Sistemi Economici Comparati Anno accademico 2014-2015 Prof.sa Renata Targetti Lenti Le caratteristiche dello sviluppo economico italiano: dal miracolo economico all’entrata nell’euro Lezione 15 4/12/2014 Il declino dell’economia italiana Nel maggio 2005 l’Economist in un breve articolo sottolineava «Italy's economy is stagnant, its businesses depressed—and its reforms moribund». Nel 2003 Carlo d’Adda si chiedeva se il «modestissimo ritmo di crescita» dell’economia italiana potesse considerarsi «un fenomeno malgrado tutto di natura transitoria e destinato a riassorbirsi una volta che la congiuntura internazionale» o invece una tendenza di segno negativo, con radici lontane e destinata ad accentuarsi nei prossimi anni, almeno in mancanza di vigorose trasformazioni dell’apparato produttivo e delle istituzioni che lo reggono». Nel 2010, Mario Draghi governatore della Banca d’Italia sintetizzava così le fasi dello sviluppo e del declino italiano «Negli anni Ottanta l'economia italiana è cresciuta del 27 per cento; negli anni Novanta del 17 per cento; tra il 2000 e il 2007 - prima della crisi - è cresciuta dell'8 per cento, mentre gli altri paesi dell'area dell'euro crescevano del 14. … Il divario fra l'Italia e gli altri paesi perdura nella fase di ripresa. Questi dati esprimono sinteticamente la difficoltà delle imprese italiane a essere competitive, dei responsabili della politica economica ad attuare strategie di modernizzazione del Paese, degli stessi economisti a orientare le proprie ricerche e a comunicarne al pubblico i risultati». Nel 2011, Monti in un articolo sul Corriere della Sera, indicava insintesi la ricetta per tornare a crescere «Meno barriere all'entrata, meno privilegi e rendite per gli inclusi, più possibilità di ingresso per gli esclusi e per i giovani, più spazio al merito e alla concorrenza: questi gli ingredienti di un'economia più competitiva, di una maggiore crescita, di una società più aperta, più inclusiva, più equa. Purtroppo, questo impegnativo disegno non è stato voluto con continuità; ancor meno è stato realizzato». Nel “XV Rapporto” della Fondazione Einaudi il capitolo dedicato all’Italia è intitolato “L’Italia della crisi”: Tabella1 I fattori del declino hanno radici lontane Numerosi sono i fattori, tra di loro strettamente interconnessi, che spiegano il rallentamento della crescita a partire dagli anni 90 e dalla metà del 2000 un sentiero di vero “declino”. Non si sono sapute cogliere le opportunità di crescita offerte dall’«età dell’oro» nel periodo 1945-1975 da un modello di produzione fordista, dall’integrazione internazionale e da una sostenuta crescita delle esportazioni. Convenzionalmente si fissa la fine di questa fase nel 1975, e cioè nell’anno della prima seria recessione post-bellica, conseguente alla “crisi petrolifera”. Nel 1975 vennero adottate misure di restrizione della domanda adottate, contemporaneamente nei principali paesi industrializzati, misure per contrastare i disavanzi commerciali consguenti alla quadruplicazione del prezzo del petrolio. Secondo altri, invece, la fine dell’età dell’oro potrebbe essere anticipata e collocata già nei primi anni ’70 in corrispondenza al forte rallentamento nella crescita della produttività nell’economia americana, alla crescita dell’inflazione, alla dichiarazione di inconvertibilità del dollaro ed alla sua conseguente svalutazione, al crollo del sistema di Bretton Woods con il passaggio a cambi flessibili. Questo crollo rappresentò un vero cambio di regime di politica economica a livello internazionale. Il contesto politico istituzionale Alcuni autori hanno sottolineato le variabili, endogene al sistema, che hanno operato nel lungo periodo come il contesto politico e istituzionale: 1) Una classe dirigente rivolta a conseguire obiettivi di breve anziché di lungo periodo è stata incapace di intraprendere le necessarie riforme strutturali. Non è stata in grado di perseguire lo“State and Nation building” 2) le inefficienze della pubblica amministrazione 3) il prevalere dei legami di natura familiare e/o di “clan”. I fattori economici più recenti Altri autori hanno evidenziato i fattori economici che negli anni più recenti hanno influenzato negativamente il livello della produttività e conseguentemente della competitività del nostro sistema: i) il basso tasso d’accumulazione, e la riduzione delle spese di ricerca e sviluppo. ii) un flusso di esportazioni troppo concentrato nei settori tradizionali. iii) la dimensione delle imprese e la struttura proprietaria, hanno frenato e ancora frenano il progresso tecnologico e la capacità di conquistare nuovi mercati. iv) il processo di privatizzazione di molte imprese pubbliche, dagli anni 90, poi, si è tradotto nella formazione di nuovi monopoli ed in rendite per pochi. La globalizzazione ed i vincoli di policy La reazione delle imprese italiane alle sfide della globalizzazione è stata in larga misura quella di delocalizzare nei paesi in cui il costo del lavoro era inferiore. Il tasso di risparmio e di investimento si è progressivamente ridotto nel tempo. Le misure di politica economica, anche recenti, sono state orientate prevalentemente alla stabilità, che è certamente condizione necessaria, ma non sufficiente per la crescita. L’elevato debito pubblico, insieme alla rigidità della spesa pubblica, ha rappresentato un grosso ostacolo all’avvio di politiche virtuose. Dal «miracolo economico» all’«autunno caldo». Gli anni del primo dopoguerra, fra il 1951 e il 1963, sono stati definiti gli anni del “miracolo economico”, in cui cioè “la società italiana realizzò la più profonda trasformazione della sua storia contemporanea”. La crescita del prodotto interno lordo si mantenne sostenuta, anche se inferiore a quella del periodo della ricostruzione, e cioè pari al 5,8% medio annuo, risultato attribuibile in larga misura all’elevato tasso di accumulazione, pari al 9,4% medio annuo. Bassi salari ed elevata produttività favorirono la formazione di profitti che vennero reinvestiti. Gli investimenti fissi lordi crebbero quasi ininterrottamente. La progressiva apertura si rivelò infatti un fattore di crescita della domanda e del reddito grazie alla dinamica delle esportazioni. Si tradusse anche in un potente stimolo alla concorrenza, contribuendo ad accrescere competitività ed efficienza del sistema industriale. Fattori esterni e interni La scelta di un elevato grado di apertura e del conseguente tipo di specializzazione si trasformò in un “vincolo” negli anni successivi. La specializzazione si era infatti concentrata in settori tradizionali quali tessile, mobili, beni strumentali, beni alimentari ed elettrodomestici. In questi settori l’economia italiana godeva di un elevato grado di competitività grazie ad un minor costo del lavoro. Tale specializzazione era funzionale anche alla domanda interna trainata da consumi che aumentavano con il reddito e l’ occupazione. Secondo altri autori, invece, i fattori che avrebbero condizionato i futuri sviluppi erano principalmente di natura interna. Il dualismo della crescita, l’arretratezza dell’economia meridionale, una unificazione economica e sociale ancora incompiuta, la scarsità di capitale umano apparivano come i principali fattori di criticità. L’arresto del processo di accumulazione Il processo di accumulazione di capitale, stabile fino al 1963, improvvisamente subì un’ inversione. i) La prima ipotesi è stata formulata da Kindleberger il quale, basandosi sulla tesi che l’Italia, così come altri paesi europei, fosse un’economia dualistica caratterizzata da un eccesso di offerta di lavoro nel settore agricolo, considerava l’arresto del processo di accumulazione nel settore industriale come l’inevitabile conseguenza dell’esaurimento dei fattori produttivi che, in precedenza, avevano favorito la crescita (modello di Lewis). ii) In realtà una situazione di piena occupazione era stata raggiunta solo nel triangolo industriale. Tuttavia era cresciuto un certo numero numero di lavoratori “scoraggiati”. Inoltre erano iniziati i primi flussi migratori verso i paesi della CEE. Al dualismo territoriale si erano aggiunti quello settoriale e quello salariale. La redistribuzione del reddito dai profitti ai salari ii)Una seconda spiegazione della contrazione degli investimenti fa riferimento alla redistribuzione dei redditi dai profitti ai salari come conseguenza di aumenti salariali superiori a quelli della produttività. La crescita dei salari era stata parzialmente scaricata sui prezzi. Questa traslazione non era stata tuttavia sufficiente a mantenere invariati i margini di profitto, e quindi a sostenere il processo di accumulazione mediante l’autofinanziamento. Proprio per mantenere elevato il tasso di crescita degli investimenti vennero adottate, dalla Banca d’Italia politiche espansive. L’attività di programmazione, adottata con la Nota aggiuntiva di La Malfa alla Relazione generale sulla situazione economica del paese, doveva costituire lo strumento per coordinare le diverse misure di policy. In realtà allarmò gli imprenditori con lo spettro della “pianificazione socialista”. Un secondo effetto fu quello di accentrare le decisioni di investimento pubblico nel cosiddetto “tavolo della programmazione”. Proprio le grandi imprese a partecipazione statale, non vincolate all’obiettivo del profitto di breve periodo, avevano infatti dato vita a strutture produttive di “capitalismo manageriale”, prioritariamente orientate alla crescita ed alla innovazione più di quanto non lo fosse stato il capitalismo familiare del grande capitale privato. Con la programmazione le decisioni d’investimento vengono subordinate a criteri di natura politica. Sempre nel 1962, al fine di mettere sotto controllo l’evasione fiscale, era stata varata la legge che istituiva l’imposta cedolare di acconto. La manovra monetaria espansiva contribuì a rafforzare le spinte inflazionistiche. Quella fiscale restrittiva finì con l’alimentare la fuoruscita di capitali verso l’estero da parte di imprenditori e capitalisti allarmati dalla manovra. Il disavanzo dei movimenti di capitale finì con il sovrapporsi a quello delle partite correnti conseguente alla riduzione delle esportazioni divenute più costose a causa dell’inflazione. La nazionalizzazione dell’energia elettrica La nazionalizzazione dell’industria produttrice dell’energia elettrica avrebbe dovuto immettere capitali nel sistema produttivo privato attraverso i risarcimenti concessi agli azionisti delle società ex-elettriche, trasformando le azioni in obbligazioni a carico dello Stato. Le imprese nazionalizzate avrebbero potuto così disporre di nuovi capitali da investire. Invece il flusso di capitali derivante dagli indennizzi andò disperso in “iniziative inconcludenti”. La nazionalizzazione provocò inoltre ulteriore allarme nel mondo imprenditoriale, che temette una eccessiva espansione dello Stato nelle attività produttive. I divari di produttività iii) Una terza interpretazione individua nella composizione della domanda interna e di quella esterna il principale fattore di crescita del costo del lavoro, e quindi della crisi del 1962-63. La produzione, inizialmente rivolta ad alimentare il flusso delle esportazioni, aveva finito con il condizionare anche la domanda interna determinando una vera e propria distorsione nei consumi ed in particolare dei beni durevoli come gli elettrodomestici.. Si era così generato un dualismo settoriale tra industrie che producevano per l’estero, caratterizzate da livelli di produttività più elevati, ed altre che producevano essenzialmente per il mercato interno. La prima e più grave conseguenza degli aumenti di produttività all’interno dei settori più dinamici, collocati prevalentemente nelle regioni settentrionali, fu quella di alimentare rivendicazioni intese ad ottenere aumenti salariali superiori a quelli della produttività stessa. Nello stesso tempo la crescita della domanda di beni di consumo, più elevata di quanto sarebbe stato compatibile con l’aumento del reddito, aveva finito con l’alimentare tensioni inflazionistiche e con il rallentare lo stesso sviluppo. L’aumento dei prezzi era stato considerato dagli imprenditori come uno strumento per mantenere elevati i margini di profitto. Tuttavia, nonostante la stabilità dei profitti gli investimenti, privati e pubblici, si mantenevano bassi. Le imprese, che in passato avevano contribuito al “miracolo economico”, non erano state in grado di investire in nuovi settori e nuovi mercati. Continuava, quindi, il deflusso dei capitali, alimentato anche dai risparmi delle famiglie in conseguenza della limitata gamma di attività finanziarie offerta dal mercato interno. La bilancia dei pagamenti continuò quindi a presentare saldi passivi. L’esigenza di contenere l’inflazione e di riequilibrare la bilancia dei pagamenti, intervenendo per ridurre domanda interna e importazioni, ”costrinse” ben presto la Banca d’Italia, nell’autunno del 1963, a far seguire alla stretta fiscale quella monetaria. Le caratteristiche della struttura produttiva Nella seconda metà degli anni ’60 si era verificato un mutamento nella sua composizione, con una riduzione di quella operaia ed un aumento di quella assorbita dalla Pubblica Amministrazione e dal terziario privato. Questo ridusse “la produttività totale del sistema ed il suo potenziale di sviluppo”. I livelli di produttività erano inferiori a quelli dei paesi concorrenti (imprese di dimensione medio-piccola, una modesta presenza di produzioni tecnologicamente avanzate). Questi fattori strutturali, combinandosi con quelli congiunturali come l’aumento del costo del lavoro e le misure deflazionistiche decise dalla Banca Centrale nel 1963, avevano indotto le imprese ad adottare processi di ristrutturazione e di riorganizzazione produttiva, ad aumentare i ritmi di lavoro, ad adottare tecniche a più elevata intensità di capitale. Tra il 1963 ed il 1969 le numerose contraddizioni che avevano caratterizzato il precedente processo di sviluppo finirono con l’alimentare tensioni inflazionistiche di lunga durata. Il modello di sviluppo italiano si rivelò fragile e soggetto a fattori ciclici, inadeguato a sostenere la crescita di un settore industriale moderno in grado di assorbire la sottoccupazione agricola e di ridurre le numerose forme di dualismo e di bloccare l’inflazione. La crescita della produzione era stata solo parzialmente stimolata dalla domanda interna. Una determinante importante era sempre stata, infatti, la domanda estera, che alla fine rivelò un fattore di rigidità. Nel settembre del 1969 ebbe inizio la trattativa per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Nel 1970 l’andamento dell’economia era stato condizionato dall’eccezionale aumento dei costi non compensato dall’ aumento della produttività. Sindacato e sinistra al governo ritenevano che dall’aumento dei salari sarebbe derivato un aumento della domanda interna, maggiori investimenti e quindi un’accresciuta produttività, che avrebbe compensato l’aumento dei costi conseguente agli aumenti salariali. Guido Carli invece nelle Considerazioni finali della Relazione annuale per il 1971, aveva affermato che il circuito virtuoso dagli aumenti salariali alla domanda per consumi non si sarebbe verificato. • Gli anni 70. Dall’«autunno caldo» alla crisi energetica. La flessione della crescita di produzione e produttività, la stasi degli investimenti, l’inflazione, il pronunciato squilibrio dei conti pubblici e di quelli esteri sono stati i fenomeni più significativi degli anni della stagflazione successivi al 1974. L’indicizzazione salariale, conseguente all’aumento dei prezzi derivanti dai due shock petroliferi aveva contribuito a determinare un’inflazione a due cifre, superiore a quella di tutti gli altri paesi europei. I livelli di profitto venivano mantenuti ad un livello soddisfacente solamente grazie alle variazioni del tasso cambio e cioè alla svalutazione. Gli effetti dell’austerità La caduta degli investimenti veniva attribuita anche alla contrazione dei consumi, la quale era a sua volta da ascrivere alle misure restrittive adottate nel 197374 ed alla successiva stretta creditizia del 1977-78 operata per fare fronte alla crisi energetica prima e alla nuova crisi valutaria poi. La successiva politica espansiva del 1979-80 non era stata in grado di determinare una effettiva ripresa, avendo coinciso con la seconda crisi energetica e con un processo inflazionistico e di deterioramento dei conti con l’estero di rilevanti dimensioni. La manovra restrittiva del 1980, infine, aveva determinato una nuova, prolungata contrazione. Le riforme del mercato del lavoro Le rivendicazioni salariali ed il complesso di riforme del mercato del lavoro aveva provocato, nei primi cinque anni del decennio ’70, un significativo aumento del costo del lavoro per unità di prodotto nonché un generale appiattimento salariale. Nel 1969 erano state abolite le cosiddette “gabbie salariali” introdotte per tenere conto delle differenze nel costo della vita nelle diverse regioni del paese. I salari, di conseguenza, erano stati uniformati verso l’alto. Nel 1970 era stato inoltre adottato lo Statuto dei Lavoratori. Furono quindi numerose le misure che finirono con il determinare aumento dei costi e vincoli alla gestione del personale. Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia, nelle Considerazioni finali alla Relazione del 1976 sottolineava infatti come si fosse venuto a determinare un incremento dei costi superiore a quello degli altri paesi industrializzati. La scala mobile Una spinta alla crescita dei costi proveniva inoltre dal meccanismo della scala mobile, che adeguava i salari al costo della vita attraverso il cosiddetto “punto di contingenza”. Questo strumento era nato per attenuare la conflittualità salariale, garantendo il potere d’acquisto al lavoratore ed all’imprenditore prospettive più stabili di programmazione aziendale. Inizialmente il punto di contingenza era parametrato al livello del salario di riferimento differenziato per settori. Nel 1975 il punto venne unificato per tutti i settori, indipendentemente dai divari settoriali di retribuzione e di produttività, dando così origine, nei settori a minore produttività, ad una spinta verso l’alto dei costi. Si sviluppò un intenso dibattito circa l’opportunità di “sterilizzare” la scala mobile, ovvero di escludere dal computo del punto di contingenza gli aumenti dei prezzi di origine esogena (materie, prime, aumento dell’imposta indiretta) al fine di spezzare il nesso tra deprezzamento del cambio e inflazione interna. Agli aumenti salariali si erano inoltre aggiunti ulteriori fattori che avevano contribuito all’incremento dei costi. In particolare si erano ridotti i livelli di produttività, e di conseguenza era aumentato il costo del lavoro per unità di prodotto. L’inasprirsi della conflittualità colpì in particolare le grandi imprese concentrate verticalmente e operanti in settori a elevato intensità di energia. Si modificò il modello di impresa verso una maggiore specializzazione produttiva all’interno di imprese di dimensioni più piccole. Questa scelta consentiva una maggiore flessibilità grazie anche al ricorso all’ outsourcing di alcune funzioni. In parallelo si espanse anche il cosiddetto “terziario avanzato” che forniva servizi alle imprese. La “piccola” dimensione diventerà una delle caratteristiche peculiari, ma anche un elemento di debolezza, dell’industria italiana. In particolare, in questo periodo si consolidò la specializzazione nei settori tradizionali più esposti alla concorrenza dei paesi emergenti e caratterizzati da un basso livello di ricerca e di innovazione. Le svalutazioni degli anni ‘70, reiterate nel ’92, non potevano che orientare il sistema produttivo verso settori in cui la competizione fra imprese era fondata sui prezzi o che erano caratterizzati da estrema flessibilità organizzativa e produttiva. Il primo shock petrolifero Nel corso degli anni ‘70 altri tre eventi contribuirono all’aumento dei costi di produzione ed alla riduzione dei margini di profitto: i) A seguito del Kennedy Round si verificò innanzitutto un’espansione del grado di apertura e di internazionalizzazione delle economie, con progressiva riduzione delle barriere protezionistiche fra la CEE e il resto del mondo. ii) Nel febbraio del 1973 fu deciso di passare dai cambi fissi a quelli flessibili, consentendo che la lira si svalutasse rispetto al dollaro ed alle altre valute forti come il marco. Si determinò così un aumento dei prezzi (in lire) dei prodotti importati, ed in particolare delle materie prime. La svalutazione accelerò l’inflazione che, a sua volta, indusse un’ulteriore svalutazione al fine di recuperare competitività, generando inoltre instabilità ed incertezza per le imprese. iii) nell’ottobre del 1973, la guerra del Kippur provocò una crisi energetica che quadruplicò i prezzi del petrolio. In Italia gli effetti sui costi degli aumenti dei prezzi delle materie prime e della svalutazione furono amplificati dall’operare della scala mobile. Si determinarono ulteriori spinte inflazionistiche alimentate, in un circuito perverso, dalle aspettative. In seguito all’aumento dei tassi di interesse, trainati dall’ inflazione aumentò il costo del capitale per le imprese che si erano indebitate a breve termine. Anche se il tasso di interesse reale corrisposto dalle imprese restava basso, quando non negativo, l’aumento del costo del capitale determinò una grave crisi finanziaria a carico dei gruppi industriali più deboli che non riuscivano, per carenza di domanda e per la concorrenza internazionale, a trasferire per intero l’ aumento dei costi sui prezzi di vendita. Con la caduta dei margini di profitto si era ridotta una importante fonte di autofinanziamento, La legislazione imponeva la separazione tra banche commerciali e istituti di credito industriale, rendendo di fatto molto debole il monitoraggio dell’ efficienza delle imprese da parte delle banche. Per lungo tempo il governo delle grandi società private italiane era rimasto nelle mani di una proprietà stabile, ma che non subiva gli stimoli della concorrenza. Gli anni ’70 sono stati caratterizzati anche da significativi aumenti nel peso della Pubblica Amministrazione. L’introduzione di un sistema di protezione sociale universale, e l'istituzione della pensione sociale fecero lievitare la spesa corrente. Il carico contributivo era limitato ai soli lavoratori (in particolare quelli dipendenti) mentre i benefici si estendevano a tutta la popolazione. La spesa pubblica si espanse anche in altre direzioni per fare fronte ad alcuni fra gli effetti più gravi della crisi Trasferimenti a famiglie e imprese). Nacque in quegli anni una sorta di «capitalismo assistito». L’indennità di contingenza venne adeguata a quella del settore privato e furono varate norme per l’esodo volontario, che di fatto aumentarono la spesa pubblica. Le riforme fiscali Anche le entrate pubbliche subirono le conseguenze di riforme che determinarono un aumento del gettito. Nel 1972, per ottemperare ad un impegno con la CEE, l’Imposta generale sull’ entrata (IGE) venne sostituita dall’Imposta sul valore aggiunto (IVA). Con la riforma delle imposte dirette, attuata da Bruno Visentini nel 1973-74, vennero introdotti l’IRPEF ed il sostituto d’imposta. Con il prelievo alla fonte sui redditi da lavoro dipendente venne ridotta drasticamente l’evasione fiscale, con conseguente forte incremento delle entrate. Visentini introdusse anche una nuova disciplina del diritto societario, contribuendo a ridurre ulteriormente l’evasione. Grazie alle riforme fiscali le entrate pubbliche passarono da un valore inferiore al 30% del Pil all’inizio del decennio al 34% nel 1980. Si trattò di un aumento significativo al quale contribuirono l’inflazione ed il fenomeno del fiscal drag. L’aumento delle imposte, tuttavia, non bastò a compensare quello della spesa pubblica, tanto più che, contemporaneamente, cresceva anche la spesa per interessi a causa della lievitazione del debito pubblico. Anche il ridotto tasso di sviluppo dell’economia, a partire dal 1974, aveva influito negativamente sull’andamento delle entrate pubbliche. Nonostante la crisi diffusa di diversi grandi gruppi, il sistema produttivo italiano ha manifestato, in questi anni, una notevole capacità di resistenza. Proprio nel periodo 1974-83 e con riferimento a squilibri come l’inflazione, il deficit pubblico, il disavanzo della bilancia dei pagamenti, l’indebitamento estero, l’ inquinamento e il degrado ambientale si è ampliato il divario tra il nostro sistema economico e gli altri paesi industrializzati. Dalla seconda crisi petrolifera alla caduta del muro di Berlino. Nel 1979 si verificò la «seconda» crisi petrolifera che, tuttavia non generò tensioni inflazionistiche comparabili a quelle prodotte dalla «prima» grazie alla riduzione della dipendenza dal petrolio. Nel periodo successivo al 1979 uno degli obiettivi centrali, sia a livello internazionale che a livello nazionale, fu quello di frenare l’inflazione con una politica monetaria restrittiva che fece aumentare i tassi d’interesse. Nello stesso anno divenne operativa l’adesione dell’Italia allo SME (Sistema Monetario Europeo). Ebbe così fine quel processo di «protezionismo monetario» che attraverso la svalutazione della moneta aveva consentito alle imprese italiane un recupero di competitività. L’adesione allo SME, che aveva obiettivi essenzialmente macroeconomici, finì quindi per determinare conseguenze di politica industriale, favorendo di fatto un’accelerazione degli interventi di ristrutturazione. Fra gli altri la sostituzione di capitale di debito con capitale proprio, il passaggio da sistemi di produzione fordisti a sistemi a rete e la progressiva sostituzione del capitale al lavoro per accelerare il processo di innovazione tecnologica mediante l’introduzione dell’elettronica e dell’informatica. Con i distretti industriali vennero favoriti insediamenti in aree meno congestionate dell’Italia centrale. Queste tendenze, accompagnate da fusioni e nuove concentrazioni, furono favorite anche dalla formazione del mercato unico europeo e dall’accelerazione del processo di internazionalizzazione. Gli anni 80 A partire dall’inizio degli anni ’80 si era modificata la scala mobile “sterilizzando” gli aumenti dei prezzi di origine esogena. Venne ricalcolato il punto di contingenza e fu emanata una legge per predeterminare l’andamento della scala mobile sulla base dell’inflazione attesa e non di quella passata. Come conseguenza delle ristrutturazioni aziendali, il prodotto per addetto aumentò con un recupero, sia pure parziale, dei margini di profitto che in precedenza erano scesi a livelli decisamente inferiori alla norma. Il costo del lavoro permaneva elevato a causa dell’indicizzazione dei salari ai prezzi crescenti e ad un ritmo superiore a quello della produttività. L’inflazione, pure diminuita, restava più elevata rispetto agli altri paesi industrializzati. La politica monetaria restrittiva non fu sufficiente ad evitare un deprezzamento strisciante della lira, superiore al differenziale inflazionistico con gli altri paesi: ne conseguì un incremento del vantaggio competitivo delle imprese italiane. Il “divorzio della Banca d’Italia dal Tesoro Per rendere la manovra monetaria restrittiva più efficace venne introdotta anche una modifica istituzionale. Nella seconda metà del 1980 il ministro Andreatta abolì infatti l’obbligo, per la Banca d’Italia, di sottoscrivere i titoli pubblici non collocati sul mercato (“divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro) La decisione favorì il rientro dall’inflazione ed indusse ad una maggiore prudenza nelle decisioni di spesa pubblica: comportò altresì un aggravamento del servizio del debito, che diventerà uno dei principali fattori di crescita del disavanzo. In seguito al riconoscimento della piena autonomia della Banca centrale rispetto alle esigenze di finanziamento del Tesoro, ed anche della crescente dipendenza dello Stato dal risparmio delle famiglie, i tassi di interesse reali divennero positivi e crescenti. La svolta del Tesoro divenne anche un segnale per le imprese. Per far fronte ai crescenti tassi d’interesse le imprese avviarono un processo di ristrutturazione sostituendo il capitale a debito con quello proprio. I processi di ristrutturazione, accompagnati da fusioni e nuove concentrazioni, furono favoriti anche dalla formazione del mercato unico europeo e dall’accelerazione del processo di internazionalizzazione. Nel corso degli anni 80 si verificò, come conseguenza di queste ristrutturazioni, un aumento del prodotto per addetto, ed un recupero, sia pure parziale, dei margini di profitto. La crescita del debito pubblico La politica monetaria restrittiva non era stata per altro accompagnata da una politica fiscale altrettanto severa. In particolare non era stata colta l’occasione di stabilizzare il gravame del debito pubblico con manovre correttive del disavanzo al netto degli interessi. Nel corso degli anni ’80 e fino al 1994, si è verificato uno straordinario accumulo di debito in un contesto di forte espansione delle entrate tributarie. Dell’aumento complessivo del debito (salito dal 65% al 108% del Pil fra il 1982 e il 1992) circa la metà è attribuibile al differenziale positivo fra costo del debito pubblico e tasso di crescita reale. L’aumento dei tassi di interesse aveva, d’altra parte, contribuito a rendere più oneroso l’onere del servizio del debito, alimentando l’ulteriore crescita del disavanzo e quindi dell’indebitamento, in un circolo vizioso assai difficile da spezzare. Ne è derivata una crescente accumulazione di debito pubblico, sotto controllo solo grazie ai tassi di interesse reali negativi. Se quindi l’inflazione era stata posta sotto controllo, si era determinato, con la crescita del debito pubblico, un ulteriore fattore di instabilità, le cui conseguenze permangono a tutt’oggi. La crescita del debito pubblico, d’altra parte, trovava spiegazione anche nel forte aumento della spesa sociale sia per gli sviluppi del Welfare State sia per fare fronte alla disoccupazione conseguente alle ristrutturazioni aziendali. E poiché in Italia non esisteva un sistema di ammortizzatori sociali adeguato (quali l’indennità di disoccupazione e le procedure di avviamento al lavoro), si era finito per fare ricorso alla batteria di strumenti esistente, “piegata” a fini sociali. Il differenziale di produttività tra settore privato e settore pubblico ha così trasformato uno “Stato di diritto in uno assistenziale”. L’intervento dello Stato si manifestava anche attraverso l’azione diretta nella sfera produttiva ad opera delle imprese pubbliche e a partecipazione statale. Queste avevano contribuito alla ripresa postbellica, ma col tempo il loro ruolo mutò progressivamente ed esse si trasformarono in ”strumenti di clientela politica anziché di rafforzamento infrastrutturale dell’economia nazionale”. Le imprese pubbliche cercarono di trasferire le perdite al bilancio dello Stato attraverso l’aumento dei fondi di dotazione e l’ottenimento di crediti agevolati. Gli anni della “concertazione” e della nascita dell’EURO. I primi anni ’90 sono stati molto turbolenti. Prima la sterlina inglese e poi la lira italiana si svalutarono in modo consistente contribuendo ad accrescere la competitività delle imprese ancora una volta grazie al protezionismo monetario. La svalutazione non provocò una accelerazione dell’inflazione. In seguito alla crisi valutaria del 1991-92 inizia quel processo di stabilizzazione dell’economia, che nel giro di pochi anni avrebbe consentito di riequilibrare rapidamente i conti pubblici, ponendo le premesse per l’ adesione all’euro. Il Governo italiano fu «costretto» a collocare sul mercato i propri titoli a tassi di interesse elevatissimi aggravando, così, il peso del debito pubblico. Il pagamento degli interessi rappresentava ancora nel 1993 il 12% del Pil. Il debito pubblico aveva raggiunto, alla fine del 1994, il picco più alto pari a ben il 123% del Pil. In un clima di forti tensioni interne ed internazionali con il rischio di dover affrontare un’altra svalutazione vennero introdotte alcune misure di carattere congiunturale. Venne varata una manovra fiscale molto restrittiva con: - tagli alla spesa pubblica, - introduzione di nuove imposte, - blocco delle pensioni di anzianità I primi anni 90 sono stati caratterizzati anche dall’introduzione di importanti riforme strutturali: - venne definitivamente abolita la scala mobile per eliminare una importante componente dell’inflazione - vennero attuate alcune importanti privatizzazioni di imprese pubbliche. - vennero ridotte in modo permanente alcune voci di spesa pubblica come quella relative al sistema pensionistico Carlo Azeglio Ciampi, succeduto ad Amato nell’aprile del 1993, riuscì a concludere un patto con le parti sociali per stabilire nuove relazioni industriali e confermare la fine della scala mobile. Questo accordo permise di avviare una nuova politica dei redditi basata sulla «concertazione». Il cosiddetto «patto per il lavoro» contribuì a modificare la distribuzione funzionale del reddito a favore dei profitti. Gli investimenti ricominciarono ad essere una delle componenti importanti della crescita. Questi, tuttavia, furono diretti più a ricostituire la capacità produttiva che a stimolare spese in innovazione, ricerca e sviluppo. Già a partire dal 1994 l’andamento dell’economia risultò migliore di quello sperimentato in molti altri paesi europei. Come conseguenza degli effetti positivi della svalutazione, la bilancia dei pagamenti registrò un avanzo delle partite correnti di circa il 2 per cento del Pil. Nel periodo successivo, invece, si verificò un rallentamento nella crescita sia del PIL sia del Pil pro capite. Il rallentamento divenne particolarmente significativo verso la fine del decennio con la lira ormai nell’euro. La crescita del risparmio, la riduzione dei consumi, l’elevata concentrazione nella distribuzione personale del reddito, crescente a partire dal 1993, aveva certamente contribuito al rallentamento della crescita. L’entrata della lira nell’euro nel 1999 e le politiche preparatorie rese necessarie per il conseguimento di questo risultato hanno prodotto effetti positivi dal punto di vista degli equilibri macroeconomici. Un vincolo istituzionale come il «patto di stabilità» dell’Europa post-Maastricht e le regole di finanza pubblica che vi si accompagnano aveva sostituito, nella seconda metà degli anni 90, il vincolo di mercato dei primi anni 90, e cioè il rischio incombente di una crisi monetaria. Molto meno positivi sono stati invece gli effetti di lungo periodo in termini di dinamica della produzione. Le imprese italiane, dall’inizio degli anni ‘90, avevano perso progressivamente quote di mercato a livello internazionale a causa dei prezzi elevati e delle caratteristiche della composizione merceologica delle esportazioni. La crescita dei prezzi delle esportazioni era continuata anche dopo la rivalutazione della lira verificatesi a partire dal 1995. La politica di privatizzazione delle imprese pubbliche avviata negli anni ’80 non aveva prodotto risultati apprezzabili in termini di rafforzamento delle strutture portanti del nostro sistema produttivo. Nel 1992 venne quindi predisposto un ulteriore piano di privatizzazioni. Da una parte si intendeva aumentare efficienza e redditività delle imprese, dall’altra incrementare le entrate per ridurre l’indebitamento dello Stato. I risultati in termini di efficienza, di stimolo alla concorrenza e di diversificazione dei titoli scambiati sul mercato finanziario furono tuttavia inferiori alle aspettative. Posizioni oligopolistiche (quando non addirittura monopolistiche) pubbliche vennero sostituite da posizioni di natura privatistica, ma altrettanto protette. Molte imprese privatizzate operavano, infatti, nei settori bancario, delle telecomunicazioni e dell’energia, settori tutti al riparo dalla concorrenza internazionale.