La dama bianca La ca’ del diaul Il laccio della strega Il drago Tarantasio Il cruci - leggende Tra le acque che sgorgano da tempo immemorabile nei fontanili del Pulignano viveva una fanciulla. I vecchi contadini l’ hanno intravista vagare nel suo abito bianco tra le fitte nebbie che si alzano ad avvolgere l’ antico bacino del lago di San Vito o San Vincenzo, piccola propaggine del lago Gerundo, l’hanno udita piangere i cacciatori che si avventurano lungo le carrarecce ad inseguire lepri e fagiani. Nessuno sa da dove venga, nessuno sa dove viva. Si narra che chi si avventura tra gli ontani, i platani, i pioppi che costeggiano i fontanili può sentire la sua voce unirsi allo stormire delle foglie, o può distinguere le orme dei suoi piccoli piedi tra le infinite tracce che disegnano il terreno. I suoi lunghi capelli si confondono con la fitta chioma dell’ antico salice che si leva obliquo e contorto ai bordi del fontanile più grande. Raccontano gli anziani che forse è l’ anima di una fanciulla che piange ancora il fidanzato morto in una delle tante battaglie contro il drago del lago. O forse è lo spirito delle acque che vaga a difendere un lembo di terra ancora integro dalla distruzione e dall’ingordigia degli uomini. O ancora la Dama Bianca è un’Aquana che si aggira infelice alla ricerca del fiume per ricongiungersi con le sue compagne di un tempo. Resta il fatto che nelle mattine di nebbia si diffonde sulle due costiere del Pulignano un canto dolcissimo che vibra nel vento, quasi come un richiamo d’amore. Chi è riuscito a percepirlo non l’ha mai più dimenticato. La ca’ del diaul Lungo la carrareccia che si inoltra tra i fontanili del Pulignano sorgono da lungo tempo i ruderi di una vecchia costruzione. Ai piedi dello spalto che costituiva l’altra riva del lago che oggi non c’è più, ricoperti di vegetazione, quei resti hanno rivestito per i contadini e i cacciatori un fascino particolare tanto che attorno ad essi è nata una leggenda. Quei resti sono diventati “la ca’ del diaul”. Così vicini ai fontanili, hanno assorbito l’alone magico di streghe e magie. Il diavolo abita tra quelle parti diroccate e nessun essere umano può avvicinarsi impunemente. I contadini raccontavano di attrezzi spariti, di carri che improvvisamente cedono e perdono le ruote, di animali trovati morti. Ma soprattutto si sentono le urla del diavolo quando l’aria porta da lontano il suono delle campane del Duomo. In quei momenti il silenzio cala tutto intorno e un brivido di paura vibra nell’ atmosfera. Un tempo nelle cascine attorno, la Gissara, la Calca, il Pulignano si chiudevano porte e finestre, fino a quando la pace tornava a regnare tranquilla e assoluta. La “ca’ del diaul” costituiva per i bambini e i ragazzi che scendevano a giocare in quei campi un’attrazione particolare. Si avvicinavano temerari e nello stesso tempo timorosi, ma appena dalle inferriate delle finestre si sentiva un respiro affannoso, un rantolo che si faceva sempre più forte, tutti scappavano a gambe levate. Ancora oggi quei resti là, sono inquietanti e carichi di mistero, anche se le cascine ora sono vuote e proprio pochi sono i bambini e i ragazzi che vanno nei campi a giocare. Forse il diavolo ora ha trovato la pace. Il laccio della strega Presso il fontanile più profondo del Pulignano sorge un grande salice piangente. Il suo doppio tronco sale inclinato ad offrire riparo a chi è stanco e vuole riposare. I vecchi abitanti del luogo lo chiamano il salice della strega. Si sa che il salice piangente è l’albero dedicato fin dall’ antichità ad Ecate, la dea della notte e della luna. Si dice infatti che questa dea aveva il potere sulle acque sotterranee e che dispensava la rugiada e l’ umidità sulla campagna. Proprio per questo motivo le streghe hanno scelto il salice come simbolo. Si racconta infatti che le scope magiche delle streghe sono fatte con legature di vimini, ramoscelli teneri di salice. Secondo le vecchie usanze si utilizzava la corteccia del salice per guarire dai reumatismi e in particolare dalla febbre causati, si diceva, dalla vendetta delle streghe. Al Pulignano esisteva , fino pochi anni fa, una tradizione particolare. Quando una persona aveva la febbre da tanto tempo e nessuna cura e nessun medico riuscivano a guarirla veniva accompagnata da un’ anziana contadina che la portava al grande salice. La persona malata doveva avere con sé un lungo nastro rosso. Si metteva con la schiena contro il tronco mentre la contadina legava il tronco con il nastro e pronunciava tre volte ” fever va, manda la stria a ca’”. Poi la persona doveva allontanarsi dall’albero senza mai voltarsi a guardarlo. Il nastro rimaneva là e quando scompariva se ne andava anche la febbre. Il drago Tarantasio Tanti e tanti anni fa, tra il paese di Pizzighettone e la città di Lodi, vi era un lago chiamato Gerundo che era così grande e profondo che tutti chiamavano mare. Nella cittadina di Lodi viveva Sterlenda, una giovane bella, gentile, innamorata di Eginaldo, un giovane coraggioso. Tra la gente di Lodi circolava una voce: si diceva che nel lago Gerundo vivesse un drago enorme e feroce, più grande di un elefante. La sua bocca era grandissima e rossa, fornita d’una infinità di denti bianchi, il suo alito era infuocato come un lanciafiamme e puzzolente come l ‘acqua marcia. Una notte d’ estate dell’ anno 1299 il cielo, divenuto nero, annunciò una terribile burrasca: lampi, fulmini, tuoni riempivano il buio e il vento alzava onde spumeggianti alte come case. Eginaldo, giovane coraggioso, chiamò alcuni compagni: - Presto, prendiamo una barca, armiamoci di lance e di bastoni e catturiamo il drago! I giovani s’ avventurano nell’ acqua. La barca, tra le onde, saliva e scendeva, ora si vedeva, ora spariva… Sterlenda, sulla riva, stringeva preoccupata le mani al petto: sarebbe tornato il suo Eginaldo. Sei imbarcazioni salparono per soccorrere i giovani valorosi e il mostro, però, non era stato catturato. I giovani, che avevano affrontato il drago, s’ammalarono di febbre altissima e con il caldo dell’estate si diffuse in città una terribile pestilenza: tanti s’ammalarono, le botteghe chiudevano, gli stranieri scappavano, le campane suonavano tristi rintocchi… tante persone morirono. Eginaldo, però si salvò e guarì. Passarono i mesi, ma la pestilenza non diminuì. L’autunno, con le sue piogge peggiorò le cose: il lago Gerundo straripò e allagò la campagna. La gente, non sapendo cosa fare si rivolse a Dio e, dopo tante preghiere, promise che, se la pestilenza e l’inondazione fossero finite, sarebbe stata costruita una nuova chiesa. Nella notte del 31 dicembre le acque iniziarono a ritirarsi e, nel giorno di Capodanno, il lago Gerundo si prosciugò completamente e… sorpresa! Sul fondo ormai asciutto si vide una costola enorme, lunga sette piedi! Era una costola del drago. Il drago era ormai scomparso e la gente ricominciò a vivere senza paura. Sterlenda ed Eginaldo si sposarono nella chiesa di San Francesco con una bellissima cerimonia, il due febbraio del 1300. Se ora conosci bene le leggende lodigiane, clicca su CRUCI-LEGGENDE e segui le istruzioni del gioco. Buon divertimento!