Il TaccuVino Appunti di enogastronomia Tra i filari di Fattoria Coroncino Matteo Carlucci Siamo a pochi km da Staffolo e svolto al cartello in legno di Fattoria Coroncino. Parcheggio in un angolo all’ombra per sfuggire al bollore di una rovente (finalmente) giornata di agosto, e suoniamo al campanello dell’azienda. Lucio Canestrari arriva col muletto e ci saluta mentre è intento a trasferire cartoni, e giunge suo figlio Valerio, che ci porta subito nella frescura della cantina. Solo per pochi secondi, perché appena gli propongo di sapere qualcosa su vigne e lavoro di cantina riprende la strada del campo e ci porta fino al margine del podere, dove ci mostra ai nostri piedi il nuovo impianto di Verdicchio, nato in sostituzione di quello precedente, che soffriva di parecchie fallanze, cumulatesi negli anni. Scelta di reimpianto con sesto di 80 cm, con allevamento a spalliera, e critica giustamente la legge che obbliga la reimpianto entro 5 anni dall’espianto, pena la revoca della concessione, in quanto un maggiore tempo darebbe modo al terreno di rigenerarsi maggiormente. Emerge subito la passione per l’agricoltura e per l’approccio naturale, che approfondiremo in seguito. Valerio ci indica più a valle gli altri vigneti: a San Paolo crescono le uve che andranno a finire nel Gaiospino, a metà strada invece un altro podere contiene anche un po’ di trebbiano (consentito fino al 15% nel disciplinare della denominazione Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore), che finisce nel Bacco, l’etichetta di entrata di Fattoria Coroncino. Quindi Valerio va a a prendere la sua macchina, ci fa salire e imbocca una ripida strada asfaltata che scende in basso e ci traghetta nei vigneti appena visti dall’alto. Qui il terreno è un medio impasto argilloso, e il clima è caldo e spesso umido, e in quest’annata piena di piogge ci racconta di come è stato difficile trattare, con rame (poco) e zolfo di miniera, per limitare i danni da peronospora e oidio. La vigna si mostra piuttosto sana, nonostante le difficoltà riscontrate, tali da non permettere nemmeno la semina del favino per il sovescio. La pecca maggiore viene dalla morte di alcune piante, che hanno ceduto al primo vero giorno di caldo dopo le piogge. Non mancano anche i segni della grandine, che qui hanno solo parzialmente ammaccato le uve, ma non in percentuale troppo importante. Ci spostiamo di qualche metro e arriviamo ai filari dove si producono le uve dello Stracacio, da un particolare “clone” di Verdicchio, con grappoli piccoli e spargoli, buona cosa specie per evitare l’oidio, che si sviluppa all’interno del grappolo, normalmente piuttosto serrato per il verdicchio. Per contro mostra incostanza e disomogeneità nella maturazione dei grappoli, quindi una vera sfida per quanto riguarda raccolta e vinificazione. Mentre osserviamo vigne e grappoli Valerio ci spiega anche la loro agricoltura, che tende a limitare al minimo gli interventi in vigna. Oltre ai suddetti trattamenti, solo biologici, con zolfo e rame, mirati all’occorrenza, si prova anche con preparati biodinamici, in particolare col Preparato 501 (cornosilice), mentre altre soluzioni sono da affinare per la difficoltà nella diffusione in vigna, ma a questo stanno lavorando con la messa a punto di un “dinamizzatore home-made” che è tra i vari lavori di Valerio, che oltre ad affiancare il padre in vigna ed in cantina si diletta anche in lavori artistici con legno di ulivo re catene. Insomma al ragazzo non manca né la voglia di lavorare né la creatività, e questo fa confidare in un ottimo futuro per questa bella azienda. Valerio conclude il discorso sottolineando che in vigna non si concima più dal 1995, solo un po’ di sovescio, una scelta volta a valorizzare maggiormente le caratteristiche naturali del terroir, unica fonte di nutrimento per le vigne. Ultima nota la tendenza a portare a vendemmia una vigna in buono stato di salute, ma soprattutto di curare la selezione delle uve, eliminando i grappoli rovinati o le loro parti rovinate dal meteo o dai parassiti. Riprendiamo la macchina e stavolta si sale, si svalica il crinale e si ridiscende, per poi risalire ancora fino a Spescia, dove si trova il vigneto della Mimosa, che produce le uve del Gaiospino, etichetta simbolo dell’azienda, che nel suo nome nasconde una storia curiosa. Nasceva come “Vigna Gaia”, dedicato alla sorella di Valerio, poi gli avvocati di un signore dal nome assonante e altisonante hanno chiesto di cambiare dicitura, e nonostante la possibilità di vincere un’eventuale causa una notte balenò nella mente di Fiorella, moglie di Lucio, l’idea di chiamarlo Gaiospino, legando il nome allo “spino”, simbolo dei rovi che attorniano il vigneto e ne segnano i confini più aspri. Qui gli impianti sono tre, rispettivamente datati ’78, ’90 e 2004. Quando scendiamo dall’auto si apre davanti a noi un vero spettacolo, le vigne corrono su pendii ripidi, stupendamente esposte al sole e radicate su un suolo marnoso. Le pendenze sono elevate e Valerio non nasconde le difficoltà ed i timori durante certe manovre in vigna, dove col trattore entra solo praticamente per i trattamenti ed il diserbo meccanico, ma rinuncia persino a qualche filare per non rischiare di rovinar tra i rovi. Camminiamo sul terreno impervio e arriviamo anche alla vigna di rosso, dove si alternano Sangiovese e Shyrah, che danno vita all’unico rosso aziendale, il Ganzerello, peraltro quasi introvabile date le limitate quantità prodotte. Continuano con piacere i racconti di Valerio, vero Cicerone, che ci mostra anche i loro ulivi, dedicati alla produzione di olio solo per il fabbisogno domestico, non per le limitate quantità (hanno oltre 300 ulivi) ma per il grande lavoro richiesto, che costringerebbe a vendere il prodotto a un prezzo fuori mercato rispetto alle medie della zona. Non lesina nemmeno indicazioni sulla strada del ritorno, indicandoci le vigne e la cantina dell’amico Riccardo Baldi, La Staffa, altra piccola realtà di spicco nel comprensorio di Staffolo. Torniamo al fresco ristoratore della cantina e andiamo a ritrovare nel bicchiere il prodotto delle uve appena ammirate dal vivo, frutto anche ovviamente del lavoro di vinificazione e affinamento, che la famiglia Canestrari svolge con grande rispetto per i tempi del vino, intervenendo solo con chiarifica per eliminare le fecce indesiderate. Le masse fermentano e affinano solitamente in acciaio o cemento, salvo esperimenti vari, leggi Gaiospino Fumè, Stragaio e Bambulè. Cominciano assaggiando il Bacco 2012, ottenuto dalla seconda spremitura delle uve di Spescia, il cui mosto fiore dà vita al Gaiospino. L’attacco olfattivo parla di mineralità, con un tono tra il vegetale e il fiore, un prato di margherite sovrastato da un acacia in fiore, e poi un toco fresco-amaro di pompelmo. Al palato ha corpo, calore e bel sostegno di freschezza, che lo fa perdurare a lungo con fini toni amaricanti e bella franchezza nei ricordi. Il Coroncino 2012 svela profumi di erbe aromatiche (rosmarino), susine gialle e pesche, che si ritrovano al palato dove la sapidità scalpita, fusa ad una buona acidità, in assoluto non alta a causa dell’alto contenuto in potassio dei terreni di San Paolo, ma perfetta a garantire l’equilibrio e la persistenza del Coroncino. Arriva quindi il Coroncino 2010 da Magnum. Annata molto più fresca, che dona in effetti maggiore verve al palato, con salinità evidente ai lati della bocca e un bel finale agrumato, mentre il naso si arricchisce di note fresche di mango, ananas ed erba limoncella. Profondo, pieno e convincente. Il Gaiospino 2010 mostra l’altra faccia della collina, una sapidità ancora più fusa ai ricordi di frutti gialli maturi, dall’ananas alla pesca sciroppata, alla mela golden, con refoli di erbe aromatiche. Lungo e saporito, ricco ma di beva innegabile. Sorprende anche per il basso contenuto di solforosa totale, titolato a 42 mg/l. Dulcis in fundo il Bambulè 2010, di cui Valerio ci svela tutti (o quasi) i segreti, che conserverò gelosamente per me. Due anni di barrique per questo vino da uve appassite in pianta, che sfoggia un ventaglio olfattivo complesso e intrigante, con le spezie del mercato orientale (noce moscata e anice stellato su tutte), una confettura di susine, poi mandorle e miele e scie agrumate che parlano di Mediterraneo. Dolce stemperato da sale e freschezza, compagno perfetto per formaggi o per filosofeggiare con gli amici più interessanti. Salutiamo Valerio e Fattoria Coroncino, luogo dove tutto è originale, artistico e “vero”, i vini, le etichette, e le persone che gli danno foggia. Grazie alla famiglia Canestrari, e a presto, sperando di trovare in giro le rare chicche che le limitate quantità concedono solo ai più fortunati.