L’Antropologia propriamente detta [è la] scienza
dell’uomo considerato nella costituzione della sua
natura: in tutti i tratti che lo avvicinano e in quelli che
lo distinguono dalle altre specie.
Alexandre C. Chavannes, Anthropologie, ou Science de l’Homme,
pour servir d’Introduction à l’étude de la Philosophie et des Langues
Lausanne 1788, p. III
Sono ancora incerti i confini delle specie animali, per noi che non abbiamo
altre misure se non le idee complesse che noi stessi raccogliamo; e siamo
ancora assai lontani dal sapere che cos’è un uomo, anche se, forse, sarà
giudicato grande ignoranza aver qualche dubbio in merito. Eppure mi par di
poter dire che i confini certi di questa specie sono così lungi dall’essere
determinati, e che il numero preciso di idee semplici che ne costituiscono
l’essenza nominale è così lungi dall’essere stabilito e perfettamente conosciuto,
che possono ancora sorgere dubbi sostanziali su questo punto. E credo che
nessuna delle definizioni che abbiamo della parola uomo, nessuna delle
descrizioni di questa specie di animale, sia così perfetta ed esatta da soddisfare
una persona riflessiva e dalla mente indagatrice, e tanto meno da ottenere un
consenso generale e da diventare quella alla quale tutti gli uomini, ovunque, si
atterrebbero nelle decisioni del caso, per determinare della vita o della morte,
del battesimo o meno, di certi esseri generati.
John Locke, Saggio sull’intelletto umano, 1690, Libro III, cap. VI, § 27
La più utile e meno progredita fra tutte le conoscenze umane mi
pare sia quella dell’uomo, e oso dire che la sola iscrizione del tempio
di Delfo conteneva una massima più importante e più difficile di
tutti i grossi volumi dei moralisti. […] come conoscere, infatti, la
fonte della disuguaglianza tra gli uomini, se non si comincia col
conoscere gli uomini stessi? e come potrà l’uomo arrivare a vedersi
tal quale l’ha fatto la natura, attraverso tutti i mutamenti che il corso
dei tempi e delle cose ha dovuto apportare alla sua originaria
costituzione; arrivare a distinguere ciò che appartiene alla sua
essenza da ciò che le circostanze e i suoi progressi hanno aggiunto o
mutato rispetto al suo stato primitivo?
J.J. Rousseau, Sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, 1754
I conquistadores spagnoli appartengono
storicamente al periodo di transizione fra un
Medioevo dominato dalla religione e l’epoca
moderna che mette i beni materiali al vertice
della sua scala di valori.
Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, Einaudi 1984, p. 51
esseri umani completi, con gli stessi diritti che spettano a lui; ma in tal caso
non li vede come eguali, bensì come identici, e questo tipo di
comportamento sbocca nell’assimilazionismo, nella proiezione dei propri
valori sugli altri. Oppure parte dalla differenza; ma questa viene
immediatamente tradotta in termini di superiorità (nel suo caso, com’è ovvio,
sono gli indiani a essere considerati inferiori); si nega l’esistenza di una
sostanza umana realmente altra, che possa non consistere semplicemente in
un grado inferiore, e imperfetto, di ciò che noi siamo. Queste due elementari
figure dell’alterità si fondano entrambe sull’egocentrismo, sull’identificazione
dei propri valori con i valori in generale, del proprio io con l’universo: sulla
convinzione che il mondo è uno.
Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, Einaudi 1984, p. 51
Io ritengo che le parole di Aristotele si riferiscano a uomini creati
dalla natura per vagare invano nelle foreste senza leggi e forme di
governo, a uomini nati per servire altri uomini, come le bestie e gli
animali selvaggi. Ma io dubito che gli indiani siano fra questi, perché
dalle testimonianze di chi ha viaggiato nelle loro terre e ne ha
conosciuto le istituzioni e il carattere primitivo, una cosa è certa ed
evidente, e cioè ch’essi vivono in città, in borghi e in villaggi, che
obbediscono ai re nominati da loro e che posseggono molte altre
istituzioni collaterali: tutto ciò dimostra ch’essi conoscono le arti
meccaniche e morali e le cose del mondo, e che sono dotati di
ragione.
Diego de Covarrubias, De iustitia belli (1547)
Confronta ora le doti di prudenza, ingegno, magnanimità,
temperanza, umanità, religione [degli spagnoli] con quelle di questi
humunculi nei quali a stento potrai riscontrare qualche traccia di
umanità, e che non soltanto sono totalmente privi di cultura, ma
non conoscono l’uso delle lettere, non conservano alcun
documento della loro storia […], non hanno alcuna legge scritta, ma
soltanto istituzioni e costumi barbari. […]
Il fatto che alcuni di loro sembrino avere dell’ingegno, per via di
certe opere di costruzione, non è prova di una più umana perizia,
dal momento che vediamo certi animaletti, come le api e i ragni,
costruire opere che nessuna attività umana saprebbe imitare.
>>>
[…] secondo me la maggior prova della loro
rozzezza, barbarie e innata servitù è costituita
proprio dalle loro istituzioni pubbliche, che sono
per la maggior parte servili e barbare. Infatti che
abbiano case e alcuni modi razionali di vita in
comune e i commerci ai quali induce la necessità
naturale che cos’altro prova, se non che costoro
non sono orsi o scimmie del tutto prive di
ragione?
>>>
E quanto al fatto che alcune di quelle popolazioni,
secondo quanto si dice, manchino completamente di ogni
religione e di ogni conoscenza di Dio, che altro è questo
se non negare l’esistenza di Dio e vivere come le bestie?
Non vedo che cosa si potrebbe escogitare di più grave, di
più turpe, di più alieno alla natura umana.
Juan Ginés de Sepúlveda, Democrates secundus de iustis belli
causis (± 1545)
Gli abitanti delle Antille vivono alla maniera delle bestie […]
quindi la prima persona che li sottomette, a buon diritto li
governa, perché sono per natura schiavi. Come dice il Filosofo,
è chiaro che alcuni uomini sono schiavi per natura, e altri per
natura liberi; ed è accertato che in alcuni uomini la disposizione
alla schiavitù esiste, e che essi dovrebbero trarne beneficio. Ed
è giusto che un uomo debba essere schiavo e un altro libero, ed
è corretto che un uomo debba comandare e un altro obbedire,
perché l’attitudine al comando è anch’essa innata nel padrone
naturale.
John Mair, In secundum Sententiarum (1510), f. CLXXXVIr
Tutta questa gente di ogni genere fu creata da Dio senza
malvagità e senza doppiezze, obbedientissima ai suoi signori
naturali e ai cristiani, ai quali prestano servizio. […] Sono al
tempo stesso la gente più delicata, fiacca, debole di
costituzione, che meno può sopportare le fatiche e più
facilmente muore di malattia. […] La loro intelligenza è
limpida, sgombera e viva: sono molto capaci, e docili a ogni
buona dottrina, adattissimi a ricevere la nostra santa fede
cattolica, e ad assumere costumi virtuosi; anzi sono la gente
più adatta a ciò che Dio creò nel mondo.
>>>
Infine, da molti anni a questa parte, e molte volte, ho sentito dire da
molti laici spagnoli, che non potevano negare la bontà che
scorgevano in costoro: «certamente questa gente sarebbe la più
fortunata del mondo, se soltanto avesse conoscenza di Dio».
Tra queste pecore mansuete, dotate dal loro pastore e creatore delle
qualità suddette, entrarono improvvisamente gli spagnoli, e le
affrontarono come lupi, tigri o leoni crudelissimi da molti giorni
affamati. E altro non han fatto, da quarant’anni fino a oggi, e oggi
ancora fanno, se non disprezzarle, ucciderle, angustiarle, affliggerle,
tormentarle e distruggerle con forme di crudeltà strane, nuove,
varie, mai viste prima d’ora […].
>>>
Da un conto molto esatto e veritiero risulta che negli
scorsi quaranta anni per queste tirannie e opere infernali
dei cristiani sono morti ingiustamente più di dodici milioni
di anime, uomini, donne e bambini; e in verità credo di
non ingannarmi supponendo che siano più di quindici
milioni.
Bartolomé de Las Casas, Brevissima relaciòn de la destruycòn de las Indias,
1552 [Obras escogidas, Madrid 1958, vol. 5, pp. 135 ss.]
Ora, per ritornare discorso, io ritengo che non ci sia niente di
barbaro e selvaggio in questa nazione, per quanto mi è stato riferito,
se non che si chiama “barbarie”ciò che non è nei nostri costumi;
sembra infatti che non abbiamo altro criterio di verità e di ragione
che non sia l’esempio e l'idea delle opinioni e delle abitudini del
paese in cui siamo.
Là è sempre la religione perfetta, il governo perfetto, l'uso perfetto e
compiuto d'ogni cosa. Essi sono selvaggi, al modo stesso in cui noi
chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo
sviluppo naturale; laddove, in verità, dovremmo piuttosto chiamare
selvatici quelli che noi abbiamo col nostro artificio alterati e distorti
dall’ordine naturale.
>>>
In quelli sono vive e vigorose quelle virtù e proprietà che sono le vere, più
utili e naturali, quelle che noi abbiamo imbastardito in questi, adattati al
piacere del nostro gusto corrotto. E nondimeno il sapore medesimo e la
delicatezza di diversi frutti di quelle regioni, che non sono stati coltivati,
sembrano eccellenti, rispetto ai nostri. Non c’è ragione che l’arte guadagni
il punto d’onore sulla nostra grande e potente madre natura. Abbiamo
tanto sovraccaricato la bellezza e la ricchezza delle sue opere con le nostre
invenzioni, che l’abbiamo soffocata del tutto.
[...] Quei popoli dunque mi sembrano barbari in quanto sono stati in
scarsa misura modellati dallo spirito umano, e sono ancora molto vicini
alla loro semplicità originaria. Li governano sempre le leggi naturali, non
ancora troppo imbastardite dalle nostre; ma con tale purezza, che talvolta
mi dispiace che non se ne sia avuta nozione prima, quando c’erano uomini
che avrebbero saputo giudicarne meglio di noi.
Michel de Montaigne, Essais, Des cannibales
[…] che queste massime generali di cui abbiamo
fin qui parlato siano ignote ai fanciulli ai mentecatti
e a una gran parte del genere umano [selvaggi e
gente illetterata], è ciò che abbiamo
sufficientemente provato.
John Locke, Saggio sull’intelletto umano (1690), Libro I, cap.
I, § 27
[gli indios sono] partecipi della ragione fino a poterla
percepire, ma non certo possedere o seguire. In questo
senso essi non sono diversi dagli animali (anche se gli
animali non hanno nemmeno la possibilità di percepire la
ragione), perché sono dominati dalle passioni. La cosa si
può capire facilmente dal fatto che per loro non esiste il
futuro: infatti si accontentano di avere cibo e bevande per
una settimana, e quando le provviste sono finite, si danno
da fare per la settimana successiva.
Juan de Matienzo, Gobierno del Perù (1567)
L’anima [del selvaggio], che nulla commuove, si abbandona al
solo sentimento dell’esistenza attuale senza idea dell’avvenire,
per quanto prossimo; i suoi disegni, limitati al pari delle sue
vedute, si estendono appena sino al termine della giornata.
Tale è ancora oggi il grado di previdenza del Caraibo, che
vende la mattina il suo letto di cotone, e la sera viene a
piangere per riscattarlo, per non aver previsto che ne
avrebbe avuto bisogno la notte prossima.
Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della
disuguaglianza tra gli uomini
rapporti dello studio fisico dell’uomo con quello dei
procedimenti del suo intelletto; di quelli dello sviluppo
sistematico dei suoi organi con l’analogo sviluppo dei suoi
sentimenti e delle sue passioni: rapporti da cui risulta
chiaramente che la fisiologia, l’analisi delle idee e la morale
non sono che le tre branche di una sola e medesima
scienza, che si può chiamare, a giusto titolo, scienza
dell’uomo
Pierre-Jean-Georges Cabanis, Sur la perfectibilité du genre humain
[Œuvres philosophiques, ed. Lehec-Cazeneuve, Paris 1956, II, p. 515]
Anthropologie, conoscenza dell’uomo: è un genere di sapere molto
esteso, che si divide anzitutto in antropologia fisica e in
antropologia morale.
L’antropologia fisica si suddivide in diverse specie di scienze e cioè:
1. la storia naturale dell’uomo e l’anatomia; 2. la fisiologia o scienza
dell’organizzazione umana; 3. l’igiene o la fisiologia applicata
all’amministrazione della vita, all’arte di conservare la salute; 4. la
medicina propriamente detta, o la fisiologia applicata al sollievo
dell’uomo malato.
L’antropologia morale comprende: 1. la parte sperimentale a cui si
riferiscono la biografia, la storia e i viaggi; 2. l’ideologia, o analisi
delle facoltà intellettuali; 3. la morale speculativa, o l’analisi dei
sentimenti […]; 4. la morale applicata, da cui l’economia politica, la
legislazione ecc. ecc.
Jean-Louis Moreau de la Sarthe, recensione a Pinel, «Décade philosophique», 1798
Bisogna cominciare con l’osservare molto; ma bisogna anche
osservare senza nessuna regola, perché se si è già deciso di
considerare le cose in una determinata prospettiva, secondo un
certo ordine, secondo un certo sistema, anche se si è imboccata
la strada migliore non si arriverà mai a quell’estensione di
conoscenze cui si potrebbe aspirare se, all’inizio, fosse stato
permesso allo spirito di procedere con le sue forze, di
riconoscersi da sé, di costruirsi un fondamento senza che gli
venisse fornito alcun aiuto, e di formare da solo la prima catena
che rappresenta l’ordine delle sue idee. […] le persone sensate si
accorgeranno però sempre che la sola e vera scienza è la
conoscenza dei fatti, lo spirito non può supplirvi: i fatti sono
nelle scienze ciò che l’esperienza è nella vita civile.
[Georges-Louis Leclerc] Buffon, Histoire naturelle générale et particulière (1749),
Primo discorso, «Sulla maniera di studiare e di trattare la storia naturale»
quando un bambino si è fatto l’idea di un uomo, è probabile che
quest’idea sia per l’appunto simile a quella figura, che il pittore
esegue, dell’aspetto visibile delle parti assieme unite; e tale
complicazione di idee, unite assieme nel suo intelletto, costituisce la
singola idea complessa che egli chiama uomo; e poiché in
Inghilterra il color bianco, o incarnato, fa parte di questa idea
complessa, il bambino vi potrà dimostrare che un negro non è un
uomo, poiché il color bianco era una delle idee semplici costanti di
quell’idea complessa che egli chiama uomo. E perciò potrà
dimostrare, mediante il principio per cui è impossibile che la stessa cosa
sia e non sia, che un negro non è un uomo.
John Locke, Saggio sull’intelletto umano (1690), Libro IV, cap. VII, § 16
[l’uomo è] un corpo eretto, nudo, al punto di
venire alla luce del tutto inerme, cosparso di peli
rari e remotissimi, lungo neppure sei piedi
Carolus Linnaeus, Systema Naturae, apud Theodorum
Haak, Rotterdam 1735, vol. I, p. 24
La prima verità che risulta da questo serio esame della
natura è una verità forse umiliante per l’uomo: il fatto cioè
di doversi egli stesso allineare nella classe degli animali ai
quali rassomiglia in tutto ciò che ha di materiale; anzi il
loro istinto potrà sembrargli perfino più sicuro della sua
ragione e la loro industriosità più ammirevole delle sue
arti.
Buffon, Histoire naturelle… (1749), Primo discorso, «Sulla maniera di
studiare e di trattare la storia naturale»
l’uomo, in piccolo numero, era sparso, errante; lungi dal
padroneggiare questo territorio come suo proprio
dominio, non aveva alcun imperio; non avendo mai
sottomesso né gli animali, né gli elementi, non avendo né
domato i mari, né diretto i fiumi, né lavorato la terra, non
era egli stesso che un animale di primo rango, ed esisteva
per la natura solo come un essere senza importanza, una
specie di automa impotente, incapace di riformarla o di
secondarla
Buffon, Histoire Naturelle… (1749), IX = Histoire naturelle de l’Homme
[Paris 1761, pp. 104-5]
Parlo degli aborigeni del paese. […] penso che il lettore vorrà
essere della mia stessa opinione, che cioè da un capo all’altro
dell’America gli uomini rossi costituiscono un unico popolo
che trae la propria origine da una fonte diversa da quella degli
europei, dei cinesi, dei negri, dei mori, degli indiani, o di altra
differente specie del genere umano. Io penso infatti che il
genere umano sia suddiviso in diverse specie, così come
accade tra la maggior parte degli altri animali, e da ciò mi pare
risulti chiaro che gli americani non sono una varietà
occasionata da un miscuglio di ciascuna delle specie sopra
nominate.
[…]
O Deus homines et homines creavisti
>>>
Ma, ahimè, a quale popolo ci troviamo di fronte! Un popolo
non soltanto rozzo e incolto, ma incapace di civilizzazione;
[…] un popolo che, come l’esperienza ci ha insegnato, alla
prima occasione ritornerà al suo stato primitivo come il cane al
suo vomito.
[…] Quale altro popolo può essere trovato che trascura così
totalmente l’agricoltura? I selvaggi […] sono forti e attivi,
resistenti alla fame e alle fatiche della caccia e dei viaggi, ma
insofferenti e incapaci per quanto riguarda il lavoro
produttivo.
Bernard Romans, Concise Natural History of East and West Florida,
New York, 1775, pp. 37 ss.
vi sono in natura varie specie di uomini, come ci sono
numerose specie di tori e di cavalli, gli uni bravi e
intelligenti, gli altri timidi e stupidi, gli uni capaci di
espressioni e di creazioni superiori, gli altri limitati alle
idee e alle invenzioni rudimentali
Hippolyte Taine, Histoire de la littérature anglaise (1863-65)
in effetti, se devo dire il vero, in quanto Storico Naturale,
sulla base dei principi della scienza, non ho potuto finora
enucleare alcun carattere che permetta di discernere
l’Uomo dalla Scimmia; si trovano infatti in altri luoghi della
Terra scimmie meno pelose dell’uomo, dal corpo eretto,
incedenti su due piedi come quest’ultimo […]. Ma in noi
inerisce qualche cosa che gli occhi non possono vedere, da
cui deriva la conoscenza che abbiamo di noi stessi e che è
la nobilissima Ragione, per la quale l’uomo supera
enormemente gli animali.
Carolus Linnaeus, Fauna Svecica sistens animalia Sveciæ Regni:
qvadrupedia, aves, amphibia, pisces, insecta, vermes, distributa per classes &
ordines, genera & species (1746), Stoccolma 1761, pp. 3-4
è vero che l’uomo assomiglia agli animali in ciò che ha di
materiale, e che volendo comprenderlo nell’enumerazione
di tutti gli esseri naturali si è obbligati a metterlo nella
classe degli animali; ma […] quando mettiamo l’uomo in
una di queste classi, noi non mutiamo la realtà del suo
essere, non deroghiamo rispetto alla sua nobiltà, non
alteriamo la sua condizione, infine non togliamo nulla alla
superiorità della natura umana rispetto a quella dei bruti
[…]. Tutte le rassomiglianze sono esteriori e non bastano
a farci affermare che la natura dell’uomo è simile a quella
dell’animale
Buffon, Histoire naturelle…, voll. VIII-IX = Histoire naturelle de l’Homme (De l’homme,
ed. Duchet, Paris 1971 pp. 43-4)
simili all’uomo in quasi tutto ciò che appartiene al
corpo, non avendo in rapporto a lui, nei loro sensi
e nei loro organi, che quelle differenze le quali
possono esistere tra esseri d’una stessa natura e
che rivelano soltanto un’inferiorità in qualità simili
Marie Jean Antoine Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet,
Éloge de M. le comte de Buffon, 1790 [Œuvres, ed. Arago/O’Connor, III]
Spetta ai filosofi ingegnosi e sottili di ragionare
sulle facoltà dell’anima; noi dobbiamo invece
accontentarci di parlare della parte materiale e
grossolana del nostro essere, e della sua
composizione organica: della pelle, delle membra,
dei muscoli, delle viscere, che l’occhio riesce
facilmente a discernere
Petrus Camper, Dissertation sur les variétés naturelles qui caractérisent la
physionomie des hommes des divers climats (1791, ma concepita nel 1768)
Osservando poi successivamente e ordinatamente i diversi oggetti
che compongono l’universo e ponendosi alla testa di tutti gli esseri
creati, [l’uomo intento a riflettere sulla propria natura] si accorgerà,
stupito, che si può discendere per gradi quasi insensibili dalla
creatura più perfetta alla materia più informe, dall’animale meglio
organizzato al minerale più bruto; egli riconoscerà che queste
impercettibili sfumature sono la grande opera della natura e le
scoprirà non soltanto nelle grandezze e nelle forme, ma nei
movimenti, nelle generazioni, nelle successioni di ogni specie
[Georges-Louis Leclerc] Buffon, Histoire naturelle générale et particulière (1749),
Primo discorso, «Sulla maniera di studiare e di trattare la storia naturale»
Il selvaggio è debole e piccolo negli organi della generazione, non
ha né pelo, né barba, né alcun ardore verso la propria femmina;
benché più agile dell’Europeo, in quanto più avvezzo alla corsa, è
tuttavia di corporatura molto meno forte: è anche molte meno
sensibile, e tuttavia più pauroso e più vile; non ha alcuna vivacità,
alcuna attività dell’animo; quella del corpo non è tanto un esercizio,
un movimento volontario, quanto un’azione necessaria causata dal
bisogno; toglietegli la fame e la sete, e distruggerete nello stesso
tempo il principio attivo di tutti i suoi movimenti; egli resterà
immobile con aria inebetita, in piedi o accovacciato per giornate
intere
[Georges-Louis Leclerc] Buffon, Histoire naturelle générale et particulière (1749), vol.
IX = Histoire naturelle de l’Homme [Paris 1761, pp. 104-5]
la natura […] procede per gradi sconosciuti […], così che
si trova un gran numero di specie intermedie e di oggetti
divisi a metà e che non si sa dove sistemare, per cui ne
rimane necessariamente sconvolto il progetto del sistema
generale
[Georges-Louis Leclerc] Buffon, Histoire naturelle générale et particulière (1749),
Primo discorso, «Sulla maniera di studiare e di trattare la storia naturale»
Una sala di costumi in una delle gallerie del Louvre
sarebbe una istituzione del più grande interesse sotto tutti
i rispetti: fornirebbe il più sapido alimento alla curiosità
della gente, modelli preziosi agli artisti, e soprattutto
oggetti di meditazione utili al medico, al filosofo, al
legislatore. Figuriamoci una collezione di volti e di corpi di
ogni paese e di ogni nazione, dipinti esattamente con la
tonalità del loro colore, il taglio dei loro tratti, la forma più
abituale delle loro membra: quale campo di studio e di
ricerche sarebbe sull’influenza del clima, dei costumi, degli
alimenti! Là si troverebbe la vera scienza dell’uomo!
Volney (Constantin François de Chassebœuf, conte di Volney ), Les Ruines, ou Méditations
sur les révolutions des empires (1791; II ed., Paris 1798, p. 188)
L’influenza che queste diverse strutture [corporee,
anatomiche] possono avere sulle facoltà morali e
intellettuali di queste razze differenti è stata valutata solo
fino a un certo punto, e l’esperienza sembra essere
abbastanza d’accordo con la teoria in ciò che concerne i
rapporti tra la perfezione dello spirito e la bellezza della
figura
Georges Cuvier, Notes instructives sur les recherches à faire relativement aux
différences anatomiques des diverses races d’hommes (1800)
Io suppongo due scale di esseri animati, cioè di esseri che agiscono per mezzo dell’anima:
l’una la cui sommità è l’uomo, e il cui gradino inferiore è l’animale più piccolo e più
semplice che l’uomo possa discernere; e l’altra che ha alla sommità il Creatore del mondo
visibile e al fondo l’uomo […]. Dell’uomo stesso sembrano esservi parecchie specie, per
non parlare dei giganti o dei pigmei o di quella sorta di piccoli uomini che hanno una
vocina e si nutrono principalmente di pesci, chiamati Urie. […] La stessa differenza che vi
è tra uomo e uomo nella grandezza mi sembra esservi anche nella memoria, nell’arguzia,
nel giudizio e nei sensi esterni, essendo alcuni capaci di vedere, altri di sentire, altri di
odorare cinque volte più lontano di altri individui della stessa specie. […] Oltre a queste
differenze tra uomo e uomo ve ne sono altre più considerevoli, come quella tra i Negri
della Guinea e gli Europei del Centro-Europa, e all’interno dei Negri tra quelli della
Guinea e quelli che vivono nella regione del Capo di Buona Speranza, i quali sono i più
simili alle bestie di tutte le sorte di uomini che sono a conoscenza dei viaggiatori. Io dico
che gli Europei differiscono dai suddetti Africani non soltanto nel colore, che è differente
tanto quanto il bianco dal nero, non soltanto nella capigliatura, che è differente tanto
quanto una linea retta da un cerchio, ma anche nella forma del naso, delle labbra e degli
zigomi, come pure nella conformazione della faccia e del cranio. Essi differiscono anche
per quanto riguarda il loro naturale modo di fare, e le qualità interne dei loro spiriti.
William Petty, The Scale of Creatures (1677; manoscritto)
L’America può essere propriamente definita la sorella minore e
cattiva dell’umanità. Non ha governo civile, né religione, né lettere: i
Francesi chiamano gli Americani les Hommes des Bois, o selvaggi delle
foreste. Essi non coltivano la terra piantando o creando pascoli, se
si eccettua un’irrisoria quantità di mays o grano indiano, e di kidney
beans (che nella Nuova Inghilterra chiamano «fagioli indiani»)
piantati da alcune delle loro squaas. Non si procurano il cibo per
l’indomani, la caccia è per loro un necessario mezzo di sussistenza e
non un divertimento; quando la loro caccia è fortunata, mangiano e
dormono finché tutto è consumato, e poi vanno a caccia di nuovo.
William Douglass, A Summary, Historical and Political, of the First Planting, Progressive
Improvements, and present State of the British Settlements in North-America (Boston 1747)
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito (1807)
Esiste una qualche ragione per ritenere che
tutti i popoli che vivono oltre i circoli polari
o ai tropici siano inferiori al resto della specie
umana e siano esclusi da tutte le più alte vette
di cui è capace la mente umana
David Hume, Saggi (1748), Sui caratteri nazionali
Sono propenso a sospettare che i negri, e in generale tutte le altre specie di
uomini (ve ne sono infatti quattro o cinque tipi diversi), siano per natura
inferiori ai bianchi. Non c’è mai stata una nazione civile di carnagione
diversa da quella bianca, e neppure qualche singolo individuo non bianco
che abbia eccelso nell’azione o nel pensiero. Tra i Negri non si trovano né
ingegnosi manufatti, né arti, né scienze. Una differenza tanto uniforme e
costante non potrebbe verificarsi in così numerosi paesi ed epoche
diverse, se la natura non avesse operato una distinzione originaria fra
queste razze umane. Lasciamo stare le nostre colonie: tutta l’Europa è
però disseminata di schiavi negri, dei quali nessuno ha mai rilevato alcun
barlume di ingegno; fra di noi, al contrario, anche la gente più umile e
priva di istruzione si solleverà fino a distinguersi in tutte le professioni. In
Giamaica, è vero, si parla del negro come di un uomo istruito e di talento,
ma probabilmente questa ammirazione sarà dovuta a qualche minima
dote, come succede con un pappagallo che pronunci chiaramente qualche
parola.
David Hume, Saggi (edizione 1753-56), Sui caratteri nazionali
È dimostrato che i selvaggi americani sono indocili, incorreggibili,
incapaci di riflettere e di imparare: voler insegnare loro qualche
cosa, voler piegare le fibre del loro cervello, sarebbe come voler far
camminare delle persone con tutte le membra paralizzate. La
grossolanità di quei popoli può arrivare al punto che gli uomini
finiscono col somigliare agli animali: basti osservare quegli schiavi
che i Turchi prendono dalla Circassia e dalla Mingrelia, i quali
stanno tutto il giorno con la testa piegata sullo stomaco, senza dire
una parola e senza muoversi, e non interessandosi a nulla di ciò che
accade intorno a loro. Dei cervelli che restino così inutilizzati
finiscono col perdere le loro funzioni: quasi non si giovano della
loro anima, né questa della sua unione col corpo.
Charles de Secondat barone di Montesquieu, Saggio sulle cause che possono agire sugli
spiriti e sui caratteri (1736-43)
La natura in tutte le sue operazioni […] ha cominciato dai
gradi più semplici, e poi è passata ai più complessi; così
facendo ha introdotto in essi, gradualmente, diversi
apparati particolari, li ha moltiplicati aumentandone
sempre più l’efficienza, accumulandoli negli animali più
perfetti
Jean-Baptiste Lamarck, Histoire Naturelle des Animaux sans Vertèbres (1815-22),
Parte prima, cap. IV, § 2
È naturale pensare che sia il colore a costituire la caratteristica
dell’umanità […]. Si può giudicare dal colore della pelle come da
quello dei capelli, che, presso gli Egiziani – i migliori filosofi del
mondo – era di così grande importanza, che essi uccidevano tutti gli
uomini dai capelli rossi che cadevano nelle loro mani.
Una prova che i negri non hanno senso comune è che essi
ammirano più una collana di vetro che non l’oro che, presso le
nazioni civili, è così apprezzato.
Charles de Secondat barone di Montesquieu, Esprit de lois (1748), XV.5 («Della
schiavitù dei negri»)
Se dovessi sostenere il diritto che noi abbiamo di rendere schiavi i
negri, ecco ciò che direi: i popoli d’Europa, avendo sterminato
quelli d’America, hanno dovuto ridurre in schiavitù quelli d’Africa,
per servirsene per dissodare tante terre. Lo zucchero sarebbe
troppo caro, se non si facesse coltivare dagli schiavi la pianta che lo
produce. Gli individui in questione sono neri dalla testa ai piedi, e
hanno il naso così schiacciato che è quasi impossibile compatirli.
Non ci si può convincere che Dio, il quale è un essere molto saggio,
abbia posto un’anima, e soprattutto un’anima buona, in un corpo
tanto nero
Charles de Secondat barone di Montesquieu, Esprit de lois (1748), XV.5 («Della
schiavitù dei negri»)
È impossibile per noi supporre che essi siano uomini, perché, se li
supponessimo tali, si potrebbe cominciare a creder che noi stessi
non siamo cristiani. Degli spiriti limitati esagerano eccessivamente
l’ingiustizia che si fa agli Africani: se essa fosse così grande come
essi affermano non sarebbe infatti venuto in mente ai principi
d’Europa, che stabiliscono tra loro tante convenzioni inutili, di
farne una generale in favore della compassione e della pietà?
Charles de Secondat barone di Montesquieu, Esprit de lois (1748), XV.5 («Della
schiavitù dei negri»)
Un’insensibilità ebete costituisce la base del carattere di tutti gli
Americani: la loro pigrizia impedisce loro di prestare attenzione a
qualsiasi istruzione; nessuna passione ha il potere di scuotere la loro
anima e di innalzarla al di sopra di se stessa […]. Sono realmente
inferiori all’infimo degli Europei; privi sia dell’intelligenza che della
perfettibilità, non obbediscono che agli impulsi dell’istinto
De Pauw, Recherches philosophiques sur les Américains, ou Mémoires intéressans pour servir
à l’Histoire de l’Espèce humaine (Berlin 1768), vol. II, p. 195
Non si può dire ch’essi siano assolutamente inadatti alla
civiltà, giacché si può ben insegnare a delle scimmie a
mangiare, bere, riposarsi e vestirsi al modo degli uomini.
Ma, fra tutte le specie d’esseri umani scoperte fino ad oggi,
appaiono, vista la bassezza naturale del loro spirito, i
meno capaci d’arrivare a pensare ed agire da uomini. Non
credo che sarebbe disonorante, per una donna ottentotta,
avere per marito un orang-outang.
Edward Long, The History of Jamaica (1774), t. II, p. 373
Fra gli uomini che conosciamo direttamente o in base ai
racconti degli storici o dei viaggiatori, alcuni sono neri, altri
bianchi, altri rossi; gli uni hanno capelli lunghi, gli altri solo
dei ricci lanosi; gli uni sono coperti quasi completamente di
peli, gli altri non hanno neanche la barba; ci furono, e forse
ancora ci sono, popoli di statura gigantesca […]; si pretende
anche vi siano popoli interi forniti di coda, come i
quadrupedi; […] se si fossero potute svolgere indagini
accurate a proposito di quei tempi antichi in cui popoli
diversi vivevano in modi più differenziati tra loro di quanto
non accada oggi, si sarebbe anche riscontrata una varietà
molto più notevole nell’aspetto del corpo e nelle sue
abitudini. […]
>>>
Tutte queste osservazioni sulle diversità che nella specie
umana possono nascere, e di fatto son nate, da mille cause,
mi portano a dubitare che diversi animali simili agli uomini,
presi per bestie, senza un esame approfondito, dai
viaggiatori – o per qualche differenza che notavano nella
conformazione esteriore, o soltanto perché si trattava di
animali che non parlavano – fossero in realtà veri uomini
allo stato selvaggio, la cui razza, dispersa anticamente nei
boschi, non aveva avuto occasione di sviluppare nessuna
delle sue facoltà potenziali e, non essendo giunta a nessun
grado di perfezione, si trovava ancora nel primitivo stato di
natura. […]
>>>
I giudizi precipitosi, che non sono frutto di una illuminata ragione,
sono soggetti a cadere nell’eccesso. I nostri viaggiatori considerano
sbrigativamente bestie, sotto i nomi di pongo, mandrilli, orangutan, i
medesimi esseri di cui, col nome di satiri, fauni, silvani, gli antichi
facevano delle divinità. Forse, dopo più accurate ricerche, si troverà
che si tratta di uomini. […] Da tre o quattrocento anni gli abitanti
d’Europa invadono le alte parti del mondo e pubblicano senza posa
nuova raccolte di viaggi e di relazioni ma io sono persuaso che i soli
uomini da noi conosciuti sono gli europei; inoltre, dai ridicoli
pregiudizi che ancora sopravvivono anche tra le persone colte, pare
che ciascuno, sotto il nome pomposo di studio dell’uomo, studi
solo gli uomini del suo paese. Gli individui hanno un bell’andare e
venire, ma la filosofia pare che non viaggi
J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza, nota XI
Mi sembra pertanto che per gli uomini valga lo
stesso principio che per le piante: ossia che i
peri, i pini, le querce, gli albicocchi non
derivano dalla stessa pianta e che i bianchi
barbuti, i negri lanosi, i gialli criniti e gli uomini
dalla faccia glabra non discendano dal
medesimo uomo.
François-Marie Arouet detto Voltaire, Traité de métaphysique
(1734), cap. I («Differenti specie di uomini»)
Solo a un cieco è consentito porre in dubbio
il fatto che i Bianchi, i Negri, gli Albini, gli
Ottentotti, i Lapponi, i Cinesi, gli Americani,
siano razze completamente diverse.
François-Marie Arouet detto Voltaire, Essais sur les
moeurs (1756), cap. I
I Negri e le Negre, trasferiti in paesi più
freddi, continuano a produrre animali
della loro specie. […] Non è
improbabile che nei paesi caldi le
scimmie abbiano soggiogato delle
ragazze.
François-Marie Arouet detto Voltaire, Essais
sur les moeurs (1756), cap. I
La membrana mucosa dei Negri, che è stata trovata nera ed è la
causa del loro colore, è una prova manifesta del fatto che in
ciascuna specie di uomini, come nelle piante, c’è un principio che la
differenzia dalle altre.
La natura ha subordinato a questo principio quei differenti gradi
d’ingegno e quei caratteri delle nazioni che vediamo cambiare così
raramente. Per questo i Negri sono schiavi degli altri uomini.
Vengono acquistati sulle coste dell’Africa come bestie, e quelle
masse di Negri, trapiantati nelle nostre colonie dell’America,
servono un ristrettissimo numero di europei. L’esperienza ha inoltre
dimostrato quanta superiorità abbiano gli Europei sugli Americani i
quali, facilmente vinti dappertutto, non hanno mai osato tentare una
rivoluzione, per quanto fossero più di mille contro uno.
François-Marie Arouet detto Voltaire, Essai sur les mœurs et l’esprit des nations (1756),
CXLV
Nel secolo scorso gli uomini di ogni razza e di ogni epoca
venivano rappresentati in modo più o meno simile, il Greco, il
barbaro, l’Indù, l’uomo del Rinascimento e l’uomo del XVIII
secolo come fusi nello stesso stampo, in base a una certa
concezione astratta che serviva per tutto il genere umano. Si
conosceva l’uomo, non si conoscevano gli uomini; […] non si
sapeva che la struttura morale di un popolo e di un’epoca è
altrettanto particolare e distinta quanto la struttura fisica di una
famiglia di piante o di un tipo di animali.
Hyppolite Taine, Histoire de la littérature anglaise (1864), Paris 1905, pp. XII-XIII
Agli schiavi sono imposti lavori più adatti alle bestie che agli
uomini. E lo sono in base a quale diritto? Quali leggi ci
impongono di essere schiavi di un popolo sconosciuto? Siamo
forse stati sconfitti in guerra? È una sconfitta che ha dato a
costoro dei diritti su di noi? No, è il loro denaro, il tradimento
che li rende nostri padroni! Venduti come animali mostruosi,
sono esseri umani a essere assoggettati alle funzioni più vili per
arricchire miserabili vagabondi, costretti ad abbandonare la
propria patria per sfuggire alle punizioni dovute ai loro crimini.
Aphra Behn, Oronoko, ou la véritable histoire de l’esclave royal [1688],
1745, t. II, pp. 75-6
NEGRI (Commercio). Da qualche secolo a questa parte gli europei
fanno commercio di questi negri, che prendono dalla Guinea e dalle
altre coste africane per sostenere le colonie stabilite in diverse
regioni dell’America e nelle Antille. Si prova a giustificare quanto
tale commercio ha di odioso e di contrario al diritto naturale
dicendo che di norma questi schiavi trovano la salvezza della loro
anima nella perdita della loro libertà; che l’educazione cristiana loro
impartita e il bisogno tassativo che si ha di essi per la coltivazione
dello zucchero, del tabacco, dell’indaco ecc. addolciscono quanto
appare inumano in un commercio nel quale alcuni uomini ne
comprano e vendono altri, come se si trattasse di bestiame per la
coltivazione delle terre.
Jean-Baptiste-Pierre Le Romain, NEGRES (Commerce), in Encyclopédie ou Dictionnaire
raisonné des sciences, des arts et des métiers, t. XI, 1751, p. 79
Carattere dei negri in generale. Benché possa accidentalmente
capitare di incontrare tra I negri della Guinea qualche
individuo onesto, la gran parte è pur sempre viziosa: sono
perlopiù inclini al libertinaggio, alla vendetta, al furto e alla
menzogna. La loro protervia è tale che non ammettono
mai le proprie colpe, quali che siano i patimenti loro
inflitti: non li smuove nemmeno la paura della morte.
Malgrado questa specie di fermezza, il loro coraggio
naturale non li tutela dalla paura delle streghe e degli
spiriti, che chiamano zambys.
Jean-Baptiste-Pierre Le Romain, NEGRES (Commerce), in Encyclopédie ou Dictionnaire
raisonné des sciences, des arts et des métiers, t. XI, 1751, p. 82
Quando, come professore di anatomia nella città di Amsterdam, mostravo pubblicamente
la conformazione generale del corpo umano, e mi servivo a tale scopo di un gran numero
di cadaveri, mi accorsi, comparando corpi di soggetti di età differenti, che l’ovale della testa
non è conformato in maniera da poter determinare con qualche certezza i tratti della
fisionomia. […] Non ho potuto concepire come gli antichi Greci fossero pervenuti alla
bellezza particolare e sublime che hanno saputo dare alle loro figure […] Dalle copie che
ne ho visto mi sono accorto che la linea delle loro teste era la stessa delle nostre […].
Mettendo accanto alle teste del Negro e del Calmucco quelle dell’Europeo e della scimmia,
mi accorsi che una linea tracciata dalla fronte al labbro superiore indicava una differenza
nella fisionomia di quei popoli, e faceva scorgere un’accentuata analogia tra la testa del
Negro e quella della scimmia. Dopo aver fatto il disegno di alcune di queste teste su una
linea orizzontale, vi aggiunsi le linee facciali, con i loro differenti angoli. E appena facevo
inclinare la linea facciale in avanti, ottenevo una testa simile a quella degli antichi; ma se
inclinavo questa linea all’indietro, producevo una fisionomia di Negro, e infine il profilo di
una scimmia, di un cane, di una beccaccia, man mano che facevo inclinare questa linea più
o meno all’indietro.
Peter Camper, Dissertation sur les variétés naturelles qui caractérisent la physionomie des hommes des
divers climats (1791, ma concepita nel 1768)
:
Hegel, Fenomenologia dello spirito, 1807
Hegel, Fenomenologia dello spirito, 1807
[La fisionomia] diviene un quadro nel quale
le passioni sono rese con tanta fedeltà quanta
energia, e dove si delineano in figure
patetiche le immagini delle più segrete
agitazioni
Encyclopédie Méthodique (1782-1832)
Louis-Charles-Henri Macquart, sect. Médecine, s.v. Homme
(1795)
Per quanto immateriale sia il principio che è in noi,
per quanto elevato al di sopra dei nostri sensi, esso
diviene tuttavia percettibile attraverso la sua
corrispondenza e il suo legame col corpo nel quale
risiede. Certe situazioni spirituali producono delle
passioni o inclinazioni, le inclinazioni producono
delle abitudini e da queste ultime nascono le
passioni: ora questi affetti dell’anima si esprimono
evidentemente sul volto
J.-M. Plane, Physiologie, ou art de connoître les hommes sur leur physionomie
(Meudon, 1797)
Si può certamente individuare nell’aspetto esteriore
di un uomo, e soprattutto nel suo viso, qualcosa
che avviene nella sua anima. Lo si vede nel corpo,
e si può dire che il corpo è l’immagine dell’anima,
o l’anima stessa resa visibile
J.-J. Sue, Essai sur la physiognomie des corps humains vivans
considerée depuis l’homme jusqu’à la plante (Paris, 1797)
Chiunque sia dotato di ingegno sano si ribella a chi ha
il coraggio di affermare che Leibniz e Newton
potrebbero aver avuto lo stesso aspetto di un
internato in manicomio […], che il primo avrebbe
potuto ideare la Teodicea anche con il cranio di un
lappone, e che l’altro avrebbe potuto far calcoli sui
pianeti e dividere il raggio della luce anche con la testa
di un labradoriano, che sa contare solo sino a sei e
considera tutto ciò che viene dopo innumerabile.
Johann Kaspar Lavater, Frammenti di fisiognomica (1775)
Le disposizioni morali e intellettuali sono innate; la loro manifestazione dipende dalla
costituzione corporea; il cervello è l’unico organo dell’anima […] Dopo la
dimostrazione rigorosa di questi principi occorreva esaminare fino a qual punto
l’ispezione della forma della testa o del cranio offra un mezzo per conoscere la
presenza o l’assenza, lo sviluppo più o meno grande di certe parti cerebrali, e di
conseguenza la presenza o l’assenza, la debolezza o l’energia di certe funzioni. […]
Tutto si accorda, tutto si connette, tutto si chiarisce, tutto si conferma
reciprocamente; la spiegazione dei fenomeni più astrusi della vita morale e
intellettuale dell’uomo e degli animali non è più un gioco di supposizioni gratuite; le
cause più nascoste della differenza del carattere delle specie, delle nazioni, dei sessi,
delle età, dalla nascita alla vecchiaia, vengono messe in evidenza; le alienazioni delle
funzioni dell’anima non sono più subordinate a uno spiritualismo che nulla saprebbe
raggiungere; l’uomo infine, questo essere inestricabile, è conosciuto. L’organologia
[…] è divenuta una fonte feconda delle più importanti applicazioni alla medicina, alla
filosofia, alla giurisprudenza, alla morale, all’educazione, alla storia ecc.
Franz Joseph Gall, Sur les fonctions du cerveau, «Revue critique de quelques ouvrages
anatomico-physiologiques» (VI [1796])
Il frenologo non si accontenta delle comuni teorie sui caratteri
nazionali. Egli ha osservato che una particolare dimensione e forma
del cervello si accompagna invariabilmente a determinate
disposizioni e talenti, e che questo fatto è valido nel caso delle
nazioni come nel caso degli individui. […] La dimensione
complessiva dell’intero cervello è minore nella nazione che è stata
sterminata rispetto a quello della nazione che la aggredisce. […] La
sottomissione permanente a un giogo straniero è il risultato di uno
sviluppo inferiore del cervello.
George Combe, Phrenological Remarks, in Samuel George Morton, Crania americana,
(1839)
In che cosa differiscono i tedeschi dagli altri popoli di origine
germanica? Ho detto che il metodo educativo da me proposto deve
primamente essere adoperato dai Tedeschi per i Tedeschi, e che
esso si adatta propriamente e in primo luogo alla nostra nazione.
Abbiamo risolto dunque il nostro primo compito e sappiamo in che
consiste la differenza principale tra i Tedeschi e gli altri popoli di
origine germanica. La differenza, sorta subito alla prima scissione
del ceppo comune, sta in ciò: i Tedeschi parlano una lingua che vive
fin nell’intimo dove sgorga dalle forze naturali; gli altri popoli
germanici invece parlano una lingua che solo alla superficie dà segni
di vita, ma nel suo intimo è morta.
>>>
Dall’una parte vediamo vita e dall’altra parte morte: questa è la
differenza; e non intendiamo in nessun caso parlare degli altri meriti
interni della lingua tedesca. Tra la vita e la morte non c'è confronti;
il valore della prima è infinito rispetto a quello della seconda. Perciò
ogni confronto immediato tra la lingua tedesca e le lingue neolatine
non ha senso, e costringerebbe a parlar di cose che non sono degne
di discorso. Per parlare del valore intimo della lingua tedesca,
bisogna metter questa di fronte ad una lingua del suo rango,
originale, come lo è, per esempio, la greca. Ma per ora il nostro
scopo è molto al di sotto di questo confronto.
Johann Gottlieb Fichte, Discorsi alla nazione tedesca (1808), cap. IV
NEGRO, s.m. (St. nt.) – Non solo il loro colore li distingue,
ma sono diversi dagli altri uomini per tutti i tratti del viso,
nasi larghi e schiacciati, grosse labbra e della lana al posto
dei capelli, talché paiono costituire una nuova specie di
uomini.
Se ci si allontana dall’equatore verso l’Antartide, il colore
nero diminuisce d’intensità, ma la bruttezza permane […].
Ogni popolo, ogni nazione ha la sua forma come la sua
lingua: del resto, la forma non è forse di per sé una specie
di lingua, anzi quella che si fa capire meglio di ogni altra?
Jean-Henri-Samuel Formey, NEGRE (Hist. Nat)., in Encyclopédie ou
Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, t. XI, 1751, p. 76
[Posto che] i lineamenti e le forme vengono ereditati
[e che] le disposizioni morali vengono ereditate, chi
[…] potrà dubitare che esista un’armonia tra le forme
e i lineamenti ereditati e le disposizioni morali
ereditate?
Johann Kaspar Lavater, Frammenti di fisiognomica (1775)
[gli uomini sono] meno brutti e più bianchi; più belli e più
bianchi; più bruni e più brutti; più brutti, più gialli; neri e
mal formati; non sono altrettanto ben fatti, e sono più
neri; ben fatti anche se neri; belli e ben fatti, anche se di
colorito olivastro; hanno una bella testa, ma la loro
carnagione è gialla e scura
[le donne sono] molto belle e molto bianche; belle e anche
bianche
[Georges-Louis Leclerc] Buffon, Histoire naturelle générale et particulière
(1749), vol. IX = Histoire naturelle de l’Homme [Paris 1761, passim]
I Negri non sono tutti della stessa bruttezza, né della stessa tonalità di nero, né della stessa
statura. […] Comparando i loro tratti, le loro taglie, le proporzioni delle loro membra, si
osserverà la natura perfezionare incessantemente, ma lentamente, la specie umana,
moltiplicando e correggendo ogni volta qualche tratto. Quanti secoli le sono stati necessari
per lavare la pelle del Senegalese, non dico per mezzo della mescolanza con il sangue del
bianco, ma secondo la gradazione necessaria delle forme che riguarda il colore superficiale
come la struttura delle parti interne? […] Nel nord dell’Europa, dell’Asia e dell’America si
trovano uomini che si prenderebbero volentieri per una razza di aborti deformi, tanto
sono piccoli e brutti […] Quanto sforzo occorre al prototipo per abbandonare le forme
odiose del bruto e indossare le belle forme dell’uomo! […] Presso tutti gli Europei si
annoverano begli uomini e belle donne […]. Al centro delle differenti popolazioni che
abbiamo ricordato […] si trovano gli Italiani, i Turchi, i Greci, i Circassi e i Georgiani.
Questi popoli sono, senza tema di smentita, le più belle razze della specie umana. Godono
di tutti i vantaggi naturali. È tra di loro che occorre andare a contemplare il capolavoro
della natura, le più belle forme e la struttura più eccellente sotto il più bel cielo. Nelle belle
province d’Italia, dice il signor Winckelmann, si vedono poche figure ignobili come quelle
che si incontrano ad ogni passo al di là delle Alpi.
Jean-Baptiste Robinet, Considérations philosophiques de la gradation naturelle des formes de l’être, ou
les essais de la Nature qui apprend à faire l’homme (1768), III
Per ciò che riguarda la figura esterna, basta aver occhi per vedere,
per così dire, effigiati sul viso degli abitanti l’anima e il carattere di
una nazione. La natura, avendo separati l’uno dall’altro i grandi
regni per mezzo di alte montagne e di ampi fiumi e mari, così ne ha
distinti gli abitanti mediante la differenza di tratti particolari. […]
Ora questa differenza, che si scorge prodotta dal clima negli organi
della voce, si ritrova pure nei tratti del volto. […] Basta esaminare la
nazione ebraica per averne una prova […]. La bellezza più sublime,
che non consiste semplicemente nella pelle morbida, nel colore
fiorito, negli occhi languidi o vivaci e lusinghieri, ma anche nella
regolarità dei tratti e in un’armonia corrispondente di tutte le parti,
si trova principalmente nei paesi posti sotto un clima temperato e
dolce.
Johann Joachim Winckelmann, Geschichte der Kunst des Altertums (1764), I.III
Sarebbe molto interessante sapere se l’unione del genere umano con gli
animali che più gli sono vicini, come il vero orang-outang o anche il
gorilla, produrrebbe degli individui: soprattutto unendoli con esseri, per
così dire, meno uomini dell’Europeo, come per esempio il Negro. […]
Forse il passo più utile che si potrebbe compiere verso l’intima
conoscenza dell’uomo naturale e delle prime scimmie, per il progresso
della conoscenza, tanto sublime e importante, della nostra propria natura,
sarebbe tentare questo esperimento. Mi pare che l’Ottentotto e la scimmia
gibbone, essendo più vicini degli altri animali per la loro forma, vi
sarebbero molto più adatti delle altre razze umane. La maggior parte degli
stupidi Africani, se si presta fede alla testimonianza unanime e costante di
un gran numero di viaggiatori, non considerano d’altra parte le scimmie
come appartenenti alla loro specie? La loro faccia allungata non li avvicina
ad esse in qualche modo?
Jules-Joseph Virey, Histoire naturelle du genre humain (1801), I
La teoria della razza era insomma ormai diventata una filosofia della
storia. Essa realizzava, in forma laica, l’aspirazione che già animava
gli esegeti delle genealogie bibliche: costruire un quadro ordinato
della storia universale, volto a riconoscere il destino di ciascun
popolo e a spiegare (e spesso a legittimare) per questa via, sulla base
della sua storia, le sue aspirazioni o le sue frustrazioni. La storia era
assunta come luogo in cui si palesava, e manifestava i suoi effetti, la
fondamentale disuguaglianza naturale degli uomini, e il concetto di
razza veniva a offrire una spiegazione scientifica di questa
diseguaglianza.
Giuliano Gliozzi, Le teorie della razza nell’età moderna, Loescher, Torino 1990, p, 28
Tutti gli uomini sparsi sull’intera terra appartengono a una
medesima specie naturale, perché essi, accoppiandosi,
producono figli fecondi, per quanto grandi possano essere le
differenze nel loro aspetto. Di questa unità della specie
naturale, che equivale all’unità della forza generativa a essa
comune, non si può addurre che un’unica causa naturale: e
cioè che tutti gli esemplari della specie appartengono a un
unico ceppo da cui, quali che siano le loro differenze, tutti
discendono o, quanto meno, possono esser discesi.
Immanuel Kant, Von der verschiedenen Rassen der Menschen, 1777
Tra le varietà, cioè tra le differenze ereditarie di animali che
appartengono a uno stesso ceppo, quelle che si mantengono
invariate per lunghe generazioni in qualsiasi parte della terra si
trasportino, e che inoltre, mescolandosi con altre varietà dello
stesso ceppo, generano costantemente mezzosangue, si dicono
razze. […] Credo che non occorra ammettere se non quattro
razze della specie umana, per poterne derivare tutte le
differenze constatabili a prima vista e perpetuantisi. Esse sono:
la razza bianca, la negra, la mongolica o calmucca, la indù o
indostanica.
Immanuel Kant, Von der verschiedenen Rassen der Menschen,
1777
L’uomo fu destinato a vivere in tutti i climi e su un suolo comunque
conformato […]. Noi intendiamo passare in rivista, sulla base di
questi concetti, l’intera specie umana sparsa per il mondo, indicando
le cause finali delle sue modificazioni allorquando non se ne
scorgano le cause naturali, e additando per contro cause naturali
quando non si scorgano fini. Qui osservo soltanto che la luce e il
sole sembrano essere le cause che influiscono più profondamente
sulla capacità generativa, producendo uno sviluppo durevole di
germi e disposizioni, cioè dando luogo a una razza.
Immanuel Kant, Von der verschiedenen Rassen der Menschen, 1777
Una differenziazione nella pigmentazione della pelle è
il più importante mezzo della natura per rendere le sue
creature – disperse in zone e in climi in cui l’aria e il
sole esercitano un’azione diversissima – atte a
sopportare i diversi climi senza avere soverchio
bisogno di prodotti artificiali.
Immanuel Kant, Bestimmung des Begriffs einer Menschen-rasse, 1785
A proposito delle congetture secondo cui la diversità dei tipi
umani sarebbe così irriducibile da richiedere l’ammissione di
più creazioni locali, dire con Voltaire: «Dio, che creò in
Lapponia la renna per consumare il muschio di queste fredde
regioni, creò ivi anche il Lappone per mangiare la renna» è una
trovata non spregevole per un poeta, ma di scarsa utilità per il
filosofo, che non può staccarsi dalla catena delle cause naturali
se non là dove la vede evidentemente legata a una maledizione.
Immanuel Kant, Von der verschiedenen Rassen der Menschen, 1777
Abbiamo enumerato quattro razze umane, in cui devono
essere comprese tutte le varietà della specie. Tutte le
differenziazioni, però, esigono una specie originaria, che noi
possiamo o considerare estinta, o ricercare tra quelle esistenti,
in modo da rintracciare quella che può più avvicinarsi alla
specie originaria, essendo probabilmente partito di qui per
tutte le sue migrazioni: e qui si trovano abitanti bianchi bensì,
ma di tinta bruna, la cui figura può essere assunta come la più
vicina alla specie originaria.
Immanuel Kant, Von der verschiedenen Rassen der Menschen, 1777
Sulla proposta di produrre un accidente di famiglia durevole con
l’accurata selezione dei soggetti che lo posseggono si fonda
l’opinione del signor di Maupertuis, di poter allevare in una qualche
provincia una generazione di uomini nobili per natura, in cui
intelletto, capacità e probità siano ereditari. Una proposta che, a mio
parere, […] è impedita dalla stessa saggezza della natura: poiché
proprio nelle mescolanze del bene col male si trovano le molle più
robuste per svegliare le forze dormienti dell’umanità, costringendola
a sviluppare tutte le sue doti e ad avvicinarsi alla perfezione della sua
destinazione.
Immanuel Kant, Von der verschiedenen Rassen der Menschen, 1777
Qui per il filosofo non c’è nessun rimedio, se non, dato che
non può presupporre negli esseri umani e nel loro gioco in
generale nessun fine razionale proprio, di tentare se sia in grado
di scoprire, in questo corso insensato delle cose umane, un
disegno della natura, a partire dal quale, di creature che agiscono
senza un proprio piano, sia nondimeno possibile una storia
secondo un piano determinato della natura. – Vogliamo
vedere se si riuscirà a trovare un filo conduttore per una tale
storia
Immanuel Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in
weltbürgerlicher Absicht, 1784
Tesi ottava
In grande la storia del genere umano può essere considerata
come il compimento di un progetto nascosto della natura per
instaurare una costituzione statale perfetta internamente e, a
questo scopo, anche esternamente, come unica situazione nella
quale essa può pienamente sviluppare tutte le sue disposizioni
nell'umanità.
Immanuel Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher
Absicht, 1784
Tesi seconda
Nell’essere umano, unica creatura razionale sulla terra, quelle
disposizioni naturali che sono dirette all’uso della sua ragione
possono svilupparsi pienamente solo nel genere, non
nell’individuo.
Immanuel Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher
Absicht, 1784
Tesi quarta
Il mezzo di cui la natura si serve per realizzare lo sviluppo di tutte le
sue disposizioni è il loro antagonismo nella società, in quanto però
infine causa di un ordinamento civile della società stessa.
Qui per antagonismo intendo l’insocievole socievolezza degli esseri umani, cioè la loro
tendenza a entrare in società che però è connessa con una generale avversione
che minaccia costantemente di dividere questa società. La disposizione a ciò sta
palesemente nella natura umana. L’essere umano ha una inclinazione ad associarsi
perché in una tale situazione sente di più se stesso come essere umano, cioè
avverte lo sviluppo delle proprie disposizioni naturali. Ma ha anche una grande
tendenza a dissociarsi, perché trova contemporaneamente in sé l’insocievole
caratteristica di voler disporre tutto secondo il proprio tornaconto, e perciò si
attende ovunque resistenza, così come sa di essere incline, da parte sua, a resistere
contro gli altri.
>>>
È proprio questa resistenza che risveglia tutte le forze dell’uomo, che lo
porta a superare la sua tendenza alla pigrizia e – mosso dall’ambizione,
dalla sete di potere o dall’avidità – a procurarsi una posizione fra i suoi
consoci, che egli non può sopportare, ma di cui non può neppure fare a meno.
Così avvengono i primi veri passi dalla barbarie alla cultura, che consiste
propriamente nel valore sociale dell'uomo; così vengono a poco a poco
sviluppati tutti i talenti, formato il gusto, e addirittura, tramite un
rischiaramento [Aufklärung] continuato, prodotto l’inizio della fondazione
di un modo di pensare che, col tempo, può trasformare in principi pratici
determinati la rozza disposizione naturale al discernimento etico, e fare
quindi, infine, della società (dapprincipio una mera unione patologica
forzata) un intero morale.
>>>
Senza quella caratteristica insocievolezza, in sé certo non amabile,
da cui scaturisce la resistenza che ciascuno deve necessariamente
trovare nelle sue pretese egoistiche, tutti i talenti rimarrebbero
eternamente celati nei loro germi, in un’arcadica vita da pastori di
perfetta concordia, contentezza e reciproco amore […]. Sia dunque
reso grazie alla natura per l’intrattabilità, per la vanità che rivaleggia
invidiosa, per la brama incontentabile di avere o anche di potere!
Senza di esse, tutte le eccellenti disposizioni naturali dell’umanità
sonnecchierebbero in eterno senza svilupparsi. L’essere umano
vuole concordia; ma la natura sa meglio di lui che cosa è buono per
il suo genere: essa vuole discordia.
Immanuel Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, 1784
Coloro che esaminano la natura dell’uomo,
astraendo dall’arte e dall’educazione, possono
osservare che ciò che lo rende un animale
socievole non è desiderio di compagnia, buon
carattere, pietà, affabilità e altre grazie di
bell’aspetto: sono le qualità più vili e odiose i
talenti più necessari al fine di renderlo adatto alle
società più grandi e, secondo il mondo, più felici e
fiorenti.
Bernard de Mandeville, La favola delle api (1714-29),
Prefazione
Lo scopo principale della favola è mostrare
l’impossibilità di godere di tutte le più eleganti
comodità della vita che si possono trovare in una
nazione industriosa, ricca e potente, e nello stesso
tempo avere la benedizione di tutta la virtù e
l’innocenza che si possono desiderare in un’età
dell’oro.
Bernard de Mandeville, La favola delle api (1714-29),
Prefazione
Ogni parte era piena di vizio,
ma il tutto era un paradiso
[…] la virtù, che dalla politica
aveva appreso mille trucchi astuti,
grazie alla sua felice influenza,
aveva stretto amicizia con il vizio; e da allora
anche il peggiore dell’intera moltitudine
faceva qualcosa per il bene comune.
Bernard de Mandeville, La favola delle api (1714-29),
L’alveare scontento
Questa era l’arte politica, che reggeva
un insieme di cui ogni parte si lamentava.
Essa, come l’armonia nella musica,
faceva accordare nel complesso le dissonanze.
Le parti direttamente opposte
si aiutavano a vicenda, come per dispetto
[…] il lusso
dava lavoro a un milione di poveri,
e l’odioso orgoglio a un altro milione.
L’invidia e la vanità
servivano l’industria, la volubilità
era la ruota che faceva muovere il commercio.
Bernard de Mandeville, La favola delle api (1714-29), L’alveare
scontento
[…] Così il vizio nutriva l’ingegno
che, insieme al tempo e all’industria,
aveva portato le comodità della vita
a una tale altezza, che i più poveri
vivevano meglio di come vivessero in
precedenza i ricchi
Bernard de Mandeville, La favola delle api (1714-29),
L’alveare scontento
Si può dire che la virtù stringe amicizia con il vizio
quando della gente buona e laboriosa – che
mantiene la famiglia, educa bene i figli, paga le
tasse ed è in diversi modi utile alla società – ricava
la propria sussistenza da qualcosa che dipende in
modo determinante dai vizi altrui [che quindi]
sono il suo principale sostegno.
Bernard de Mandeville, La favola delle api (1714-29),
L’alveare scontento, Nota G
Il mercante che invia grano o tessuti all’estero per
comprare vini e brandy incoraggia il prodotto e le
manifatture del proprio paese; è un benefattore della
navigazione, accresce le entrate delle dogane e reca
molti benefici al pubblico. Tuttavia non si può negare
che il suo principale sostegno sono la dissipazione e
l’ubriachezza: se nessuno bevesse vino più del
necessario, la moltitudine di mercanti di vino, osti e
bottai si troverebbe in miseria.
Bernard de Mandeville, La favola delle api, L’alveare
scontento, Nota G
La gente comune, di vista corta, di rado riesce a
vedere oltre un anello della catena delle cause; ma
quelli che sanno allargare la loro visuale, e sono
capaci di osservare l’insieme dei fatti concatenati,
possono in cento luoghi vedere il bene scaturire e
germogliare dal male, nello stesso modo in cui i
pulcini escono dalle uova.
Bernard de Mandeville, La favola delle api, L’alveare
scontento, Nota G
Cos’hanno a che fare con la guerra gli assessori, il
consiglio comunale e tutti i ricchi, oltre che pagare le
tasse? Le durezze e le fatiche della guerra, quelle che si
sostengono personalmente, ricadono su quanti reggono il
peso di ogni cosa: la parte più umile e misera della
nazione, la gente che serve e lavora. Per quanto immensi
siano l’abbondanza e il lusso di una nazione, infatti,
qualcuno deve lavorare, le case e le navi debbono essere
costruite, le mercanzie debbono essere trasportate, la terra
dev’essere coltivata.
Bernard de Mandeville, La favola delle api, L’alveare scontento, Nota
I
tutti gli abili al lavoro dovrebbero essere
impiegati e si dovrebbe studiare attentamente
la possibilità di far lavorare alcuni infermi: si
potrebbe trovare un’occupazione per molti
zoppi e per tante persone inadatte ai lavori
duri, e lo stesso dicasi per i ciechi, nei limiti
della loro salute e forza fisica
Bernard de Mandeville, La favola delle api (1714-29),
Saggio sulla carità e sulle Scuole di Carità
le Scuole di Carità, come ogni altra cosa che
incoraggi la pigrizia e allontani i poveri dal
lavoro, sono complici dell’aumento di ogni
tipo di furfanteria in misura ben maggiore di
quanto non lo siano l’analfabetismo o
l’ignoranza e la stupidità più grossolane.
Bernard de Mandeville, La favola delle api (1714-29),
Saggio sulla carità e sulle Scuole di Carità
è impossibile che una società sussista per lungo
tempo se molti dei suoi membri vivono nella
pigrizia e godono di tutti gli agi e piaceri che
possono escogitare, senza poter disporre nello
stesso tempo di una grande moltitudine di persone
che supplisca a questo difetto, accondiscenda a
comportarsi in modo esattamente opposto e si
abitui con la consuetudine e la pazienza a compiere
una quantità di lavoro sufficiente per sé e per gli
altri. […]
>>>
Il benessere di tutte le società […] esige che il lavoro sia
compiuto da quei suoi componenti che, forti e robusti,
non abituati all’ozio e alla pigrizia, si accontentano del solo
necessario per vivere, sono felici di vestirsi sempre con le
stoffe più grossolane, si preoccupano soltanto che il cibo
basti a nutrire il corpo, quando lo stomaco reclama, senza
curarsi troppo del gusto o del sapore, non rifiutano
nessun nutrimento sano che possa essere ingerito quando
si ha fame, né chiedono niente di più di quanto basta a
spegnere la sete. […]
>>>>>
Da quanto è stato detto risulta evidente che in una
nazione libera, che non permette di tenere schiavi, la
ricchezza più sicura consiste in una moltitudine di poveri
laboriosi. […] Per garantire la felicità a una nazione e la
tranquillità alla gente anche in circostanze sfavorevoli, è
necessario che un gran numero di persone sia ignorante e
povero.
Bernard de Mandeville, La favola delle api (1714-29), Saggio sulla
carità e sulle Scuole di Carità
nessuno è più sollecito nel compiere qualche
basso e umile servigio per qualcun altro,
dell’inferiore nei confronti del proprio superiore; e
quando parlo di inferiori penso non solo a quelli
che hanno meno ricchezze e occupano un gradino
più basso della scala sociale, ma anche alle persone
inferiori per cultura e intelligenza.
Bernard de Mandeville, La favola delle api (1714-29),
Saggio sulla carità e sulle Scuole di Carità
L’Etnologia è la scienza dell’uomo considerato
come appartenente a una specie sparsa nel globo e
divisa nei diversi corpi di società o nazioni
occupate a provvedere ai loro bisogni e ai loro
gusti, e più o meno civilizzate.
Alexandre C. Chavannes, Anthropologie, ou Science de l’Homme, pour
servir d’Introduction à l’étude de la Philosophie et des Langues, Lausanne
1788, p. III
L’incrocio di generazioni specificamente differenti, per
quanto non possa capovolgere, o per così dire soffocare,
tutta l’eccitabilità della forza formativa [nisus formativus],
tuttavia può imprimerle una direzione singolare e
anomala. E così succede che l’azione continua di qualche
particolare stimolo sui corpi organici, esercitata per una
lunga serie di generazioni abbia una grande influenza nel
far deviare sensibilmente la forza formativa dalla sua
direzione abituale, diversione che costituisce la principale
fonte di degenerazione, e l’origine delle varietà
propriamente dette.
Johann Friedrich Blumenbach, De generis humani varietate nativa (1775)
I popoli degenerano solo in seguito e in proporzione agli
incroci che subiscono e nella misura della qualità di questi
incroci […] Degenerato è il popolo che non ha più il valore
intrinseco che possedeva un tempo, perché nelle sue vene non
ha più lo stesso sangue, il cui valore è stato modificato da
successivi connubi. In altre parole questo popolo ha
conservato lo stesso nome ma non lo stesso sangue, e dunque
non ha conservato la stessa razza dei suoi fondatori.
Arthur de Gobineau, Essai sur l’inégalité des races humaines, 1853
La civiltà è soggetta, nel suo sviluppo progressivo, ad un cammino
naturale e irrevocabile. […] La legge fondamentale che regge il
cammino naturale della civiltà prescrive rigorosamente tutti gli stati
successivi per i quali la specie umana è soggetta a passare nel suo
sviluppo generale. [Essa deriva] dalla tendenza istintiva della specie
umana a perfezionarsi. […] Il cammino della civiltà che ne deriva è
dunque essenzialmente e fondamentalmente inalterabile. In termini
più precisi, nessun grado intermedio che esso fissa può essere
saltato e non può essere fatto nessun passo retrogrado reale
Auguste Comte, Cours de philosophie positive (1830-42)
Contemplando i diversi progressi successivi della specie
umana nei suoi lumi, non si mancherebbe di osservare
anche ch’essa ha seguito sotto questo aspetto lo stesso
cammino che ogni uomo segue naturalmente nello
sviluppo delle sue facoltà e delle sue operazioni per
estendere e perfezionare la sua intelligenza; osservazione
essenziale e fondamentale dell’antropologia, e che sarebbe
facile verificare attraverso l’accostamento di questa
seconda parte [sull’etnologia] alla terza, che presenterebbe
l’analisi particolareggiata delle facoltà e operazioni
dell’intelligenza umana
Alexandre C. Chavannes, Essai sur l’éducation intellectuelle avec le projet d’une sciente
nouvelle (Lausanne 1787, pp. 106-7)
Sia che si sfoglino gli annali del mondo, sia che si supplisca
a cronache incerte con ricerche filosofiche, non si scoprirà
un’origine delle conoscenze umane rispondente all’idea che
ci si compiace di farsene. L’astronomia è nata dalla
superstizione; l’eloquenza dall’ambizione, dall’odio,
dall’adulazione, dalla menzogna; la geometria dall’avarizia; la
fisica da una vana curiosità; tutte, persino la morale,
dall’umana superbia. Le scienze e le arti sono dunque nate
dai nostri vizi; se fossero nate dalle nostre virtù avremmo
meno dubbi sui loro vantaggi.
Discorso sulle scienze e le arti, Parte seconda
Solo, ozioso e sempre vicino al pericolo, l’uomo
selvaggio deve dormire volentieri e avere il sonno
leggero […]. […] si preoccupa quasi esclusivamente
della propria conservazione
[…] abbandonato dalla natura al puro istinto, […]
l’uomo selvaggio, del tutto privo di lumi, prova solo
passioni della seconda specie [derivanti dal solo
impulso naturale]; i suoi desideri non oltrepassano i
suoi bisogni fisici […].
>>>
Quale progresso potrebbe fare il genere umano sparso
tra gli animali tra le selve? E fino a che punto
potrebbero perfezionarsi e illuminarsi a vicenda
uomini che, non avendo né stabile dimora né bisogno
l’uno dell’altro, si incontrerebbero sì e no due volte
nella vita, senza conoscersi né parlarsi?
L’immaginazione che fa tante stragi fra noi non parla
al cuore del selvaggio […].
Discorso sulla disuguaglianza, Parte prima (148; 151; 154;
167)
Tutte le conoscenze che richiedono riflessione, che
si acquistano solo col concatenarsi delle idee
perfezionandosi soltanto in seguito, sembrano
essere del tutto fuori portata per il selvaggio, per
mancanza di comunicazione coi suoi simili, ossia
perché gli mancano lo strumento che serve a tale
comunicazione e i bisogni che la rendono
necessaria.
Discorso sulla disuguaglianza, Nota F (212)
Mettendo dunque da parte tutti i libri scientifici che ci insegnano
solo a vedere gli uomini come si son fatti, e riflettendo sulle prime e
più semplici operazioni dell’anima umana, io credo scorgervi due
principi anteriori alla ragione: di questi, uno suscita in noi vivo
interesse per il nostro benessere e la nostra conservazione; l’altro ci
ispira una ripugnanza naturale a veder morire o soffrire ogni essere
sensibile e in particolare i nostri simili. Mi pare che dal concorso e
dalla combinazione che il nostro spirito può fare di questi due
principi senza dover ricorrere a quello della socievolezza
scaturiscano tutte le norme del diritto naturale; norme che in
seguito la ragione è costretta a ristabilire su altri fondamenti,
quando, per i suoi successivi sviluppi, è giunta al risultato di
soffocare la natura.
Discorso sulla disuguaglianza, Prefazione (134)
Non ho nessun timore di cadere in contraddizione
accordando all’uomo la sola virtù naturale che sia
stato costretto a riconoscergli il detrattore più spinto
delle virtù umane. Parlo della pietà, disposizione che
ben si adatta a esseri così deboli e soggetti a tanti mali
come siano noi; virtù tanto più universale e utile
all’uomo in quanto precede in lui qualunque
riflessione; così naturale che anche le bestie ne hanno
talvolta segni tangibili.
Discorso sulla disuguaglianza, Parte prima (162-3)
La compassione sarà tanto più energica quanto più
l’animale che sta a vedere si identificherà intimamente
con l’animale che soffre; ora è evidente che questa
identificazione deve essere stata infinitamente più
stretta nello stato di natura che non nello stato di
ragione. È la ragione a generare l’amor proprio ed è la
riflessione a rafforzarlo; essa ripiega l’uomo su se
stesso e lo separa da tutto ciò che lo mette a disagio e
lo affligge; è la filosofia che lo isola, facendogli dire in
segreto, davanti a un uomo che soffre: «muori, se
vuoi; io sono al sicuro».
Discorso sulla disuguaglianza, Parte prima (163-4)
È dunque assolutamente certo che la pietà è un
sentimento naturale, volto a moderare in ciascun
individuo l’attività dell’amor di sé contribuendo
così alla mutua conservazione dell’intera specie. La
pietà ci porta a soccorrere senza riflettere quelli
che vediamo soffrire; la pietà tiene luogo, nello
stato di natura, di costumi e di virtù, con questo
vantaggio: che nessuno è tentato di disobbedire
alla sua dolce voce […];
>>>
è la pietà che, invece della massima sublime di
giustizia razionale, fai agli altri ciò che vuoi sia fatto
a te, ispira a tutti gli uomini quest’altra massima
di bontà naturale, molto meno perfetta, ma
forse più utile della precedente: fai il tuo bene col
minor male possibile per gli altri.
Discorso sulla disuguaglianza, Parte prima (164-5)
Gli uomini sono cattivi; una triste e continua
esperienza dispensa dal provarlo; tuttavia credo
di aver dimostrato che, per natura, l’uomo è
buono. Che cosa mai può averlo ridotto a tanta
depravazione se non i mutamenti sopraggiunti
nella sua costituzione, i progressi che ha fatto,
le conoscenze che ha acquisito?
Discorso sulla disuguaglianza, Nota I (216)
Sembra a prima vista che gli uomini, in questo stato,
non avendo tra loro rapporti morali di nessuna specie
né doveri riconosciuti, non potessero essere né buoni
né cattivi, né avere vizi o virtù […].
[…] si potrebbe dire che i selvaggi non sono cattivi
proprio perché non sanno che cosa vuol dire essere
buoni, in quanto a impedire che facciano del male non
è né lo sviluppo dell’intelligenza né il freno della legge,
ma l’assenza delle passioni e l’ignoranza del vizio […]
Discorso sulla disuguaglianza, Parte prima (161-2)
[…] c’è a distinguere [l’uomo e l’animale] un’altra qualità molto
specifica e su cui non può esservi contestazione, e cioè la
facoltà di perfezionarsi […]. Perché solo l’uomo è soggetto a
rimbecillire? Non è forse perché […], mentre la bestia che
nulla ha acquistato e nulla ha da perdere mantiene sempre il
suo istinto, l’uomo, tornando a perdere per vecchiaia o altri
accidenti, quanto la sua perfettibilità gli aveva fatto conquistare,
viene a cadere più in basso della bestia? Sarebbe triste per noi
trovarci costretti ad ammettere che questa quasi sconfinata
facoltà che ci distingue è la fonte di tutti i malanni dell’uomo
[…].
Discorso sulla disuguaglianza, Parte prima (150)
Che si propone dunque, precisamente, questo
discorso? di stabilire, nel progresso delle cose, il
momento in cui, succedendo il diritto alla violenza,
la natura fu sottoposta alla legge; di spiegare per
quale catena prodigiosa di fatti il forte poté
risolversi a servire il debole e il popolo a comprare
una tranquillità immaginaria a prezzo d’una felicità
reale.
Discorso sulla disuguaglianza, Prologo (139)
Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare,
questo è mio, e trovò persone abbastanza ingenue da
credergli fu il vero fondatore della società civile.
Quanti delitti, quante guerre, quante uccisioni, quante
miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere
umano colui che, strappando i paletti o colmando il
fossato, avesse gridato ai suoi simili: «Guardatevi
dall’ascoltare questo impostore. Se dimenticate che i
frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, voi
siete perduti».
Discorso sulla disuguaglianza, Parte seconda, Nota I (219)
Alla coltivazione delle terre seguì
necessariamente la loro spartizione, e dal
riconoscimento della proprietà derivarono le
prime norme di giustizia […]. […] la divisione
delle terre ha prodotto una nuova specie di
diritto. Ossia il diritto di proprietà, diverso da
quello che risulta dalla legge naturale.
Discorso sulla disuguaglianza, Parte seconda (183)
[…] benché gli uomini fossero diventati meno
tolleranti e la pietà naturale avesse già subito
qualche alterazione, questo periodo di sviluppo
delle facoltà umane, tenendo il giusto mezzo tra
l’indolenza dello stato primitivo e l’impetuosa
attività del nostro amor proprio, dové essere
l’epoca più felice e duratura.
>>>
Più ci si riflette più si trova che questa era la meno
soggetta a rivoluzioni, la migliore per l’uomo; a
fargliela abbandonare può essere stato solo un
caso funesto che nell’interesse comune non
avrebbe mai dovuto verificarsi. […] il genere
umano era fatto per restarvi definitivamente, […]
questa era la vera giovinezza del mondo […]
Discorso sulla disuguaglianza, Parte seconda (180)
[…] finché si dedicarono a lavori che uno
poteva fare da solo, finché praticarono arti per
cui non si richiedeva il concorso di più mani,
[gli uomini] vissero liberi, sani, buoni, felici
quanto potevano esserlo per la loro natura,
continuando a godere tra loro le gioie dei
rapporti indipendenti;
>>>
ma nel momento stesso in cui un uomo ebbe bisogno
dell’aiuto di un altro; da quando ci si accorse che era
utile a uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza
scomparve, fu introdotta la proprietà, il lavoro diventò
necessario, e le vaste foreste si trasformarono in
campagne ridenti che dovevano essere bagnate dal
sudore degli uomini, e dove presto si videro
germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la
miseria.
Questa grande rivoluzione nacque dall’invenzione di
due arti: la metallurgia e l’agricoltura.
Discorso sulla disuguaglianza, Parte seconda (181)
Seguendo il progresso della disuguaglianza in queste varie
rivoluzioni, ne individuiamo la prima tappa nella
fondazione della legge e del diritto di proprietà; la seconda
nell’istituzione della magistratura; la terza ed ultima, nella
trasformazione del potere legittimo in potere arbitrario:
sicché la condizione di ricco e di povero fu autorizzata
dalla prima epoca, quella di potente e di debole dalla
seconda, e dalla terza quella di padrone e di schiavo, che è
l’ultimo grado della disuguaglianza, il termine a cui
finiscono col mettere capo tutti gli altri […]
Discorso sulla disuguaglianza, Parte seconda (198)
Il viaggiatore-philosophe che naviga verso le
estremità della terra ripercorre infatti il corso dei
tempi; viaggia nel passato, ogni passo che compie
è un secolo che oltrepassa. Le isole sconosciute
che raggiunge sono per lui la culla della società
umana.
Joseph-Marie Degérando, Considerations sur les diverses
méthodes à suivre dans l’observation des peuples sauvages (Paris
1800, p. 279)
Ho sempre pensato con te che noi siamo di gran lunga
avvantaggiati rispetto al passato riguardo alla conoscenza
della natura umana. Possiamo ora tracciare la storia in tutti
i suoi stadi e periodi […]. Ora la grande mappa
dell’umanità è interamente spiegata davanti a noi; e non
v’è stato o grado di barbarie, né forma di raffinatezza che
non sia sotto in nostri occhi. Le diverse città dell’Europa e
della Cina; la barbarie di Tartari e Arabi; lo stato selvaggio
del Nordamerica e della Nuova Zelanda.
Lettera di Edmund Burke a William Robertson, 9 giugno 1777
Non mi sono accontentato di conoscere il carattere dei selvaggi e di
informarmi sui loro costumi e pratiche; ho cercato in quelle pratiche
e in quei costumi le vestigia dell’antichità più remota; ho letto con
cura gli autori più antichi che hanno trattato dei costumi, delle leggi
e delle usanze dei popoli di cui avevano qualche conoscenza; ho
fatto il confronto tra questi costumi e gli altri e confesso che se gli
autori antichi mi hanno fornito dei lumi per appoggiare alcune felici
congetture relative ai selvaggi, i costumi dei selvaggi mi hanno
fornito dei lumi per comprendere più facilmente e per spiegare
parecchie cose contenute negli autori antichi e chiarire molti
particolari delle loro opere
Joseph-François Lafitau, Moeurs des sauvages américains comparées aux moeurs
des premiers temps (1724, I, p. 3)
non solo i cosiddetti barbari sono popoli religiosi, ma la
loro religione presenta punti di contatto con i culti delle
età più remote: le orge di Bacco e della madre degli dei, i
misteri di Iside e di Osiride, come venivano definiti
nell’antichità. E questa parentela rivela un altissimo grado
di affinità tra i culti, per cui si ha immediatamente
l’impressione che la base e i principi siano ovunque gli
stessi
Joseph-François Lafitau, Moeurs des sauvages américains comparées aux moeurs
des premiers temps (1724, I, p. 3)
Mentre le ricerche sugli usi e i costumi degli antichi popoli
favoriranno quelle che si potranno fare sopra gli usi e i
costumi dei popoli moderni, le osservazioni dei navigatori
intorno agli attuali abitanti delle diverse regioni potranno
fornire dei lumi preziosi sulle prime epoche della storia del
genere umano. Che cosa v’è di più adatto, in effetti, per
chiarire i punti oscuri della nostra storia primitiva, che il
comparare insieme e i costumi, e le abitudini, e il
linguaggio, e l’industria dei diversi popoli, di quelli
soprattutto che non sono ancora civilizzati?
Louis-François Jauffret, Introduction aux Mémoires de la Société des
Observateurs de l’homme (1803)
Sono colpito soprattutto dall’analogia che noto ogni
giorno fra i selvaggi dell’America del Nord e gli antichi
popoli così vantati della Grecia e dell’Italia. Ritrovo nei
Greci di Omero, soprattutto in quelli dell’Iliade, gli usi, i
discorsi, i costumi degli Irochesi, dei Delaware, dei Miami.
Le tragedie di Sofocle e di Euripide mi dipingono quasi
alla lettera le opinioni dei Pellerossa sulla necessità, sulla
fatalità, sulla miseria della condizione umana, e sulla
durezza del cieco destino.
Volney (Constantin François de Chassebœuf, conte di Volney ), Observations générales sur les
Indiens, ou Sauvages de l’Amérique-Nord, appendice al Tableau du climat et du sol des Etats-Unis
d’Amérique (1803)
più si approfondisce il genere di vita e la storia dei
selvaggi, più vi si attingono idee in grado di gettar
luce sulla natura dell’uomo in generale, sulla
formazione graduale delle società, sul carattere e i
costumi delle nazioni dell’antichità
Volney (Constantin François de Chassebœuf, conte di Volney),
Observations générales sur les Indiens, ou Sauvages de l’Amérique-Nord,
appendice al Tableau du climat et du sol des Etats-Unis d’Amérique (1803)
attraverso un meccanismo simile a quello che
fa sì che un individuo, educato in mezzo a
cattive abitudini, ne conserva le impressioni
per tutta la vita
Volney (Constantin François de Chassebœuf, conte di Volney ), Observations
générales sur les Indiens, ou Sauvages de l’Amérique-Nord, appendice al Tableau du climat
et du sol des Etats-Unis d’Amérique (1803)
Rousseau, volendo dipingere la vita
primitiva come la più felice di tutte, ne
mette in risalto soltanto gli aspetti di
indolenza
Adam Smith, Letter to the Authors of the Edinburgh
Review, 1755
le nazioni selvagge di pescatori e cacciatori
[dell’America del Nord] vivono in una povertà
così orribile che soltanto per bisogno si trovano
spesso ridotte, o almeno credono di esserlo, alla
necessità di eliminare bambini, vecchi e malati
inguaribili
Adam Smith, Wealth of Nations, 1766
I popoli nordici che irruppero in Europa all’inizio del V secolo erano
socialmente più avanzati di un grado rispetto agli Americani di oggi.
Questi ultimi si trovano ancora allo stadio dei cacciatori, fra tutti il più
rozzo e barbaro, mentre gli altri avevano raggiunto lo stadio della
pastorizia e praticavano perfino un po’ di agricoltura. L’intervallo che
separa questi due stadi è il più ampio nello sviluppo della società,
perché è qui che la nozione di proprietà si allarga oltre il semplice
possesso, al quale era circoscritta nel periodo precedente. Una volta
stabilito questo principio, non è molto difficile estenderlo da un
oggetto all’altro, dal bestiame alla terra medesima. [I popoli nordici]
avevano dunque percorso molta strada prima degli Americani; e il
governo, che si sviluppa insieme alla società, aveva acquistato fra loro
maggiore autorità. E infatti vediamo che esso interveniva di più nelle
faccende private
Adam Smith, Lectures on Jurisprudence (1762-63)
man mano che la società progredisce, le varie arti, dapprima praticate da ogni singolo
individuo nella misura necessaria al suo personale benessere, verrebbero separate: alcuni ne
eserciterebbero alcune, altri altre, secondo le diverse inclinazioni. Gli uomini si
scambierebbero l’un l’altro i prodotti che eccedono il fabbisogno individuale, ottenendo in
cambio gli oggetti di cui hanno bisogno e che non producono da sé. Con l’andar del
tempo, questo scambio di beni si diffonde non solo fra gli individui di una stessa
comunità, ma anche fra gli abitanti di nazioni diverse. Così noi mandiamo in Francia le
nostre stoffe, i manufatti in ferro e altri gingilli, e riceviamo in cambio i loro vini. Inviamo
in Spagna e in Portogallo il grano che ci avanza, e importiano i vini spagnoli e portoghesi.
Così ha infine inizio l’età del commercio. Pertanto, quando un paese è fornito di tutte le
greggi e le mandrie che può ospitare, e la sua terra è coltivata in modo da produrre grano e
altri beni necessari alla sussistenza nella maggior quantità possibile, o almeno in quantità
sufficiente a nutrire i suoi abitanti esportando i prodotti superflui, siano essi naturali o
fabbricati, e importando altri oggetti necessari, allora quella società ha fatto tutto quanto
era in suo potere per il proprio benessere e il proprio vantaggio.
Adam Smith, Lectures on Jurisprudence (1762-63)
Nell’età del commercio, essendo assai aumentati gli
oggetti di proprietà, le leggi devono venire accresciute
in proporzione. Quanto più una società è progredita, e
quanto più viene estesa la gamma dei vari mezzi di
sussistenza, tanto più numerose saranno le sue leggi e
norme necessarie per mantenere la giustizia e impedire
violazioni del diritto di proprietà
Adam Smith, Lectures on Jurisprudence (1762-63)
Esiste una inclinazione, comune a tutti gli
uomini, che non si trova invece in
nessun’altra specie di animali: la tendenza
a trafficare, a barattare, a scambiare una
cosa con l’altra
Adam Smith, Wealth of Nations, Draft, 1763
gli interessi e le passioni personali dispongono gli individui
a indirizzare i loro capitali verso gli impieghi che in
situazioni ordinarie sono i più vantaggiosi per la società
[…]. Senza alcun intervento della legge, gli interessi e le
passioni personali degli uomini li inducono naturalmente a
dividere e a distribuire i fondi di ogni comunità fra tutti i
diversi impieghi che vi sono effettuati, avvicinandoli il più
possibile alla proporzione più conveniente all’interesse
dell’intera società
Adam Smith, Wealth of Nations, 1766
Autori come Turgot e Smith erano naturalmente portati ad attribuire la superiorità
dell’Europa del tempo (nella misura in cui ne riconoscevano effettivamente la superiorità)
all’esistenza di alcuni importanti fenomeni e istituzioni di carattere socioeconomico i quali,
allora come oggi, erano sovente oggetto di critiche – in particolare l’ineguaglianza, il diritto
di proprietà, l’accumulazione di capitale.
Per dimostrare l’utilità intrinseca di tutto questo, non c’era nulla di meglio che far
incominciare il processo di sviluppo con una società di tipo americano, in cui questi
fenomeni non esistevano e in cui perciò la gente (si poteva ben dirlo) viveva ad un livello
materiale e culturale alquanto basso. Si poteva così mettere efficacemente in relazione il
graduale progresso della società verso la «perfezione» con la nascita e lo sviluppo delle
istituzioni e dei fenomeni in questione.
Non intendo sostenere, naturalmente, che la teoria dei quattro stadi fu una perversa
congiura capitalista. Voglio dire soltanto che se fra alcuni pionieri vi fu realmente una
propensione verso l’idea che il «primo» stadio coincidesse con una società di tipo
americano, forse questo fu un risultato del fenomeno più tardi noto come l’«ottimismo
borghese» del diciottesimo secolo.
Roland Meek, Social Science and the Ignoble Savage, 1976
La scienza economica nasce e si sviluppa sull’ipotesi che, nelle sue
categorie fondamentali, essa sia generalmente e universalmente
applicabile. È un tentativo di comprendere l’intera storia dell’uomo
in un’ottica particolare, quella cioè che assegna alla società
occidentale moderna il ruolo di pietra di paragone.
Nell’articolazione del pensiero occidentale la scienza economica è
chiamata soprattutto a definire il posto delle varie società ed
economie nella storia
Roberto Marchionatti, Gli economisti e i selvaggi. L’imperialismo della scienza economica e
i suoi limiti (2008), p. 7 n.
Nello stato commerciale [l’uomo] ha trovato lo scopo
che lo mette in concorrenza con i suoi simili e si
comporta con essi come con il suo bestiame e con il
suo terreno, preoccupandosi del profitto che essi
procurano.
Adam Ferguson, Essay on the History of Civil Society (1767)
la razza più perfezionata […] essendo riuscita
per questo a dominare sulle altre, si sarà
impadronita sulla superficie del globo di tutti
i luoghi che le convengono; […] avrà
cacciato da questi luoghi le altre razze [che
vedranno «arrestato il loro progresso», e
conquisterà] la supremazia su tutte le altre
Jean-Baptiste Lamarck, Philosophie zoologique (1809)
Infine, forme nobili e fiere, un’anima generosa, un
carattere attivo, franchezza, bellezza, intelligenza,
perfezione e virtù sociali, elevano questa razza di uomini
sopra il gregge servile degli altri mortali che si trascinano
per terra, tristemente attaccati al suolo in una vile
uniformità. Che ne sarebbe del nostro mondo senza gli
Europei? […] L’Europeo, chiamato dai suoi alti destini
all’impero del mondo che sa illuminare con la sua
intelligenza e domare col suo valore, è l’uomo per
eccellenza, e la testa del genere umano; gli altri, vile turba
di barbari, non ne sono, per così dire, che l’embrione
Jules-Joseph Virey, Histoire naturelle du genre humain (1798)
scimmia ed uomo non sono mai stati una medesima e sola specie, e io vorrei che
si correggesse ogni piccolo residuo della saga, secondo cui in qualche luogo della
Terra uomini e scimmie vivono abitualmente in una comunità feconda […]. Tu,
uomo, onora te stesso, né il pongo, né il longimanus sono tuoi fratelli, mentre lo
sono il negro e l’americano. Questi, dunque, non devi opprimere, assassinare,
derubare, perché sono uomini come te […]. Infine vorrei anche che non si
ampliassero oltre il giusto le distinzioni che, per un lodevole zelo e per
l’ampliamento degli orizzonti della scienza, si sono fatte tra gli uomini. Così, per
esempio, alcuni hanno osato chiamare razza quattro o cinque suddivisioni […]; io
non vedo nessuna ragione di una tale denominazione, il termine razza, infatti, fa
pensare a una diversità di origine, che qui o non ha luogo affatto, oppure in
ognuna di queste contrade comprende sotto ognuno di questi colori le razze più
diverse. Poiché ogni popolo è un popolo: ha la sua formazione nazionale, come il
suo linguaggio
Johann Gottfried Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1784-91)
[la colpa dei giacobini è di avere] applicato ai negri
il principio di eguaglianza; se avessero consultato i
fisiologi, avrebbero appreso che, data la sua
struttura, il negro, a parità di educazione, non è
suscettibile di essere elevato al medesimo grado di
intelligenza di un Europeo
Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon, Lettre
d’un habitant de Genève à ses contemporains (1803)
gli Europei sono figli di Abele; l’Asia e l’Africa sono
abitate dai discendenti di Caino. Osserva come questi
Africani sono sanguinari, e come sono indolenti gli
Asiatici; questi individui impuri non han dato seguito ai
primi sforzi che compirono per avvicinarsi alla mia divina
preveggenza. Gli Europei riuniranno le loro forze,
libereranno i loro fratelli Greci dal dominio turco. Gli
eserciti dei fedeli saranno sotto l’alto comando del
fondatore della religione, imporranno questa ai
discendenti di Caino
Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon, Lettre d’un habitant
de Genève à ses contemporains (1803)
il mezzo più sicuro per conservare la pace nella
confederazione sarà di portarla incessantemente al di fuori
dei propri confini e il tenerla occupata senza tregua in
opere grandiose all’interno. Popolare la terra della razza
europea, che è superiore a tutte le razze; renderla
praticabile e abitabile come l’Europa, ecco l’impresa con la
quale il parlamento europeo dovrà continuamente
esercitare l’attività dell’Europa, senza concederle mai
tregua
Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon, Lettre
d’un habitant de Genève à ses contemporains (1803)
Ciò che i proprietari di schiavi cercavano nel poligenismo
preadamitico – e trovavano compiutamente nella teoria
della razza – non era soltanto una giustificazione della
schiavitù (che avrebbero potuto facilmente trovare nelle
tradizionali genealogie bibliche), ma una sottrazione della
schiavitù stessa al controllo statale ed ecclesiastico. Si
tratta di stabilire se i negri fossero o meno privi di «anima»
e quindi potessero o meno essere riconosciuti per ciò che
erano, una merce e uno strumento di lavoro, e in tal senso
essere considerati appannaggio privato dei loro possessori
Giuliano Gliozzi, Adamo e il Nuovo mondo. La nascita
dell’antropologia come ideologia coloniale: dalle genealogie bibliche alle
teorie razziali (1500-1700), La Nuova Italia, Firenze 1977
La caratteristica specifica della teoria della razza al suo primo apparire
sulla scena culturale europea [è] la sua forma borghese. Questa teoria, nata
dalla stessa congiuntura storica che conduce, in Inghilterra, alla
rivoluzione vittoriosa della borghesia, nasce anche in connessione con gli
stessi principi di libertà e di eguaglianza che di quella rivoluzione e di
quella classe rappresentano la bandiera. È il carattere formale dei principi
borghesi a lasciare spazio per la contemporanea affermazione della teoria
della razza […]. Nulla di strano che da questa riconosciuta discrepanza tra
diritto e fatto – tipica del pensiero borghese – possa emergere la possibilità,
da parte di quella stessa classe che andava proclamando la libertà e
l’eguaglianza universali, di escludere poi dalla fruizione di questi diritti la
grande maggioranza delle popolazioni coloniali.
Giuliano Gliozzi, Adamo e il Nuovo mondo. La nascita dell’antropologia come ideologia
coloniale: dalle genealogie bibliche alle teorie razziali (1500-1700), La Nuova Italia,
Firenze 1977
Ci imbattiamo in una tesi così sorprendente che
subito dobbiamo soffermarci su di essa. Sostiene,
tale tesi, che gran parte della colpa della nostra
miseria va addossata alla nostra cosiddetta civiltà;
saremmo molto più felici se vi rinunciassimo e
trovassimo la via del ritorno a condizioni
primitive.
Sigmund Freud, Il disagio della civiltà
(3.577)
La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro
corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può
eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e
l’angoscia, dal mondo esterno che contro di noi può
infierire con forze distruttive inesorabili e di potenza
immane, e infine dalle nostre relazioni con altri
uomini. La sofferenza che trae origine dall’ultima
fonte viene da noi avvertita come più dolorosa di ogni
altra […].
Sigmund Freud, Il disagio della civiltà
(2.568-9)
Ci accontenteremmo dunque di ripetere che la
parola civiltà [Kultur] designa la somma delle
realizzazioni e degli ordinamenti che differenziano
la nostra vita da quella dei nostri progenitori
animali e che servono a due scopi: a proteggere
l’umanità dalla natura e a regolare le relazioni degli
uomini tra loro.
Sigmund Freud, Il disagio della civiltà
(2.580)
La libertà individuale non è un frutto della civiltà.
Essa era massima prima che si instaurasse qualsiasi
civiltà, benché in realtà a quell’epoca non avesse
quasi mai un grande valore, in quanto difficilmente
l’individuo era in grado di difenderla. La libertà
subisce delle limitazioni ad opera dell’incivilimento
e la giustizia esige che queste restrizioni colpiscano
immancabilmente tutti.
Sigmund Freud, Il disagio della civiltà
(3.586)
È impossibile ignorare in qual misura la civiltà sia
costruita sulla rinuncia pulsionale, quanto abbia
come presupposto il non soddisfacimento
(repressione, rimozione o che altro?) di potenti
pulsioni. Questa «frustrazione civile» domina il
vasto campo delle relazioni sociali degli uomini; già
sappiamo che è la causa dell’ostilità contro cui
tutte le civiltà devono combattere.
Sigmund Freud, Il disagio della civiltà
(3.587)
L’esistenza di questa tendenza all’aggressione, che
possiamo scoprire in noi stessi e giustamente
supporre negli altri, è il fattore che turba i nostri
rapporti col prossimo e obbliga la civiltà a un
grande dispendio di energia. […] La civiltà deve far
di tutto per porre limiti alle pulsioni aggressive
dell’uomo, per rintuzzarne la vivacità mediante
formazioni psichiche reattive.
Sigmund Freud, Il disagio della civiltà
(5.600)
Non riesco proprio a capire come abbiamo
potuto trascurare la presenza ubiquitaria
dell’impulso aggressivo e distruttivo non
erotico, omettendo di assegnargli il posto che
gli spetta nell’interpretazione della vita.
Sigmund Freud, Il disagio della civiltà
(6.607)
«I bambini non ascoltano volentieri»
quando si parla della tendenza innata
dell’uomo al «male», all’aggressione, alla
distruzione e perciò anche alla crudeltà
Sigmund Freud, Il disagio della civiltà
(6.607)
È consigliabile per chiunque, al momento
debito, fare un profondo inchino di fronte
alla natura profondamente morale
dell’uomo: gli gioverà per ottenere il
favore popolare e molto gli sarà
perdonato.
Sigmund Freud, Il disagio della civiltà
(6.607)
La civiltà domina dunque il pericoloso
desiderio di aggressione dell’individuo
infiacchendolo, disarmandolo e facendolo
sorvegliare da una istanza nel suo interno,
come da una guarnigione nella città
conquistata.
Sigmund Freud, Il disagio della civiltà
(7.610-1)
Se la civiltà è il cammino evolutivo necessario
dalla famiglia all’umanità, ad essa
inseparabilmente si ricollega l’esaltazione del
senso di colpa, come conseguenza del conflitto
d’ambivalenza innato, dell’eterna disputa tra
amore e desiderio di morte: un’esaltazione che
forse giunge ad altezze difficilmente
sopportabili per il singolo.
Sigmund Freud, Il disagio della civiltà
(7.619)
Il problema fondamentale del destino della specie umana a
me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione
civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita
collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e
autodistruttrice degli uomini. In questo aspetto proprio il
tempo presente merita forse particolare interesse. Gli
uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere
sulle forze naturali che giovandosi di esse sarebbe facile
sterminarsi a vicenda, sino all’ultimo uomo. […]
>>>
C’è da aspettarsi che l’altra delle due
«potenze celesti», l’Eros eterno, farà uno
sforzo per affermarsi nella lotta con il suo
avversario parimenti immortale. Ma chi può
prevedere se avrà successo e quale sarà
l’esito?
Sigmund Freud, Il disagio della civiltà
(8.630)
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Discorso sulla disuguaglianza