Menadi “E’ cosa dolce su nei monti, quando nei tiasi in corsa si cade al suolo, con indosso la sacra pelle di cerbiatto, a caccia del sangue del capro ucciso, e il piacere di mangiare carne cruda” (Baccanti, Eurupide. Vv 135-139Trad. V. Di Benedetto) William Adolphe Bourguereau, The Youth of Bacchus, 1884 Le Menadi erano le seguaci del dio Dioniso. Vestite di pelli animali, con corone d’edera, quercia o abete, danzavano e cantavano vagando per i monti e agitando il tirso (lungo bastone, ricavato da alberi sacri al dio, con una pigna in cima, coronato di edera e di pampini). Le Menadi si riunivano per celebrare il dio lontano dalle case, in luoghi immersi nella natura, con danze estatiche, musiche e tutto ciò che poteva condurre all’”enthousiasmòs” (essere pieni del dio). Le Menadi nell’arte e nella letteratura (Villa dei Misteri, Pompei) La Menade Danzante è la statua più celebre di Skopas e risalente al 330 a.C. ca. L'agitazione che pervade tutta la figura viene resa dall'impetuosa torsione che, dalla gamba sinistra, passa per il busto e il collo sino alla testa, gettata all'indietro e girata, a seguire lo sguardo, verso sinistra; il volto è pieno, bocca naso e occhi sono ravvicinati, questi ultimi schiacciati contro le forti arcate orbitali per conferire maggiore intensità all'espressione. Il totale abbandonarsi del corpo alla passione è sottolineato anche dalla massa scomposta dei capelli, dall'arioso movimento del chitone che,stretto da una cintura appena sopra la vita, si spalanca nel vortice della danza, lasciando scoperto il fianco sinistro, e dal forte contrasto chiaroscurale tra panneggi e capigliatura da una parte e superfici nude dall'altra. Vaso Borghese (conservato nel museo del Louvre) vaso di marmo del I sec. a.C... (altezza 1,72, inclusa la base moderna, diam.1,35) Vaso Borghese, da una incisione del Piranesi raccolta in Vasi, Candelabri, Cippi, 1778 Vaso Borghese Dioniso, Arianna e giovane satiro danzante “Ed ecco le Baccanti, coi capelli sparsi dietro le spalle, ed ecco i Satiri venir leggeri ad annunziare il dio…” (Ovidio, Ars Amatoria I; vv.811-813) Vaso di Sosibios (conservato nel museo del Louvre) vaso in marmo, attribuito al poco conosciuto scultore greco, Sosibios, che lavorò a Roma Risale circa al 50 a.C. “…No, no, nessun indugio, venite tutte, seguitemi alla casa frigia di Cibele, alle sue foreste, dove rombano i tamburi, dove squillano i cembali, dove risuonano cupe le melodie del flauto, dove, cinte d’edera, si dimenano le Menadi, dove con acute grida si celebrano i riti, dove svolazza l’orda vagabonda della dea: là con le nostre danze impetuose dobbiamo andare. (Catullo, Carmina 63) Dioniso e Arianna Cratere in bronzo dorato, dalla tomba b di Derveni. Sul ventre è la scena delle nozze di Dioniso e Arianna fra le danze sfrenate di Satiri e Menadi. Osserviamo il bellissimo corpo nudo del dio seduto su una roccia a lato della quale c’è una pantera; Arianna, avvolta in un peplo con un gesto simbolico scosta il velo nuziale e si offre allo sposo che poggia una gamba sulla sua. Attorno impazza la festa, con le Menadi rapite nell’estasi della danza e i Satiri eccitati dall’ondeggiare frenetico delle seguaci di Dioniso. Osserviamo anche la splendida figurina plastica di Menade seduta sulla spalla del vaso: è raffigurata teneramente assopita, il volto appena velato dalla malinconia della festa finita o dalla stanchezza. (Salonicco, Archeologhikò Mousìo) Bacco e Arianna di Tiziano (Londra, National Gallery) Realizzato tra il 1520 ed il 1523 La tela appartiene a un ciclo di quattro dipinti commissionato dal duca Alfonso I per il suo studio privato nel castello estense, chiamato “camerino d’alabastro”, oggi perduto. La composizione è divisa in due triangoli, uno azzurro lapislazzulo, in cui sono contenuti anche gli amanti, l'altro verde-marrone, con il seguito di baccanti e satiri. Qui Tiziano, rappresentando Bacco con il suo corteo danzante ed esotico (il carro trainato da leopardi, le menadi e i satiri, Laocoonte con i serpenti), esalta la dimensione dionisiaca come liberazione dagli affanni del mondo e della storia. "...Insieme a lui (Iacco), in preda al delirio, si dimenano le menadi, gridando frementi Eu-hoè, agitando la testa. C'è chi scuote i pampini dei tirsi, chi brandisce un vitello fatto a pezzi, chi si attorciglia sulla testa serpenti, chi inneggia agli oggetti del culto nascosti nel mistero delle ceste che gli estranei non profanano. Agitano le mani, battono i tamburi, stridono i cembali, e rimbombano i corni, lacerante sibila il flauto..." (Catullo, Carmina, 64) Baccanale (Gli Andrii) di Tiziano (Madrid, Museo Nacional del Prado) Realizzato tra il 1522 e il 1524 Il dipinto fu realizzato per ornare, insieme alla Festa degli Amori e al Bacco e Arianna, lo studiolo privato del duca di Ferrara Alfonso I d’Este. Tiziano deve attenersi ad un preciso programma iconografico che descrive Dioniso mentre giunge per mare all’isola di Andros, dove lo attendono, ebbri di vino, gli abitanti. La vicenda dionisiaca è intesa come l’occasione della liberazione dagli affanni del mondo e della storia. Durante il festino, l’acqua del torrente si trasforma in vino, e gli abitanti di Andros si abbandonano ai piaceri delle libagioni, della danza, della musica pastorale e dell’erotismo, incarnato dall’appagata ninfa-baccante immersa nel sonno, sulla destra del dipinto. Tiziano non rinuncia, però, a inserire un elemento di riflessione moraleggiante: in cima alla collina giace infatti il vecchio stremato, simbolo della caducità dell’idillio pastorale. Trionfo di Bacco e Arianna di Annibale Carracci (Roma, Palazzo Farnese) Realizzato tra il 1597 e il 1600 Affresco a soggetto mitologico che rappresenta un corteo nuziale, con i due sposi Bacco e Arianna - seduti su due carri, uno dei quali è dorato e trainato da due tigri, l'altro argentato trainato da due arieti. Avanzano accompagnati da figure danzanti, che recano strumenti musicali, stoviglie e ceste con le cibarie. Sebbene l'artista abbia cercato di dare un'impronta classica al dipinto, esso appare frutto di una libera e inesauribile fantasia. La struttura complessiva di tutta la galleria di cui fa parte il dipinto riprende chiaramente la Cappella Sistina di Michelangelo: le figure nude manifestano una conoscenza approfondita della statuaria classica, le forme sono ampie e monumentali, ben proporzionate ed armoniose. Tutti gli elementi della decorazione sono realizzati in modo da ottenere un effetto simile alla realtà. Mentre con questo canto il poeta di Tracia ammaliava le selve, E dei serpenti, delle fiere che erano vanto del suo trionfo. L’animo delle fiere, e a sé attirava le pietre, Poi con le mani grondanti di sangue, contro lui si volsero, Ecco che le donne dei Ciconi in delirio, col petto coperto Accalcandosi come uccelli che avvistano un rapace notturno Di pelli selvatiche, scorgono Orfeo,dall’alto di un colle, Disorientato dalla luce; e il poeta pareva il cervo Che accompagnava il suo canto col suono delle corde. Condannato a morire all’alba nell’arena, preda E una di loro, scuotendo i capelli alla brezza leggera, Dei cani che l’assediano sul campo. Nel loro assalto gli Gridò:”Eccolo, eccolo, colui che ci disprezza!” e scagliò il tirso scagliano Contro la bocca melodiosa del cantore di Apollo, ma il tirso, Contro i tirsi, virgulti di foglie non certo creati per questo. Fasciato di frasche, gli fece appena un livido, senza ferirlo. Alcune lanciano zolle , altre rami divelti dagli alberi, Un’altra lancia una pietra, ma questa, mentre ancora vola, Altre ancora pietre, e perché armi al loro furore non È vinta dall’armonia della voce e della lira, mancassero, E gli cade davanti ai piedi, quasi a implorare perdono Alcuni buoi, col vomere affondato, arano lì quella terra, Per quel suo forsennato ardire. Ma ormai la guerra si fa E non lontano, preparandosi con molto sudore il raccolto, furibonda, Muscolosi contadini vangavano le dure zolle; Divampa sfrenata e su tutto regna una furia insensata. Alla vista di quell’orda, costoro fuggirono abbandonando Il canto avrebbe potuto ammansire le armi, ma il clamore I loro attrezzi: disseminati sui campi deserti rimasero Smisurato, i flauti di Frigia uniti al corno grave, Così sarchielli, rastrelli pesanti e lunghe zappe. I timpani, gli strepiti e l’urlo delle Baccanti Quelle forsennate se ne impossessarono e, fatti a pezzi i buoi, Sommersero il suono della cetra. E così alla fine i sassi Che le minacciavano con le corna, si gettarono a finire Si arrossarono del sangue del poeta, che non si udiva più. Il poeta che, tendendo le braccia, per la prima volta Per prima cosa le Menadi fecero strage di tutti Parlava al vento e nulla, nulla più ammaliava con la sua voce: Gli innumerevoli uccelli, ancora incantati dal canto di Orfeo, Come le scellerate lo massacrarono, e da quella bocca, o Giove, Ascoltava persino dai sassi e intesa dai sensi delle fiere, Con l’ultimo respiro , l’anima si disperse nel vento. (Ovidio _ Le Metamorfosi _ Libro Undicesimo) Classe IV D a.s. 2008-2009 prof.ssa Paola Grossi Dorinda Caccioppo Rosanna Poli