R. Jakobson, La poesia contemporanea russa (1921) “La letterarietà [è] ciò che di una data opera fa un’opera letteraria. Finora gli storici della letteratura hanno soprattutto scimmiottato la polizia che, quando deve arrestare una determinata persona, agguanta per ogni eventualità chiunque e qualsiasi cosa si trovi nell’appartamento e anche chi per caso si trovi a passare nella strada accanto. Così anche per gli storici della letteratura tutto faceva brodo: costume, psicologia, politica, filosofia. Invece della scienza della letteratura si ebbe un conglomerato di discipline rudimentali. Pareva che si dimenticasse che queste categorie rientrano, ognuna, nella scienza corrispondente, storia della filosofia, storia della cultura, psicologia ecc., e che queste ultime possono naturalmente utilizzare anche i monumenti letterari come documenti difettosi, di seconda scelta”. Mario Lavagetto, Eutanasia della critica (2005) “Molti anni fa, studente dell’ultimo anno di liceo, andai con alcuni compagni di classe a sentire una lezione di Ungaretti su Leopardi all’Università di Roma. Eravamo pieni di febbrili aspettative e uscimmo sconcertati e delusi: il vecchio poeta aveva debuttato leggendo (meravigliosamente) Alla luna. Arrivato alla fine della sua lettura era rimasto in silenzio, con istrionica impassibilità, per qualche minuto, poi aveva borbottato: “È meraviglioso… non c’è niente, proprio niente da dire” e aveva letto e riletto ripetute volte il testo fino a quando il tempo della lezione fu completamente esaurito”. Italo Calvino, Perché leggere i classici (1981) “I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume)” “Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso” Gérard Genette, Nuovo discorso del racconto (1983) “Se opponiamo grossolanamente due tipi di incipit, il tipo A che suppone il personaggio ignoto al lettore, lo considera in un primo momento dall’esterno assumendo in un certo senso tale ignoranza, poi lo presenta formalmente [...], e il tipo B che lo suppone di primo acchito già noto, designandolo immediatamente col cognome, o col nome, o addirittura con un semplice pronome personale o con l’articolo determinativo “familiarizzante”, possiamo osservare nella storia del romanzo moderno un’evoluzione significativa, che consiste grosso modo in un passaggio dal tipo A, dominante fino a Zola escluso […], al tipo B [...]. L’uso del tipo B è lampante del XX secolo nei romanzi come Ulysses, il Processo o il Castello” Victor Brombert, I romanzi di Flaubert “Il misterioso nous dell’inizio può ritenersi parte di un’abile modulazione con cui Flaubert ci guida nel cuore della tragedia”. Giovanni Bottiroli, Teoria dello stile (1997) “Questo berretto […] non può venire visualizzato. […] c’è qualcosa di paradossale nel berretto di Charles, qualcosa che sfida le possibilità di rappresentazione. Esso riflette elementi tratti dal mondo degli animali selvaggi, dal mondo militare e da quello degli affari; riunisce materiali naturali e artefatti, ossatura e guarnizioni; in esso convergono le forme e le qualità più disparate. Ma, prima di inaugurare una serie prolungata di metamorfosi, la casquette svolge un ruolo decisivo nella costruzione di identità del personaggio”. V. Nabokov, Lezioni di letteratura “Il berretto è un oggetto patetico e insulso; è un simbolo dell’intera vita futura del povero Charles, altrettanto patetica e insulsa” Albert Thibaudet, Storia della letteratura francese (1936): “[Madame Bovary] Può esser considerato il più celebre dei romanzi francesi. Nessun altro romanzo, più di questo, ha segnato una data; e per molte ragioni”. “La generazione letteraria che aveva tra i venti e i trent’anni verso il 1850 [Flaubert nasce nel 1821] è forse quella che a maggior ragione può essere definita una generazione senza maestri. […] La poesia, il romanzo, il teatro, il pensiero, la storia erano stati arati e sconvolti da aratri giganteschi, i giovani erano ragazzi al tempo in cui le gesta dei seminatori si innalzavano fino alle stelle. Erano cresciuti dinanzi a un’assemblea di maestri, […] all’epoca dei Napoleoni letterari, come gli stessi Napoleoni letterari erano cresciuti dal 1800 al 1815 sotto l’Imperatore. […]” Albert Thibaudet, Storia della letteratura francese (1936): “Come Napoleone, quella era una generazione caduta per errori evidenti, enormi, errori di genio e di ambizioni sovrumane. […] Era naturale che fosse, da parte dei suoi successori, oggetto di giudizio. Non si è forse mai vista, dal 1815 in poi, una generazione letteraria in reazione tanto netta e cosciente nei confronti della generazione precedente. / Reazione dell’intelligenza contro il genio […]. Dunque reazione critica. Costretta a uno sforzo critico generale contro i propri predecessori, questa generazione sembra aver sottoposto tutte le correnti della produzione letteraria al controllo della critica”. Albert Thibaudet, Storia della letteratura francese (1936): “Forse quello del romanzo è il caso più tipico. Il romanzo realista [Thibaudet definisce così il romanzo che si sviluppa dal 1850 in poi] si dedica all’osservazione critica, mentre in Balzac o in George Sand l’osservatore era immerso, sommerso in una corrente creatrice. Quando Flaubert succede a Balzac, un critico succede a un poeta. ‘Mi sto indirizzando sensibilmente verso la critica’ affermerà Flaubert in una lettera del 1854. ‘Il romanzo che sto scrivendo me ne acuisce la facoltà’”. Gustave Flaubert, dalle Lettere Lettera del 25 set. 1852 a Louise Colet: “[I grandi geni] non hanno bisogno di fare dello stile; sono forti a dispetto di tutti gli errori, e grazie ad essi. Ma noi, i piccoli, valiamo soltanto per la completezza dell’esecuzione. In questo secolo, Hugo sconfiggerà tutti, per quanto sia pieno di cose pessime; ma che respiro! che respiro! Azzardo qui una dichiarazione che non oserei dire in nessun posto: cioè che i grandi uomini spesso scrivono molto male, e tanto meglio per loro”. Gustave Flaubert, dalle Lettere Lettera del 27 mar. 1853 a Louise Colet: “Che cosa c’è di costruito peggio di alcune cose di Rabelais, di Cervantes, di Molière e di Hugo? Ma che improvvisi colpi di genio! Che potenza in una sola parola! Quanto a noi, dobbiamo ammassare l’uno sull’altro un mucchio di piccoli ciottoli per costruire le nostre piramidi che non valgono nemmeno la centesima parte delle loro, che sono intagliate in un unico blocco. Ma voler imitare i procedimenti di quei geni, significherebbe perdersi. Sono grandi, invece, perché non hanno procedimenti”. Gustave Flaubert, dalle Lettere Lettera del 4 giugno 1850 a Louis Bouilhet: “Sento di non avere la forza fisica di pubblicare, di andare dallo stampatore, di scegliere la carta, di correggere le bozze, ecc. [...] Tanto vale lavorare solo per sé. Si fa come si vuole e sulla base delle proprie idee. [...] E poi, il pubblico è così stupido! E poi, chi è che legge? E che cosa si legge? Che cosa si ammira? [...] La terra trema sotto di noi. Dove trovare il nostro punto d’appoggio, anche ammesso che abbiamo la leva? Quel che ci manca, a tutti, non è lo stile, né quella flessibilità dell’archetto e delle dita chiamata talento. Noi abbiamo un’orchestra numerosa, una tavolozza ricca, risorse di ogni tipo. In fatto di trucchi e di astuzie, ne sappiamo molto di più di quanto, forse, se ne sia mai saputo. No, quel che ci manca è il principio intrinseco, l’anima della cosa, l’idea stessa del soggetto”. Erich Auerbach, Mimesis: Il realismo nella letteratura occidentale (1946) “Nella generazione successiva, quella che cominciò a dare alla luce le sue opere fra il 1850 e il 1860, le cose vanno ben diversamente. Nasce il concetto e l’ideale di una letteratura che in nessun modo si immischi nei fatti pratici, che eviti ogni indirizzo morale e politico, e che si proponga invece unicamente il soddisfacimento di esigenze stilistiche […]. Secondo tale concezione […] il valore dell’arte venne preso in modo assoluto, e cadde in discredito ogni partecipazione alle lotte ideologiche. […] La concezione qui descritta e che già si delineava in alcuni tardi romantici, dominò la generazione nata attorno al 1820 – Leconte de Lisle, Baudelaire, Flaubert, i Goncourt – e dominò anche più tardi, nella seconda metà del secolo” Erich Auerbach, Mimesis: Il realismo nella letteratura occidentale (1946) “Flaubert […] appartiene a coloro che si isolarono completamente nell’estetica; anzi, tra tutti egli è forse quello che ha spinto più lontano la rinuncia ascetica a una propria vita, in quanto non servisse direttamente o indirettamente allo stile” Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte (1992) Descrive le condizioni sociali, politiche, economiche in cui operano gli scrittori francesi nella seconda metà dell’Ottocento (Secondo Impero, 1852-1870), assumendo Flaubert come figura paradigmatica. I processi principali che descrive sono: • “La genesi del campo letterario” • “La conquista dell’autonomia” • “La nascita di una nuova figura sociale, quella del grande artista di professione” Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte (1992) Condizioni socio-politiche per la genesi del campo letterario: • Restaurazione politica dopo i moti rivoluzionari del 1848; • Grande industrializzazione, sviluppo delle strutture economiche e finanziarie, del potere bancario, del grande capitale; • Sviluppo di un ceto di imprenditori, commercianti e finanzieri che hanno accumulato fortune colossali, arrampicatori sociali “privi di cultura, pronti a far trionfare in tutta la società il potere del denaro e la loro visione del mondo profondamente ostile ai valori intellettuali” Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte (1992) “Il rapporto tra i produttori culturali e i dominanti non ha più nulla di ciò che ha potuto caratterizzarlo nei secoli precedenti, che si tratti della dipendenza diretta nei confronti del committente […] o anche dell’appoggio di un mecenate o di un protettore ufficiale delle arti. Si tratta ormai di una vera subordinazione strutturale, che si impone in maniera molto diseguale ai differenti autori”. Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte (1992) Ne derivano varie figure intellettuali, i cui poli estremi sono: • Gli scrittori “ufficiali” e consacrati (Académie française, salotti, giornali controllati dal governo) • Gli scrittori marginalizzati e “maledetti” (bohème, “una vera e propria società nella società”) • Flaubert riesce a mantenere una posizione autonoma e neutrale, soprattutto grazie alla sua indipendenza economica. Théophile Gautier: “Flaubert è stato più accorto di noi, […] ha avuto l’intelligenza di venire al mondo con un certo patrimonio, cosa assolutamente indispensabile a chiunque voglia fare arte”. Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte (1992) “È chiaro che il campo letterario e artistico si costituisce in quanto tale in virtù dell’opposizione a un mondo “borghese” che non aveva mai affermato in modo così brutale i suoi valori […] nell’ambito dell’arte come in quello della letteratura e che, per mezzo della stampa e dei suoi scribacchini, mira a imporre una definizione degradata e degradante della produzione culturale”. Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte (1992) “Il disgusto frammisto a disprezzo degli scrittori (Flaubert e Baudelaire in particolare) per questo regime di parvenu senza cultura, interamente dominato dalla falsità e dall’adulterazione, per il credito accordato dalla corte alle opere letterarie più comuni (le stesse che la stampa divulga e osanna), per il materialismo volgare dei nuovi signori dell’economia, per il servilismo cortigiano di buona parte degli scrittori e degli artisti, ha contribuito non poco a favorire la rottura con il mondo ordinario che è inseparabile dalla costituzione del mondo dell’arte come un mondo a parte, un impero dentro un impero”. Peter Brooks, Realist Vision (2005) “A volte penso che Madame Bovary sia l’unico romanzo, tra tutti i romanzi, che davvero meriti l’etichetta di ‘realista’” Henry James, Gustave Flaubert (1902) “Intellettualmente, egli era formato di due compartimenti distinti, uno per il senso del reale e uno per il senso del romantico, e la sua produzione [...] si divide ordinatamente secondo queste linee. Si tratta di divisioni nette, come le sezioni sul dorso di uno scarabeo, sebbene la loro nettezza sia senza dubbio l’espressione finale di una lotta durissima. [...] egli ci fa pensare a uno strano, splendido insetto che si libri su ali di diverso colore – la destra, diciamo, di un vivido rosso, e la sinistra di un giallo altrettanto diviso”. Flaubert, cronologia delle opere • • • • • • • 1835-43: Opere giovanili 1843-45: L’educazione sentimentale (prima stesura) 1848: La tentazione di Sant’Antonio (prima stesura) 1851-56: Madame Bovary (pubbl. 1857) 1857-62: Salambò 1864-69: L’educazione sentimentale (stesura definitiva) 1869-72: La tentazione di Sant’Antonio (stesura definitiva, pubbl. 1874) Gustave Flaubert, dalle Lettere Lettera del 18 marzo 1857 a M.lle Leroyer de Chantepie: “Voglio scrivere un romanzo la cui azione si svolgerà tre secoli prima di Cristo, perché sento il bisogno di uscire dal mondo moderno in cui la mia penna troppo a lungo si è intinta e che d’altra parte mi disgusta rappresentare quanto mi disgusta vedere”. Gustave Flaubert, dalle Lettere Lettera del 6 ottobre 1864 a M.lle Leroyer de Chantepie: “Da più di un mese ho intrapreso un romanzo di costumi moderni, che si svolgerà a Parigi. Voglio tracciare la storia morale degli uomini della mia generazione; “sentimentale” sarebbe più appropriato. È un libro d’amore, di passione; ma di una passione come quella che può esistere oggi, cioè inattiva. Credo che l’argomento, per come l’ho concepito, sia profondamente vero, ma, per ciò stesso, forse poco divertente”. Maxime du Camp: Souvenirs littéraires (1882): “Pensiamo che tu debba gettare tutto nel fuoco e non parlarne mai più”. “Dal momento che hai un’invincibile tendenza al lirismo, bisogna scegliere un soggetto in cui il lirismo sia così ridicolo che tu sia costretto a sorvegliarti e a rinunciarvi. Prendi un soggetto terra terra, uno di quegli avvenimenti di cui è piena la vita borghese […], e costringiti a trattarlo con un tono naturale, quasi familiare, respingendo queste digressioni e divagazioni, che sono belle in sé ma che sono inutili accessori per lo sviluppo del progetto e fastidiose per il lettore”. “All’improvviso Bouilhet disse: “Perché non scrivi la storia di Delaunay?”. Flaubert rialzò la testa, e urlò con gioa: “Che idea!”. Maxime du Camp: Souvenirs littéraires (1882): “Delaunay adorava questa donna, che non si curava di lui, che viveva le sue avventure e che niente poteva appagare. […] Schiacciata dai debiti, perseguita dai creditori, picchiata dagli amanti, per i quali derubava suo marito, fu presa da un accesso di dispiacere e si avvelenò. Lasciava una bambina, che Delaunay decise di educare facendo del suo meglio; ma il pover’uomo, rovinato, rimasto senza risorse per riuscire a pagare i debiti di sua moglie, mostrato a dito, disgustato a sua volta della vita, fece con le sue mani del cianuro di potassio e andò a raggiungere colei la cui perdita lo aveva reso inconsolabile” Gustave Flaubert, Lettere a Louise Colet 19 set. 1851: “Ieri sera ho iniziato il mio romanzo. Intravvedo ora delle difficoltà di stile che mi terrorizzano” Inizio nov. 1851: “Avanzo faticosamente nel mio libro. Spreco carta in quantità. Quante cancellature! La frase è lentissima a venire. Che diavolo di stile ho preso! Siano maledetti i soggetti semplici! Se sapeste quanto mi ci torturo, avreste pietà di me” Gustave Flaubert, Lettere a Louise Colet 24 apr. 1852: [Dice di avere scritto 25 pagine in sei settimane]: “Le ho talmente tormentate, ricopiate, cambiate, rimaneggiate, che per il momento ci vedo solo del fuoco. […] Non so come sia possibile, a volte, che le braccia non mi si stacchino dal corpo per la fatica, o che la testa non mi vada in poltiglia. Conduco una vita aspra, priva di qualunque gioia esteriore e nella quale non ho nulla per sostenermi all’infuori di una specie di rabbia permanente, che talvolta piange d’impotenza, ma che è continua. Amo il mio lavoro di un amore frenetico e perverso, come un asceta ama il cilicio che gli raschia il ventre” Gustave Flaubert, Lettere a Louise Colet 23 mag. 1852: “Il mio romanzo mi annoia; sono sterile come un sasso. […] A ogni passo scopro degli ostacoli. […] Mi tormento come un cane per delle miserie; le frasi più semplici mi torturano” 2 nov. 1852: “Il mio lavoro procede molto lentamente; a volte provo vere e proprie torture per scrivere la frase più semplice” 10 apr. 1853: “Dio! quanto mi scoccia la mia Bovary! A volte arrivo alla convinzione che è impossibile scrivere” Gustave Flaubert, Lettere a Louise Colet 12 set. 1853: “La testa mi ronza di rabbia, scoraggiamento, fatica! Ho trascorso quattro ore senza riuscire a scrivere una frase. Oggi non ho scritto neanche una riga, o piuttosto ne ho scarabocchiate cento! Che lavoro atroce! Che noia! Oh! l’Arte! l’Arte! Che cos’è dunque questa chimera rabbiosa che ci rode il cuore, e perché? È folle farsi tanto male! Ah! la Bovary, me ne ricorderò! Adesso è come se avessi delle lame di coltello sotto le unghie, e ho voglia di digrignare i denti” 17 ott. 1853: “Questo libro […] mi tortura talmente (e se trovassi una parola più forte la userei) che a volte mi sento malato fisicamente. Sono tre settimane che ho spesso dolori da svenire. Altre volte è un senso d’oppressione, oppure una voglia di vomitare a tavola. Tutto mi disgusta” Gustave Flaubert, Lettere a Louise Colet 16 apr. 1853: “Sono distrutto di fatica e di noia. Questo libro mi uccide; non ne farò mai più di simili. Le difficoltà di esecuzione sono tali che ogni tanto ci perdo la testa. Non ci cascherò più a scrivere cose borghesi. Il fetore dello sfondo mi fa male al cuore. Le cose più volgari sono, proprio per questo, atroci da dire, e quando penso a tutte le pagine bianche che mi restano ancora da scrivere mi sento terrorizzato” Gustave Flaubert, Lettere a Louise Colet 26 ago. 1853: “Adesso sono divorato da un bisogno di metamorfosi. Vorrei scrivere tutto quello che vedo non come è, ma trasfigurato. L’esatta narrazione del fatto reale più magnifico mi risulterebbe impossibile. Avrei bisogno di ricamarlo ulteriormente. / Le cose che ho sentito maggiormente mi si offrono trasportate in altri paesi e provate da altre persone. Così cambio le case, i costumi, il cielo, ecc. [...] Ho una gran fretta di finirla con tutto ciò per lanciarmi a corpo morto in un argomento grande e pulito. Ho dei pruriti di epopea. Vorrei grandi storie a perdita d’occhio [...]. La Bovary, che per me sarà stata un esercizio eccellente, in seguito mi risulterà forse funesta come reazione, perché me ne sarà derivato un disgusto estremo degli argomenti di ambiente comune. È per questo che soffro tanto a scriverlo, questo libro. Faccio grandi sforzi per immaginare i miei personaggi e poi per farli parlare, perché mi ripugnano profondamente”. Gustave Flaubert, Lettere a Louise Colet 13 giu. 1852: “Ho ripreso il lavoro. Spero che proceda, ma francamente la Bovary mi annoia. [...] Buono o cattivo che sia, questo libro rappresenterà per me un prodigioso tour de force, tanto lo stile, la composizione, i personaggi e l’effetto sensibile sono lontani dalla mia maniera naturale. Con Sant’Antonio ero a casa mia. Qui, sono a casa del vicino; così non mi trovo per niente a mio agio” 27 lug. 1852: “La Bovary rappresenterà un tour de force inaudito, di cui solo io potrò mai essere consapevole: argomento, personaggi, effetto ecc., tutto è fuori di me. [...] Scrivendo questo libro, sono come un uomo che suona il piano con delle palle di piombo su ogni falange” Gustave Flaubert, Lettere a Louise Colet 6 apr. 1853: “Ciò che mi fa procedere così lentamente, è il fatto che in questo libro nulla proviene da me; mai la mia personalità è stata tanto inutile. [...] È tutto di testa. Se sarà un fallimento, sarà stato comunque un buon esercizio. Quel che è naturale per me, per gli altri è innaturale, è lo straordinario, il fantastico, il volo metafisico e mitologico. Sant’Antonio non mi ha richiesto nemmeno un quarto della tensione spirituale che mi causa la Bovary. Era uno sfogo; scrivere è stato solo un piacere, e i diciotto mesi che ho passato a scrivere quelle 500 pagine sono stati i più profondamente voluttuosi di tutta la mia vita” Madame Bovary: La pubblicazione e il processo • Ott. 1856: Alcuni capitoli vengono pubblicati a puntate sulla “Revue de Paris”, ma il direttore è costretto a interrompere la pubblicazione in seguito allo scandalo suscitato dal romanzo • Nov. 1856: Flaubert viene messo sotto accusa, e poi processato al Tribunale di Parigi, in due udienze fissate il 29 gennaio e il 7 febbraio 1857 • Le accuse, sostenute dal pubblico ministero Ernest Pinard (lo stesso che - sempre nel 1857 - accusa Les Fleurs du mal), sono “offesa alla morale pubblica” e “offesa alla religione” • L’avvocato difensore si chiama Jules Sénard Madame Bovary: La pubblicazione e il processo Dalla requisitoria di Pinard: “L’autore ha messo la massima cura, ha impiegato tutte le suggestioni del suo stile per dipingere questa donna. Ha cercato di mostrarla dalla parte dell’intelligenza? Mai. Dalla parte del cuore? Non proprio. Dalla parte dello spirito? No. Dalla parte della bellezza fisica? Nemmeno. Oh! So bene che dopo l’adulterio il ritratto di Mme Bovary è dei più sfolgoranti; ma il quadro è innanzitutto lascivo, le pose sono voluttuose; la bellezza di Mme Bovary è una bellezza che provoca. […] Ciò che l’autore vi mostra è la poesia dell’adulterio, e vi chiedo ancora una volta se queste pagine lascive non sono profondamente immorali! […] Chi è che legge il romanzo di M. Flaubert? Forse gli uomini che si occupano di economia politica o sociale? No! Le pagine leggere di Madame Bovary cadono in mani ancora più leggere, nelle mani delle fanciulle, talvolta di donne sposate” Madame Bovary: La pubblicazione e il processo • Flaubert viene assolto, soprattutto grazie al buon nome di cui gode la sua famiglia; • Nel corso del 1857 il romanzo viene pubblicato in volume dall’editore Michel Lévy, e la prima edizione (15.000 copie) viene esaurita in poche settimane; • Ottiene grande successo di pubblico, e anche di critica: viene recensito positivamente da Sainte-Beuve e da George Sand, elogiato da Hugo, e ovviamente attaccato dai giornali cattolici e conservatori; la Chiesa cattolica lo mette all’indice. Gustave Flaubert, dalle Lettere Lettera del 18 luglio 1852 a Louise Colet: “Stamattina sono stato a un comizio agricolo, dal quale sono tornato morto di fatica e di noia. Avevo bisogno di vedere una di queste insulse cerimonie per la mia Bovary, nella seconda parte”. Gustave Flaubert, dalle Lettere Lettera del 22 luglio 1853 a Louise Colet: “Oggi ho avuto un grande successo. Sai che ieri abbiamo avuto il grande piacere di avere il signor Saint-Arnaud [il ministro della Guerra]. Ebbene, stamattina ho trovato nel Journal de Rouen una frase nel discorso del sindaco, la quale frase, il giorno prima, avevo scritto testualmente nella Bovary (nel discorso di un prefetto, durante dei Comizi agricoli). Non soltanto era la stessa idea, le stesse parole, ma le stesse assonanze di stile. Non nascondo che sono queste le cose che mi fanno piacere. Quando la letteratura arriva alla precisione di risultato di una scienza esatta, è una gran cosa” Gustave Flaubert, dalle Lettere Lettera del 14 agosto 1853 a Louise Colet: “Tutto ciò che si inventa è vero, puoi starne certa. La poesia è una cosa precisa come la geometria. [...] Probabilmente la mia povera Bovary, in questo stesso stesso istante, soffre e piange contemporaneamente in venti villaggi francesi” “Le letture che faccio alla sera, sui costumi di diversi popoli della terra (in un libro che ho acquistato a Parigi) mi suscitano delle voglie singolari. Ho voglia di vedere i Lapponi, l’India, l’Australia. Ah, è bella la terra! E morire senza averne vista nemmeno la metà! senza essere stato trainato dalle renne, trasportato dagli elefanti, dondolato su una portantina! Metterò tutto nel mio racconto orientale [Salambò]. Là metterò i miei amori [...]” Gustave Flaubert, dalle Lettere Lettera del 1 febbraio 1852 a Louise Colet “Tanto mi sono lasciato andare negli altri miei libri, tanto cerco di essere abbottonato in questo e di seguire una linea retta geometrica. Niente lirismo, nessuna riflessione, personalità dell’autore assente. Sarà triste da leggere; ci saranno cose atroci in fatto di miseria e di fetore”. Gustave Flaubert, dalle Lettere Lettera del 2 ott. 1856 a Laurent-Pichat (direttore della “Revue de Paris”): “Credete dunque che questa ignobile realtà, la cui riproduzione vi disgusta, non faccia scoppiare il cuore anche a me? Si mi conosceste meglio, sapreste che io esecro la vita ordinaria. Personalmente, me ne sono tenuto lontano il più possibile. Ma esteticamente, ho voluto – per questa volta, e solo per questa – praticarla a fondo. Così, ho preso la cosa in modo eroico, cioè minuzioso, accettando tutto, dicendo tutto, dipingendo tutto, espressione ambiziosa”. Lettera dell’ott. 1856 a Mme Roger de Genettes: “Mi si crede innamorato della realtà, mentre la detesto. È infatti in odio al realismo [en haine du réalisme] che ho incominciato questo romanzo” Il movimento del Realismo in Francia • Nel 1855, all’ingresso di una mostra di Gustave Courbet, campeggia l’insegna “Pavillon du Réalisme”. • Nel dicembre dello stesso anno, sulla rivista “L’Artiste”, esce il manifesto di Fernand Desnoyers intitolato Du réalisme, che celebra l’avvento di una nuova poetica del reale contro le falsificazioni del romanticismo. • Un sostenitore entusiasta di Courbet, il romanziere Champfleury, pubblica nel 1857 una raccolta di saggi intitolata Le Réalisme. • Il suo amico Edmond Duranty fonda la rivista “Réalisme”, destinata a una breve vita tra il novembre 1856 e il maggio 1857. Gustave Flaubert, dalle Lettere Lettera del 6 febbraio 1876 a George Sand: “Detesto ciò che si è deciso di chiamare il realismo, benché si faccia di me uno dei suoi pontefici”. Lettera del 25 dicembre 1876 a Guy de Maupassant: “Come è possibile cadere su parole prive di senso come questa: “Naturalismo”? Perché abbiamo abbandonato quel buon Champfleury con il “Realismo”, che è una sciocchezza dello stesso calibro, o piuttosto la stessa sciocchezza?”. René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca (1962) “Don Chisciotte ha rinunciato, in favore di Amadigi, alla prerogativa fondamentale dell’individuo: non sceglie più gli oggetti del suo desiderio, ma è Amadigi che deve scegliere per lui. Il discepolo si precipita verso gli oggetti che gli indica, o che sembra indicargli, il modello di ogni cavalleria. Chiameremo questo modello il mediatore del desiderio. […] Nella maggior parte delle opere di finzione, i personaggi desiderano in modo più semplice di Don Chisciotte. Non c’è il mediatore, ma ci sono solo il soggetto e l’oggetto […] il desiderio è sempre spontaneo. Può sempre essere rappresentato da una semplice linea retta che collega il soggetto e l’oggetto. / La linea retta è presente, nel desiderio di Don Chisciotte, ma non è l’essenziale. Al di sopra di questa linea, c’è il mediatore che si irraggia al tempo stesso verso il soggetto e verso l’oggetto. La metafora spaziale che esprime questa triplice relazione è evidentemente il triangolo” Mediatore (Amadigi) Soggetto (Don Chisciotte) Oggetto (Gloria cavalleresca) Mediatore (Eroine romantiche) Soggetto (Emma) Oggetto (Amore, Felicità) René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca (1962) “Il desiderio secondo l’Altro si ritrova nei romanzi di Flaubert. Emma Bovary desidera attraverso le eroine romantiche di cui è piena la sua immaginazione. Le opere mediocri che ha divorato durante la sua adolescenza hanno distrutto in lei qualunque spontaneità. È a Jules de Gaultier che bisogna chiedere la definizione di questo bovarysme che scopre in quasi tutti i personaggi di Flaubert: ‘Una stessa ignoranza, una stessa inconsistenza, una stessa mancanza di reazione individuale sembrano destinarli a ubbidire alla suggestione dell’ambiente esterno, a scapito di una autosuggestione venuta dall’interno’ (Le Bovarysme, “Mercure de France”, 1902)”. Gustave Flaubert, dalle Lettere Lettera del 20 marzo 1852 a Louise Colet: “Per il momento sono immerso fino al collo nei sogni da fanciulle. [...] Tutto il valore del mio libro, ammesso che lo abbia, consisterà nell’aver saputo camminare dritto su un capello, sospeso tra il duplice abisso del lirismo e della volgarità (che voglio fondere in un’analisi narrativa)”. Flaubert, Lettera del 16 gen. 1852 a Louise Colet: “Ci sono in me, dal punto di vista letterario, due uomini distinti: il primo appassionato di lirismo, di grandi voli d’aquila, di tutte le sonorità della frase e delle vette dell’idea; l’altro che fruga e scava il più possibile nel vero, che ama far risaltare il piccolo fatto con la stessa potenza del grande, che vorrebbe farvi sentire quasi materialmente le cose che riproduce […]. L’educazione sentimentale [prima stesura] è stata, a mia insaputa, uno sforzo di fusione tra queste due tendenze del mio spirito [...]. Ho fallito. Per quanti ritocchi si possano dare a quest’opera (forse li farò), rimarrà sempre difettosa; vi mancano troppe cose, ed è sempre l’assenza di qualcosa che rende debole un libro”. [Si sofferma sui difetti, sulle mancanze; in particolare sulla mancanza di concatenazione causale:] “Le cause vengono mostrate, gli effetti anche; ma manca la concatenazione della causa con l’effetto. [...] Ho detto che l’Educazione era stata una prova. Anche Sant’Antonio lo è stata. Prendendo un argomento in cui ero completamente libero in quanto a lirismo, movimenti, sconvolgimenti, mi sono trovato del tutto a mio agio e dovevo soltanto andare avanti. Non ritroverò mai quei rapimenti di stile che mi sono concesso per diciotto lunghi mesi. Intagliavo davvero col cuore le perle della mia collana! Ho dimenticato solo una cosa: il filo. Secondo tentativo, peggio ancora del primo. Adesso sono al terzo. Ed è tempo di farcela, oppure di buttarsi dalla finestra”. “Ciò che mi sembra bello, ciò che vorrei fare, è un libro su niente [un livre sur rien], un libro senza appigli esterni, che sappia reggersi da solo con la forza interna del suo stile, come la terra si regge nell’aria senza appoggio alcuno, un libro quasi privo di argomento, o almeno in cui l’argomento, possibilmente, sia quasi invisibile. Le opere più belle sono quelle in cui ci è meno materia; [...] Credo che il futuro dell’Arte vada in questa direzione. [...] È per questo che non esistono argomenti belli o brutti, e che si potrebbe quasi stabilire l’assioma, ponendosi dal punto di vista dell’Arte pura, che non ne esistono affatto, poiché lo stile è in se stesso un modo assoluto di vedere le cose”. Lettera del 25-26 giu. 1853 a Louise Colet: “Se il libro che sto scrivendo con tanto sforzo giungerà in porto, con la sua stessa esecuzione sarò arrivato a stabilire due verità, che per me sono come degli assiomi, cioè: innanzitutto che […] in letteratura non esistono argomenti artisticamente belli [...]; e che, di conseguenza, si può scrivere di tutto come di qualunque cosa. L’artista deve elevare tutto; è come una pompa, ha in sé un grosso tubo che scende nelle viscere delle cose, negli strati profondi. Aspira e fa sgorgare alla luce in giganteschi zampilli ciò che era sepolto sotto terra e che non si poteva vedere” Robert Louis Stevenson, Lettera dell’8 dic. 1884 a Henry James: “La gente crede che sia la “materia” che conti. Pensano, ad esempio, che i prodigiosi, delicati pensieri e sentimenti in Shakespeare colpiscano di per se stessi, non si rendono conto del fatto che un diamante mal polito non è che una pietra, credono che le situazioni accattivanti o i buoni dialoghi nascano dall’osservazione della vita. Non riusciranno a capire che, invece, li si prepara con deliberato artificio e vi si arriva a furia di dolorose soppressioni”. Federico De Roberto, Prefazione a Documenti umani (1888): “[Scrivendo queste novelle] io avevo avuto l’intenzione di fare un’opera d’arte. Descrivendo una società repugnante? mettendo in iscena personaggi odiosi? riuscendo a un’impressione di pessimismo?… Che importa! L’interessante, ciò che costituisce il valore specifico dell’opera d’arte, non mi pareva la qualità del soggetto preso a trattare né dell’impressione da conseguire, bensì il modo in cui il soggetto era trattato e l’impressione conseguita”. Lettera 15 gen. 1853 a Louise Colet: “Ho scritto cinquanta pagine in cui non c’è un solo avvenimento. È un quadro continuo di una vita borghese e di un amore inattivo. [Il marito e la moglie] sono due creature mediocri poste nello stesso ambiente, che tuttavia bisogna differenziare. Se la cosa riesce, sarà, credo, molto potente, perché significa dipingere tinta su tinta senza toni marcati, il che è molto difficile. Ma temo che tutte queste sottigliezze possano annoiare e che il lettore voglia vedere molto più movimento. Eppure devo fare come avevo previsto. Se ci volessi mettere dentro un po’ di azione, agirei in base a un sistema e guasterei tutto. Bisogna cantare con la propria voce; ora, la mia non sarà mai drammatica o avvincente. Del resto sono convinto che tutto è questione di stile, o piuttosto di forma, di aspetto”. Lettere del 18 e del 22 aprile 1854 a Louise Colet: “Bisogna […] fare dell’arte impersonale”. “Non voglio concepire l’Arte come uno sfogo della passione, come un vaso da notte un po’ più pulito di una semplice conversazione, di una confidenza. No! no! la Poesia non deve essere la schiuma del cuore. […] La personalità sentimentale è ciò che più avanti farà sembrare puerile e un po’ sciocca buona parte della letteratura contemporeanea”. Lettera del 6 nov. 1853 a Louise Colet: “Ricordiamoci sempre che l’impersonalità è il segno della forza. Assorbiamo ciò che è obiettivo e facciamolo circolare in noi, riproduciamolo all’esterno senza che si possa capire nulla di questa chimica meravigliosa. Il nostro cuore deve servire solo a sentire quello degli altri. Trasformiamoci in specchi d’ingrandimento della verità esterna”. Lettere del 18 marzo 1857, del 12 dic. 1857 e del 15 dic. 1866 (a vari corrispondenti): “L’Arte deve elevarsi al di sopra delle affezioni personali e delle suscettibilità nervose! È tempo di darle, attraverso un metodo implacabile, la precisione delle scienze fisiche!” “Finora […] il romanzo non è stato che l’esposizione della personalità dell’autore […]. Bisogna dunque che le scienze morali prendano tutt’altra strada e che procedano come le scienze fisiche, con l’imparzialità. […] Manchiamo soprattutto di scienza”. “[Non bisogna] mettere in scena la propria personalità. Io credo che la grande Arte sia scientifica e impersonale”. Lettera del 9 dic. 1852 a Louise Colet: “L’autore, nella sua opera, deve essere come Dio nell’universo, presente dappertutto e visibile in nessun luogo. [...] Si deve sentire in tutti gli atomi, in tutti gli aspetti, un’impassibilità nascosta e infinita. L’effetto, per lo spettatore, deve essere una specie di stordimento”. Lettera del 18 mar. 1857 a Mlle Leroyer de Chantepie: “Madame Bovary non ha niente di vero. È una storia totalmente inventata; non vi ho messo nulla né dei miei sentimenti né della mia esistenza. L’illusione (se c’è) deriva invece dall’impersonalità dell’opera. È uno dei miei principi: non bisogna scriversi. L’artista deve essere nella sua opera come Dio nella creazione, invisibile e onnipotente da poter essere sentito ovunque, ma senza essere visto”. Impersonalità 1. Cancellazione della personalità biografica 2. Oggettività 3. Imparzialità e impassibilità 4. Dissimulazione e illusione realista Henry James, Prefazione a Ritratto di signora (romanzo del 1881, la pref. è del 1905): “La casa della narrativa [The house of fiction] non ha una finestra sola ma un milione – un numero quasi incalcolabile di possibili finestre [windows], ognuna delle quali è stata aperta, o è ancora apribile, sulla sua vasta fronte [front], dalla necessità della visione e dalla pressione della volontà individuale. Queste aperture, di forma e misura dissimili, danno tutte sulla scena umana, sì che ci si potrebbe aspettare, da esse, una identità di riproduzione maggiore di quella che troviamo. Esse sono, nel migliore dei casi, finestre o altrimenti meri fori [holes] in un muro morto, sconnessi, collocati in alto; non sono porte coi cardini che si aprano direttamente sulla vita. Ma hanno questa caratteristica, che ad ognuna di esse c’è una figura con un paio d’occhi, o almeno con un binocolo, che costituisce uno strumento unico d’osservazione e che assicura a chi ne fa uso un’impressione distinta da ogni altra. Lui e i suoi vicini osservano lo stesso spettacolo [show], ma uno vede di più là dove un altro vede di meno, uno vede nero là dove un altro vede bianco, uno vede grande là dove un altro vede piccolo, uno vede rozzo là dove un altro vede delicato. E così via di seguito; fortunatamente non è dato dire dove, per un particolare paio d’occhio la finestra non si possa aprire [...]. Il campo che si estende, la scena umana [the human scene], è la “scelta del soggetto”; l’apertura perforata, sia larga, o con balcone, o a fessura, o bassa, è la “forma letteraria”; ma, sia da sola che insieme ad altre, essa non è nulla senza la presenza dell’osservatore – senza, in altre parole, la coscienza dell’artista [the consciousness of the artist]” Jean Rousset, Forme et signification (1962): “La finestra unisce la chiusura e l’apertura, l’ostacolo e il volo, la clausura nella stanza e l’espansione all’esterno, l’illimitato nel circoscritto; assente nel luogo in cui è, presente dove non è, […] il personaggio flaubertiano è predisposto a stabilire la sua esistenza su questo punto limitrofo dal quale si può fuggire rimanendo fermi, su questa finestra che sembra il luogo ideale della sua fantasticheria”. Discorso indiretto Egli disse (o pensò) che doveva andare. Struttura grammaticale e sintattica: - Proposizione subordinata relativa - Introdotta da verba dicendi o verba sentiendi - Pronomi di terza persona - Tempo passato Discorso indiretto Egli disse (o pensò) che doveva andare. Discorso diretto Egli disse (o pensò): “Devo andare”. Discorso indiretto legato Egli disse (o pensò) che doveva andare. Discorso indiretto libero Doveva andare. Peter Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo (1984) “Flaubert usa l’indiretto libero per evitare e addirittura per prevenire ogni possibilità di attribuzione diretta di ciò che viene detto, rifiutando così di designare chi debba considerarsi responsabile della varie affermazioni e dichiarazioni riportate”. Tempo della storia = Cronologia dei fatti, tempo della vicenda nella sua successione “naturale”; Tempo del racconto = Tempo dell’organizzazione narrativa, modo in cui gli eventi vengono raccontati nel testo. - Ordine: Analessi, prolessi - Durata (effetti di ritmo): Scena, sommario, ellissi, pausa Cfr. Gérard Genette, Figure III. Discorso del racconto, Einaudi. Frequenza 1. Raccontare una volta sola ciò che è accaduto una volta sola (singolativo) – Lunedì mi sono coricato presto 2. Raccontare molte volte ciò che è accaduto una volta sola – Lunedì mi sono coricato presto, lunedì mi sono coricato presto, lunedì mi sono coricato presto... 3. Raccontare molte volte ciò che è accaduto molte volte – Lunedì mi sono coricato presto, martedì mi sono coricato presto, mercoledì mi sono coricato presto... 4. Raccontare una volta sola ciò che è accaduto molte volte (iterativo) – Tutti i giorni della settimana mi sono coricato presto Spazio 1. Parte prima, Tostes, Charles 1. Parte seconda, Yonville, Rodolphe 1. Parte terza, Rouen, Léon Une main nue passa sous les petits rideaux…” Non “une main dégantée” “Le cortège ondulait dans la campagne, le long de l’étroit sentier serpentant entre les blés verts…” “On se tenait aux fenêtres pour voir passer le cortège. […] leurs voix s’en allaient sur la campagne, montant et s’abaissant avec des ondulations. Parfois ils disparaissent aux détours du sentier…” “Une voiture à stores tendus, […] plus close qu’un tombeau et ballotté comme un navire” “Le drap noir […] se levait de temps à autre en découvrant la bière. Les porteurs fatigués se ralentissaient; et elle avançait par saccades continues, comme une chaloupe qui tangue à chaque flot”