ARISTOTELE
“Maestro di color che sanno”.
Parte quarta: etica e politica
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Le scienze pratiche
• Se le scienze teoriche, come la metafisica e la fisica,
studiano ciò che esiste indipendentemente
dall’uomo, quelle produttive e pratiche riguardano
ciò che dipende dall’agire umano.
• Questo può essere produttivo, nel caso sia finalizzato
a fabbricare oggetti (le arti e le tecniche) o pratico se
rivolto a conseguire un bene. Tra loro c’è la differenza
che solitamente ravvisiamo tra il senso del verbo
«produrre» e il senso del verbo «agire» o
«comportarsi». Nel primo caso si ha una poìesis, nel
secondo una pràxis, con le relative discipline.
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Il bene dell’uomo
• Tra le scienze pratiche che si concentrano sulla pràxis, si
distingue l’etica, che riguarda il conseguimento di un bene
individuale, e la politica che è rivolta a studiare il bene che
riguarda la comunità (la pòlis), cioè quando valutiamo i nostri
comportamenti come soggetti individuali e quando lo valutiamo
in quanto siamo membri di una comunità e vogliamo il bene di
quest’ultima.
• In generale ogni attività umana è per Aristotele finalizzata a
raggiungere un bene ritenuto tale da chi la compie.
• Queste tematiche vengono affrontate da Aristotele in tre opere
(qui in ordine di importanza): Etica Nicomachea (dedicata al
figlio Nicomaco), Etica Eudemia (dedicata e forse concepita
assieme al suo allievo Eudemo di Rodi), Grande Etica (forse in
parte opera di scuola).
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Beni per altri beni e bene per se
stesso
• Tra i beni vi sono (1) quelli ricercati in funzione di altri beni e (2)
quello che si trova al vertice di tutti i beni. Per esempio (esempi
nostri):
• 1) si può studiare per ottenere un buon posto di lavoro; ottenere un
buono posto di lavoro per guadagnare; guadagnare per sostenere la
propria famiglia e così via…questi beni (studiare, ottenere un buon
posto di lavoro, guadagnare etc.) sono cercati per raggiungere
qualche altro obiettivo ritenuto buono (ottenere un buon posto di
lavoro, guadagnare, sostenere la propria famiglia etc.).
• 2) Quando invece uno dice vuole essere felice, non intende che la
felicità gli serve per qualcos’altro, ma che è un bene per sé.
Quest’ultimo bene è dunque ricercato non in funzione di altro ma per
se stesso. La felicità per Aristotele ha appunto questa caratteristica.
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La felicità
• Ma che cos’è la felicità? Aristotele è perfettamente consapevole che del
concetto esistono le più diverse interpretazioni. Egli allora propone di
sottolineare che l’attività che rende felici deve essere un’attività che
raggiunge il massimo bene per l’uomo e il massimo bene è ciò che meglio
realizza la qualità più propria e alta della persona. Dunque la felicità deve
avere una relazione con l’esercizio della ragione che è ciò che ci eleva al di
sopra degli altri viventi e che rappresenta la forma di azione più nobile per
l’uomo. La ragione si esercita al suo grado più alto laddove ricerca il suo
oggetto specifico, la sapienza.
• Dunque la felicità consisterà nell’ottenere il bene della sapienza, bene che
soddisfa in sé, non è cercato in vista di altro e che si consegue tramite
l’attività intellettuale.
• Ovviamente ciò comporta la necessità di aver già soddisfatto alcune
esigenze materiali della vita quotidiana, che altrimenti premerebbero e
distoglierebbero l’uomo dal suo fine (quindi bisogna avere dalla propria
anche una certa fortuna – eutychìa, buon fato, lo chiama Aristotele).
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La virtù suprema
• Dunque ciò che ci permette di conseguire la felicità è
l’esercizio di una facoltà, la ragione.
• Virtù in generale per Aristotele è un habitus, cioè un
comportamento abituale ottenuto con un esercizio
costante di un nostro “talento”.
• La virtù suprema è la sapienza, ottenuta con l’esercizio
abituale del logos-ragione. A tale virtù vanno ordinate
tutte le altre.
• La sapienza porta con sé, quale sua conseguenza,
anche il piacere, un diletto che non è ciò che va cercato
direttamente, ma ciò che arriva dopo la virtù (diremmo
il fiore che sboccia sulla virtù).
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Virtù etiche
• Nella complessità dell’animo umano esistono diverse
tendenze che vanno ordinate al conseguimento della
virtù somma. Vi sono quindi virtù intermedie,
l’esercizio delle quali aiuta a tenere a freno gli
impulsi sensibili che continuano a influenzare la vita
delle persone, anche una volta che si siano
soddisfatti i bisogni primari. Questi desideri sensibili,
se lasciati a se stessi, disperderebbero l’agire umano
nei mille rivoli delle voglie momentanee ed effimere
legate alla pura corporeità. Le virtù che le moderano
sono chiamate da Aristotele virtù etiche.
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Esempi di virtù etiche
•
Coraggio, liberalità, temperanza, giustizia sono da collocarsi tra le virtù etiche.
Esse individuano un agire umano che rifugge da ogni eccesso ed è
caratterizzato dall’abitudine riflessiva a porre nei confronti di ogni tendenza il
freno del logos. Così, per raggiungere questo atteggiamento virtuoso, è
necessario scegliere costantemente il giusto mezzo tra due estremi che ci si
propongono quali opzioni su cui regolare il nostro agire.
• Per esempio, di fronte ad un ostacolo arduo da superare, si potrebbe fuggire
con paura o aggredire con temerarietà: la paura ci riporta indietro ad una
condizione in cui l’ostacolo mai potrà essere superato, la temerarietà ci fa
sottovalutare l’entità del pericolo che comporta la nostra azione, facendoci
rischiare in modo inutile e non calcolato.
Il coraggio rappresenta il giusto mezzo che fa valutare correttamente l’oggetto del
nostro agire, non allontanandoci dall’azione, ma promuovendo la corretta
strategia per ottenere successo.
Così questa virtù ha frenato gli atteggiamenti immediatamente sensibili (paura e
aggressività) e ha collocato la nostra azione su un piano più razionale, cioè più
pienamente umano.
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La giustizia
• La giustizia è la più importante tra le virtù etiche, essendo
caratterizzata nella sua stessa definizione da quella medietà (non a
caso indicata con la locuzione “giusto mezzo”) cui tutte le altre
devono far riferimento. Essa comporta il rispetto delle leggi dello
Stato che condizionano positivamente l’intera vita morale.
• In generale la giustizia riguarda due tipi di comportamento:
La giustizia distributiva attribuisce a ciascuno ciò che gli spetta.
La giustizia commutativa o correttiva, retribuisce con un ricompensa o
un premio un dato comportamento. Essa riguarda i contratti di
compravendita, in cui ad un bene corrisponde una data somma di
denaro, o anche i cosiddetti contratti fraudolenti (furto, rapina,
omicidio) in cui all’agente viene comminata una correzione
consistente in una pena proporzionata che ristabilisce la parità tra
chi ha subito il contratto e chi lo ha promosso.
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Le virtù dianoetiche
Una volta che le virtù etiche hanno tenuto a freno l’animo umano dai
cedimenti sensibili, si apre la possibilità di perseguire le più alte virtù
dianoetiche. Esse riguardano la diànoia cioè la conoscenza, ovvero
l’esercizio della razionalità e dunque si collocano sul piano più elevato
della gerarchia delle virtù. Questo è il modo in cui Aristotele le ha
ordinate secondo un grado crescente di importanza:
• Arte – il buon esercizio della ragione nelle attività produttive.
• Saggezza – il buon uso della ragione in generale nella scelta dei
mezzi per conseguire un fine, cioè nella costruzione di razionali
strategie d’azione nelle più mutevoli e varie circostanze.
• Intelletto - il saper cogliere intuitivamente e sinteticamente i
principi primi di ogni scienza.
• Scienza- capacità deduttiva, dai primi principi, di ciò che ne
consegue necessariamente.
• Sapienza – culmine della virtù…
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La sapienza
• La sapienza è la capacità di usare in modo
correlato e armonico intelletto e scienza al fine di
conoscere la totalità del reale e le sue cause
prime. Essa individua il fine dell’agire umano, che
tuttavia ha bisogno di mezzi per essere raggiunto,
cioè si serve della saggezza così come la salute si
serve della medicina.
• Il sapiente conduce una vita teoretica (bìos
theoretikòs), cioè il modello di una vita umana
pienamente realizzata.
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Volontà e responsabilità
«Poiché la virtù concerne passioni e azioni, e su quelle
volontarie sorgono elogi e biasimi, su quelle involontarie
perdòno e talvolta anche compassione, è senz’altro
necessario per coloro che indagano sulla virtù determinare
il volontario e l’ involontario…» (Etica nicomachea, III,1,
1009 b).
Il tema etico, cioè la scienza che concerne le azioni, non può
prescindere nelle sue valutazioni dalla questione del
volontario e dell’involontario, poiché questa orienta in
modo diverso il giudizio morale.
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La volontà umana
• Per Aristotele la volontà umana tende naturalmente
al bene, anche se può da quest’ultimo
colpevolmente distogliersi. Il Filosofo dice che la
volontà «in senso assoluto e secondo verità» vuole il
bene, ma poi esso è concepito in modo diverso a
secondo del soggetto che vuole: colui che vuole
rettamente, vorrà il bene, il «miserabile» vorrà ciò
che a lui sembra bene – per lo più accade che costui
scambi il bene con il piacere – ma non lo è.
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Le azioni volontarie sono responsabili
• Noi possiamo essere chiamati a rispondere
delle nostre azioni volontarie, cioè di quelle
azioni il cui principio risiede in noi stessi,
delle quali noi siamo causa. Sono escluse dalla
responsabilità le azioni compiute per
costrizione o per ignoranza delle circostanze.
Infatti anche nella città tali azioni non
vengono lodate o biasimate, ma per lo più
vengono perdonate.
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Dove sta la libertà?
• Se la volontà tende naturalmente al bene, perché noi veniamo
possiamo commettere il male? E perché se lo commettiamo
veniamo condannati?
• Alla prima domanda si risponde adducendo la possibilità che
l’animo umano si distolga, con un movimento dovuto ad un
più o meno colpevole offuscamento della nostra capacità di
vedere il bene, dal fine naturale della volontà.
• Alla seconda si risponde facendo notare che, se spesso ci si
allontana dal bene perché siamo distolti dal fine naturale della
nostra volontà, ancor più spesso neghiamo di fatto questo fine
perché, pur volendolo, non vogliamo i mezzi per raggiungerlo.
Nella scelta dei mezzi per raggiungere un fine buono sta
precisamente la libertà.
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Phronesis (saggezza)
La saggezza è la virtù della riflessione razionale
che, di fronte ad una pluralità di strade per
giungere ad un fine buono, cioè di fronte alla
disponibilità di diversi mezzi, delibera e sceglie il
mezzo corretto. Solo volendo coerentemente i
mezzi corretti in relazione al fine, noi possiamo
compiere il bene per noi. Di fronte a questa
scelta noi siamo liberi e dunque responsabili
qualora non conseguissimo il risultato.
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Libertà in Aristotele
• In conclusione possiamo dire che Aristotele, rispetto a
Platone, sottolinea in modo molto più marcato la
responsabilità che ciascuno ha nelle proprie azioni, poiché
delle proprie azioni un soggetto può essere considerato il
principio. Tale principio risiede nella loro volontarietà.
Tuttavia essa si manifesta non in ogni frangente della vita
etica, poiché noi non siamo liberi di orientare la nostra
volontà indifferentemente al bene o al male. Infatti essa è già
rivolta per natura a ciò che è bene. Il fine ultimo della nostra
vita non è liberamente autodeterminato, ma lo sono
soltanto le azioni che scelgono i mezzi per conseguirlo.
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Una libertà limitata
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•
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Si tratta pertanto di una libertà limitata, circoscritta ad alcune scelte, ma non
alle supreme, per le quali rimane l’alternativa platonica, e greca nel suo più
ampio significato antropologico-culturale, tra il giusto razionale e l’errore
irrazionale.
Si potrebbe domandare a questo punto: “Che cosa fa in noi prevalere la
ragione o si arrende all’irrazionalità?”
Ancora un volta la volontà che però non può mettersi in moto se non ha a sua
volta un criterio secondo cui agire, e tale criterio è dato in modo circolare dalla
ragione o dal piacere irrazionale.
In questo circolo si gioca la possibilità di definire la libertà, in un concetto che
oscilla tra il tradizionale intellettualismo greco e una visione più ampia
dell’anima umana laddove sono compresenti una facoltà intellettiva e
razionale accanto ad una appetitiva e volitiva in un rapporto simbiotico e
difficilmente dipanabile.
Detto rapporto in ultima istanza è risolto da Aristotele in modo
intellettualistico, postulando un tendenza NATURALE della volontà verso un
fine buono, cioè verso una spontanea sottomissione alla parte più alta e
razionale dell’interiorità umana.
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La politica
Nell’opera omonima, che, come la Metafisica, è una
collezione di lezioni tenute anche in tempi diversi, Aristotele
delinea la sua idea di una costituzione buona ed efficace
per tutti i cittadini.
Innanzitutto Aristotele qui sostiene che l’uomo è un
ANIMALE POLTICO per natura. Lo Stato è qualcosa che
naturalmente l’uomo tende a costruire visto che senza
l’apporto degli altri non solo non riesce a soddisfare i propri
bisogni primari e materiali, ma nemmeno riesce a condurre
una vita virtuosa. Di qui si possono dedurre anche le finalità
dello Stato, che sono appunto la realizzazione piena
dell’individuo, attraverso leggi giuste che concorrano alla
realizzazione della felicità materiale e infine spirituale dei
cittadini.
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Lo Stato migliore possibile
La ricerca di Aristotele quindi si dedica a al
compito di definire quale tra le costituzioni
politiche esistenti sia la migliore e quali siano gli
strumenti per eventualmente migliorarla ancora.
Non si tratta quindi della volontà di trovare la
costituzione perfetta in astratto, come nella
Repubblica platonica, ma di vedere in concreto
quale sia la più desiderabile e come avvicinarla
ad una condizione di perfezione.
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Famiglia e proprietà
Aristotele contro Platone
Il primo nucleo naturale della vita associata è la famiglia
(l’oikìa, la casa che comprende anche gli schiavi). Essa sorge
per soddisfare i bisogni più elementari e per la funzione
fondamentale della vita e della procreazione. Essa inoltre
provvede al sostentamento dei suoi membri (la cui scienza
è la crematistica, che significa ciò che noi oggi indichiamo
con «economia») che è fondamentale perché l’uomo possa
rivolgersi a fini più elevati. Pertanto non è pensabile
eliminare la proprietà privata, come aveva auspicato
Platone, essendo essa una componente indispensabile per
la corretta gestione dei beni (ci si occupa con più attenzione
di ciò che è proprio) e inoltre essendo essa essenziale a
quella eutychìa che predispone nel migliore dei modi alla
vita etica.
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Dal villaggio allo Stato
L’unione di più famiglie, allo scopo di soddisfare in
modo sistematico e organizzato bisogni materiali
più complessi, dà origine al villaggio. Ma il villaggio
ancora non è in grado di garantire le condizioni
della vita umana al livello più alto, cioè quello della
virtù, cosa che può essere appannaggio solo delle
leggi giuste e delle magistrature che decidono
giustamente circa il loro rispetto. A tal fine si
costituisce lo Stato.
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Lo Stato precede l’individuo
Lo Stato, essendo per Aristotele condizione
della piena realizzazione delle virtù umane,
precede l’individuo come il tutto precede la
parte.
“…E nell’ordine naturale la città precede la
famiglia e ciascuno di noi. Infatti il tutto
precede necessariamente la parte, perché
tolto il tutto non ci sarà più né piede né
mano” (Politica II, 1253).
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Le costituzioni
L’analisi delle possibili costituzioni statali rispecchia
abbastanza da vicino quella platonica:
Vi sono tre tipi di governo a seconda che
• governi una persona sola (MONARCHIA),
• poche persone (ARISTOCRAZIA)
• o molte (POLITEIA).
A ciascuna di queste forme si associano le rispettive
degenerazioni che si manifestano quando coloro
che governano lo fanno nel proprio interesse
anziché in vista del bene comune (nell’ordine:
tirannide, oligarchia e democrazia).
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La preferenza di Aristotele
Tutte e tre le forme non degeneri sono naturali e
quindi buone. In particolare
- in presenza di un uomo che eccella su tutti o di un
gruppo di uomini parimenti eccellente, monarchia
ed aristocrazia sarebbero preferibili.
- Ma siccome ciò non accade di frequente, la forma
di fatto migliore risulta essere la politeia, in cui a
turno uomini pur non eccellenti, sono però in
grado di comandare secondo la legge.
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La politeia via di mezzo
La politeia risulta essere una via di mezzo tra la democrazia e
l’oligarchia:
“Infatti chi governa è una moltitudine (come nella democrazia) e
non una minoranza (come nell’oligarchia), ma non si tratta di
una moltitudine povera (diversamente dalla democrazia)
bensì di una moltitudine agiata quanto basta per poter
servire nell’esercito” (G. Reale, Storia della filosofia antica,
vol. II, p. 533) e per poter evitare i sentimenti di invidia nei
confronti dei più ricchi. Tale moltitudine va apprezzata in tutto
per la sua medietà e per essere la classe più numerosa e
potente, dunque in grado di garantire la necessaria stabilità
allo Stato.
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Le assemblee
• Le assemblee proprie della politeia sono in grado di fatto di
prendere decisioni in modo mediamente migliore che non i
singoli o i piccoli gruppi, poiché l’unione delle virtù e dei
caratteri supplisce alle mancanze individuali: “L’opinione che
la moltitudine, piuttosto che pochi uomini buoni, debba
essere sovrana […] sembra che si possa sostenere. Perché,
anche se non ogni membro della moltitudine è un uomo
buono, è possibile che, quando si riuniscano assieme,
debbano essere migliori, non come singoli, ma
collettivamente, proprio come i pranzi comuni sono migliori
di quelli offerti da una singola persona” (Politica III, 11, 1281 a
in Esposito-Porro, Filosofia antica e medievale, Laterza, RomaBari, 2009, p. 127). La distanza da Platone non potrebbe qui
essere maggiore.
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La città via di mezzo
Lo Stato migliore non deve essere né troppo
numeroso né troppo poco popolato, perché
entrambi questi eccessi ne rendono difficile il
governo e il raggiungimento del suo scopo, la
virtù dei cittadini. Dunque la dimensione
migliore è quella della città, che Aristotele
assume a modello, proprio quando tale
istituzione si apprestava ad essere spazzata via
in Grecia dalle conquiste macedoni.
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L’educazione
Al fine di favorire lo sviluppo della virtù è necessario
che lo Stato si occupi direttamente dell’educazione, la
quale partendo dal corpo, procederà nell’abituare i
giovani al contenimento degli istinti e degli appetiti per
poi infine sviluppare adeguatamente la parte razionale
dell’anima. Dall’educazione ovviamente sono esclusi gli
schiavi, persone che Aristotele indica come strumenti
semoventi, cioè individui per natura scarsamente dotati
di razionalità, il cui destino non può che essere quello
di obbedire ai padroni senza accesso a nessuno dei
diritti delle persone libere.
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La politica aristotelica
In molti casi l’idea politica aristotelica differisce da quella platonica.
Anche qui, come in altri frangenti della loro speculazione,
emergono due atteggiamenti fondamentalmente diversi: grande
slancio ideale per Platone, grande attenzione al particolare e alla
concretezza della vita in Aristotele, con un valorizzazione maggiore
in quest’ultimo di ciò che già esiste in termini di istituzioni.
Potremmo dire che Platone è un rivoluzionario, utopista e molto
critico nei confronti del mondo in cui si trova a vivere, mentre
Aristotele è un accorto conservatore, volto a valorizzare le
tradizioni consolidate.
Tuttavia in entrambi è significativa l’opinione secondo cui la politica
deve avere sempre in vista un bene comune e una vita virtuosa, e
deve sempre tendere a promuovere le virtù dell’anima e della
ragione, che sono, in tutti e due i filosofi, i grandi valori orientativi
dell’esistenza umana.
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Aristotele - "Maestro di color che sanno", parte quarta