«Signor Conte. (1) Ho fatto dissegni in più maniere sopra l’inventione di V.S., e sadisfaccio a tutti, se tutti non mi sono adulatori; ma non satisfaccio al mio giudicio, perché temo di non satisfare al vostro. Ve gli mando. V.S. faccia eletta d’alcuno, se alcuno sarà da lei stimato degno. (2) Nostro Signore, con l’honorarmi, m’ha messo un gran peso sopra le spalle. Questo è la cura della fabrica di S. Pietro. Spero bene di non cadervici sotto, e tanto più quanto il modello, ch’io n’ho fatto, piace a S.S. et è lodato da molti belli ingegni. Ma io mi levo col pensiero più alto. Vorrei trovar le belle forme degli edifici antichi; né so se il volo sarà d’Icaro. Me ne porge un gran luce Vittruvio, ma non tanto che basti. (3) Della Galatea mi terrei un gran maestro, se vi fossero la metà delle tante cose che V. S. mi scrive. Ma nelle sue parole riconosco l’amore che mi porta, e le dico che per dipingere una bella, mi bisogneria veder più belle, con questa condizione, che V. S. si trovasse meco a far scelta del meglio. Ma, essendo carestia e di buoni giudici e di belle donne, io mi servo di certa Iddea che mi viene nella mente. Se questa ha in sé alcuna eccellenza d’arte, io non so; ben m’affatico di haverla. (4) V.S. mi comandi. Di Roma». «Signor Conte. (1) Ho fatto dissegni in più maniere sopra l’inventione di V.S., e sadisfaccio a tutti, se tutti non mi sono adulatori; ma non satisfaccio al mio giudicio, perché temo di non satisfare al vostro. Ve gli mando. V.S. faccia eletta d’alcuno, se alcuno sarà da lei stimato degno. (2) Nostro Signore, con l’honorarmi, m’ha messo un gran peso sopra le spalle. Questo è la cura della fabrica di S. Pietro. Spero bene di non cadervici sotto, e tanto più quanto il modello, ch’io n’ho fatto, piace a S.S. et è lodato da molti belli ingegni. Ma io mi levo col pensiero più alto. Vorrei trovar le belle forme degli edifici antichi; né so se il volo sarà d’Icaro. Me ne porge un gran luce Vittruvio, ma non tanto che basti. (3) Della Galatea mi terrei un gran maestro, se vi fossero la metà delle tante cose che V. S. mi scrive. Ma nelle sue parole riconosco l’amore che mi porta, e le dico che per dipingere una bella, mi bisogneria veder più belle, con questa condizione, che V. S. si trovasse meco a far scelta del meglio. Ma, essendo carestia e di buoni giudici e di belle donne, io mi servo di certa Iddea che mi viene nella mente. Se questa ha in sé alcuna eccellenza d’arte, io non so; ben m’affatico di haverla. (4) V.S. mi comandi. Di Roma». «Signor Conte. (1) Ho fatto dissegni in più maniere sopra l’inventione di V.S., e sadisfaccio a tutti, se tutti non mi sono adulatori; ma non satisfaccio al mio giudicio, perché temo di non satisfare al vostro. Ve gli mando. V.S. faccia eletta d’alcuno, se alcuno sarà da lei stimato degno. (2) Nostro Signore, con l’honorarmi, m’ha messo un gran peso sopra le spalle. Questo è la cura della fabrica di S. Pietro. Spero bene di non cadervici sotto, e tanto più quanto il modello, ch’io n’ho fatto, piace a S.S. et è lodato da molti belli ingegni. Ma io mi levo col pensiero più alto [cfr. Rvf 302 1-2: «Levommi il mio penser in parte ov’era / quella ch’io cerco e non ritrovo in terra»]. Vorrei trovar le belle forme degli edifici antichi; né so se il volo sarà d’Icaro [Hor. Carm. IV 2: Pindarum quisquis studet aemulari, / Iulle, ceratis ope Daedalea / nititur pinnis, uitreo daturus / nomina ponto]. Me ne porge un gran luce Vittruvio [De Architectura], ma non tanto che basti [Purg. XXVIII 82-84, «E tu che se' dinanzi e mi pregasti, / dì s'altro vuoli udir; ch'i' venni presta / ad ogne tua question tanto che basti»]. (3) Della Galatea mi terrei un gran maestro, se vi fossero la metà delle tante cose che V. S. mi scrive. Raffaello, Il trionfo di Galatea, Roma, Villa Farnesina, 1511 Poliziano, Stanze per la giostra, I 118 Duo formosi delfini un carro tirono: sovresso è Galatea che 'l fren corregge, e quei notando parimente spirono; ruotasi attorno più lasciva gregge: qual le salse onde sputa, e quai s'aggirono, qual par che per amor giuochi e vanegge; la bella ninfa colle suore fide di sì rozo cantor vezzosa ride. Sebastiano del Piombo, Polifemo, Roma, Villa Farnesina, 1512 Raffaello, Il trionfo di Galatea, Roma, Villa Farnesina, 1511 (3) Della Galatea mi terrei un gran maestro, se vi fossero la metà delle tante cose che V. S. mi scrive. Ma nelle sue parole riconosco l’amore che mi porta, e le dico che per dipingere una bella, mi bisogneria veder più belle [allusione all’aneddoto di Zeusi: Senofonte, Cic., Plinio, Alberti…], con questa condizione, che V. S. si trovasse meco a far scelta del meglio. Ma, essendo carestia e di buoni giudici e di belle donne, io mi servo di certa Iddea che mi viene nella mente [Cic., Orator, II 9: «nec vero ille artifex cum faceret Iovis formam aut Minervae, contemplabatur aliquem e quo similitudinem duceret, sed ipsius in mente insidebat species pulchritudinis eximia quaedam, quam intuens in eaque defixus ad illius similitudinem artem et manum dirigebat»]. Se questa ha in sé alcuna eccellenza d’arte, io non so; ben m’affatico di haverla. (4) V.S. mi comandi. Di Roma».