decisionista, si configura come oggetto d’ammirazione e modello positivo per la figlia, in opposizione al padre definito debole, esitante, sempre benevolo ed accomodante, relegato al ruolo di esecutore delle disposizioni della moglie. Il fratello viene tratteggiato come instabile caratterialmente, incostante e poco produttivo nel lavoro, irritabile e reattivo. Litigano molto spesso tra di loro, ma la paziente riconosce che il fratello si fa carico di tutti i problemi e delle seccature che lei non vuole affrontare. Iniziano a delinearsi qui le dicotomie che scandiscono l’organizzazione del pensiero di Giulia 57 Anna Liggeri Ferbelli Il caso di Giulia e sottintendono un giudizio netto. Le figure dei genitori si connotano secondo schemi opposti: alla prevalenza materna fa da contrappunto la sottomissione paterna, così come la presunta instabilità del fratello serve a rimarcare la propria dichiarata efficienza professionale. Il fratello, come il padre, gioca un ruolo solo apparentemente secondario, in realtà rinunciando alla sua libertà, si pone come paladino della sorella. Giulia cita appena la sorella minore. Riferisce che questa è stata affidata alla nonna già dai primi mesi di vita, è cresciuta ed ha compiuto gli studi lontano dalla famiglia, solo con brevi rientri nella casa dei genitori. Il disinteresse dimostrato dalla paziente può essere in parte giustificato proprio dalla distanza e dalle rare occasioni di contatto con la sorella. D’altra parte non si può escludere che tale atteggiamento sia un’espressione di rivalità fraterna. L’indifferenza ostentata, peraltro, è una delle tante modalità utilizzate tuttora da Giulia per negare l’importanza di qualcuno ed elevare una barriera. Alla nascita della sorella, Giulia aveva già consolidato il suo potere in famiglia e, visti i tratti del carattere che andava strutturando, non avrebbe consentito nemmeno in tenera età, ad alcun rivale di contenderle il trono. III. Giulia e la significazione soggettiva del proprio deficit fisico Strumento di tanto potere era nell’infanzia ed è tuttora una malformazione fisica che la paziente presenta alla nascita. Questa, pur non interferendo con la sua autonomia, è tuttavia visibile e non passa inosservata. Come adleriani, riconosciamo al deficit fisico la potenzialità di stimolo, che può originare sia risposte rinunciatarie e di ripiegamento sia reazioni costruttive animate da uno slancio verso mete autoassertive di superamento. L’orientamento della risposta dipende, quindi, dalla “significazione” personale che ciascun individuo attribuisce alla propria condizione, coerentemente con il proprio stile di vita e con la propria meta finale. Giulia vive la propria situazione in un’alternanza di emozioni che si susseguono e s’intrecciano di continuo, regolate dagli accadimenti e dalle impressioni, ma sempre dirette alla ricerca di un successo compensatorio. Comune denominatore di questi stati d’animo è una rabbia sorda insieme ad un potente desiderio di vendetta nei confronti del mondo esterno. Di qui prende corpo il bisogno rivendicativo di dimostrare la propria superiorità in ogni ambito. Prima fra tutte la supremazia intellettuale, già enfatizzata in famiglia, poi uno sforzo senza fine per possedere la casa più lussuosa, l’automobile più costosa, lo studio più prestigioso, anche se non riesce a sostenerne i costi. C’è inoltre la ricerca di un aspetto fisico smagliante, perseguito con diete e cure estetiche di ogni genere. I risultati, però, sono deludenti. L’aspetto fisico denuncia in modo inequivocabile, l’alternanza di sentimenti ed emozioni, passando dall’estrema cura dei periodi positivi, alla massima trascuratezza delle fasi di grande scoraggiamento. In entrambi i casi si ravvisa una sottolineatura enfatica che tradisce tentazioni di platealità. IV. I primi ricordi Ogni evento, costituisce per la paziente un’opportunità di richiamo d’attenzione cui la famiglia 58 Anna Liggeri Ferbelli Il caso di Giulia risponde con grande risonanza, in un atteggiamento corale di sollecitudine e condivisione. È un diritto, secondo Giulia, tutta l’attenzione che riceve da sempre. Il primo ricordo delinea efficacemente il privilegio accordatole dai genitori e confermato di continuo: «Quando è nata mia sorella, io avevo cinque anni. La mamma ha deciso di affidarla alla nonna, spiegando che non poteva occuparsene, perché doveva dedicarsi a me che necessitavo di cure». Ma anche il fratello non è esentato da penalizzazioni: «Il giorno della Prima Comunione di mio fratello, il mio abito era bellissimo, così come i regali ricevuti. Tutti prestavano attenzione solo a me, io ero la festeggiata! Ricordo bene che la mamma ha spiegato a mio fratello che io avevo più diritti di lui, in quanto penalizzata dalla malattia». Quest’altro ricordo si colloca nello stesso periodo del precedente e ne costituisce un rafforzamento: «Ricordo anche la volta in cui la mamma ha detto a mio fratello che avrebbe dovuto sempre sentirsi responsabile nei miei confronti, anteponendo i miei bisogni ai suoi. Lui ha pianto ma poi ha capito che è giusto». Commenta affermando che il fratello nell’infanzia e nell’adolescenza veniva punito quando trascurava la sorella per stare con i suoi amici. Ancora un ricordo: «Una notte, avevo allora dieci anni circa, ho sentito i miei genitori che parlavano di me. Di soppiatto sono andata ad origliare. Il papà stava dicendo che ero prepotente ed arrogante, che lui avrebbe voluto rimproverarmi. Ma la mamma lo ha zittito dicendogli che lui sbagliava sempre e che era lei a sapere come agire, era lei a decidere come ci si doveva comportare. Così lui ha taciuto». In tal modo l’unico tentativo di contenimento falliva! «È giusto che io sia privilegiata, perché sono stata sfortunata!». È questo il convincimento profondo che traccia tutti i percorsi mentali e le linee comportamentali di Giulia. Questo diritto a ricevere, nato ed alimentato in famiglia, si è trasformato in dogma, mentre, nell’impatto con la quotidianità tutto si capovolge e la rivendicazione del diritto trova solo disconferme ed evoca forti frustrazioni. La pretesa di privilegi può essere interpretata come importante segnale psicodiagnostico, in quanto suggerisce le linee programmatiche esistenziali di Giulia, il suo orientamento teleologico e fornisce la misura del suo allontanamento dalla realtà e dagli altri. La paziente, infatti, tende ad elaborare fantasie ed anticipazioni che la descrivono tendenziosamente al centro della scena, come protagonista indiscussa. Ciò può sollecitare il sospetto di uno sganciamento patologico dalla realtà, tuttavia si conferma come fatto episodico, sostenuto da una finalità consolatrice in momenti di grande sconforto. Il contatto con la realtà non è realmente pregiudicato. È facilmente percepibile come il racconto dei primi ricordi, che la paziente considera espressioni del proprio successo, sia per lei motivo di compiacimento. Tuttavia, in filigrana, si coglie una sorta di monito diretto all’analista: «Ricorda che io devo essere privilegiata!» ed anticipa inconsciamente la belligeranza che porterà nel setting così come nella vita. 59 Anna Liggeri Ferbelli Il caso di Giulia V. I sogni Giulia procede nella sua vita adulta guidata dai suggerimenti “faziosi” dei primi ricordi, con l’attesa di riprodurre in ambito sociale le medesime dinamiche relazionali sperimentate in famiglia. Ma la realtà è inesorabilmente disconfermante. Già dai tempi del liceo si accorge con stupore che nessuno le riconosce dei particolari privilegi né le riserva benevoli riguardi. Ciò non sollecita nella paziente tentazioni di autocritica o cambiamenti nello stile di vita, al contrario, origina reazioni rancorose, ostili, sostenute dal desiderio di vendetta. Tali emozioni si esprimono in modo esplicito in un sogno del periodo delle scuole superiori, ben ricordato perché ricorrente. «C’è un incendio a scuola, la mia aula è invasa dal fumo, si diffonde il panico tra i presenti. Solo io trovo la finestra ed esco senza difficoltà, mentre gli altri rimangono intrappolati. L’incendio si estende a tutto l’edificio. Subito mi allontano di corsa, poi mi fermo e vedo che nessuno è riuscito a seguirmi. Un po’ mi dispiace per loro, ma non hanno riconosciuto la mia lungimiranza». Indubbiamente intriso di aggressività, valenze punitive e desideri d’onnipotenza, questo sogno, che ricorre nei periodi di maggiore frustrazione, è carico dell’angoscia derivante dalla convinzione che niente potrà migliorare. Non resta che distruggere! La ricorsività del sogno evidenzia la rigidità del pensiero di Giulia, che continua ad aderire fortemente alla sua logica autoreferenziale. Si coglie qui una sorta di forzatura, come se, rimanendo legata a vecchi schemi, riuscisse, prima o poi, a piegare la realtà ai suoi voleri. Il tema della solitudine è raffigurato non tanto dall’essere l’unica sopravvissuta, ma dal fatto che gli altri non si siano accorti che lei aveva trovato una via di fuga. Giulia si sente invisibile agli occhi degli altri, avvolta in una cortina di fumo, appunto: grossa delusione per una persona cresciuta al centro dell’attenzione. Commentando il sogno, la paziente lamenta l’esclusione dal contesto sociale, accusa gli altri ritenendoli responsabili della propria solitudine, enfatizza la propria sensibilità che, a suo dire, la rende vulnerabile nei rapporti umani, teme eventuali giudizi negativi. Ciò la induce al ritiro. Non rivela, peraltro, alcun interesse umano né prende iniziative di contatti con altri, ritenendolo umiliante. Residuano i soli rapporti di natura professionale in cui si sente sicura, perché tutelata dal ruolo. I genitori incoraggiano le scelte d’isolamento della figlia, sollecitando rientri a casa. Ciò evidenzia la loro protettività, ma anche condivisione di uno stile di vita improntato all’isolamento. L’assenza di figure estranee al nucleo famigliare nei primi ricordi già suggeriva l’ipotesi di una disposizione al ritiro da parte dei genitori. Nel corso dell’analisi, la paziente ribadisce spesso ciò che lei definisce la propria intolleranza per le amicizie, soprattutto femminili, aggravata dalla diffidenza nei confronti del mondo intero. Adler (1920) individua nella distanza interposta tra sé e gli altri una difesa estrema «come se l’individuo fosse circondato ed immobilizzato da un cerchio di fuoco fatto dalle streghe» (p. 124). Il soggetto, quindi, delimita il proprio raggio d’azione solo ad ambiti sicuri, in cui il proprio dominio è certo ed elude qualsiasi collaudo, minaccioso per l’autostima. L’eccessiva protezione della famiglia ha creato e mantenuto una rete di sicurezza attorno a Giulia a tal punto che ora, nella vita adulta, è realmente disarmata, incapace di superare ostacoli, tollerare 60 Anna Liggeri Ferbelli Il caso di Giulia piccole frustrazioni o districarsi in situazioni che richiedano un atteggiamento interlocutorio o di mediazione. «Quante contraddizioni e quante antinomie, quante dimensioni e quante stratificazioni, si condensano in un’esperienza emozionale ed esistenziale, apparentemente semplice e lineare com’è la solitudine. La cosa più importante, in ogni caso, è la constatazione che una condizione di solitudine sociale possa essere sorgente, e causa, di malattia. […] Ha bisogno di cura la solitudine dolorosa, la solitudine autistica, la solitudine-isolamento, che ci imprigiona nella separatezza e nella inclusione nei confini del nostro io; dai quali non è possibile uscire» (Borgna, 2011, p. 183). I temi dell’isolamento e del timore degli altri vengono ribaditi in un sogno composto di due parti diverse in cui la seconda traspone nel presente la prima caricandola di ulteriore tensione. Il sogno inizia e si conclude con una fuga. Qui Giulia si descrive come una principessa delle favole, ritirata in una torre, circondata da arredi lussuosi, sete e broccati. Esce, si trova nel deserto e subito s’imbatte nei predoni che la inseguono con il chiaro intento di ucciderla. Dopo la fuga, il rientro nella torre è salvifico. Di facile decodifica il monito del sogno che la invita a stare al sicuro, ma la vera natura dell’aggressione temuta si esprime più esplicitamente nella seconda parte. In questa, sempre principessa, Giulia viene invitata ad interpretare la parte della protagonista in un nuovo film di un noto regista cinematografico. Fiera di sé, si dirige verso il teatro di posa e, mentre sale ai piani superiori, si accorge che le persone che incontra la deridono, la criticano, perché un dettaglio del suo abbigliamento è inadeguato, di pessimo gusto. Dopo inutili tentativi di spiegare che tale oggetto non le appartiene, che l’ha raccolto lungo la strada, senza essere ascoltata, si allontana di corsa, raggiunge un ripostiglio, vi si chiude e decide che ne uscirà solo quando sarà certa che tutti se ne siano andati. I temi reiterati della fuga e del ritiro provvidenziali, trovano più chiaramente ragione nella preoccupazione relativa al giudizio degli altri, i quali nel sogno dell’incendio non la vedono, quindi non le offrono la possibilità di discolparsi, le impediscono il raggiungimento del successo e la deridono, con specifico riferimento ad un particolare del suo aspetto. Il percorso verso il luogo delle riprese, in cui si ravvisa l’ambizione del porsi “in alto”, “più in alto” degli altri, è la metafora della vita di Giulia. L’ultimo sogno condensa l’interpretazione di Giulia relativa alla propria esistenza tra gli altri. Qui la paziente partecipa ad una competizione in cui le contendenti, tutte donne, devono sfidarsi stando su trampoli i quali poggiano su pattini a rotelle. È consentito l’uso di armi. Giulia, con uno stratagemma, riesce ad impossessarsi dei trampoli più lunghi e delle armi più pericolose. Ciò le procurerebbe un certo vantaggio, ma purtroppo a breve si accorge della netta superiorità atletica di alcune sfidanti. Inoltre, la sua allenatrice, è assente, non può intervenire. Costretta a rimanere in competizione, decide che combatterà anche slealmente, usando armi improprie, per non soccombere, ma le altre contendenti sono comunque più forti. E il sogno s’interrompe. Interruzione opportuna, forse, per non assistere alle propria sconfitta. «Unicamente centrato su di sé e sul suo prestigio, il nevrotico sviluppa una serie di tratti caratteriali che testimoniano il suo perpetuo bis������������������������������������������������������������������� ogno di misurarsi con gli altri, con lo scopo di assicurarsi la superiorità» (Shaffer, 1976, p. 109). La suggestione più forte del sogno è il senso di precarietà evocato tanto dai trampoli, quanto dai pattini, che contrasta di netto con l’esigenza della paziente di esercitare un controllo continuo 61 Anna Liggeri Ferbelli Il caso di Giulia su ogni cosa. C’è poi la scelta di armi vietate, che Giulia si concede benevolmente anche sul piano conscio e, verbalizzando, afferma che la vita è una continua battaglia, in cui si potrebbe essere sopraffatti se talora non si facesse ricorso a qualche scorrettezza. VI. Gli artifizi Si ravvisano nei sogni e nelle verbalizzazioni, quelle idee persecutorie che nel quotidiano spesso precludono alla paziente la possibilità di contatti che non siano solo formali e la forzano a ricercare ambiti in cui il proprio predominio sia certo. In questi contesti, al contrario, si esprime quella suggestione teatrale già citata. Tuttavia, tali tratti, suscettibili di reciproca contaminazione, non definiscono quadri psicopatologici specificatamente tipicizzati, ma riconducono alla comune matrice: una volontà di potenza ormai fuori controllo, in quanto non sufficientemente orientata e contenuta dall’istanza collaborativa. Il termine isolamento nel caso di Giulia fa riferimento non tanto ad una condizione di autentico patologico ritiro dalla realtà, quanto a vari gradi di distanza che la paziente interpone tra sé e gli altri con intento autodifensivo. Tale distanza si rimodula sottilmente di continuo, in relazione al rischio d’insuccesso ipotizzato nelle diverse situazioni. La ricaduta sul piano pratico si concretizza quindi nell’accentuazione di emozioni “che separano”, come l’ira, la tristezza esibita carica di accuse e le manifestazioni rivendicative plateali. I tratti del carattere, poi, si configurano come «una routine protettiva» (Adler, 1912, p. 303), permeata di ostilità verso il mondo che genera l’incapacità di stabilire rapporti empatici e di condivisione. Sono molteplici gli “artifizi” utilizzati da Giulia nella ricerca della superiorità personale. Tra questi la menzogna orientata a finalità deresponsabilizzanti o l’astuzia con cui s’illude di trarre in inganno gli altri, così come la ricerca esasperata della verità, che si trasforma in una «terribile arma aggressiva» (Way, 1956, p. 111). La vanità, che la spinge a volere essere sempre la migliore, rivela la forza del suo sentirsi inadeguata. Gelosia ed invidia esprimono l’intolleranza di Giulia per i successi altrui, interpretati come propria sconfitta. Fuga ed immobilità si collocano tra gli espedienti che le consentono di eludere prove troppo collaudanti. VII. Primi ricordi e sogni: lo stile di vita di Giulia Primi ricordi e sogni gettano un fascio di luce sul complesso impianto di personalità di Giulia e consentono la comprensione di tratti del carattere e modalità comportamentali opposte che talora rendono la paziente imprevedibile. I primi ricordi indicano una traccia di quasi accettazione della malformazione fisica, giudicata strumento di potere indiscusso che costringe tutti a ruoli di subordine. La cortina protettiva, costruitale attorno dalla famiglia, impedisce alla paziente di collaudarsi sul piano sociale, trattenendola nella convinzione che ogni privilegio accordatale sia un diritto. Giulia, quindi, elabora progetti, fantasie e speranze per il futuro, nell’illusione che tutta la sua vita si svolgerà lungo i percorsi già sperimentati. 62 Anna Liggeri Ferbelli Il caso di Giulia Solo ai tempi del liceo s’imbatte nella realtà, che non le riconosce alcun vantaggio. Ciò procura una sorta di stupore, che tuttora manifesta, quasi non riuscisse ad orientarsi. L’emozione associata è l’ira, il desiderio di distruggere e l’accusa. La reazione immediata è il ritiro rancoroso dalla vita relazionale, ritiro che prelude ad un rientro belligerante. Se i primi ricordi rappresentano simbolicamente il progetto di vita in virtù del quale la paziente nell’infanzia si vedeva proiettata, vincente, nel futuro, i sogni costituiscono la metafora della realtà. Di nuovo l’antitesi: la situazione infantile viziante e di certa valorizzazione, in opposizione al contesto sociale dell’età adulta, sconosciuto che non le assegna alcuna priorità, anzi le è ostile. I sogni raccontano tentativi incerti e sempre fallimentari d’inserimento, tentativi fondati non sul bisogno di comunicazione o scambio, ma sulla ricerca di dominio. La fuga conclude i sogni, lasciando una traccia scoraggiante. La vita sociale di Giulia si svolge realmente con questo movimento circolare tra prove di avvicinamento e successive fughe, seguendo rigidamente lo schema finzionale iniziale. Al contrario, le strategie autoaffermative ed autodifensive, si modificano di continuo in relazione all’interpretazione soggettiva ed autoreferenziale operata dalla paziente rispetto ad eventi e situazioni. VIII. Le dicotomie dei processi mentali e la protesta virile A partire dunque dal temuto senso di sconfitta e di debolezza, Giulia si dirige reattivamente alla ricerca di una condizione di superiorità e forza: le dicotomie che scandiscono i processi mentali della paziente si manifestano chiaramente nei modi opposti di reagire e tratteggiano le linee della Protesta Virile. Il processo ideatorio della Protesta Virile affonda le sue radici nell’antitesi uomo/donna, in cui i termini opposti indicano simbolicamente la dicotomia forza/debolezza e le conseguenti dimensioni sociali di potere/sottomissione. Ciò spiega come Giulia, temendo tutte le emozioni che la fanno sentire debole, donna quindi, tenti di negare la debolezza ed aderisca a linee di pensiero che illusoriamente la facciano sentire forte, dominante, identificandosi in modelli maschili. Così ogni comportamento della paziente acquisisce una coloritura maschile, dall’abbigliamento, all’acconciatura, all’espressione verbale. Naturalmente tale processo mentale è largamente inconscio. Ne “I Verbali della Società Psicoanalitica di Vienna” (Ferrigno et Al., 2006) Adler precisa che nell’ambito della Protesta Virile l’individuo coscientemente cerca di comportarsi come un uomo, ma inconsciamente vive emozioni femminili cui si oppone. L’esacerbazione dei tratti che la cultura attribuisce alla convenzione maschile (aggressività, decisionismo, intraprendenza) porta nelle relazioni sociali e sentimentali di Giulia i segni della prevaricazione e della volontà di sottomettere. Le scelte amicali e sentimentali ricadono, pertanto, su persone che la paziente considera deboli a lei, inferiori per cultura o collocazione sociale. Le sarà quindi facile, in seguito, sottolineare la propria superiorità intellettuale o economica, con l’intento di porre gli altri “in basso”. Si coglie un riferimento, pur accentuato, al modello materno descritto nei primi ricordi. Giulia delimita progressivamente lo spazio personale di amici e del partner, in particolare, nel tentativo di allontanarli dal loro ambiente e li sottopone a prove continue per valutarne il grado di sottomissione. 63 Anna Liggeri Ferbelli Il caso di Giulia Tenta dunque di riprodurre, con una grossa forzatura, lo stato di potere descritto nei primi ricordi. Anche la scelta di “mezzi femminili” affonda le radici negli strati profondi della personalità, conservando carattere largamente inconscio, sebbene residui una componente di consapevolezza che ne favorisce in parte un uso strategico. L’ostentazione della debolezza, la richiesta esplicita o indiretta di protezione, l’apparente sottomissione sono alcuni movimenti espressivi della Protesta Virile realizzata lungo la linea femminile. Nelle sue relazioni affettive e sociali, Giulia porta questo scambio imprevedibile tra durezza e fragilità, confusivo e disconfermante per i suoi interlocutori. Un ulteriore e più raffinato strumento di dominio. La chiave di lettura della mutevolezza di questi movimenti espressivi risiede nell’impianto antitetico della nevrosi, in cui il gioco ricorsivo tra inferiorità percepita ed ambizione smisurata permea ogni funzione mentale e si esprime nell’elaborazione creativa di tutti i percorsi mirati all’affermazione di sé. Questo movimento progettuale e creativo compenetra tutte le forze, le istanze ed i contenuti della psiche e li unifica nel perseguimento del fine comune rappresentato dalla tutela del sentimento di personalità. Ne deriva che contraddizioni ed ambivalenze esprimono modi diversi di raggiungere l’unico scopo. Adler (1927) afferma che «la vita psichica […] appare in grado di sviluppare, in un impulso innato, la capacità di identificarsi come organo di attacco, difesa, sicurezza, protezione» (p. 36). IX. Il trattamento La paziente ha iniziato il percorso analitico solo da pochi mesi. La motivazione d’accesso, come quasi sempre accade e come sottolinea Kurt Adler (1967), è solamente il tentativo e la speranza di attenuare il disagio esistenziale o ridimensionare la sintomatologia in atto ed autocostruita, ma ormai fuori controllo, non un’autentica, profonda esigenza di cambiamento. Un reale cambiamento comporterebbe la rinuncia consapevole tanto alla meta fittizia perseguita, quanto a tutti gli espedienti creati e selezionati per elevare l’autostima ed allontanare il vissuto d’inadeguatezza. Ciò potrà verificarsi solo nel prosieguo del trattamento, nella fase “trasformativa”, quando la paziente avrà raggiunto un certo grado di coscienza dei propri movimenti psichici. Sulla sorta dell’immagine di sé e della realtà costruita nell’infanzia, Giulia ha creato e collaudato i suoi percorsi affermativi che, da allora, improntano affetti, emozioni, tratti del carattere, fantasie ed anticipazioni, in modo tale da disporla all’isolamento, alla difesa o all’attacco, ma mai alla collaborazione. L’incapacità a collaborare di Giulia si erige pertanto a barriera, creando ostacoli ed incrementando distanze anche all’interno del setting, processo la cui essenza risiede proprio nello scambio empatico. Il concetto adleriano di coppia creativa finalisticamente orientata, riferito al binomio terapeuta/ paziente, colloca, infatti, la relazione emotivamente compartecipe come premessa imprescindibile e fulcro di tutte le fasi della psicoterapia individualpsicologica. L’analista rappresenta l’altro da sé, quindi la logica comune cui la paziente contrappone la propria belligerante logica privata, interponendo una fittizia distanza. In ciò si vale di processi mentali 64 Anna Liggeri Ferbelli Il caso di Giulia già utilizzati, primo fra tutti, e a lei ben noto, il tentativo di svalutare l’altro. Il meccanismo della svalutazione si può esprimere in modo diretto, attraverso ad esempio la disposizione polemica o l’oppositività quasi provocatoria, oppure più indirettamente con l’accentuazione della sintomatologia o con un silenzio ostinato. Ognuno di questi atteggiamenti tradisce il desiderio della paziente di prevalere sugli altri, quindi, anche sull’analista. Frutto del potere creativo individuale, le espressioni della resistenza sono multiformi. Il seguente episodio, ad esempio, illustra un tentativo di svalutazione fallito nei confronti della terapeuta. In concomitanza con un periodo di ferie dell’analista, la paziente, forse per protesta a causa del presunto breve abbandono, consulta un terapeuta di un’altra città e di altra formazione. Questo, sulla base delle insufficienti e tendenziose informazioni di sé che Giulia gli fornisce, sdrammatizza il quadro patologico, invitandola a migliorare la qualità di vita, suscitando in tal modo il risentimento della paziente che si vede poco considerata. Fallisce, dunque, sul nascere un tentativo di mettere in contrapposizione, in gara, i due terapeuti, ponendo sé come oggetto di contesa. Nonostante il proprio insuccesso, Giulia riferisce poi l’accaduto all’analista, con la residua speranza di ferire. L’assenza di reazioni negative, la priva di qualsiasi possibilità di lotta e rende parzialmente conscia la resistenza. Afferma, infatti, che curarla non sarà facile, perché lei non si fida di nessuno. Un monito e una sfida, dunque! Adler sollecita a “ricercare” sempre il fenomeno della resistenza nel corso del trattamento al fine di evitare che l’analista diventi vittima del tentativo operato dal paziente di sottometterlo al suo dominio. Non a caso Adler definisce il setting “campo di battaglia” alludendo alle continue schermaglie che vi si generano. La Psicologia Individuale inquadra il fenomeno della resistenza al trattamento come manifestazione dello stile di vita, mosso dalla volontà di potenza che si avvale dell’aggressività, in opposizione alla Psicoanalisi freudiana che lo interpreta come «azione e difesa della rimozione» (Freud, 1926, p. 99). Ma l’episodio non scoraggia la disposizione combattiva di Giulia, che ricorre alla mediazione della famiglia. Ecco, allora, la telefonata della madre che vorrebbe un appuntamento con la psicoterapeuta per illustrarle i problemi della figlia e, presumibilmente, fornire precise indicazioni sul comportamento da tenere con questa. Un altro tentativo fallito. Poi, ancora, un succedersi di polemiche e contestazioni che, inficiate dall’interpretazione, si trasformano in richiesta di attenzioni per la propria patologia fisica. Giulia è disorientata dalla proposta di collaborazione dell’analista in risposta alla sua dichiarazione di guerra. Col tempo, andati a vuoto altri progetti di lotta, Giulia struttura la propria opposizione in modo antitetico rispetto al passato, pur mantenendo inalterata la finalità autodifensiva. Ad armi, apparentemente deposte, sorridente, addirittura gioviale, tesse lodi all’analista, esprime apprezzamenti fuori luogo, propone reiteratamente un rapporto amicale. Tentativi di seduzione questi, anche piuttosto maldestri. In questo caso i sentimenti vengono utilizzati come strumenti di potere. «La volontà di conquista si indirizza a volte a mezzi femminili e il fatto di risvegliare sentimenti può essere interpretato come espressione della volontà di potenza» (Adler, 1920, p. 151). 65 Anna Liggeri Ferbelli Il caso di Giulia X. Alcune considerazioni La Psicologia Individuale assegna grande rilievo alla tematica dell’inferiorità organica, addirittura tutto l’impianto dottrinario adleriano prende le mosse proprio da tale questione. L’intenzione di questo articolo, tuttavia, non è ribadire l’importanza del suddetto problema, ma evidenziare come l’organo psichico interpreti soggettivamente stimoli, esperienze, ricordi, anticipazioni e sogni ed elabori di continuo sempre nuovi ed immaginifici espedienti mirati a compensare l’inferiorità percepita o, in caso di psicopatologia, a negarla. Il caso di Giulia, qui presentato brevemente, rivela di certo una ricorsività nei movimenti espressivi, ma anche una sorprendente creatività nell’instancabile ricerca di nuove strategie di autoasserimento, siano esse improntate all’attacco piuttosto che alla difesa. Nelle scelte esistenziali della paziente si coglie l’azione del potere creativo che si esprime a diversi livelli e con vari gradi di finzione, dall’interpretazione del reale alla selezione dei percorsi mirati alla sicurezza. L’orientamento di Giulia, sostenuto da una logica autoreferenziale lontana dal sentimento comunitario, si dirige verso quella vittoria fittizia che, secondo Adler, esiste solo nell’immaginazione del nevrotico e ben evidenzia come la nevrosi sia un atto creativo. In questo quadro si inserisce anche la resistenza, in cui la paziente esprime quella stessa componente artistica già manifestata nella sua rete di difese. A proposito della resistenza Adler (1920) afferma: «La stessa ostilità che nella vita avvelena i rapporti sociali del nevrotico, si trova nelle sue relazioni con il medico, ma sotto forma più nascosta. Bisogna ricercarla con cura, perché in ogni terapia ben condotta, essa tradisce la tendenza del malato a raggiungere la superiorità grazie alla sua nevrosi» (p. 61). La locuzione “Terapia ben condotta” sta ad indicare come il fenomeno dell’insorgenza della tendenza a raggiungere la superiorità sia da ricercarsi in ogni terapia e segnali l’opporsi del paziente allo smascheramento delle finzioni rafforzate che hanno favorito la cristallizzazione del piano di vita costruito nell’infanzia e di cui egli inizia ad avere consapevolezza. Ciò sta ad indicare che il percorso terapeutico è impostato correttamente. Le altre Scuole del Profondo condividono questo approccio: la Psicologia Analitica junghiana riconosce la forza della resistenza nell’azione oppositiva del paziente contro i tentativi dell’analista di abbattere la fortezza che lo fa sentire al sicuro. La Psicoanalisi Freudiana definisce tale fenomeno come una tenace forza censurante che il paziente oppone ai tentativi dell’analista di renderlo conscio di contenuti negati. Alla luce di queste considerazioni si può ipotizzare che Giulia, caparbiamente, continuerà per ora a creare originali e raffinati “ostacoli e tranelli” a difesa del proprio Ideale di Personalità e ad interporre una fittizia distanza tra sé e la terapeuta, con la segreta speranza di stabilire anche qui una posizione di dominio. Sarà, pertanto, indispensabile privarla di ogni possibilità di attacco e lotta, conducendola verso la sua prima esperienza collaborativa. In questo progetto, scambi e condivisioni all’interno della coppia creativa non dovranno mai sfuggire ad un attento controllo affinché, come sostiene Adler, il terapeuta non sia mai preso in cura dal paziente. La compartecipazione empatica, incoraggiante e tranquillizzante della relazione analitica, dovrà ridimensionare le esigenze difensive di Giulia fornendole il contenimento ed il sostegno necessari per 66 Anna Liggeri Ferbelli Il caso di Giulia collocarsi in una nuova dimensione relazionale fondata sul sentimento sociale. Lungo questo percorso la paziente scoprirà come la sua visione della realtà sia fondata su ciò che Adler (1920) definisce «falsificazione, amplificazioni tendenziose, attese irrealizzabili, indirizzate verso il quinto atto glorioso (la superiorità personale)» (p. 77) e potrà individuare, finalmente, ambiti più sani in cui possa esprimere produttivamente la propria creatività. BIBLIOGRAFIA ADLER, A. (1912). Über den nervösen Charakter. Wiesbaden: J. F. Bergmann. (Trad. it. Il Temperamento Nervoso. Roma: Newton Compton, 1976). ADLER, A. (1920). Praxis und Theorie der Individualpsychologie. München: J. F. Bergmann. (Trad. it. La Psicologia Individuale. Roma: Newton Compton, 1983). ADLER, A. (1927). Menschenkenntnis. Leipzig: Hirzel. (Trad. it. La conoscenza dell’uomo nella Psicologia Individuale. Roma: Newton Compton, 1994). ADLER, K. A. (1967). La Psicologia Individuale di Adler. In B. B. WOLMAN. (Ed.). Psychoanalytic Tecniques. New York: Basic Books. (Trad. it. Manuale delle tecniche psicoanalitiche e psicoterapeutiche (pp. 319-360). Roma: Astrolabio, 1974). BORGNA, E. (2011). La solitudine dell’anima. Milano: Feltrinelli. FERRIGNO, G. ET ALII (2006). Alfred Adler nei Verbali della “Società Psicoanalitica di Vienna” (19061911). Rivista di Psicologia Individuale, Quaderno n. 14. FREUD, S. (1926). Selbdarstellung. In Gesammelte Werke. Frankfurt: Fischer. (Trad. it. Autobiografia. In Opere, Vol. X. Torino: Bollati Boringhieri, 1978). SHAFFER, H. (1976). La psychologie d’Adler: théorie et applications. Paris: Masson. WAY, L. (1956). Alfred Adler: an introduction to his Psycology. Harmondsworth: Penguin Books. (Trad. it. Introduzione ad Alfred Adler. Firenze: Editrice Universitaria, 1963). Anna Liggeri Ferbelli Via Guala, 56 I-15057 Tortona (AL) E-mail: [email protected] 67 DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 68-75 (2014) ARTE E SOCIETÀ SIBILLA ALERAMO: LA PROTESTA VIRILE NELLA STORIA DI UNA DONNA Simona Brambilla Riassunto Abstract Nella storia di Sibilla Aleramo, madre, scrittrice, poetessa, oltre che impegnata in ambito sociale, possiamo rileggere in chiave adleriana la protesta virile di una donna che ha sfidato le contingenze della sua vita e del suo tempo per affermare le sue convinzioni e il suo senso di libertà. Alla luce di quanto accade nei nostri giorni, la sua vicenda ci sembra più che mai attuale. The MASCULINE PROTEST IN A WOMAN’S STORY. In the story of Sibilla Aleramo, mother, writer, poet and also involved in social work, we can reread from an Adlerian perspective the masculine protest of a woman who defied the difficulties of her life and her times to assert her beliefs and her sense of freedom. In the light of what is happening nowadays, her story seems more relevant today than ever before. Parole chiave Keywords DONNA, MADRE, PROTESTA VIRILE, LIBERTÀ WOMAN, MOTHER, MASCULINE PROTEST, FREEDOM 1. La vita di Sibilla Aleramo Sono state le pagine ingiallite di quegli scritti a richiamare la mia attenzione. Sfogliati e letti molti anni fa, oggi, gli scritti dal 1897 al 1910 di Sibilla Aleramo (Conti, 1978) si rivelano di incredibile attualità. Rina Faccio (il vero nome della scrittrice e poetessa Sibilla Aleramo), nata ad Alessandria il 14 agosto 1876 e morta a Roma il 13 gennaio 1960, ci racconta della sua vita nella sua opera autobiografica più famosa e conosciuta, il romanzo “Una donna” pubblicato per la prima volta nel 1906 (Aleramo, 1906). Primogenita di quattro fratelli, due sorelle e un maschio, visse la sua infanzia a Milano e poi nell’attuale Civitanova Marche, seguendo le vicissitudini di carriera di suo padre, ingegnere e poi insegnante di chimica e successivamente dirigente in ambito industriale. Lo stesso padre le trovò un impiego come contabile presso la fabbrica da lui diretta. Un rapporto pressoché inesistente con la madre, fragile e malinconica, la portò ad una verosimile assenza di un significativo legame affettivo con lei, nonostante il verificarsi di un tentativo di suicidio della madre nel 1889 e il suo successivo ricovero in manicomio fino alla sua morte nel 1917 (Strappini, 1994). Tutto ciò segnerà la sua vita futura: i sentimenti travagliati nei confronti della figura materna rappresenteranno il punto di partenza della sua protesta. Lo possiamo leggere in queste sue parole: «Quante volte ho visto brillare per una lagrima trattenuta i begli occhi profondi e bruni di mia madre! Saliva in me un disagio invincibile, che non era pietà, non era dolore neppure, e neppure reale umiliazione, ma piuttosto un oscuro rancore contro l’impossibilità di reagire, di far che non avvenisse ciò che avveniva. Che cosa? Non sapevo bene. Verso gli otto anni avevo come lo strano timore di non possedere una mamma “vera”, una di quelle mamme, dicevano i miei libri di lettura, che versano sulle figliolette, col loro amore, una gioia ineffabile, la certezza della protezione costante» (Aleramo, 1906, p. 4). 68 A soli quindici anni, per l’affetto profondo e l’ammirazione per il padre, accettò con entusiasmo di lavorare nella sua fabbrica. Esprime così il suo “distacco” dagli operai del tempo: «Io mi esaltavo in cuore misurando la distanza fra noi e “tutti quegli altri”. Quando rientravo a casa dalla fabbrica, col berretto di lana rossa sui miei capelli corti e colla andatura rapida di persona affaccendata, udivo dei sussurri dietro di me: in faccia al caffè i soliti scioperati mi guardavano sorridendo; sentivo che da una parte destavo la loro curiosità, dall’altra offendevo la loro abitudine di veder le fanciulle passar timide, guardinghe e lusingate dai loro sguardi» (Ibid., p. 15). «L’amore per mio padre − dice ancora − mi dominava unico. Alla mamma volevo bene, ma per il babbo avevo un’adorazione illimitata; e di questa differenza mi rendevo conto, senza osare di cercarne le cause. Era lui il luminoso esemplare per la mia piccola individualità, lui che mi rappresentava la bellezza della vita […]. Nessuno gli somigliava» (Ibid., p. 1). Il tutto verrà meno quando scoprirà la relazione del padre con un’altra donna. Rina Faccio fu sedotta e violentata a sedici anni da un impiegato della fabbrica e costretta, successivamente, ad un matrimonio riparatore. Sarà proprio questo atto di riparazione ad interrompere le sue aspirazioni. Il bimbo che nascerà rappresenterà in seguito un ulteriore legame, un impegno riversato totalmente sulle sue spalle e che non modificherà certamente il rapporto con il marito, così lontano dai suoi interessi e soprattutto dai suoi diritti. Oramai ingabbiata, vittima di una violenza sia sessuale che psicologica, iniziò per lei il declino della depressione fino ad un tentativo di suicidio. Sono questi i dati che attingiamo dall’opera autobiografica “Una donna” della scrittrice Rina Faccio che deciderà, proprio in occasione della pubblicazione di questo romanzo, di adottare lo pseudonimo di Sibilla Aleramo (Aleramo, 1906). È allora la nuova donna, Sibilla, che inizia a scrivere, a collaborare con riviste femminili, a produrre recensioni, critiche, ma anche commenti di vita quotidiana (Strappini, 1994), oltre che a collaborare con donne e autrici di successo quali Matilde Serao, Ada Negri, Maria Montessori, Anna Kuliscioff, Alessandrina Ravizza, Grazia Deledda ed Eleonora Duse. Da Milano, il marito la costringe a trasferirsi in un piccolo paese. Privata della sua libertà oltre che della sua dignità, matura la decisione di salvare se stessa da un destino simile a quello di sua madre e di altre donne. Lascia il figlio e per lei inizia una seconda vita. Intraprende collaborazioni letterarie con autori significativi del tempo come Giovanni Cena, che sarà suo compagno per un certo periodo, e Dino Campana oltre che relazioni amorose etererosessuali con Quasimodo, Cascella, Rebora, Boccioni e omosessuali con Eleonora Duse. È sempre la sua personalità ambivalente che la porterà ad un impegno politico dapprima con il partito fascista e poi con il partito comunista. Nel frattempo mantiene alto l’impegno sociale con l’istituzione di scuole e consultori nell’Agro romano e nel Mezzogiorno. II. Il nucleo generatore di “Una donna” Tra gli scritti sopra nominati dal 1897 al 1910 ho scelto di riproporre il nucleo generatore di “Una donna” (Conti, 1978) dove l’ancora Rina Faccio comincia ad abbozzare le problematiche che hanno permeato la sua vita, il focus a partire dal quale svilupperà l’intero suo percorso creativo. Il punto di partenza è la maternità, sicuramente il più bell’evento nella vita di una donna. Proprio 69 Simona Brambilla Sibilla Aleramo: la protesta virile nella storia di una donna per la gioia e la felicità che la maternità arreca, una madre si sacrifica per il proprio figlio al punto da dimenticare completamente se stessa. Se per il suo modo di pensare i figli dovrebbero essere debitori verso chi ha dato loro la vita, nella sua riflessione accenna alla potenziale creatività del nuovo essere che potrebbe così aprire una futura via ai rapporti intergenerazionali: non dunque la pedissequa ripetizione di una routine esistenziale, bensì la formazione di uno stile di vita più consono alle esigenze attuali oltre che proprie dell’individuo. Ecco come si esprime in queste righe: «Tutti siamo ingrati verso chi ci ha generato. Il ricordo e il rimorso di questa ingratitudine ci colpiscono allorché a nostra volta abbiamo, nella maggiore commozione che sia data all’umanità, generato un nuovo essere: e ne consegue istintivamente uno slancio di dedizione, una sete di sacrificio verso questo figlio, quasi per prevenire la di lui ingratitudine, per assicurarci quel conforto che fu da noi negato a nostra madre e a nostro padre, forse anche l’oscuro desiderio di evitare a lui il presente nostro rimorso. Così la triste catena si svolge, ininterrotta, perpetuando sofferenze inaudite, violando l’essenza della vita e della natura. Oggi che si principia timidamente, lentissimamente, a spogliarci dei pregiudizi interiori, ben altrimenti possenti e radicati di quelli che crearono leggi e regole sociali, a scorgere, pur tra l’ombra incombente, alcune verità semplici e profonde, si dovrebbe tentare di rompere il filo assurdo e insieme logico che tramanda come un dovere l’idea del sacrificio, da discendenza a discendenza. Che ogni essere viva per la maggior sua espansione, non intralciando altrui ma nemmeno ad altri sottomettendosi, dovrebbe essere la norma unica. Quando il figlio saprà che la madre non ha rinunciato per lui alla sua parte di sole, di amore, di lavoro, di lotta, che ha rispettato in se stessa i diritti umani, saprà a sua volta essere intrepido nella conquista del bene, a sua volta non troncherà la sua esistenza miseramente, per un’astratta quanto falsa concezione del dovere dei genitori verso i generati. Egli intenderà che questo dovere va inteso e applicato specialmente innanzi di dar vita al nuovo essere, e che da posteriore deve trasformarsi in interiore: cioè che l’uomo e la donna devono sentire l’immane responsabilità che essi hanno col futuro appunto quando più la vita urge in essi imperiosa, violenta, seduttrice: attraverso la fiamma sovrumana e misteriosa dell’amore essi non devono obliare la funzione suprema e insieme precipua di questo sentimento che li unisce attraverso lo spazio, le cose, talvolta perfino attraverso altri esseri: devono conservare lucida la coscienza visuale, sì che riesca loro possibile attingervi la certezza di portare gli elementi necessari per la formazione di una creatura integra e possente, degna di vivere, degna di glorificare la vita. Allorché la coppia può avere in sé questa superba sicurezza, allorché da essa il nuovo fiore umano è nato, essa ha pagato il suo tributo alla specie: se debitore vi ha, in questo miracolo della perpetuazione della vita, quegli è il figlio, da quel momento. E adesso rinnoverà l’antica vicenda ereditaria assumendo e perfezionando, quando avrà raggiunto il rigoglio della virilità, l’alto senso di responsabilità verso la creazione di un uomo, d’ un’èra, d’un mondo. Fardello grave sempre questo che l’una discendenza passerà all’altra − e come potrebbe esser bella e forte la vita senza una gravità serena e conscia? − ma non più materiato di amarezze, di ironia, di tutte le atroci sofferenze sterili indissolubili dal retaggio fin qui consacrato in forza di virtù 70 Simona Brambilla Sibilla Aleramo: la protesta virile nella storia di una donna negative, di bontà cieche, d’istinti deboli sopraffatti da artifici sentimentali». (Giugno 1901, dopo una notte insonne). Se questo brano è il “nucleo generatore” del romanzo, in esso vi sono i presupposti che porteranno alla massima espressione la protesta virile della donna che lo ha scritto. Comprendiamo dunque come, adottando lo pseudonimo di Sibilla Aleramo, la ormai celata Rina Faccio, abbia pensato di iniziare la sua “seconda vita”, coerentemente con le sue intime scelte di compenso, oltre che con le rivendicazioni e ribellioni di cui sarebbe stata poi protagonista. È lei il “nuovo essere” che individualmente e poi collettivamente reagirà alla condizione del tempo. III. La protesta virile di “Una donna” Se vogliamo ripercorrere la vicenda di Sibilla Aleramo in un’ottica adleriana dobbiamo riferirci alla sua costellazione familiare, all’insieme delle persone con lei conviventi e che influirono su di lei nel periodo dell’età evolutiva. Sono fondamentali per l’individuo (Adler, 1927; Pagani, 2003; Parenti, 1983) i primi quattro o cinque anni della sua esistenza per la formazione della sua personalità, confermando quindi l’importanza del contesto familiare e sociale in cui il bambino nasce e poi cresce, oltre che delle sue doti genetiche ereditate. È così che ogni soggetto impronta il proprio stile di vita agli stimoli che riceve nell’ambito familiare, accogliendoli o rifiutandoli, secondo le proprie specifiche caratteristiche e attitudini. La relazione “con” i genitori e “tra” i genitori, “con” i fratelli e “tra” i fratelli, in altre parole “con” l’altro, fornisce al bambino la capacità di pensare l’altra persona e quindi di comprenderla, rappresentandosi così come dovrebbero essere i rapporti e le relazioni tra le persone. Questi presupposti sono alla base dello sviluppo del sentimento sociale e il contesto sociale, percepito soggettivamente dal bambino, offrirà il terreno opportuno per lo sviluppo e la crescita di questa potenzialità innata (Adler, 1935). La figura materna rappresenta il «primo ponte verso la vita sociale» (Ansbacher & Ansbacher, 1956, p. 416), anche se pure alla figura paterna Adler riserva un ruolo educativo e cooperativo «con la propria compagna nella cura e nella protezione della famiglia, su un piano di reale uguaglianza» (Ibid., p. 418). Tornando alla scrittrice, la figura della madre, dal carattere dolce e remissivo, «cenerentola della casa» (Aleramo, 1906, p. 3), «poco temuta da noi bambini, poco ubbidita» (Ibid., p. 4) e quella del padre, tipico uomo borghese, oltre che il contesto socioculturale del tempo, la portarono a momenti di riflessione profonda da lei definiti «uno di quegli stupori meditativi che costituivano il secreto valore della mia esistenza» (Ibid., p. 5). Dei rapporti con i genitori e in seno alla fratria ella dice: «Ero la figliuola maggiore, esercitavo senza timori la mia prepotenza sulle due sorelline e sul fratello […] io avevo salute, grazia, intelligenza − mi si diceva − e giocattoli, dolci, libri, e un pezzetto di giardino mio. La mamma non si opponeva mai a’ miei desideri. Perfino le amiche mi erano soggette spontaneamente» (Ibid., p. 1). Da questi presupposti individuali inseriti nel contesto familiare, storico e socio-culturale del tempo, possiamo leggere, quale linea di compenso, una protesta virile che riveste il significato di rivendicazione del suo diritto in quanto donna ad essere non solo oggetto d’amore, ma soprattutto 71 Simona Brambilla Sibilla Aleramo: la protesta virile nella storia di una donna persona, individuo, unicità. Nella teoria adleriana, in senso cronologico la protesta virile rappresenta in un primo tempo la legge del movimento, dal minus al plus, dal “femminile” al “maschile”; in seguito essa si trasformerà, «evolvendosi in altre formulazioni e, infine, [… nel] concetto di “aspirazione alla superiorità o alla perfezione|”» (Ferrigno, 2006a, p. 78); l’aspirazione alla superiorità, vera e propria gara che l’individuo indice con se stesso non per competere con i propri simili ma per raggiungere la perfezione (Adler, 1933; Pagani, 2003), rappresenta il dinamismo dialettico-compensatorio del sentimento di inferiorità. Quando l’aspirazione alla superiorità sostituirà il concetto di protesta virile, codesto termine verrà circoscritto al significato di lotta della donna che protesta contro il proprio ruolo femminile, contro il potere maschile (Ansbacher & Ansbacher, 1956). Nell’impianto teorico della protesta virile sono pertanto compresi molti argomenti cardine della Psicologia Individuale: il pensiero antitetico, il concetto di compensazione, l’identità socio-sessuale, l’ermafroditismo psichico in un intreccio costante operato dal potere creativo individuale, tra dinamiche psichiche profonde e aspetti sociali (Sanfilippo, 1998). Secondo la teoria adleriana, la protesta virile è «un processo psicologico reattivo, cosciente-inconsapevole, per mezzo del quale l’uomo enfatizza la supremazia della propria virilità e la donna porta avanti la sua rivolta, palese o nascosta, contro l’antico assoggettamento al maschio» (Pagani, 2003, p. 22). La compensazione è sia maschile che femminile e si sviluppa sia con mezzi propri dell’uomo che con mezzi propri della donna (Adler, 1930). Se queste scelte di compenso sono indirizzate in senso individualmente e socialmente positivo, si avrà un effettivo appagamento lungo la linea del fine ultimo prescelto, altrimenti la protesta può radicalizzarsi sotto forma di compensazioni abnormi e fittizie, orientate nel senso della non accettazione di sé e dell’opposizione al mondo (Pagani, 2000). La protesta virile è dunque una dinamica compensatoria, un “artificio” che va a bilanciare il sentimento di inferiorità, un “espediente finzionale difensivo” di cui si serve la volontà di potenza per superare l’inferiorità basica vissuta come ferita ontologica, il tutto in una visione soggettivamente fenomenologica e al contempo sociale. Essa può collocarsi tra la compensazione positiva e la nevrosi, nel qual caso può degenerare in una supercompensazione che porta oltre i confini del “senso comune”. E Sibilla Aleramo è al confine, al “limite”; esprime la sua protesta con tratti affermativi, di coraggio, di intraprendenza, filtrati attraverso un sentimento sociale che riesce sempre a modulare le spinte nevrotiche: la sua personalità creativa «ha incorporato l’idea finzionale dell’equilibrio individuale e sociale» (Mascetti, 2010, p. 120). Già nel 1908 Alfred Adler, preannunciando molti concetti attualmente recuperati e riscoperti, considera la nozione di Zärtlichkeitsbedürfnis, ovverossia il bisogno di tenerezza primaria del bambino, un precursore dell’empatia e, conseguentemente, del sentimento sociale: «il bisogno (Bedürfnis), provato fin dal primo vagito dal bambino, di ricevere tutto ciò che è condensabile col termine “delicato” (Zärt) e, di conseguenza, affetto, cura, amore, coccole, se è riconosciuto, coltivato e fertilizzato con sufficienti attenzioni e scambi di reciprocità da parte del caregiver che si prende cura di lui, consente di “afferrare in alto le stelle eterne” che vivificano un buon “legame di attaccamento”» (Ferrigno, 2004, p. 4), una matrice nutritiva interna, capace di alimentare il «linguaggio della tenerezza, della reciprocità, del sentimento sociale» [Ivi]. 72 Simona Brambilla Sibilla Aleramo: la protesta virile nella storia di una donna Attraverso questo rapporto fisico e insieme psicologico e affettivo si instaurano delle dinamiche relazionali che sanciscono l’essere accolto dell’individuo in una comunità, la conferma del proprio essere e dell’appartenere (Ghidoni, 2006). «L’innato senso sociale si vivifica col tempo, nel linguaggio della tenerezza, della reciprocità, del sentimento sociale» (Ferrigno, 2006b, p. 4). Il “sentimento sociale” è dunque una potenzialità innata la cui evoluzione si sviluppa nel contesto sociale e familiare attraverso il filtro dell’interpretazione soggettiva dello stesso contesto di crescita e di vita (Ansbacher & Ansbacher, 1956). Questo bisogno profondamente radicato in ogni uomo di cooperare e compartecipare emotivamente con gli altri esseri umani diviene la base della relazione, in primis del bambino con la madre e poi dell’individuo cresciuto con il mondo esterno nell’ambito dei compiti vitali dell’amore, dell’amicizia, del lavoro. In tal senso l’individuo non va considerato come essere isolato, ma inserito in un contesto ambientale e socioculturale con il quale interagisce (Ferrigno, 2006a). Infatti «per comprendere ciò che avviene nell’anima umana, occorre appurare come l’individuo si comporti con i propri simili. I rapporti interpersonali sono in parte un’esigenza naturale (e pertanto mutevoli) e in parte determinati da scopi ben precisi […]. La vita psichica dell’uomo può essere compresa solo inquadrandola nell’ambito di queste relazioni collettive» (Adler, 1927, p. 42). Le relazioni significative di Sibilla Aleramo contemplano il rapporto con i genitori (a loro volta generatori di ambivalenza e insicurezza), con i fratelli (nei confronti dei quali esprime prepotenza), con il marito (che le impone sottomissione e violenza), con il figlio (che rappresenta gioia, dedizione ma anche sacrificio). Le sue problematiche persistono dall’infanzia sino alla vita adulta, passando attraverso un’adolescenza segnata dall’esperienza dello stupro. La relazione con la madre si è rivelata fallimentare a favore inizialmente di quella con il padre. Rileggendo in chiave adleriana il ruolo del “paterno”, possiamo osservare come per la scrittrice il padre non abbia rivestito le caratteristiche fondamentali di cooperazione con la propria donna per l’educazione e la crescita dei figli. Il momento cruciale dell’adolescenza è stato, inoltre, per lei “bruciato” dal dramma dello stupro. Il modello maschile, che in questa fase di vita dovrebbe condurre il figlio verso la crescita, l’evoluzione e le nuove esperienze di vita (Ghidoni, 2006) non appare come educativo e normativo, ma si scontra con la delusione di un vissuto della figura del maschio quale abusante e approfittatore. Nella sua meta individuale intravediamo il desiderio di autoaffermazione, di libertà, di espressione della propria identità personale, sociale e sessuale, anche al di fuori della famiglia, in un necessario cammino di rigenerazione che la vede consapevole dell’inutilità individuale e sociale di una dimensione di vita basata sulla rinuncia e sul sacrificio di sé. IV. Riflessioni: dal passato al presente guardando al futuro Dal punto di vista antropologico, è noto che la natura fisiologica della donna è l’espressione della sua sessualità: la donna è legata al suo sesso come al suo destino; per questo anche i giudizi che passano su di lei sono giudizi che passano attraverso il sesso e il suo comportamento sessuale così significativo per la società. Per questo la donna ha potuto operare in proprio solo attraverso vie “eversive” dell’ordine culturale costituito, che, più o meno direttamente, passano attraverso il sesso: prostituzione, verginità, stregoneria, malattia mentale. Tutti momenti, questi, di rottura della norma, 73 Simona Brambilla Sibilla Aleramo: la protesta virile nella storia di una donna i soli in cui è stato concesso alla donna di esprimere il proprio conflitto. Per operare sulla realtà storica la donna, dunque, nel corso del tempo, non ha avuto che una sola strada: rifiutare i valori in cui era stata chiusa. Ma il suo rifiuto si è sempre svolto su linee subordinate alla cultura, anche se eversive, perché sfruttano l’ambivalenza che la cultura stessa assegna alla “potenza” della donna (Magli, 1974). Forse in quest’ottica, possiamo rivedere la storia di Sibilla. La sua protesta non si è fermata solo alla rinuncia del figlio, ma prenderà respiro nelle esperienze successive di vita. Rapporti culturali e amorosi con nomi illustri di uomini e donne del tempo, sino al suo ultimo legame con un uomo molto più giovane di lei. I suoi orientamenti sessuali non appaiono come una “non scelta” di ruolo, richiamando così un ermafroditismo psichico nevrotico, ma si possono leggere come modalità da lei utilizzate per mettere in atto le sue intime finalità prevalenti. A questo punto è possibile un parallelismo con il pensiero di un’altra donna, Simone de Beauvoir (1949) che, ne Il secondo sesso ribadisce che la donna è femmina nella misura in cui ella si sperimenta come tale. Non è la natura che definisce la donna, è lei che si definisce rielaborando in sé la natura, secondo i propri moti affettivi. Il nocciolo dell’esistenzialismo della de Beauvoir è che ogni coscienza si autodefinisce soggetto, contrapponendosi alle altre coscienze e definendole oggetti; ogni coscienza è una trascendenza che realizza la propria libertà in un perpetuo superamento di se stessa in direzione di altre libertà. Se un essere umano rifiuta di esercitare questa libertà, ricade in uno stato di immanenza, e la sua libertà viene degradata al livello di attualità. Chiunque ostacoli o rifiuti la libertà di altri diviene promotore di oppressione. Possiamo leggere l’adleriano concetto di potere creativo dell’individuo, nelle parole conclusive di un’altra opera della de Beauvoir (1964): «di ciò che avviene all’uomo, nulla è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mondo» (p. 102). Come ci ricorda Parenti (1983,) «a cavallo fra l’ottocento e il novecento, le rivendicazioni di ruolo da parte della donna cominciavano appena ad affacciarsi al vaglio dell’opinione pubblica e suscitavano scandalo o derisione[…]. L’essere donna, d’altra parte, comportava svantaggi sociali, minor potere decisionale, alcuni inconvenienti nel gestire le situazioni amorose e alcune antitetiche connotazioni etiche come fonte di peccato» (p. 20). C’è ancora molto di attuale in queste considerazioni, anche se ci troviamo oramai nel XXII secolo. Non passa giorno in cui notiziari o quotidiani non commentino notizie relative alle problematiche delle donne di oggi: dalla ricerca di un proprio ruolo, anche all’interno di quello “materno” per eccellenza (vedi maternità surrogata o utero in affitto), alla condizione della donna con il burka e che in certi paesi come l’Arabia Saudita non può guidare l’automobile; dalle differenze di retribuzioni, di partecipazione politica, di educazione, di diritto alla salute (lo Yemen è in testa alla classifica, mentre l’Italia è al 71° posto tra i paesi mondiali), ai casi di stalking e femminicidio e per rimanere in casa nostra alla problematica delle lavoratrici con figli e della carenza di asili nido (Alesina & Ichino, 2009). Quale il messaggio moderno di Sibilla Aleramo? Sibilla Aleramo fugge dalla triade padre-marito-figlio. La sua realizzazione che sarebbe dovuta essere nel figlio va “oltre” il figlio, verso una meta mai effettivamente raggiunta ma che le permetterà di attuare di volta in volta il suo potere creativo portandola a superare la sua individualità per inserirsi in un contesto più ampio di impegno socio-culturale. 74 Simona Brambilla Sibilla Aleramo: la protesta virile nella storia di una donna Questa è l’ultima frase che leggiamo in Una donna: «Mio figlio può odiarmi, ma non mi deve dimenticare […]. Un giorno le mie parole lo raggiungeranno» (Aleramo, 1906, p. 165). Parole che hanno raggiunto tutti noi, pure noi figli, pure noi donne. BIBLIOGRAFIA ADLER, A. (1908). Das Zärtlichkeitsbedürfnis des Kindes. In A. ADLER, C. FURTMÜLLER. (Eds.). (1914). Heilen und Bilden: Ärztlich-pädagogische Arbeiten des Vereins für Individualpsychologie. München: Reinhardt. (Trad. it. a cura di G. Ferrigno e C. Canzano, Il bisogno di tenerezza del bambino. Rivista di Psicologia Individuale, 59, 2006, 7-15). ADLER, A. (1927). Menschenkenntnis. Lipsia: Hirzel. (Trad. it. La conoscenza dell’uomo nella Psicologia Individuale. Roma: Newton Compton, 1994). ADLER, A. (1930). Das Problem der Homosexualitat. Lipsia: Hirzel. (Trad. it. Psicologia dell’omosessualità. Roma: Newton Compton, 1994). ADLER, A. (1933). Der Sinn des Lebens. Vienna-Lipsia: Passer. (Trad. it. Il senso della vita. Roma: Newton Compton, 1997). ADLER, A. (1935). The Fundamental Views of Individual Psychology. International Journal of Individual Psychology, 1, 3-7. (Trad. it. I concetti fondamentali della Psicologia Individuale. Rivista di Psicologia Individuale, 33, 1993, 5-9). ALERAMO, S. (1906). Una donna. Milano: Feltrinelli, 2013. ALESINA, A. & ICHINO, A. (2009), L’Italia fatta in casa. Milano: Mondadori. ANSBACHER, H. L. & ANSBACHER, R. R (1956). The Individual Psychology of Alfred Adler. New York: Basic Book. (Trad. it. a cura di U. Sodini e A. Teglia Sodini, La Psicologia Individuale di Alfred Adler. Firenze: Martinelli, 1997). CONTI, B. (Ed.). (1978). La donna e il femminismo: Scritti 1897-1910. Roma: Editori Riuniti. DE BEAUVOIR, S. (1949). Le deuxième sexe. Paris: Gallimard. (Trad. it. Il secondo sesso. Milano: Il Saggiatore, 2008). DE BEAUVOIR, S. (1964). Une mort très douce. Paris: Gallimard. (Trad. it. Una morte dolcissima. Torino: Einaudi, 1978). FERRIGNO, G. (2004), L’intersoggettività fra “Adlerismo” e “Teoria della mente”, Editoriale. Rivista di Psicologia Individuale, 56, 3-8. FERRIGNO, G. ET ALII (Eds). (2006a), Alfred Adler nei Verbali della “Società Psicoanalitica di Vienna” (1906-1911). Rivista di Psicologia Individuale. Quaderno n. 14. FERRIGNO, G. (2006b), Alfred Adler e la mente relazionale, Rivista di Psicologia Individuale, 59: 3-6. GHIDONI, C. (2006). Il paterno adleriano, Rivista di Psicologia Individuale, 60, 37-61. MAGLI, I. (1974). La donna un problema aperto. Firenze: Vallecchi. MASCETTI, (2010), Finzioni e stile di vita. Rivista di Psicologia Individuale, 68, 117-122. PAGANI, P. L. (2000). Discorso sulla Psicologia Individuale e sull’eclettismo. Rivista di Psicologia Individuale, 48, 21-39. PAGANI, P. L. (2003). Dal bisogno primordiale alle istanze differenziate: dal “senso sociale” al “sentimento sociale”. Rivista di Psicologia Individuale, 53, 25-29. PARENTI, F. (1983). La Psicologia Individuale dopo Adler. Roma: Astrolabio. SANFILIPPO, B. (Ed.). (1998). Itinerari adleriani. Milano: Franco Angeli. STRAPPINI, L. (1994). Faccio, Rina (Marta Felicina), pseud. Sibilla Aleramo. Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 44 (1994). Disponibile in: http://www.treccani.it/enciclopedia/faccio-rina-pseud-sibillaaleramo_%28Dizionario-Biografico%29/ Simona Brambilla Via Deledda, 20 I-26855 LODI VECCHIO - LO Mail: [email protected] 75 DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 76-80 (2014) CONFRONTI ADOLESCENZE IN CRISI DI SENSO Eugenio Borgna Riassunto Abstract Adolescenze in crisi di senso. L’articolo affronta la crisi o la perdita del senso della vita presso gli adolescenti con conseguente deserto emotivo, noia e rabbia. Il deserto emozionale comporta un inaridirsi delle emozioni e dei sentimenti in un orizzonte di individualismo esasperato. Dalla noia nasce l’impulso verso un divertimento furibondo e verso la disperazione che ne consegue; l’adolescente annoiato vive in un presente che non ha passato e non ha futuro. La rabbia che può sconfinare nella violenza rivolta verso persone e oggetti ci mostra come sia difficile ai giorni nostri riuscire ad accettare il dolore come dimensione ineliminabile della vita. Soltanto l’apertura prospettica verso la speranza può ridare senso a una vita apparentemente senza senso. ADOLESCENCE IN CRISIS OF MEANING. The article deals with the crisis or the loss of the meaning of life in adolescents and the consequent emotional desert, boredom and anger. The emotional desert involves the drying up of emotions and feelings in a horizon of extreme individualism. The bored teenager feels an impulse toward a furious fun with the despair that follows and his indifference towards values lets him live in a present that has no past and no future. Anger that can spill over into violence towards people and objects shows us how difficult it is nowadays to be able to accept pain as inescapable dimension of life. Only the perspective openness to hope can make a seemingly meaningless life worth living. Parole chiave Keywords ADOLESCENZA, SENSO DELLA VITA, DESERTO EMOZIONALE, SPERANZA ADOLESCENCE, MEANING OF LIFE, EMOTIONAL DESERT, HOPE I. Premesse In questo mio discorso vorrei svolgere qualche riflessione sulla fenomenologia di esperienze di vita adolescenziali, oggi sempre più frequenti, contrassegnate da quella che vorremmo definire la crisi, o la perdita, del senso della vita; muovendo da tre possibili ragioni fondazionali che sono il deserto emotivo, la noia e la rabbia. Ovviamente, ce ne sono altre ma queste consentono di avvicinarci agli abissi motivazionali che si intrecciano gli uni agli altri nella genesi di queste crisi alle quali anche la psichiatria, quella fenomenologica in particolare, non può non guardare con grande attenzione. Come ha scritto Nietzsche (1999), chi ha un perché vivere, accetta qualsiasi come; e da qui vorrei iniziare il mio discorso. Come ha scritto Viktor Frankl (1998): «Viviamo nell’epoca del crollo e della vanificazione delle tradizioni. Invece di creare nuovi valori con la ricerca di significati unici, capita esattamente il contrario. I valori universali sono in declino. Questa è la ragione per cui un numero sempre maggiore di persone piomba in un sentimento di assurdità e di vuoto o, come son solito chiamarlo, nel vuoto esistenziale. Tuttavia, anche se tutti i valori universali scomparissero, la vita rimarrebbe piena di significato, dal momento che i significati unici rimangono intatti nella perdita delle tradizioni. Certo, se l’uomo deve cercare i significati anche in un’epoca priva di valori dovrà essere fornito di una forte capacità di consapevolezza. È perciò evidente che in un’epoca come la nostra, un’epoca di vuoto esistenziale, il compito principale dell’educazione non è quello di trasmettere delle conoscenze e delle nozioni, ma piuttosto di affinare la coscienza in maniera tale che l’uomo possa scorgere le esigenze racchiuse nelle singole situazioni». 76 Eugenio Borgna Adolescenze in crisi di senso II. Il deserto emozionale La crisi, e poi la perdita, di senso nella vita hanno molte radici, certo, ma una di queste è rappresentata negli adolescenti e nei giovani, ma anche ovviamente negli adulti, dall’inaridirsi delle emozioni: dei sentimenti. Come dice Umberto Galimberti (2007), quello che nella nostra epoca si avverte sempre di più è la sovrabbondanza di stimoli esterni, e la carenza di comunicazione, che conducono alla indifferenza esistenziale, e alla mancanza di risonanze emozionali, di fronte ai fatti, e ai gesti che si compiono. Ma quali possono essere le cause di questo deserto emozionale? Manca un’educazione emotiva: in famiglia dove gli adolescenti trascorrono il loro tempo con la televisione e con internet come compagni di vita, e a scuola dove non di rado chi insegna si preoccupa di offrire agli alunni conoscenze teoriche e pratiche ma disancorate da una sincera e palpitante partecipazione emozionale al loro destino, e in ogni caso troppo lontane da quelle semplificate, e nondimeno dotate di sensibilità emozionale, della televisione. La scuola non è sempre all’altezza di un’educazione psicologica che preveda una maturazione intellettuale, certo, ma anche una maturazione emotiva. Ad accrescere il deserto emozionale si aggiunga il fatto che i valori dominanti della società di oggi sono incentrati sul successo, sul denaro, sulla negazione del dolore, e della fatica di vivere, e non sono se non di rado indirizzati alla solidarietà e alla comprensione dei doveri, e dei sacrifici. Nel deserto della comunicazione emotiva, che da bambini non ci è arrivata, da adolescenti non abbiamo incontrato, e da adulti ci hanno insegnato a controllare, crescono un individualismo esasperato, e insieme una grande difficoltà ad una riflessione interiore che consenta di creare relazioni autentiche. Ci si avvia, così, ad una lenta desertificazione delle emozioni che sono essenzialmente relazione, e che sono soffocate dalla indifferenza, e dal divertimento, dalla noncuranza, e dalla aggressività; e non si sa più mettere in contatto il cuore con la mente, la mente con il comportamento, e il comportamento con il riverbero emozionale che gli avvenimenti destano nel loro cuore. Ma gli adolescenti e i giovani di oggi hanno soprattutto bisogno di forza d’animo perché non sono più sostenuti da una tradizione, perché si sono frantumate le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito, o si è definitivamente perduto, il senso dell’esistenza, e incerta ne è divenuta la direzione. Le parole che i padri rivolgono ai figli sono insicure e incerte. E la scuola? I professori entrano in classe; ma li vedono in faccia questi ragazzi? Li guardano uno ad uno? Li chiamano per nome, o solo per cognome, quando devono interrogarli? Sanno che la generazione di giovani con cui hanno a che fare, a causa delle rapidissime trasformazioni economiche, sociali e tecnologiche, sono di una impressionante fragilità emozionale? Sanno che l’emozione, se non trova il veicolo della parola, ricorre al gesto che può essere anche quello della violenza: della violenza sugli altri, e talora della violenza su di sé? Come non sapere che le emozioni si lacerano quando i figli non sono più capaci di comunicazione in famiglia, e il solo sbocco comunicativo è quello dell’ambiente scolastico che su queste emozioni dovrebbe riflettere, e lavorare? Questo è il suo primo compito perché senza emozioni non si crea nessun interesse, e senza interesse nessuna volontà di applicazione. 77 Eugenio Borgna Adolescenze in crisi di senso III. La noia La noia, l’esperienza della noia, è un’altra modalità che porta gli adolescenti a smarrire il senso della vita, e dalla noia nasce l’impulso al divertimento e alla disperazione che ne consegue. Si assiste ad una estesa amplificazione della noia, e contemporaneamente alla paura che essa trascina con sé, e che porta alla ricerca di vie di fuga con la ricerca e la realizzazione di occasioni di aggressività che consentano una momentanea interruzione della noia. L’elemento, che sembra più contrassegnare l’orientamento dell’adolescente che si sente annoiato, è l’indifferenza che ha due aspetti: l’indifferenza etica che non consente di distinguere il bene dal male, e quella emozionale che induce a negare valore alle persone, e alle situazioni. L’indifferenza ai valori e agli orizzonti di senso delle emozioni fa vivere in un presente che non ha passato, e non ha futuro. Dalla noia, dall’ansia di uscirne fuori, nasce la condizione di eccitamento momentaneo che sconfina, nelle modalità adolescenziali di gruppo in particolare, in gesti “forti” come sono gli atti aggressivi, i furti, la guida selvaggia in automobile, e, con frequenza crescente, l’assunzione di sostanze alcoliche, e stupefacenti, con le fatali conseguenze. Ma, al di là di questi gesti, la vita emozionale, divorata dalla noia, è arida, senza palpiti spontanei; e come è possibile vivere una vita dotata di significato quando le emozioni hanno smarrito la loro spontaneità, e i loro bagliori? L’ambito più consueto e familiare, nel quale hanno luogo le ambivalenze emozionali e relazionali alimentate dalla noia, è quello di internet. In adolescenza, ma anche in età adulta, internet si costituisce come esperienza antitetica alla noia ma senza che questa ne sia sconfitta: semmai, solo anestetizzata. Ovviamente, internet è rivissuto non come strumento di conoscenza e di formazione, come è, o almeno come può essere, ma come possibilità di mettersi in comunicazione con persone che si incontrano nondimeno a distanza: in una astratta e gelida lontananza. Ma dalla noia può nascere una vera e propria dipendenza da internet: in internet, epifania della razionalità tecnica, si conosce stando fermi, si stabiliscono contatti senza entrare in contatto, si provano sensazioni senza che si abbia vicinanza umana. Ne sono esempio emblematico le amicizie online che nascono nei social network: in essi, che tendono invano a compensare la condizione di isolamento di tanti adolescenti e di tanti adulti, l’amicizia non nasce dal reciproco scambio emozionale, ma solo dalla occasionale e superficiale conoscenza che non lascia tracce nella memoria. Nelle “Pensées” di Blaise Pascal (2000) le correlazioni fra la noia e le sue conseguenze psicologiche, e umane, sono mirabilmente rappresentate, e in qualche modo anticipano quella che è l’attuale fenomenologia della noia: della noia mortale in particolare. La condizione dell’uomo, egli dice, è contrassegnata da queste vertiginose sequenze tematiche: ennui, divertissement, désespoir, agitation e imagination. «Nulla è così insopportabile all’uomo dell’essere in piena inattività, senza passioni, senza occupazione, senza divertimento e senza assidua applicazione». I contesti emozionali delle famiglie, nelle quali nascono e crescono le adolescenze divorate dalla noia, sono contraddistinti dalla inadeguatezza e dalla aridità delle relazioni, dalla incapacità di ascoltare e di rimettere in discussione dialogica le proprie convinzioni, e dalla mancata volontà di confrontarsi con i problemi interiori dei propri figli. 78 Eugenio Borgna Adolescenze in crisi di senso IV. La rabbia L’esperienza della rabbia testimonia, in modi diversi da quelli della noia, delle inquietudini e degli sbandamenti emozionali degli adolescenti e dei giovani di oggi. Anche quando assuma la sua connotazione meno distruttiva, quella della parola, la rabbia modifica il modo di essere del corpo, della mimica, dello sguardo, della voce, e rischia sempre di sconfinare nella violenza indirizzata alle persone e agli oggetti. La prima cosa, che riemerge dalla considerazione psicologica della rabbia, è la tendenza all’actingout: all’impulso inarrestabile all’agire in assenza di ogni adeguata elaborazione psicologica, e di ogni riflessione interiore. La rabbia si manifesta dinanzi ad ogni esperienza di perdita, di scacco, o di défaillance, ostacolandone la comprensione e l’accettazione, e indirizzando all’esterno la colpa del fallimento, e la ricerca della punizione di chi ne sia ritenuto responsabile. Ma l’esperienza della rabbia può insorgere anche quando si abbiano ad intraprendere nuovi percorsi, e a ricercare nuove relazioni, che si rivelano deludenti e diversi da quelli immaginati e attesi, e ai quali non ci si adatta, e ci si ribella, con modalità comportamentali aggressive e distruttive. La nostra epoca tende a presentare un’atmosfera sociale e psicologica nella quale non si pratica l’accettazione della perdita, della sconfitta, della malattia, delle frustrazioni, che si convertono invece in rabbia incontrollata. Ma la nostra è ancora un’epoca nella quale, e non solo nell’adolescenza, si è incapaci, ma non si ammette di esserlo, di svolgere, magari con lentezza e con pazienza, comportamenti adeguati a conseguire le mete desiderate, gli obiettivi ricercati, e si è incapaci di realizzare difese proporzionate alle offese che si subiscono, magari ingiustamente, da parte degli altri. La rabbia diviene protesta, e grido, andando al di là di ogni misura, e di ogni controllo, e di qui le aggressioni che nascono sulla scia di avvenimenti in sé banali. Così un incidente di macchina si accompagna a comportamenti, che giungono non solo a ledere la reciproca dignità ma anche a fare loro del male, e a suscitare sentimenti di avversione e di invidia, di rifiuto e di odio, tali da lasciare tracce che non si cancellano, e che si accrescono nel corso del tempo: aggrovigliandosi, e associandosi, a mille altri ingiustificati motivi di avversione. Con la sua larga diffusione a livello sociale (c’è rabbia nelle famiglie, nella scuola, sul lavoro, sulle strade, nella vita politica) la rabbia ci dice come oggi sia difficile accettare il dolore come dimensione ineliminabile della vita, e solo si abbiano a desiderare analgesie chimiche che, quando non bastino a frenare il dolore, si accompagnano ad esplosioni incontrollate di rabbia. La rabbia è insomma un fenomeno sociale che indica come il nostro sia un tempo che non è alla ricerca di un senso della vita, di un appagamento esistenziale, ma che è alla sola ricerca di soddisfazioni immediate. L’ulteriore analisi tematica della rabbia ci consente di cogliere in essa lo snodarsi di una triplice sfiducia: la sfiducia nel futuro come fonte di infinite nuove possibilità di vita che modificano le attuali; la sfiducia nella dimensione della dualità, della relazione, della partecipazione al destino degli altri, dell’essere in un mondo della vita comune a ciascuno di noi; e infine sfiducia nella volontà degli altri ad accogliere i nostri desideri e le nostre attese: le nostre speranze. Ma, in fondo, nell’esperienza della rabbia si nasconde una protesta invidiosa rivolta verso chi ha e non dà, e verso chi ha, o sembra avere, di più. 79 Eugenio Borgna Adolescenze in crisi di senso V. La speranza Come cambiare, cosa fare, o almeno cosa proporre, dinanzi a condizioni adolescenziali di vita così ferite dal deserto emotivo, dalla noia e dalla rabbia? Sono condizioni di vita nelle quali entrano in gioco motivazioni esistenziali e sociali, psicologiche e umane, religiose e metafisiche, e come arginarle nella loro complessità e nelle loro articolazioni tematiche? Non ho potuto, ovviamente muovendo dagli orizzonti di esperienza e di riflessione della psichiatria, se non indicare, fare la diagnosi, alcune delle motivazioni che mi sono sembrate agire nella concatenazione delle circostanze alle quali ancorare la crisi o la perdita del significato della vita. Il deserto emozionale, la noia e la rabbia sono strutture portanti, ce ne sono altre ovviamente, che stanno a fondamento del malessere adolescenziale e giovanile, oggi dilagante, nel quale si riverberano responsabilità congiunte e molteplici: quelle delle famiglie e delle scuole, delle tecnologie sempre più implicate nell’articolazione di una vita automatizzata e reificata alla quale viene meno la dimensione spirituale. Sì, rinascesse in noi, e nel mondo della vita, la speranza umana e cristiana, la speranza di san Paolo, le cose cambierebbero. BIBLIOGRAFIA BORGNA, E. (2011). La solitudine dell’anima. Milano: Feltrinelli. FRANKL, V. E. (1969). The will to meaning: Foundations and applications of logotherapy. New York and Cleveland: The World Publishing Company. (Trad. it. Senso e valori per l’esistenza. Roma: Città Nuova, 1998). GALIMBERTI, U. (2007). L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani. Milano: Feltrinelli. NIETZSCHE, F. (1999). L’innocenza del divenire. Antologia dai frammenti postumi 1869-1888. Milano: Rusconi. PASCAL, B. (2000). Oeuvres completes, II. Paris: Gallimard. SAN PAOLO. (I sec. d. C.). Le lettere. Torino: Einaudi, 1990. Eugenio Borgna Via Pietra Scritta, 12 I-28021 Borgomanero (No) 80 DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 81-89 (2014) CONFRONTI MEDIAZIONE FAMILIARE E LEGAMI INTERGENERAZIONALI Costanza Marzotto Riassunto Abstract Il testo presenta alcuni dati di ricerca sulla mediazione familiare in casi di separazione o divorzio condotti all’interno del modello relazionale simbolico. Quello che emerge su un campione di 56 coppie mediate tra il 2004 e il 2005 in Italia, da professionisti afferenti a tale paradigma teorico, è che il successo del percorso mediativo è direttamente connesso alla “globalità” di applicazione del modello stesso, ovvero alla trattazione sia dei temi educativi che patrimoniali, alla base dei conflitti post separazione. Inoltre la redazione degli accordi finali avviene più facilmente se il mediatore si attiene alle peculiarità del modello, ovvero nella misura in cui procederà alla redazione di un contratto iniziale di lavoro con la coppia, redigerà congiuntamente un’agenda dei punti da negoziare e accompagnerà i genitori nella negoziazione analitica di tutti gli aspetti in gioco tra cui la possibilità per i figli di continuare ad accedere alle due stirpi familiari, quella paterna e quella materna, fonti della propria identità. FAMILY MEDIATION AND INTERGENERATIONAL TIES. The text presents some research data on family mediation in cases of separation or divorce, carried out within the relational, symbolic model. Between 2004 and 2005 some professionals, related to this theoretical paradigm, mediated a sample of 56 couples in Italy and it emerged that the success of the mediating path is directly connected to the “totality” of application of the model itself, that is to the discussion both of educational themes and patrimonial ones, which are the main reason for the post separation conflicts. Moreover the drafting of the final agreements will happen more easily if the mediator follows the peculiarities of the model , that is insofar he proceeds to the draft of an initial contract of work with the couple, he draws up agenda points to be negotiated and helps the parents in the analytical negotiation of all the aspects at stake, including the opportunity for the children to continue to be admitted to the two family lineages, the paternal one and the maternal one, sources of their identity. Parole Chiave Keywords MEDIAZIONE FAMILIARE, TRASMISSIONE INTERGENERAZIONALE, TRANSIZIONE DEL DIVORZIO, PROCESSO MEDIATIVO FAMILY MEDIATION, INTERGENERATIONAL TRANSMISSION, TRANSITION OF DIVORCE, MEDIATING PROCESS I.Premessa La domanda di fondo che possiamo porci − dopo molti anni di pratica e di formazione nel campo della mediazione familiare come Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia e come Alta Scuola di psicologia “A. Gemelli” dell’Università Cattolica − potrebbe essere così formulata: “Come il modello relazionale simbolico ha influenzato l’intervento con le famiglie nella transizione del divorzio?”. Ovvero, “Cosa caratterizza la mediazione familiare e i gruppi con genitori e figli alla luce di questo paradigma?”. Dopo oltre quindici anni d’interventi clinici e di formazione nel campo della mediazione, “cosa è stato possibile mettere a punto rispetto ad una concettualizzazione specifica della teoria e della tecnica della mediazione familiare?” Facciamo qui riferimento ad un modello organico di conoscenza e d’intervento sulla famiglia, fondato su presupposti antropologici ed epistemologici precisi e dichiarati (Scabini, 1995; Cigoli, 1998; Scabini & Cigoli, 2000, 2012), dove si dispone di una teoria organica del funzionamento familiare applicata per ogni fase del suo ciclo di vita, esplicativa del suo funzionamento “sano” e patologico, che presenteremo brevemente qui di seguito. Fin dall’inizio ripensammo al conflitto inteso come un’occasione di rigenerazione dei legami e non come la ricerca di un semplice compromesso. Inoltre, come affermato in più occasioni, la 81 Costanza Marzotto Mediazione familiare e legami intergenerazionali negoziazione rappresenta una fase del processo trasformativo con la coppia separata, a differenza di altri modelli di soluzione alternativa delle dispute, appiattiti sulle tecniche, per trovare un accordo. Nel corso della mediazione, infatti, l’obiettivo è l’attenzione e la cura del legame come “oggetto terzo”, generato dal legame matrimoniale e ora prodotto dal rito dello “smatrimonio” per usare un termine un po’ insolito che traduce la parola francese “démariage”. È noto a tutti che senza l’altro non ci si separa e che proprio perché c’è stato un engagement reciproco, una presa in carico responsabile tra i partner, ora entrambi sono impegnati nel lavoro di riformulazione del patto, di trasformazione del legame soprattutto in vista della continuità della funzione genitoriale. II. Cosa s’intende per mediazione familiare La mediazione familiare è qui intesa come un percorso di 8/10 incontri di un’ora e mezza ciascuno, di solito a cadenza quindicinale, intrapreso da coloro che vivono un’elevata conflittualità e desiderano prendere accordi portando in salvo il legame che li unisce. Si tratta di un lavoro in cui il professionista (un mediatore appositamente formato), a partire da un ascolto reciproco, conduce il gruppo alla ricerca di soluzioni sufficientemente buone per genitori e figli (nella riorganizzazione della vita familiare dopo la separazione della coppia) o per l’anziano e la sua parentela, in occasione di conflitti tra le generazioni, in presenza di problemi legati alla malattia o alla morte di un componente del corpo familiare. Come noto, la separazione coniugale mette a dura prova il benessere dei componenti la famiglia e i suoi membri corrono il rischio di perdere quella che siamo soliti definire “la continuità intergenerazionale”, il proprium del familiare. Spesso la frattura della coppia rende problematico l’accesso da parte dei figli alle due stirpi, non solo per le difficoltà a frequentare i nonni e i cugini se i due clan sono in rotta tra loro, ma anche perché gli “oggetti del conflitto coniugale” sono spesso gli oggetti/ambiti di trasmissione tra le generazioni. Dalle nostre ricerche e in occasione della permanente revisione della pratica con gli ex-allievi mediatori relazionali simbolici, risulta che nell’“agenda di lavoro” redatta con le coppie all’inizio della mediazione, vengono indicati come temi da trattare, non solo il progetto educativo per i figli in tutte le sue dimensioni, ma anche la divisione del patrimonio familiare (mobile e immobiliare). Fonte di litigi e occasione di accordi sono, come si sa, i beni di famiglia (il patris-munus e il matris-munus): i figli, la casa, gli oggetti dell’arredo, i regali di nozze, tutto quanto si è scambiato in occasione del matrimonio tra un uomo e una donna e tra le due famiglie d’origine. Uno degli effetti devastanti del divorzio è spesso la rottura di qualunque comunicazione tra le due stirpi e la richiesta ai figli di schierarsi da una parte, con la conseguente perdita anche dei beni ereditari in senso reale e/o simbolico. La mediazione familiare, nella misura in cui favorisce non solo il raggiungimento di accordi, ma anche il “rilancio del patto coniugale oltre la sua fine”, è uno strumento prezioso per aiutare le persone a salvaguardare la trasmissione intergenerazionale e a preservare le radici dei figli in entrambe le stirpi, garantendo ad essi la posizione di “essere generato”. Se il principale compito di sviluppo per il corpo famigliare in occasione della transizione del divorzio è quello di realizzare la cooperazione tra ex-coniugi allo scopo di permettere l’esercizio congiunto e responsabile della funzione genitoriale, la presenza del terzo è lì per ricordare la storia familiare e facilitare l’accesso dei figli alle due famiglie d’origine e permettere anche ai nonni la 82 Costanza Marzotto Mediazione familiare e legami intergenerazionali frequentazione e lo scambio di doni con i nipoti. I due ex-coniugi infatti mantengono un compito importante anche rispetto alle generazioni precedenti, per continuare uno scambio e un sostegno reciproco ed evitare il rischio di un appiattimento in una relazione solo duale. Pensiamo in particolare ai pericoli che corre il figlio unico nelle situazioni di un affidamento esclusivo alla madre, quando gli viene chiesto di ricoprire il ruolo di “oggetto totale”, ovvero di svolgere per lei la funzione di partner e di genitore del proprio genitore, come a volte ci comunicano i figli di genitori separati all’interno del Gruppo di parola (Marzotto, 2010b). Per permettere una transizione riuscita i genitori separati che vorrebbero rompere con il passato e se fosse possibile, cancellarlo, vanno accompagnati a realizzare un processo di trasformazione del legame, anche laddove ci sia già stato divorzio legale. Infatti, pensiamo che la cura del legame familiare sia da preservare anche se si è verificata una violazione del patto dichiarato e/o del patto segreto1, anche se c’è stato un tradimento, assai pesante per la coppia, ma non sufficiente per ledere i diritti dei figli a mantenere l’accesso ai due sessi, alle culture dei due nuclei familiari, paterno e materno. È questo uno degli obiettivi principali del lavoro dei mediatori familiari, professionisti, cioè testimoni/rappresentanti del corpo sociale che si prende cura del corpo familiare. III. Alcuni dati di ricerca Qui di seguito presentiamo i risultati preliminari di uno studio valutativo “intra-modello” che abbiamo avviato per verificare empiricamente l’efficacia del nostro approccio e per valutare in particolare: ● in che misura gli interventi di mediazione familiare producono i risultati attesi; ● quali sono i fattori processuali discriminanti, cioè quali le variabili e le condizioni critiche connesse all’esito del processo di mediazione; ● come l’intervento di mediazione (attraverso quali oggetti di negoziazione) favorisce e tutela la trasmissione intergenerazionale. Questa risorsa dovrebbe infatti permettere una ritualizzazione del conflitto coniugale, il suo riconoscimento/identificazione e una sua elaborazione/superamento: in altre parole la mediazione familiare può essere riconosciuta come un sostegno del corpo sociale al corpo familiare per permettere una “nuova pattuizione” tra i genitori. Cioè − se la famiglia è il frutto di un patto dichiarato, indipendentemente dal patto segreto che la sostiene − in occasione della separazione si abbandona o si rompe questo patto dichiarato, ma restano da liquidare altri bisogni soddisfatti dal versante segreto dell’alleanza. E dunque la domanda potrebbe essere così formulata: quale nuovo patto sarà possibile ricostruire affinché non ci sia solo ripetizione o manifestazione di sintomi? Il presupposto è che il matrimonio o la coabitazione portano in sé una dimensione pubblica socialmente importante e che l’assenza di un momento forte di passaggio non aiuta a mantenere 1 Definiamo “patto dichiarato” la promessa di restare insieme nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, come si dice in occasione delle nozze; parliamo di “patto segreto” quando scopriamo, dopo anni o in occasione di una terapia o di una mediazione, l’incastro specifico che ha impegnato i membri di una coppia per soddisfare i bisogni rispettivi, per far fronte alle reciproche attese, contenere le paure e i pericoli della vita. L’elemento cruciale e specifico di questo evento critico è la fine del patto coniugale (contratto esplicito + incastro segreto). Il compito evolutivo ad essa correlato è, conseguentemente, l’elaborazione della fine del patto coniugale ed il rilancio del patto genitoriale: compito che può essere affrontato con esiti differenti e che espone a rischi specifici (transizione, stallo disperante, chiusura endogamica, indifferenza generazionale) (Cigoli, 2000, 2008, 2013). 83 Costanza Marzotto Mediazione familiare e legami intergenerazionali fiducia nel legame. In occasione del divorzio si rischia di interrompere la comunicazione (il livello interattivo), di strappare la relazione (il livello relazionale), ma di non curare sufficientemente il legame sociale (il livello simbolico). Alle nuove generazioni sarà possibile aver cura (essere dei care-givers) di altre relazioni importanti, se le persone avranno fatto esperienza della giustizia e della speranza al di là del conflitto. Ed è nella famiglia che è possibile fare quest’esperienza di base. In occasione del divorzio il rischio è quello di abbandonare la speranza nei legami e di costruirne di sempre più fragili per il timore di soffrire troppo quando questi si romperanno. Nel nostro modello la mediazione prende il posto di un rito di transizione, di un momento in cui riconoscere il conflitto coniugale come un’occasione di individuazione. Un conflitto a nostro parere non sufficientemente riconosciuto, né “permesso”, nei tribunali e nelle cerimonie familiari e sociali. Si tratta di un rito di passaggio per permetterne il riconoscimento, l’ identificazione e l’elaborazione delle sue molteplici dimensioni ed accedere così alla dimensione simbolica, arrivare a scoprirne il significato per sé, per i figli e per i nonni. Parliamo per questo di all issues mediation (Parkinson, 2013) in quanto vi è un’apertura globale a tutti gli oggetti del conflitto e della negoziazione (sia riguardo ai figli che ai beni materiali). Pur mantenendo un controllo del processo, c’è una flessibilità del setting e degli strumenti, dove intravediamo la possibilità di ricorrere anche ad incontri individuali, o con i figli o di “prescrivere” dei compiti attivi di facilitazione comunicativa e di insight emotivo sia in seduta che tra un incontro e l’altro. Già nel 1998, Vittorio Cigoli, in occasione del Convegno internazionale a Lione - FR, introdusse la metafora del mediatore come traghettatore, riconoscendogli un ruolo ben distinto da quello di altre figure professionali. Il mediatore ha per noi compiti circoscritti e uno “stile di lavoro forte” nel senso che utilizza uno stile direttivo nella conduzione dell’incontro ed è incaricato di proteggere le tappe del percorso stabilite nel contratto iniziale, ma in cui sono i partner che indicano la meta, il porto di destinazione. Per questo la mediazione rappresenta una tappa fondamentale nell’impegno del corpo sociale per garantire alle nuove generazioni la possibilità di accesso alle stirpi dell’uno e dell’altro genitore, di pendere da entrambi i rami dei due alberi genealogici. A questo scopo il mediatore relazionale simbolico utilizza spesso il noto strumento grafico simbolico detto “il genogramma o ecogramma” affinché le diverse generazioni possano essere collocate nello spazio e nel tempo della storia familiare (Montagano & Pazzagli,1989). IV. La ricerca: gli obiettivi e il metodo La ricerca si proponeva di verificare l’efficacia dell’approccio transizionale-simbolico alla mediazione familiare non solo “misurando” i risultati ottenuti (ovvero la frequenza dei successi e delle interruzioni), ma analizzando le connessioni esistenti tra le variabili di processo ed i risultati ottenuti. La domanda che ha orientato il lavoro di ricerca non è stata soltanto “se” la mediazione funziona, ma “come” e “perché” funziona. In altre parole si è trattato di un’analisi del processo di mediazione per individuarne i fattori cruciali, specifici e distintivi di questo approccio e dall’altra per esplorare le potenzialità del modello adottato nel promuovere e tutelare la continuità della trasmissione intergenerazionale nelle situazioni di separazione. Il campione comprendeva 56 processi di mediazione familiare condotti secondo questo 84 Costanza Marzotto Mediazione familiare e legami intergenerazionali modello da professionisti formati dallo staff del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica di Milano e ASAG, sulla base di uno schema dettagliato e sistematico, predefinito dall’équipe di ricerca e riferito ad ogni fase del processo. Tra i risultati più significativi, prendiamo in considerazione, anzitutto, la distribuzione di frequenza dei risultati ottenuti. Come è illustrato nel Graf. 1, sembra che il lavoro di mediazione sia molto efficace, poiché produce nel 75% dei casi un risultato positivo (51,8% di accordi completi e 23,2% di accordi parziali o provvisori), poco più del 20% di interruzioni (ovvero di fallimenti ed impraticabilità del percorso di mediazione) e conduce alla riconciliazione in due casi su 56 (3,6%). Graf. 1 - Outcome Veniamo ora a considerare i fattori del processo che possono essere assunti come elementi distintivi dell’approccio teorico-metodologico adottato. La variabile che li riassume in modo sintetico è l’adeguatezza del ruolo del mediatore, misurata in termini di conformità completa/parziale/scarsa rispetto all’identificazione teorica del ruolo stesso. Nel campione preso in esame (cfr. Graf. 2) la tecnica messa in atto dai mediatori risulta adeguata in più della metà dei casi e critica o problematica solo nel 7.1% dei casi. Ovvero quanto più il mediatore si attiene al modello, tanto maggiore è il successo del processo. Graf. 2 – Il ruolo del mediatore 85 Costanza Marzotto Mediazione familiare e legami intergenerazionali Tab. 1 – Le variabili di processo connesse alla costruzione del ruolo Analisi della domanda esplicita o implicita Definizione di un setting forte Negoziazione completa o parziale degli obiettivi Formalizzazione del contratto di lavoro v.a. 47 34 47 25 % 83,9 60,7 83,9 44,6 Totale 56 100,0 Graf. 3 – Gli oggetti di lavoro Già questo livello semplicemente descrittivo di analisi mette in luce alcune indicazioni interessanti e particolarmente evidenti relativamente alla connessione tra le principali variabili di processo ed i risultati. Due aspetti ci sembrano da segnalare: il rapporto tra i risultati del processo di mediazione e, rispettivamente, il ruolo del mediatore (cfr. Graf. 4) e gli oggetti di lavoro (Graf. 5). Graf. 4 – I risultati ed il ruolo del mediatore. 86 Costanza Marzotto Mediazione familiare e legami intergenerazionali Graf. 5 – I risultati e l’oggetto di lavoro. Come è facile osservare queste variabili risultano essere connesse in modo molto evidente. Per quanto riguarda il ruolo del mediatore, si può notare come laddove il ruolo è adeguato (cioè completamente conforme alla metodologia ed alle tecniche che contraddistinguono l’approccio relazionale-simbolico) la frequenza con cui si ottengono interruzioni o fallimenti è del 6.5%, a fronte del 33.3% che si riscontra nel caso di un’adeguatezza solo parziale al ruolo e del 75.0% che si ritrova laddove il ruolo attuato risulta essere difforme da quello teoricamente previsto. Analogamente, ma forse ancor più significativamente, possiamo osservare che quando l’oggetto di lavoro comprende sia l’area della genitorialità sia l’area del patrimonio riscontriamo il 3.7% delle interruzioni, a fronte del 23.1% che si verifica nel caso di un approccio parziale, del 44.4% che si riscontra quando la mediazione è concentrata su elementi specifici della genitorialità e del 50.0% nel caso in cui l’oggetto di lavoro eccede l’ambito proprio della mediazione invadendo ad esempio l’area della consulenza legale o della psicoterapia. V.Conclusione Anzitutto si conferma che quanto più il processo di mediazione riesce ad allargare l’oggetto delle negoziazioni ed il mediatore a mantenersi nel ruolo specifico, tanto più è probabile arrivare ad un accordo di separazione. Ed è interessante notare che questi fattori di processo sono associati anche a quei casi che si concludono con la riconciliazione, mentre i drop out sono associati ad un’applicazione limitata del modello Il conseguimento di un accordo di fronte ad un terzo che copra tutti gli ambiti di conflitto (figli, beni materiali, relazioni parentali) dovrebbe infatti proteggere sia dal rischio della chiusura endogamica, sia dall’indifferenza genitoriale, poiché in mediazione non si può raggiungere un accordo senza il coinvolgimento attivo ed il confronto/dialogo diretto dei coniugi, a differenza di quanto avviene invece quando l’accordo consensuale è raggiunto attraverso una negoziazione delegata agli avvocati o quando la definizione dei termini di separazione viene stabilita dal giudice. Nel nostro caso specifico, poi, lavorando all’interno di una prospettiva che esplicitamente 87 Costanza Marzotto Mediazione familiare e legami intergenerazionali chiama in causa la valenza simbolica/intergenerazionale dei beni oggetto di conflitto ed assumendo come obiettivo della mediazione la facilitazione del transito oltre la fine, ovvero il rilancio del patto genitoriale, è ragionevole immaginare che il raggiungimento di un accordo di separazione comporti una ridotta difficoltà nel consentire l’accesso dei figli alle famiglie di origine di entrambi i genitori e renda quindi più facile la continuità ed il proseguimento delle relazioni intergenerazionali. Se queste sono le finalità e gli obiettivi specifici della mediazione del divorzio, essa non può essere che “scelta”. Sarebbe un controsenso rendere obbligatorio l’accesso a questo percorso in cui il confronto con l’altro – al di là del conflitto e della diversità tra le parti − permette per la presenza di un terzo, una creatività impensabile. Questo è quanto possiamo testimoniare non solo con la nostra esperienza, ma è stato recentemente confermato anche dalla dichiarazione della Fédération Nationale des Centres de Médiation Francese (18.10.2013) in cui si afferma che “ogni tappa del processo di mediazione poggia sulla comprensione, la libera adesione e l’accesso spontaneo a questa via moderna di risoluzione dei conflitti” (la traduzione è nostra). Si parla, infatti, di “libertà di intraprendere, proseguire o interrompere la mediazione, dove le parti stesse redigono un accordo finale e con l’aiuto di un terzo decidono di mettere fine ad un contenzioso, che poi liberamente sceglieranno se sottoporre o meno al giudice per l’omologazione”. Come scrive la collega mediatrice familiare francese Claire Denis (2013), «la mediazione familiare rappresenta un progetto che reintroduce del tempo per parlare, per pensare, creare e ridare il primo posto all’umano». Un percorso che non assolve a tutti i bisogni degli attori in gioco, che si integra con altre risorse rivolte specificamente all’uno o all’altro genitore o ai figli come gruppo bisognoso di mettere parola su cambiamenti sconcertanti. BIBLIOGRAFIA CIGOLI, V. (1998). Psicologia della separazione e del divorzio. Bologna: Il Mulino. CIGOLI, V. & MARZOTTO, C. (1999). Le fait d’être parents après le divorce: une recherche sur la coparentalité. La nécessité d’un nouveau pacte. Journées d’étude «La médiation familiale au XXI Siècle. Le défi de la coparentalité suite à la rupture du couple», Quebec, 23-25.9.1999. DENIS, C. (2013). Trouver. Creer En Mediation. Collectif de recherche practice mediation corem, XIV, 10, 3-4. Disponibile in: http://corem.internetrie.fr/IMG/pdf/journal_corem_010.pdf MARZOTTO, C. (2006). La mediazione nelle relazioni familiari. In E. SCABINI & G. ROSSI. Le parole della famiglia (pp. 243-253). Milano: Studi interdisciplinari sulla famiglia, Vita e Pensiero, XXI. MARZOTTO, C. (2010a). Il paradosso della mediazione familiare. Famiglia Oggi, 2, 16-24. MARZOTTO, C. (Ed.). (2010b). I gruppi di parola per figli di genitori separati. Milano: Vita e Pensiero. MARZOTTO, C. & TELLESCHI, R. (1999). Comporre il conflitto genitoriale. La mediazione: metodo e tecniche. Milano: Unicopli. MARZOTTO, C. & TAMANZA, G. (2004). La mediazione e la cura dei legami familiari. In E. SCABINI & G. ROSSI. Rigenerare i legami: la mediazione nelle relazioni familiari e comunitarie (pp. 71-104). Milano: Studi Interdisciplinari sulla Famiglia, Vita e Pensiero, XX. MARZOTTO, C., TAMANZA, G. & GENNARI, M. L. (2005). La valutazione della mediazione familiare, un’analisi di processo. In R. ARDONE & M. LUCARDI (Eds.). La mediazione familiare. Sviluppi, prospettive, applicazioni. Roma: Edizioni Kappa. 88 Costanza Marzotto Mediazione familiare e legami intergenerazionali MONTAGANO, S. & PAZZAGLI, A. (1989). Il genogramma teatro di alchimie familiari. (Prefazione di V. CIGOLI). Milano: Franco Angeli. PARKINSON, L. (2013). La mediazione familiare. Modelli e strategie operative. Trento: Erickson. SCABINI, E. (1995). Psicologia sociale della famiglia. Torino: Bollati Boringhieri. SCABINI, E. & CIGOLI, V. (2000). Il famigliare. Legami, simboli, transizioni. Milano: Raffaello Cortina. SCABINI, E. & CIGOLI, V. (2004). La mediazione familiare: l’orizzonte relazionale simbolico. In E. SCABINI & G. ROSSI. Rigenerare i legami: la mediazione nelle relazioni familiari e comunitarie (pp. 19-55). Milano: Studi Interdisciplinari sulla Famiglia, Vita e Pensiero, XX. SCABINI, E. & CIGOLI, V. (2012). Alla ricerca del famigliare: Il modello relazionale-simbolico. Milano: Raffaello Cortina. Costanza Marzotto Servizio di Psicologia Clinica per la Coppia e la Famiglia Via Nirone, 15 I-20123 Milano Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia Università Cattolica del Sacro Cuore Milano Largo Gemelli, 1 I-20123 Milano E-mail: [email protected]. 89 DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 90-98 (2014) INCONTRI E INTERVISTE INTERVISTA AD ANDRÉS BUSCHIAZZO di Giuseppe Ferrigno Riassunto Abstract Andrés Buschiazzo è intervistato con una serie di domande, le cui risposte ci fanno capire come la Psicologia Individuale di Alfred Adler sia riuscita a diffondersi in America latina e, in particolar modo, in Uruguay, grazie al lavoro costante di un gruppo di studiosi che arricchiscono quotidianamente il pensiero adleriano con studi e ricerche. Andrés Buschiazzo affronta i concetti basici della Psicologia Individuale, gli ambiti di applicabilità, il concetto di “malattia mentale”, le fasi in cui si articola una psicoterapia adleriana, l’importanza dell’Etica e della Deontologia e infine ci descrive lo sviluppo e gli obiettivi del “Centro de Estudios Adlerianos” di Montevideo, Uruguay. INTERVIEW WITH ANDRÉS BUSCHIAZZO. Andrés Buschiazzo is interviewed with a series of questions and his answers make us understand how the Individual Psychology of Alfred Adler was able to spread in Latin America and especially in Uruguay, thanks to the constant work of a group of scholars who daily enrich Adlerian thought with studies and researches. Andrés Buschiazzo discusses the basic concepts of Individual Psychology, the areas of applicability, the concept of “mental disease”, the phases of an Adlerian psychotherapy, the importance of Professional Ethics. Finally he describes the development and the aims of “Centro de Estudios Adlerianos” in Montevideo, Uruguay. Parole chiave Keywords INTERVISTA, URUGUAY, CENTRO DE ESTUDIOS ADLERIANOS, MODELLO ADLERIANO INTERVIEW, URUGUAY, CENTRO DE ESTUDIOS ADLERIANOS, ADLERIAN MODEL Inauguriamo la sezione “Incontri e interviste” sulla scia della volontà di accendere un ininterrotto dialogo che diventa un affettuoso abbraccio fra gli adleriani sparsi nel mondo, presentando a tutti i Lettori come primo ospite Andrés Buschiazzo, psicologo clinico, psicoterapeuta adleriano, coordinatore di gruppi terapeutici, Liaison Officer dell’International Association of Individual Psychology (IAIP), professore presso il “Centro de Estudios Adlerianos” di Montevideo, Uruguay. Andrés Buschiazzo ha insegnato presso la facoltà di Psicologia de “Universidad de la República” ed è attualmente editorialista sia nel portale Psyciencia (Argentina) sia nella “Pubblicazione Ufficiale” curata dal “Centro de Estudios Adlerianos”. Attraverso una serie di domande a cui Andrés Buschiazzo risponde in modo chiaro e sintetico, possiamo capire come la Psicologia Individuale di Alfred Adler sia riuscita a diffondersi e ad attecchire nel mondo, anche in America latina e, in particolar modo, in Uruguay, grazie al lavoro capillare, costante e appassionato di un gruppo di studiosi che con entusiasmo e deteminazione arricchiscono quotidianamente il pensiero adleriano con contributi, studi e ricerche. Molto interessante mi sembra, in particolare, la parte dell’intervista in cui Andrés Buschiazzo affronta il tema a noi molto caro del concetto di “malattia mentale”. L’intervista sarà seguita da un articolo dal titolo “Lo stato epistemologico della Psicologia Individuale”, scritto da Yaír Hazán, psicologo clinico, professore di psicologia, analista adleriano, Presidente Onorario e Didatta del “Centro de Estudios Adlerianos” di Montevideo, Uruguay. L’articolo approfondisce quanto è stato detto nell’intervista del dott. Andrés Buschiazzo e riprende alcuni nuclei tematici adleriani, analizzandoli in un’ottica di confronto e di dialogo col “Gruppo di studi adleriano” dell’Istituto Alfred Adler di Milano: soltanto attraverso il dibattito e la discussione si può contribuire ad arricchire la teoria e la pratica della Psicologia Individuale. 90 Giuseppe Ferrigno Intervista ad Andrés Buschiazzo Quali sono a suo parere le basi epistemologiche che caratterizzano con più pregnanza il modello adleriano? La psicologia adleriana, il cui finzionalismo è di derivazione neo-kantiana, è una psicologia: a) del profondo; b) costruttivista; c) finalista; d) olistica. a) La teoria dell’inconscio formulata da Freud, pietra angolare della Psicoanalisi, ha come presupposti lo “spiritismo” e l’“ipnosi” di Mesmer: «l’uomo ha sempre saputo che l’animo umano è come un iceberg che, per la maggior parte, è nascosto ed invisibile». Janet è un altro dei progenitori più rilevanti di tale teoria, con la sua formulazione delle “idee fisse subconsce” e, per questo, può essere considerato come l’iniziatore della “psicologia del profondo”. Ernest Becker afferma che Adler, Stekel, Jung e Rank svilupparono la teoria del profondo modificando alcuni dei postulati maggiormente dominanti nell’epoca: il realismo ingenuo ed il positivismo. Questi autori smisero di credere che si possa conoscere la realtà direttamente attraverso i sensi, attribuendo maggiore importanza all’interpretazione soggettiva. Per Adler l’inconscio smise di essere un’entità separata dalla coscienza e lo concettualizzò come un continuum, «come quella parte che l’individuo conosce ma che non comprende come facente parte del suo finalismo». Nel 1912, dopo che Alfred Adler si era allontanato definitivamente dalla “Società Psicoanalitica di Vienna”, anche Stekel si ritira contestando l’ipotesi dell’inconscio e sostenendo che la teoria della bipolarità fosse sufficiente per interpretare i contenuti psicologici. b) L’uomo conosce il mondo attraverso idee e ipotesi, che si muovono parallelamente alla realtà, funzionali ai finalismi dello stile di vita. Il filosofo Hans Vaihinger nella sua opera “Die Philosophie des Als Ob” (“La filosofia del come se”) formula il concetto di “finzione” e dice che “la scienza è l’errore più utile”. Non esistono verità permanenti, ma solo transitorie ed il cambiamento è l’unica realtà (Claxton). «Pensiamo, conosciamo e costruiamo concetti, non per scoprire la verità, ma per procurarci mezzi e supporti allo scopo di preservare la vita e migliorarla indipendentemente dalla verità e dalla validità universale» (Vaihinger). I postulati di Kelly, di derivazione adleriana, sono i seguenti: 1) l’uomo può essere considerato come un potenziale scienziato e 2) ogni individuo edifica costrutti personali unici attraverso i quali egli vede il mondo. L’uomo scienziato, come metafora, è un’astrazione di tutta l’umanità e non una concreta classificazione di particolari uomini. Come diceva Kant, è impossibile conoscere la realtà tale e quale a quella che si presenta a noi; disponiamo solamente di mezzi e di strumenti compresi in un’ipotesi teorica che ci consente si avvicinarci approssimativamente ad una realtà in continuo cambiamento. Kelly parla di “alternativismo costruttivo” dicendo che la persona come lo scienziato si pone continuamente domande sul proprio mondo, con l’illusione di poterlo comprendere meglio. Adler ha svincolato l’uomo da dottrine restrittive come quella basata sul paradigma “stimolorisposta” e sulle “teorie pulsionali” (Trieb) della personalità. Kelly, mezzo secolo più tardi, ci dice che l’uomo nasce “vivo e lotta in un mondo psicologico” e rifiuta l’ipotesi di istinti “pulsionali” o di stimoli “attivatori” dell’organismo. Il presupposto fondamentale dell’autore sta nell’affermazione che tutte le interpretazioni che si formulano sul mondo sono soggette a revisioni o a sostituzioni. M. L. von Franz prospetta nel suo libro “Alchimia” l’impossibilità di relazionarsi con una per91 Giuseppe Ferrigno Intervista ad Andrés Buschiazzo sona senza “proiezioni”. L’inizio di qualsiasi conoscenza di qualcosa o di qualcuno è una proiezione inconscia che successivamente deve essere corretta. Fuori dalla proiezione non si può vedere niente. La filosofia hindi afferma che la totalità della realtà è una proiezione (Maya). La realtà esiste perché costruiamo proiezioni su di essa. Secondo Piaget: «���������������������������������������������������������������������������� Mai possiamo conoscere veramente l’ambiente, se non le sole nostre ricostruzioni. La realtà è sempre una ricostruzione dell’ambiente, mai una copia». c) L’obiettività e la causalità sono i pilastri del positivismo analitico che ha una peculiare propensione a separare fatti, dati e meccanismi e a ridurre gli eventi a cause naturali. Per Ansbacher il pensiero causale si domanda il “perché”, da cui dipendono risposte del tipo «Se… allora». «Se sono cattivo, (quindi) andrò all’inferno», pensa il bambino, «però se prego la sera, (quindi) andrò in paradiso». Szasz in “Ideologia e malattia mentale” afferma che la malattia mentale è una metafora che ha finito per essere considerata come un dato di fatto. Anche Adler ha affermato che tre sono i compiti vitali dell’uomo: lavoro, relazioni sociali e sessualità. Szasz allo stesso modo tenta semplicemente di definire le difficoltà degli uomini comuni come “Problemi della vita”, che per la psichiatria e la psicologia sono stati ridotti alla malattia mentale. Il concetto di malattia mentale deriva il suo fondamento principale da fenomeni come la sifilide cerebrale o come gli stati deliranti, in cui le “persone” possono manifestare disturbi del pensiero e del comportamento. L’autore è preciso quando ci riferisce che queste sono malattie del cervello e non della mente. Per alcune scuole, tutte le patologie chiamate malattie mentali sono di questo tipo e partono dall’idea che, con una perizia esaustiva, si scoprirà un difetto neurologico che spieghi tutti i disturbi del pensiero e del comportamento. Solo pochi scienziati ritengono che i disturbi o, come Adler li definisce, le “deviazioni sociali”, possono derivare da esigenze personali, da opinioni soggettive, da aspirazioni e valori sociali. Il modello medico classico attribuisce queste difficoltà a processi fisico-chimici. Szaz denuncia due errori fondamentali nella concezione della malattia mentale. In primo luogo, una malattia cerebrale, come avviene in una malattia al piede o alle ossa, implica un difetto neurologico, non un problema legato al vivere. Per esempio, si potrebbe spiegare una diminuzione del campo visivo associandola a qualche lesione del sistema nervoso. Al contrario, l’opinione di un individuo che si riferisca all’ambito religioso o al contesto politico oppure l’idea che qualcuno dei suoi organi stia marcendo e che sia persino morto, non potrebbe essere spiegato solo a causa di un difetto o di una malattia del sistema nervoso. Il secondo errore è epistemologico e consiste nell’interpretare le comunicazioni riguardanti i nostri simili e il mondo che ci ruota attorno come sintomi del funzionamento neurologico. L’errore non è di osservazione, ma di organizzazione e di comunicazione della conoscenza. L’errore consiste nel decretare un dualismo fra sintomi fisici e mentali, dicotomia che è un’abitudine linguistica e non il risultato dell’osservazione empirica. La credenza nella malattia mentale come se fosse qualcosa di differente dagli inconvenienti incontrati dall’uomo nel cercare di stare in armonia con i propri simili è l’eredità della credenza nei demoni e nelle streghe. Così, la malattia mentale esiste o è “reale” esattamente e nello stesso senso in cui le streghe ed i demoni esistevano o erano “reali”. In accordo con questo modo di pensare prodotto dalla causalità, si potrebbe affermare assieme a Szasz: «Al posto di 92 Giuseppe Ferrigno Intervista ad Andrés Buschiazzo nascere peccatore, l’uomo nasce malato». Questa è l’eredità ricevuta dalla psichiatria dalla teologia imperante. Lo scrittore Anatole France criticò il positivismo, affermando che tale teoria: «Ispirata dall’amore, è triste e tirannica. In essa si regolano strettamente gli atti della vita e del pensiero. Essa converte l’esistenza in una figura geometrica. La minore curiosità intellettuale si ritrova condannata». Adler riuscì a superare la causalità imperante dell’epoca e concedette maggiore rilevanza alla finalità, eliminando le categorie diagnostiche. La psicologia adleriana considera che il comportamento è diretto verso mete finzionali. Sebbene si tenga conto della causalità (perché), si dà maggiore enfasi alla teleologia (a quale scopo), all’intenzionalità del comportamento e all’interpretazione soggettiva dei fatti. Lidia Sicher, una delle prime discepole di Adler, classificò gli esseri umani in orizzontali ed in verticali. L’uomo verticale è quello che punta al potere (“basso/alto”). Mentre l’uomo orizzontale è più democratico e tende a salire dal “meno al più”. d) Il filosofo sudafricano Smuts ha coniato il termine “olismo”, una parola greca che significa totalità e che è concepita in riferimento all’universo, «un impulso verso la completezza, la totalità che si manifesta in ogni individuo sotto forma di spinta verso lo sviluppo, la crescita, l’evoluzione che emerge dall’interno e che si attua nel proprio ambiente, partendo da se stesso» (Ellenberger). Ira Progoff nella sua opera “La psicologia profonda e l’uomo moderno” dice che Adler e Smuts fossero arrivati alla stessa conclusione: che l’obiettivo della psicologia è lo sviluppo delle potenzialità dell’essere umano per indurlo a saper guardare al futuro con ottimismo. In quali ambiti, a suo parere, è possibile applicare la Psicologia Individuale? D’accordo con quanto espresso nell’ultimo “Congresso di Psicologia Individuale” (Vienna 2011) dal Presidente Onorario Dr. Gian Giacomo Rovera, la Psicologia Individuale corre su tre corsie: la psicoterapia, il counseling e l’educazione. “El Centro de Estudios Adlerianos” nel 2010 ha fondato le prime cliniche adleriane per giovani, genitori ed insegnanti in Sudamerica. Esse rappresentano una riproposizione del lavoro di Alfred Adler, di Oskar Spiel e di Ferdinand Birnbaum, svolto dopo la Prima Guerra Mondiale. Ricordiamo, grazie a Roll May, che sulle porte delle cliniche era affisso un cartello con un messaggio che diceva: «Mai è troppo tardi». Come si articola una psicoterapia adleriana? La psicoterapia adleriana, grosso modo, può dividersi in tre fasi: 1) Relazione terapeutica, che consiste nella costruzione di un buon rapporto col paziente, nella riduzione delle sue resistenze e nella capacità del terapeuta di creare un clima di empatia. 2) Anamnesi, che ha lo scopo di individuare le finalità del comportamento (il perché), di comprendere il piano di vita inconscio e la costellazione familiare. 3) Esplicazione (interpretazione) che consiste nella spiegazione delle motivazioni inconsce e degli effetti di un comportamento inadeguato. Il processo d’incoraggiamento empatico (Ferrigno 2013) 93 Giuseppe Ferrigno Intervista ad Andrés Buschiazzo è l’aspetto più importante in questo momento, perché è indispensabile che il paziente adotti comportamenti costruttivi e sviluppi il sentimento di comunità (“Gemeinschaftsgefühl”). Che importanza hanno l’etica e la deontologia in una terapia adleriana? L’analista didatta Prof. Yaír Hazán sottolinea che l’etica e la deontologia sono elementi fondamentali del setting adleriano. Nell’atto del conferimento della laurea al termine dell’iter di “Formazione degli Psicoterapeuti”, ogni analista deve conoscere e sostenere i tre grandi voti del silenzio che rappresentano ciò che guidano la professione dell’analista adleriano. Questi sono i principi esposti da Künkel. Il primo voto è il segreto confessionale, lo stesso dei sacerdoti cattolici. Tutto ciò che il paziente dice rimarrà nella mente dello psicoterapeuta con assoluta riservatezza, “I segreti del paziente rimarranno al sicuro” e per raggiungere ciò è necessaria un’analisi completa della personalità dello psicoterapeuta. Il secondo è il voto della sincerità, con l’apertura a nuovi elementi e contenuti a beneficio del bene comune e della società tutta: essere artista e strumento di vita per portare pace e gioia nella comunità. Il terzo voto, quello della continuità, ci impone lo sforzo di continuare a studiare senza né classificare né stigmatizzare i pazienti. Può descrivere ai lettori cos’è il “Centro de Estudios Adlerianos”, il “Centro di studi adleriani”? Il “Centro de Estudios Adlerianos” (“Centro di studi adleriani”) viene fondato il 28 maggio 1997. È una associazione scientifica senza scopo di lucro, erede dei principi di Alfred Adler, membro della “International Association of Individual Psychology”����������������������������������������������� ���������������������������������������������� (IAIP) e della “Federazione Uruguaiana di Psicoterapia” il cui principale obiettivo è quello di diffondere la teoria adleriana e formare analisti psicologi e psichiatri. I requisiti per ottenere il titolo di psicoterapeuta adleriano, secondo quanto disposto dalla regolamentazione nazionale e internazionale, prevedono che il candidato debba aver effettuato la formazione teorico-pratica con un minimo di 844 ore di insegnamento, un’analisi personale non inferiore alle 300 ore e un’analisi didattica di 100 ore. L’aspirante psicoterapeuta, inoltre, deve aver partecipato a progetti comunitari e di ricerca che il “Centro adleriano” attiva nella comunità. (Traduzione dallo spagnolo a cura di Giuseppe Ferrigno e Alberto Gennari) 94 DIALOGHI ADLERIANI I, n.1, 95-100 (2014) INCONTRI E INTERVISTE LO STATO EPISTEMOLOGICO DELLA PSICOLOGIA ADLERIANA Yaír Hazán Riassunto Abstract L’articolo analizza lo stato epistemologico attuale della psicologia adleriana, iniziando da Platone per giungere a Kant, a Vaihinger. Illustra i rapporti fra modello adleriano e altri modelli (Gestalt, comportamentismo, cognitivismo, psicoanalisi di Freud e psicologia analitica di Jung). In conclusione, fa un breve riepilogo delle caratteristiche essenziali della Psicologia Individuale che è un modello olistico, teleologico, creativo, soggettivo, relazionale all’interno di una psicologia del profondo. THE EPISTEMOLOGICAL STATUS OF ADLERIAN PSYCHOLOGY. The article analyzes the current epistemological status of Adlerian Psychology starting from Plato up to Kant and to Vaihinger. It explains the relationship between Adlerian model and other models (Gestalt, behaviorism, cognitivism, the psychoanalysis of Freud and the analytic psychology of Jung). Finally, it sums up briefly the essential features of Individual Psychology, which is a model not only holistic and teleological, but also creative, subjective, relational within a depth psychology. Parole chiave Keywords EPISTEMOLOGIA, TELEOLOGIA, OLISMO, RELAZIONE EPISTEMOLOGY, TELEOLOGY, HOLISM, RELATIONSHIP I.Premessa È un tema di grande complessità. La tradizione filosofica dalla Grecia classica divide il mondo in due: il mondo sensibile e il mondo intellegibile. Il primo è il mondo della doxa (in greco significa opinione) che è il contrario di epistème (in greco significa scienza), così da Platone a Kant c’è un salto storico, ma non concettuale. In questo cammino verso la soggettività abbiamo scoperto che fra l’uomo e il suo habitat c’è un conflitto o corto circuito, come dice Cassirer (1923-1929). Questo divario è riempito dal simbolo (dal greco sym=con; ballein=lanciare). Un simbolo è un oggetto, caricato d’interpretazione (in tedesco si dice Deutung), che comporta un certo grado di soggettività e di significato (in tedesco si dice Bedeutung). Mentre Adler è ai primi e audaci passi sulla via che lo condurrà alla teoria del costruttivismo, la Psicoanalisi trasporta ancora tutti gli orpelli di un realismo ingenuo mescolati con elementi di positivismo logico. All’altra estremità troviamo, invece, Watson e il comportamentismo che rifiutano il concetto di coscienza, perché «non l’ho mai visto in una provetta» (Watson, 1914). Freud, per portare in primo piano il concetto di un inconscio inconoscibile (Ellenberger, 1970) si occupa dei simboli senza riuscire ad approfondire la loro polisemia, arrivando a dire (ingenuamente) a Jung «Chi farà il nevrotico il giorno in cui si riusciranno a decifrare completamente i simboli?» (Jung, 1962). È possibile considerare Freud, Pavlov e Watson come rappresentanti della “psicologia oggettiva”, portatori di una mentalità rigida in contrasto con la “psicologia soggettiva” dall’indole flessibile, come è stato rilevato dagli Ansbacher (1956). Varie correnti della psicologia, una volta abbandonati i presupposti della psicologia sperimentale, si rendono conto della portata delle affermazioni dei primi rappresentanti della Gestalt (Kohler, 95 Yaír Hazán Lo stato epistemologico della psicologia adleriana Kofka e Wertheimer) che sostenevano che la scienza non dà risposte in sé, ma lo fa “a seconda del nostro modo di chiedere”. Secondo Allport tutti gli psicologi sono discendenti di Kant (massimo rappresentante dell’Idealismo ) o di Locke (empirista). Tra questi due filosofi non vi è alcuna possibilità di riconciliazione. Se si produce una rottura nell’albero di Cartesio, che ha separato la metafisica dalla scienza e questa dalla scienza applicata, noi possiamo ottenere un “divorzio” epistemologico, come quello segnalato da Perls che, quando fonda la Gestalt, ricorre ai precursori dei teorici della percezione che ho prima menzionato, affermando che la sua pratica “la deve più a Stalinvsky (regista teatrale e formatore di attori) che non agli psicologi designati”. È di fondamentale rilevanza prendere atto che la psicologia o la psicoterapia senza la filosofia e l’epistemologia sarebbero come se si studiasse farmacologia senza sapere chimica, incorrendo nell’uso ingenuo o distorto dell’applicazione. Gli Adleriani avevano ben chiara questa situazione. Il primo giorno in cui si riunisce, infatti, la “Società per la libera ricerca psicoanalitica”, si delibera all’unanimità di aderire all’“Associazione kantiana” guidata da Vaihinger, che con la Filosofia del “come se” fornisce il supporto epistemologico al “Temperamento nervoso”, che, come Benrstein stesso afferma, rappresenta una “vera e propria dichiarazione d’indipendenza della Psicologia Individuale”. Questo libro si ispira a Kant, il padre della grande metateoria le cui fonti noi ritroviamo successivamente anche nel pensiero di Marx, soprattutto quando afferma che “l’umanità non si pone i problemi che non può risolvere”: questa frase evidenzia come i problemi dell’uomo sono creati dall’uomo medesimo. Adler aderisce alle idee sociali di Marx facendolo conoscere all’Associazione Psicoanalitica di Vienna come il primo psicologo sociale, che credeva nel “senso sociale”, ma non in quello “economico” (Ansbacher & Ansbacher, 1956). Un altro aspetto del costruttivismo è rappresentato da Piaget. II. Le basi delle teorie scientifiche In greco “theoria” è una parola quasi mistica che significa “contemplazione”: il suo opposto è “prassi” (in greco azione). Ne deriva, quindi, che la medicina non è una scienza, ma una scienza applicata (oggi diciamo una tecnologia), mentre la scienza che sta alla sua base è la biologia. Ora presento tre teorie a confronto per l’acquisizione della conoscenza, che è una forma di intuizione, di insight, termine di Köhler che la Psicoanalisi ha preso in prestito senza mai spiegare in cosa consista codesto “inserimento nel proprio campo visivo”, che quindi non è nemmeno elencato nell’Enciclopedia di Laplanche e Pontalis. Ecco la prima teoria che il mondo occidentale ha incontrato: analizziamo alcuni accostamenti con l’aiuto di Psychology Today1. La prima teoria è stata definita “teoria della macchina fotografica”, per l’analogia con la macchina fotografica appunto. Questa teoria sostiene che la realtà fuori della nostra mente o del nostro cervello agisce esattamente come quando si scatta una foto. La realtà in sé esiste ed è al di fuori dei nostri processi cognitivi e affettivi. Così, come fanno i bambini, facciamo 1 Psycology Today è una rivista bimestrale pubblicata negli Stati Uniti per un’utenza di massa. Psychology Today è stato tradotto nel 1967 da Nicolas Charney. L’intento della Rivista era di divulgare una letteratura psicologica molto più accessibile al grosso pubblico. Psycology Today è tradotto in Psicodeia: Psicologia de hoy. 96 Yaír Hazán Lo stato epistemologico della psicologia adleriana fotografie e le conserviamo nella nostra memoria psicologica. È possibile, secondo l’autore, separare quantitativamente i bambini dagli adulti. Gli adulti hanno scattato più fotografie dei bambini. Le differenze individuali, normali o psicopatologiche, risiedono nella qualità della macchina fotografica e nella velocità della pellicola. Così i meno intelligenti hanno una macchina fotografica di qualità inferiore. Si tratta della vecchia idea di eredità. Non dimentichiamo che Alfred Adler si è ribellato contro questo concetto, sebbene non abbia negato la genetica. «D’importanza basica non sono né l’ambiente né l’eredità. Entrambi danno il quadro normativo al quale l’individuo risponde con il proprio “stile di vita” personale e creativo» (Ansbacher & Ansbacher, 1956). Proprio attraverso questi concetti essenziali Adler si ribella contro la psichiatria statica di Kraepelin e contro l’ambientalismo del comportamentismo di Watson e dei suoi seguaci: «Datemi una dozzina di bambini normali e farò di loro ciò che vuoi, medici, avvocati, artisti, criminali, a prescindere dalle loro inclinazioni innate» (Watson, 1930). Tali posizioni sono state mantenute fino a Skinner compreso: soltanto in seguito sarà introdotto anche il pensiero (la conoscenza, la gnoseologia e ciò che definiamo “cognitivo”). L’educazione è uno dei principali interessi di Adler e della sua psicologia, il quale ha sicuramente subito il fascino e l’influenza di Maria Montessori (De Imaz, 1990), che per contrastare il concetto di causalismo, formulava le sue riflessioni sulla psicologia del bambino prendendo spunto dai lavori didattici a cui dedica gli ultimi anni della sua vita per lottare contro i comportamentisti americani: per lei la morale è un “a priori”, essendo una kantiana. La seconda teoria cambia lo strumento: si utilizza non più la macchina fotografica, ma un proiettore cinematografico. Noi viviamo come se avessimo una cineteca incorporata, con i suoi talenti, che chiamiamo con Howard Gardner (1983) “intelligenze multiple”. Secondo questa teoria, la realtà è una “tabula rasa”, come amava asserire Locke e su questo schermo (la realtà esterna) noi proiettiamo i film che portiamo dentro. Gli adulti hanno più esperienza, perché i film sono proiettati più e più volte. Le differenze tra gli individui risiedono nella qualità e nel contenuto dei film. La seconda teoria non ha mai avuto troppi seguaci. Una volta chiesero al vescovo Berkeley che cosa sarebbe accaduto con la conoscenza, se camminando per Londra un oggetto pesante fosse caduto sulla sua testa: dove sarebbe andata a finire la sua conoscenza? Tali dubbi sono stati chiariti da Henry Laborit (1968) quando dice che «noi siamo gli altri e anche gli altri muoiono, quando noi moriamo». Quest’ultima teoria, idealista con radici platoniche, ha avuto il coraggio di averci portato a scorgere il valore fondante dell’immaginazione nella costruzione della realtà che non è indipendente dalla mente umana. All’altro polo materialista e lockiano si incontrano il pavlovismo e il behaviorismo. Lenin criticando l’“idealismo marcio” asseriva: «Gli esseri umani percepiscono la realtà così com’è e né i sensi né il cervello ci ingannano» (Rosental & Iudin, 1959). Lontano dalle due teorie, più vicino alla seconda rispetto alla prima, appare la prospettiva costruttivista elaborata da Piaget (1968) che, continuando a ispirarsi al pensiero di Kant, ispiratore della rivoluzione copernicana del pensiero, asserisce che «l’oggetto che appare non è più il centro del soggetto». Questo principio rappresenta il fondamento sia della posizione soggettiva adleriana sia del suo modello artistico molto più del realismo ingenuo tipico del positivismo logico (Popper stesso ha detto alla fine dei suoi giorni: «Il positivismo logico è morto e io sono uno dei responsabili della sua morte»). Secondo Piaget (1968) la realtà è costruita dal bambino sulla base delle proprie esperienze 97 Yaír Hazán Lo stato epistemologico della psicologia adleriana maturate all’interno del proprio ambiente. La modalità è simile a quella utilizzata dagli artisti per dipingere un quadro. Il quadro rappresenta ciò che l’artista vede e come egli percepisce i vari elementi in relazione fra loro. Questo è uno dei punti fondamentali alla base del concetto di stile di vita, che è sempre il prodotto creativo dell’appercezione tendenziosa o, in termini più divulgativi, come direbbe Künkel (1935), «tutto è a seconda del colore della lente di chi guarda». Barylko (1969) spiega attraverso lo psicologo dell’arte Ernst H. Gombrich: «Che senso ha parlare della comprensione di un’opera d’arte? Noi non potremo mai sapere cosa significhi per il suo creatore, perché, anche se non l’ha detto, potrebbe accadere che nemmeno lui sappia il suo significato. L’opera d’arte significa ciò che significa per noi non ci sono altri criteri». In breve i quadri come gli stili di vita sono sempre combinazioni irripetibili di ciò che l’artista (l’individuum) ha tratto, ha eliminato dall’ambiente esterno e ha aggiunto di suo. Per Piaget (1968) il reale è sempre una costruzione mediata e non una semplice copia, da cui deriva la difficoltà di comprendere la realtà dell’altro: è possibile soltanto un avvicinamento empatico. Egli cita come esempio il gioco di un bambino che con un carrello pieno di gelati risponde alla gente che gli chiede che sapore essi abbiano. Quando gli è stato domandato che cosa stesse facendo, egli ha risposto: «Io vado all’Università». Tutto questo è spiegabile per il semplice fatto che suo padre gli aveva detto che avrebbe pagato l’università con la vendita di gelati disposti su un carrello. Egli ha ricreato la realtà con il materiale offerto dal contesto. Per questo motivo gli Adleriani affermano a gran voce e sempre l’importanza del contesto. III. L’individuo e lo stile di vita visto dal triangolo al pentagono Adler (1964) ha detto che non c’è malattia che non abbia sintomi inutili, così, per lui «i sintomi come le classificazioni sono semplicemente spazzatura», proponendo di usare il maggior numero possibile di test e di non credere ad alcuno. Per primo egli ha elaborato uno schema a forma di prisma per analizzare ogni individuo attraverso i tre principali compiti della vita (Flachier, 2000): l’individuo e la comunità: qual è il suo posto nel mondo? Risulta molto utile leggere l’articolo di Pier Luigi Pagani (2006) “Dalla pulsione aggressiva al sentimento sociale”; la professione, il lavoro e le attività quotidiane; l’amore o il problema sessuale; l’arte: secondo Bottome (1934), durante le conversazioni Adler era solito aggiungere un quarto compito, sostenendo che «gli artisti non possono mai essere totalmente egoisti perché hanno sempre qualcosa da condividere attraverso la loro arte». Inoltre, l’autocreazione dello stile di vita è un’arte, che dobbiamo indagare in relazione a cosa e a come esso sia stato costruito; la relazione con la Trascendenza (Adler & Jahn, 1933): nel caso la psicoterapia sia confrontata con l’orientamento spirituale, è necessario rispondere alle seguenti domande: «Come concepisco la trascendenza? Qual è il mio rapporto con essa? Come si manifesta nelle mie attitudini?». • • • • • 98 Yaír Hazán Lo stato epistemologico della psicologia adleriana IV. Breve riepilogo delle caratteristiche essenziali della Psicologia Individuale La Psicologia Individuale (Hazan & Titze, 2011) è una psicologia d’uso. Di fronte a ciascun individuo ci chiediamo come il soggetto utilizzi i suoi comportamenti, i suoi sentimenti o le sue funzioni, se sono sovra o sotto utilizzati. Allo stesso modo la Psicologia Individuale si basa essenzialmente sul pensiero antitetico, che costruisce la conoscenza attraverso gli opposti o le polarità contrastanti (De Becker, 1997). Wurman (1989) asserisce che riconosciamo le cose grazie all’esistenza del loro contrario: il giorno si oppone alla notte, il fallimento al successo, la pace alla guerra, il pericolo alla sicurezza. Un articolo presentato da Dreikurs a Stern sostiene che Adler anticipò di oltre 50 anni la scienza del suo tempo, in quanto contrastò la gente che era caduta preda del realismo ingenuo di Freud, Pavlov e Watson, smentiti da Adler epistemologicamente attraverso la sua regola d’oro: tutto può essere in un altro modo. L’alternativa costruttivista di Adler conduce al principio che l’uomo si avvicina alla realtà attraverso una teoria e che, quindi, la realtà è parte di una teoria. Nel realismo ingenuo si agisce “come se” il mondo fosse pieno di insegnanti, bus e birre, nel costruttivismo noi ci chiediamo, invece, «Non è vero?», «Funziona?» Claxton (1999) spiega la differenza tra Costruttivismo (fondamento epistemologico della Psicologia Individuale) e il Cognitivismo, che è sostenuto e sostiene l’Associazionismo o l’Atomismo. Questa tendenza emersa con Ebbinghaus nel XIX secolo e rimasta in vigore fino alla fine degli anni sessanta del XX secolo, nell’ambiente psicologico ha ancora i suoi sostenitori. Dreikurs citato da Stern (1958) asseriva correttamente, a suo tempo, che la Psicologia Individuale fosse una psicologia olistica, teleologica e relazionale. Oggi, nella sua apparente semplicità, possiamo ribadire che la Psicologia Individuale è una psicologia: 1. del profondo, in quanto i fenomeni psichici non sono pienamente consapevoli (Ansbacher & Ansbacher, 1956); 2. olistica, poiché Adler concepisce l’uomo nella sua complessa unità indivisibile; 3. teleologica, perché l’essere umano è guidato da obiettivi e mète; 4. terapeutica, in quanto non è soltanto una psicologia descrittiva, ma correttiva; 5. preventiva per il fatto che anticipa gli eventi (prevenzione), in altri termini è psicosanitaria; 6. positiva perché riesce a valorizzare la parte migliore degli esseri umani; 7. sociale per il fatto che concepisce l’uomo inserito nella e per la società; 8. assiologica2 perché uno dei suoi principali costrutti, il senso di comunità, è un valore di primo piano. 2 Assiologia (dal greco άξιος “prezioso” e λόγος “trattato”) significa filosofia dei valori, è la branca della filosofia che studia la natura dei valori. 99 Yaír Hazán Lo stato epistemologico della psicologia adleriana BIBLIOGRAFIA ADLER, A. (1912), Über den nervösen Charakter. Frankfurt/M.: Fischer. (Trad. sp. El carácter neurotic. Buenos Aires: Paidós Studio, 1984). ADLER A. (1964). Superiority and Social Interest. Evanston, Illinois: Northwestern University Press. (Trad. sp. Superioridad en interés social. Mexico: Fondo de Cultura Económica, 1976). ADLER, A. & JAHN, E. (1933). Religion und Individualpsychologie. Eine prinzipielle Auseinander-setzung über Menschenführung. Vienna-Lipsia: Passer. (Trad. sp. Religión y Psicología Adleriana. Registrado en la Biblioteca Nacional de la República Oriental del Uruguay, en el libro 33, registro 481, 18/2/2013). ANSBACHER, H. L. & ANSBACHER, R. R. (1956). The Individual Psychology of Alfred Adler. New York: Basic Book. (Trad. sp. La Psicología Individual de Alfred Adler. Buenos Aires: Troquel, 1959). BARYLKO, J. (1969). En busca de uno mismo. Buenos Aires: Emecé. BOTTOME, P. (1934). Privade Worlds. Boston: Houghton Mifflin Company. (Trad. sp. Alfred Adler apóstol de la libertad. Barcelona: Luis Miracle, 1952). CASSIRER, E. (1923-1929). Philosophie der symbolischen Formen. Berlin: Cassirer. (Trad. sp. Filosofía de las formas simbólicas. México: Fondo de Cultura Económica, 1979). CLAXTON, G. (1999). Wise-up. The challenge of lifelong learning. New York and London: Bloomsbury. DE BECKER, G. (1997). The Gift of Fear. New York: Little, Brown and Company. (Trad. sp. El valor del miedo. Barcelona: Urano, 1998). DE IMAZ, J. L. (1990). Las raíces del pensar. Buenos Aires: Emecé. ELLENBERGER, H. (1970) The discovery of the unconscious: The history and evolu-tion of dynamic psychiatry. New York: Basic Books. (Trad. sp. El descubrimiento del inconsciente. Madrid: Gredos, 1976). FLACHIER, G. A. (2000). Lexicon di Psicologia Individuale. Quito: Ediciones de la Pontificia Universidad Católica del Ecuador. GARDNER. H. (1983). Frames of mind: The theory of multiple intelligences. New York: Basic Books, 1983. (Trad, sp. Inteligencias múltiples: La teoría en la práctica. Barcelona: Paidós, 1995). HAZÀN, Y. & TITZE, M. (2011). Fundamentos de Psicología Profunda Teleológica. Montevideo: Psicolibros Universitarios. JUNG, C. G. & JAFFE A. (1962). Memories, Dreams, Reflections. London: Collins. KÜNKEL, F. (1935). Grundzüge der praktischen Seelenheilkunde. Stuttgart-Leipzig: Hippokrates. (Trad. sp. Elementos de psicoterapia práctica. Barcelona: Herder, 1981-1977). LABORIT, H. (1968). Biologie et structure. Paris: Gallimard. (Trad, sp. Biología y estructura. Caracas: Tiempo Nuevo, 1979). PIAGET, J. (1968). Mémoire et intelligence. Paris: Puf. PAGANI, P. L. (2006). Dalla pulsione aggressiva al sentimento sociale. Rivista di Psicologia Individuale, 60, 5-36. ROSENTAL, M. M. & IUDIN, P. (1959). Diccionario filosófico. Montevideo: Pueblos Unidos. (Ristampa dall’edizione sovietica prima della dittatura militare uruguaiano del 1973). STERN, E. (1958). Die Psychotherapie in der Gegenwart. Zürich: Rascher. (Trad. sp. La psicoterapia en la actualidad. Buenos Aires: Universitaria de Buenos Aires, 1965). WATSON, J. B. (1914). Behavior: An introduction to Comparative Psychology. New York: Henry Holt & Company. (Trad. sp. El Conductismo. Buenos Aires: Paidós, 1990). WURMAN, R. S. (1989). Information anxiety. New York: Bantam Books (Trad. it. L’ansia da informazione. Milano: Leonardo, 1991). (Traduzione dallo spagnolo a cura di Giuseppe Ferrigno) Yaír Hazán Centro de Estudios Adlerianos U-11000 Montevideo (Uruguay) E-mail: [email protected] 100 DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 101-103 (2014) IN LIBRERIA IN LIBRERIA a cura di Monica Giarei BORGNA, E. (2013). La dignità ferita. Milano: Feltrinelli. L’ombra e la grazia si possono considerare categorie esistenziali, metafore, per esprimere la dignità ferita e quella salvata. L’ombra è l’altra faccia della luce, come la pesantezza lo è della grazia. Vi è qualcosa di misterioso in tale intrinseca relazione tra lacrime e sorrisi, tra tristezza dell’anima e apertura alla speranza, a cui Eugenio Borgna presta attento ascolto e dà voce, riflettendo sulla dignità della persona, sul suo valore, nelle sue varie declinazioni, umbratili e luminose. La dignità è un valore etico fondamentale ed è la fonte dei diritti umani, tuttavia è stata crudelmente lacerata nel corso della storia, non ultima da quella psichiatria che ha distinto le vite degne di essere vissute da quelle che non lo sarebbero. Il problema del rispetto dell’altro si ripropone nell’ambito della cura, al centro della quale sta la fragilità del malato, fisico o psichico, esposto alla sofferenza della malattia e all’angoscia della morte. Il discorso sulla dignità non concerne solo l’aspetto doloroso dell’ombra, riguarda anche l’attesa del futuro e dell’ignoto. Le attese altrui vanno riconosciute e rispettate, per non fare al prossimo quanto non vorremmo fosse fatto a noi. Siano esse le attese di chi sta male o di chi per qualche ragione sia vulnerabile, occorre rispettarne la fragilità e la sensibilità, le quali non potranno proteggere la dignità dai colpi inferti dalla vita, ma consentono una più acuta e umana comprensione del lato oscuro dell’essere, della parte invisibile delle cose. CLERICI, C. A. & VENERONI, L. (2014). La psicologia clinica in ospedale. Consulenza e modelli d’intervento. Bologna: Il Mulino. Punto d’incrocio fra la soggettività del paziente e quella dell’equipe, fra l’oggettività della malattia e gli aspetti istituzionali, l’attività di psicologia clinica in ospedale è oggi un ambito di intervento di crescente rilevanza. Il professionista che in tale contesto fornisce la propria opera di consulenza è chiamato ad affrontare la complessità dei fenomeni che agiscono sul paziente nel corso delle cure mediche. Questo volume offre gli strumenti utili per comprendere i vissuti che si accompagnano alla malattia in ottica fisiopatologica, psicopatologica, psicologica e relazionale. 101 In libreria COZZOLINO, M. (Ed). (2014). Motivazione allo studio e dispersione scolastica. Come realizzare interventi efficaci nella scuola. Milano: Franco Angeli. Un vero e proprio “kit didattico” per insegnanti, psicologi e per i diversi attori del mondo della scuola che si trovano quotidianamente ad affrontare problematiche legate alla dispersione scolastica spesso di difficile soluzione. Il volume mette a disposizione del docente modelli epistemologici con cui valutare la complessità delle variabili in gioco al fine di superare in modo strategico le situazioni di stallo professionale. E insieme offre una metodologia operativa che lo accompagna nella messa in atto di interventi efficaci per prevenire o arginare aspetti di insuccesso scolastico di cui la dispersione è soltanto la punta dell’iceberg. La problematica della dispersione scolastica viene dunque inquadrata da un punto di vista teorico e applicativo, partendo da una lettura complessa e circolare del fenomeno in cui assumono particolare importanza variabili contestuali, culturali, aspetti motivazionali ed emotivo/ relazionali. ELIA, C. (2013). Un nuovo sguardo alla schizofrenia. Psicoterapia e psicodinamica. Milano: Franco Angeli. Il libro descrive in primo luogo la tecnica utilizzata nel trattamento dei pazienti dello spettro schizofrenico e in secondo luogo la psicodinamica della schizofrenia, o, se vogliamo, la sua metapsicologia; questa non può non tener conto anche delle risultanze della ricerca neuroscientifica e degli apporti dell’Infant research. L’idea del libro è nata da diverse motivazioni oltre che scientifiche anche affettive: tra queste ultime in primo luogo i desideri e i suggerimenti di diversi pazienti che si scrivesse una testimonianza della loro sofferenza e della lotta per superarla. Inoltre il desiderio di offrire ai colleghi, psichiatri, psicoterapeuti, psicologi, ma anche ai non addetti ai lavori comunque interessati alla conoscenza dei processi psichici della schizofrenia, la possibilità di entrare nel vivo dell’incontro terapeutico e di partecipare in qualche modo alla “verità” di queste relazioni. Un’altra importante motivazione del libro è data dal desiderio di riaffermare l’importanza e la validità della psicoterapia psicoanalitica dei pazienti gravi, in una fase culturale come questa nella quale molti settori psichiatrici, l’industria farmaceutica e la grancassa dei media sostengono che la terapia psicofarmacologica sia sufficiente. GENNI MILIOTTI, A. (2013). Adolescenti e adottati. Maneggiare con cura. Milano: Franco Angeli. L’adolescenza è un periodo cruciale per tutti, ma è vero che per un adolescente adottato lo è ancora di più? E come può rispondere un genitore adottivo alle tante sfide che suo figlio adolescente gli pone ogni giorno, senza soccombere di fronte alla sua rabbia e al suo dolore? Questo libro vuole essere una proposta per un lavoro preventivo da fare perché l’adolescenza dei figli adottivi “trascorra” nella maniera più serena possibile, così come la vita familiare. 102 In libreria Troverete utili indicazioni per evitare o superare le sfide adolescenziali, che non sono altro che una richiesta di aiuto. Partendo da quel primo incontro e dalle sue domande di bambino, l’autrice ci guida in un percorso alla scoperta dei sentimenti e delle emozioni proprie di ogni giovane adottato. Alla fine si riuscirà a capire meglio la loro storia e sarà possibile aiutarli a viverla meglio, non solo nell’ambito familiare, ma anche nel mondo in cui stanno per lanciarsi. “Dopo - conclude l’autrice potremo goderci di nuovo i nostri figli e il loro amore, in un rapporto reso più maturo e consapevole dalla loro e dalla nostra crescita”. MUSIC, G. (2011). Nurturing natures: attachment and children’s emotional, sociocultural, and brain development. New York: Psychology Press. (Trad. it. Nature culturali: attaccamento e sviluppo socioculturale, emozionale, cerebrale del bambino. Roma: Borla, 2013). Questo libro costituisce una sintesi indispensabile delle teorie correnti sullo sviluppo emozionale del bambino. Combina le ultime scoperte in aree quali teoria dell’attaccamento, le neuroscienze e la psicologia evolutiva, intrecciandole in un testo di agevole lettura e facilmente comprensibile. Rappresenta un viaggio attraverso i fattori che segnano lo sviluppo del bambino, non trascurando mai l’importanza della famiglia e del contesto sociale e analizzandone le tappe fondamentali, dalla vita in utero agli anni prescolari fino all’adolescenza. Non trascura allo stesso tempo di esaminare in che modo si sviluppano capacità cruciali quali linguaggio, gioco e memoria. Affronta la questione naturacultura e relativi corollari, evidenzia gli effetti dei diversi tipi di esperienze precoci in riferimento sia a singoli bambini che a studi longitudinali su più larga scala. Il libro integra con grande cura concetti psicologici e risultati delle ricerche con concetti tratti dalla neurobiologia e da altre culture riuscendo a creare una visione logica ed equilibrata dello sviluppo del bambino nel suo contesto. PARIS, J. (2012). Psychotherapy in an Age of Narcissism: Modernity, Science, and Society. New York: Palgrave Macmillan. (Trad. it. La psicoterapia nell’età del narcisismo. Milano: Raffaello Cortina, 2013). Il disturbo narcisistico di personalità è tra i più diffusi nella società contemporanea. Il mondo moderno, nel quale i bisogni individuali sono considerati di primaria importanza, incoraggia le persone a concentrarsi su se stesse. Anche la psicoterapia utilizzata per il trattamento del narcisismo è in realtà influenzata dagli stessi valori, e corre il rischio di rendere i pazienti peggiori invece che migliori. Questo libro, fondato sulla ricerca empirica nell’ambito della psicologia, della psichiatria e delle scienze sociali, mostra come evitare tale rischio, inducendo il paziente a guardare oltre se stesso e a radicare il proprio senso di sé nelle relazioni e negli impegni rivolti al mondo esterno. 103 DIALOGHI ADLERIANI I, n. 1, 1-6 (2014) APPUNTAMENTI APPUNTAMENTI a cura di Monica Giarei Milano 15 febbraio 2014 CONVEGNO ACCREDITATO ECM DELL’ISTITUTO ALFRED ADLER DI MILANO “La violenza di genere nella società contemporanea” con la partecipazione di WILLY PASINI Il Convegno è aperto a Medici, Psicologi, Psicoterapeuti, Assistenti Sociali, Educatori Professionali, Infermieri Professionali, Avvocati, studenti universitari facoltà di Medicina, Psicologia e corso di laurea in Ostetricia.Il Convegno è accreditato ECM con n.5 crediti formativi per tutte le figure professionali. SEDE: Il Convegno si svolgerà presso la Sala Conferenze, Piazza San Marco n. 2 – Milano, Italia Per iscrizione contattare la Segreteria Organizzativa al seguente indirizzo mail: [email protected] Atene, 13-16 maggio 2014 XIX CONGRESSO INTERNAZIONALE DELL’ASSOCIATION OF PSYCHOLOGY & PSYCHIATRY FOR ADULTS AND CHILDREN (A.P.A.C.) “Recent Advances in Neuropsychiatric, Psychological and Social Sciences” SEDE: il congresso si svolgerà presso l’hotel Hilton di Atene, Grecia Per ulteriori informazioni: www.appac.gr [email protected] 104 APPUNTAMENTI Linköping, 12-14 giugno 2014 X CONGRESSO EUROPEO DELL’UNIVERSITÀ DI LINKOPING “Psychological theory and research on Intellectual and Developmental Disabilieties” SEDE: il congresso si svolgerà presso l’Università di Linköping, Svezia. Per ulteriori informazioni: [email protected] Göttingen , 12-14 giugno 2014 III BIENNIAL SIG 22 CONFERENCE DELL’EUROPEAN ASSOCIATION FOR RESEARCH ON LEARNING AND INSTRUCTION (EARLI) “Neuroscience and education meeting 2014” SEDE: il congresso si svolgerà presso il Dipartimento di Psicologia dell’Educazione della Georg-August University di Göttingen, Germania Per ulteriori informazioni: www.sig22neuroeducation.com Cipro, 18-20 giugno 2014 XIV EUROPEAN WORKSHOP DELL’EXPERIMENTAL PSYCHOLOGY LAB DEL DIPARTIMENTO DI PSICOLOGIA DELL’UNIVERSITÀ DI CIPRO “European workshop of Imagery and Cognition” SEDE: Almyra Hotel, Official Rating – 5*, Pafos, Cipro Per ulteriori informazioni: www.ewic2014.org 105 APPUNTAMENTI Cesena, 19-21 giugno 2014 X CONVEGNO NAZIONALE DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI PSICOLOGIA DI COMUNITÀ (S.I.P.Co.) “Costruire comunità ospitali e sostenibili. Nuove sfide per la Psicologia di Comunità” SEDE: il convegno si svolgerà presso la sede di Psicologia di Cesena dell’Alma Mater Studiorum- Università di Bologna. Per ulteriori informazioni contattare la segreteria organizzativa al seguente indirizzo e-mail: [email protected] Parigi, 9-13 luglio 2014 XXVI CONGRESSO DELL’INTERNATIONAL ASSOCIATION OF INDIVIDUAL PSYCHOLOGY (I.A.I.P.) “Precarity, Conflicts, Violence, a challenge to the Healing and Training processes” SEDE: Il Congresso si svolgerà presso Les diaconesses de Reuilly,18 rue du Sergent Bauchat, 75012, Parigi, Francia. Per ulteriori informazioni sul programma preliminare e sul modulo di iscrizione: http://www.iaipwebsite.org/ 106 DIALOGHI ADLERIANI NORME PER GLI AUTORI Norme per gli autori 1. La rivista “Dialoghi adleriani” è l’organo ufficiale dell’Istituto Alfred Adler di Milano e pubblica sia contributi originali di ricerca ad orientamento individualpsicologico sia articoli particolarmente significativi che servano per un confronto ed un dibattito con altri modelli teorici affini. Saranno presi in considerazione per la pubblicazione gli articoli che presentano i seguenti requisiti: casi clinici arricchiti da riferimenti teorici; approfondimenti epistemologogici; ricerche rigorosamente scientifiche scritte con chiarezza e semplicità espositiva, pertinenza e originalità degli argomenti esposti, accuratezza e completezza della bibliografia; precisione nell’esposizione degli scopi della ricerca, della metodologia usata, degli strumenti utilizzati, dell’interpretazione e della riflessione conclusiva sui risultati ottenuti. 2. Saranno pubblicati solo articoli inediti e non sottoposti alla valutazione di altre riviste. Gli articoli, in questa fase, devono essere proposti in forma anonima. 3. Gli articoli devono essere inviati al Direttore della Rivista all’indirizzo mail ferrigno.giuseppe@ fastwebnet.it accompagnati da una lettera di liberatoria firmata dagli Autori in cui si autorizza la pubblicazione del materiale. Gli Autori, inoltre, devono garantire che l’articolo proposto sia originale e non sia stato sottoposto alla valutazione di altre riviste e devono concedere a “Dialoghi adleriani” il diritto di riproduzione totale o parziale in qualsiasi lingua, in qualsiasi modo e forma ed entro i limiti temporali massimi riconosciuti dalla normativa vigente (attualmente, 20 anni). In caso di articolo a più nomi, la liberatoria va sottoscritta da tutti gli altri autori. L’accettazione di un articolo implica l’impegno da parte degli Autori che esso o parti di esso non saranno pubblicati altrove senza il consenso scritto di “Dialoghi adleriani”. 4. Ogni articolo giunto sarà sottoposto dalla Direzione alla valutazione di due referee anonimi (double-blind peer review), di cui almeno uno deve appartenere al Comitato Scientifico Internazionale. Nel caso in cui il Direttore si trovi di fronte a due referaggi in contrasto, l’articolo dovrà essere valutato da un terzo referee. La Direzione fornisce una scheda predisposta ai valutatori e può decidere di non sottoporre ad alcun referee l’articolo che venisse giudicato non consono agli obiettivi della rivista e non rispondente alle norme redazionali e agli standard scientifici. 5. La Direzione si impegna a comunicare agli Autori i risultati del referaggio degli articoli inviati entro 4 mesi dalla data dell’invio. Nel caso di accoglimento, gli Autori non possono ritirare l’articolo od offrirlo ad altre riviste per la pubblicazione. 6. Ogni articolo dovrà rispondere ai seguenti requisiti: 1) titolo dell’articolo in italiano ed inglese; 2) nome, affiliazione, indirizzo, e-mail e recapito telefonico degli autori non devono comparire nella prima pagina dell’articolo, ma devono essere inviate a parte su un foglio allegato; 3) riassunto in italiano ed abstract in inglese; 4) testo dell’abstract e del riassunto non superiore a 12 righe e a 120 parole; 5) testo diviso in paragrafi e sottoparagrafi numerati; 5) figure e tabelle presentate in una versione grafica definitiva e perfetta; 7) 4 parole chiave in italiano e 4 keywords in inglese. 7. Il testo dovrà risultare in carattere Times New Roman, corpo 12, interlinea singola. Le note dovranno essere scritte in carattere Times New Roman corpo 9. 8. Impostazione testo e citazioni. Sono previsti 3 tipi di carattere: normale, corsivo, grassetto. Il corsivo è usato per le parole in lingua straniera di uso non consueto e anche per mettere in evidenza parole o frasi brevi a cui si desidera dare una particolare enfasi. Per citazioni non letterali si usano 107 NORME PER GLI AUTORI le virgolette inglesi, mentre le citazioni testuali si scrivono tra «virgolette caporali». Se all’interno di una citazione si salta una parte, occorre indicare la parte omessa con tre puntini tra parentesi quadre [...]. Le citazioni tra virgolette caporali devono essere testuali seguite dai riferimenti delle pagine tra parentesi tonde (pp. 73-74) qualora non siano già state indicate precedentemente, in questo caso occorre inserire in corsivo [Ivi] per la stessa citazione e la stessa pagina; occorre, invece, inserire in corsivo (Ibid. p. 35) per la stessa citazione ed altra pagina. 9. I riferimenti bibliografici inseriti direttamente nel testo verranno riportati col cognome dell’autore seguito da uno spazio e dall’anno della prima pubblicazione in lingua originale tra parentesi tonde – “Adler (1912) disse che” – oppure col cognome dell’autore tra parentesi seguito da una virgola, spazio e anno (Adler, 1912). 10. Indicazioni per la stesura degli articoli 10.1. a) La lunghezza massima dell’articolo dovrà essere di circa 50.000 battute (grafici, tabelle, note e bibliografia, spazi inclusi); b) le note dovranno essere indicate con numeri progressivi; c) i vari paragrafi e sottoparagrafi dovranno essere numerati; d) i riferimenti bibliografici devono collocarsi alla fine del testo e devono essere elencati senza numerazione in ordine alfabetico secondo il cognome dell’autore e, per ciascun autore, nell’ordine cronologico di pubblicazione delle opere (per opere dello stesso autore pubblicate nel medesimo anno, occorre utilizzare a, b, c; e). la bibliografia alla fine dell’articolo dovrà essere compilata seguendo le norme del “Manuale di Pubblicazione” dell’American Psychological Association (6a Edizione). 10.2. Articoli di rivista: MASCETTI, A. (2012). Aspetti e peculiarità del rapporto analitico nella Psicologia Individuale. Rivista di Psicologia Individuale, 71, 79-86. 10.3. Articoli di rivista in corso di stampa: FERRIGNO, G. (in press). La compensazione. Dialoghi Adleriani. 10.4. Libri: PARENTI, F. (1983). La Psicologia Individuale dopo Adler. Roma: Astrolabio. 10.5. Saggio, articolo o capitolo di un libro: MEZZENA, G. (1998). Le finzioni. In B. SANFILIPPO (Ed.). Itinerari adleriani (pp. 35-52). Milano: Franco Angeli. ROSSI, G. & DE BERNARDI, B. (2001). Analisi testuale del concetto “fede”. In M. ALETTI & G. ROSSI (Eds.). L’illusione religiosa: rive e derive (pp. 197-201). Torino: Centro Scientifico Editore. 10.6. Versione italiana di un libro o articolo straniero: WINNICOTT, D. W. (1971). Playing and reality. London: Tavistok. (Trad. it. Gioco e realtà. Roma: Armando, 1974). ELLENBERGER, H. F. (1970). The Discovery of the unconscious: The history and evolution of dynamic psychiatry. New York: Basic Books. (Trad. it. La scoperta dell’inconscio, 2 voll. Torino: Bollati Boringhieri, 1976). ADLER, A. (1908). Der Aggressionenstrieb im Leben und in der Neurose. Fortschritte der Medizin, 26, 577-584. (Trad. it. La pulsione aggressiva nella vita e nella nevrosi. Rivista di Psicologia Individuale, 46, 1999, 5-14). 108 NORME PER GLI AUTORI ADLER, A. (1908b). Das Zärtlichkeitsbedürfnis des Kindes. In A. ADLER, C. FURTMÜLLER. (Eds). (1914). Heilen und Bilden: Ärztlich-pädagogische Arbeiten des Vereins für Individualpsychologie. München: Reinhardt. (Trad. it. a cura di G. Ferrigno e C. Canzano, Il bisogno di tenerezza del bambino. Rivista di Psicologia Individuale, 59, 2006, 7-15). 10.7. Libri “a cura di”: SANFILIPPO, B. (Ed.). (1998). Itinerari adleriani. Milano: Franco Angeli. 10.8. Atti e relazioni a Convegni: GHIDONI, C. (1992). La costellazione familiare come interprete della vita organizzata. Atti del 5° Congresso Nazionale SIPI «La costellazione familiare». Stresa (Novara), 8-9 maggio 1992. FERRIGNO, G. (1992). La costellazione familiare nel sogno. Relazione presentata al 5° Congresso Nazionale SIPI «La costellazione familiare». Stresa (Novara), 8-9 maggio 1992. 10.9. Contributi in una raccolta o antologia: ANTONIETTI, A., CASTELLI, I., FABIO, R. A. & MARCHETTI, A. (2005). Quando mancano le parole. Ricerca e intervento sulla teoria della mente nelle bambine e ragazze con sindrome di Rett. In O. LIVERTA SEMPIO, A. MARCHETTI & F. LECCISO (Eds.). Teoria della mente (pp. 261287). Milano: Raffaello Cortina. 10.10. Citazioni da un dizionario o da un’enciclopedia: SHEEHY, N., CHAPMAN, A. J. & CONROY, W. (Eds.). (1997). Biographical dictionary of psychology. London: Routledge. THE AMERICAN COLLEGE DICTIONARY. (1962). New York: Random House. MARHABA, S. (1982). Psicoanalisi. In Enciclopedia Garzanti di filosofia (2nd ed., pp. 740-742). Milano: Garzanti. 10.11. Fonti individuate su internet: FERRIGNO, G. (2013). ENCUENTRO CON UN TERAPEUTA: PROF. DR. GIUSEPPE FERRIGNO, ITALIA Disponibile in: http://psyciencia.com/2013/07/18/encuentro-con-un-terapeuta: Prof. Dr. Giuseppe Ferrigno (Italia 10.12. Numero di autori: Da 1 a 6 autori si scrivono i nomi di tutti e 6 gli autori. Da 7 a più autori si scrive il primo autore seguito da ET AL. Tra il primo ed il secondo autore o, in caso di più autori, prima dell’ultimo, si usa la & commerciale. 11.La Redazione si riserva di apportare al testo tutte le modifiche formali ritenute necessarie ai fini dell’impaginazione. 109