Alice Rohrwacher prosegue nel suo viaggio da poco iniziato in un cinema originale che piace molto soprattutto
oltralpe, nutrito di connessioni con la memoria autobiografica e ricercato nella sua asciuttezza e attenzione per le
emozioni dell'infanzia e adolescenza, raccontate senza patetismi e luoghi comuni. Come in Corpo celeste, in
quelle esperienze singolari e 'diverse' c'è lo specchio di un'Italia in crisi culturale. E non da oggi.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
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regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
suono:
scenografia:
montaggio:
musiche:
distribuzione:
111 MINUTI
ITALIA
2014
ALICE ROHRWACHER
ALICE ROHRWACHER
ALICE ROHRWACHER
HÉLÈNE LOUVART
CHRISTOPHE GIOVANNONI
EMITA FRIGATO
MARCO SPOLETINI
PIERO CRUCITTI
BIM
interpreti:
MARIA ALEXANDRA LUNGU, (Gelsomina), SAM LOUWYCK (Wolfgang), ALBA
ROHRWACHER (Angelica), SABINE TIMOTEO (Cocò), AGNESE GRAZIANI (Marinella), MONICA BELLUCCI (Milly
Catena).
premi e riconoscimenti: 2014, Festival di Cannes Grand Prix Speciale della Giuria a Alice Rohrwacher,
Nomination Palma d'oro a Alice Rohrwacher; 2014, Nastri d'argento: Nastro d'argento speciale a Alice
Rohrwacher; Premio Guglielmo Biraghi a Maria Alexandra Lungu; Nomination: Miglior regista a Alice Rohrwacher,
Miglior produttore a Carlo Cresto-Dina, Migliore sceneggiatura a Alice Rohrwacher, Miglior montaggio a Marco
Spoletini.
Alice Rohrwacher
Alice Rohrwacher nasce nel 1981 a Fiesole, da madre italiana (Annalisa Giulietti) e padre tedesco (Reinhard).
Trascorre l'infanzia e l'adolescenza a Castel Giorgio, in provincia di Terni, terra di origine della madre e luogo di
lavoro del padre Reinhard, apicoltore transumante, oggi anche conduttore di un agriturismo nel vecchio casale di
campagna in cui è vissuto, rimesso a nuovo negli anni. Sua sorella, maggiore di due anni, è l'attrice Alba
Rohrwacher.
Nel 2005 ha partecipato, come sceneggiatrice, montatrice, e direttrice della fotografia, alla realizzazione di Un
piccolo spettacolo, documentario in bianco e nero di Pierpaolo Giarolo. Nel 2008 è aiuto regista e montatrice in
Tradurre, documentario di Pierpaolo Giarolo.
Il suo esordio come regista è avvenuto nel 2006, con la direzione del documentario collettivo Checosamanca.
Il 2011 è l'anno del vero e proprio esordio cinematografico, con il film Corpo celeste, presentato alla Quinzaine
des réalisateurs del Festival di Cannes 2011, che le vale il conferimento del Nastro d'argento al miglior regista
esordiente. Nel 2014 vince il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2014 con Le meraviglie.
La parola ai protagonisti
Intervista ad Alice Rohrwacher
Il film ha una forte vena autobiografica
È un mondo che conosco bene, le somiglianze sono evidenti perché l’ho girato nella mia regione. Racconto cose
che mi appartengono, come il mondo delle api. Ma non è autobiografico, semmai personale. Questi personaggi
mi sono familiari, li conosco. Lavorare con Alba è stata una grande scoperta. Ci capiamo senza parlare, è stato
come lavorare a casa, tutto molto naturale.
Le è stata d'aiuto la presenza nel film di sua sorella maggiore, Alba?
È stato tutto naturale tra di noi e al tempo stesso sorprendentemente. Lavorare con mia sorella è stato come
poter lavorare a casa propria, magari in pigiama. Si può scoprire una certa luce che entra dalla finestra che non
avevamo mai notato.
Nel film ci sono elementi che collocano la vicenda in un contesto anni ‘90.
Non sappiamo esattamente di quando stiamo parlando, io dico solo che questa storia avviene dopo il '68. Ed è
perché nel ’68 si è rotto qualcosa e si è dovuti tornare a rimettere insieme i pezzi. Questa storia però riguarda il
presente, è venuto il tempo di perdonare qualcosa che è stato. Io volevo seguire la figlia primogenita fino al
momento in cui può riuscire a provare tenerezza per se stessa e per la sua storia. Tenerezza e non esaltazione o
rabbia. La tenerezza le permette di fare un passo in avanti.
Il personaggio del padre è duro, autoritario, ma allo stesso tempo pieno di amore per le figlie, che vuole in
qualche modo proteggere.
Wolfgang sa bene quello che vuole dire, ma è chiuso in una prigione linguistica, perché non parla bene né
l'italiano né il francese che usa a volte con la moglie. Questo lo rende aggressivo. In lui c'è una grande solitudine.
Io volevo guardare alle contraddizioni di quest’uomo e di questo Paese. E il potere delle immagini è proprio
quello di mostrare la contraddizione senza annullarla.
L’irruzione della tv nella storia prende una direzione piuttosto felliniana, sognante e astratta.
È una televisione direi molto dolce. Provoca dolore ma quel dolore non è dovuto a quello che la televisione è
diventata storicamente, ma al mezzo in se stesso. La tv infatti è una scatola, cerca di inserire le persone in una
cornice. Ma quella è una famiglia che non si lascia inscatolare. Quelli del programma non hanno intenzioni
cattive, è il mezzo ad essere cattivo, in senso etimologico, cioè che imprigiona.
Perché ha voluto Monica Bellucci nel ruolo della conduttrice del programma televisivo?
È difficile immaginare un’altra persona in quel ruolo! Serviva un'icona indiscussa che arrivasse nel paese dove
abbiamo girato con molti attori non professionisti. La sua presenza per tutti aveva un significato. E poi è una
donna dotata di grandissima autoironia.
Come sei diventata regista?
Il modo in cui mi trovo qui è un arabesco di coincidenze e necessità. Coincidenze – l’amore per il documentario,
gli incontri con Luciana Fina in Portogallo, Pier Paolo Giarolo e Leonardo di Costanzo in Italia, e naturalmente con
il produttore Carlo Cresto-Dina, assieme alla scoperta di tanti tipi di cinema grazie al festival di Torino, la città
dove ero andata ad abitare. Necessità – quella di fare un lavoro aderente alla vita, che possa elaborare
creativamente l’esperienza.
E’ stato un percorso spesso sconnesso e avventuroso, e ancora non so dire dove mi porterà. Ho iniziato con un
corso di drammaturgia teatrale alla Scuola Holden, studiato Lettere Antiche e lavorato come drammaturga per
Radio Tre e per il teatro. La grande scuola è stata però sicuramente il lavoro di montaggio, iniziato un po’ per
necessità di sopravvivenza, ma che invece mi ha rivelato la meraviglia che c’è nel vedere e rivedere un’immagine,
nello scegliere cosa tenere e cosa abbandonare, nel creare un racconto accostando inquadrature.
Qual è il tuo rapporto con la macchina da presa?
È un mezzo in cui credo e che al tempo stesso mi spaventa molto, verso cui nutro un misto di attrazione e di
paura. Mi sembra che abbia in sé un valore che, se usato male, può rivelarsi molto violento. E’ una macchina che
registra qualcosa che sta accadendo: il grado di pericolosità aumenta per me quando si è molto riparati, quanto
più si è lontani da quello che sta accadendo. Nel periodo di apertura della caccia ci sono i cacciatori nel bosco:
ecco, i più pericolosi, quelli che proprio non sopporto, sono quelli che cacciano appostati nei loro rifugi, al caldo.
Non è una lotta alla pari! Allo stesso modo, mi piacciono molto i film dove il regista rischia un po’, chiedendosi
quale è la sua posizione rispetto a quello che vede.
Che cosa è cambiato e che cosa è rimasto rispetto al film precedente?
Ho cercato di lavorare per quanto possibile, alla luce degli impegni di tutti, con le stesse persone: stessa
produzione, quasi tutta la stessa troupe, girando tra il sud della Toscana e il nord del Lazio.
In entrambi i film siamo partiti muovendo tantissimi fili, e poi uno ha prevalso.
Recensioni
Marzia Gandolfi. Mymovies.it
Gelsomina è un'adolescente introversa che vive nella campagna umbra con i genitori e le sorelline. Primogenita
tutelare e solerte nelle faccende familiari, Gelsomina è inquieta e vorrebbe andare via, scoprire il mondo che
comincia dopo il suo casale. A trattenerla è un padre esclusivo e operaio, alla maniera delle sue api, che guarda a
lei ancora come a una bambina. La loro routine, scandita dalle stagioni e dall'impollinazione delle api mellifere, è
interrotta dalla presenza di una troupe televisiva e dall'arrivo di Martin, un ragazzino con precedenti penali che
deve seguire un programma di reinserimento. L'esoticità di una conduttrice tv e di un adolescente senza parole
impatteranno la vita di Gelsomina e della sua famiglia, promettendo ciascuno a suo modo 'meraviglie'. L'estate
intanto sta finendo e una nuova stagione è alle porte.
Truffaut diceva che "l'adolescenza lascia un buon ricordo solo agli adulti che hanno una pessima memoria" ma
quella di Gelsomina sembra essere una stagione felice, condivisa con la natura e una famiglia anarchica che parla
italiano, tedesco e francese. Figlia di Wolfgang e di Angelica, la giovane protagonista di Alice Rohrwacher,
conferma il coinvolgimento della regista per quell'età delicata di cui coglie ancora una volta la gravità rispetto alla
futilità della vita adulta. Perché l'adolescenza porta con sé la scoperta dell'ingiustizia, dell'impunità dell'adulto, a
cui tutto è permesso, anche un cammello in giardino. (...)
Il talento dell'autrice, rivelato nel suo primo lungometraggio e negli interstizi di una Calabria miserabile e bigotta
che simulava interesse per la formazione spirituale dei sui figli, si riconferma ne Le meraviglie e dentro un
paesaggio rurale che esalta la sua vocazione documentaristica.
Attraverso gli occhi di Gelsomina contempliamo una comunità 'dissidente' che si è ritirata in una dimensione
bucolica, dove produce miele, insaccati, marmellate, salse di pomodoro e prova a resistere al mondo fuori. Un
mondo che prende la parola e il microfono per mezzo della televisione regionale e naïf, dei suoi concorsi a premi,
le coreografie rudimentali, le melodie stupide, le promesse di fare meraviglie per la gente del luogo. Ma la vera
meraviglia è assicurata dalle api di Wolfgang e dischiusa dalla bocca acerba di Gelsomina, che ha il nome di un
fiore e come un fiore è richiamo per le api.
Indeciso nella prima parte sulla strada da percorrere, Le meraviglie è intuito e afferrato dagli sguardi di Alexandra
Lungu e Sam Louwyck, figlia e padre riconciliati in un campo e controcampo che rinnamora e annulla la distanza.
Ramingo sulla natura e sugli ambienti, il film aderisce progressivamente al personaggio centrale, Gelsomina,
ormai aliena alla sua 'comunità' e pronta a salpare per l'isola che c'è e ha il volto di Martin e di una nuova età.
Wolfgang, preferendo finalmente farsi amare che temere, la 'reintegra' in seno alla famiglia, ammirando la
giovane donna che è diventata dentro una notte chiara. Per loro è il tempo della comprensione, è il
conseguimento della complementarietà: Gelsomina è uguale a suo padre, Gelsomina è diversa da suo padre. È
un corpo che spinge alla vita ma spinge a suo modo. A papà non resta che guardarne la bellezza, accettando la
legge irreversibile delle stagioni.
Simona Santoni. Panorama
Applausi scroscianti, quasi 12 minuti, per Le meraviglie di Alice Rohrwacher, l'unico titolo italiano in concorso
presentato ieri al Festival di Cannes. Grande partecipazione in sala al termine del film e poi applausi ripetuti,
abbracci fra le sorelle Alice e Alba, che della pellicola è una delle attrici protagoniste e anche commozione. Anche
Monica Bellucci, che recita un piccolo significativo ruolo, ha pianto per l'emozione. E stasera party in onore del
film alla Plage Magnum sulla Croisette.
Ambientato nella campagna del Centritalia, Le meraviglie è una "favola materialista e cruda che ogni spettatore
può interpretare come crede", ha spiegato la regista, nata da madre italiana e padre tedesco. (...)
La critica internazionale riserva parole positive per Le meraviglie, alcuni con pieno ardore definendolo
"incantevole", altri trovandogli piccoli difetti veniali. Scorriamo le recensioni internazionali per capire quanto
l'opera seconda di Alice possa ambire alla prestigiosa Palma d'oro, che manca all'Italia dal 2001, quando la
conquistò Nanni Moretti con La stanza del figlio.
La rivista francese Paris Match reputa il film affascinante e gli attribuisce solo qualche piccolo difetto di gioventù:
"Di questa famiglia di apicoltori sperduta in aperta campagna gli spettatori non sanno quasi nulla. Sono membri
di una setta? Sono ex Brigate Rosse? Perché parlano tedesco o francese? Alice Rohrwacher annega il mistero in
una fitta nebbia e gestisce alcune belle sequenze oniriche, aiutata dalla fotografia della francese Hélène Louvart.
Venuta dal documentario, la giovane regista italiana è ugualmente a suo agio nel registrare la quotidianità di
questa famiglia allargata sulla quale regna un patriarca idealista e un po' macho. Queste sono le qualità di un film
che potrebbe sedurre Jane Campion e la sua giuria. I difetti sono soprattutto errori di gioventù. Quando cerca di
infondere eventi di finzione nel suo universo documentarista, l'artificialità della sceneggiatura è evidente".
Entusiasta il quotidiano britannico The Daily Telegraph, che gli assegna l'en plein di stellette (cinque su cinque).
Già nel titolo della recensione si legge: "un affascinante racconto di formazione", e nel sommario: "film dolceamaro sull'inizio dell'età adulta e sulla dissolvenza dei vecchi modi, è potente e incantevole". Nel procedere
dell'articolo: "piccolo e dolce in ogni senso buono dei termini, ma vivo con una potenza che sembra sollevarsi dal
profondo, sotto il suo paesaggio irruvidito dal sole".
L'Hollywood Reporter, magazine specializzato americano, ha trovato nell'opera di Rohrwacher richiami al classico
di Ermanno Olmi L'albero degli zoccoli e recensisce così: "L'unico film italiano in concorso a Cannes dovrebbe
incuriosire il pubblico del festival e quello d'essai con i suoi strati di significato appena percettibili, ma altri
spettatori potrebbero trovare la storia fragile e le emozioni scarse, il che rende improbabile che abbia larga
diffusione".
Il quotidiano britannico Guardian gli attribuisce tre stelle su cinque e sostiene: "Alice Rohrwacher, regista del
tanto ammirato primo lungometraggio Corpo Celeste, è venuta a Cannes con una storia di formazione gentile,
spiritosa e bonaria. Si tratta di un lavoro leggero e divertente immerso nella campagna del nord italiano: è
affascinante, anche se è un po' sentimentale e poco impegnativo, senza il vero potere emotivo che molti si
aspettavano da Rohrwacher".
Cristina Piccino. Il Manifesto
Quando era arrivata la notizia che il suo film era in concorso al Festival di Cannes, Alice Rohrwacher aveva detto:
«Per me è già un premio». Da qualche giorno il suo visetto sotto ai capelli corti ci guarda mischiato a quelli degli
altri cineasti nella selezione dalle pareti del Palais. Lei capita di incontrarla in giro sempre di corsa ma col tempo
per fermarsi a chiacchierare anche un istante. Ecco, il suo film è così, bello, pieno di energia, e senza trucchi che
non vuol dire «naif»; piuttosto è una dichiarazione di libertà narrativa, visuale, di invenzione, lontana dalle mode
e dagli ammiccamenti. Come una maga scanzonata Alice Rohrwacher mischia qualcosa di sè, delle persone che
ha incontrato, le trasforma in narrazione e ci porta dentro a un mondo, il suo mondo, facendoci condividere le
sue avventure. Noi possiamo scegliere se entrarvi e scoprirne l’incanto. La meraviglia.
La protagonista è Gelsomina, splendida Alexandra Lungu — ma tutti gli attori nel film sono accordati con speciale
armonia, un talento che la regista aveva mostrato già nel film d’esordio, Corpo celeste, presentato anch’esso a
Cannes, alla Quinzaine des Realisateurs. (...)
Sono loro Le meraviglie che danno il titolo al film? (in sala il 22 maggio, produce Carlo Cresta Dini, dedicato a
Baumi Karla Baumgartner, produttore di tanto cinema indipendente, che lo ha coprodotto ed è morto qualche
mese fa). No, Le meraviglie sono un programma televisivo dove una fata tutta bianca e con lo sguardo triste
(Monica Bellucci) deve premiare salsicce e formaggi prodotti nella zona. Tutti vogliono partecipare sperando di
vincere i soldi in premio, di farsi un po’ di pubblicità, e soprattutto che la televisione riveli quell’angolo di mondo,
ancora invisibile sulle rive del lago, richiamando turisti, e guadagno. La terra è faticosa, e di ricchezza ne dà poca,
meglio aprire un B&B.
È dunque un cambiamento che racconta Alice Rohrwacher, la trasformazione di un paesaggio, di un luogo, che è
al tempo stesso quella delle persone che lo abitano, dei loro pensieri e sentimenti, delle loro relazioni e consape-
volezze. E una storia d’amore, tra Gelsomina e il padre fatta di complicità e sterzate brusche, legami profondi e
ricatti affettivi come solo il rapporto con un genitore può essere. Alice Rohrwacher riesce a coglierne le direzioni
impreviste, e senza mai abbandonare la molteplicità sposta il racconto nell’orizzonte della protagonista, e un
po’come accadeva in Corpo celeste, la sua scoperta di sé diventa quella del mondo.
È una scoperta condotta con delicatezza, un romanzo di formazione che avviene sui margini dell’inquadratura
lungo i quali la famiglia, e anche l’amato padre si trasformano pian piano in un «altrove». Di scontro e con la confusione dei sentimenti che appartiene all’adolescenza, quel bisogno di sentirsi come qualcuno, il «fuori», le amiche che si vestono da fata e partecipano al programma televisivo mentre il padre non vuole e la ragazzina insiste
sino a sfidarlo.
(…) È la realtà dell’Italia di oggi di cui ci parla Le meraviglie? Quella della tv, e del «prodotto tipico» in cui si è trasformato il nostro paese e il consumo del mondo? O forse in un personaggio, e negli altri, prende forma una Storia più ampia, che gli occhi della ragazzina, come quelli della regista, ci svelano come in un caledoscopio. Non è
infatti quello di Alice Rohrwacher un fare-cinema che impone dall’alto una visione del mondo. Ce ne porge
spunti, frammenti che dobbiamo ricomporre, da cui la sua forza la verità. E come lo sguardo di Gel somina sa
andare oltre le apparenze, e rivela ciò che è invisibile.
Gelsomina saprà vedere che la sua fata è piena di malinconia, e spente le luci della televisione non rimane nulla
della meraviglia che l’aveva incantata. E suo padre dispotico si rivela all’improvviso fragile, col peso — o il vuoto
— di una Storia che rimane fuoricampo, di utopie perdute o mai realizzate che difende con l’ostinazione che
diventa paura, e esclusione del mondo. Non ha più armi né parole proprio come il contadino pronto a cedere
tutto, che dal mondo so fa invadere.
Nella sua caverna di Platone (o del cinema), dà spazio libero del pensiero come è, deve essere l’immaginario, Gelsomina imparerà che l’incontro con l’altro, è scoperta, ricchezza, quando il mondo ti entra dentro e ti trasforma
senza toglierti la cose preziose della tua storia. Le sue api e quel fischio che ora anche lei sa fare, pieno di gioia, e
promessa amorosa di un «altro» mondo che è ancora possibile inventare.
Concita De Gregorio. Repubblica
Narra di un piccolo mondo fuori dal mondo Le meraviglie, il bellissimo film di Alice Rohrwacher, un piccolo spazio
di terra al confine fra tre regioni, due epoche, tra un sogno e una sconfitta. È un luogo, questo campo dell'antica
Etruria, dove una famiglia ripara respinta dalla delusione, dalla rabbia, dalla carestia di opportunità delle città in
cui i genitori sono cresciuti, hanno studiato. Il padre è tedesco, la madre italiana con lui parla francese, si
indovinano giovinezze di falò e illusioni nomadi. Fallimenti mascherati da scelte. Il ritorno alla terra e alle cose
che si fanno con le mani, tornare indietro per andare avanti. Wolfang, il padre, fa l'apicoltore. Brusco, lo sguardo
fisso all'ideale di libertà in cui i soldi non servono noi non apparteniamo a nessuno e bastiamo a noi stessi. Ha
quattro figlie femmine che chiama le mie principesse. (...) Le bambine vorrebbero vestiti e fermagli per capelli, lui
regala loro un cammello. Passano la vita negli scafandri in mezzo alle api, Gelsomina è bravissima, di quel
tremendo ronzio capisce le parole. Lavorano in condizioni estreme, di pochezza e pericolo. "Vivono come nella
preistoria", dice Monica Bellucci che fa la fata bianca - Milly Catena - di un programma tv e arriva un giorno,
come un'apparizione, a reclutare "personaggi" per un programma intitolato "Il paese delle meraviglie": un
concorso a premi per agricoltori "che vivono come una volta".
Arriva, nella casa, anche Martin, ragazzino tedesco con passato difficile, inserito in un piano di rieducazione. Le
bambine vogliono partecipare al concorso tv. Arrivano le troupe, i costumi, le luci, la promessa dei soldi. Il padre
non vuole, grida e tace come i temporali.
Lo sguardo di Alice Rohrwacher è fermo, sensibile a ogni refolo di vento, puro e tagliente. Come già in Corpo
Celeste, ha gli occhi sgranati e severi di una bambina adulta. La storia è anche la sua, e della sorella Alba.
Bravissime le bambine, protagoniste e vittime dell'utopia di creare un mondo autoimmune fuori dal mondo. Una
famiglia diversa da tutte, come tutte.
Simona Santoni. Panorama
"Il mondo sta per finire", sostiene con voce quasi spiritata Wolfgang, il padre protagonista de Le meraviglie, che
guarda attorno a sé le paillette della tivvù che iniziano a contaminare anche la vita agreste che aveva ritagliato
per sé e per la propria famiglia. Ma come puoi spiegarlo a un'adolescente in fiore, alle prese coi primi turbamenti
amorosi e le prime ambizioni? Come puoi trattenerla alla tua quotidianità di sudore nei campi e giornate a
smielare i favi, anche se tutto quello che hai e fai tu l'hai fatto per lei?
È un sinuoso e strattonato rapporto padre-figlia, quello che Alice Rohrwacher disegna con delicatezza nel suo
nuovo film. Ed è anche una storia di passaggio all'età adulta. Si chiama Gelsomina la giovane protagonista e ha il
volto della brava Maria Alexandra Lungu, genuinità pura. Il padre è Sam Louwyck, ballerino, coreografo e attore
fiammingo. (…) Intelligente e sensibile, anche se screziato da pennellate un po' troppo oscure nella seconda
parte che ne minano la compiutezza, Le meraviglie di Alice Rohrwacher è un film dai forti connotati
autobiografici (...). Ecco 5 motivi per vederlo.
1) La nostra unica rappresentante a Cannes
Ad oggi è forse più famosa Alba Rohrwacher, sua sorella attrice e di due anni più grande. Ma Alice sta iniziando a
"imporre" il suo nome. È lei infatti l'unica rappresentante italiana in concorso al Festival di Cannes. Seppure Le
meraviglie sia un film piccolo e semplice, nel senso però positivo delle parole, ha affascinato la Croisette. Che
addirittura vinca la Palma d'oro? Probabilmente no, ma essere accostata a registi come Cronenberg e i fratelli
Dardenne vale una vittoria.
2) La natura nella sua autenticità, prima che la perdessimo
Alice ci mostra la natura e la campagna nel suo aspetto più concreto e vero. Altro che approdo bucolico di
contemplazione e agreste serenità, come immagina oggi l'abitante di città che vuole rifuggire il cemento. La
natura di Wolfgang e della sua famiglia piena di donne è libertà, è correre a piedi nudi, è dormire all'aria aperta, è
fare il bagno al lago. Ma è anche assiduo lavoro quotidiano, è sveglia presto ogni mattina, è l'ossessione di
cambiare il secchio del miele, è togliersi ogni giorno i pungiglioni dalla schiena. È un mondo che a un certo punto
abbiamo rifuggito e a volte anche deriso, abbandonando campi e casolari.
Alice lo ricostruisce com'era, bellezza ma anche tanta fatica, poco prima che finisse, prima che una procace
donna vestita da fata, Milly Catena (Monica Bellucci), arrivasse con il suo concorso tv "Le meraviglie". O forse
quel mondo era già finito. Alice lo ricostruisce rievocando la sua infanzia: lei è figlia di madre ternana e padre
tedesco, apicoltore.
3) Un rapporto padre-figlia di sotterranei equilibri
Wolfgang è un padre perennemente arrabbiato, la sua presenza stizzita e cruda è quasi angosciante. Eppure è un
padre che ama le sue figlie, di figli maschi mancati. E soprattutto ama Gelsomina, la primogenita, l'erede. (…) Ma
quando arriva Martin, un ragazzino protagonista di un programma di rieducazione, l'equilibrio sembra rompersi...
(…) Le meraviglie descrive questo equilibrio che ha sobbalzi ma radici profonde con attenzione di sguardo, in
particolari che racchiudono al tempo stesso poesia e visione documentaristica (Alice nel 2006 ha realizzato una
parte del documentario collettivo Checosamanca).
4) Uno sguardo acuto sull'adolescenza
Già in Corpo celeste, sua opera prima presentata nella Quinzaine des réalisateurs del Festival di Cannes 2011,
Alice aveva dimostrato la sua abilità nel mostrare solitudini, sogni e dissidi di una ragazzina in crescita. Con Le
meraviglie la regista ci consegna un altro sensibile affresco d'adolescenza. Un'adolescenza anni '90, con la
maglietta rimboccata dentro i pantaloni un po' alti e sulle note (nascoste) di Ti appartengo.
5) Una nuova voce dal bel futuro davanti
Corpo celeste ce l'aveva già segnalata. Ora con Le meraviglie è arrivata la conferma che Alice Rohrwacher è una
giovane regista (classe 1981) da tenere d'occhio. Ci voleva una nuova voce nel cinema italiano. Ed è ancor più
bello sapere che quella che è arrivata è femminile.
Alessio Galbiati. Rapporto Confidenziale
Disattendere. Lasciare per strada aspettative e preconcetti, scivolare oltre le ovvietà e l’affresco bucolico, oltre la
natura più scontata e buonista, al di là del cinema furbo, delle inquadrature ammiccanti, oltre la facile bellezza
delle grandi bellezze. Disseminare segni e frustrare ogni emozione. È un viaggio sorprendente intrapreso per vie
traverse quello scritto e diretto da Alice Rohrwacher. Un film personale che trae spunto dalla propria
autobiografia e vive nei luoghi della sua stessa esistenza, una terra – tra Toscana, Umbria e Lazio – osservata nella
sua mutazione di un ventennio, cristallizzata su pellicola 35mm in un imprecisato anno dei ’90. Non c’è una
storia, pur essendoci una trama che dilatata si compone in una afosa estate, ma ci sono personaggi da osservare
a distanza ravvicinata con un terzo occhio cinematografico che somiglia tanto a quello della memoria (personale).
(...) Un occhio che è sguardo, che è cinema, ben sintetizzato da una mirabile sequenza capace di cogliere la
polvere che a mezz’aria si solleva al passaggio di un auto. Le meraviglie non è un film semplice da accogliere e
accettare, è infatti duro e spigoloso, a tratti anche respingente nella sua insistita frustrazione di ogni aspettativa
(...) rifugge – come certo cinema non allineato/underground dei decenni passati – le scene che funzionano con
esattezza quasi matematica e sceneggiature calibrate come ordigni che provocano a tavolino il riso o il pianto. Il
gusto di questo film, tutt’altro che mieloso nonostante sia il miele il vero collante che lega i protagonisti tra loro
(il miele è come l’amore e come la vita), sta nella distanza ravvicinata dalla quale si osserva, dai movimenti di
macchina, dal suono, dalla luce e dalla polvere. Le emozioni giungono come un’eco, non deflagrano dalle
immagini, ma dal lavorìo di queste con la nostra stessa memoria personale. Il gusto de Le meraviglie sta nella
matericità della vita, nella sua durezza fatta di fatica, sudore, odori, parole, silenzi e sogni a occhi aperti – del
resto «Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni». Sogni da Sceicco bianco abitato da un’eterea
fata televisiva (Monica Bellucci) per la primogenita Gelsomina; utopie nichiliste di isolamento da un mondo
corrotto e perduto per il padre Wolfgang. L’amore non ha parole, si compone unicamente di segni, ed è solo
attraverso questa stretta cruna dell’ago che possiamo comprendere come un cammello sia la prova tangibile che
l’amore che ci lega alle persone che amiamo sia qualcosa di tragicamente struggente nella sua inesplicabile e
goffa bellezza. Un film sul perdono e sulla comprensione, un film sullo strano funzionamento dell’amore.
Le meraviglie disinnesca ogni emozione: le imbastisce, le prepara, ne assembla le singole parti ma poi disattende,
scivola oltre senza esprime un giudizio, senza concludere, senza spiegare. È un film che non accompagna lo
spettatore per mano, ma lo caccia dentro a una situazione, in un luogo e in un tempo definiti, per poi lasciarlo
solo a osservare l’illusione che ha vissuto (che è il film e il cinema stesso); è la messa in scena di un ricordo
personale dal quale sopravvivono solo ruderi architettonici e macerie. (...)
La ricerca della perfezione formale, la forma esatta contro la sostanza, è il limite di tante scuole di cinema, di
troppi manuali di sceneggiatura, di certa critica che concepisce il buon cinema come sommatoria scientifica di
parti differenti. Se la vita è l’obiettivo sul quale puntare l’obiettivo della macchina da presa, questa non può che
essere osservata con tutte le sue incongruenze, con le sue note stonate, con le parole fuori posto, gli accenti
sbagliati, le spiegazioni latitanti. E ne Le meraviglie tutto rimane avvolto nel mistero, quasi nulla viene spiegato,
lasciando aperte le interpretazioni e disattese le congruità. Non importa comprendere tutto, al cinema come
nella vita, ciò che importa, o che dovrebbe importare davvero, è sentire – con buona pace della critica sorda.
Dunque non può esserci trama da restituire, perché i fatti che accadono sono barlumi di memoria traslati in
finzione cinematografica (…).
Le meraviglie è un dispositivo cinematografico, un film fatto per sottrazioni, difficile e coraggioso (...) che è
riuscito a giungere in concorso a Cannes contro ogni previsione della vigilia e contro una consuetudine
deprimente. L’ultimo film italiano selezionato a Cannes diretto da una regista fu Francesco di Liliana Cavani nel
lontanissimo 1989, preceduto nel ’81 da La pelle e nel ’74 da Milarepa – sempre diretti da Liliana Cavani; ma
l’apripista fu la mai abbastanza celebrata Lina Wertmüller che, nel ’72 con Mimì metallurgico ferito nell’onore e
nel ’73 con Film d’amore e d’anarchia – Ovvero “Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza…”,
inaugurò una storia che in maniera evidente denuncia la chiusura delle produzioni cinematografiche nei confronti
delle donne dietro alla macchina da presa. (...)
Ma per le donne, fare cinema, è notevolmente più complicato. Certo non è mai il caso di porre poetiche
all’interno di anguste prospettive di genere, ma il fatto che alle donne sia limitato l’accesso alla regia è un dato
inoppugnabile e incontrovertibile. Secondo i dati dell’Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo (EON) – rimessi in
circolo proprio in questi giorni via twitter da (l’ottima!) Ilaria Ravarino – solo il 16% degli oltre 9000 titoli usciti in
tutta Europa nella stagione 2012-13 sono stati diretti da registe di sesso femminile e, ancora peggio, queste
guadagnano il 31% in meno dei loro colleghi di sesso maschile. Quindi un problema c’è, ed è grande come una
casa, e forse la giuria di Cannes 2014 (Le meraviglie è l’unico film italiano in concorso) presieduta dall’unica
donna ad aver mai vinto una Palma d’oro, Jane Campion, saprà premiare un ottimo film e al contempo dare un
forte segnale all’industria cinematografica ancora arroccata in un maschilismo disarmante e imbecille.
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Untitled - Barz and hippo