ATTORE, STAR, BRAND: UN’ANALISI DELLA COSTRUZIONE DIVISTICA DI KEVIN SPACEY* Angela Santomassimo *Estratto dalla testi di laurea triennale in Arti e Scienze dello Spettacolo, Kevin Spacey e la costruzione dello stardom. Un’analisi intermediale (a.a 2014-2015), relatore Prof. Andrea Minuz, “Sapienza”, Università di Roma Introduzione L’industria hollywoodiana ha perso da tempo il suo primato nella creazione di figure autorevoli in termini di star power. Come dimostra la classifica «Celebrity 100» stilata da Forbes, l’avvento della televisione prima e di Internet poi, hanno minato le basi già instabili degli ultimi residui dello Star System. La scelta di analizzare una figura come quella di Kevin Spacey nasce dal bisogno di indagare un tipo diverso di stardom che trae origina all’interno dell’industria hollywoodiana per poi prenderne le distanze. Una costruzione divistica che si fa portavoce, oltre che della maggiore autonomia di cui le celebrità possono usufruire rispetto al passato, di un cambiamento generale in atto nel modo in cui il mondo dell’intrattenimento si sposta dagli studios alla rete. Un’ immagine problematica: anti-star stardom Un elemento ricorrente nel racconto della scalata al successo è un punto di svolta, un momento in cui la futura star comprende il suo destino. Nel caso di Spacey, questo turn point è rappresentato da un doppio incontro, quello con Katherine Hepburn nel parcheggio di un teatro e con Jack Lemmon durante un act class a New York. Entrambi, già all’epoca (siamo intorno al 1973) all’apice della carriera, consigliano al giovane Spacey di continuare a lavorare per diventare un attore. Al di là della curiosità biografica di questi incontri, è interessante notare come nelle figure divistiche di due dei personaggi di spicco della Hollywood classica, si ritrovino tratti comuni all’immagine di Spacey stesso, come se questa si fosse plasmata nel tempo facendo costante riferimento a quei due modelli. Da un lato Mrs. Hepburn, figura anticonformista di femminilità nella Hollywood degli anni trenta, conosciuta per il suo carattere forte e citata da Anne Morey come attrice «self-maker» (Morey, 2011). Dall’altro, Jack Lemmon, la star classica per eccellenza, in grado di incarnare un determinato «tipo sociale», quello dell’«everyman» (Farr, 2011). L’immagine della star Spacey è contrassegnata da una costante ambivalenza tra apparire e scomparire, tra rientrare in una specifica tipologia di ruoli, come Jack Lemmon, e il rifiuto di ogni categorizzazione al pari di Katharine Hepburn. Secondo Richard Dyer, il processo divistico trae origina dal teatro ma si sviluppa pienamente solo in relazione all’attore di cinema, come se esistesse qualcosa di intrinseco al mezzo cinematografico che crea le star (Dyer, 2003). In un articolo del 1938, apparso sulla rivista di cinema Bianco e Nero, l’allora direttore Luigi Chiarini, spiega che laddove l’attore di teatro avrà il compito di far rivivere un personaggio esistente, «l’attore cinematografico interviene in una fase che è ancora di creazione e non di interpretazione; egli [...] dovrà contribuire a creare un personaggio [...] non è soltanto un interprete ma il creatore del film col regista» (Chiarini,1938). Grazie a questo margine creativo, il secondo possiede i presupposti per diventare una star a differenza del primo. Ora, nel caso specifico Spacey, che nasce come attore di teatro, entrambi gli aspetti sembrano coesistere. La sua figura di celebrità oscilla costantemente tra la visibilità paradigmatica delle star di Hollywood e uno desiderio di scomparire dietro il personaggio, tipicamente teatrale, originando un’immagine problematica, ma che allo stesso tempo contribuisce al fascino enigmatico per il quale la star è più conosciuta a livello internazionale. L’immagine divistica si modella sia a partire dall’immagine filmica del divo che da quella mediatica, la quale «trasfigura analogamente a quanto fa la pellicola» (Jandelli, 2011). Ironicamente, di Spacey si scrive che: «we know more about the surface of Mars, than about Kevin Spacey’s life». Eppure, l’assenza di questo presupposto non corrisponde, se non in parte, a una caduta della sua popolarità. Determina semmai un tipo diverso di stardom che McDonald chiama «anti-star stardom» (McDonald, 2013). Pur non rientrando a pieno titolo nella alist delle star di Hollywood, Spacey si fa rappresentante della categoria delle prestige star. Se una celebrità è prima di tutto «a person-as-brand», veicolo di una serie di valori riconoscibili e spendibili sul mercato, nel caso di Spacey questo brand è legato soprattutto al capitale simbolico che si origina dal suo talento attoriale, sancito dai numerosi premi vinti, una certa eleganza e impeccabilità nel mostrarsi pubblicamente, così come la sua stessa invisibilità in termini di vita privata, l’enigmaticità che ne deriva, le iniziative personali, la sua casa di produzione, il tutto unito a un certo humor, di cui sono esempi le sue esilaranti imitazioni delle star di Hollywood. Ed è proprio da queste che Spacey prende le distanze dichiarando in più occasioni «I’m not a celebrity, that’s not my profession, I’m an actor» (Spacey, 2007). A dimostrazione di ciò, la scelta di allontanarsi fisicamente da Hollywood per dirigere il teatro Old Vic di Londra, proprio nel momento in cui riceve la massima onorificenza di Hollywood per Hollywood, l’Oscar come miglior attore protagonista per American Beauty nel 1999. Ma questo distacco dalla logica commerciale hollywoodiana è solo apparente. È proprio a partire dall’invisibilità della sua immagine pubblica che Spacey costruisce la sua figura di star, la cui enigmaticità confluisce in tutta quella serie di cattivi a cui da vita. Come dichiara in una battuta il personaggio di Frank Underwood della serie House of Cards: «there’s a value in having secrets we wouldn’t be ourselves without them». Oltre a rendere quei personaggi verosimili fino alle estreme conseguenze, la scelta di “non apparire” intercetta significati socio-culturali importanti. Se le star di Hollywood sono il simbolo stesso di una nazione costruita per essere venduta come quella americana, Spacey ne rappresenta l’eccezione e quindi il riscatto. Non a caso il ruolo che ne sancisce il lancio nel firmamento delle star - dopo il quale Spacey riceve la sua stella sul Walk of Fame - è quello di Lester Burnham in American Beauty, personaggio in crisi di mezza età che rifiuta tutti i feticci della realtà consumistica americana. Il film resta il suo più grande successo di critica e pubblico. In più, come si vedrà nel paragrafo seguente, il ruolo di Lester in relazione all’immagine di Spacey, intercetta apertamente le contraddizioni di un periodo storico, quello dell’epoca Clinton. Personaggi ricorrenti e crisi della mascolinità Nonostante l’autonomia di cui le star contemporanee possono usufruire in termini di scelte creative, quando si tratta di tener fede ai bisogni economici di Hollywood, queste tendono ancora oggi ad essere categorizzate in «tipi sociali» (Dyer, 2003). Nel 1995, dopo l’Oscar per aver interpretato “il diavolo in persona”, Spacey diventa Keyser Söze, il villain per eccellenza, specializzato nell’elaborazione di piani criminali perfetti (Un Perfetto Criminale è il titolo di un film interpretato dall’attore). Lo stesso anno sancisce la nascita del serial killer di Seven, John Doe. Entrambi i personaggi scompaiono, eclissando la loro presenza all’interno della storia. Nella scena de I Soliti Sospetti che vede i cinque accusati in cella, quattro di loro parlano, facendo supposizioni sulla situazione. Roger “Verbal” Kint alias Keyser Söze, si trova in disparte e viene inquadrato solo quando tirato in ballo da uno dei quattro («io voglio sapere chi è lo zoppo»). Allo stesso modo “Verbal” si dilegua alla fine del film, un attimo prima che ne venga scoperta l’identità. Medesimo sguardo imperturbabile, stessa capacità di non lasciare tracce, caratterizza John Doe. Quando “Verbal” viene trasportato in cella, la macchina da presa lo inquadra a partire dal basso verso l’alto, un’inquadratura che pone l’accento sulla sua menomazione fisica. In Seven, nella scena in cui John Doe arriva al commissariato per costituirsi, questi scende da un taxi (palese la somiglianza con l’ultima scena di I Soliti Sospetti) e ancora la macchina da presa temporeggia inquadrandolo dal basso e seguendone il passo da dietro. Nella commedia Fred Claus-Un fratello sotto l’albero, la presenza del perfido Clyde è annunciata, oltre che da un cambiamento della colonna sonora, da un movimento di macchina simile. Ritornando al cattivo di Seven, è interessante notare come questi non sia il solo a nascondere la sua presenza dietro la serie di omicidi; è lo stesso Kevin Spacey che accettando di non comparire nei titoli di testa, né di prendere parte alla campagna mediatica del film, diventa Doe. Un tipo di espediente volto a portare alle massime conseguenze la suspence della storia garantendo una maggiore verosimiglianza al personaggio: «Kevin Spacey so submerges himself in his characters that he disappears before your very eyes... Kevin Spacey is not Kevin Spacey […] he's working 24:7 to make us believe in new lives, new stories. And like that, he’s gone…» (Glover, 1999). Entrando nei personaggi che interpreta, questi diventano parte del suo enigma. L’attore è perfetto nelle vesti di quei criminali perchè ne adotta la volontà di scomparire diventando loro nel momento in cui decide di non mostrarsi come star ma esistere nell’atto della performance. Ma come afferma McDonald « no matter how credibly a character is played, the actor always remains visible » (McDonald, 2013). Agli occhi dello spettatore, performer e personaggio restano visibili separatamente. È nell’artificio visivo del cameo che si manifesta pienamente il riconoscimento delle due entità: «the cameo reproduces stardom in miniature» (Goble, 2010); ovvero, nel cameo gli attori interpretano se stessi, ostentando quei tratti per i quali sono più conosciuti e attivando un meccanismo di self parody. Kevin Spacey nei panni del Dr.Male appare nel cameo di Austin Power in Goldmember. Nonostante l’attore voglia staccarsi dalla sua fama di cattivo, è lui stesso ad usufruirne in termini di visibilità, accettando di prendere parte a produzioni mainstream, destinate a un tipo di pubblico più vasto. A stabilizzare l’immagine della star contribuisce anche un certo uso del corpo e della voce. Che siano cattivi o meno, Spacey interpreta personaggi parlanti, sempre impegnati in lunghe conversazioni o monologhi. Oltre a “Verbal”, in I Soliti sospetti, così soprannominato per la sua parlantina, c’è Larry Mann in The Big Kahuna, un cinico venditore di lubrificanti industriali : «this is the Kevin Spacey we all love to love […] with a verbal dexterity miles beyond that of any other american actor […]. He doesn’t read dialogue, he toys with it, makes it dance loops in his mouth, ultimately spits it out in lacy filigrees or bubbles inside» (Hunter, 2000). Una voce riconoscibile quella di Spacey, contraddistinta da una particolare cadenza che ne fa il marchio di fabbrica, dentro e fuori dallo schermo. Nell’ambito delle sue apparizioni pubbliche, nei talk show o durante serate di premiazione, ogni volta che può Spacey occupa la scena e si lascia andare nel racconto di piccoli aneddoti sulla sua carriera e vita, o meglio ancora intona una canzone. Cantare è una delle passioni di Spacey che da sfoggio delle sue capacità nel film da lui diretto e prodotto Beyond the Sea, in cui vi interpreta il cantante e attore Bobby Darin con l’aiuto del prostethic make up per mascherare la netta differenza d’età. Sull’idea di corpo associata alla star Spacey il discorso si fa più ampio. La sua fama non fa leva sulla bellezza dei suoi tratti fisici. Difficilmente il suo corpo viene mostrato e quando accade, si tratta di un corpo deformato, che ha subito una trasformazione o sta per subirla. Così, nella messa in scena - in cui prevalgono primi piani e piani medi - e sulle copertine di riviste, viene posto l’accento sul suo volto. Sempre curato, fresco di rasatura in ogni occasione, libero di mostrare le sue «adorable dimples» (n.d), che gli conferiscono addirittura un tocco bambinesco, ma che a un primo distratto sguardo possono sembrare delle cicatrici. In relazione al corpo, entra in gioco la questione della presunta omosessualità della star. Se nella vita reale è difficile vederlo in compagnia di una donna, lo stesso vale per i suoi personaggi sullo schermo, la maggior parte dei quali si muovono in universi prettamente maschili e mostrano una disfunzionalità a instaurare un rapporto con la controparte femminile. Scrive Richard Dyer sulla sua interpretazione in Seven: «Kevin Spacey performance, the rather prissy lips and precise delivery, the shot of him delicately dunking a tea bag in a cup after his arrest, might add up to a sense of Doe effeminacy» (Dyer, 1999). Se in Mezzanotte nel giardino del bene e del male, Spacey interpreta esplicitamente un personaggio gay, in L.A Confidential, è il carismatico Jack Vincennes, poliziotto della narcotici, la cui priorità è l’orchestrare finti arresti per un programma televisivo. Eppure nel momento in cui ritrova il cadavere di un attore omosessuale, Jack cambia e si dimostra disposto a tutto pur di sapere la verità. In tutte queste interpretazioni il corpo della star non è mai mostrato esplicitamente, ma appare piuttosto frammentato in una serie di primi piani e piani medi. Secondo Turner i problemi politici di una nazione sono problematizzati e espressi attraverso il corpo (Turner, 1995). In tal senso, il corpo di Spacey si fa veicolo di una mascolinità in crisi, ravvisabile soprattutto nel personaggio di Lestern Burnham in American Beauty. Chiaramente frustrato sessualmente, questi ha perso il suo ruolo di maschio dominante, di cui cerca di riappropriarsi scolpendo il suo corpo. La trasformazione fisica (è la prima volta che il corpo di Spacey è così esposto) è però solo apparente. Lester sembra piuttosto regredire a una forma di giovinezza adolescenziale. Nella scena che apre il climax finale del film, questi si trova in garage, la sua camera da teenager. Impegnato a sollevare dei pesi, l’uomo si gira per guardare il suo riflesso nella finestra, che gli restituisce l’immagine di un corpo dai muscoli pronunciati, un hard body, chiara reminiscenza del tipo di mascolinità dell’era raegeniana. Nell’ambito del cinema d’azione popolare degli anni 80 (si pensi a Sylvester Stallone in Rambo) il corpo maschile è messo a nudo per mostrarne le ferite. In quel tipo di film secondo Paul Smith, il corpo passa da un oggettificazione/eroticizzazione per poi essere masochizzato e così sottoposto a una femminizzazione temporanea volta alla rigenerazione in una mascolinità fallica predominante (Smith, 1993). Lester non rientra in questa categoria. Il suo scopo è quello di mostrare il corpo «I want to look good naked». La paura dell’esposizione del corpo maschile, che ha preso sempre più il posto della donna su copertine di riviste e cartelloni pubblicitari, è uno dei fardelli della svirilizzazione maschile (Dotson, 1999). Lester se ne appropria per esorcizzarla e superarla, ma nel farlo rimane bloccato in una fase narcisistica, sottoposto a una perenne femminizzazione. A marcare questo aspetto, l’atmosfera soffusa del garage che rende il corpo oggetto di uno sguardo maschile, incorporato nella figura del colonnello Fitz, omosessuale represso. L’idea di corporeità di Lester/Spacey problematizza le contraddizioni dell’epoca Clinton : «Offering various departures from traditional masculinity, a host of America’s ‘90s men seemed caught up in contemporary arguments critiquing the heterosexist, patriarchal, classist, and racist values traditionally underwriting the standard picture of the “real American man”. Like Bill Clinton, these popular ‘90s men depict a conflicted masculinity that both embraces and puts aside a variety of masculine stereotypes» (Malin, 2005). Il 1999, anno del film, è un anno di svolta storica, oltre ad essere quello successivo al Sexgate: il presidente Clinton, al suo secondo mandato è chiamato ad ammettere le sue colpe davanti a un’intera nazione. Come asserisce Malin la figura di Clinton mostra in sé delle contraddizioni evidenti racchiudendo da un lato l'idea di un «power-hungy patiarch» e dall'altro quella del «sensitive man of the 90s». Scrive Malin «Sensitive to our pain, but tough on crime; wealthy graduate of Yale, but down-home Arkansas boy, Clinton's persona remained a bundle of conflicts that variously embraced and overturned different stereotypes of masculinity». Il legame Spacey/Clinton è accentuato, oltre che dal legame di amicizia reale tra i due, dal ruolo che l’attore interpreta nel political drama House of Cards. Frank Underwood prende vita: politica, parodia, merchandising I: What profession other than yours would you like to attempt? K. Spacey: Politics Il brand di una star può arricchirsi col tempo di nuovi significati (McDonald, 2013). Dopo alcuni anni nel dimenticatoio, Kevin Spacey inaugura una nuova fase della sua carriera grazie al ruolo di Frank Underwood in House of Cards. Oltre ad essere un bad boy - «this is just the beginning of my revenge», ha annunciato l’attore sul palco dei Golden Globe 2015 in occasione della vittoria come miglior attore in una serie drammatica - il personaggio rientra perfettamente nella categoria dei sociopatici delle serie tv, in voga negli ultimi tempi e riconoscibili dalla mancanza di ogni senso di coscienza e rimorso, oltre che da uno spiccato egocentrismo. Un personaggio alla Spacey dunque, (l’ennesimo sessualmente ambiguo) ma che diventa soprattutto il volto di un cambiamento in atto, quello che riguarda la streaming television come nuova forma di fruizione audiovisiva. Grazie al successo della serie e alla capacità dell’attore di partecipare attivamente nell’universo social del web, Spacey debutta come prima «Internet star» nella classifica «Celebrity 100» stilata da Forbes in termini di star power. Lanciata a partire da febbraio 2013 House of Cards, primo prodotto a marchio Netflix - una delle piattaforme online attualmente esistenti di contenuti audiovisivi deve gran parte del suo successo alla conoscenza di dati immagazzinati dal sistema, grazie ai quali vengono sfruttate le preferenze del singolo visualizzatore: «Netflix noticed that there was significant overlap between the circles of viewers who watched movies starring Kevin Spacey and movies directed by David Fincher from beginning to end, and viewers who loved the original BBC miniseries “House of Cards”». La serie nasce in questo senso da sinergie calcolate, ma soprattutto come prodotto per il web, indipendente cioè dai canali tradizionali, sui quali approda solo in un secondo momento. La presenza di Spacey, sia in veste di interprete che di produttore, conferma la capacità della star di arrivare a un giusto compromesso tra autonomia creativa, determinata in questo caso dalle possibilità del nuovo medium di Internet e vendibilità del suo brand. In tal senso, come afferma David Fincher, regista dei primi episodi, nessun altro meglio di Spacey avrebbe potuto vestire i panni di Frank Underwood, : «there was him and there was no one else » (Fincher, 2014). Le chiavi del successo del congress man Underwood, devono essere individuate soprattutto nel modo in cui è il personaggio ad andare incontro alla star. Le due entità sembrano combaciare fino a determinare un cortocircuito tra realtà e finzione dal quale si crea una nuova figura semi-reale, uno Spacey/Underwood, che ingloba gli aspetti di uno, sfruttando le caratteristiche dell’altro. Come uomo politico, dotato di spiccate capacità oratorie Underwood si serve totalmente della voce della star, che abbiamo visto essere uno dei suoi tratti riconoscibili. Da buon sociopatico poi, Underwood cura ogni particolare anche a livello estetico, da qui il suo impeccabile look white collar, eguagliabile a tutta quella serie di horrible bosses, di cui Spacey veste i panni in Americani, Il prezzo di Hollywood e Horrible Bosses, oltre che in Margin Call e Casino Jack, ma anche allo stesso stile di Spacey in pubblico. Il guardaroba di Underwood comprende per lo più abiti firmati Ralph Lauren e Burberry, marca che lo stesso Spacey sceglie per i suoi look da Red Carpet. Se le star si fanno mediatrici del valore simbolico del marchio che decidono di esporre, frapponendosi tra i produttori e i consumatori, allo stesso tempo alimentano la loro immagine beneficiando di quel sistema di valori. Scegliendo lo stile classico di una delle marche iconiche della moda londinese Kevin Spacey rilancia la sua immagine classy di star dal “gusto” europeo. In House of Cards, a questo stile classico si contrappone un gusto high tech. Frank e i suoi collaboratori fanno costantemente uso di tutta una serie di gadget tecnologici di cui spesso viene esplicitamente mostrato il brand come strategia di product placement, come quando Underwood gioca con la sua console domestica Sony. La maturata esperienza di Spacey in ambito cinematografico, oltre che teatrale, televisivo e persino musicale, lo rende un veterano dello spettacolo in tutti i suoi aspetti. Una sorta di animale da palcoscenico, pronto a rientrare in ogni tipo di media, per mettersi in mostra e arrivare a un tipo di audience diversificata. A questo scopo Spacey, presta voce e corpo a un personaggio virtuale, l’altro sociopatico John Irons in Call of Duty: Advanced Warfare : «it’s a brand new audience for me. It’s kinda cool: if they like what they see in Call of Duty, they may want to go and watch House of Cards, or a movie I’ve done in the past» (Spacey, 2014). Il videogioco rientra nella categoria dei Frist Person Shooter, in cui essendo tutto filtrato dalla visuale del giocatore, i personaggi che questi incontra nella missione vi si rivolgono direttamente. Quando ciò accade con Irons, si denota una certa somiglianza con Underwood, il quale allo stesso modo, attraverso l’espediente mutato dal teatro shakesperiano del directed address, chiama in causa lo spettatore facendogli credere di essere un suo fedele confidente. Una trovata non molto dissimile da quella utilizzata dalle nuove web star, che ugualmente si interfacciano con lo spettatore/visualizzatore in modo diretto. Come modello che si origina dalla rete, la streaming television ne ingloba i valori, diventando veicolo di quell’illusione di intimità su cui poggiano i legami della generazione di Internet. In questo senso, il trucco del discorso in macchina, ha come primo obiettivo il coinvolgimento dello spettatore del web. In più, si tratta di uno stratagemma che contribuisce alla verosimiglianza di Underwood come politico reale. Secondo Leila Mansuori: « like Bill Clinton the character Spacey plays is masterful at creating the illusion a politician is paying individual attention» (Mansuori, 2014). Il legame Clinton-Spacey è avvalorato inoltre dal rapporto di amicizia tra i due, oltre che dalla collaborazione di Spacey nella campagna elettorale dell’ex presidente e la sua presenza nelle file della Clinton Foundation, associazione no profit con scopi umanitari. Spesso è proprio nelle vesti di Underwood che in sketch diffusi online, la star da il suo contributo alla fondazione, utilizzando la sua fama come «money machine» (Orman, West, 2003). In L’elite senza potere, Francesco Alberoni descriveva le star come personaggi pubblici il cui agire appartiene esclusivamente alla sfera del privato, al contrario dei politici che si occupano della comunità (Alberoni, 1973). In realtà, non è possibile effettuare una separazione così netta quando si fa riferimento ad Hollywood. Con l’ascesa alla presidenza di un ex attore di b-movie il confine tra la sfera politica e quella spettacolare è del tutto scomparso. Alle soglie degli anno 80 Reagan annuncia la sua candidatura, convincendo gli elettori con il suo humor disarmante. Underwood dal canto suo è un personaggio simile a quello raeganiano. Entrambi mostrano un evidente ambiguità politica: il primo, pur appartenente alle file dei democratici adotta strategie chiaramente repubblicane, il secondo è un repubblicano con un passato da democratico. Ma è soprattutto la star Kevin Spacey che mostra una certa somiglianza con il “The Great Communicator” della White House. Proprio come questi durante i suoi famosi discorsi pubblici, documentati spesso dal medium televisivo, Spacey utilizza il suo carisma di star e tutto il suo bagaglio di aneddoti umoristici, per portare avanti la sua “campagna elettorale” a favore di Netflix e del binge watching, come in occasione del James MacTaggart Memorial Lecture all’Edinburgh Television Festival : «releasing the entire season of House Of Cards at once has proved one thing: the audience wants control. They want freedom. If they want to binge – as they've been doing on House Of Cards – then we should let them binge». Spacey/Underwood grazie al suo carisma e alle sue doti comunicative dentro e fuori dalla schermo, diventa un politico a tutti gli effetti, tanto da rendere House of Cards un argomento su cui discutere da parte di personaggi ai vertici del potere reale. A volte ne viene parodizzato il contenuto, come fa il presidente Obama : «I wish things were that ruthless efficient […] Kevin Spacey […]’s getting a lot of stuff done » (Obama, 2014) ; altre volte è considerato un modello di ispirazione politica. Il presidente del consiglio italiano Matteo Renzi, dichiarato fan di House of Cards, per il suo programma di formazione ha espresso la necessità di prendere spunto dalle serie tv americane (Renzi, 2014). In più, lo stesso Job Acts renziano mostra delle somiglianze con l’AmericaWorks di Underwood nello scopo comune di creare consenso nel breve periodo in vista delle elezioni. Underwood2016 è proprio il logo della fittizia campagna elettorale portata avanti nella serie. Lo stesso Spacey in più di un’occasione appare indossandone una felpa. Il merchandising consiste nell’utilizzo di un brand per la vendita di un oggetto. Chi acquista lo fa per l’insieme di significati associati al marchio. Il tipo di merchandising legato a House of Cards rinforza il rapporto tra realtà e finzione, aumentando l’entertainment soprattutto in vista delle reale corsa alle presidenziali del 2016, che coinciderà tra l’altro con la messa in onda della quarta stagione della serie. In più, l’esistenza del personaggio di Underwood è avvalorata dalla presenza dello stesso Spacey nelle file dei collaboratori del partito democratico, oltre che dalla sue frequenti apparizioni nelle occasioni che hanno luogo intorno alla Casa Bianca, per esempio il White House Correspondent's dinner che l’attore ha aperto nel 2014 con uno sketch in stile House of Cards, con tanto di dialogo in macchina e colonna sonora di sottofondo : «I may lie, cheat and intimidate to get what I want, but at least I get the job done. So I hope some of you were taking notes». Una delle strategie della «celebrity politics» consiste proprio nell’utilizzo della star come rappresentante dell’opinione pubblica (Viscardi, 2014). Spacey nelle vesti di Underwood scavalca lo schermo rivolgendo un discorso tanto ironico quanto sarcastico ai politici americani e facendosi così portavoce di un problema reale. Guardando ai progetti futuri della star, il legame con la politica rimane un aspetto costante. Oltre a produrre un telefilm tratto dal bestseller The Residence: Inside the Private World of the White House, sui retroscena della vita alla Casa Bianca, l’attore sarà coinvolto nel film Elvis e Nixon, nel ruolo del trentasettesimo presidente degli Stati Uniti. Altra costante è il continuo bisogno di reinventarsi come artista, «I just want to be better» citando ancora le sue parole ai Golden Globe 2015. Se il ruolo economico e quindi la posizione privilegiata delle star del grande schermo sono costantemente minacciate, il piano per la riconquista di una popolarità stabile è quello di entrare a far parte di tutti quegli ambiti che l’universo mediatico e spettacolare offre: «the true moneymaking potential awaits those who are able to harness the power of multiple media in one package» (Hayes, 2014). Adesso che, per dirla con le parole di Spacey, «building an audience doesn’t require hollywood help» (Spacey, 2014), alle star di un medium ormai datato come quello cinematografico spetta il compito di veicolare la propria immagine attraverso una serie di sinergie nell’universo social della rete. BIBLIOGRAFIA Alberoni, Francesco (1973) L’élite senza potere Milano, Bompiani. 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