LO SVILUPPO
SOSTENIBILE
A cura di :
Barra Michael
Mantovani Fabrizio
INDICE:
-DEFINIZIONE
-LA MODERNIZZAZIONE IN
AGRICOLTURA
-IMPATTO AMBIENTALE
DELL’AGRICOLTURA SOSTENIBILE
-PERICOLI E OSTACOLI
DEFINIZIONE
Lo sviluppo sostenibile è un modello di sviluppo in cui la crescita economica e sociale viene
perseguita entro i limiti delle possibilità ecologiche del pianeta, senza compromettere
l’integrità degli ecosistemi e la loro capacità di soddisfare i bisogni delle generazioni future. In
pratica, lo sviluppo sostenibile si fonda su uno sfruttamento e su una gestione razionali delle
risorse, in modo da soddisfare adeguatamente i bisogni fondamentali dell’umanità (cibo,
vestiario, casa e lavoro). Ciò implica il tenere, innanzitutto, in considerazione le condizioni di
fame e miseria in cui versano le popolazioni delle aree più povere del pianeta, poiché un
mondo con aree di povertà endemica è sempre a rischio di gravi catastrofi ecologiche. L’idea
di uno sviluppo senza limiti è un’ipotesi illusoria e scarsamente realista, che si scontra con
ostacoli di natura tecnica, sociale, nonché con la capacità dell’ambiente di sopportare uno
sfruttamento incontrollato e indiscriminato delle risorse. I modelli di sviluppo sostenibile non
vogliono fermare la crescita e il progresso sociale e tecnologico del pianeta, ma cercano
soluzioni per utilizzare le risorse umane e tecnologiche in modo da tenere anche conto di
fattori quali la capacità di carico e l’impatto ambientale, l’esauribilità e l’equa ripartizione
delle risorse, nonché il diritto di ogni essere umano di soddisfare i propri bisogni primari e di
poter godere di una qualità della vita dignitosa. Si tratta, in sostanza, di passare da una politica
di crescita indiscriminata a una politica di maggiore equilibrio e rispetto.
Negli anni Settanta e Ottanta ci si è per la prima volta resi conto che, in nome del cosiddetto
“sviluppo”, l’umanità stava dissipando e progressivamente esaurendo le risorse ambientali
del pianeta e che gli squilibri prodotti da uno sviluppo scarsamente pianificato e controllato
stavano producendo effetti negativi sull’atmosfera, sul suolo, sulle acque e sugli ecosistemi,
danneggiandoli, a volte, in modo irreparabile. Si è, inoltre, riconosciuto che le dimensioni
dei cambiamenti provocati da tali fattori erano tali da rendere estremamente difficile sia il
reperimento di una soluzione efficace del problema, sia il tentare di frenare i processi di
degrado. Purtroppo, questi problemi attanagliano ancora oggi la società umana e continuano
a costituire una pesante ipoteca sul futuro del pianeta.
Tra i problemi ambientali considerati più gravi vi sono: un cambiamento climatico che sta
progressivamente portando a un riscaldamento globale dell’atmosfera, dovuto al cosiddetto
effetto serra; l’assottigliamento dell’ozonosfera che protegge il pianeta dalle nocive
radiazioni ultraviolette del Sole, a causa dell’azione di particolari composti sintetici del
cloro e del fluoro, chiamati clorofluorocarburi (CFC); il degrado del suolo e l’inquinamento
delle acque, dovuti agli scarichi industriali e al dilavamento delle sostanze chimiche
utilizzate in agricoltura; la rapida distruzione del patrimonio forestale del pianeta, operato,
soprattutto nelle regioni tropicali, per ricavare legname e fare spazio a coltivazioni agricole
(vedi Deforestazione); l’estinzione di un numero crescente di specie, sia animali, sia
vegetali, a causa della distruzione degli habitat naturali, della diffusione di tecniche
colturali intensive e dell’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche naturali; infine,
l’inquinamento atmosferico, dovuto soprattutto all’immissione nell’atmosfera di gas tossici
da parte dei veicoli a motore e degli impianti di riscaldamento.
Alla fine del 1983, l’allora segretario generale delle Nazioni Unite incaricò l’allora primo
ministro norvegese di istituire una commissione indipendente, che si occupasse di esaminare
la questione dei limiti di sviluppo sostenibili e di trovare una possibile soluzione al problema
del soddisfacimento dei bisogni primari, per una popolazione mondiale in accrescimento
costante. La commissione (composta da ministri, scienziati, diplomatici e legislatori) tenne,
per ben tre anni consecutivi, una serie di udienze in tutti i continenti. Incaricata di stilare una
sorta di “agenda” programmatica, al termine del suo mandato la commissione evidenziò tre
priorità assolute: riesaminare le più urgenti questioni ambientali e di sviluppo e formulare
proposte realistiche per affrontarle adeguatamente; creare nuove forme di cooperazione
internazionale per poter fronteggiare a livello globale ogni specifico problema e proporre
soluzioni, volte a incentivare un’inversione di tendenza, influendo anche sulle politiche
locali; elevare il livello di coscienza e di educazione ambientale del personale politicoamministrativo e dei cittadini e richiedere un maggiore impegno e una maggiore
partecipazione attiva da parte di tutti (individui, associazioni di volontariato, industrie,
istituzioni, enti e governi). Queste priorità e altre considerazioni di ordine generale vennero
descritte in un dettagliato rapporto, sottoposto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
nell’autunno del 1987. Il rapporto presentava due possibili scenari, risultanti da due
differenti modelli di sviluppo. In uno, l’umanità, dopo avere continuato a sfruttare
indiscriminatamente le risorse e il patrimonio ambientale del pianeta, si sarebbe trovata ad
affrontare una catastrofica crisi ambientale. L’altro scenario, più roseo, sarebbe stato il
risultato di scelte e politiche diverse, volte a gestire le risorse in modo più razionale e meno
forsennato e, di conseguenza, a ridurre il divario economico tra i paesi industrializzati e
quelli più poveri.
Questo divario è alla base di molti importanti problemi ambientali e costituisce il nodo
centrale di ogni politica di sviluppo. Risultò, quindi, evidente la necessità di
un’integrazione delle politiche economiche di sviluppo con le considerazioni sul loro
impatto ambientale, comportando una riforma radicale e globale dei processi decisionali.
Sull’onda dei timori suscitati da questo rapporto, nel 1992 le Nazioni Unite organizzarono a
Rio de Janeiro una conferenza mondiale su ambiente e sviluppo che vide la presenza di 178
governi e 120 capi di Stato. Scopo della conferenza era quello di individuare strategie
praticabili ed efficaci per riuscire a conciliare le esigenze dei paesi poveri e quelle dei paesi
industrializzati. Nel corso della conferenza furono approvate una serie di convenzioni su
alcuni specifici problemi ambientali (clima, biodiversità e tutela delle foreste), nonché la
“Carta della Terra”, in cui venivano indicate alcune direttive su cui fondare nuove politiche
economiche maggiormente equilibrate, e il documento finale “Agenda XXI”, una
piattaforma programmatica sull’applicazione di queste direttive.
Il successo della conferenza fu, tuttavia, in parte compromesso dal rifiuto di alcuni governi
di approvare le scadenze e gli obiettivi proposti dall’assemblea (ad esempio il contenimento
delle emissioni di gas serra), di sottoscrivere alcune importanti convenzioni (ad esempio
quella sulla biodiversità, opposta da alcuni rappresentanti delle industrie biotecnologiche
dei paesi industrializzati) e di giungere a un accordo per la stesura di un piano d’azione
vincolante (ad esempio, per la tutela del patrimonio forestale mondiale). Inoltre, nonostante
le dichiarazioni di principio, la piattaforma programmatica contenuta nell’"Agenda XXI",
pur toccando nei suoi 41 capitoli tutte le questioni legate a un progetto di sviluppo
sostenibile, è ancora oggi priva di finanziamenti adeguati, indispensabili alla sua
applicazione.
Ciononostante, la conferenza di Rio è comunque riuscita ad aumentare la sensibilità della
società civile e delle alte sfere politiche nei confronti dei problemi dell’ambiente, tanto che
oggi nessun politico ometterebbe dal suo programma elettorale un capitolo sui problemi
ambientali. Inoltre, alcuni concetti-chiave dei modelli di sviluppo sostenibile sono
diventati, almeno a parole, leitmotiv dei pensieri e degli argomenti di conversazione di
molti cittadini. Tra questi vi è il fatto che: lo sviluppo economico dei paesi più poveri è
vincolato a una più equa ripartizione delle risorse; i sistemi politici devono essere
strutturati in modo tale da garantire la reale partecipazione dei cittadini ai processi
decisionali dei temi che toccano direttamente le loro condizioni di vita; nei paesi più ricchi
è indispensabile incoraggiare comportamenti e stili di vita maggiormente compatibili con
le esigenze ambientali del pianeta; lo sviluppo demografico deve essere commisurato alla
capacità di carico dell’ecosistema.
LA MODERNIZZAZIONE IN
AGRICOLTURA
Nel corso della sua storia l’agricoltura ha conosciuto varie “rivoluzioni”, da quella neolitica
che 10.000 anni fa diede il via all’attività di coltivazione del suolo, alla rivoluzione agraria
che, grazie ad alcune innovazioni tecnologiche, fra il XVII e il XIX secolo permise un
notevole incremento della produzione agricola europea. Nel XX secolo gli ambienti rurali
hanno subito una progressiva trasformazione, chiamata “rivoluzione verde” e fortemente
incentivata dai governi di molti paesi. Con la rivoluzione verde i tradizionali sistemi di
coltivazione, caratterizzati da un basso livello tecnologico, dall’uso di specie non
selezionate e da un impiego estensivo dei terreni, sono stati progressivamente sostituiti da
sofisticati sistemi di sfruttamento intensivo delle superfici agricole allo scopo di
incrementare il rendimento dei terreni e, quindi, la produzione alimentare pro capite.
L’insieme di questi investimenti è stato sostenuto in vari modi da parte delle istituzioni, che
hanno, ad esempio, incrementato i collegamenti con i mercati urbani, i porti e i centri di
distribuzione; agevolato l’accesso al credito e, quindi, all’acquisto di macchinari più
moderni; potenziato le reti di trasporto e gli impianti per la trasformazione agroalimentare;
cercato di sfruttare soprattutto i terreni migliori e meglio irrigati; incentivato l’impiego di
sementi e specie selezionate e di prodotti sintetici come erbicidi, pesticidi e concimi
chimici.
Nei paesi del Terzo Mondo questo tipo di agricoltura intensiva viene praticato soprattutto
nelle grandi pianure irrigate e vicino ai delta dei fiumi. Esso è fondato, per lo più, sulla
coltivazione intensiva di monocolture, scelte in base alle richieste del mercato, e tra i
prodotti più coltivati vi sono riso, grano, cotone, banane, ananas, palme da olio e canna da
zucchero.
La “rivoluzione verde” ha consentito di allontanare lo spettro della fame da molti paesi del
Terzo Mondo, grazie anche allo sviluppo di varietà ibride delle più importanti specie
cerealicole, caratterizzate da resistenza, produttività e altre qualità che, nel loro complesso,
le rendono migliori delle corrispondenti specie selvatiche. Insieme alle sementi, ai
coltivatori è stata spesso distribuita una serie di mezzi per migliorare la coltivazione
(concimi chimici, pesticidi, macchinari, impianti di irrigazione), che nel giro di trent'anni
hanno portato quasi a raddoppiare la produzione media di cereali; se poi si confronta questo
aumento con l’incremento demografico mondiale, si può dire che la produzione alimentare
complessiva pro capite è cresciuta del 7%. Dietro a tale dato si celano, tuttavia, realtà locali
molto differenti: se nel Sudest asiatico la produzione alimentare pro capite ha fatto
registrare un aumento del 30% circa, in Africa, in realtà, essa è scesa del 20%. Inoltre,
ancora oggi più di un miliardo di persone nel mondo soffre la fame e la dieta di circa la
metà di esse è talmente povera di calorie e nutrienti da non consentire uno sviluppo, fisico e
mentale, sano ed equilibrato. Il passaggio a un’agricoltura di tipo industriale ha interessato
soprattutto i paesi industrializzati, dove i coltivatori hanno progressivamente modernizzato
le proprie aziende adottando nuovi macchinari, riducendo la mano d’opera, razionalizzando
le operazioni colturali e sostituendo alla pratica delle rotazioni quella delle monocolture, in
modo tale da accrescere la produzione totale
Spinti a estendere le dimensioni dei campi e delle proprie aziende, i coltivatori hanno in
molti casi abbandonato le tradizionali fattorie in cui, accanto all’attività agricola, veniva
praticato anche l’allevamento e che costituivano un sistema perfettamente integrato, in
grado di autosostenersi, in cui nulla andava sprecato. A partire dagli anni Quaranta, la
produzione agricola è cresciuta in tutta Europa, in qualche caso fino a raddoppiare.
L’agricoltura tradizionale sopravvive in alcune aree del pianeta particolarmente povere e
isolate. Nelle regioni caratterizzate da terreni aridi, paludosi, semidesertici, montuosi o
dissestati, nelle savane e nelle foreste le popolazioni locali hanno adottato complesse
tecniche colturali molto diversificate, che, tuttavia, consentono di produrre solo scarsi
raccolti, e spesso la sopravvivenza di queste popolazioni dipende dalle risorse direttamente
disponibili nell’ambiente naturale. Inoltre, in queste regioni le colture sono, in genere,
assai distanti dai mercati e dalle industrie di trasformazione e dipendono, spesso, da terreni
poveri e degradati, la cui produttività è di solito molto scarsa.
IMPATTO AMBIENTALE
DELL’AGRICOLTURA
SOSTENIBILE
Nonostante gli enormi progressi fatti nel campo della produzione agricola, il mondo si
troverà presto ad affrontare prove ancora più impegnative, che dovranno cercare di fare
quadrare i numeri della produzione agroalimentare con quelli dell’incremento della
popolazione.
Le politiche agrarie degli ultimi cinquant'anni hanno cercato, soprattutto, di incentivare
l’introduzione di tecniche di coltivazione industriale. Ciò ha portato a un considerevole
aumento del consumo complessivo di pesticidi, concimi e mangimi chimici, macchinari e
trattori, ovvero di strumenti ed elementi che hanno sostituito i tradizionali metodi di
coltivazione, spesso alterando la naturale capacità di autoregolazione degli ecosistemi e i
naturali cicli biologici delle risorse.
Pesticidi e diserbanti hanno soppiantato le tradizionali tecniche biologiche, colturali e
meccaniche, di lotta antiparassitaria, contro le erbe infestanti e le malattie; gli agricoltori
hanno abbandonato l’uso del letame e la coltivazione di piante in grado di fissare l’azoto,
optando per l’impiego di concimi chimici; le informazioni utili alla gestione di un’azienda
non vengono più ricavate da fonti locali, ma dai rapporti e dai consigli, non sempre
disinteressati, forniti dai rappresentanti delle case produttrici di antiparassitari e concimi
chimici; le fonti energetiche un tempo reperite sul Posto sono state sostituite dai
combustibili fossili. La specializzazione in monocolture e il declino delle fattorie
tradizionali, in cui accanto all’agricoltura veniva praticato anche l’allevamento, hanno
contribuito a incentivare queste trasformazioni, e quelle che un tempo venivano
considerate preziose risorse interne per il ciclo produttivo sono oggi considerate prodotti di
scarto.
Tornare a utilizzare più razionalmente queste risorse interne è una delle condizioni basilari
per la realizzazione di un’agricoltura sostenibile. In pratica occorre: sviluppare un sistema
produttivo in cui fibre e risorse alimentari vengono prodotte integrando i processi naturali
(cicli biologici, fissazione dell'azoto, interazioni di predazione) con il ciclo produttivo;
ridurre l’uso dei mezzi di produzione non rinnovabili, introdotti nel sistema dall’esterno e
potenzialmente dannosi per l’ambiente e per la salute di coltivatori e consumatori; puntare
a ridurre al minimo i costi variabili; consentire un accesso più equo alle risorse produttive;
sfruttare in modo più efficiente il potenziale biologico e genetico delle specie animali e
vegetali; utilizzare in modo più efficiente e produttivo le conoscenze locali e le tecniche
tradizionali, accogliendo, nello stesso tempo, tecnologie e metodi nuovi, purché “puliti”;
convincere i coltivatori ad avere maggiore fiducia nelle proprie capacità;
armonizzare i raccolti con le potenzialità produttive del territorio e i limiti ambientali,
posti dalle condizioni climatiche e idrogeologiche, al fine di garantire il mantenimento a
lungo termine degli attuali livelli produttivi; evitare ogni pratica che possa comportare
uno sfruttamento eccessivo e squilibrato dei terreni; puntare sulla diffusione di sistemi di
produzione più efficienti e redditizi e, quindi, di aziende agricole integrate, che nella loro
politica gestionale considerino come fattori prioritari la conservazione del suolo,
dell’acqua e delle risorse biologiche e il risparmio energetico (vedi Conservazione
ambientale). Una soluzione parziale a tutte le esigenze elencate viene dalla cosiddetta
agricoltura integrata, un modello produttivo e gestionale in cui le risorse vengono
utilizzate nel modo più efficiente possibile e, accanto all’uso controllato di pesticidi e
concimi chimici, vengono impiegati anche concimi organici e tecniche colturali
biologiche. L’agricoltura integrata mira a incentivare una diversificazione delle aziende e
la capacità di iniziativa dei coltivatori, sostenendo al tempo stesso lo sviluppo di una più
stretta collaborazione e di maggiori scambi tra i singoli agricoltori (i prodotti di scarto
dell’uno possono rappresentare una risorsa preziosa per l’altro).
La sfida costituita dallo sviluppo di un modello agricolo sostenibile si pone in termini
differenti, a seconda delle diverse aree del mondo. Nei paesi industrializzati l’obiettivo da
raggiungere è, innanzitutto, quello di riuscire a ridurre drasticamente l’impiego di
sostanze chimiche e i costi variabili, così da mantenere invariati i livelli di profitto.
Considerate le attuali eccedenze produttive, un eventuale calo della produzione in queste
aree potrebbe essere, comunque, ben tollerato. Nei paesi del Terzo Mondo l’obiettivo è,
invece, quello di mantenere la produzione ai livelli attuali, riducendo, però, l’impatto
sugli ecosistemi.
Esperimenti condotti in tutto il mondo dimostrano come adeguati modelli di agricoltura
sostenibile possano essere applicati con successo in ogni area del pianeta. Nelle regioni
povere di risorse o caratterizzate da ambienti poco adatti all’agricoltura i coltivatori che
hanno optato per l’adozione di tecniche colturali rigenerative sono riusciti a raddoppiare, se
non a triplicare, i raccolti, pur minimizzando o addirittura eliminando l’uso di prodotti
chimici; nelle aree caratterizzate da vaste coltivazioni intensive, in cui si fa ampio uso di
prodotti chimici e sistemi di irrigazione artificiale, le aziende che hanno adottato tecniche
più rispettose degli equilibri dell’ambiente hanno, comunque, conservato i propri livelli
produttivi; nelle aree in cui viene praticata l’agricoltura su scala industriale, il passaggio a
un’agricoltura sostenibile potrebbe comportare una perdita iniziale, in termini di
produzione, pari al 10-20% del raccolto per ettaro, che, tuttavia, corrisponderebbe a un
aumento dei profitti per i coltivatori.
Di fondamentale importanza per la transizione da un’agricoltura di tipo tradizionale a una
di tipo sostenibile sono la partecipazione attiva delle comunità locali e il coinvolgimento e
il sostegno delle istituzioni e delle organizzazioni non governative.
Purtroppo, il successo di molti progetti e iniziative resta spesso confinato entro esperienze
ristrette e isolate e gran parte delle politiche agrarie insiste, ancora oggi, nell’incentivare
modelli monocolturali basati sull’uso irrazionale di prodotti chimici e tecnologie devastanti
per l’ambiente. Proprio queste politiche rappresentano una delle principali barriere allo
sviluppo di un’agricoltura più sostenibile.
PERICOLI E OSTACOLI
Le speranze legate al possibile sviluppo di un modello di agricoltura sostenibile, dal quale
potrebbero trarre beneficio coltivatori, comunità rurali, economie nazionali e ambiente,
dipendono dalla realizzazione di politiche volte a sostenere un’inversione di tendenza,
spesso ostacolata dalle condizioni contingenti e particolari delle varie regioni del pianeta.
Le nuove politiche di equilibrio e rispetto delle risorse richiedono scelte coraggiose e
investimenti a lungo termine, che spesso non interessano, se non sulla carta,
amministratori della cosa pubblica instabili e precari, poiché nel breve periodo questi
progetti non producono benefici visibili o palpabili.
Un altro ostacolo è rappresentato dal fatto che, ormai da qualche decennio, sui mercati
internazionali vi è la tendenza ad abbassare i prezzi delle materie prime e a ridurre, così, i
margini di profitto dei coltivatori e dei paesi produttori. Nel giro degli ultimi dieci anni, ad
esempio, i prezzi delle materie prime sono calati in media del 50%. Inoltre, nel timore di
perdere guadagni e quote di mercato, le società che producono pesticidi e fertilizzanti
chimici si oppongono strenuamente all’adozione di politiche agrarie sostenibili.
Infine, il pesante apparato burocratico di molte istituzioni costituisce una ulteriore
difficoltà da superare nello sviluppo di politiche sostenibili, che vogliono conferire
maggiori poteri e una più larga autonomia decisionale alle comunità locali. Ciò va di pari
passo con la natura conservatrice di scuole e centri di formazione, la quale non consente di
rispondere adeguatamente all’esigenza di creare nuove figure professionali qualificate, in
grado di sostenere e di aiutare i coltivatori a compiere le scelte corrette in questo difficile
momento di transizione.
Scarica

LO SVILUPPO SOSTENIBILE