Guglielmo Carchedi
York University
Crisi, Keynesiani, Austeriani, Marx e
l’Argentina.
Palazzo Vecchio, Firenze,
17 Novembre 2012
• Incominciamo da una critica dell’approccio
Keynesiano. Secondo gli autori Keynesiani, la
causa ultima delle crisi è la compressione dei
salari.
• Critica. Per capire l’origine della crisi
dobbiamo partire da una fase in cui non vi è
crisi e quindi da una fase di profitti crescenti.
Infatti,se supponessimo un periodo di profitti
decrescenti (la crisi) supporremmo quello che
vogliamo spiegare (l’origine della crisi). Ora, se
i profitti crescono, una diminuzione dei salari li
fanno aumentare ancora di più. Quindi i salari
decrescenti non possono provocare la crisi.
• A questo punto sopraggiunge l’argomento
Keynesiano che evidenzia le perdite inerenti
alla caduta delle vendite causate dai tagli
salariali. Presumibilmente, i minori salari
diminuiscono il potere d’acquisto dei
lavoratori, una fetta dei mezzi di consumo
rimane invenduta, i profitti nei settori che
producono quei beni cadono, la produzione in
quei settori si restringe e poi il malessere
economico si espande a tutta l’economia.
• Critica. Si può dimostrare che i minori salari
implicano maggiori profitti nonostante le perdite
derivanti dalle minori vendite. Supponiamo il
caso più favorevole alla tesi Keynesiana, e cioè
che tutti i mezzi di consumo il cui prezzo equivale
alla diminuzione salariale rimangano invenduti
(massima perdita). Per esempio:
• tagli salariali = 100, beni invenduti per un prezzo
di 100.
• I minori salari accrescono i profitti (profitti =
+100) ma le minori vendite li diminuiscono in
ugual misura (perdite dovute a minori vendite
= -100).
• Le diminuzioni salariali non possono diminuire
i profitti (i maggiori profitti sono
semplicemente annullati) e quindi non
possono essere la causa della crisi.
• Questo nell’ottica Keynesiana. Nell’ottica
marxista, la chiave per capire il ciclo non sono
i profitti ma il tasso di profitto. Come abbiamo
visto, anche nel caso di massima perdita,
perdite e profitti si compensano e quindi il
numeratore del TMP rimane invariato. Ma il
denominatore diminuisce a casa del minor
investimento in salari. Quindi il TMP cresce e i
tagli salariali non possono causare la crisi.
• La causa immediata del fallimento di piccole
imprese specialmente nel settore che produce e
vende beni di consumo è dovuto ai tagli salariali.
Ma la causa ultima di questi fallimenti è la caduta
del TMP, e in particolare della redditività dei
piccoli capitali, che spiega sia la crescente
disoccupazione che i tagli salariali (una misura
contro le decrescente profittabilità) e quindi quei
fallimenti. Ciò diventerà più chiaro tra poco
quando discuteremo Marx.
• Se i bassi salari non sono la causa delle crisi,
contrariamente alla tesi Keyensiana i maggiori
salari non possono curarla. I maggiori salari
aumentano le vendite e quindi diminuiscono
le perdite dei produttori dei beni di consumo.
Ma essi sono anche una maggiore spesa per la
forza lavoro. Essi quindi diminuiscono i
profitti. Minori perdite e maggiori spese si
annullano. Vediamo perché.
• Supponiamo di nuovo il caso più favorevole
alla tesi Keynesiana, e cioè che tutti i mezzi di
consumo il cui prezzo equivale all’aumento
salariale vengano venduti (massimo
guadagno).
• Per esempio, maggiori salari = minori perdite
per produttori di beni di consumo = 100.
Maggiori salari = maggiori spese per forza
lavoro = 100.
• I guadagni dovuti alla maggiori vendite di
mezzi di consumo e le perdite dovute ai
maggiori salari si annullano a vicenda
(massimo guadagno). Quindi gli aumenti
salariali non fanno crescere i profitti neanche
in caso di massimo guadagno e non possono
curare la crisi.
• Ciò nell’ottica Keynesiana. Nell’ottica marxista,
la chiave per capire il ciclo non sono i profitti
ma il tasso di profitto. Come abbiamo visto,
perdite e guadagni si compensano. Il
numeratore del TMP rimane invariato. Ma il
denominatore cresce a causa dei maggiori
investimenti nella mano d’opera. Quindi il
TMP cala anche in caso di massimo guadagno.
• I maggiori salari migliorano la condizione del
lavoro ma diminuiscono la redditività e non
possono porre fine alla crisi. I miglioramenti
per il lavoro sono peggioramenti per il
capitale. La sinistra Italiana, diventata ormai
Keynesiana nel migliore dei casi, dovrebbe
riflettere su ciò.
• I dati empirici sostengono nettamente questa
tesi. Consideriamo i settori produttivi
dell’economia USA. Dalla fine della seconda
guerra mondiale al 1986, i salari aumentano
relativamente ai profitti e il TMP cade,
conformemente a Marx e non ai Keynesiani.
Dal 1987 al 2009, i salari cadono
relativamente ai profitti e il TMP sale, di
nuovo conformemente a Marx e non ai
Keynesiani.
Grafico 1. Tasso medio di profitto e tasso tra
salari e profitti
12
25.00%
10
20.00%
8
15.00%
6
10.00%
4
5.00%
2
0
1940
1950
1960
1970
1980
wages/profits Right hand side
1990
2000
ARP Left hand side
2010
0.00%
2020
• Tre conclusioni. Primo, Marx e i Keynesiani
raggiungono risultati dimetricamente opposti.
Per I keynesiani, gli aumenti salariali curano la
crisi e allo stesso tempo migliorano le
condizioni dei lavoratori. Vi è quindi una
comunione di interessi tra le due classi
fondamentali. Per Marx, gli aumenti salariali
migliorano le condizioni del lavoro ma
diminuiscono la redditività e quindi
peggiorano la crisi.
• Qualsiasi tentativo di combinare Marx e
Keynes è teoricamente incoerente. Coloro che
si adoperano per realizzare questo
matrimonio infelice dovrebbero riflettere
sull’evidenza empirica.
• Secondo. Se la domanda cresce ma i profitti
calano, alcuni capitali possono accettare di
produrre di più a profitti decrescenti. Ma se la
redditività continua a cadere, prima o poi
dovranno ridurre la scala della loro attività e
quindi il loro output. Altri capitalisti, i più
deboli finanziariamente, falliscono e cessano
la produzione del tutto.
• Ne consegue che i capitalisti riducono la loro
offerta nonostante la maggiore domanda (se
questa maggiore domanda è indotta da
politiche redistributive a favore del lavoro).
Domanda e offerta non s’incontrano neanche
tendenzialmente. L’equilibrio è un mito.
L’economia convenzionale (soprattutto, neoclassica) è costruita sulla sabbia. Il prof. Monti
dovrebbe riflettere su ciò.
• Terzo, il grafico 1 mostra che la tendenza
secolare del TMP, dalla fine della Seconda
Guerra Mondiale a oggi, è calante. Il sistema
non solo non tende verso l’equilibrio. Esso
tende verso le crisi e l’autodistruzione.
Rivediamolo
Grafico 1. Tasso medio di profitto e
tasso tra salari e profitti
12
25.00%
10
20.00%
8
15.00%
6
10.00%
4
5.00%
2
0
1940
1950
1960
1970
1980
wages/profits Right hand side
1990
2000
ARP Left hand side
2010
0.00%
2020
• Se il TMP è in costante tendenziale decrescita,
il sistema non solo non tende verso
l’equilibrio. Esso tende verso le crisi e
l’autodistruzione. Quindi la lotta del lavoro per
il comunismo non è un’utopia, nel senso di
qualche cosa che è oggettivamente
irrealizzabile. Essa è la manifestazione
cosciente di una tendenza oggettiva inerente
al sistema.
• Veniamo ora agli AUTORI NEO-LIBERISTI, che
chiamo austeriani perché fissati sull’austerità.
La loro visione è speculare a quella dei
Keynesiani. Per loro la causa delle crisi sono i
salari troppo alti.
• Critica. Di nuovo, se supponessimo inizialmente
un periodo di profitti decrescenti (la crisi)
supporremmo quello che vogliamo spiegare
(l’origine della crisi). Quindi dobbiamo supporre
un periodo di profitti crescenti. Ora, se i profitti
crescono e se i salari crescono, i profitti possono
sia calare che crescere di meno. Non vi è quindi
ragione di supporre che i salari crescano
necessariamente fino al livello a cui i profitti (o il
TMP) cadono. La teoria è indeterminata.
• I maggiori salari causano necessariamente una
caduta dei profitti solo se la quantità del
nuovo valore generato è stagnante o decresce.
Ma allora si assume ciò che deve essere
spiegato, la crisi. Una volta che la crisi è
incominciata, maggiori livelli salariali la
peggiorano perché la profittabilità cade. Ma
ciò che peggiora la crisi non è ciò che la causa.
Questo è l’errore di base del neo-liberismo.
• Se i salari crescenti non causano la crisi,
contrariamente agli austeriani la
compressione salariale non ne è la cura. Ma
non per i motivi addotti dai keynesiani e cioè
che, attraverso la riduzione della domanda dei
lavoratori, causata sia dal capitale privato che
dallo stato, la crisi si aggrava. Questa non è la
ragione.
• La causa è un’altra. E’ vero che una politica di
contenimento salariale crea crescenti difficoltà di
realizzazione, primo nei settori che producono
mezzi di consumo e poi nel resto dell’economia, e
cioè perdite. Ma i minori salari sono anche
maggiori profitti. Come abbiamo visto, criticando
la teoria Keynesiana dell’origine della crisi, anche
quando tutti i beni di consumo il cui prezzo
corrisponde alla diminuzione salariale rimangono
invenduti (il massimo delle perdite), perdite e
guadagni si compensano. L’economia non riparte.
• Questa è la conclusione anche nell’ottica
Marxista. Il numeratore del TMP è invariato
ma il denominatore cala a causa del minore
investimento in forza lavoro e quindi il TMP
cresce. Tuttavia, questo maggiore TMP non
serve a far ripartire l’economia. Vediamo
perché.
• I minori salari causano maggiori profitti nei
settori produttivi ma anche difficoltà di
vendite in quei settori. Il capitale muove
questi maggiori profitti nei settori improduttivi
(commercio, finanza e speculazione) o li
accantona come riserve. Il capitale si
riproduce su scala allargata non nei settori
produttivi di plusvalore ma in quelli
improdutivi che non generano plusvalore.
• Ciò da una parte contribuisce a gonfiare la
bolla speculativa. Dall’altra deteriora le finanze
pubbliche perché riduce la fonte di nuovo
plusvalore generato e quindi la fonte di introiti
statali. Nella misura in cui l’economia reale si
conrae a causa del crescente flusso di
investimenti nella finanza e nella
speculazione, crescono I fallimenti e la
disoccupazione nei settori produttivi.
• Lo stato deve appropriarsi di quantità crescenti
del valore prodotto dal lavoro, valore che usa per
salvare temporaneamente il sistema bancario e
finanziario. Si instaura il governo dei banchieri.
Quando sia la redistribuzione a favore del capitale
che la produzione di nuovo plusvalore si seccano,
il governo si indebita fino al collo. Lo stato va in
default. A quel punto la bolla esplode nei settori
finanziari e speculativi. Questo è quanto accadrà.
E’ possibile che riusciranno a posporre la crisi
ancora una volta. Ma non la eviteranno.
• La compressione salariale,la carta del neoliberismo contro la crisi, può solo posporre
l’esplosione della crisi e i sacrifici dei lavoratori
non servono a far ripartire l’economia reale,
produttiva, checché ne dica il prof. Monti.
• La catena causale va dal minor TMP ai minori
investimenti, alla minore accumulazione
(crescita), e alla disoccupazione e ai minori
salari. Non in senso inverso, come sostengono
I Keynesiani. Se avessero ragione, basterebbe
aumentare i salari per far ripartire l’economia.
Ma le ragioni teoriche e il grafico più sopra
dimostrano la fallacità di tale tesi.
• Le politiche redistributive non spiegano la crisi
e sono impotenti di fronte ad essa. Esse
possono solo peggiorare la crisi (nel caso delle
politiche Keynesiane) o rimandarne
l’esplosione (nel caso di quelle neo-liberiste).
• Abbiamo quindi bisogno di un’altra teoria
delle crisi e questa è quella di Marx.
• Per Marx, la chiave non sono i profitti ma il
tasso di profitto. In essenza, i capitalisti
competono tra di loro in una varietà di modi
ma quella fondamentale è la competizione
tecnologica. I nuovi mezzi di produzione sono
più efficienti, e cioè producono più prodotti
per unità di capitale investito. Però allo stesso
tempo essi rimpiazzano il lavoro cosicché
meno lavoratori sono impiegati per unità di
capitale investito.
• Contraddizione fondamentale: più
prodotti con meno lavoro per unità di
capitale.
• Se solo il lavoro produce valore (un’ipotesi
fondamentale che sarà supportata
empiricamente tra breve), i capitalisti più
efficienti producono percentualmente un
maggior output che però, essendo stato prodotto
da meno lavoro vivo, incorpora meno valore e
plusvalore. Essi producono più prodotti con meno
valore plusvalore incorporato. Il TMP cade. I
capitalisti che hanno innovato producono più
output dei capitalisti tecnologicamente arretrati
la cui produzione percentuale è ora minore di
quella dei leaders tecnologici.
• Siccome i prezzi tendono a perequarsi, i
leaders vendono una maggiore quantità di
output allo stesso prezzo del minore output
dei capitalisti arretrati. Gli innovatori quindi si
appropriano di una fetta del plusvalore
equivalente a quella persa dai ritardatari. Il
tasso di profitto dei primi sale e quello dei
secondi diminuisce. Il TMP cade.
• Quindi la caduta del TMP non indica che tutti i
capitali realizzano meno profitti. Al contrario,
essa indica che la redditività degli innovatori sale
e quella degli altri capitali scende cosicché la
media cade.
• I capitalisti non cercano la redditività media. Essi
cercano la massima redditività applicando nuove
tecnologie. Ed è per questo (perché essi
producono meno plusvalore relativamente al
capitale investito) che la redditività media cade.
• Nella misura in cui sempre più capitali introducono le
nuove tecnologie al fine di recuperare redditività,
sempre meno lavoro è impiegato e sempre meno
plusvalore è generato. I capitali retrogradi
incominciano a fallire e più vengono introdotte
tecniche ad alta intensità di capitale costante (con più
efficienti ma più costosi mezzi di produzione), più si
generalizzano fallimenti e disoccupazione tra i
capitalisti più deboli. La crisi è incominciata. Questa è la
tendenza. Vi sono molte controtendenze, quale
l’aumento del tasso di sfruttamento, che però non
posso discutere in questa sede.
• Questa è la legge della caduta tendenziale del
TMP. Essa è stata criticata sia perché
presumibilmente incoerente sia perché non
supportata empiricamente. Come ho
sostenuto nei miei scritti, la critica della
incoerenza, purtroppo fatta propria anche da
molti marxisti, è una sciocchezza.
• Infatti, essa si basa su una nozione di lavoro
come costo (la prospettiva del capitalista)
piuttosto che come creatore di valore e
plusvalore (come in Marx). Per il capitalista
individuale, la cui prospettiva è stata fatta
propria dalla teoria economica dominante, più
si elimina il lavoro, più diminuiscono i costi,
più aumenta il tasso di profitto. Come più
capitalisti innovano, il TMP cresce.
• Per Marx, più si elimina il lavoro, meno è il valore
e plusvalore che si genera, e più diminuisce il
TMP anche se gli innovatori realizzano un più alto
tasso di profitto. La critica a Marx secondo cui le
innovazioni tecnologiche aumentano, invece che
diminuire, il TMP e quindi che la teoria di Marx
sarebbe sbagliata, si basa sulla introduzione di
una nozione di lavoro aliena al suo approccio. La
critica è poco più di un trucco teorico.
• Ma la legge può anche essere supportata
empiricamente. Marx chiama il rapporto tra i
mezzi di produzione e la forza lavoro impiegati
la composizione organica del capitale.
• Nella misura in cui, a causa delle innovazioni
tecnologiche, il lavoro diminuisce
proporzionalmente ai mezzi di produzione, la
composizione organica cresce e il TMP cala.
Nel grafico che segue si vede che il trend del
TMP è decrescente mentre quello della
composizione organica cresce,
conformemente a Marx.
Grafico 2. TMP e composizione organica del
capitale.
3.00
25.00%
2.50
20.00%
2.00
15.00%
1.50
10.00%
1.00
5.00%
0.50
0.00
1940
1950
1960
1970
C/V LHS
1980
ARP RHS
1990
Linear (ARP RHS)
2000
2010
0.00%
2020
• Ne consegue che, se i mezzi di produzione crescono
relativamente al lavoro impiegato mentre il plusvalore
e quindi il TMP cadono, i mezzi di produzione non
possono creare plusvalore. Ma allora essi non creano
neanche valore. Dato che vi sono solo due fattori di
produzione, il capitale e il lavoro, è il lavoro e solo il
lavoro che produce valore e plusvalore. Questa è la
prova empirica della correttezza della ipotesi
fondamentale di Marx, che solo il lavoro crea valore e
quindi della legge del valore. Questo dovrebbe far
riflettere quegli autori, anche di ispirazione marxista,
che sostengono che sia il lavoro che i mezzi di
produzione creano valor.
• Se le crisi sono dovute alla caduta del TMP
indotto dalle innovazioni tecnologiche, vi è
ripresa economica solo se vi è una crescita del
TMP. Come è ciò possibile?
• Prima di tutto vediamo cos’è il capitale. Esso
non è una cosa ma una relazione di
produzione specifica, tra i possessori dei mezzi
di produzione e coloro che vendono la propria
forza lavoro ai primi. La crisi quindi è
distruzione di capitale, cioè di quella relazione
di produzione, e delle merci che sono state
prodotte sulla base di quella relazione. La crisi
quindi si manifesta come fallimenti e
disoccupazione.
• Facciamo due esempi- il primo è la cosiddetta Età d’Oro
del capitalismo, dalla fine della seconda guerra
mondiale ai primi anni 1970. In essenza, la guerra fu
una immane distruzione di capitale civile a causa della
conversione dell’economia americana in produzione
bellica. Allo stesso tempo, durante il periodo bellico,
una gran parte de salari non poteva essere spesa per
beni di consumo sia a causa della diminuita produzione
di tali beni sia a causa della propaganda bellica che
invitava a investire in buoni del tesoro e ad altre forme
di risparmio. Il risparmio forzato si convertì in un
quinquennio di represso potere d’acquisto.
• Dopo la fine della guerra, con la riconversione
di gran parte della economia militare in
economia civile, e cioè con la ricostituzione
del capitale civile, l’offerta di beni prima di
consumo e poi di investimento trovò sbocco
grazie alla liberazione del represso potere
d’acquisto. La crescita del capitale causò un
grande aumento dell’occupazione. Il valore e
plusvalore crebbero.
• Il TMP procedette a zigzag, con alti e bassi,
con cicli di crisi e di ripresa. Ma a parte questi
cicli più brevi, la tendenza di lungo periodo fu
tendenzialmente al ribasso perché la
sostituzione di lavoro con mezzi di produzione
incominciò subito dopo la guerra.
L’occupazione crebbe grandemente ma
diminuì relativamente ai mezzi di produzione
impiegati.
• Questa caduta corrodeva dall’interno la
crescita del capitale. I capitali più efficienti si
espandevano e potevano accumulare e
assorbire la disoccupazione tecnologica che
provocavano. Ma il TMP continuava a cadere.
Come sempre più imprese chiudevano e la
disoccupazione cresceva, iniziò la seconda
fase attorno alla metà degli anni 1970 in cui le
crisi emersero e divennero una caratteristica
ricorrente.
• Nel lungo periodo, quindi, vi fu un maggiore
benessere per il lavoro e una espansione
economica che però era minata dall’interno da
un TMP in continuo declino. Questa fu
l’origine e la fine dell’Età d’oro e non le spese
statali, come sostengono i Keynesiani. Infatti, il
debito federale lordo come percentuale del Pil
diminuì costantemente nell’Età dell’Oro, dal
121% nel 1946 al 37% nel 1970.
• Il secondo esempio è l’Argentina. Nel contesto
della discussione sulla crisi dell’Euro,
l’Argentina è spesso menzionata come un
successo basato sulle politiche redistributive
Keynesiane e sulla svalutazione competitiva.
Vediamo se ciò corrisponde a verità.
• Nel 1991 fu introdotta la convertibilità fissa tra
il peso e il dollaro. Essa fu revocata 10 anni
dopo. Quel decennio può essere suddiviso in
un primo periodo (1991-1997) di relative
espansione economica e un secondo (19982002) di crisi. La crisi raggiunse l’apice nel
2001 e la ripresa iniziò nel 2002. Che cosa
causò prima la crisi dal 1998 al 2002 e poi la
ripresa nel 2002?
Vediamo alcuni dati
•
•
•
•
•
PIL
1997
1998
1999
2002
8,1%
3,9%
-3.4%
-10,9%
•
•
•
•
•
•
Disoccupazione e sotto-occupazione
1998 26.5%
2002 38,9%
Accumulazione del capitale
1997 3,7%
2002 -2%
• I salari caddero drammaticamente e molte
imprese fallirono. Se il capitale è
essenzialmente una relazione di produzione, i
fallimenti e la minore accumulazione di
capitale assieme a una diminuzione
dell’occupazione costituirono una distruzione
di capitale produttivo.
• Durante la crisi il capitale costante diminuì
meno dell’occupazione (come si può inferire
dal fatto che gli investimenti caddero del 5,7%
mentre la disoccupazione e sottooccupazione aumentarono del 12,4%). Quindi
la composizione organica salì. Nello stesso
periodo, il tasso di sfruttamento cadde
moderatamente.
• Questi due fattori contribuirono alla caduta
del TMP che cadde dal 29.9% nel 1998 al
15,9% nel 2001. Ma ci sono dati che indicano
che il TMP incominciò a cadere ben prima, fin
dai primi anni 1960, e che si riprese attorno al
1985.
Il TMP in Argentina.
• Si noti la similarità col TMP negli USA (grafico
1 più sopra). Ciò non è casuale. Michael
Roberts ha fatto recentemente uno studio del
TMP mondiale e ha trovato un andamento
simile.
• Torniamo all’Argentina. Questi dati
sembrerebbe suggerire che la distruzione del
capitale aveva continuato per circa 25 anni, un
dato che potrebbe spiegare, meglio
dell’aumento del tasso di sfruttamento, la
ripresa vigorosa durata 20 anni.
• La crisi nei settori produttivi avviò la crisi
finanziaria e l’Argentina smise di redimere il
suo debito sovrano di 132 miliardi di dollari
nell’ultima settimana del 2001. Questa fu
distruzione di capitale finanziario. Nel Gennaio
dei 2002, l’Argentina abbandonò la
convertibilità fissa. Il peso si svalutò dalla
parità tra peso e dollaro a 4 pesos per un
dollaro.
• La ripresa incominciò nel 2002, a ridosso della fine
della crisi finanziaria. I keynesiani enfatizzano che (a) la
svalutazione del peso rese le esportazioni meno care e
competitive sui mercati esteri, mentre allo stesso
tempo scoraggiarono le importazioni; (b) che le grandi
somme di denaro stanziate per il welfare dal governò
Kirchner (maggiori salari per le fasce più povere dei
lavoratori, condizioni più facili per accedere a mutui,
ecc.) fecero crescere l’economia domestica. Queste, le
politiche Keynesiane, sarebbero state le ragioni per la
ripresa in Argentina.
• Per quanto riguarda il primo punto, gli effetti
della svalutazione, le esportazioni
dell’Argentina incominciarono a diminuire
subito dopo l’iniziale balzo in avanti del 2002,
mentre il TMP ha continuato a crescere
tendenzialmente fino al 2006. L’aumento del
TMP dopo la caduta delle esportazioni non
può essere quindi attribuito alla svalutazione
competitiva.
• Cosa, dunque, ha ravvivato l’economia
Argentina? Due sono le cause. Primo, le
privatizzazioni furono una creazione di
capitale privato nella sfera produttiva. Gli
investimenti come percentuale del PIL
aumentarono dall’11,3% nel 2002 al 23,1% nel
2008 (ma, all’inizio della nuova crisi globale,
incominciarono a cadere di nuovo e nel 2009
erano il 20.6%).
• I maggiori investimenti causarono un aumento del
tasso di accumulazione. Dopo una diminuzione iniziale
del 2% nel 2002, il tasso di accumulazione crebbe e nel
2006 era cresciuto del 5.9%. Ciò causò una caduta del
tasso di disoccupazione e sotto-occupazione dal 38.9%
al 21.4% nello stesso periodo. L’occupazione crebbe di
più dell’accumulazione di capitale cosicché la
composizione organica cadde , causando un aumento
del TMP. il TMP balzò dal 15,9% nel 2001 al 38% nel
2002. Cadde nel 2003 ma crebbe di nuovo nel 2006. La
crescita tendenziale del ‘costo del lavoro’
controbilanciò un poco la ripresa del TMP, ma non la
poté neutralizzare.
• Secondo, la svalutazione del peso stimolò la
sostituzione delle importazioni da parte delle imprese
meglio equipaggiate. Una porzione molto significativa
dei produttori tradizionali locali sparì. Il risultato fu una
distruzione del capitale meno efficiente nel settore
manifatturiero ed una maggiore competitività sui
mercati internazionali. Dal 2002 al 2009, la produzione
industriale crebbe mediamente del 7,9%. Il PIL crebbe
dell’8,8% in 2003 and si assestò attorno a quel tasso di
crescita fino al 2007. Ma dopo incominciò a cadere. Dal
2007 al 2008 cadde di 1,9 punti percentuali e dal 2008
al 2009 di 5,9 punti percentuali.
• Il secondo argomento Keynesiano è che la
ripresa deve essere attribuita alle grandi
quantità di denaro stanziate per il welfare.
Tuttavia, abbiamo visto che una
redistribuzione a favore del lavoro peggiora la
crisi se finanziata dal capitale. Per di più,
mentre il TMP si riprese nel 2002, Kirchner fu
eletto solo nel 2003. Quindi la redistribuzione
a favore del lavoro non può essere stato
l’impulso iniziale della ripresa.
• La ripresa nell’Argentina non fu alimentata né
dalla svalutazione né dalle politiche redistributive
ma dalla ri-creazione del capitale privato
precedentemente distrutto con una
composizione organica bassa, una maggiore
efficienza e un più alto tasso di sfruttamento.
Questa è la causa della ripresa economica
dell’Argentina e della sua capacità di penetrare i
mercati esteri. Ciò è conforme alla teoria di Marx
delle crisi e delle riprese.
• Per finire, la critica delle politiche redistributive non
implica affatto che bisogna essere indifferenti a tali
politiche.
• la loro importanza risiede sia nel miglioramento delle
condizioni del lavoro che nel loro potenziale politico,
nella possibilità che la sacrosanta lotta per i
miglioramenti dei lavoratori (e quindi contro l’austerità)
faccia crescere la coscienza (1) che tutte le volte che
queste politiche sono pagate dal capitale esso è
indebolito sia economicamente che politicamente e (2)
che il lavoro deve approfittare di questa debolezza per
creare le condizioni per liberarsi dal giogo del capitale.
• L’ideologia Keynesiana sostiene a torto che la
redistribuzione e gli investimenti a favore del
lavoro offrono non solo la possibilità al
capitale di uscire dalla crisi ma anche
miglioramenti di vita per il lavoro e che quindi
vi sia una comunione di interessi piuttosto che
un irriducibile antagonismo tra le due classi.
Purtroppo, questa ideologia è stata fatta
propria dalla sinistra.
• Ma per la teoria di Marx, che non solo è
teoricamente e logicamente coerente ma è
anche supportata da una quantità crescente di
dati empirici, le lotte per le politiche
redistributive hanno senso solo se servono a
sedimentare la coscienza antagonista della
classe lavoratrice e se servono ad aumentarne
la forza e quindi la coscienza che per uscire
non solo da questa ma da tutte le future crisi
bisogna uscire da questo sistema.
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Guglielmo Carchedi York University Keynesiani, neo