ANATOCISMO ED USURA NEI RAPPORTI BANCARI (Avv. Alfonso Quintarelli, Studio Legale Quintarelli & Partners) 1) Il contratto di conto corrente ed il contratto di apertura di credito “Qualora il deposito, l’apertura di credito o altre operazioni bancarie siano regolate in conto corrente ….”: è con queste scarne parole che l’art. 1852 del codice civile tratta il rapporto intercorrente tra il conto corrente ed il contratto di apertura di credito (ed altri rapporti bancari “regolati” in conto corrente). Questo articolo, unitamente ai successivi, sino all’art. 1857, delinea, poi, una particolare species del genere “conto corrente”, che è stato già regolato nel precedente capo XVI dagli articoli 1823-1833, che è usualmente definito “bancario”, alternativamente a “di corrispondenza” o “semplice” o “disponibile”. La regolamentazione dell’apertura di credito, invece, è dettata in soli 4 articoli, dal 1843 al 1845. Il rapporto enunciato dall’art. 1852 e la successiva particolare regolamentazione del conto corrente bancario hanno posto e pongono gravi problemi di inquadramento dogmatico, in assenza di alcuna definizione normativa di questa figura giuridica. Non aiuta certo il rilievo che il servizio gestorio di cassa, fornito dalla Banca su mandato del cliente, nel quale può riconoscersi il tratto peculiare del conto corrente bancario, resta privo di concreta rilevanza se non si presuppone la necessaria esistenza, presso la stessa banca, di disponibilità del cliente, generate da un contratto di deposito, o da un’apertura di credito o, ancora, da un’anticipazione bancaria o, comunque da qualsiasi altro contratto, che può intervenire con l’istituto, utile allo scopo. Il nocciolo della questione e delle possibili soluzioni è ben riassunto in queste parole di un illustre studioso della materia, che datano or 50 anni, ma che sono ancora attualissime: “…. la prestazione di quel servizio (servizio gestorio di cassa – ndr) da parte della banca si inserisce nello schema causale di uno di questi contratti (deposito, apertura di credito, anticipazione, etc. – ndr) come prestazione accessoria, e cioè senza che da essa derivi una modificazione dello schema causale originario, o invece come elemento essenziale, e cioè modificandone la causa con la conseguenza di dar luogo ad un contratto innominato, o se invece ci si trovi di fronte a un fenomeno di collegamento negoziale cioè di fronte ad un’operazione complessa risultante dalla combinazione di due negozi funzionalmente collegati ma strutturalmente autonomi”1 Non è questa la sede per dar conto di ciascuna delle prospettate tesi interpretative, che ancora sono in campo e discusse tra gli studiosi, è invece utile e necessario evidenziare che la giurisprudenza di legittimità, dopo aver, in un primo tempo, aderito all’opzione del contratto innominato misto2, successivamente ha assunto un atteggiamento più problematico, richiedendo un attento esame della com1 Giuseppe Ferri, voce “Conto corrente di corrispondenza”, in Enciclopedia del Diritto, IX, pag. 668, Milano 1961; il quale opta decisamente per l’opzione del collegamento funzionale. 2 Cass. 23.01.1979, n. 517; Cass. 06.12.1974, n. 4043; Cass. 15.12.1970, n. 2685. 1 plessiva concreta fattispecie, per discernere se il rapporto sia da configurare come unico negozio di tipo complesso, caratterizzato da unica causa, ovvero come collegamento di negozi autonomi e distinti, caratterizzati da diverse cause,3 per giungere, da ultimo, a riconoscere una precisa autonoma causa del contratto di conto corrente nel mandato gestorio di cassa conferito dal cliente alla Banca4 e l’autonomia del contratto di apertura di credito rispetto al conto corrente dove è regolato.5 Insomma, pur con tutte le cautele che il caso impone, sembrerebbe che, tendenzialmente, la Suprema Corte sia sempre più incline ad identificare l’apertura di credito regolata in conto corrente come “un’operazione complessa risultante dalla combinazione di due negozi funzionalmente collegati ma strutturalmente autonomi”6. Questa opzione non può essere pienamente condivisa. Infatti, se si pone attenzione al dato normativo e, in particolare, all’art. 1855 cod. civ., secondo il quale “se l’operazione regolata in conto corrente è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto …..”, ci si avvede subito che il “contratto” al quale la norma si riferisce è un unicum, costituito sia dall’“operazione regolata in conto corrente” (deposito, apertura di credito, etc.), sia dal “conto corrente” stesso. Questa disposizione, quindi, è sicuro indice che il negozio vada inquadrato tra i contratti unitari, complessi o misti, più che tra i contratti funzionalmente collegati, ma strutturalmente autonomi. Non può peraltro sottacersi che la norma si riferisce abbastanza chiaramente alla fattispecie in cui il conto corrente regola una singola operazione a tempo indeterminato. Quid iuris quando, come frequentemente si riscontra nella prassi bancaria, il conto corrente regoli più operazioni, tra loro eterogenee, sia nella natura, che nella durata? La classificazione di queste fattispecie si dovrà fare caso per caso, per accerta- 3 Cass. 23.01.1984, n. 548 “Qualora la banca conceda al proprio cliente un'apertura di credito, utilizzabile nell'ambito di un preesistente rapporto di conto corrente di corrispondenza, l'indagine diretta a stabilire se il patto di corresponsione degli interessi in misura ultralegale (nella specie, tasso bancario), contenuto nel contratto di conto corrente, non sia o sia estensibile agli interessi inerenti al contratto di apertura di credito, postula il riscontro, attraverso il complessivo regolamento contrattuale, della ricorrenza di negozi autonomi e distinti, caratterizzati da cause diverse, anche se collegati nel perseguimento di un determinato scopo, ovvero di un solo negozio di tipo complesso, caratterizzato da unicità di causa, come nel caso in cui l'apertura di credito sia soltanto rivolta a consentire lo scoperto del conto corrente, senza mettere alcuna somma a disposizione del cliente al di fuori del conto stesso.” . 4 Cass. 28.06.2002, n. 9494“La causa del contratto di conto corrente di corrispondenza implica un mandato generale conferito alla banca dal correntista ad eseguire e ricevere pagamenti per conto del cliente, con autorizzazione a far affluire nel conto le somme così acquisite in esecuzione del mandato.” 5 Cass. 13.04.2006, n. 8711 “la circostanza che le operazioni connesse ad un contratto di apertura di credito vengano eseguite in conto corrente non priva il contratto di conto corrente bancario della sua autonomia: con la conseguenza che il recesso della banca dall'apertura di credito, operato in base ad una clausola contrattuale che consenta tale recesso anche in difetto di giusta causa, mentre non implica necessariamente il recesso dall'altro contratto, giustifica solo il rifiuto di pagare gli assegni del cliente, pervenuti successivamente, sulla base dell'affidamento revocato, ma non costituisce, in costanza di contratto di conto corrente di corrispondenza, valida ragione per rifiutare al correntista di effettuare il deposito della provvista occorrente per il pagamento di essi.” 6 Giuseppe Ferri, cit. 2 re se sono da considerare comunque contratti unitari, ovvero vadano inquadrati tra i negozi funzionalmente collegati ma strutturalmente autonomi7. Questa operazione interpretativa non è fine a se stessa e priva di valore pratico, perché, secondo la tradizionale impostazione giurisprudenziale, solo nei contratti unitari, misti o complessi, si può avere una interferenza nella disciplina “fisiologica”, mentre nei contratti collegati questa resta rigorosamente separata e le ripercussioni si limitano ai soli aspetti patologici, in applicazione del principio “simul stabunt simul cadent”. Se è vero che la rilevanza della distinzione tra contratti unitari, complessi o misti, e negozi collegati tende sempre più a sfumarsi con la valorizzazione del dato sostanziale della operazione economica unitaria voluta dai contraenti, più che del dato ricostruttivo dogmatico strutturale (impostazione che sembra aver trovato anche un supporto normativo in materia di tutela del consumatore, là dove si è previsto che per la valutazione della vessatorietà delle clausole contrattuali si devono considerare anche le clausole di un eventuale altro contratto collegato - art. 34 D.Lgs. 06.09.2005, n. 206), è anche vero, però, che tale processo è ancora di là dal considerarsi compiuto, tant’è che la Suprema Corte, ancora nel 2006, sosteneva l’autonomia strutturale e regolamentare del contratto di apertura di credito rispetto al contratto di conto corrente sul quale era regolato (si veda nota 6). 8 7 Cass. civ. Sez. I, 19-01-1995, n. 559: “Nell'ipotesi in cui la banca stipuli con il cliente un contratto di apertura di credito in conto corrente e, collateralmente, un accordo tipicizzante il cosiddetto castelletto di sconto, consentendo che il conto corrente sia alimentato anche dal netto ricavo degli sconti, queste ultime operazioni bancarie non costituiscono meri atti di utilizzazione dell'apertura di credito in conto corrente, inserendosi, così, nel complesso schema unitario di tale contratto, ma costituiscono attuazione di negozi giuridici autonomi rispetto a quello di apertura di credito in conto corrente atteso che, data l'immanente diversità di presupposti, di effetti e di regime delle due figure giuridiche, lo sconto si innesta nel profilo funzionale dell'anticipazione bancaria in conto corrente e risulta privo di autonomia causale, solo in quanto le concrete pattuizioni afferenti ai due rapporti abbiano introdotto un collegamento funzionale tra gli stessi. L'onere di dimostrare la sussistenza di siffatto collegamento ricade sulla parte che fonda su tale dato la propria difesa, senza che al fine di detta dimostrazione sia di per sé decisivo il solo richiamo della ripetitività delle rimesse in conto del netto ricavo delle operazioni di sconto, ben potendo essere compatibile anche con l'ipotesi dell'autonomia dei due rapporti, mentre invece la previsione pattizia di un diverso importo del fido in conto corrente e del limite previsto nel castelletto di sconto costituisce idoneo sintomo della distinzione tra i due negozi.” 8 Cass. civ. Sez. Unite, 12-05-2008, n. 11656: “in ipotesi di contratto misto la disciplina giuridica va individuata, in base alla teoria. dell'assorbimento, che privilegia la disciplina dell'elemento in concreto prevalente, in quella risultante dalle norme del contratto atipico nel cui schema sono riconducibili gli elementi prevalenti (cosiddetta teoria dell'assorbimento o della prevalenza), senza escludere ogni rilevanza giuridica degli altri elementi, che sono voluti dalle parti e concorrono a fissare il contenuto e l'ampiezza del vincolo contrattuale, elementi ai quali si applicano le norme proprie del contratto cui essi appartengono, in quanto compatibili con quelle del contratto prevalente (Cass. 24/07/2000, n. 9662; Cass. 08/02/2006, n. 2642)”; Cass. civ. Sez. Unite, 31-10-2008, n. 26298 "secondo i principi applicabili in tema di contratto misto, il negozio deve essere assoggettato alla disciplina unitaria dell'uno o dell'altro contratto in base alla prevalenza degli elementi, salva l'applicazione degli elementi del contratto non prevalente se regolati da norme compatibili con quelle del contratto prevalente" (Cass., sez. 3^, 20 gennaio 2005, n. 1150, m. 578766)”. Ovviamente se si accede alla opzione teorica che assimila la fattispecie del negozio collegato a quella del contratto unitario misto questi principi interpretativi saranno da utilizzare anche nel caso di contratti autonomi ma funzionalmente collegati. 3 Prima della L. 17.02.1992, n. 154, la conclusione di questi negozi (ed il recesso dagli stessi), erano a forma libera9, per cui era valida la stipulazione verbale, anche tacita o, come si suole dire, per “facta concludentia”, salvo poi, soprattutto con riferimento all’apertura di credito, non avere le medesime opinioni su quali fossero questi fatti concludenti: il “mero fatto della situazione di scoperto di conto” non lo è10; il “pagamento di assegni emessi dal cliente senza copertura” è da valutare “in relazione alle circostanze del caso concreto (quali la durata del comportamento stesso e l’entità delle somme pagate”11; la stessa “annotazione nel libro fidi di una banca degli estremi di un affidamento (…) ancorché trovi corrispondenza in una situazione di fatto non dimostra in sé la stipulazione, per fatti concludenti, di un contratto di apertura di credito (…) potendo (…) trovare fondamento in una posizione di mera tolleranza da parte della banca”.12 E’ usuale sentir sostenere, che dopo la citata legge, tutti i contratti bancari e, pertanto, anche quelli di conto corrente e di apertura di credito, necessitino della forma scritta ad substantiam. Questa affermazione non è del tutto corretta. Una prima deroga si ha, infatti, per i contratti già previsti in altri contratti redatti per iscritto.13 Inoltre, l’art. 3 della legge 154/1992, enuncia si la regola “i contratti relativi alle operazioni ed ai servizi devono essere redatti per iscritto”, ma, poi, non la presidia con alcuna sanzione, tantomeno di 9 Ex multis:Cass. 24.06.2008, n. 17090; Cass. 23.04.1996, n. 3842; Cass. 21.12.1988, n. 6974. Cass. 23.04.1996, n. 3842 11 Cass. 11.03.1992, n. 2915; Cass. 24.06.2008, n. 17090. 12 Cass. 05.12.1992, n. 12947 13 L’art. 3, 3° comma, della L. 154/1992 disponeva che “Su conforme delibera del CICR, la Banca d’Italia può dettare, per motivate ragioni tecniche, particolari modalità per la forma dei contratti relativi a determinate categorie di operazioni e di servizi”. Il Ministero del Tesoro, vista l’urgenza ed in surroga al CICR, emanò il decreto 24.04.1992 (pubblicato in G.U., 11.05.1992, n. 108), con il quale, all’art 4, delegava alla Banca d’Italia di individuare i contratti che “per motivate ragioni tecniche” potessero rivestire modalità diverse di forma (comma 1), nonché di individuare “modalità particolari per i contratti relativi ad operazioni e servizi che si innestano su rapporti preesistenti originati da contratti redatti per iscritto”. La Banca d’Italia, in virtù della delega, emise le “Istruzioni” del 24.05.1992 (pubblicate in G.U. 30.05.1992, n. 126), che, all’art. 4, 2° comma, disponevano:“La forma scritta non è tuttavia obbligatoria: (……) b) per operazioni e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto” . Dette disposizioni, stante la previsione dell’art. 161, commi 2 e 5, del D.Lgs. 01.09.1993, n. 385 (d’ora innanzi anche Testo Unico Bancario o T.U.B.) hanno avuto ultrattività sino a quando il CICR, esercitando la delega conferitagli, tra l’altro dall’art. 117, comma 2°, T.U.B., per il quale “Il CICR può prevedere che, per motivate ragioni tecniche, particolari contratti possano essere stipulati in altra forma”, ha assunto la delibera 04.03.2003 (pubblicata in G.U. 27.03.2003, n. 72), dove, all’art. 10 si prevede che “La Banca d’Italia può individuare forme diverse da quella scritta per le operazioni ed i servizi effettuati sulla base di contratti redatti per iscritto, nonché per le operazioni e i servizi, oggetto di pubblicità ai sensi della presente delibera, che hanno carattere occasionale ovvero comportano oneri di importo contenuto per il cliente” . La Banca d’Italia con il 9° Aggiornamento del 25 luglio 2003 della Circolare n. 229 del 21 aprlie 1999 ha aggiunto il Titolo X alle “Istruzioni di Vigilanza per le Banche”, che al Capitolo 1, Sezione III “Contratti”, articolo 2 dispone: “La forma scritta non è obbligatoria: a) per le operazioni e i servizi effettuati in esecuzione di previsioni contenute in contratti redatti per iscritto” , con nota a piè di pagina dove si legge: (1) L’esenzione dalla forma scritta si ha, ad esempio, per le operazioni regolate in conto corrente. Restano comunque soggette all’obbligo di forma scritta le modifiche e le integrazioni del contratto redatto per iscritto (quale la possibilità di utilizzo di carte di credito in collegamento con il conto corrente) 4 10 nullità, per cui, è assai arduo ritenere invalidi contratti conclusi verbalmente nel vigore della predetta normativa, stante il tenore del numero 4) dell’art. 1325 cod. civ., richiamato dall’art. 1418 cod. civ., che definisce la forma requisito essenziale del contratto solo quando è richiesta a pena di nullità: c.d. nullità testuale. Nel caso di specie, quindi non opera la sanzione di invalidità, salvo ricorrere alla nullità virtuale di protezione e, quindi, posta la natura imperativa dell’art. 3 della L. 154/1992, far ricadere la fattispecie sotto il 1° comma dell’art. 1418 cod. civ., anziché il 2°, ma l’operazione sembra assai ardua, in presenza dell’esplicito riferimento al requisito della forma.14 Con l’entrata in vigore del D.Lgs. 01.09.1993, n. 385, la situazione è mutata, perché il comma 3 dell’art. 117 commina espressamente la nullità alla non osservanza della forma scritta. Sennonché il comma 2 del successivo art. 127, nella stesura originaria rimasta invariata sino alla modifica apportata dal D. Lgs. 14.12.2010, n. 218, disponeva che “le nullità previste dal presente titolo possono essere fatte valere solo dal cliente”. Si tratta di una c.d. “nullità relativa”, o, più correttamente, di una legittimazione relativa a far valere la nullità, estrinsecazione della riserva formulata in limine all’art. 1421 cod.civ. Questa disposizione determina la possibilità che contratti bancari stipulati verbalmente pur dopo l’entrata in vigore del D.lgs. 385/1993 (01/01/1994) possano restare validi tra le parti, in assenza di specifica doglianza del cliente della banca, ovvero, una volta instaurato un contenzioso, se l’eccezione di nullità, non rilevabile d’ufficio, sia formulata oltre gli stretti termini decadenziali dettati dell’art. 167 cod. proc. civ. In tutti questi casi i rapporti bancari privi di forma scritta mantengono la loro validità ed il problema si sposta sul piano della prova: se si ritiene (come sembra preferibile) che la espressa previsione della forma scritta “ad substantiam” anche se non invocata per l’invalidità debba essere comunque presente “ad probationem” per la natura innegabilmente imperativa della disposizione, allora o si produce il documento, o non si raggiunge la prova, con quel che ne consegue; se invece si ritiene che la previsione della forma scritta “ad substantiam” non comporti anche una sua funzione ad probationem”, allora sarà possibile ricorrere a tutti gli strumenti istruttori, ivi comprese le presunzioni e la prova testimoniale, per accertarne l’esistenza e le specifiche pattuizioni concluse per la loro operatività. La situazione è parzialmente variata con la novella apportata dal già citato D. Lgs. 218/2010 al 2° comma dell’art. 127 T.U.B., che oggi così dispone: “Le nullità previste dal presente titolo operano solo a vantaggio del cliente e possono essere rilevate d’ufficio dal giudice”. Il Giudice, insomma, in mancanza di espressa eccezione di nullità proposta dal “cliente”, prima di sollevare d’ufficio la questione di nullità, dovrà valutare preventivamente se essa possa o meno giovare al cliente e, solo in caso positivo la potrà sollevare. Norma di delicata applicazione, perché, nell’inattività dell’interessato, il giudice dovrà valutare se questa opzione è conseguenza di una precisa scelta dello stesso, che ha ritenuto foriera di benefici, anche non strettamente economici, ovvero se è frutto di mera disattenzione o dimenticanza e, a tal fine, dovrà basarsi solo sulle risultanze di causa e non potrà certo interpel14 In proposito non può sottacersi che le Sezioni Unite Civili della Suprema Corte, con la sentenza n. 26725 del 19.12.2007, resa in materia di investimenti finanziaridalla (ma affine alla) presente, sembrano aver voluto porre un arresto al proliferare delle c.d. nullità virtuali di protezione. 5 lare la parte interessata, perché, all’evidenza, se ciò facesse pregiudicherebbe inesorabilmente la sua terzietà. Cosa accade se non esistono evidenze scritte del contratto di conto corrente e/o del contratto di apertura di credito antecedenti la L. 154/1992? In questo caso la prova dell’esistenza del rapporto di conto corrente è agevolmente ricavabile dagli estratti conto; meno facile è la prova dell’esistenza del contratto di apertura di credito, per le ragioni che abbiamo già sopra evidenziate. In ogni caso il rapporto di conto corrente ed il rapporto di apertura di credito, quando manchi la prova relativa alle condizioni che li dovevano regolare, dovrebbero essere ricomputati con applicazione alle rispettive partite di credito/debito degli interessi legali semplici, escluso qualsiasi altro onere, salvo quelli fiscali, e, ciò, anche dopo l’entrata in vigore della L. 154/92 e del T.U.B., perché le previsioni integrative/sostitutive delle clausole mancanti o nulle, riguardanti gli interessi e gli altri prezzi e condizioni dei contratti, contenute nell’art. 5 della prima disposizione e nell’art. 117 della seconda, non sono retroattive. Nel caso, invece, che non vi siano evidenze scritte del contratto di conto corrente e/o del contratto di apertura di credito stipulati dopo l’entrata in vigore della L. 154/1992 e prima della vigenza del T.U.B., fermo che, per quanto sopra detto, a mio parere non è possibile dichiararne la nullità, per la prova della loro esistenza vale quanto appena detto per i contratti antecedenti, mentre per l’eventuale difetto di prova delle condizioni che li regolano, saranno da applicare le previsioni integrative/sostitutive delle clausole mancanti o nulle, riguardanti gli interessi e gli altri prezzi e condizioni dei contratti, contenute nell’art. 5 della L. 154/92. Nell’ipotesi che non esistano evidenze scritte del contratto di conto corrente e/o del contratto di apertura di credito stipulato dopo l’entrata in vigore del T.U.B. e sino alla novella dell’art. 127, 2° comma, introdotta dal D.Lgs n. 218/2010, si dovrà distinguere se il cliente abbia o meno sollevato eccezione di nullità. Nel primo caso (eccezione sollevata) i rapporti sono nulli e, in presenza di apposita domanda di restituzione dell’indebito, il conto dovrà essere ricalcolato nella sola linea capitale e gli interessi legali a credito ed a debito delle parti, saranno da riconoscere “dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure se questi era in buona fede dal giorno della domanda” (art. 2033 cod. civ.)15. Veniamo ora al caso in cui l’eccezione di nullità non sia sollevata dal cliente: orbene, tale ipotesi, evidentemente, è del tutto simile a quella dei contratti stipulati dopo l’entrata in vigore della L. 154/1992 e prima della vigenza del T.U.B, sopra trattata, con la sola avvertenza che si dovrà applicare, ovviamente, l’art. 117 T.U.B., anziché l’art. 5 della abrogata legge. Si deve ora accennare alla problematica, insorta con riferimento al 7° comma, lettera a), dell’art. 117 T.U.B. prima della sua modifica, contenente la clausola sostitutiva, che si inserisce automaticamente 15 Cass. 14.05.2005, n. 10127 in fattispecie di restituzione conseguente alla declaratoria di nullità della clausola anatocistica del contratto bancario ha affermato che “trattandosi di pagamento indebito gli interessi sono dovuti dal giorno del pagamento soltanto se chi lo ha ricevuto era in mala fede ….”. 6 nei contratti nel caso di mancata previsione o nullità della pattuizione sugli interessi16, e, in particolare alla controversia se la clausola legale sostitutiva imponesse di applicare al rapporto tassi di interesse fissi, rilevati una sola volta nell’anno anteriore l’inizio del rapporto, ovvero tassi variabili rilevati via via anno dopo anno a partire da quello anteriore il contratto. Per quanto mi riguarda, fedele alla regola “in claris non fit interpretatio” (art. 12 preleggi)17, constatato che l’espressione legislativa era chiara e priva di ambiguità, talchè ho sempre ritenuto corretta la prima delle due opzioni. Altri, appellandosi alla “ratio” di protezione del cliente della normativa sulla trasparenza bancaria sostenevano invece la seconda. A suffragare la correttezza della prima interpretazione è intervenuto il D.Lgs. 218/2010, che ha specificato che, solo nel caso in cui i tassi siano più favorevoli per il cliente, quelli rilevati nell’anno antecedente la conclusione del contratto dovranno essere sostituiti con quelli dell’anno antecedente lo svolgimento dell’operazione. Se il legislatore ha ritenuto necessario apportare questa aggiunta alla norma, è evidente che la stessa, nella precedente formulazione, non consentiva il tasso sostitutivo “variabile” e, a ben vedere, ancora oggi, nel caso in cui le variazioni in corso di rapporto siano sfavorevoli al cliente, anche la norma novellata non lo consente. Non può sottacersi che la formulazione, come accade sempre più spesso, è infelice. Se presa alla lettera, non ogni anno, come si sosteneva dagli interpreti della tesi che sembra essere stata preferita dalla norma, ma addirittura ogni anno precedente ad ogni operazione, deve essere indagato per confrontare se il tasso BOT è più o meno favorevole al cliente rispetto a quello rilevato l’anno ante16 La disposizione, prima della novella introdotta con il D. Lgs. 218/2010, era così formulata “In caso di inosservanza del comma 4 e nelle ipotesi di nullità indicate nel comma 6, si applicati: a) il tasso nominale minimo e quello massimo dei buoni ordinari del tesoro annuali o di altri titoli similari eventualmente indicati dal Ministero dell’economia e delle finanze, emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto, rispettivamente per le operazioni attive e per quelle passive”. 17 Cass. civ. Sez. I, sent. n. 5128 del 06-04-2001: “Nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge o (come nella specie) regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della "mens legis", specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l'elemento letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa.”; Cass. civ. Sez. I, sent. n. 2454 del 07-04-1983: “La ricerca della "ratio legis" costituisce soltanto un criterio sussidiario d'interpretazione in presenza di norme di dubbio contenuto, ma non può valere a disattendere la portata della norma qualora questa, sia pure contro le intenzioni del legislatore, abbia un inequivocabile significato.”; nell’ambito dell’interpretazione dei contratti Cass. civ. Sez. Unite, 12-05-2008, n. 11656: “Nella ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento dell'operazione interpretativa, è costituito dalle parole ed espressioni del contratto e, qualora queste siano chiare e dimostrino un'intima ratio, il giudice non può ricercarne una diversa, venendo così a sovrapporre la propria soggettiva opinione all'effettiva volontà dei contraenti (Cass. 22/12/2005, n. 28479; 03/12/2004, n. 22781; Cass. 22.4.1995, n. 4563).” 7 riore la conclusione del contratto: pensiamo a rapporti che datano 10 o più anni con centinaia di migliaia di operazioni, che comporteranno altrettante attività, oltre che per il ricalcolo, anche per il confronto e per eventuali correzioni, magari di frazioni di euro, rispetto alla rilevazione del tasso BOT effettuata ogni anno successivo alla stipulazione del contratto. L’attività, gravosa e complessa sembra poco compatibile con la proporzionalità tra mezzi finiti del servizio giustizia e tutela dei diritti, che oggi è sempre più perseguita. 2) Il D.Lgs. 04.08.1999, n. 342 e la delibera CICR del 09.02.2000 Anatocismo è la parola che troviamo a rubrica dell’art. 1283 cod. civ. e che deriva dal termine del greco classico , composto da = di nuovo e = interesse. La norma delimita rigorosamente i casi in cui “gli interessi scaduti possono produrre interessi”, imponendo che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi e che vi sia convenzione posteriore alla scadenza dei primi interessi, ovvero domanda giudiziale. In mancanza di questa disposizione, si sarebbe applicato l’art. 1282 cod. civ. e, quindi, gli interessi scaduti avrebbero prodotto a loro volta interessi, conformemente alla considerazione economica e pratica del fenomeno, per cui gli interessi maturati rappresentano un capitale che può fruttare a sua volta interessi: l’esempio classico e più semplice è quello del risparmiatore che acquista BOT e, poi, investe gli interessi percepiti per acquistare altri titoli di stato, e così via. Se queste operazioni saranno effettuate ogni mese, gli interessi produrranno interessi per 12 volte in un anno; se effettuate ogni bimestre li produrranno 6 volte in un anno e così via. Questa modalità di capitalizzazione non rientra nel divieto dell’art. 1283 cod. civ. perchè si tratta di singole operazioni e gli interessi sono pagati alla scadenza, anzi, per i BOT, addirittura anticipati all’emissione del prestito, mentre la norma del codice vuole evitare che, attraverso un preventivo patto anatocistico, il debitore che non paga gli interessi alla loro scadenza sia esposto al rischio di un rapido e progressivo aumento del debito. Non è sempre stato così, infatti, nel diritto romano più antico l’anatocismo era consentito con apposito patto tra le parti. Dapprima un senatoconsulto in età tardo repubblicana (intorno al 50 ac) e, poi, definitivamente, Giustiniano (482 – 564 d.c.) con una sua costituzione del 529, vietarono l’usurae usurarum. Successivamente il divieto si confuse con il più generale e radicale divieto d’usura, da intendersi nel senso ampio che allora fu utilizzato di tutto ciò che si aggiunge alla restituzione del tantundem, di ricevere più di quanto si dà. Il divieto assoluto cade con il codice civile napoleonico, che, all’art. 1154 stabilisce “gli interessi scaduti dei capitali possono produrre interessi, o in seguito a una domanda giudiziale, o in forza di 8 uno specifico accordo, a condizione che, vuoi nella domanda, vuoi nell'accordo, si tratti di interessi dovuti almeno per un anno intero”.18 E’ immediatamente percepibile l’assonanza con la norma del vigente codice civile, la quale, però, la mutua per il tramite dell’art. 1232 del codice civile del 186519, rispetto alla quale le modificazioni riscontrabili in quella vigente si giustificano con l’unificazione delle obbligazioni civili e di quelle commerciali, operata con il nuovo codice. Ad oggi, negli altri principali paesi europei (Francia, Germania, Inghilterra e Spagna) la preventiva previsione della capitalizzazione degli interessi è ritenuta lecita, quantomeno nell’ambito dei conti correnti bancari20 Altrettanto avveniva in Italia sino alla pronuncia della Corte di Cassazione n. 2374 del 16.03.1999. La vicenda è tanto nota che ci limitiamo a ricordarla per cenni. Prima della citata sentenza, nei conti correnti e, più in generale, salvo rare eccezioni, nei rapporti bancari, la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e la capitalizzazione annuale degli interessi attivi per il cliente era considerata lecita, in quanto si riteneva che nello specifico settore del credito sussistesse un uso normativo in tal senso, che integrava la deroga al divieto di anatocismo prevista dall’art. 1282 cod. civ. e, in tal senso, si era espressa la Suprema Corte tra il 1981 ed il 1999 con circa dieci decisioni edite, nonché la sostanziale totalità delle corti di merito. Nel 1999, con una famosa sentenza21, la Suprema Corte cambia di 360 gradi il proprio orientamento, qualificando l’uso, non più come normativo, ma come negoziale o, meglio, come clausola d’uso ex art. 1340 cod. civ., che non può integrare la deroga contemplata dalla dall’art, 1283 cod. civ..22 18 “Les interets echus des capitaux peuvent produire des interets, ou par une demande judiciaire, ou par une convention speciale, pourvu que soit dans la demande, soit dans la convention, il s'agisse d'interets dus au moins pour une annee entiere” 19 “(1)Gli interessi scaduti possono produrre altri interessi o nella tassa legale in forza di giudiziale domanda e dal giorno di questa, o nella misura che verrà pattuita in forza di una convenzione posteriore alla scadenza dei medesimi. (2)Nelle materie commerciali l’interesse degli interessi è inoltre regolato dagli usi e dalle consuetudini. (3)L’interesse convenzionale o legale di interessi scaduti per debiti civili non comincia a decorrere, se non quando trattasi di interessi dovuti per una annata intera, salvo però riguardo alle casse di risparmio ed altri simili istituti quanto fosse altrimenti stabilito dai loro rispettivi regolamenti.” 20 Confronta “Capitalizzazione degli interessi bancari” nel sito della Corte Costituzionale all’indirizzo: www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari 21 Cass. Sez. I Civ. (20.05.1998) 16.03.1999, n. 2374 22 Cass. Sez. Un. Civ. 04.11.2004, n. 21095: “Al di là delle varie ulteriori argomentazioni (…) rinvenibili nelle pronunzie del nuovo corso, (…) emerge dalla motivazione delle pronunce stesse come, nel suo nucleo logico-giuridico essenziale l’enunciazione del principio di nullità delle clausole bancarie anatocistiche si ponga come la conclusione obbligata di un ragionamento di tipo sillogistico, la cui premessa maggiore è espressa dalla affermazione che gli usi contrari (…) sono non i meri usi negoziali (…)., ma esclusivamente i veri e propri usi normativi (….) e la premessa minore è rappresentata dalla constatazione che (…) i clienti si sono nel tempo adeguati all’inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo (…) ma in quanto compresa nei moduli predisposti dagli istituti di credito(…). Bruno Inzitari ”Diversa funzione della chiusura nel conto ordinario e in quello bancario. Anatocismo e commissione di massimo scoperto”, nota di commento a Tribunale Milano 02.07.2002, in Banca Borsa e Titoli di Credito 2003, 4, p. 463 e ss., rileva “ogniqualvolta, al fine di provare l’esistenza di un uso normativo e in particolare della capitalizzazione trimestrale degli interessi, si fa riferimento a schemi contrattuali predisposti da associazioni di categoria 9 Nonostante l’imponente mole di decisioni e di opinioni contrarie, forse per la mia innata vocazione minoritaria, il revirement giurisprudenziale del 1999, ancor oggi mi pare più “politicamente corretto” e in linea con la rilevante produzione legislativa degli anni “90 dello scorso secolo, improntata alla tutela del contraente debole, che definitivamente convincente circa le conclusioni raggiunte. Anzitutto sussistevano e sussistono molteplici disposizioni legislative e regolamentari che dispongono sulla capitalizzazione degli interessi nelle operazioni bancarie,: la Legge 154/1992, che all’art. 8 impone alla Banca di fornire al cliente “una completa e chiara informazione sui tassi di interesse applicati nel corso del rapporto, sulla decorrenza delle valute, sulla capitalizzazione degli interessi (….)”; il Decreto del Ministero del Tesoro del 24.04.199223, che all’art. 3, 2° comma, dispone che nelle comunicazioni della banca alla clientela “I tassi di interesse devono essere indicati al valore nominale ed essere riportati su base annua, con indicazione della periodicità della capitalizzazione”; le “Istruzioni” del 24.05.1992 della Banca d’Italia24, che all’art. 5 ripetono che le banche devono fornire alla clientela “una comunicazione scritta che dia una completa e chiara informazione (…..) sulla capitalizzazione degli interessi”. Queste disposizioni, che per quanto si è precisato25 sono rimaste in vigore sino al 2003 e, quindi, si sono sovrapposte con il D.Lgs 342/1999 e con la delibera CICR 09.02.2000, inequivocabilmente contemplano la capitalizzazione degli interessi nelle operazioni bancarie e, quindi, derogano l’art. 1283 cod. civ. e legittimano l’anatocismo, lasciando poi alle parti di determinare le concrete modalità del suo operare. Di questi ineludibili dati normativi non si sono fatte carico né Cassazione 2374 del 1999, che ha iniziato il nuovo corso, né Cass. Sez. Un. 21095 del 2004, né, da ultimo, Cass. Sez. Un. 24418 del 2010, né le altre pronunce intervenute. Anzi la legge 154/92 è stata richiamata dal Cass. 2374/1999 a sostegno del proprio convincimento nella parte in cui vieta che nelle clausole negoziali (sic!) si effettui il rinvio agli usi. Questo ci pare un vulnus di non poco momento che grava sulla prima sentenza e su tutta la giurisprudenza che, via via si è venuta uniformando a Cassazione 2374/1999. Cassazione Sezioni Unite 24418 del 2010, deve essere segnalata sia perché ha severamente inasprito il giudizio di invalidità delle clausole anatocistiche, estendendolo a qualsiasi periodizzazione di capitalizzazione degli interessi: semestrale, annuale, etc.; sia perchè a ciò perviene sulla scorta di argomentazioni che sollevano più dubbi di quanti ne vogliano risolvere. La Corte, infatti, dopo aver stigmatizzato, correttamente, che dalla giurisprudenza che nega l’esistenza di usi normativi riferibili alla capitalizzazione trimestrale degli interessi non si possa inferire che la stessa abbia così riconosciuto l’esistenza della capitalizzazione annuale, nega l’esistenza di questa sul solo rilievo che “usi siffatti non si rinvengono nella realtà storica, o almeno nella realtà storica dell’ultimo cinquantennio ante- (…) non si tratterà di usi normativi, ma di condizioni contrattuali di natura pattizia (…). In ogni caso, si tratterebbe soltanto di clausole contrattuali, sia pure ampiamente e ripetutamente diffuse, ma mai di un uso normativo”. 23 Vedi nota 14 24 Vedi nota 14 25 Vedi nota 14 10 riore agli interventi normativi della fine degli anni novanta del secolo passato”26. Le Sezioni Unite, così argomentando, anzitutto disattendono, implicitamente, un principio precedentemente affermato dalle sezioni semplici, ovvero che gli “usi contrari” ai quali la norma si riferisce, sono solo quelli esistenti prima del 1942, infatti limitarsi a sostenere l’inesistenza di usi contrari nella seconda metà del secolo scorso e, quindi, dopo il 1942 ammettendo qualunque indagine sulla loro esistenza o meno prima del vigore del nuovo codice civile, contraddice il principio affermato dalle sezioni semplici, per cui, in tema di anatocismo, non è possibile il formarsi di usi contrari successivamente al 1942, stante la natura imperativa dell’art. 128327. Peraltro, che gli usi normativi di capitalizzazione semestrale ed annuale fossero effettivamente esistenti prima del vigente codice civile, lo affermano le sezioni semplici, sia con la sentenza 2593/200328, sia, e con maggior puntualità e documentata precisione, proprio la prima sentenza dell’orientamento contrario all’anatocismo nei rapporti bancari29. 26 Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 02-12-2010, n. 24418: “Detta giurisprudenza, come è noto, ha escluso di poter ravvisare un uso normativo atto a giustificare, nel settore bancario, una deroga ai limiti posti all'anatocismo dall'art. 1283 c.c.: ma non perchè abbia messo in dubbio il reiterarsi nel tempo della consuetudine consistente nel prevedere nei contratti di conto corrente bancari. la capitalizzazione trimestrale degli indicati interessi, bensì per difetto del requisito della "normatività" di tale pratica. Sarebbe, di conseguenza, assolutamente arbitrario trame la conseguenza che, nel negare l'esistenza di usi normativi di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori, quella medesima giurisprudenza avrebbe riconosciuto (implicitamente o esplicitamente) la presenza di usi normativi di capitalizzazione annuale. Prima che difettare di "normatività", usi siffatti non si rinvengono nella realtà storica, o almeno non nella realtà storica dell'ultimo cinquantennio anteriore agli interventi normativi della fine degli anni novanta del secolo passato: periodo caratterizzato da una diffusa consuetudine (non accompagnata però dalla opinio iuris ac necessitatis) di capitalizzazione trimestrale, ma che non risulta affatto aver conosciuto anche una consuetudine ai capitalizzazione annuale degli interessi debitori, nè di necessario bilanciamento con quelli creditori”. 27 Cass. civ. Sez. III, 20-02-2003, n. 2593: “L'analisi della genesi e delle finalità dell'art. 1283 c.c. ed il raffronto tra il detto articolo e gli altri articoli del codice civile sopra richiamati danno ragione dell'affermazione che non consente la formazione di usi contrari aventi forza di legge in epoca successiva alla data di entrata in vigore della norma”. Ed ancora: “Deve pertanto affermarsi, con riferimento alla disciplina dell'art. 1283 c.c., che gli usi contrari cui la norma si riferisce sono quelli che esistevano anteriormente all'entrata in vigore del codice civile. Usi contrari non avrebbero potuto successivamente formarsi perché la natura della norma stessa, di carattere imperativo e quindi impeditiva del riconoscimento di pattuizioni e di comportamenti non conformi alla disciplina positiva esistente, impediva la realizzazione delle condizioni di fatto idonee a produrre la nascita di un uso avente le caratteristiche dell'uso normativo. Né può essere contestata la natura imperativa della norma per il fatto che essa stessa ammette di essere derogata da usi contrari, una volta dimostrato che tale deroga è possibile solo ad opera di usi contrari preesistenti”. 28 Cass. civ. Sez. III, 20-02-2003, n. 2593: “La salvezza degli usi contrari, contenuta nell'art. 1283 c.c., è dovuta alla constatazione da parte del legislatore del 1942 della esistenza nella pratica commerciale di radicati usi che consentivano l'anatocismo ed alla evidente intenzione di non incidere su di essi riconoscendone il valore normativo ancorché fossero contrari alla disciplina positiva che si intendeva dettare.” 29 Cass. civ. Sez. I, 16-03-1999, n. 2374: “la dottrina formatasi nel vigore della disciplina anteriore all'entrata in vigore del nuovo codice, anche sulla base della giurisprudenza dell'epoca, affermava che gli usi normativi in materia commerciale, fatti salvi dall'art. 1232 del c.c. del 1865, erano nel senso che i conti correnti venivano chiusi ad ogni semestre e che al momento della chiusura potevano essere capitalizzati gli interessi scaduti. Inoltre, anche tra i primi e più autorevoli commentatori dell'art. 1283 del codice vigente, si affermava che l'uso contrario richiamato da detta disposizione prevedeva che divenisse produttivo di interessi solo il saldo annuale o semestrale del conto corrente”. 11 Infine, la decisione che ha originato l’orientamento contrario all’anatocismo bancario, e quelle successive, scontano una particolare debolezza sul piano della ricostruzione storico-dogmatica circa l’esistenza di un uso normativo di capitalizzazione trimestrale degli interessi prima del codice del 1942. Cercherò, molto brevemente, di illustrare i motivi di queste mie, e non solo mie, perplessità. Come già detto l’art. 1283 cod. civ. è stato scritto sul canovaccio dell’art. 1232 del codice civile del 1865, rispetto al quale, al di là dello stile, le marginali differenze sono da ricondursi al superamento che, con il nuovo codice, si è fatto della tradizionale distinzione tra materia civile e commerciale, icasticamente rappresentata dall’esistenza di un codice civile e di un codice di commercio. Orbene la compilazione del 1942 ha fuso le due regolamentazioni, estendendo, normalmente, non senza qualche problema, alle “obbligazioni civili” la maggior parte, se non tutte, le regole che precedentemente erano proprie di quelle commerciali. Ecco allora, che la previsione del comma secondo dell’art. 1232 c.c. 1865, per cui “Nelle materie commerciali l’interesse degli interessi è inoltre regolato dagli usi e dalle consuetudini”, è resa oggi con l’incipit dell’art. 1283, secondo il quale “In mancanza di usi contrari gli interessi scaduti possono produrre interessi ….”. Occorre ora ricordare e sottolineare, che nell’ordinamento preesistente al codice civile del 1942 ed alla carta costituzionale del 1947, non esisteva la rigida gerarchia delle fonti oggi vigente, tant’è che l’art. 1 del codice di commercio del 1882, con il quale si coordinava il secondo comma dell’art. 1232 del c.c. del 1865, affermava che “In materia di commercio si osservano le leggi commerciali. Ove queste non dispongano, si osservano gli usi mercantili: gli usi locali o speciali prevalgono sugli usi generali. In mancanza si applica il diritto civile”, ovvero un principio opposto a quello che oggi è previsto nell’art. 8 delle preleggi. In quel tempo, quindi, ben potevano nascere consuetudini “contra legem”, avversative il divieto d’anatocismo e, tanto più, potevano sorgere se si accertasse che in materia commerciale quel divieto non esisteva per previsione disposizione normativa. Questa dimostrazione è assai agevole perché l’art. 41 del codice di commercio del 1882 (successivo al codice civile che era del 1865), utilizzando la stessa formula ripetuta nell’attuale art. 1282 cod. civ, stabiliva che “i debiti commerciali liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto”. Si ricorda che l’art. 1 dello stesso codice disponeva che nella materia mercantile si osservassero anzitutto le sue norme e gli usi commerciali e che l’art. 1232 del codice civile faceva salvi gli usi commerciali. Orbene sia perché Lex specialis, sia perché legge successiva nel tempo, l’art. 41 del codice di commercio prevale sul codice civile e rende legittimo l’anatocismo. Non sfugge certo che anche oggi, in mancanza della limitazione imposta dall’art. 1283 cod. civ., l’art. 1282 si applicherebbe anche al debito pecuniario per gli interessi scaduti, con conseguente operatività dell’anatocismo. Tornando al sistema vigente prima del codice civile del 1942, ricordato che per l’art. 54 dello stesso codice “se un atto è commerciale per una sola delle parti tutti i contraenti sono per ragioni di esso soggetti alla legge commerciale”, è indubbio, per quanto si è visto, che per le transazioni commerciali la capitalizzazione degli interessi fosse consentita dalla legge e che modalità e scadenze della stessa potessero essere stabilite dalle convenzioni e dagli usi. Quindi l’esistenza di una ripetizione generale, frequente, costante e pubblica della capitalizzazione trimestrale degli interessi nei conti correnti bancari, anche attestato da clausole contrattuali diffuse, proverebbe l’esistenza di una consuetudine che sarebbe “iussu legem” più che “secundum legem”, nella quale l’opinio iuris sarebbe in re ipsa, perché l’uso avrebbe una funzione 12 meramente integrativa dell’art. 41 del codice di commercio del 1882, limitandosi ad adeguarlo alle peculiarità del particolare settore economico, mentre l’art. 41 avrebbe la funzione di connotare, qualificare e sanzionare l’uso, come condotta giuridicamente legittima e doverosa. Orbene, rinvio ad una recente sentenza del Tribunale di Ragusa30 , consapevolmente in contrasto con la giurisprudenza maggioritaria, per la enumerazione della imponente mole di indizi (e se ne potrebbero aggiungere anche altri, ma non è questa la sede), che attestano l’esistenza, prima dell’entrata in vigore del codice del 1942, dell’elemento materiale della consuetudine di capitalizzare trimestralmente gli interessi nei conti correnti bancari. Ecco allora spiegato perché i grandi maestri del diritto commerciale tra le due guerre dello scorso secolo potevano affermare senza esitazioni o dubbi che nel conto corrente bancario la chiusura del conto durante il contratto, ha lo scopo di semplificare il conto fissando la differenza fra il dare e l’avere e di rendere fruttiferi gli interessi riducendoli a capitale31. Che, poi, al momento della compilazione del codice del 1942, vi fossero effettivamente “usi contrari” (normativi) è sicuro indizio anche e proprio la salvezza che ne viene fatta nell’art. 1283 cod. civ., 30 Tribunale di Ragusa 15.03.2011, in Banca Borsa e Titoli di Credito 2011, 4, p. 493 e segg., dove si legge “Nei primi anni del 900 intervennero alcune leggi che estesero l’anatocismo a settori affini a quello creditizio (casse di risparmio postali e cassa depositi e prestiti: art. 2 r.d. 1677/22, art. 24 L.453/13, art. 6 d.l. 296/27); poi la circolare della Confederazione Generale Bancaria Fascista a. 30/2545 del 7 gennaio 1929 (il cui allegato era il “Testo delle norme che regolano i conti correnti di corrispondenza”) previde la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi; nello stesso anno vennero raccolte le norme contrattuali bancarie sulla disciplina trimestrale dei conti correnti di corrispondenza; la manualistica di tecnica bancaria dei primi decenni del ‘900 contemplò la generale chiusura trimestrale dei c,tc. (già menzionata da Cass. 9 maggio 1927 n. 1682); nonchè in varie raccolte delle Camere di Commercio (ai sensi degli art. 34, 39, 40 r.d. 2011/34 e dell’art. 2 d.leg. 315/44).” 31 Cesare Vivante “Istituzioni di Diritto Commerciale”, Milano 1920, pagg. 236, 237: “Le somme annotate in conto corrente, poiché sono a disposizione del correntista che le ha riscosse, producono interesse a favore dell’altra parte dal giorno dell’esazione. Gli interessi si calcolano a giorni ed alla ragione del cinque per cento, ma si può convenire diversamente; così l’una delle partii, per es. il banchiere che tratta con un cliente bisognoso di capitali, può stipulare un interesse maggiore sui propri accreditamenti o avvantaggiarsi pattuendo che l’interesse sulle rimesse ricevute non cominci a decorrere che dal principio di ogni mese o di ogni settimana. Gli interessi formano anche essi una posta inscindibile del conto a credito del rimettente e si sommano colle altre rimesse prima di determinare il saldo del conto (...). La chiusura del conto può aver luogo durante il contratto o dopo il suo scioglimento: può segnare una tappa intermedia nello svolgimento del conto e può segnare la fine. La prima ha lo scopo di semplificare il conto fissando la differenza fra il dare e l’avere, di rendere fruttiferi gli interessi riducendoli a capitale, di far guadagnare al correntista creditore un diritto di commissione pel saldo che si riporta nel conto nuovo. La seconda ha lo scopo di definire le differenze del rapporto giuridico estinto, determinando quale dei correntisti e per quale somma è creditore”; Tullio Ascarelli “Istituzioni di Diritto commerciale”, Milano 1938, pag. 215: “Sulle partite annotate nel conto corrente decorrono gli interessi nella misura convenzionale o, in difetto di determinazione convenzionale, nella misura legale, dal giorno nel quale sono state eseguite le singole rimesse (...). Gli interessi si sommano, a loro volta, con le altre rimesse, per determinare il saldo del conto. La chiusura del conto ha luogo alle scadenze stabilite, o a quelle fissate dagli usi (p. es. la fine del semestre o dell’anno). Se, dopo la chiusura, il contratto continua, il saldo del conto viene portato nel nuovo conto, come prima posta del medesimo, e sarà perciò, a sua volta, produttivo di interessi. Se invece il contratto si scioglie, il saldo dovrà essere inviato al correntista che risulta creditore” 13 come è riconosciuto pacificamente anche dalla giurisprudenza che nega validità alle clausole anatocistiche32. Come ho premesso le espresse opinioni sono rimaste minoritarie, ma, ancor prima che ciò fosse reso palese dal confronto dottrinario e giurisprudenziale, in piena estate e dopo soli pochi mesi dalla pronuncia della Suprema Corte, il Governo, ritenuto che la stessa fosse foriera di gravi rischi per la stabilità del Sistema del credito (in verità esiste anche una vulgata che valorizza esclusivamente l’intervento lobbistico delle Banche attraverso l’ABI), avvalendosi della delega concessagli dalla L. 24.04.1998, n. 128 per integrare e correggere il T.U.B., emanò il D.Lgs. n.342 del 04.08.1999. Di questo atto interessa in particolare l’art. 25, rubricato “Modalità di calcolo degli interessi”, con il quale si modificava l’art. 120 del T.U.B., oltre che nella rubrica, anche inserendovi i commi 2 e 3 dopo l’unico del quale fino ad allora era composto. Con il 2° comma, che è lo stesso che ancora oggi può leggersi33, si delega un atto di normazione secondaria, da assumersi da parte del CICR per “stabilire modalità e criteri” dell’anatocismo delle operazioni bancarie, prevedendo però sempre che quando queste fossero state regolate in conto corrente vi fosse la medesima periodicità sia per la banca che per il cliente. Con il 3° comma34 si prevedeva una generale sanatoria retroattiva delle clausole anatocistiche dei contratti bancari conclusi prima dell’entrata in vigore della legge delegata, mandando al CICR di determinare modalità e tempi per il loro adeguamento con efficacia validante, sia per il passato che per il futuro. Il CICR ha dato seguito alla delega ricevuta con delibera del 09.02.2000, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 43 del 22 febbraio 2000. Successivamente la Corte Costituzionale, con sentenza n. 425 del 17.10.2000, ha dichiarato l’incostituzionalità per eccesso di delega del 3° comma dell’art. 120 TUB, inserito dall’art. 25 del D.Lgs 342/1999. E’ sorto, allora, il problema se, a seguito della detta pronuncia della Corte delle leggi, anche l’art. 7 della delibera CICR del 09.02.200035, che contiene disposizioni per adeguare alle 32 Cass. Sez. I Civ. 16.03.1999, n. 2374; Cass. civ. Sez. III, 20-02-2003, n. 2593 Il secondo comma dispone:“il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione degli interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori” 34 Il terzo comma disponeva:“Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenuti nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma 2, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilirà altresì le modalità ed i tempi dell’adeguamento. In difetto di adeguamento, le clausole divengono inefficaci e l’inefficacia può essere fatta valere solo dal cliente.” 35 L’Art. 7 è il seguente: (Disposizioni transitorie) 1. Le condizioni applicate sulla base dei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente delibera devono essere adeguate alle disposizioni in questa contenute entro il 30 giugno 2000 e i relativi effetti si producono a decorrere dal successivo 1° luglio. 2. Qualora le nuove condizioni contrattuali non comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, le banche e gli intermediari finanziari, entro il medesimo termine del 30 giugno 2000, possono provvedere all'adeguamento, in via generale, mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. Di tali nuove condizioni deve essere fornita opportuna notizia per iscritto alla clientela alla prima occasione utile e, comunque, entro il 31 dicembre 2000. 14 33 previsioni dell’atto normativo in tema di anatocismo i contratti stipulati anteriormente alla delibera stessa, fosse stato travolto dalla decisione. La questione è particolarmente rilevante perché: se si opta per la caducazione, la capitalizzazione degli interessi sarà da considerare illegittima anche dopo che i negozi hanno recepito le citate disposizioni; se, invece, si opta per la sua validità, la capitalizzazione operata dopo la “regolarizzazione” dei contratti, a partire dal 01.07.2000, sarà legittima. I sostenitori della intervenuta inefficacia dell’art. 7 della delibera CICR 09.02.2000 utilizzano tre fondamentali argomenti: i) la sua legittimità deriva dal 3° comma dell’art. 120 TUB, come introdotto dall’art. 25 d.leg. 4 agosto ’99 n. 342: dichiarato incostituzionale quest’ultimo, il primo non può sopravvivergli; ii) la legittimità della disposizione non può trovare fonte nel 2° comma dell’art. 120 del TUB, perché questo si limita a conferire al CICR l’autorità per stabilire modalità e criteri per la produzione dell’anatocismo bancario, ma non gli conferisce la facoltà di emanare norme transitorie riguardanti le condizioni contrattuali stipulate anteriormente, né di prevedere disposizioni di adeguamento e tempi delle medesime, con effetti validanti, condizionati unicamente a modalità procedimentali unilaterali; iii) la previsione regolamentare, derivando dalla delega contenuta nell’art. 120 TUB, partecipa di questo atto normativo e, poiché regola una fattispecie negoziale conclusa precedentemente al vigore dello stesso TUB (01.01.1994), confligge con l’art. 161, 6° comma della legge delegata che mantiene regolati dalle precedenti disposizioni i contratti conclusi alla data della sua entrata in vigore. Le esposte motivazioni non convincono, anzitutto perché la delibera CICR del 09.02.2000 è un atto regolamentare che, nel suo complesso, trova la sua legittimità sul 2° comma dell’art. 120 TUB e, quindi, resiste senz’altro alla declaratoria di incostituzionalità del 3° comma del medesimo articolo, come nessuno dubita. Ne consegue che il suo art. 7, essendo parte di un atto legittimo, si presume anch’esso legittimo, sempre che, attraverso una rigorosa opera interpretativa, rispettosa dei canoni dettati dall’art. 12 preleggi, non si pervenga alla conclusione che la previsione esuli dalla delega concessa con il 2° comma della’art. 120 TUB. Orbene, l’art. 120 TUB, 2° comma, prevede chiaramente che “il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interesi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria ….”. La norma, evidentemente, si riferisce alla regolamentazione dei rapporti che andranno a nascere con l’adozione e l’efficacia della deliberazione delegata, ma la sua formulazione assai ampia è idonea a ricomprendere e sorreggere anche la regolamentazione dei rapporti in essere, anche qui limitatamente al tempo successivo alla sua efficacia con l’adozione e l’efficacia della deliberazione delegata. Ciò non è contrario al principio di irretroattività e non integra la “disciplina di sanatoria (per il passato) e di validazione anticipata (per il periodo compreso tra la data di entrata in vigore della legge delegata e quella della delibera del CICR) di clausole anatocistiche bancarie”, che è stata ritenuta esorbitante dalla delega e che ha determinato la Corte Costituzionale ad espungere dall’ordinamento il 3° comma dell’art. 120 TUB introdotto dal D.Lgs. 342/1999. La inclusione nella previsione del 2° comma dell’art. 120 TUB della regolamentazione, per il futuro, dell’anatocismo nei rapporti bancari in essere è, poi, assolutamente coerente con la ratio della disposizione stessa, che è quella di rendere legittima la capitalizzazione degli interessi nelle operazioni 15 bancarie e, in secondo luogo, di limitare il contenzioso tra banche e clienti ad un periodo temporale certo. La modalità tecnico/giuridica adottata dal CICR per dare attuazione a questa parte della delega e contenuta nell’art. 7 della delibera, è simile quella che si rinviene nell’art. 117, 7° comma, TUB, che prevede la sostituzione delle norme nulle con le diposizioni della delibera stessa e, quindi, della legge: il procedimento per pervenire a detta sostituzione, ovviamente, non incide sull’efficacia o meno della norma, in quanto, sul punto la norma primaria ha taciuto ed ha così lasciato alla norma secondaria un margine di discrezionalità. L’art. 120, 2° comma TUB ed il successivo art. 7 delibera CICR 09.02.2000, poi, non paiono essere in contrasto con l’art. 161, 6° comma del TUB per quanto riguarda i contratti stipulati dopo il 01.01.1994, data di entrata in vigore del TUB, perché questi sono al di fuori del perimetro della detta disposizione. Si potrebbe sostenere che le disposizioni abbiano una funzione limitativa temporale della efficacia accordata dall’art. 161, 6° comma, alle norme previgenti, con riferimento ai contratti conclusi prima del 01.01.1994: se ciò fosse anzitutto non si configurerebbe comunque alcuna retroattività delle disposizioni commentate, ma, semmai, una limitazione (parziale) della ultra attività della norme precedenti e, inoltre, tale limitazione sarebbe riferibile alle sole regole integrative di quelle dichiarate nulle e non anche, ovviamente, alla determinazione della nullità o meno delle clausole, stante la natura genetica della nullità che, di regola, impone di valutarla con riferimento alla normativa esistente alla formazione del negozio. Tale ipotesi, però, è agevolmente contrastabile ricordando che la legge posteriore ben può modificare quella anteriore e, quindi il D.Lgs. 342/1999, successivo al TUB, ben poteva derogare all’art. 161 dello stesso. Comunque, anche a voler accedere alla prospettata avversa tesi, si avrebbe, al più, la inapplicabilità del 2° comma dell’art. 120 TUB e dell’art. 7 delibera CICR ai contratti conclusi prima del 1994, che sono ormai una minoranza che va verso l’estinzione. Prima di chiudere questo capitolo è d’obbligo occuparsi, se pur brevemente, delle commissioni di massimo scoperto. Queste, secondo la descrizione che ne dà la Banca d’Italia36, sono “il corrispettivo pagato dal cliente per compensare l'intermediario dell'onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell'utilizzo dello scoperto”. Si sostiene da più parti e soprattutto nella giurisprudenza di merito che la “commissione di massimo scoperto”, prevista nella maggior parte dei contratti bancari di conto corrente, sarebbe nulla per mancanza di causa, perché si sostanzierebbe in un ulteriore e non pattuito addebito di interessi corrispettivi rispetto a quelli convenzionalmente pattuiti per l’utilizzazione dell’apertura di credito37. Ora, se anche 36 Nelle “Istruzioni” della B.d.I., aggiornamento 2001, si legge “Tale commissione nella tecnica bancaria viene definita come il corrispettivo pagato dal cliente per compensare l'intermediario dell'onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell'utilizzo dello scoperto del conto. Tale compenso - che di norma viene applicato allorché il saldo del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni - viene calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento”. 37 Per tutte la recentissima Trib. Salerno Sez. I, 24-07-2010, per cui “Quanto alla doglianza relativa alla nullità della commissione di massimo scoperto, deve convenirsi con quell'indirizzo giurisprudenziale (cfr. Trib. Milano n. 8896/02) secondo il quale la clausola relativa va considerata nulla per mancanza di causa nonché per indeterminatezza dell'oggetto ex art. 1346 cc atteso che, nel caso di specie, non è possibile desumere dal contratto di conto corrente le modalità di calcolo della commissione in parola prevedendo il medesimo contratto solo l'aliquota applicata (1%)”. Con16 la commissione pattuita integra “un ulteriore addebito”, questo, all’evidenza, sarebbe nient’altro che una parte della controprestazione economica dell’accreditato per l’uso del denaro messo a disposizione dalla Banca, o, se si vuole, del corrispettivo. Ed allora, essendo la commissione un corrispettivo (meglio una parte del corrispettivo) ed essendo questo corrispettivo legato alla controprestazione della Banca dell’accredito di denaro per il suo utilizzo e successiva restituzione, la causa della clausola che prevede la “commissione” è evidente: è l’uso oneroso di cosa (nel caso di specie il denaro), dove l’onere si compone di interesse e commissione di massimo scoperto. La causa, quindi, esiste, è determinata e lecita: non è esplicitata apertis verbis nei contratti, ma con uno sforzo interpretativo minimo, come si è visto, la si individua agevolmente. D’altra parte non sono certo sconosciute le fattispecie che stabiliscono mediate prestazioni diverse, anche eterogenee tra loro,: si pensi al prezzo di una vendita composto in parte da denaro e in parte da preziosi; oppure da preziosi e da un’autovettura, etc.! Non è a nostra conoscenza alcuna norma imperativa, che, per l’apertura di credito bancario (sotto qualsiasi forma tecnica), imponga di convenire l’interesse compensativo con una sola clausola e non anche con più clausole, o, comunque, di limitare il “corrispettivo” al solo interesse compensativo. L’affannarsi intorno alla (mancanza di) causa della commissione di massimo scoperto ci pare che nasconda un fine diverso, ovvero quello di sindacare surrettiziamente l’ammontare del corrispettivo della prestazione convenuto tra le parti e, quindi, di ingerirsi nella valutazione, determinazione e quantificazione delle reciproche attribuzioni patrimoniali del negozio, che esse, usando della loro autonomia negoziale, hanno stabilito. Non certo l’“equità”, concetto quanto mai variabile, come variabile è la sensibilità dell’osservatore di turno, sia orizzontalmente tra più soggetti, sia verticalmente in relazione al diverso tempo in cui ha luogo l’osservazione ed alle mutate circostanze oggettive che la condizionano, può giustificare questa intromissione nella volontà negoziale dei contraenti, per correggerla a posteriori, anche perché, salvo casi eccezionali, che qui certo non ricorrono, il nostro ordinamento civile non consente a nessun altro ed a null’altro se non alle parti stesse ed al loro eventuale accordo, di modificare l’equilibrio economico del contratto. Che poi questo corrispettivo sia riportato percentualmente all’effettivo utilizzo del credito da parte del cliente come si trova nella grande maggioranza dei contratti bancari non desta certo scandalo, perché le modalità di quantificazione del “corrispettivo” sono anch’esse nella piena disponibilità dei contraenti, ferma la determinabilità dell’importo con parametri certi. Inoltre, tale modalità, è senz’altro da preferirsi ad altre, prospettate dai “critici”, di percentuale sull’ammontare dell’accreditamento, o di percentuale sulla parte dell’accreditamento non utilizzata. All’evidenza la prima soluzione andrebbe a svantaggio di tutti gli accreditati che utilizzano il fido all’interno del massimale, perché pagherebbero anche per la parte non utilizzata; mentre la seconda andrebbe a penalizzare coloro i quali hanno un basso utilizzo dell’affidamento o, meglio, coloro i quali lo utilizzano proprio al corretto scopo di “elasticità di cassa” che la teoria finanziaria gli assegna e, per questo, a periodi di utilizzo, seguono periodi di mancato utilizzo o addirittura di utilizzo di mezzi propri. Concludendo non può non darsi conto del fatto che la validità della commissione tra l’altrettanto recente Tribunale di Milano 21.10.2011, per il quale “Quanto, infine, alla commissione di massimo scoperto, definita come il corrispettivo pagato dal cliente per compensare l'intermediario dell'onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell'utilizzo dello scoperto del conto, deve affermarsene la legittimità, trattandosi di un costo indiscutibilmente collegato all'erogazione del credito, giacché ricorre tutte le volte in cui il cliente utilizza concretamente lo scoperto di conto corrente, e funge da corrispettivo per l'onere, a cui l'intermediatario finanziario si sottopone, di procurarsi la necessaria provvista di liquidità e tenerla a disposizione del cliente”. 17 di massimo scoperto è stata riconosciuta dal 1° comma dell’art. 2 bis del D.L. 29.11.2008 n. 185, il quale la qualifica, appunto, quale “corrispettivo per il servizio di messa a disposizione delle somme” al cliente. 3) L’onere probatorio nelle cause ordinarie e di opposizione a decreto ingiuntivo – il c.d. “saldo zero” Nell’imponente contenzioso che si è determinato a seguito del revirement della Suprema Corte in tema di anatocismo bancario, uno degli aspetti più delicati che si sono dovuti affrontare è stato quello della ripartizione e della identificazione dell’onere probatorio incombente sulle parti affinchè il Giudice fosse posto in grado di decidere sulla domanda della Banca di condanna del cliente a pagare il debito evidenziato dal conto corrente e del cliente di determinazione dell’effettivo saldo dare avere del conto tenuto conto dell’invalidità della clausola anatocistica, con condanna della Banca alla restituzione del saldo eventualmente a suo credito. Dopo oltre un decennio si può affermare che sono venute delineandosi alcune regole abbastanza chiare, mentre alcuni principi sono recenti ed in corso di enucleazione, a ragione del mutare della giurisprudenza circa la qualificazione sostanziale di determinati rapporti. Quando è la banca ad agire per il recupero del credito, nella quasi totalità dei casi si avvale dell’art. 50 TUB per intraprendere un procedimento monitorio ed ottenere un decreto ingiuntivo, che in caso di mancata opposizione è idoneo a divenire cosa giudicata sostanziale. In questa fase il corredo documentale minimo per ottenere il provvedimento è “l’estratto conto certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido”. L’estratto conto di cui parla la norma è lo stesso previsto nell’art. 1832 cod. civ., richiamato per il conto corrente bancario dall’art. 1857, ovvero “l’estratto conto relativo alla liquidazione di chiusura”, che “s’intende approvato, se non è contestato nel termine pattuito”. La“chiusura” ovviamente, non significa lo scioglimento definitivo del rapporto, ma, come chiarisce il precedente art. 1831 “la chiusura ….. alle scadenze stabilite dal contratto ….”38. Pertanto, l’estratto conto che viene prodotto in sede monitoria è quello che inizia dall’ultima “chiusura” presuntivamente approvata sino alla data di presentazione del ricorso. L’estratto conto, che “riproduce i dati annotati nella scheda del conto e relativi a tutte le operazioni affluite sullo stesso nel periodo al quale l’estratto si riferisce (addebiti, accrediti, rimesse di terzi, interessi attivi e passivi, etc.), con il saldo alla data di chiusura”, si differenzia dal saldaconto che “è, invece, un documento appositamente formato dalla Banca (…) nel quale viene indicato soltanto il saldo debitore del conto, senza che sia riportata l'evoluzione delle operazioni attive e passive che l'hanno determinato”39. 38 39 Cass. civ. Sez. I, Sent., 05-02-2009, n. 2802 Cass. civ. Sez. I, n. 2802/2009, cit.; Cass. civ. Sez. Unite, 18-07-1994, n. 6707; 18 Nella normalità dei casi il corredo documentale conterrà anche i contratti di conto corrente e delle diverse tipologie di credito connesse e ogni altro documento idoneo a supportare la domanda. Nel caso, frequentissimo, che il decreto venga opposto dall’ingiunto, quell’estratto conto resta valida prova del credito della Banca in difetto di “specifiche e circostanziate contestazioni delle singole voci”40, tenuto conto che “la produzione in giudizio degli estratti conto costituisce "trasmissione", ai sensi dell'art. 1832 c.c.”41. Solo nel caso di idonee contestazioni, sarà onere della banca dimostrare la correttezza della scrittura, fornendo idonea prova della operazione sottostante42. Il difetto di doglianze, però, rende incontestabile la sola realtà contabile delle singole registrazioni a credito ed a debito, ma non copre anche l’efficacia e la validità dei rapporti sottostanti che le hanno determinate, che può essere eccepita anche in presenza di conto approvato. Nel caso in cui sia accertata la validità del rapporto, la registrazione relativa, se non tempestivamente contestata resta intangibile. Quando sia contestata la validità, non di singole operazioni, ma di clausole contrattuali regolanti in via generale il contratto, quali la determinazione degli interessi convenzionali, la determinazione delle commissioni di massimo scoperto, la capitalizzazione degli interessi, nel caso in cui queste siano considerate invalide, la banca è tenuta a fornire la prova dell’andamento del rapporto di conto corrente fin dall’origine, per consentire che questo sia ricalcolato applicando i criteri legali sostitutivi delle clausole invalide, quando esistono, ovvero eliminando tout court le scritturazioni effettuate in virtù di dette clausole43. La Banca non potrà sottrarsi a questo onere probatorio, che in alcuni casi diviene imponente, invocando il limite decennale per la conservazione delle scritture contabili previsto dall’art. 2220 cod. civ. perché, sostiene la Suprema Corte, così si “confonde l’onere di conservazione della documentazione contabile con l’onere della prova”44. Lo stesso dicasi per la limitazione temporale decennale prevista dall’art. 119, 4° comma, TUB per il diritto del cliente di ottenere copia della documentazione inerente a singole operazioni. 40 41 Cass. civ. Sez. I, Sent., 13-12-2010, n. 25182; Cass. civ. Sez. I, Sent., 25-11-2010, n. 23971; Cass. civ. Sez. I, 07-03-2008, n. 6188; Cass. civ. Sez. I, 15-09-2004, n. 18578 42 Cass. civ. Sez. I, Sent., 13-12-2010, n. 25182; Cass. civ. Sez. I, Sent., 23-06-2010, n. 15219 Cass. civ. Sez. I, Sent., 23-12-2010, n. 26039; Cass. civ. Sez. I, 10-05-2007, n. 10692, per la quale ultima: Una volta esclusa la validità della clausola sulla cui base sono stati calcolati gli interessi, soltanto la produzione degli estratti a partire dall'apertura del conto corrente (…….) consente, attraverso una integrale ricostruzione del dare e dell'avere con l'applicazione del tasso legale, di determinare il credito della banca, semprechè la stessa non risulti addirittura debitrice, una volta depurato il conto dalla capitalizzazione degli interessi non dovuti. Allo stesso risultato, evidentemente, non si può pervenire con la prova del saldo, comprensivo di capitali ed interessi, al momento della chiusura del conto. Infatti, tale saldo non solo non consente di conoscere quali addebiti, nell'ultimo periodo di contabilizzazione, siano dovuti ad operazioni passive per il cliente e quali alla capitalizzazione degli interessi, ma a sua volta discende da una base di computo che è il risultato di precedenti capitalizzazioni degli interessi. Si deve, quindi, concludere per l'irrilevanza della prova, offerta attraverso una certificazione notarile, del saldo, comprensivo di capitale ed interessi, risultante dalle scritture contabili. 44 Cass. civ. Sez. I, Sent., 25-11-2010, n. 23974 19 43 Quando la Banca non è in grado di esibire in giudizio la serie storica di tutte le schede del conto dalla sua origine e produce solo una parte di esse, la giurisprudenza di merito, con il successivo avallo della Corte Regolatrice, poiché la prima posta che si trova scritturata nella più risalente scheda depositata è priva della giustificazione degli estratti pregressi e, quindi, non v’è la prova che si sia determinata senza il concorso attivo delle clausole invalide, la si sterilizza riducendola a zero, cosicché non influisca sul successivo computo del conto 45. Questa soluzione è, nella quasi totalità dei casi, penalizzante per la banca, salvo quello in cui la prima scritturazione nella scheda più risalente sia a credito, anziché a debito, del cliente, perché, in questo caso, esclusa la sua eliminazione per il valore probatorio “contra se” dell’estratto conto della Banca, non si verificheranno perdite apprezzabili per l’istituto, mentre il correntista non potrà ottenere alcun vantaggio per l’operare sul conto delle clausole invalide per tutto il tempo antecedente alla scritturazione di quella prima posta. Se nei procedimenti monitori e relative opposizioni è interesse della Banca creditrice produrre gli estratti conto, nelle cause introdotte dai clienti dopo la chiusura del conto, per recuperare le somme corrisposte in ragione di clausole contrattuali che si denunciano invalide, accade sovente che questi non siano più in possesso degli estratti conto o del tutto o per periodi più o meno lunghi. In questo caso si invoca lo strumento istruttorio dell’ordine di esibizione. Orbene, anzitutto, ritengo che il correntista non possa chiedere l’esibizione di documentazione, esorbitando i limiti temporali determinati dall’art. 119, 4° comma, TUB, che si pone come limite di diritto sostanziale, che non può non riverberare nel processo; in secondo luogo la banca, sia per la detta norma, sia per l’art. 2220 cod. civ., sarà ampiamente giustificata se non dovesse produrre documenti risalenti ad oltre il decennio, evitando, quindi l’applicazione dell’art. 118, 2° comma, c.p.c.. Altra problematica che si verifica e che il Consulente nominato si avveda solo in sede di esecuzione dell’incarico che non vi siano in causa documenti contabili necessari per svolgere esaustivamente il compito. In questi casi si dovrà sempre avere presente che la loro consultazione da parte del perito non è libera, ma è sempre subordinata al consenso di tutte le parti, secondo il disposto dell’art. 198, 2° comma, c.p.c., pena la inutilizzabilità della relazione e la necessità di rinnovarla. Per concludere questa parte si deve ricordare che gli estratti conto fanno piena prova anche verso i fideiussori del correntista, senza necessità che siano loro recapitati e che, sulla scorta di una recente sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione in tema di contratto autonomo di garanzia46, la giurisprudenza di merito ha iniziato ad adottare un orientamento secondo cui la fideiussione bancaria, che, come noto, contiene la clausola per cui il fideiussore si obbliga ad effettuare il pagamento a semplice richiesta, nonostante l’opposizione del debitore ed anche se il rapporto garantito fosse invalido, è da configurare come garanzia autonoma.47 Così privato il contratto del carattere dell’accessorietà all’obbligazione principale, il garante non potrà proporre altre eccezioni se non quelle fondate sul proprio contratto di garanzia, di nullità del con45 Cass. civ. Sez. I, Sent., 25-11-2010, n. 23974 Cass. civ. Sez. Un., Sent., 18-02-2010, n. 3947 47 Tribunale di Roma 30.06.2011 G.U. Manzi. 46 20 tratto principale per contrarietà a norme imperative o illiceità della causa, della exceptio doli generalis seu presentis 48 per escussione fraudolenta o abusiva della garanzia e, quindi, nello specifico: l’eccezione di usura (nullità dell’obbligazione principale), e l’eccezione di intervenuta estinzione del debito garantito per qualsiasi idonea causa immediatamente comprovabile (c.d. “prova liquida”)49. Non si potranno invece proporre eccezioni, come, ad esempio, la mancanza o nullità della pattuizione del tasso ultralegale; la variazione del tasso; la manca convenzione e/o la invalidità della commissione di massimo scoperto. Per quanto riguarda l’anatocismo si dubita che il garante autonomo possa opporlo “non essendo vietato in modo assoluto così come si ricava dagli artt. 1283 cod. civ. e 120 del d.lgs. n. 385 del 1993”50. 4) La prescrizione: Cassazione Sezioni unite civili 02.12.2010 n. 24418 – Legge 26.02,2011, n. 10 Pronunciata la nullità della clausola del contratto di conto corrente che prevede l’anatocismo (ovviamente antecedente al 22.04.2000, data di entrata in vigore della delibera CICR 09.02.2000) si pone il problema della eventuale restituzione al cliente delle somme pagate alla banca per effetto del meccanismo della capitalizzazione, rimaste prive di valido supporto giuridico. Parliamo di restituzioni “eventuali”, perché l’esperienza empirica dimostra che sono prevalenti i casi in cui non si procede a restituzioni da parte della banca, ma a riduzioni del suo credito. E’ troppo noto, perché ci si debba dilungare, che la nullità si determina per una carenza della fattispecie negoziale prevista dalla legge e, quindi, il negozio non vede, per così dire, la luce, tant’è che la sentenza che accerta la nullità è la sentenza dichiarativa per eccellenza. E’ altrettanto noto che l’obbligazione restitutoria si genera, non dalla declaratoria di nullità, ma in virtù della traditio sine titulo che si configura a seguito della detta declaratoria. Naturalmente azione di invalidità ed azione di ripetizione non si identificano assolutamente tra loro51. A seguito della declaratoria di nullità, quindi, la fonte delle obbligazioni restitutorie si rinviene negli altri atti idonei a produrle, previsti dall’art. 1173 cod. civ. e, segnatamente, negli artt. 2033 e segg. 48 La definizione exceptio doli generalis seu praesentis fa riferimento ad una figura giuridica della tradizione processuale del diritto romano. Nel processo formulare essa fu concessa ogni volta che l'esercizio di un'azione da parte dell'avente diritto rappresentasse, tenuto conto delle varie relazioni ed intese fra le parti, un'evidente iniquità, attiene al dolo attuale, commesso cioè al momento in cui viene intentata l'azione nel processo e, per questo, si distingue dalla Exceptio doli specialis seu preteriti, che, invece, attiene al dolo commesso al tempo della conclusione dell'atto ed è diretta a far valere - in via di azione o eccezione - l'esistenza di raggiri impiegati per indurre un soggetto a porre in essere un determinato negozio. 49 Cass. civ. Sez. I, 31-10-2008, n. 26318 50 Cass. civ. Sez. III, 03-03-2009, n. 5044 51 Cass. civ. Sez. I, 17-04-1993, n. 4553 “La ripetizione di indebito ha una funzione recuperatoria che prescinde dall'invalidità dell'atto traslativo. Basti pensare alla non coincidenza degli effetti tra la condictio indebiti e la dichiarazione di nullità del negozio, o meglio tra la tutela accordata al proprietario, che di fronte alla nullità del trasferimento perde la titolarità del bene, oggetto della prestazione, e quella accordata al solvens incentrata sul recupero dell'indebito. Sicché la condictio indebiti non va considerata una mera conseguenza della nullità del negozio sottostante, ma ha la sua fonte autonoma nell'obbligazione restitutoria propria dell'indebito, distinto sia dal contratto che dal fatto dannoso”. 21 cod. civ. (c.d. condictio indebiti), che appunto regolano specifiche fattispecie di obbligazioni "quasi ex contractu". In queste fattispecie il decorso dei frutti e degli interessi dovuti dall’accipiens, non è collegato al fatto oggettivo della “mora”, ma è riferito all’elemento soggettivo della buona o mala fede. Poiché, come si è detto, invalidità del negozio e condictio indebiti sono tra loro del tutto autonomi e distinti, è unicamente con riferimento a quest’ultima che si dovrà valutare la buona o mala fede e non anche con riferimento ai presupposti del negozio invalidato. D’altra parte, se si guardasse a quest’ultimo e, quindi, alle cause della nullità, che sono da riconoscere nella violazione di norme imperative, valendo il principio “ignorantia legis non excusat”, la “mala fede” sarebbe da riconoscere sia nell’accipiens che nel solvens, con un risultato tale che porrebbe nel nulla le reciproche pretese fondate su questo requisito e, quindi, entrambe le parti non potrebbero che giovarsi dell’alternativo requisito della “domanda”, quale dies a quo per il decorso di frutti ed interessi. In linea generale, nelle fattispecie di cui ci stiamo occupando e con specifico riguardo alla condictio indebiti, ovvero al tradere/accipere sine titulo, io propenderei sempre per la buona fede, anzitutto perché la buona fede è generalmente presunta (art. 1147 cod. civ.) e, poi, perché, non è seriamente dubitabile che al momento della traditio delle rispettive rimesse, entrambe le parti volevano effettivamente porle in essere a favore dell’altra. Altra questione che si pone in presenza della declaratoria di nullità è quella relativa alla prescrizione, perché, se è vero che l’azione di nullità è imprescrittibile, ciò non vale, come chiarisce l’art. 1422 cod. civ., per l’azione di ripetizione dell’indebito, che si prescrive nell’ordinario termine decennale. Una risalente pronuncia della Corte Regolatrice, aveva affermato che la prescrizione della domanda di ripetizione, in virtù dell'unitarietà del rapporto di conto corrente, decorre dalla data di scioglimento definitivo dello stesso.52 Questo principio è stato tralaticiamente ed acriticamente ribadito dalla Suprema Corte sino alla fine dello scorso anno, quando le Sezioni Unite del Supremo Consesso lo hanno parzialmente disatteso affermando che la prescrizione decorre “dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del con- 52 Cass. civ. Sez. I, sent. n. 2262 del 09-04-1984: “Il momento iniziale del termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme indebitamente trattenute dalla banca a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente (nella specie: perché calcolati in misura superiore a quella legale senza pattuizione scritta), decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicché è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro”. La stessa sentenza, peraltro, statuiva altresì che “Il pagamento spontaneo di interessi in misura ultralegale, pattuita invalidamente, costituisce adempimento di obbligazione naturale e determina l'irripetibilità della somma così pagata, ma l'indicato presupposto non ricorre nel caso di una banca che abbia proceduto all'addebito degli interessi ultralegali sul conto corrente del cliente per sua esclusiva iniziativa e senza autorizzazione alcuna da parte del cliente medesimo”, pricipio anche recentemente ribadito da Cass. civ. Sez. III, Sent. n. 14481 del 30-05-2008, per la quale: “Il debitore che abbia pagato spontaneamente interessi superiori al tasso legale non pattuiti per atto scritto, a norma dell'art. 1284 cod. civ., non può ripeterne l'importo, dovendo tale pagamento essere qualificato come adempimento di un'obbligazione naturale.” 22 to” esclusivamente quando “i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista”53 Questi i punti essenziali degli argomenti svolti dalla Cassazione a supporto della riportata decisione: i) perché possa esservi diritto alla ripetizione deve esservi stato uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens; ii), in presenza di un’apertura di credito regolata in conto corrente la rimessa effettuata dall’accreditato quando il saldo passivo è contenuto nei limiti dell’accreditamento non determina uno spostamento patrimoniale dal cliente alla banca perché ha la diversa funzione di ripristinare la facoltà di indebitamento del correntista (c.d. rimessa ripristinatoria) e, quindi, non integra alcun pagamento eventualmente ripetibile per cui possa decorrere la prescrizione; iii) quando la rimessa affluisce su un conto senza apertura di credito con saldo a debito del correntista, ovvero su conto con apertura di credito, ma che presenta un saldo eccedente i limiti dell’affidamento, essa determina lo spostamento patrimoniale dal cliente alla banca, perché, in assenza di apertura di credito, i saldi debitori del conto corrente sono debiti liquidi ed esigibili della banca verso il cliente e, pertanto, essa integra un pagamento eventualmente ripetibile per il quale la prescrizione decorre immediatamente dall’annotazione della rimessa. La sentenza impone alcune riflessioni. La prima è banale, ma poi non troppo, come si sperimenta nella pratica giornaliera: effettuati tutti i dovuti ricalcoli del conto applicando diligentemente i vari principi di diritto e giurisprudenziali, se il saldo del conto o, nel caso di più rapporti, effettuata la compensazione ex lege prevista dall’art. 1853 cod. civ., il loro saldo unico, sia comunque a debito per il cliente, questi non ha diritto ad alcuna restituzione. Di poi è senz’altro condivisibile la qualificazione di pagamenti aventi natura solutoria di un debito scaduto, che è stata data alle rimesse sul conto (c.d. “scoperto”): i) che presenti un saldo passivo per il cliente in assenza di apertura di credito (deposito bancario in conto corrente privo di affidamento, sul quale la banca consenta al titolare temporanee scoperture, oppure conto affidato per il quale intervenga recesso dall’apertura di credito); ii) che, pur in presenza di apertura di credito, presenta un saldo passivo per il cliente superiore al limite Per quanto riguarda, invece, la natura “ripristinatoria” delle rimesse che affluiscono su un conto affidato si devono fare alcune precisazioni sugli interessi, utili per il concreto operare dei principi affermati dalla Suprema Corte. La consueta definizione degli interessi come obbligazione accessoria rimane sempre monca della parte in cui si completa con la precisazione che l’accessorietà è solo di natura genetica. E’ ovvio che l’obbligazione per interessi non può mai nascere come obbligazione primaria, la sua esistenza è sempre collegata alla nascita di altra obbligazione pecuniaria principale. Meno ovvio e immediatamente percepibile è che il credito per interessi maturati costituisce, invece, una autonoma obbligazione pecuniaria, che è regolata distintamente rispetto a quella del capitale, cui deve la propria esistenza. Ne 53 Cass. civ. Sez. Un., Sent., 02-12-2010, n. 24418 23 consegue che è assolutamente possibile far coesistere una obbligazione inesigibile per sorte ed una obbligazione esigibile per interessi: l’esempio classico è il mutuo, dove, l’art. 1815 cod. civ., sancisce la produzione di interessi a fronte di una obbligazione restitutoria del capitale non esigibile e, il successivo art. 1820 c.c. dalla mancata corresponsione degli interessi, fa discendere, addirittura, la risoluzione del contratto. Non si può dubitare, sia per motivi storici, che sistematici, che il mutuo deve ritenersi il prototipo di tutti i contratti di credito, e, pertanto, queste norme, che esprimono la loro normale onerosità, sono applicabili a tutti i negozi che svolgono la medesima funzione ogni qual volta si verifica la dazione della somma54, che, nel caso specifico dell’apertura di credito, si riconosce nell’utilizzo effettivo55. Si aggiunga che l’art. 1843 cod. civ. si riferisce espressamente al “credito”, ovvero alla sola somma capitale che la banca pone a disposizione del correntista, mentre non si occupa degli interessi, i quali, quindi, trovano la loro regolamentazione nella legge e/o nelle clausole contrattuali predisposte dalle parti nell’esercizio della loro autonomia negoziale. Rispetto agli interessi i contratti di conto corrente con apertura di credito anteriori al 1999, nel famigerato art. 7 delle N.B.U. 56, contengono la previsione che essi verranno portati in conto ogni anno oppure ogni trimestre con “valuta data di regolamento”. Orbene, questa disposizione, all’evidenza, regola sia la liquidazione, la scadenza e l’esigibilità degli interessi, quando stabilisce le date della loro liquidazione del loro addebito, sia la capitalizzazione degli stessi, quando stabilisce la decorrenza della “valuta”. In una stessa previsione, quindi, si hanno due convenzioni, che regolano due fattispecie distinte e diverse: la scadenza 54 Mario Libertini, voce “Interessi”, in Enciclopedia del Diritto, XXII, pag. 108 ss., Milano 1972. Cass. civ. Sez. I, sent. n. 17945 del 25-11-2003, resa in tema di deposito bancario, ma, che per identità di soggetti e di materia, senz’altro estensibile, anche alle operazioni regolate in conto corrente, tra le quali figura anche il deposito: “L'obbligo di corrispondere interessi sulle somme depositate in banca, a norma degli artt. 1834 e 1835 c.c., non è legato all'esigibilità del credito restitutorio, ma discende dalle regole del deposito irregolare e del mutuo, cui questo è a tal fine assimilabile (artt. 1782 e 1815 c.c.): trattandosi, quindi, di interessi connaturati al mero fatto che le somme depositate siano poste nella disponibilità della banca depositaria, essi spettano al depositante per tutto il tempo in cui tale situazione perduri. Da tanto deriva che l'intervento di un vincolo esterno alla restituzione (pignoramento o sequestro) non incide sulla causa giuridica da cui deriva il debito per interessi, perché quel vincolo impedisce al depositante di richiedere nell'immediato alla banca depositaria la restituzione di dette somme, ma non le rende "medio tempore" indisponibili per la banca medesima.”; Cass. civ. Sez. I, Sent., 09-09-2004, n. 18182 :“Nel contratto di apertura di credito bancario, la semplice annotazione in conto corrente della somma messa a disposizione del cliente non concretizza l’ipotesi della tradizione simbolica, idonea e sufficiente a realizzare l’estremo della consegna, e il vero rapporto obbligatorio, in ragione del quale l’accreditante può dirsi creditore dell’accreditato, sorge soltanto al momento ed a causa del prelievo della somma messa a disposizione” 56 Si riporta il testo dei primi due commi dell’art. 7 delle N.B.U. come si legge nelle “Norme che regolano i conti correnti di corrispondenza e servizi connessi” dell’allora Banco di Roma, atto registrato presso l’Ufficio del Registro Atti Privati di Roma il 21.06.1985 al n. C/31749: “(1) I rapporti di dare ed avere vengono chiusi contabilmente, in via normale, a fine dicembre di ogni anno, portando in conto gli interessi e le commissioni nella misura stabilita, nonché le spese postali, telegrafiche e simili e le spese di tenuta e chiusura del conto ed ogni eventuale altra, con valuta data di regolamento. (2) I conti che risultino, anche saltuariamente, debitori vengono invece chiusi contabilmente, in via normale, trimestralmente e cioè a fine marzo, giugno, settembre e dicembre applicando agli interessi dovuti dal correntista e alle competenze di chiusura valuta data di regolamento del conto, fermo restando che a fine anno a norma del precedente comma, saranno accreditati gli interessi dovuti dall’azienda di credito e operate le ritenute fiscali di legge.” 24 55 dell’obbligazione per interessi e la capitalizzazione degli interessi. E’ ovvio che la nullità della previsione anatocistica non contamina e non importa anche la caducazione dell’altra previsione che regola la liquidazione e scadenza degli interessi. Infatti la clausola, espunta della parte relativa alla capitalizzazione, resta assolutamente lecita, valida ed efficace. L’art 1283 c.c. vieta che si possa previamente pattuire che gli interessi scaduti possano produrre altri interessi, ma non anche che si possa previamente pattuire quando gli interessi scadranno e saranno liquidati, né lo strumento del loro pagamento, se con moneta avente corso legale, ovvero con moneta scritturale. Orbene la convenzione contrattuale che durante il rapporto gli interessi, a differenza del capitale, saranno liquidati e resi esigibili con l’addebito in conto, unita all’art. 8 dello stesso contratto, all’art. 1832 c.c., richiamato per il conto corrente bancario dall’art. 1857 c.c. e all’art. 119 T.U.B., che regolano la trasmissione e l’approvazione degli estratti conto contenenti la registrazione della somma liquidata e scritturata a debito per interessi, comporta che questi interessi, opportunamente depurati degli effetti anatotcistici, configurano un credito/debito scaduto, che coesiste con il debito capitale dell’apertura di credito non scaduto né esigibile. Per cui, le successive rimesse sul conto successiva alla registrazione degli interessi, questa, non avrà funzione esclusivamente ripristinatoria, ma funzione mista: solutoria per la parte che regolerà il debito liquidato e scaduto per interessi e ripristinatoria della disponibilità per la eventuale residua parte. Ciò avviene, anzitutto, per implicita, ma chiara, volontà delle parti, ricavabile dalla pattuizione della cadenza temporale di liquidazione e contabilizzazione, degli interessi, ma, anche, per il disposto dell’art. 1193 cod. civ., che in presenza di un debito scaduto e di un debito non scaduto, impone che la rimessa sia imputata al primo. Per la parte solutoria della rimessa, naturalmente, la prescrizione decorrerà dall’annotazione. A risultati in parte coincidenti si giunge anche per altra via. Infatti le Sezioni unite della Suprema Corte, con la menzionata sentenza 24418/2010 hanno affermato che: “Sin dal momento dell'annotazione (in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati dalla banca al correntista – n.d.r. -), avvedutosi dell'illegittimità dell'addebito in conto, il correntista potrà naturalmente agire per far dichiarare la nullità del titolo su cui quell'addebito si basa e, di conseguenza, per ottenere una rettifica in suo favore delle risultanze del conto stesso. E potrà farlo, se al conto accede un'apertura di credito bancario, allo scopo di recuperare una maggiore disponibilità di credito entro i limiti del fido concessogli. Ma non può agire per la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da parte sua non ha ancora avuto luogo.”. Secondo il Supremo Consesso, quindi, quando vi sia un’apertura di credito, il correntista sin dal momento dell’annotazione potrà agire per far dichiarare la nullità del titolo, ovvero per quanto ci interessa la clausola anatocistica, ed ottenere la rettifica in suo favore del saldo del conto. Quindi, a ben vedere, le azioni che la Cassazione riconosce al correntista, simmetricamente al dualismo azione di nullità (imprescrittibile) azione di ripetizione (prescrittibile in 10 anni) sono anche qui due: azione di nullità ed azione a tutela della corretta gestione dell’affidamento, volta a recuperare una maggiore disponibilità di credito entro i limiti del fido concessogli, ovvero un minor debordo dallo stesso. Si tratta, chiaramente, di una azione totalmente diversa da quella prevista dall’art. 1832 c.c. con la quale si tutela il correntista da meri “errori di duplicazione o di calcolo, (…) omissioni o (…) duplicazioni”. Se l’azione a tutela della corretta gestione dell’affidamento, che si collega alla domanda di nullità del titolo della registrazione, può eserci25 tarsi a decorrere da ogni singola annotazione causata dal titolo nullo, cosa ne sarà di questa azione se il correntista non la esercita nei dieci anni successivi all’annotazione stessa? Sovviene l’art. 2934 c.c., per il quale “ogni diritto si estingue per prescrizione quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge”. Né a questa conclusione si potrà opporre la teorica dell’unitarietà del rapporto di conto corrente affidato dalla nascita alla morte, perché è stata proprio Cassazione Sez. Un. 24418/2010 a non ritenerla convincente e ad abbandonarla. Trascorsi 10 anni dall’annotazione, quindi, il diritto di dolersi della illegittima gestione dell’affidamento, che ha determinato una indebita variazione dell’importo affidato ed anche eventualmente il supero del limite di fido con conseguente aumento dell’extra fido e, conseguentemente, non si potrà avere alcuna variazione del conto, che è divenuto intangibile a tale titolo. Ciò fa sì, che per il tempo anteriore al decennio, ai fini della determinazione dei saldi del conto, per verificare la natura solutoria o ripristinatoria delle rimesse ai fini della prescrizione, anche le annotazioni per interessi generati dall’importo accreditato resteranno immutate e, se hanno prodotto extra fido o sono state registrate integralmente extra fido, ne condivideranno in toto il trattamento. In questa situazione già complicatissima il legislatore ha voluto dire la sua e, purtroppo, non è riuscito ad essere risolutivo, anzi. Il comma 61, dell’art. 2, del D.L. 29.12.2010, n. 225, inserito dalla legge di conversione 26.02.2011, n. 10, così dispone: “In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’articolo 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”. Se pur di recente emanazione, intorno a questa norma ci siamo affannati e ci continuiamo ad affannare in molti. Anzitutto la norma si compone di due parti proposizioni ben distinte e, solo nella la prima si auto qualifica come interpretativa e, quindi, con efficacia retroattiva. Quanto a questa prima parte la questione essenziale, a mio modo di vedere, è definire correttamente quale sia la funzione dell’”annotazione” nell’ambito del rapporto di conto corrente. Nel codice civile questo termine non si rinviene né nelle norme che regolano il conto corrente bancario, né in quelle che regolano l’apertura di credito, mentre si rinviene il termine “annotazioni” nell’art. 1835 cod. civ. relativo al libretto a risparmio ed il termine “annotare” nell’art. 1823 cod. civ. relativo al conto corrente c.d. “ordinario” ed ancora nel citato art. 1835 cod. civ.. In tutti questi casi i termini “annotare” e “annotazione” rappresentano sempre la scritturazione sul documento del corrispettivo numerico o di “crediti derivanti da reciproche rimesse” (art. 1823), ovvero di “versamenti e prelevamenti” (art. 1835) e, nell’ipotesi di deposito, si conferisce ad essa espresso valore probatorio anche nei confronti del cliente, nonostante la sua natura unilaterale. La ratio di ciò è da riconoscere nell’immediato controllo che il depositante svolge sul libretto e, quindi, sulla possibilità di reazione “in continenti” contro eventuali errori. Nell’art. 1832 cd.civ, richiamato per il conto corrente bancario dall’art. 1857 c.c., si legge il termine “scritturazione”, che è da ritenere sinonimo di “annotazione”. Nella sostanza, comunque, in queste fattispecie, l’annotazione/ scritturazione è la registrazione di un debito/credito tra banca e cliente. La norma, in- 26 vece, sembra proprio che equipari, quantomeno ai fini prescrizionali, l’annotazione in conto al pagamento, così come sostenuto da autorevole dottrina57. Questa equiparazione, peraltro, è resa maggiormente esplicita nella seconda proposizione, dove si parla di restituzione di “importi già versati”. Ci sono state reazioni molto vivaci a questa scelta del legislatore, soprattutto provenienti dalla giurisprudenza di merito, che in parte ha, per così dire, disapplicato la norma, derubricando l’annotazione di cui parla a mera registrazione di operazioni, per qualificare le quali come pagamenti o meno ci si deve che comunque riferire ai principi di Cass. s.u. 24418/2010; in altre pronunce si sono stigmatizzati profili di dubbia costituzionalità e della questione è stata investita la Corte delle leggi. Per quanto riguarda l’equiparazione dell’annotazione al versamento, è forse sfuggito, che essa, oltre ad essere professata da una parte della dottrina, come detto, è stata operata anche da Cass. s.u. 24418/2010, in modo implicito ma inequivocabile, là dove, qualifica i “versamenti” effettuati su conti correnti privi di apertura di credito o in cui sia intervenuto il recesso dalla stessa o, ancora, che presentino saldi extra fido, come “pagamenti” ripetibili58. Inoltre, la scelta di far decorre effetti ablativi in ragione del decorso del tempo dall’”annotazione” non è sconosciuta, né alla giurisprudenza di legittimità, né al legislatore: la cassazione ha applicato questo principio proprio in materia di depositi bancari per identificare il dies a quo del termine prescrizionale di 10 anni della domanda di restituzione delle somme portate dal libretto di deposito proposta dal depositante59; il legislatore, da parte sua, l’ha adottata per i c.d. “conti correnti e rapporti bancari dormienti”, se pur usando l’espressione, per il vero ambigua, di “data di libera disponibilità delle somme”, 57 P. Ferro Luzzi, Lezioni di diritto bancario, Torino, 1995, p. 162; U. Morera, Sulla non configurabilità della fattispecie “anatocismo” nel conto corrente bancario, Riv. Dir. Civ., 2005 p. 17 ss.; G. Cabras, La capitalizzazione degli interessi nel conto corrente bancario: l’equivoco della sineddoche, in Giur. Comm., 2000, I, p. 352 ss.; D. Maffeis, Anatocismo bancario e ripetizione degli interessi da parte del cliente, in “Contratti”, 2001, p. 410 58 Cass. civ. Sez. Un., Sent., 02-12-2010, n. 24418: “Qualora, invece, durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo (o, come in simili situazioni si preferisce dire "scoperto") cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento. Non è così, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell'affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere.” 59 Cass. civ. Sez. I, 03-05-1999, n. 4389: “come è stato altra volta affermato da questa Corte, ed il principio deve essere ribadito non ravvisandosi ragioni per discostarsene - ove, come nel caso che ne occupa, il diritto del depositante alla restituzione possa essere esercitato in qualsiasi momento, il periodo di prescrizione di quel diritto inizia a decorrere non già dalla data della richiesta di restituzione e neppure da quella del rifiuto della banca, ma dal giorno in cui il depositante poteva richiedere la restituzione, ossia o dal giorno stesso della costituzione del rapporto ovvero, da quello dell'ultima operazione compiuta, se il rapporto si sia sviluppato attraverso accreditamenti e prelevamenti: ciò in quanto, essendo il diritto alla restituzione un diritto di credito nel quale si è convertito il diritto di proprietà del depositante, il mancato esercizio di siffatto diritto dà luogo immediatamente a quello stato di inerzia che è il presupposto della prescrizione (v. Cass., 29 gennaio 1979, n. 535; 21 marzo 1963, n. 689).” 27 probabilmente imposta dalla riferibilità sia a rapporti bancari che assicurativi60. Altrettanto sconcerto ha destato la seconda parte della disposizione, che, a ragione dell’uso del sinonimo dell’avverbio comunque, è slegata, come detto, dalla precedente previsione interpretativa e, solo apparentemente, sembra diretta ad escludere la restituzione di quanto eventualmente versato dalle banche a seguito delle domande di ripetizione d’indebito proposte dai clienti in virtù delle precedenti scelte ermeneutiche, disattese dalla medesima norma. A ben osservare, la notevole generalità ed astrattezza della previsione, è idonea ad includere nel suo perimetro anche i versamenti sul conto operati dai clienti nel corso del rapporto. La previsione sembra norma di chiusura della tenaglia: la prescrizione estingue il diritto di ripetere le annotazioni/pagamenti ultradecennali, il divieto di restituzione fino alla data di entrata in vigore della disposizione impedisce la restituzione del “versamenti” infradecennali! A questo punto non c’è che da attendere quanto opinerà la Corte Costituzionale e, quando ne sarà investita, la Corte di Cassazione, monitorando se tra i giudici di merito avrà più successo l’indubbia efficacia deflazionistica della previsione, anche in funzione deterrente, dei processi, oppure la reazione alla nuova ed ulteriore disposizione ad usum delphini . 5) L’usura nei rapporti bancari: la legge 07.03.1996, n. 108, quadro normativo e giurisprudenziale; il D.L. 29.12.2000, n. 394; la legge 28.01.2009, n. 2 e Cassazione Penale n. 12028/2010; il D.L. 13.05.2011, n. 70 – aspetti civili e penali Usura-usurae (da utor – usus ) = uso o godimento; è il termine con il quale, nelle fonti romane, in senso traslato si identifica il compenso per l’uso di un capitale altrui, senza distinguere se lecito o illecito per supero del tasso massimo. Nel mondo romano il mutuo era essenzialmente gratuito e, quindi, obbligava il mutuatario a restituire esclusivamente il “tantundem”. Per conseguire l’usura era necessario concludere un apposito separato patto (stipulatio usurarum). Fin dai tempi più antichi si vietò che l’usura potesse superare un determinato tasso massimo. Il primo limite conosciuto è il fenus unciarum61 pari ad un dodicesimo del capitale da corrispondersi mese per mese, talchè alla fine dell’anno il creditore avrebbe potuto conseguire il doppio. Tassi così alti erano giustificati in una società dove i mutui erano essenzialmente di sementi o derrate perché la moneta era sconosciuta. Introdotta la moneta nell’urbe (350 – 300 a.c.) , attraverso successivi Plebisciti, Leggi, Senatoconsulti questo limite fu più volte rivisto, fin quando, alla fine della Repubblica (27 a.c.) risulta stabilito nel 12% annuo, ovvero all’1% mese, da cui la de60 L. 23.12.2005, n. 226, art. 1, comma 345 e ss.; D.P.R. 22.06.2007, n. 116, che all’art. 1, comma 1, lett. b), appunto afferma: “«Dormienti», i rapporti contrattuali di cui all'articolo 2 in relazione ai quali non sia stata effettuata alcuna operazione o movimentazione ad iniziativa del titolare del rapporto o di terzi da questo delegati, escluso l'intermediario non specificatamente delegato in forma scritta, per il periodo di tempo di 10 anni decorrenti dalla data di libera disponibilità delle somme e degli strumenti finanziari di cui all'articolo 2, comma 1;”. 61 Fenus è il termine latino proprio per “interesse”. L’uncia era la dodicesima parte dell’asse. Il limite, secondo Tacito (Annales, 7,16,2), sarebbe stato prescritto nelle XII Tabulae (450 a.c.), mentre Livio (Ab Urbe Condita, 7,16,1; 7,27,3; 7,42,1) lo attribuisce ad un plebiscito del 357 a.c., promosso dai Tribuni M. Duilio e L. Menenio: la moderna romanistica è propensa a dar credito a Livio e ricondurlo alla Lex Duilia Menenia. 28 nominazione di usurae centesimae, tasso che rimarrà poi stabile per secoli fino a Giustiniano. Ulteriore limite imposto durante il Principato e quello della “usura supra duplum”, per il quale la somma dovuta per interessi non poteva mai portare il debito complessivo a più del doppio del capitale. Della età di mezzo abbiamo già cennato parlando di anatocismo. Aggiungiamo che nell’alto Medio Evo il rigoroso divieto di farsi restituire più del tantundem era fondato su un passo delle sacre scritture, utilizzato come immediato precetto62, ma, anche sulla scorta della considerazione giuridica che se il mutuo trasferiva la proprietà del bene chi non era più proprietario non poteva trarne frutti, né il tempo tra dazione e restituzione poteva essere “venduto”, nonché della considerazione economica del denaro come cosa naturalmente sterile da utilizzare come strumento di scambio per l’acquisto di beni di consumo: come misura dei beni ma non bene esso stesso. Il divieto e la sua violazione sanzionata interessarono, dapprima, i soli chierici, per poi estendersi anche ai laici, tra i quali, però stentarono sempre a divenire effettivi. Carlo Magno introdusse il divieto nella legislazione secolare, ma lo lasciò presidiato dalle sole sanzioni canoniche, che si risolvevano nella scomunica. Con la scuola di Bologna ed il diritto comune (sec. XII), che accompagna il rifiorire della vita sociale e delle transazioni commerciali, si svolge una minuta opera di distinguo per discernere se l’eventuale superabundantiam prevista sia riferibile al mutuo o meno. La vicenda è affascinante ma complessa e non è possibile darne compito conto: basterà aggiungere che furono elaborate diverse ipotesi di interesse licitum perché esterno alla vicenda del mutuo. Nell’età moderna e sino alla Rivoluzione Francese, l’usura era sanzionata anche penalmente dall’autorità civile. L’ultima legislazione penale dello stato sabaudo e, poi, quella dello stato unitario, con il codice Zanardelli del 1889, influenzati dalla legislazione francese post rivoluzionaria, informata ai principi liberali di libertà degli interessi e di pattuizione, non reprimevano i fenomeni usurari. L’antigiuridicità del comportamento viene infine reintrodotta nel 1931 con l’art. 644 del codice penale63, che richiede, oltre, il concorso di tre requisiti: 1) lo stato di bisogno dell’usurato; 2) la natura usuraria del vantaggio conseguito dall’agente; 3) la consapevolezza della condizione di bisogno ed il relativo approfittamento da parte del soggetto attivo. I primi due requisiti, che integrano l’elemento materiale e, massimamente, il vantaggio tautologicamente definito usurario, sono rappresentati con formule ampie, che richiedono un decisivo intervento del giudice per circoscriverle e precisarle caso per caso. Questa discrezionalità molto ampia lasciata al Giudice era da molti ritenuta eccessiva. Nel 1992, con il decreto legge n. 306 dell’8 giugno (convertito nella L. 07.08.1992, n. 356), emanato dopo pochi giorni dall’attentato al Magistrato Giovanni Falcone, tra le altre norme tese a contrastare il fenomeno mafioso, l’art. 11 quinquies ha introdotto l’art. 644 bis, rubricato “usura impropria”, 62 Luca, 6,35- “mutuum date nihil inde sperantes”. Il testo dell’art. 644 c.p. ante novella era il seguente “(1)Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo precedente, approfittando dello stato di bisogno di una persona, si fa da questa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile, interessi o altri vantaggi usurarii, è punito ….. (2) Alla stessa pena soggiace chi, fuori dei casi di concorso nel delitto preveduto dalla disposizione precedente, procura ad una persona in stato di bisogno una somma di denaro o un’altra cosa mobile, facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario”. 29 63 che contempla il reato d’usura verso imprenditori e professionisti, che mirava a tutelare il tessuto economico delle regioni del sud a rilevante presenza mafiosa. Per ridurre la discrezionalità dei giudici, ma anche per estendere il perimetro della fattispecie di usura ed inasprire la reazione avverso la stessa, interviene la legge 07.03.1996, n. 108, che modifica l’art. 644 c.p., abroga l’art. 644 bis c.p., introduce un secondo comma all’art 1815 cod. civ. Nel novellato art. 644 c.p., 1° comma, non è più contemplato il requisito dello stato di bisogno e si formula il fondamentale principio che è la legge a stabilire il limite oltre il quale “gli interessi sono sempre usurari”. Nel secondo comma viene eliminato il riferimento allo stato di bisogno della vittima e con riferimento all’oggetto della prestazione si sostituisce “altra utilità” a “cosa mobile”, mentre nel terzo comma si prevede che, anche se rispettato il suddetto limite di interessi, si configura comunque l’usura quando la persona offesa si trova “in condizioni di difficoltà economica o finanziaria” e, in concreto, i vantaggi conseguiti sono “sproporzionati” rispetto alla prestazione data o mediata. Con il comma 4) si identificano i tipi di oneri che partecipano a formare il tasso di interesse usurario. Gli ulteriori commi 5) e 6) si occupano delle pene e circostanze aggravanti specifiche, tra le quali mette conto segnalare, per la sua diffusa ricorrenza l’attività professionale bancaria o di intermediazione finanziaria. L’art. 4 della detta legge ha, come già detto, aggiunto il secondo comma all’art. 1815 cod. civ., nel quale si prevede la pena civile della nullità della clausola di interessi e della esclusione di qualsiasi tipo di interesse, quando in una operazione di mutuo, ma è da intendersi, per la già esposta funzione paradigmatica di questo contratto, in generale in una operazione latamente creditizia, sia stata accertata una fattispecie usuraria. L’art. 2 della legge 108/96 detta le regole per determinare il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari e, nella sua originaria stesura, al primo comma prevedeva che il Ministero del Tesoro, sentiti Banca d’Italia ed UIC, rilevasse trimestralmente, per categorie omogenee di operazioni, il tasso effettivo globale medio riferito ad anno, comprensivo di tutti i costi già definiti dalla norma penale, degli interessi praticati dagli intermediari finanziari nel corso del trimestre precedente; dispone inoltre che le rilevazioni siano pubblicate in Gazzetta Ufficiale, prevedendo che il limite stabilito dall’art. 644 c.p. si formi aumentando di un quarto il tasso medio dell’ultima rilevazione pubblicata, cui si aggiunge un margine di ulteriori quattro punti percentuali: la differenza tra il limite e il tasso medio non può comunque essere superiore a otto punti percentuali64. Il Ministero del Tesoro, con decreto del 23 settembre 1996 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 226 del 26 settembre 1996) procedeva alla prima classificazione delle operazioni creditizie per categorie omogenee, ai fini della rilevazione dei tassi effettivi globali medi praticati dagli intermediari finanziari e, nel contempo, attribuiva alla Banca d'Italia e all'Ufficio italiano dei cambi il compito di procedere alla rilevazione, i quali, a loro volta, emanarono «istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio», che furono poi espressamente richiamate nei Decreti Ministeriali che conte64 Questa formulazione è dovuta al recente art. 8, comma 5, lettera d) del D.L. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, L. 12 luglio 2011, n. 106. L’originaria versione della legge, precedentemente in vigore, prevedeva che il limite stabilito dall’art. 644 c.p. si formasse aumentando della metà il tasso medio dell’ultima rilevazione pubblicata. 30 nevano e contengono la rilevazione dei tassi medi e che sono state costantemente aggiornate negli anni65. L’effettiva operatività dell’art. 644 c.p., come novellato, si è avuta soltanto con decorrenza 01.04.1997, ovvero da quando ha avuto vigore la prima rilevazione trimestrale dei tassi medi del periodo 01.10.2007 – 31.12.2007, contenuta nel decreto del Ministero del Tesoro 22.03.1997, Pubblicato in G.U. 02.04.1997, n. 76. Per il tempo intercorrente tra il 24.031996 ed il 01.04.1997, il reato d’usura è punito dalla norma transitoria contenuta nell’art. 3 della legge66. E’ evidente che la novella ha ridotto i dati costitutivi dell’illecito al mero farsi dare o promettere un corrispettivo usurario, eliminando totalmente il carattere fortemente soggettivo del codice Rocco ed adottando un modello strettamente ancorato ad un parametro oggettivo di derivazione transalpina, rappresentato dallo stato di bisogno della vittima e dall’approfittamento dell’agente. Nella norma possono distinguersi tre ipotesi di usura: l’usura presunta o formale (comma 1), di chi si fa dare o promettere vantaggi usurari; la mediazione usuraria, (comma 2) di chi agisce da intermediario; l’usura in concreto (comma 3 seconda parte) di chi percepisce interessi inferiori al tasso usurario da chi si trovi in condizioni di difficoltà economica e finanziaria, sproporzionati rispetto alla prestazione o mediazione, tenuto conto delle concrete modalità di fatto e del tasso medio per operazioni consimili. L’elemento soggettivo richiesto per il reato è il dolo generico consistente nella consapevolezza della usurarietà degli interessi. Si discute se l’errore sul calcolo degli interessi sia errore di fatto (art. 47, co. 1, c.p.) oppure errore di diritto (art. 47, co. 2, c.p.). Il reato, valorizzando il frazionamento dell’attività dativa e la previsione dell’art. 644 ter c.p., che fa decorrere la prescrizione dal giorno 65 La più risalente versione in mio possesso delle “Istruzioni” della Banca d’Italia è quella pubblicata in G.U. n. 228 del 30.09.1998. Sul sito web della Banca d’Italia, alla data odierna, si rinvengono le versioni aggiornate a partire dal 2001. Comunque le «istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull'usura» emanate dalla Banca d'Italia nei confronti delle banche e degli intermediari finanziari iscritti nell'elenco speciale previsto dall'art. 107 del decreto legislativo n. 385 del 1993 e dall'Ufficio italiano dei cambi nei confronti degli intermediari finanziari iscritti nell'elenco generale di cui all'art. 106 del medesimo decreto legislativo, sono richiamate già nel primo decreto ministeriale del 22.03.1997 e, poi, in tutti i successivi. 66 Art. 3) Legge 108/96: “La prima classificazione di cui al comma 2 dell'articolo 2 verrà pubblicata entro il termine di centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge . Entro i successivi centottanta giorni sarà pubblicata la prima rilevazione trimestrale di cui al comma 1 del medesimo articolo 2. Fino alla pubblicazione di cui al comma 1 dell'articolo 2 è punito a norma dell'articolo 644, primo comma, del codice penale chiunque, fuori dei casi previsti dall'articolo 643 del codice penale, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, da soggetto in condizioni di difficoltà economica o finanziaria, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e ai tassi praticati per operazioni similari dal sistema bancario e finanziario, risultano sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità. Alla stessa pena soggiace chi, fuori del caso di concorso nel delitto previsto dall'articolo 644, primo comma, del codice penale, procura a soggetto che si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria una somma di denaro o altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto, risulta sproporzionato rispetto all'opera di mediazione” 31 dell’ultima riscossione sia di interessi che di capitale, il reato è stato classificato come delitto istantaneo a consumazione prolungata67. L’identità del reato d’usura, come delineata dalla L. 108/1996, si discosta non di poco dalla descrizione che ne offre la ricerca criminologica, sia in base a ricerche empiriche, che in ragione della percezione sociale. Da questo punto di vista la figura criminosa è riferita a soggetti dotati di capitali che, grazie alla disparità delle condizioni di liquidità con le vittime, adottano comportamenti connotati da marcati tratti di avidità e sfruttamento delle condizioni di bisogno economico di queste, per trarre un profitto esorbitante ed ingiusto. Questa constatazione determinò in molti osservatori e studiosi l’idea che con il palese fine punitivo ne concorresse un altro meno palese di politica economica, volto ad introdurre nel mercato del credito, se non un prezzo amministrato, quantomeno uno calmierato a beneficio degli operatori economici più deboli, sia per dimensione, che per patrimonializzazione, che, infine, ma non da ultimo, per la loro collocazione geografica in zone del paese con minore crescita economica e, che, per ciò, presentano maggiori profili e, per questo, scontano un “prezzo” del credito sensibilmente più alto: scopi, entrambi, drasticamente vietati dai trattati dell’Unione Europea se perseguiti apertamente come intervento autoritativo dello Stato avente esclusivo fine di governo dell’economia. Dopo un’iniziale incertezza, causata anche dalle istruzioni che le Autorità Amministrative di Vigilanza avevano emanato in applicazione della normativa68, la Cassazione prima e la Corte Costituzionale poi, hanno chiarito che la norma è riferita a tutte le tipologie di interessi: corrispettivi, moratori, compensativi69. 67 Cass. Pen., Sez. II, 12/6/2007, n. 26553: “Il reato di usura appartiene al novero dei reati a condotta frazionata o a consumazione prolungata perché i pagamenti effettuati dalla persona offesa in esecuzione del patto usurario compongono il fatto lesivo penalmente rilevante, di cui segnano il momento consumativo sostanziale, e non sono qualificabili come “post factum” non punibile della illecita pattuizione”; Cass. Pen., Sez. II, 10/7/2008, n. 34910: “In tema di delitto di usura, la riscossione degli interessi dopo l’illecita pattuizione integra il momento di consumazione e non costituisce un “post factum” penalmente irrilevante (La Corte ha precisato che il delitto di usura si atteggia a delitto a consumazione prolungata, che perdura nel tempo sino a quando non cessano le dazioni degli interessi); Cass. Pen. Sez. II, 5/11/2008, n. 45361: “Il reato di usura non è delitto istantaneo ad effetti permanenti, bensì a consumazione prolungata, la quale perdura fino a che non cessi la dazione degli interessi usurari convenuti; tale dazione segna il momento consumativo sostanziale del reato anche ai fini della prescrizione (nel caso concreto è stato perciò affermato che il termine di prescrizione doveva considerarsi decorrente dalla data dell’ultima dazione e non della pattuizione usuraria, risalente questa al 1992)”. 68 Vedi sopra nota 64 69 Cass. civ. Sez. I, 22-04-2000, n. 5286: “Va subito detto che, proprio con riferimento a tale ultima disposizione, la non copiosa, giurisprudenza di merito e la dottrina si sono occupate essenzialmente del problema delle conseguenze sui contratti di mutuo già stipulati alla data di entrata in vigore della nuova normativa in altri termini, con esclusivo riguardo alla natura compensativa degli interessi pattuiti. Tuttavia, non v'é ragione per escluderne l'applicabilità anche nell'ipotesi di assunzione dell'obbligazione di corrispondere interessi moratori, risultati di gran lunga accedenti lo stesso tasso soglia: va rilevato, infatti, che la legge n. 108 del 1996 ha individuato un unico criterio ai fini dell'accertamento del carattere usurario degli interessi (la formulazione dell'art. 1, 3^ comma, ha valore assoluto in tal senso) e che nel sistema era già presente un principio di omogeneità di trattamento degli interessi, pur nella diversità di funzione, come emerge anche dell'art. 1224, 1^ comma, cod. civ., nella parte in cui prevede che se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura". Il ritardo colpevole, poi, non giustifica di per sé il permanere della validità di un'obbligazione così onerosa e contraria al principio generale posto 32 Apparve invece subito chiaro che la legge determinava un altro importante effetto: la quasi totalità dei contratti di credito stipulati negli anni precedenti, quando i tassi di mercato erano molto più alti, rischiava di incappare nella sanzione della nullità sopravvenuta delle clausole di interesse70, con rilevanti conseguenze sugli affari, e non solo. Ciò fu sanzionato, dapprima con pronunce di Giudici di merito, e, successivamente, con l’autorevole intervento della Cassazione71. Inoltre, a ragione di quandalla legge”. Corte Costituzionale 25.02.2002, n. 29 “Va in ogni caso osservato - ed il rilievo appare in sé decisivo - che il riferimento, contenuto nell'art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, agli interessi "a qualunque titolo convenuti" rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - l'assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori”. 70 “Validità e l'invalidità sono predicati del contratto considerato come atto, e sono l'esito del giudizio di conformità o non conformità (e quest'ultima sanzionata) di tale atto alle disposizioni di legge. Efficacia e l'inefficacia sono invece predicati del contratto considerato come rapporto, e sono l'esito del giudizio di operatività o non operatività di tale rapporto, o, se si vuole, di idoneità o inidoneità dell'atto a causare un rapporto contrattuale come tale efficace. Nell'ambito dei contratti di durata la stipulazione rimane regolata dalla legge in vigore nel momento in cui è avvenuta, mentre gli effetti che ne derivano sono disciplinati dalla legge in vigore nel momento in cui essi si realizzano. Circa le conseguenze sugli effetti, quando questi divengono contrari a una norma imperativa sopravvenuta esistono due tesi: quella della nullità sopravvenuta e quella della inefficacia sopravvenuta, entrambe con effetto dal momento della entrata in vigore della nuova disciplina confliggente con il regolamento contrattuale in esecuzione. La prima soluzione è però resa difficile dalla problematicità insita nella figura della nullità successiva, dovuta al fatto che la nullità è strutturalmente vizio genetico dell'atto e non difetto funzionale del rapporto. Benché parte della dottrina e della giurisprudenza ammettano la figura della nullità sopravvenuta, dal punto di vista sistematico e dogmatico appare più corretto ritenere che l'intervento successivo del legislatore non possa rendendere invalido l'atto che è validamente sorto e si è validamente perfezionato in conformità con la legge esistente in quel momento, ma può riverberare solo sugli effetti ancora non realizzati del rapporto, caducandoli (c.d. "inefficacia successiva"). Si tratta, con ogni probabilità, di una vicenda risolutiva (si è detto: con efficacia ex nunc, v. art. 1458, comma 1, c. c.) di tutti gli effetti in origine scaturiti dall'atto e successivamente divenuti incompatibili, in forza dell'innovazione legislativa, con la volontà ordinamentale. Accogliere l'una o l'altra tesi non comporta apprezzabili differenze nella pratica, essendo l'inefficacia un istituto sfornito di autonoma disciplina, che, quindi è tratta dalle regole sulla nullità” ( Serafino Ruscica, Il contratto: Invalidità e nullità, si legge nel sito www.Altalex.com all’indirizzo www.altalex.com/index.php?idnot=41572) 71 Cass. civ. Sez. I, 22-04-2000, n. 5286: “se è vero che nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato, in via di principio, che il giudizio di validità deve essere condotto alla stregua della normativa in vigore al momento della conclusione del contratto, è anche vero che in dottrina è stato posto in rilievo come, verificandosi un concorso tra autoregolamentazione pattizia ed autoregolamentazione normativa, si renda insostenibile la tesi che subordina l'applicabilità dell'art. 1419, 2^ comma, cod. civ. all'anteriorità della legge rispetto al contratto, poiché l'inserimento ex art. 1339 c.c. del nuovo tasso incontra l'unico limite che si tratti di prestazioni eseguite (in tutto od in parte). (…) la tesi ha trovato l'autorevole avallo della Corte Costituzionale nella sentenza n. 204 del 1997, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1938 c.c. proprio sulla base della considerazione che, pur avendo carattere innovativo la legge n. 154/92 e non applicandosi retroattivamente, tuttavia ciò non implica che la disciplina precedente "acquisti carattere ultrattivo, tale da consentire che la garanzia personale prestata dal fideiussore assista non solo le obbligazioni principali sorte prima dell'entrata in vigore della legge n. 154 del 1992, ma anche quelle successive, in modo da attribuire efficacia permanente alla illimitatezza del rapporto di.garanzia. In altri termini, l'innovazione legislativa, che stabilisce la nullità delle fideiussioni per obbligazioni future senza limitazione di importo, non tocca la garanzia per le obbligazioni principali già sorte, ma esclude che si producono ulteriori effetti e che la fideiussione possa assistere obbligazioni principali successive al divieto di garanzia senza limiti". la dottrina ha osservato, in via generale, che, l'obbligazione degli interessi non si esaurisce in una sola prestazione, concretandosi in una serie di prestazioni successive e, in 33 to appena ricordato, prima ancora che si potesse valutare se la nuova legge, fosse effettivamente più efficace nel contrasto delle attività usurarie poste in essere dalle organizzazioni criminali, si constatò che ad incappare con sempre maggiore frequenza ed in numero viepiù crescente nella previsione della norma erano gli operatori del credito, per lo più impiegati e funzionari bancari, che, dovendo, in ragione dei loro compiti lavorativi, gestire i rapporti di durata stipulati nei precedenti anni dalla banca (soggetto penalmente non responsabile), divenuti illegittimi per la normativa sopravvenuta, erano esposti, loro malgrado, alle perniciose conseguenze della previsione penale. Sulla scorta di queste evenienze, il legislatore, a fine 2000, prospettò una opzione ermeneutica iussu princeps, per la quale “Ai fini dell'applicazione dell'articolo 644 del codice penale e dell'articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”72 La disposizione non piacque a molti e, naturalmente, ci furono parecchie ordinanze di rimessione della norma alla Corte Costituzionale, che ne dichiarò alcune inammissibili, altre infondate ed altre ancora manifestamente infondate.73 Conviene ora fare un rapido cenno ad alcune delle problematiche che, nell’ambito civilistico, iniziarono ad evidenziarsi già in prossimità dell’entrata in vigore della norma e che anche oggi non appaiono ancora totalmente superate. La prima questione è: cosa accade quando gli interessi del contratto siano superiori al tasso soglia? La risposta si deve scindere distinguendo se i) il contratto è stato concluso prima o dopo la L. 108/1996; ii) il contratto contenga o no espressa convenzione di interesse superiore al legale. Nei particolare, che, ai fini della qualificazione usuraria dell'interesse, il momento rilevante è la dazione e non la stipula del contratto, come si evince anche dall'art. 644-ter cod. pen. (introdotto dall'art. 11 l. n. 108/96), a mente del quale "la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell'ultima riscossione sia degli interessi che del capitale". La tesi, poi, trova riscontro nella giurisprudenza penale di questa corte secondo cui in tema di usura, qualora alla promessa segua mediante la rateizzazione degli interessi convenuti - la dazione effettiva di essi, questa non costituisce un "post factum" non punibile, ma fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell'originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo sostanziale del reato (così, Cass. Sez. I^, 11055/98, imp. D'Agata e altri). Non sembra superfluo aggiungere che, quando anche non si volesse aderire alla configurabilità della nullità parziale sopravvenuta (come sembra preferibile), tuttavia non si potrebbe comunque continuare a dare effetto alla pattuizione di interessi superiori alla soglia usuraria” 72 D.L. 29.12.2000, n. 394, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, L. 28 febbraio 2001, n. 24. 73 La Corte costituzionale, con la citata sentenza 14-25 febbraio 2002, n. 29 (Gazz. Uff. 6 marzo 2002, n. 10, serie speciale), ha dichiarato l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, sollevata dal Tribunale di Benevento, in riferimento agli articoli 3, 24, 35, 41 e 47 della Costituzione; ha dichiarato, inoltre non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, sollevate dal Tribunale di Benevento, in riferimento agli articoli 3, 24, 47 e 77 della Costituzione, con l'ordinanza emessa il 30 dicembre 2000, e dal Tribunale di Taranto, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 24, primo e secondo comma, della Costituzione. La stessa Corte, con successiva ordinanza 2131 ottobre 2002, n. 436 (Gazz. Uff. 6 novembre 2002, n. 44, serie speciale), ha dichiarato la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24, sollevate dal Tribunale di Brindisi - sezione distaccata di Fasano, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di S. Angelo dei Lombardi, in riferimento agli artt. 3, 24, 41, secondo e terzo comma, e 47, primo comma, della Costituzione, e dal Tribunale di Castrovillari, in riferimento agli artt. 3, 24, 47 e 77 della Costituzione. 34 contratti conclusi ante L. 108/1996, (1) se muniti di clausola di pattuizione degli interessi convenzionali, l’interpretazione autentica data alla legge impone di ritenere valida la convenzione, salva la problematica dello ius variandi di cui si tratterà appresso; (2) se, invece, non contengono alcuna clausola, i tassi applicati unilateralmente dalla banca non potranno ritenersi “convenuti” in ragione della loro comunicazione con l’estratto conto, in quanto “la mancata contestazione degli estratti conto (…) non vale a superare la nullità della clausola relativa agli interessi ultralegali, perché l’unilaterale comunicazione del tasso di interesse non può supplire al difetto originario di valido accordo scritto”74,per cui sussisterà la fattispecie penale della “datio”, ovvero di una usura di fatto non negoziale, mentre, dal punto di vista civilistico, il tasso non convenuto andrà sostituito con il tasso legale. Nel caso di rapporto successivo alla L. 108/1996, (a) se vi è la clausola di previsione del tasso convenzionale, questa sarà nulla ex artt. 1418 1° comma e 1815, 2° comma e, sempre in virtù di detta seconda disposizione non sarà dovuto alcun interesse; (b) se, invece, non v’è clausola di pattuizione dell’interesse ultralegale, si ripropone la stessa situazione sopra trattata sub (2) per i contratti ante L. 108/1996. Quando nei contratti sia validamente pattuito il c.d. ius variandi, si dovrà accertare, caso per caso, se la procedura prevista dalla legge (art. 118 T.U.B.) sia stata correttamente seguita e completata, se si, il tasso è da intendersi regolarmente convenuto e, quindi, soggetto alla legge 108/96; se, invece, queste procedure non si sono avute, oppure si sono limitate alla sola menzione del tasso negli estratti conto, si ritornerà alla fattispecie di tasso applicato “volo sic voleo”. L’altra questione che affanna tutti coloro che si confrontano con la Legge 108/1996 è la problematica relativa alla rilevazione del tasso soglia con riferimento alle aperture di credito in conto corrente. La questione si è generata perché, nelle “Istruzioni” che la Banca d’Italia ha dettato agli Istituti per procedere alla rilevazione dei tassi onde pervenire alla quantificazione del tasso effettivo globale medio (TEGM), a partire dalle prime del 30.09.1996 e sino all’aggior-namento del 12.08.2009, era previsto che la commissione di massimo scoperto non si sommasse agli interessi ed altre spese per generare il TEGM, ma doveva essere rilevata separatamente, determinando, così, un dato percentuale distinto dal tasso medio. Si deve sottolineare ed è decisivo, che la stessa previsione e la distinzione delle due distinte causali, con conseguenti distinte indicazioni percentuali, è contenuta in tutti i Decreti del Ministero del Tesoro che si sono succeduti dal primo del 22.03.1997 a quello del 24.09.2009, sia nella parte normativa, sia nella tabella allegata, sia nella “nota metodologica” allegata alla tabella75. Ora il Ministero del Tesoro è l’Autorità che l’art. 2 della L. 108/96 designa per rilevare trimestralmente il tasso effettivo globale, che, aumentato di un quarto e di 4 punti percentuali (prima della metà) forma “il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari”. 74 Cass. civ. Sez. I, 29-07-2009, n. 17679 D.M. 22-3-1997, Art. 1, 2° comma: “I tassi non sono comprensivi della commissione di massimo scoperto eventualmente applicata. La percentuale media della commissione di massimo scoperto rilevata nel trimestre di riferimento è riportata separatamente in nota alla tabella”; Nota metodologica allegata alla tabella,: “La commissione di massimo scoperto è stata oggetto di autonoma rilevazione e pubblicazione, similmente a quanto avviene nell'applicazione dell'analoga legislazione in Francia” Il riferimento alla Francia “cade” nei successivi decreti –ndr-. 35 75 Non è dato sapere perché sia stata effettuata questa scelta, non essendo chiarita neanche nelle “Istruzioni” della B.d.I. né importa per la verità, se non fosse che ha dato luogo a profondi e non sanati scontri e contrasti nelle aule penali e civili. Infatti è accaduto che la Giurisprudenza, maxime quella penale, nel computare il TEG, attenendosi alla letterale dizione dell’art. 644 c.p., includono anche le commissioni di massimo scoperto, col chè, soprattutto quando i tassi applicati sono particolarmente vicini a quelli soglia, rilevati senza il concorso della commissione, si verifica regolarmente l’usura. Sul punto è intervenuta lo scorso anno anche la Cassazione penale 76, che ha ritenuto che la commissione di massimo scoperto debba essere computata nel TEG per stabilire se si è superato il tasso soglia dell’usura. Summum ius summa iniuria per citare Cicerone! Altro che interpretatio in bonam partem! Insomma, da una parte, per determinare il TEG, si ricomprende anche la CMS, mentre, dall’altra, per determinare il TEGM, la si è esclusa per ben 13 anni e, tutto ciò, determina l’imputazione per un reato grave ed infamante come l’usura e, ciò si badi bene, verso lavoratori del credito (come erano gli imputati nel processo che si è concluso con la lentenza citata) e non contro mafiosi. Per addivenire ad una soluzione accettabile, credo si debba partire dalla figura della “norma penale in bianco” quale è l’art. 644 c.p. e convenire che la delega al Ministero del Tesoro di rilevare il TEG “comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese”, si sia mandato all’Autorità Amministrativa tecnica per eccellenza in materia finanziaria non tanto di “fotografare “ quelle voci di costo, ma prima e, soprattutto, esercitando la sua competenza tecnica, di perimetrarle ed individuarle concretamente. Questa interpretazione, peraltro trova un solido supporto nella L. 28.01.2009 n. 2, con la quale è stato convertito il D.L. 29.11.2008 n. 18577, che nella prima parte del comma 2, dell’art. 2-bis, dispone che solo a partire dalla entrata in vigore della legge di conversione (id est dal 29.01.2009 n.d.r.) le commissioni di massimo scoperto “sono comunque rilevanti ai fini dell’applicazione dell’art.1815 del codice civile, dell’art. 644 del codice penale e degli artt. 2 e 3 della legge 07.03.1996 n. 108.(..)”.78 Ci si deve chiedere perché, se, come sostiene la Cassazione, le commissioni di massimo scoperto erano già “rilevanti” a quei 76 Cassazione Penale Sent. n. 12028 del 26-03-2010: “Questo Collegio ritiene che il chiaro tenore letterale dell'art. 644 c.p., comma 4 (secondo il quale per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all'erogazione del credito) impone di considerare rilevanti, ai fini della determinazione della fattispecie di usura, tutti gli oneri che un utente sopporti in connessione con il suo uso del credito. Tra essi rientra indubbiamente la Commissione di massimo scoperto, trattandosi di un costo indiscutibilmente collegato all'erogazione del credito, giacchè ricorre tutte le volte in cui il cliente utilizza concretamente lo scoperto di conto corrente, e funge da corrispettivo per l'onere, a cui l'intermediatario finanziario si sottopone, di procurarsi la necessaria provvista di liquidità e tenerla a disposizione del cliente.Ciò comporta che, nella determinazione del tasso effettivo globale praticato da un intermediario finanziario nei confronti del soggetto fruitore del credito deve tenersi conto anche della commissione di massimo scoperto, ove praticata”. 77 Pubblicato in G.U. il 28.01.2009 ed in vigore dal giorno successivo alla sua pubblicazione 78 Il Testo completo della prima parte del comma è il seguente: “Gli interessi, le commissioni e le provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente, dalla data di entrata in vigore delle legge di conversione del presente decreto, sono comunque rilevanti ai fini dell’applicazione dell’art.1815 del codice civile, dell’art. 644 del codice penale e degli artt. 2 e 3 della legge 07.03.1996 n. 108.(..)” 36 fini, il legislatore abbia sentito l’esigenza di renderli tali con una nuova norma e, soprattutto, di chiarire che lo sono solo a partire da quella medesima legge? E’ un legislatore sbadato e pasticcione? No, non è così, almeno questa volta, e ciò per l’ovvia ragione che il legislatore era ben cosciente che le CMS, per le norme preesistenti, non lo erano! Di poi, che la citata disposizione normativa non abbia la natura interpretativa e l’effetto retroattivo che la Suprema Corte le attribuisce, lo si evince agevolmente dal tenore del secondo periodo del 2° comma dell’art 2-bis, il quale delega al Ministero dell’Economia e delle Finanze di stabilire fino a quando il tasso-soglia usura “resta regolato dalla disciplina vigente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, con ciò chiarendo inequivocabilmente che non sta interpretando, proprio perché vuole disporre solo per il futuro.79. Di poi, le precedenti disposizioni di cui tratta, ovviamente, sono quelle non modificate appena prima, e, quindi, parafrasando la norma, quelle in cui: ”Gli interessi, le commissioni e le provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente, non erano comunque rilevanti, alla data di entrata in vigore delle legge di conversione del decreto, ai fini dell’applicazione dell’art.1815 del codice civile, dell’art. 644 del codice penale e degli artt. 2 e 3 della legge 07.03.1996 n. 108.(..)”. Facendo seguito alla delega legislativa il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con proprio decreto prevede che la Banca d’Italia dovrà procedere alla revisione delle “Istruzioni” per adeguarle alla mutata normativa e, che, fino a quando non sarà pubblicato il decreto trimestrale che espone i tassi medi rilevati secondo le nuove emanande “Istruzioni” della Banca d’Italia “le banche e gli intermediari finanziari si attengono agli attuali criteri di calcolo, derivanti dalle “istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura”, emanate dalla Banca d’Italia (pubblicato in gazzetta ufficiale n. 74 del 29 marzo 2006) e dall’ufficio Italiano cambi (pubblicato in gazzetta ufficiale n. 102 del 4 marzo 2006 Orbene, nelle dette “Istruzioni” della Banca d’Italia, che, per la norma secondaria delegata continuano a doversi osservare fino alla futura entrata in vigore del decreto trimestrale che recepisce le nuove disposizioni, al capitolo “C) oggetto della rilevazione calcolo dei tassi”, paragrafo “C5) metodologia di calcolo della percentuale della Commissione di Massimo Scoperto” si legge: “La Commissione di massimo scoperto non entra nel calcolo del TEG. Essa viene rilevata separatamente, espressa in termini percentuali”. Inutile ripetere che tale disposizione si ritrova in tutte le versioni precedenti delle ”Istruzioni” ed in tutti i decreti ministeriali di rilevazione e pubblicazione dei tassi medi rilevanti ai fini dell’usura. 80. 79 Il Testo completo della seconda parte del comma è il seguente: “Il Ministero dell’ Economia e delle Finanze, sentita la Banca d’Italia, emana disposizioni transitorie in relazione all’applicazione dell’art. 2 della Legge 7 marzo 1996 n. 108 per stabilire che il limite previsto dell’art. 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi sono usurari, resta regolato dalla disciplina vigente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, fino a che la rilevazione del tasso effettivo globale medio non verrà effettuata tenendo conto delle nuove disposizioni” 80 D.M. 01.07.2009 “Disposizioni transitorie in relazione all’applicazione dell’art. 2 della legge 7 marzo 1996, n 108”; pubblicato nella G.U. 29.07.2009 n. 174, Art. 1: “(1) .La Banca d’Italia procede alla revisione delle istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio prevista dall’art. 2, comma 1 della legge 7 marzo 1996 n. 108 per tener conto delle disposizioni di cui all’art. 2-bis della legge 28 gennaio 2009, n. 2. (2) Al fine di verificare il rispetto del limite di cui all’art. 2 comma 4, della legge 7 marzo 1996 n. 108, fino alla entrata in vigore del decreto trimestrale inerente i tassi effettivi globali medi calcolati in base alle istruzioni di cui al comma 1, pubblicato entro e non oltre il 31 dicembre 2009, le banche e gli intermediari finanziari si attengono agli attuali criteri di calcolo, derivanti dalle “istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura”, emanate dalla Banca d’Italia (pubblicato in gaz37 Chiudo questo lavoro con l’auspicio che la ragionevolezza, insieme alla ragione, sia sempre compagna di tutti gli operatori del diritto. (Alfonso Quintarelli) zetta ufficiale n. 74 del 29 marzo 2006) e dall’ufficio Italiano cambi (pubblicato in gazzetta ufficiale n. 102 del 4 marzo 2006)” 38