Analisi dei testi
Analisi del sonetto A Zacinto
Il sonetto A Zacinto
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto
giacque,
Zacinto mia, che te specchi
nell'onde
del greco mar da cui vergine
nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non
tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
Le caratteristiche sintattiche (1)
Il primo e più vistoso carattere di questo
componimento foscoliano è costituito
dalla differenza con il sonetto delle
tradizione italiana che è una lirica
segmentata, di contro A Zacinto
presenta un monoblocco sintattico di
ben undici versi.
Le caratteristiche sintattiche (2)
Grazie all'abile uso sintattico di ben sette segni funzionali («ove», «che», «da
cui», «e», «onde», «che», «per cui») costruisce un discorso lirico
continuato che infrange le consuete pause versali, inventando inediti
rallentamenti e pause che assecondano lo svolgersi di nuclei tematici
conclusi nello spazio per lo più di due versi, l'un l'altro incatenati.
e sacre sponde
Ove
il mio corpo
Zacinto mia
Che
te specchi nell'onde
Venere
E
fea quell'isole
Col suo primo sorriso
Onde
non tacque
L'inclito verso
di colui che
l'acque
esiglio
Per cui
bello di fama
Le caratteristiche sintattiche (3)
Costanti dilazioni sia dell'oggetto (a) sia dei soggetti grammaticali (b) conferiscono
unità all'intero pezzo:
a) Ove il mio corpo fanciulletto giacque —> Zacinto mia
Tu non altro che il canto avrai del figlio —> O materna mia terra
b) Del greco mar da cui vergine nacque —> Venere
a noi prescrisse —> Il fato
Dilazioni dinamiche che culminano spettacolarmente proprio nella struttura
dell'ultimo, e stilisticamente più assertivo verso:
Baciò la sua petrosa Itaca —> Ulisse
ove è da notare e l'enjambement di «Baciò» (in armonia con «Cantò», e quindi
coesivo nei confronti della terzina 9-11, ma contrastivo in riferimento agli altri
verbi delle quartine precedenti che invece compaiono alla fine del verso) e la
posizione finale del soggetto «Ulisse», sospinto in estremo per espressività
affettiva ed per faticoso anelante viaggio. L'enjambement dinamico proseguiva,
cambiando tipo, con la forte separazione del verbo:
colui che l'acque —> Cantò
bello di fama e di sventura —> Baciò.
Le caratteristiche metriche
Anche Io schema ritmico
elude continuamente un
modello regolare, simmetrico
e formalizzato, per attuare
uno slancio di genere
prosastico:
Da notare anche che l'ultima terzina assume un carattere più
assertivo, con una sorta di solenne indugio in
a noi prescrisse / Il fato
infatti l'ultimo verso presenta non quattro accenti semantici ma tre e
dà così l'impressione di una rottura dell'ordine lirico, di una precipitosa
conclusione quasi prosastica, commossa e drammatica.
La struttura logica (1)
Osservando la struttura logica del racconto, possiamo fissarne i
valori nella seguente tavola:
La struttura logica (2)
Sono da osservare altre spie formali circa la ripartizione interna del
sonetto. Si vedano i concetti espressi dal primo verso:
Né più mai toccherò le sacre sponde
dall'undicesimo, ultimo della oratio perpetua:
Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse
e dall'ultimo del sonetto, il quattordicesimo (che citiamo con la sua
premessa grammaticale):
a noi prescrisse / Il fato illacrimata sepoltura.
E si osservi che, nel nostro ordine, il primo e il secondo son versi
antinomici, e che il terzo richiama tautologicamente il primo. Dal che
si ricava non solo un riscontro della compattezza del primo blocco del
sonetto ma anche l'unità formale dell’intero sonetto nella sua perfetta
circolarità; mostrando, fra l'altro, una netta non progressione di senso,
una sua fissità sull'asse delle equivalenze (sinonimiche e antinomiche).
L’interpretazione
La curva declamatoria, nella sua sinuosità sintattica, diviene
omologa dell'errare dei due eroi del sonetto, Foscolo e Ulisse,
e la struttura circolare è anch'essa una omologia del ritorno
(reale/ideale) dei due esuli al punto di partenza (Zante/Itaca).
In questo senso si profila subito l'antinomia fondamentale.
L'equivalenza:
IO-POETA-FOSCOLO≈ULISSE
si stabilisce contemporaneamente e sul piano sinonimico e su
quello antinomico.
Lo rivelano appunto il primo e l'ultimo verso della prima parte
compatta del sonetto:
v. 1 IO-POETA-FOSCOLO «più mai toccherò» ZANTE
v. 11 ULISSE
«baciò»
ITACA
Foscolo e Ulisse
Nella serie sottaciuta delle avversità si legge il 'viaggio'
dell'ulisside moderno. Si tratta di due peregrinazioni
fatali con esito diverso: dacché a Ulisse gli dèi
concessero il ritorno, mentre al Foscolo lo negarono.
Per la filologia «diverso [esiglio]» risponde al codice
classico di diversus = 'che va in direzioni diverse‘.
L'impossibile ritorno reale del Foscolo sollecita la fantasia
ad immaginare, a mo' di compensazione, un altro
genere di ritorno, ideale, il ritorno del 'canto‘. Itaca
riebbe il suo Ulisse, ma
«Tu non altro che il canto avrai del figlio / O materna mia terra».
Foscolo e Omero
«Tu non altro che il canto avrai del figlio / O materna mia terra».
E qui la iterazione del verbo 'cantare':
L'inclito verso di colui che l'acque / Cantò fatali
Tu non altro che il canto avrai del figlio
allaccia un altro rapporto, meno evidente:
FOSCOLO ≈ OMERO
per cui scatta l'altra antinomia parallelistica:
- Omero cantò l'esilio di Ulisse e il suo ritorno
- Foscolo canta il proprio esilio e il proprio non-ritorno
antinomia acuita emozionalmente dal senso dominante del destino:
l'acque / Cantò fatali
a noi prescrisse / Il fato
Codici classico e romantico
L' ‘idea dell'acqua' è centrale nella simbologia del sonetto, e già qui la
locuzione violentemente sovvertitrice dell'ordine sintattico
l'acque Cantò fatali
lega, mediante una sorta di enfatico bilanciamento, il sèma 'mare' con
quello di 'fatalità'. Le acque del mare Ionio furono fatali: ma con
diversità di fato per i due eroi.
L'idea della fatalità che ci porta a leggere il sonetto sul doppio registro
del 'codice classico' e del 'codice romantico':
CODICE CLASSICO: l'errore di Ulisse in quelle acque fatali era
predestinato, ma con esito felice. L'eroe classico, positivo, conclude
felicemente le proprie imprese. Fato amico.
CODICE ROMANTICO: l'errore del Foscolo in quelle acque fatali era
predestinato, ma con esito infelice. L'eroe romantico, negativo, non
conclude felicemente le proprie imprese. Fato nemico.
Eroi romantici
Tale fato decreta — per gli eroi romantici — di morire lontano, in terre
sconosciute («illacrimata sepoltura»), a distruggersi nell'infinito — come la
navicella di Shelley, su cui tanto sognarono le anime del tempo. Esclamava
Jacopo Ortis: «Io traversava il Po e rimirava le immense sue acque, e più
volte fui per precipitarmi, e profondarmi, e perdermi per sempre».
È pure un cliché tardo-settecentesco il vagheggiare tombe lontane, rustiche,
umili, non segnate da steli, non bagnate da lacrime pietose. L'idea della
«illacrimata sepoltura» è un topos. In Inghilterra se ne ha una comparsa
illustre nella famosa Ode on Solitude di Alexander Pope. Motivo che permea
anche l'Elegy Written in a Country Churchyard di Thomas Gray (che Foscolo
conosceva bene) e che pervade tutto l'Ottocento vittimista.
Dei viaggi romantici, erratici, senza approdo, quali rappresentazioni dello
sconforto morale, della frustrazione politica e della solitudine sociale è forse
superfluo parlare. Foscolo insisteva apertamente su questi temi dell'esilio e
del viaggio verso la tomba, sia negli altri sonetti che, spessissimo, nell'Ortis.
Il personaggio ortisiano è l'eroe che non sa riconoscere un senso alla vita, e
perciò desidera la propria distruzione come soluzione ultima e inevitabile.
Zacinto e Venere
Due enjambements congiungono materialmente
ZACINTO≈VENERE
Ove il mio corpo fanciulletto giacque --> Zacinto mia ,
Del greco mar da cui vergine nacque --> Venere.
Inoltre i due concetti vengono strettamente collegati dall'idea del
`rispecchiamento', rinforzata da un'abile omologia:
che te specchi nell'onde
ove il pronome oggetto diviene come l'immagine riflessa del
pronome soggetto (che/te).
L'immagine di Zacinto è dentro alle acque del greco mar da cui
vergine nacque Venere. In altri termini, Zacinto partecipa della
stessa sostanza che generò la dea ; ha praticamente la stessa
genesi: sorse dal mare.
Equivalenze semantiche
Il campo semantico che sottende il tutto è una serie di
equivalenze:
ZACINTO = VENERE;
VENERE = FECONDITÀ («e fea quelle isole feconde»);
VENERE = NATURA (la dea era adorata col nome di Natura — cfr.
Foscolo stesso nell'Inno I delle Grazie: «Una Diva scorrea lungo
il creato / A fecondarlo, e di Natura avea / L'austero nome»);
ZACINTO = MADRE (« O materna mia terra »);
GREMBO MATERNO («Ove il mio corpo fanciulletto giacque»,
«Ebbi in quel mar la culla»).
La Grande Madre
Per cui DIAMANTINA SPATHIS, ZACINTO e VENERE divengono, in
una poetica simbiosi, la GRANDE MADRE del Foscolo
Visto, poi, nella prospettiva nostalgica del passato felice e
irrecuperabile, il complesso semico
DIAMANTINA = ZACINTO = VENERE
si inscrive nell'idea archetipica del 'Paradiso perduto' (non biblico
ma mitico-classico ). Per cui le opposizioni semiche
fondamentali risultano :
MATERNITÀ-POESIA
RIPOSO EUFORICO
(«Ove il mio corpo
fanciulletto giacque»)
VS
VS
ESISTENZA-NON MITICA
RIPOSO DISFORICO
(«illacrimata sepoltura»)
Il giacere
Con l’equivalenza si pongono in rapporto i due termini del viaggio
esistenziale: l'inizio, come grembo materno; la fine come grembo
ctonio (chi sa se quel «petrosa» dell'Itaca di Ulisse come termine del
viaggio esistenziale di Ulisse stesso).
Peraltro il verbo «giacque» sembra portare con sé il desiderio di un
altro 'giacersi', distante di un'intera vita tormentosa da quello del
pargolo. Il ritorno all'isola natale sarebbe, per 'regressione', un
ritorno al grembo materno, e quindi alla felicità prima, fonte anche
del mito e della poesia.
Allora le sponde son «sacre» non solo perché Venere aveva consacrato
col suo corpo le acque ionie, le quali, a loro volta, rendevano sacre
le sponde che bagnavano; ma anche perché erano, per il poeta,
sacre com'è il corpo materno («materna mia terra»), e in aggiunta
divine, perché Zante è Venere, oltre che la madre naturale.
Il centro propulsore: l’acqua
L'idea centrale del sonetto è quella dell' 'acqua'; immagine
importante, essendo il luogo della 'fertilità' e dell' 'esilio'. Molti
lessemi del componimento hanno a che fare con l’acqua
- direttamente: onde — mar — acque
- metonimicamente: sponde — Zacinto — Venere — sole — Itaca
- peculiarmente: specchi — limpide
L'acqua è, nella tematica antropologica, portatrice di vita; è
strettamente connessa con l'idea della maternità. Tutto ha
origine dalle acque. Il mare Ionio ha generato Zacinto, Venere, i
fantasmi poetici greci, Diamantina Spathis, e poi Foscolo.
E l'acqua è anche inizio della vita, e perciò della errabonda curva
dell'esistenza, e della fatalità. La morte non può allora essere che
privazione di acqua («petrosa Itaca», «illacrimata sepoltura»).
Gli archetipi
L’archetipo acqua
L’archetipo dominante in questa poesia è l'acqua. Come mare, è
lo spazio aperto ed euforico (proiettato nel passato e
nell'infanzia) in cui si specchia l'isola-madre e luogo della
nascita di Venere, che, pur "vergine", feconda le isole — si
ricordi il valore maschile del verbo nel dominio del padre —
"col suo primo sorriso", il quale, si direbbe, sostituisce il
carattere penico dei raggi solari.
La divinità sembra assommare in sé qualità materne e paterne
proprie dei Numi; come astro sorge dal mare, fra le tenebre,
ricongiungendosi al sole in All'amica risanata: «Qual dagli
antri marini / l'astro più caro a Venere / co' rugiadosi crini / fra
le fuggenti tenebre / appare, e il suo viaggio / orna col lume
dell'eterno raggio…» (vv. 1-6).
Ambivalenza dell’archetipo ‘acqua’
La sfera euforica della terra, del mare e del cielo compone un
quadro di incontaminata bellezza e castità che si proietta in
una lontana temporalità mitica, donde il canto di Omero,
poeta di questa infanzia dell'universo ma anche cantore delle
«acque fatali» dell’esilio di Ulisse.
Creata la distanza mitica dal presente, il ricordo di Ulisse sembra
riportare il racconto dal mito al dramma, perennemente
attuale, dell'esule perseguitato dal destino. E lo stesso
archetipo dell'acqua, prima compartecipe dei semi di /
fecondità /, / bellezza / e / felicità /, diventa contiguo al senso
negativo che prolifera nella "fatalità", nell' 'esiglio', nella
"sventura" e persino in quella « petrosa Itaca » che, sterile e
infeconda, attesterebbe l'impossibilità o la negatività del
ricongiungimento con la madre.
Aridità
Anche la tomba (l'«illacrimata sepoltura») è vista in una aridità
sconsolata che conferma, nell'immaginario foscoliano, l'estrema
solitudine di chi è dimenticato:
«ma la sua polve / lascia alle ortiche di deserta gleba / ove né
donna innamorata preghi, / né passeggier solingo oda il sospiro
/ che dal tumulo a noi manda Natura» (Sepolcri, vv. 46-50);
«Ahi! su gli estinti / non sorge fiore, ove non sia d'umane / lodi
onorato e d'amoroso pianto» (Sepolcri, vv. 88-90).
Aridità della natura, aridità di lacrime e di sentimenti: deserto e
solitudine, polvere, pietrame, squallore, privazione di fiori, di
alberi odorosi, di consolanti « molle ombre » (Sepolcri, vv. 3940).
Presenza-Assenza dell’archetipo
L'archetipo "acqua", nel suo valore negativo, come privazione e
assenza, connota in forme quasi allucinatorie un'angoscia più
atroce della morte stessa. L'exemplum orroroso è la dimenticata
tomba del Parini: «Indarno / sul tuo poeta, o Dea, preghi
rugiade / dalla squallida notte» (Sepolcri, vv. 86-89).
Gli investimenti figurativi degli archetipi sono, dunque,
assai mobili e uno stesso significante può coprire
diversi significati o richiamare, in absentia, il valore
opposto. Il senso può occultarsi e sprofondare nel
rimosso per riaffiorare solo simbolicamente e
allusivamente.
Fecondità e aridità
L'archetipo "acqua" assume nella poesia un notevole
rilievo, ma non perché veicola il solo significato di
fecondità.
Sacralità del mare e delle feconde isole greche, sì, ma
anche fatalità di quelle stesse acque, per Ulisse, e
aridità della petrosa Itaca. Così il corpo «fanciulletto»
può essere avvicinato alla «vergine» Venere solo
nella sfera dell'infanzia mitica, preadulta; ma quello
stesso corpo giacerà disforicamente (proiettato nel
futuro) in terra illacrimata e ipso facto (si ricordino i
versi citati dei Sepolcri) squallida e infeconda.
Gli archetipi ‘terra’ e ‘fuoco’
Non è vero che sia propria dell'archetipo "terra" una
connotazione sempre e solo creativa. Come abbiamo
visto, è anzi peculiare di questo archetipo tipicamente
materno abbracciare entrambi i significati estremi: la
vita e la morte, la fecondità e l'aridità, l'abbondanza e
la privazione di acqua. La stessa ambivalenza, per
altro, caratterizza l'archetipo "fuoco" (sole), se questo
principio vitale può dare la morte per eccesso di
arsione e conseguente inaridimento. Anche l'acqua,
fonte primigenia dell'esistenza, può risultare «fatale»:
si ricordi anche «l'onda incitata dagli inferni dèi» che
priva Ulisse delle armi di Achille (Sepolcri, v. 218 ss.).
L’archetipo ‘aria’
L'archetipo "aria“ compare al centro nella figurazione del cielo,
anzi (metonimicamente) delle «limpide nubi»: l'aggettivo
sembra spostato in alto dal suo più usuale riferimento
all'acqua. Il che conferma la contiguità semica fra «sponde»
(«sacre»), «onde» e «fronde» e «limpide nubi»: o se si vuole,
l'osmosi di senso fra gli archetipi "acqua-terra-aria" nel
richiamo mitico-estatico a Venere, e cioè ai valori primigenii di
bellezza e di creatività.
In un identico nesso archetipico e tematico leggiamo in All'amica
risanata :
Ebbi in quel mar la culla [...] / Ond'io, pien del nativo / aer sacro...
dove il dono della poesia (somma creatività) è attinto alla sacralità
di quel mare e di quell'aere, signoreggiati da Venere.
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