Il principio di uguaglianza e il
principio di non discriminazione

Il principio di uguaglianza è uno dei principi
fondamentali della Costituzione italiana e
dell’ordinamento sovranazionale.

Esso vieta arbitrarie distinzioni connessa a
fattori espressamente previsti per legge
attraverso il principio di non discriminazione.
Il principio di uguaglianza nella
Costituzione italiana: Art. 3


Comma primo:“Tutti i cittadini hanno pari dignità
sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Comma secondo: “E’ compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del
Paese”.
Il principio di uguaglianza nell’ordinamento
comunitario

Art. 20 Carta di Nizza: “Tutte le persone sono uguali
davanti alla legge”.

Art. 21 Carta di Nizza: “E’ vietata qualsiasi forma di
discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il
colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le
caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le
convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra
natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il
patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze
sessuali (…) è vietata qualsiasi discriminazione fondata
sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni contenute nei
trattati stessi”.
Le Carte a confronto: gli articoli 3
Cost. e 21 Carta di Nizza

Manca nell’articolo 21 della Carta di Nizza
uno specifico riferimento al principio di
uguaglianza in senso sostanziale, ovvero una
parificazione non solo giuridica, ma anche dal
punto di vista della protezione concreta dei
beni della vita.
Altra differenza “di struttura”

Il principio di uguaglianza nella Costituzione italiana
viene delineato in un unico articolo, mentre nella Carta
di Nizza in due articoli (20 e 21).

Il primo comma dell’art. 3 Cost. contiene due precetti:
uno di portata generale (“Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali dinanzi alla legge”) e uno di
ulteriore specificazione delle singole distinzioni.

“Bisogna tener distinta la generica enunciazione in esso
contenuta dalla successiva elencazione delle posizioni
soggettive rispetto alle quali viene ribadita la proibizione di
distinzioni” (G.U. Rescigno).
Ancora sul versante europeo

L’art. 20 contempla l’enunciazione del
principio di uguaglianza “generale”.

Esso riferisce l’uguaglianza davanti alla
legge non già ai cittadini comunitari, ma a
“tutte le persone” (Secondo solida
giurisprudenza costituzionale italiana,
anche l’art. 3, sebbene la dizione “Tutti i
cittadini”, si riferisce alla persona in
quanto tale).
Art. 20 Carta di Nizza

Secondo le spiegazioni del Praesidium della
Convenzione che ha redatto la Carta, del
2000 e poi riadattate nel 2007, l’art. 20
corrisponde al principio generale di diritto
che figura in tutte le costituzioni europee ed
è sancito dalla Corte UE come uno dei
principi fondamentali di diritto comunitario.
Art. 20 Carta di Nizza come principio
fondamentale di diritto comunitario

Sentenza Racke del 13 novembre 1984;
sentenza EARL del 17 aprile 1997; sentenza
Karlsson del 13 aprile 2000.

“il divieto di discriminazione impone che
situazioni analoghe non siano trattate in
maniera diversa e che situazioni diverse non
siano tratte in modo uguale, senza una
giustificazione obiettiva” (sentenza Reemtsma
Cigarettenfabriken GmbH c. Ministero delle
Finanze del 15 marzo 2007).
Il principio di uguaglianza nell’ordinamento
comunitario
Il principio di uguaglianza è stato dapprima utilizzato,
nello scenario sovranazionale, per sindacare la
ragionevolezza degli atti normativi comunitari.
 Successivamente la Corte ne ha fatto uso per
riconoscere i diritti fondamentali della persona come
“parte dei principi generali del diritto comunitario”, di cui
si impegnava a garantire l’osservanza.


Sentenza Stauder del 12 novembre 1969: una decisione,
quando è destinata a tutti gli Stati membri, deve essere
applicata ed interpretata in maniera uniforme,
utilizzando il canone della ragionevolezza secondo la
ratio legis della norma.
Segue: uguaglianza come ragionevolezza

La Corte di giustizia procede ad un controllo sulla
ragionevolezza delle ragioni addotte dallo Stato membro
per giustificare l’adozione di misure potenzialmente
discriminatorie (fine legittimo, proporzione mezzi/fini,
necessità, adeguatezza in senso stretto).

Tale controllo può variare d’intensità per settore,
circostanza e tipologia di discriminazione (diretta o
indiretta).

A differenza della Corte EDU, la Corte UE ritiene
irrilevante l’intenzionalità o meno del comportamento,
quanto piuttosto gli effetti sfavorevoli prodotti dalle misure
nazionali (sentenza Dekker dell’8 novembre 1990).
Ordinamento italiano e ordinamento
comunitario: cosa cambia
Nel sistema costituzionale italiano, stante il dettato
dell’art. 3, i giudici hanno ricavato dal più generale
principio di uguaglianza il divieto di discriminazione,
che si arricchisce di significato sulla base
dell’evoluzione storico-sociale. Esso “nasce e si presenta
innanzi tutto come principio generale, per poi specificarsi in
una serie di specifici divieti di discriminazioni”.
 Nell’ordinamento
comunitario, sono le singole
normative antidiscriminatorie che hanno consentito di
enucleare il principio di uguaglianza “generale” “come
espressione di un principio generale del diritto comunitario,
che esiste indipendentemente dalle direttive e in particolare
dai comportamenti attuativi e/o omissivi degli Stati
membri”.

Ancora sul versante comunitario

Giurisprudenza della Corte di giustizia ondivaga dalla sentenza Mongold
(essendo i divieti di discriminazione espressione di un generale principio di
uguaglianza connaturato nell’ordinamento comunitario “è compito del
giudice nazionale[…]assicurare, nell’ambito della sua competenza la tutela
giuridica che il diritto comunitario attribuisce ai singoli, garantendone la piena
efficacia e disapplicando le disposizioni eventualmente confliggenti della legge
nazionale[…] anche quando il termine di trasposizione della detta direttiva non
è ancora trascorso” alla sentenza Kucukdeveci (in cui la Corte afferma che
il giudice nazionale investito di una controversia tra privati sull’eventuale
esistenza di una discriminazione diretta connessa all’età, deve applicare il
diritto dell’Unione disapplicando se necessario il diritto nazionale, ma a
quale diritto dell’Unione? Del principio generale o della direttiva? La
risposta si pone nel mezzo: “il principio di non discriminazione in base all’età,
quale espresso concretamente nella direttiva 2000/78”)
Segue

Non si tratta di uno specifico divieto di discriminazione ma
di un principio generale di uguaglianza, utilizzato dalla Corte
come “livello minimale” del sindacato di ragionevolezza.

Caso Ruckdesche CGUE: la Corte afferma che, nonostante
la norma che vieta qualsiasi discriminazione tra produttori
dello stesso prodotto non contempli altrettanto
inequivocabilmente i rapporti tra diversi settori industriali
o commerciali nel campo dei prodotti agricoli trasformati,
“ciò non toglie che il divieto di discriminazione enunciato dalla
norma summenzionata è solo l’espressione specifica del
principio generale di uguaglianza che fa parte dei principi
fondamentali del diritto comunitario”e “questo principio impone
di non trattare in modo diverso situazioni analoghe, salvo che
una differenza di trattamento sia obiettivamente giustificata”.
Divieto di discriminazione: alcune
applicazioni





Politica agricola comune (art. 40): sentenza
EARL del 17 aprile 1997; sentenza Karlsson del 13
aprile 2000.
Nazionalità: sentenza Peter Überschär dell’8
ottobre 1980.
Sesso: sentenza Susanna Brunnhofer del 26 giugno
2001.
Lavoratori a tempo determinato e a
tempo indeterminato: sentenza Impact del 15
aprile 2008.
Lavoratori part-time e lavoratori full-time:
sentenza Wippel del 12 ottobre 2004.
Alcune applicazioni: obesità

Sentenza Fag og Arbejde (FOA) del 18 dicembre
2014: “lo stato di obesità di un lavoratore
costituisce un “handicap”, ai sensi della
direttiva 2000/78/CE del 2000, qualora
determini
una
limitazione,
risultante
segnatamente da menomazioni fisiche, mentali
o psichiche durature, la quale, in interazione
con barriere di diversa natura, può ostacolare
la piena ed effettiva partecipazione della
persona interessata alla vita professionale su
un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori”.
Maternità

Sentenza Jessy Saint Prix contro Secretary of State
for Work and Pensions del 19 giugno 2014.
“L’articolo 45 TFUE deve essere interpretato nel
senso che una donna, che smetta di lavorare o di
cercare un impiego a causa delle limitazioni fisiche
collegate alle ultime fasi della gravidanza e al
periodo successivo al parto, conserva la qualità di
«lavoratore» ai sensi di tale articolo, purché essa
riprenda il suo lavoro o trovi un altro impiego
entro un ragionevole periodo di tempo dopo la
nascita di suo figlio”.
Sesso

Sentenza X. del 3 settembre 2014
“L'articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del
19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di
parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di
sicurezza sociale, dev'essere interpretato nel senso che osta ad una
normativa nazionale che preveda, ai fini del calcolo di una
prestazione previdenziale versata per un infortunio sul lavoro,
l'applicazione, quale fattore attuariale, della differenza di speranza di
vita tra gli uomini e le donne, laddove l'applicazione di tale fattore
faccia sì che il risarcimento versato una tantum a titolo di tale
prestazione risulti inferiore, quando sia concesso ad un uomo,
rispetto a quello che percepirebbe una donna di pari età che si
trovi in situazione analoga.”
Il fattore cronologico determina in questo caso una discriminazione
nei riguardi del sesso maschile.
Orientamento sessuale

Sentenza Hay del 12 settembre 2013
L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del
Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale
per la parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che esso
osta a una disposizione di un contratto collettivo, come quella di
cui trattasi nel procedimento principale, a termini della quale a un
lavoratore dipendente unito in un patto civile di solidarietà con una
persona del medesimo sesso sono negati benefici, segnatamente
giorni di congedo straordinario e premio stipendiale, concessi ai
dipendenti in occasione del loro matrimonio, quando la normativa
nazionale dello Stato membro interessato non consente alle
persone del medesimo sesso di sposarsi, allorché, alla luce della
finalità e dei presupposti di concessione di tali benefici, detto
lavoratore si trova in una situazione analoga a quella di un
lavoratore che contragga matrimonio”.
Divieto di discriminazione

Nel diritto comunitario, il principio di uguaglianza è
nato dall’elaborazione del divieto di discriminazione.

Quest’ultimo ha trovato collocazione nel TCE
essenzialmente per assicurare il buon funzionamento
del mercato.

Nel Trattato istitutivo CEE, il divieto di discriminazione
si concreta nell’obbligo di parità retributiva uomodonna a parità di lavoro (art. 119: “… l’uguaglianza delle
remunerazioni, senza discriminazione fondata sul sesso,
implica che la remunerazione accordata per lo stesso
lavoro pagato per assolvere il proprio compito sia stabilito
sulla base della stessa unità …)
Segue
Conseguito l’obiettivo della libera circolazione
di merci, servizi, lavoro e capitale, il mercato
avrebbe garantito il benessere sociale.
 Seguono le prime direttive degli anni ‘70
sull’attuazione della parità di trattamento con
riferimento alla retribuzione, alle condizioni di
lavoro e ai regimi di sicurezza sociale (es.
direttiva n.76/207/CEE sul divieto di
discriminazione fondata sul sesso).

Segue


Art. 141, comma 4, del Trattato CE: “Allo scopo di
assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e
donne nella vita lavorativa, il principio di parità di
trattamento non osta a che uno Stato membro
mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi
specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività
professionale da parte del sesso sottorappresentato
ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle
carriere professionali”.
Si tratta della possibilità di adottare azioni
positive per assicurare parità di trattamento tra
uomini e donne nelle carriere professionali
(articolo ripreso dall’arti. 23, comma 2, della
Carta di Nizza).
Segue

Art. 12 TUE (ora 18 TFUE): “Nel campo di
applicazione del presente trattato, e senza
pregiudizio delle disposizioni particolari dallo
stesso previste, è vietata ogni discriminazione
effettuata in base alla nazionalità”
segue
Art. 13 TUE (ora art. 19 TFUE): “… il Consiglio, deliberando
all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del
Parlamento europeo, può prendere provvedimenti opportuni per
combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine
etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le
tendenze sessuali”.
 La disposizione, al contrario delle altre previsioni funzionali alla
creazione del mercato unico, dà effettiva attuazione ai principi di
libertà e democrazia e rispetto dei diritti umani e delle libertà
fondamentali sanciti dalle Costituzioni nazionali.
 Due limiti: limite “procedurale” dell’obbligo di unanimità previsto
per l’adozione di provvedimenti opportuni e limite “sostanziale”
della mancata formulazione di una clausola generale che
ricomprenda tutti i motivi di discriminazione.
 Differenza con l’art. 21 della Carta di Nizza: l’art. 21 pone un
obbligo negativo generalizzato; l’art. 13 prevede, oltre al suddetto
divieto, anche la possibilità di intervento mediante provvedimenti
necessari per combattere i trattamenti discriminatori.

Segue
Sulla base dell’art. 13 TUE il Consiglio ha adottato due
importanti direttive:
- Direttiva
n. 2000/43/CE
(lotta
contro
la
discriminazione basata sul sesso e sull’origine etnica);
- Direttiva n. 2000/78/CE (lotta alla discriminazione
basata su religione, disabilità, età e tendenze sessuali). Il
principio di non discriminazione di cui alla direttiva n.
78 si applica a tutte le persone, del settore pubblico e
del settore privato, per quanto riguarda l’accesso e le
condizioni di lavoro, formazione, orientamento
professionale e attività sindacale. Non vi rientrano la
previdenza e la protezione sociale.

Esempi di applicabilità delle direttive comunitarie


Sentenza Coleman del 10 luglio 2006: domanda pregiudiziale proveniente
dall’Employment Tribunal di Londra sull’interpretazione della locuzione
“divieto di discriminazione fondata su …”.
Caso: licenziamento subito dalla signora Coleman per motivi riconducibili
alla cura del figlio disabile e dichiarato ingiusto dal datore di lavoro, il quale
si era offerto di risarcire la lavoratrice.

La signora aveva adito la corte nazionale, invocando l’applicabilità della
direttiva 2000/78/CE, che proteggerebbe anche i genitori e coloro che si
prendono cura delle persone disabili.

A fronte del rinvio da parte del giudice nazionale, la Corte di giustizia ha
affermato che “anche se in una situazione come quella di cui alla causa
principale la persone oggetto di discriminazione diretta fondata sulla disabilità
non è essa stessa disabile, resta comunque il fatto che è proprio la disabilità a
costituire il motivo di trattamento meno favorevole”.

La Corte riconosce il licenziamento come frutto di discriminazione
fondata sull’handicap e quindi ritiene applicabile la direttiva in esame al
caso concreto.
Caso Maruko del 1 aprile 2008

Domanda di pronuncia pregiudiziale circa l’applicabilità della direttiva
2000/78/CE.

Caso: diniego, espresso dall’ente di previdenza dei lavoratori dei teatri
tedeschi, di riconoscere al signor Maruko una pensione di vedovo a
titolo di prestazioni ai superstiti previste dall’ente a cui era iscritto e a
cui versava regolarmente i contributi il suo partner, poi deceduto. Il sig.
Maruko era legato da unione solidale al defunto, istituto specificamente
previsto dalla legge tedesca come alternativo al matrimonio.

La Corte riconosce che la direttiva 2000/78, in particolare gli art. 1 e 2,
osta alla normativa prevista dalla VddB per le coppie che stringono
un’unione solidale. Laddove, infatti, a livello nazionale la legislazione
equipara il matrimonio all’unione solidale, i regimi come quello
amministrato dalla VddB devono uniformare i loro regolamenti interni.

La Corte non riconosce il generale principio di non discriminazione
per orientamento sessuale, ma sulla base della specifica legislazione
nazionale.
Segue
Sentenza Feryn del 10 luglio 2008: domanda pregiudiziale circa
l’interpretazione della direttiva 2000/43/CE.
 Caso: ricorso presentato dal Centro per le pari opportunità e per
la lotta contro il razzismo contro la società Firma Feryn NV, per le
affermazioni di uno dei suoi direttori che aveva dichiarato
pubblicamente che la sua società non voleva assumere persone
“alloctone”.


La Corte ha affermato che “il fatto che un datore di lavoro dichiari
pubblicamente che non assumerà lavoratori dipendenti aventi una
determinata origine etnica o razziale configura una discriminazione
diretta” in quanto tale comportante dissuade fortemente la
presentazione delle domande e quindi ostacola “il loro accesso al
mercato del lavoro”.

Si amplia così la nozione di discriminazione all’ipotesi in cui non
esista una vittima identificabile e gli effetti discriminatori siano solo
potenziali.
Altri casi in materia di divieto di discriminazione



Caso Grant del 17 febbraio 1998: la negazione di vantaggi salariali al
convivente dello stesso sesso del lavoratore costituisce una
discriminazione in base all’orientamento sessuale, laddove il regolamento
del personale riconosce gli stessi vantaggi al convivente di sesso diverso.
Caso P. del 30 aprile 1996: la Corte afferma la violazione delle disposizioni
del Trattato, nella parte in cui vietano la discriminazione in base al sesso,
per la lavoratrice transessuale ingiustamente licenziata.
Caso D e Svezia (Cause riunite C-122/99P e C-125/99P): nel 2001 un
funzionario CE lamentava una discriminazione nel trattamento delle
coppie legate da unione registrata rispetto a quelle legate dal matrimonio,
in riferimento alla fruizione dell’assegno familiare, precluso al partner
registrato del ricorrente dallo Statuto dei funzionari della Comunità. La
Corte aveva rifiutato un’estensione della nozione di “funzionario
coniugato” e ribadito che l’esclusione del beneficio non comporta
violazione del Trattato”. Tale situazione è stata superata da una
parificazione dei dipendenti uniti da unioni registrate a seguito di modifica
nel 2004 dello Statuto.
Sentenza K.B. del 7 gennaio 2004

Questione circa la compatibilità con il diritto comunitario di una
normativa nazionale che, non ammettendo il matrimonio tra
transessuali, negava a questi ultimi la possibilità di ottenere una
pensione di reversibilità per vedovi.

La Corte ha riconosciuto che la disparità di trattamento lamentata
non incide sul riconoscimento della pensione, ma sulla condizione
preliminare ad essa, ossia la capacità a contrarre
matrimonio, e quindi ha affermato che la legislazione inglese, che
vietava il matrimonio dei transessuali non permettendo il
riconoscimento delle nuova identità sessuale, fosse incompatibile
con l’art. 141 TCE.
Divieto di discriminazione ulteriormente consacrato nella direttiva
2006/54/CE, la quale chiarisce che la parità di trattamento tra
uomini e donne “si applica anche alle discriminazioni derivanti dal
cambiamento di sesso”.
 Sentenza della Corte Cost. 170/2014

Il principio di non discriminazione
nell’ordinamento internazionale
Art. 7 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo,
adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel
1948: “Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza
alcuna discriminazione, ad un'eguale tutela da parte della legge.
Tutti hanno diritto ad un'eguale tutela contro ogni
discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro
qualsiasi incitamento a tale discriminazione”.
 Art. 2, comma 1, del Patto internazionale dei diritti
civili e politici: “Ciascuno degli Stati parti del presente Patto
si impegna a rispettare ed a garantire a tutti gli individui che si
trovino sul suo territorio e siano sottoposti alla sua giurisdizione
i diritti riconosciuti nel presente Patto, senza distinzione alcuna,
sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso, la religione,
l'opinione politica o qualsiasi altra opinione, l'origine nazionale o
sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra
condizione”.

Il principio di non discriminazione
nell’ordinamento internazionale

Art. 14 della Convenzione europea dei
Diritti dell’Uomo: “Il godimento dei diritti e
delle libertà riconosciuti nella presente nella
Convenzione deve essere assicurato senza
nessuna discriminazione, in particolare quelle
fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la
religione, le opinioni politiche o quelle di altro
genere, l’origine
nazionale
o
sociale,
l’appartenenza a una minoranza nazionale, la
ricchezza, la nascita o ogni altra condizione”.
Art. 14 CEDU
Esso non ha carattere sostanziale. Si applica in
combinato disposto con altri diritti riconosciuti e
garantiti nella Convenzione.
 Tale principio di non discriminazione, manifestazione
del più generale principio di uguaglianza, “è
profondamente radicato nella giurisprudenza della Corte”
(Corte EDU, E.B. c. Francia, 22 gennaio 2008).
 L’elencazione di cui all’art. 14 non è esaustiva (sentenza
Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976) e la Corte ne
ha da subito reso un’interpretazione non restrittiva,
arrivando a sostenere che il divieto di discriminazione
può essere violato anche in assenza della violazione di
una diversa norma della Convenzione (Abdulahziz e altri
c. Regno Unito, 28 maggio 1985), superando così il limite
della sua applicazione effettiva.

Segue

Anche se sono richiamati i fattori più comuni
di discriminazione (sesso, razza, lingua,
religione), la Corte EDU fa fatto applicazione
dell’art.
14
anche
per
condannare
comportamento commissivi e/o omissivi
anche per altri motivi (sentenza Salgueiro da
Silva Mauta c. Portogallo, 21 dicembre 1999,
stabilisce il divieto di discriminazione per
orientamento sessuale).
Casi di applicazione del principio di
non discriminazione


Libertà religiosa
Art. 9 CEDU: «1. ogni persona ha diritto alla libertà di
pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include
la libertà di cambiare religione o credo, così come la
libertà di manifestare la propria religione o il proprio
credo individualmente o collettivamente, in pubblico o
in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche
e l’osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la
propria religione o il proprio credo non può essere
oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono state
stabilite dalla legge e che costituiscono misure
necessarie, in una società democratica, alla pubblica
sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o
della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e
delle libertà altrui».
Libertà religiosa

La Corte riconosce il fondamentale compito
dello Stato,in virtù del principio di neutralità
e del pluralismo religioso, pari trattamento
giuridico alle confessioni di minoranza (Caso
Testimoni di Geova c. Russia del 2010 e
Testimoni di Geova c. Austria del 2008) e non
interferire sulle scelte operate all’interno
delle organizzazioni religiose in ordine alla
scelta dei ministri di culto (Serif. c. Grecia del
1999)
Libertà religiosa

la Corte riconosce la legittimità della disciplina francese di
sanzionare, in nome del principio di laicità, la pratica di
indossare il velo all’interno delle istituzioni scolastiche (caso
Dogru c. Francia del 2008; caso Kervanci c. Francia del 2008;
casi Ghazal e Aktas c. Francia del 2009).

Più di recente, CO.D.U., S.A.S. c. Francia del 1 luglio
2014: la Corte EDU ha ritenuto che la legge francese che
vieta l’occultamento del volto negli spazi pubblici non
determina una violazione della Convenzione europea dei
diritti umani e specificatamente del diritto al rispetto della
vita privata, del diritto alla manifestazione del proprio credo
religioso e del diritto a non subire discriminazioni.
Libertà religiosa



Sentenza CEDU Cha’are Shalom Ve Tsedek c. Francia del 27 giugno 2000 in
materia di abbattimento rituale di animali secondo le regole del diritto
ebraico.
La Corte ha riconosciuto all’ associazione ricorrente la natura di ente
religioso e il diritto di esercitare le facoltà inerenti il diritto di libertà
religiosa. Non ha negato che il diritto di libertà religiosa possa manifestarsi
anche attraverso pratiche e riti particolari come gli abbattimenti rituali.
Tuttavia, la Corte non ritiene sussistente la violazione dell’art. 9 CEDU per
una serie di motivi:
- l’associazione ricorrente non ha subito alcuna limitazione al diritto di
alimentarsi con carne kosher;
- le modalità di abbattimento rivendicate dalla associazione ricorrente
sono sin sostanza identiche a quelle della Associazione concistoriale
ebraica di Parigi;
- la Corte ha ritiene legittima la scelta dell’autorità francese di scegliere
quale ente o associazione possa procedere all’abbattimento rituale in
quanto rientrante nell’ambito dell’apprezzamento discrezionale proprio di
ciascuno Stato membro.
Caso Lautsi c. Italia
(crocifisso nelle aule)
Sentenza CEDU della Seconda sezione del 3
novembre 2009: l’esposizione nelle aule del
crocifisso, avendo carattere eminentemente
religioso, viola i diritti religiosi degli alunni (art. 9
CEDU) e il diritto delle famiglie di educare i figli
secondo il proprio credo religioso (art. 2 Prot. 1
CEDU);
 Sentenza CEDU Grand Chambre del 18 marzo
2011: l’esposizione del crocifisso nelle aule risulta
essere compatibile con il diritto a professare la
libera fede in ragione del carattere passivo e non
attivo del suddetto simbolo.

Segue

-


Il divieto di discriminazione di cui all’art. 14 CEDU non è assoluto ma i
suoi effetti si manifestano in combinato disposto con altre disposizioni
contenute nel testo convenzionale ovvero rispetto a diritti che in esse
trovano la base giuridica. Ne sono esempi:
Caso Petrovic c. Austria, marzo 1998, dove la Corte, richiamando anche l’art.
8 CEDU (tutela della vita privata e familiare), afferma l’esistenza di un
dovere per l’Austria di assicurare, senza discriminazioni, permessi di
maternità.
Caso Kosteski c. ex Repubblica Iugoslava di Macedonia, 13 aprile 2006:
““Article 14 of the Convention complements the other substantive provisions of
the Convention and the Protocols. It may be applied in an autonomous manner
as a breach of Article 14 does not presuppose a breach of those other provisions
although, since it has no independent existence, it can only come into play where
the alleged discrimination falls within the scope of the rights and freedoms
safeguarded by the other substantive provisions”.
Nella sentenza Kosteski la Corte indica inoltre i criteri in base ai quali
valutare la potenzialità discriminatoria di una determinata disciplina. Il
trattamento deve essere supportato da obiettiva e ragionevole
giustificazione, sorretto da un fine legittimo e proporzionato (così anche
sentenza Abdulahziz).


Il trattamento, ancorchè differenziato, per essere
legittimo, deve essere sorretto da ragioni
necessarie.
La Corte ha affermato che, nell’esame dei
trattamenti nei quali possono verificarsi
discriminazioni in base ad orientamento sessuale
(sentenza L. and V. c. Austria, 9 gennaio 2003;
Karner c. Austria, 24 luglio 2003), sesso (Burghartz
c. Svizzera, febbraio 1994), nascita fuori dal
vincolo coniugale (sentenza Sommerfeld c.
Germania, 8 luglio 2003), gli Stati membri devono
fornire ragionevoli giustificazioni.

Nel caso in cui venga riscontrata una disparità di trattamento,
la Corte deve valutare la legittimità dell’azione statale,
tenendo conto del contesto in cui si colloca.

La Corte fa altresì rinvio ai principi che normalmente prevalgono
nelle società democratiche (sentenza Regime linguistique de
l’enseignement en Belgique, 23 luglio 1968).

Disparità di trattamento giustificata in dottrina sulla base della
tesi del “margine di apprezzamento” che si restringe se vi
è un common ground o comune consenso, rispetto ad una
materia, nei diversi Stati appartenenti al Consiglio d’Europa.
Casi analoghi a confronto: le stesse
conclusioni?
Caso CEDU Frettè c. Francia del 2002: il ricorrente lamenta la
violazione del principio di non discriminazione e del rispetto alla
vita privata (articoli 8 e 14) per essersi visto negare la sua domanda
di adozione in quanto omosessuale. Per i servizi sociali incaricati di
verificare l’idoneità all’adozione, il signor Fretté sarebbe stato
senz’altro capace di crescere un figlio ma le sue circostanze personali
ponevano alcuni dubbi.
 Il massimo grado di giudizio francese convalidava la decisione presa
dai servizi competenti perché non vi erano sufficienti garanzie per
lo sviluppo del bambino.
 La Corte accettava quindi le ragioni del Governo francese che,
oltre a sostenere l’inapplicabilità dell’art. 8 rispetto alle pretese di
adozione del ricorrente, faceva rientrare la questione nel margine di
apprezzamento riconosciuto agli Stati.
 Le ragioni addotte dalla Francia sarebbero rispondenti ad uno
scopo legittimo e le misure adottate risultano proporzionali al fine
perseguito: nel bilanciamento degli interessi prevalgono quelli del
bambino eventualmente adottato.
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Segue
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Sentenza CEDU E.B c. Francia del 22 gennaio 2008: ricorso presentato da
una donna francese alla quale, nonostante le qualità personali e
professionali, è stata rifiutata l’adozione in ragione della sua omosessualità.
Per i giudici francesi, nel caso della signora B. non sussistevano le
condizioni psicologiche per far crescere il bambino adottivo per via della
mancanza di una figura paterna.
La ricorrente, infatti, non aveva nascosto né le sue tendenze sessuali nel
corso della procedura di adozione, né la sua relazione con una psicologa.
Per i servizi sociali, la situazione della signora B. era una situazione
“complessa” in cui il bambino avrebbe potuto soffrire.
Posto il caso della signora B. concerne il diritto di un singolo, purchè di età
superiore a anni 28, all’adozione previsto per legge dallo Stato francese, il
trattamento che le è stato riservato in quanto omosessuale non può
considerarsi rispondente ad un fine legittimo né risulta giustificato da
motivi seri e ragionevoli.
La Corte EDU non ha ritenuto sufficiente la motivazione di mancanza di
figura paterna. L’omosessualità era fattore decisivo per il rifiuto della
domanda, quindi configurava una disparità, irragionevole, di trattamento ai
sensi degli articolo 8 e 14 CEDU con conseguente riparazione monetaria
per danno subito.
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Differenze tra i due casi: viene considerato
legittimo il rifiuto al sig. Frettè in base a
valutazioni circa l’organizzazione del tempo
mentre la signora B. è un’educatrice in possesso
dei requisiti necessari per avviare e concludere
positivamente la procedura di adozioni (rifiuto
illegittimo).
Significativa è l’opinione dissenziente espressa da
un giudice nella sentenza Frettè: “è chiaro che un
consenso europeo in tale ambito sta emergendo”.
Sentenza X c. Austria del 19 febbraio 2013
in materia di adozione da parte di coppia
omosessuale
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Caso: ricorso da parte di due donne che vivono da anni in una
relazione stabile e il figlio che una di esse ha avuto da un uomo con
cui non era sposata. Nel 2005 le donne hanno concluso un accordo
di adozione per creare un legame legale tra il minore e la compagna
della madre, legame negato dal giudice, in base all’art. 182. 2 del
codice civile austriaco, secondo il quale la persona che adotta
“rimpiazza” il genitore naturale dello stesso sesso, con conseguente
perdita dei diritti da parte della madre naturale.
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La Corte riconosce la violazione degli artt. 8 e 14 CEDU, visto che
in Austria l’adozione dei figli dei compagni è possibile per coppie
eterosessuali non sposate.
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La Corte ha sottolineato la non necessarietà della differenza di
trattamento tra coppie omosessuali ed eterosessuali, lasciando
però agli Stati membri la facoltà di riconoscere il diritto
all’adozione dei figli dei partner alle coppie non sposate.
Ed ancora … in materia di
orientamento sessuale
Sentenza CEDU B.B. c. Regno Unito del 7 luglio 2004:
la Corte stabilisce che costituisce violazione
dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8
(rispetto della vita privata e familiare), la previsione a
livello nazionale di una fattispecie incriminatrice che
punisca i rapporti sessuali tra uomini adulti e individui
minori di anni 18 consenzienti dello stesso sesso,
mentre per i rapporti eterosessuali l’età del consenso
è fissata a 16 anni.
 L’art 14 CEDU impone che qualunque forma di
differenzazione sia basata su ragioni obiettive,
specifiche e sufficienti, costituendo altrimenti
una discriminazione ingiustificata equivalente a quelle
basate su razza, origine o colore.
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Segue
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Sentenza CEDU Hämäläinen c. Finlandia del 16
luglio 2014:la Grande Camera della Corte EDU
nega che la conversione forzata del matrimonio
in una partnership civile, a seguito del mutamento
di identità di genere di uno dei due coniugi e a
fronte di un regime di diritti sostanzialmente
comparabile, possa determinare una violazione
della Convenzione (artt. 8 e 14 CEDU), laddove
la normativa nazionale non contempli il
matrimonio omosessuale e l’unione registrata sia
disciplinata in modo da assicurare un regime
giuridico
paritario
rispetto
all’istituto
matrimoniale.
In materia di nazionalità
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Sentenza Dhahbi c. Italia dell’8 aprile 2014: la
Corte riconosce che il mancato riconoscimento
al ricorrente tunisino (poi divenuto cittadino
italiano) dell’assegno per nucleo familiare
numeroso ai sensi della legge n. 448 del 1998
comporti la violazione dell’art. 14, in combinato
disposto con l’art. 8 CEDU, avendo ritenuto che
non vi fosse alcuna giustificazione obiettiva e
razionale, anche tenendo conto dell’ampio
margine di discrezionalità di cui godono gli Stati in
materia, alla esclusione dal godimento di alcuni
benefici fondata unicamente sulla nazionalità.
Human rights jurisdiction
Spazio condiviso tra Corte UE, attraverso la Carta di
Nizza, primo catalogo dei diritti fondamentali
nell’ambito dell’Unione europea e con pari valore
giuridico dei Trattati (art. 6 TUE), e Corte EDU,
attraverso la Convenzione, che vive e si riempie di
significato nella giurisprudenza della sua Corte.
 Rapporto sancito dall’art. 52, comma 3, della Carta di
Nizza, secondo il quale qualora la Carta “… contenga
diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione, il
significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli
conferiti dalla suddetta convenzione”, ferma restando la
possibilità che “il diritto dell’Unione conceda una
protezione più estesa”.
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