Corso 2014-15 Penultima lezione Disgiuntivismo e rappresentazionalismo sono due modi diversi di formulare concettualmente una stessa situazione che è caratterizzata da due momenti rilevanti: 1. Vi sono esperienze che ci ingannano; 2. Queste esperienze sono indistinguibili dalle esperienze percettive in senso proprio. Di queste esperienze si deve rendere conto e questo significa che si deve poter spiegare che cosa consenta l’inganno percettivo e che cosa ci possa insegnare in relazione alla natura della percezione nel suo complesso. Su un punto disgiuntivismo e rappresentazionalismo concordano: la percezione consiste nell’afferramento di un oggetto che è il contenuto dell’atto percettivo. Questo oggetto può essere un oggetto mentale o un oggetto trascendente, ma è comunque dato al soggetto percipiente proprio così – come un oggetto. Alla concordanza si lega tuttavia una differenza essenziale: il rappresentazionalismo si muove nella prospettiva di un realismo indiretto che ritiene che la percezione si giochi interamente sul terreno immanente della coscienza. Percepire significa avere coscienza di un segno. Il disgiuntivismo, invece, si lega a filo doppio ad una prospettiva di realismo diretto: il suo tentativo di venire a capo del problema dell’illusione è interamente determinato dall’obiettivo di difendere il realismo diretto dalle conclusioni che derivano dall’argomento dell’illusione e che spingono verso il rappresentazionalismo . Di qui le tesi di questi due diversi orientamenti teorici: La prospettiva rappresentazionalistica: La prospettiva disgiuntivistica: 1. Vale il principio di indistinguibilità (IND): due esperienze indistinguibili sono eguali per ciò che concerne l’oggetto e il modo di intenderlo; 1. Non vale il principio di indistinguibilità: due esperienze indistinguibili non sono necessariamente eguali per ciò che concerne l’oggetto e il modo di intenderlo; 2. IND garantisce che esperienze visive e percettive abbiano un identico oggetto di natura mentale; 2. La negazione di IND ci consente di sostenere che le percezioni non hanno un oggetto di natura mentale, nonostante la loro somiglianza con le allucinazioni; 3. IND istituisce una corrispondenza tra ciò che è dato all’esperienza interna e ciò che quelle esperienze sono: due esperienze indistinguibili debbono essere identiche; 3. Non vale un principio di corrispondenza tra ciò che è dato introspettivamente e ciò che è esperito: due esperienze indistinguibili possono essere diverse tra loro e così accade a percezione ed allucinazione; 4. La percezione non cade per intero nella sfera della consapevolezza poiché di fatto il carattere trascendente del suo oggetto indiretto non si manifesta all’esperienza. 4. L’esperienza interna non ci inganna tuttavia per ciò che concerne il carattere trascendente dell’oggetto della percezione che è dato come una caratteristica direttamente percepita. Il rappresentazionalista descrive la percezione (p) assumendo come modello la mera esperienza visiva (ev). Per far questo deve: Il disgiuntivista assume come modello la percezione e sostiene tanto l’indistinguibilità, quanto la diversità di (ev) da (p). Per far questo deve: • • descrivere (p) come afferramento di un oggetto mentale, attribuendo il carattere di trascendenza dell’oggetto percepito ad una interpretazione causale (ic). La percezione è dunque il risultato di una somma: è un’esperienza visiva cui si aggiunge una proiezione causale. Vale dunque p = ev + ic; • riconoscere che l’oggetto della percezione non è come appare alla percezione interna, ma è un oggetto mentale, cosa questa che accomuna la percezione a una qualsiasi esperienza visiva. Può tuttavia affermare la validità del principio di indistinguibilità e riconoscere che le esperienze indistinguibili hanno un nucleo identico; • nel suo attribuire alla mera esperienza visiva il carattere di modello, il rappresentazionalista accorda un privilegio cartesiano alla certezza del cogito. descrivere la percezione come percezione di un oggetto trascendente, abbracciando il realismo diretto e rifiutando quindi come falsa qualsiasi interpretazione composizionale della percezione che non può essere quindi intesa come somma di qualcosa che si aggiunge alla mera esperienza visiva. (p) e (ev) non hanno un elemento comune che ne definisca il genere; • accettare come valida la voce dell’introspezione e sostenere che la percezione è per sua natura una relazione che ci lega agli oggetti. Deve tuttavia negare all’introspezine un’analoga capacità di far luce sulla natura dell’esperienza visiva che è sì diversa, ma indistinguibile dalla percezione reale. L’unica caratteristica delle esperienze visive è il loro essere indistinguibili, ma diverse dalla percezione; • nel suo attribuire alla percezione il carattere di modello, il disgiuntivista accorda un privilegio esplicativo alla percezione che non può essere fondato descrittivamente. percezione esperienza visiva disgiuntivista rappresentazionalista Il disgiuntivista comprende l’esperienza visiva con il metro della percezione e la rende per questo descrivibile solo nel suo essere indistinguibile, anche se diversa dalla percezione stessa; il rappresentazionalista assimila invece la percezione all’esperienza visiva, rende per questo meramente immanente il suo oggetto e, di conseguenza, deve differenziare la percezione dalla mera esperienza visiva, facendo leva su una caratteristica che non cade nella sfera dell’esperienza interna: possiamo parlare di oggetti trascendenti solo perché la proiezione assimilativa o causale lega alla percezione la sua causa reale che si pone così come l’oggetto mediato della nostra esperienza. Per il disgiuntivista, la natura delle mere esperienze visive (delle illusioni e delle allucinazioni) è ineffabile: di esse si può dire solo che sono esperienze indiscernibili dalle percezioni, la cui natura è invece interamente dispiegata e si manifesta così come realmente è allo sguardo dell’introspezione. Per il rappresentazionalista, la natura delle mere esperienze visive è interamente accessibile alla coscienza interna, mentre la natura della percezione risulta essere il composto di un elemento introspettivamente accessibile e di un elemento che deve sussistere, ma che è in linea di principio inattingibile all’introspezione: ciò che giustifica la proiezione e, quindi, la pretesa conoscitiva dell’esperienza percettiva cade al di là della sfera della consapevolezza. Il disgiuntivista ritiene che la percezione giustifichi le tesi del realismo diretto, ma da un lato è costretto ad ammettere che le nostre esperienze possono essere diverse da come le viviamo e, dall’altro, riconduce il privilegio esplicativo della percezione ad un assunto: ritiene che sia fin da principio da scartare l’ipotesi di un sogno coerente che ci garantisca una mera identificazione intensionale degli oggetti. Il realismo diretto del rappresentazionalista è postulatorio. Il rappresentazionalista è un realista indiretto, ma non può argomentare nulla contro le obiezioni scettiche. È inoltre costretto a ritenere che la coscienza interna non possa dirci nulla sul carattere trascendente degli oggetti percepiti. Rappresentazionalismo e disgiuntivismo sono due modi per dare forma concettuale ad una stessa tesi di fondo: il fatto che vi sono illusioni percettive e che sembra essere per questo lecito sostenere che percezioni ed esperienze visive sono indistinguibili. Il rappresentazionalismo prende atto di questa indistinguibilità e sostiene, per questo, che la percezione è una mera esperienza visiva cui si aggiunge una causa reale nel mondo esterno. Il disgiuntivismo prende atto di questa indistinguibilità, ma rifiuta il principio per il quale esperienze indistinguibili sono identiche almeno in parte e per questo può sostenere che la loro indistinguibilità non dice nulla di una presunta natura comune del loro oggetto. Insomma: rappresentazionalismo e disgiuntivismo ci propongono di leggere diversamente una stessa comune base di dati. Non sono tra loro compatibili, ma non possono nemmeno dimostrare l’uno la contraddittorietà dell’altro: siamo invitati ad una scelta che deve essere giustificata su altre basi. Questa base è: • per il disgiuntivismo: la nostra convinzione che il realismo diretto sia fondato epistemologicamente e fenomenologicamente • per il rappresentazionalismo: la nostra convinzione che la sfera del cogito coincida con la consapevolezza che ne abbiamo e che non sia pensabile che un’esperienza sia diversa da come ci appare. Rappresentazionalismo e disgiuntivismo non possono essere entrambe veri, ma possono essere entrambe falsi perché non si contraddicono l’un l’altro. Possono essere entrambi falsi se il fatto su cui poggiano non sussiste o se vi è un errore comune nell’interpretarlo. Una ragione a favore del disgiuntivismo: ci dispone in una prospettiva che sembra consentirci di comprendere bene il nostro rapporto con le cose e con il mondo. In fondo, il filosofo disgiuntivista sembra mosso dall’esigenza di salvare un’istanza di stampo realistico e tutte le sue mosse sono orientate in questa direzione. Ed una ragione contro il disgiuntivismo: il risultato, tuttavia, è in parte deludente: ci si fonda su un dato descrittivo – la nostra certezza di avere esperienza di cose – per poi negare che in generale la nostra consapevolezza sia pienamente affidabile. Una ragione contro il rappresentazionalismo: il rappresentazionalismo non sembra consentire quel rapporto con le cose che pure è necessario e che non può che essere dato dalla percezione. Ed una ragione a favore del rappresentazionalismo: ci dispone in un ordine di idee che sembra legarsi bene alle considerazioni che avevamo proposto quando avevamo illustrato l’argomento casuale. Al contrario, la prospettiva disgiuntivistica sembra essere messa in seria difficoltà da quell’argomento, perché la prospettiva causalistica sembra costringerci ad affermare che l’oggetto percepito può essere connesso alla coscienza solo attraverso una concatenazione causale che può essere sempre omessa. Di qui l’argomento su cui ci siamo precedentemente soffermati: la concatenazione delle cause mette capo comunque ad uno stato antecedente alla percezione – ad uno stimolo prossimale – che non ha memoria di ciò che l’ha preceduto e che potrebbe darsi anche indipendentemente da quella concatenazione causale. La lampada si spegne in uno stesso identico modo se si interrompe il contatto perché è male avvitata o se manca la corrente perché levo la spina dalla presa o se infine schiaccio l’interruttore. Ci troviamo così in una situazione poco invidiabile. Una strada – il disgiuntivismo – sembra sbarrata, mentre l’altra – la strada del rapresentazionalismo – è libera, ma non conduce da nessuna parte perché fa della percezione un evento inutile. L’argomento causale tuttavia può insegnarci qualcosa: ci costringe a prendere atto che l’oggetto non può essere una componente reale dell’esperienza, perché la stessa esperienza come evento reale può sussistere se è dato il solo stimolo prossimale o se esso è dato come un anello di una catena che conduce sino allo stimolo distale. Il filosofo disgiuntivista non sembra potere affermare quello che pure pretende di affermare e cioè che l’oggetto reale determina l’esperienza percettiva in quanto tale: “According to naïve realism, the actual objects of perception, the external things such as trees, tables and rainbows, which one can perceive, and the properties which they can manifest to one when perceived, partly constitute one’s conscious experience, and hence determine the phenomenal character of one’s experience. This talk of constitution and determination should be taken literally; and a consequence of it is that one could not be having the very experience one has, were the objects perceived not to exist, or were they to lack the features they are perceived to have” (Martin). Non sembra poterlo affermare perché non sembra possibile negare che una stessa esperienza pi possa darsi sia quando pi è l’ultimo anello di una catena causale che ci riconduce all’oggetto, sia quando pi è solo l’effetto di uno stimolo prossimale altrimenti prodotto. Non mi sembra insomma possibile affermare che «one could not be having the very experience one has, were the objects perceived not to exist, or were they to lack the features they are perceived to have”. Eppure, riflettere sull’argomento causale ci consente una critica che forse conduce al di là del rappresentazionalismo e del disgiuntivismo, senza abbandonare il terreno del realismo diretto. Per rendersene conto è opportuno porsi una domanda inattesa: a che titolo parliamo di illusioni? Perché un’illusione è un’illusione? In fondo, che cosa c’è di male se il remo mi appare spezzato? Non è forse esattamente questa la configurazione dei raggi luminosi che giungono al mio occhio? Il mio occhio, come dispositivo causale, registra esattamente quello che deve registrare. E ancora: perché chiamare allucinazione il fatto che abbia un’esperienza del tipo «albero» anche se non c’è nessun albero? Perché non dire che un’allucinazione è la percezione di quel mutamento cerebrale che la determina? In fondo, è questo l’effetto che una certa alterazione del mio stato cerebrale determina. La lampadina fa il suo dovere sia che si spenga perché ho levato la spina, sia perché il contatto è incerto. Una reazione di disappunto: queste considerazioni sembrano fuori luogo. Il percepire è un momento della macchina animale e vedere un remo spezzato quando il remo è integro (o addirittura quando il remo non c’è) è un buon esempio di cattivo funzionamento dei sistemi informazionali perché determina una distonia nel nostro comportamento. In fondo anche l’esempio della lampadina va in questa direzione: se premo l’interruttore la lampadina deve spegnersi; se si spegne invece perché è male avvitata, allora qualcuno non ha fatto il suo dovere. Qualche volta ci si esprime così: la lampada si è spenta perché c’è un contatto falso – che cosa vogliamo di più allora? Le allucinazioni e le illusioni sono falsi contatti. Certo, illusioni e allucinazioni ostacolano il comportamento, ma sono qualcosa di più di ostacoli in un comportamento: sono errori percettivi. E lo sono perché sono accomunate alla percezione da una stessa pretesa: pretendono di dirci come stanno le cose. Riflettiamo bene su questo punto. Illusioni e allucinazioni pretendono di riferirsi ad un oggetto trascendente che dovrebbe manifestarsi e prendere forma in esse. È solo questo che le rende erronee. Se in esse prendesse forma un oggetto mentale, non ci sarebbe nulla di che lamentarsi. Mi domandi com’è fatta la mia scrivania e per descrivertela cerco di visualizzarla: è come se la vedessi qui di fronte a me, ma nel farsi avanti di questo oggetto mentale non c’è davvero nulla di ingannevole. Ancora una volta, si potrebbe reagire a queste considerazioni dicendo che vi è una risposta ovvia: certo, nel rappresentarci un oggetto mentale non c’è nulla di male, ma le illusioni contrabbandano un oggetto mentale per un oggetto reale. L’errore è tutto qui: in questa sostituzione del mentale al reale. Dietro quest’ovvietà si nasconde tuttavia un problema perché non è affatto chiaro come possa avvenire questa sostituzione, a meno che non si pensi alle scene percettive non come ad oggetti, ma come a manifestazioni in cui qualcosa – un oggetto – prende forma. Se pensiamo al remo spezzato come ad un oggetto mentale dovremmo sostenere non che è un errore percettivo, ma che denota un oggetto che è diverso da quel che si potrebbe credere: denota un remo integro. Sta per questo oggetto reale. Gli errori percettivi sarebbero al massimo qualità secondarie. Lo stesso vale per le allucinazioni. Non sarebbero affatto allucinazioni, ma percezioni di un oggetto reale: di uno stato reale del nostro cervello. Anche in questo caso, quindi, avremmo una denotazione diversa da quello che ci attendiamo, ma non avrebbe senso dire che l’allucinazione è falsa o che l’illusione visiva del remo è corretta da quella tattile: dovremmo semplicemente dire che a oggetti mentali diversi corrispondono in vario modo oggetti reali. In realtà, tutte queste considerazioni non fanno altro che mostrare che se ci si dispone sul terreno rappresentazionalistico il nesso denotativo diviene un mistero e lo diviene perché si assume che la percezione consti di oggetti mentali, di cose che stanno per sé, che hanno una loro autonoma consistenza, sia pure solo sul terreno della mente e allo stesso tempo si pretende che siano segni di qualcos’altro, senza poter sganciare di fatto la comprensione di questo qualcosa da ciò che abbiamo già di fatto percepito. Se ho un’esperienza del tipo «albero» e l’albero non c’è ho un’allucinazione perché in quell’esperienza sembra manifestarsi la presenza di un albero davanti a me, ma il filosofo rappresentazionalista lockeano non sembra poterlo dire perché ciò di cui è segno quell’esperienza è ciò che la causa – un certo stato mentale. Di qui il significato di questa apparente digressione. Se ci poniamo nella prospettiva del rappresentazionalismo, la percezione si configura come percezione di un oggetto mentale che vale come un segno di un’oggettualità reale. Ora, comprendere in questa luce che una percezione è ingannevole vuol dire qualcosa di simile a scoprire che una parola non ha il significato che credevamo – un fatto questo che non può spiegare il perché quando ci accorgiamo che il manichino nella vetrina è in realtà una persona in carne ed ossa qualcosa muta anche nella scena percettiva, e non solo nella natura dell’oggetto percepito. Se invece pensiamo che la percezione non sia l’afferramento di un’oggettualità mentale a sé stante, ma il processo in cui un identico si manifesta nell’unità concordante di una molteplicità di manifestazioni attuali e possibili, allora è ben chiaro che cosa voglia dire accorgersi del carattere illusorio di una percezione: vuol dire cogliere i limiti di quell’unità concordante e avvertire il punto in cui alla sintesi dell’esser così si affianca il momento dell’altrimenti. Il remo che si manifesta spezzato ci si rivela nel corso della percezione come un oggetto che non è così come si manifesta perché il carattere «spezzato» non si lega alla percezione complessiva della cosa che la rivela nella sua integrità. Ma ciò è quanto dire: il remo spezzato non è un oggetto (sia pure mentale) che è necessariamente diverso dal remo integro – non è un’altra cosa, ma è solo il modo illusorio in cui quel remo integro appare in una serie di manifestazioni percettive. Ma se le cose stanno così, la condizione per comprendere in che modo l’esperienza possa correggersi o rivelarsi illusoria fa tutt’uno con il rifiuto del principio di oggettualità fenomenica. Ma anche se ci disponiamo sul terreno del disgiuntivismo le cose non sembrano risolversi perché su questo terreno sembrerebbe necessario riconoscere che ogni percezione è illusoria, poiché non vediamo mai l’oggetto nella sua vera forma. Tutte le percezioni ci danno l’oggetto secondo un certo profilo o secondo una certa modalità fenomenica dell’apparire e questo equivarrebbe a sostenere che ogni percezione visiva è illusoria. La moneta la vediamo ellittica? O la vediamo solo nella sua forma autentica? Si può trovare un modo per descrivere correttamente il modo in cui la vediamo che non tenga conto della dualità del vedere – del suo essere percezione di qualcosa che si dà attraverso manifestazioni fenomeniche? Guardo la moneta e vedo che ha forma circolare – lo vedo, anche se si manifesta in una qualche forma ellittica. Questa forma manifestativa, cui pure corrisponde nel mondo qualcosa (grosso modo: alla disposizione dei raggi di luce che l’oggetto riflette per un punto dato), non è in sé né reale, né mentale: appartiene al contenuto di senso della percezione e assume un suo significato solo in quanto manifestazione di qualcosa che si manifesta in un decorso percettivo possibile. Ma ciò è quanto dire: la scena percettiva non è in sé né reale né mentale perché nella percezione si determina come momento di un processo cognitivo: di per sé, ogni singola scena percettiva non è affatto, ma manifesta qualcosa che è. Se descrivo la moneta che vedo da qui non posso dire che è ellittica, ma nemmeno che si manifesta nella sua forma circolare: devo dire che la vedo circolare proprio perché mi si manifesta così – secondo questa peculiare sezione prospettica. Il fatto che sulla retina si imprima una certa forma o che ci siano determinati angoli solidi che corrispondono alla luce riflessa per un punto non può essere confuso con la manifestazione percettiva della cosa, perché la manifestazione percettiva ha un valore manifestativo che non coincide con ciò che caratterizza la natura reale del fondamento su cui sopravviene. Ci siamo già soffermati su questo punto quando abbiamo discusso della posizione husserliana. Si deve distinguere la cosa dalla manifestazione della cosa, perché solo così diviene comprensibile come possa accadere che nella percezione la cosa si dia come cosa che si manifesta così e così. Su questo punto ci siamo già soffermati, ma ora possiamo comprendere che cosa ci consenta di affermare. 1. Ci consente di affermare che non è vero che il contenuto della percezione sia l’oggetto. Il contenuto della percezione è la manifestazione di un oggetto; 2. In questo senso si deve rifiutare anche il principio di oggettualità fenomenica: il contenuto di una scena percettiva non è un oggetto mentale, ma una manifestazione; 3. il senso percettivo di una manifestazione non dipende dal suo essere obiettivo, ma dalla funzione che esercita all’interno del decorso percettivo; 4. ne segue che due esperienze possono essere materialmente identiche, ma avere un diverso contenuto manifestativo; 5. vi è dunque un elemento comune tra percezione ed esperienze meramente visive, ed è la componente reale del contenuto manifestativo; 6. ma vi è anche una differenza che si attesta nel corso del processo percettivo: una stessa scena percettiva può rivelarsi una manifestazione di cosa o può semplicemente rimanere insoddisfatta nelle sue pretese; 7. sul terreno percettivo le manifestazioni di cosa ci consentono di avere percettivamente una cosa che si manifesta così e così. Ma se le cose stanno così, possiamo dire che la nostra percezione è coscienza di oggetti reali che ci si danno attraverso manifestazioni fenomeniche. Percepiamo oggetti, ma gli oggetti si manifestano nella percezione e non coincidono con una qualche loro manifestazione fenomenica. Ne segue che possiamo difendere sia la tesi secondo la quale vi è contenuto comune tra percezione e mera esperienza visiva, sia la prospettiva del realismo diretto. Alla stessa stregua, possiamo riconoscere che uno stesso vissuto reale può avere funzioni manifestative interamente diverse, cosa questa che ci consente di dare una risposta all’argomento causalistico. Parlare di uno stesso vissuto reale non significa ancora avere detto nulla circa il significato che esso assume nell’esperienza, esattamente come l’espressione «La carne di questo macellaio è particolarmente tenera» potrebbe avere significati che variano in modo rilevante quando a pronunciarla è un cliente o un leone che avesse misteriosamente imparato la nostra lingua. E tuttavia ci sono due obiezioni possibili che debbono essere formulate e che, credo, ci consentono di comprendere meglio il senso delle nostre considerazioni: 1. Non si potrebbe obiettare che in fondo quel che diciamo è un rappresentazionalismo mascherato? Non stiamo dicendo semplicemente che la percezione è indiretta e che ciò che vediamo – le manifestazioni – sono il termine medio che ci conduce agli oggetti? 2. E se questo non fosse vero, nel dire che l’oggetto si dà come l’identico delle manifestazioni, non stiamo semplicemente ricalcando il terreno della prospettiva del trascendentalismo husserliano? Non stiamo in altri termini prendendo definitivamente commiato da quel realismo ingenuo cui vorremmo invece aderire? Veniamo alla prima obiezione: parlare di manifestazioni dell’oggetto e quindi anche di mediazioni fenomeniche non significa affatto sostenere che l’oggetto sia percepito attraverso una qualche rappresentazione, perché le manifestazioni della cosa non sono immagini e non stanno alla cosa che si manifesta nella relazione in cui un segno sta ad un denominato. Le manifestazioni non sono una cosa che rimanda ad altro, ma sono le forme in cui l’oggetto si costituisce per quello che è. L’oggetto non sta alle sue manifestazioni come un denotato sta al segno o anche al senso che lo denota, ma come l’identico che si manifesta nelle manifestazioni stesse. Ma ciò è quanto dire: le manifestazioni della cosa non sono altro che la forma in cui di volta in volta la cosa si manifesta proprio così come è. Quando osservo un segno non vedo la cosa per cui sta e anche se da un attento ascolto di un brano musicale posso risalire allo spartito da cui è tratto, sarebbe evidentemente privo di senso sostenere che lo spartito si manifesta nella musica. Tra spartito e musica c’è un rapporto di natura segnica: l’uno rimanda all’altra. Quando osservo invece la moneta che, nel suo apparirmi così, si rivela circolare non sto vedendo qualcosa d’altro rispetto alla moneta stessa, anche se quest’ultima si manifesta per quello che è solo nel gioco delle sue manifestazioni. Del resto, che di rappresentazionalismo non si tratti lo si mostra ancora una volta nel fenomeno della modalizzazione: il remo che sembra spezzato si rivela poi integro al tatto e la manifestazione percettiva del remo assume un senso nuovo – il senso del «non così, ma altrimenti». Ci appare così e infine impariamo a vedere in quella manifestazione un remo immerso nell’acqua, proprio come impariamo a vedere il colore degli oggetti nel loro trasparire dietro una lente colorata. Ma una correzione ha senso ed è possibile se e solo se nel decorso percettivo si fanno avanti due (o più) modi di manifestazione di uno stesso oggetto. Un segno non corregge un altro segno, ma al massimo si sostituisce ad esso. Quanto alla seconda obiezione, si può osservare questo: dire che l’oggetto non coincide con la scena percettiva stessa, ma è ciò che in ogni singola manifestazione (e in ogni successione di manifestazioni) si consegna alla nostra esperienza, come identico polo di una serie aperta di percezioni possibili non significa necessariamente disporsi in una prospettiva trascendentale perché su di un piano trascendentale ci si pone solo se si ritiene che l’oggetto si costituisca nell’esperienza. La tesi che vorremmo sostenere è diversa. L’oggetto (l’identico delle manifestazioni) non si costituisce come il frutto di una sintesi e non è il prodotto trascendentale della mia esperienza, ma è semplicemente qualcosa che si consegna alla percezione ed è solo per questo che la percezione può assumere il senso di una scoperta del reale: perché in linea di principio è ancorata ad una realtà che può essere altrimenti. In altri termini: sostenere una posizione di stampo realistico significa soltanto riconoscere che l’oggetto che si manifesta nelle differenti scene percettive non si costituisce in esse, ma è l’ancoramento reale che attribuisce loro il senso di manifestazioni percettive della cosa. In questo senso si rende chiara la distinzione tra identità intensionale ed estensionale su cui c’eravamo soffermati. Nella percezione le manifestazioni si danno come manifestazioni di un’identica cosa che è colta come fondamento dell’identità stessa: le manifestazioni variano secondo una legge che è determinata non dal gioco delle mie intenzioni, ma dalla determinatezza della cosa stessa. Ma si dirà: dalle considerazioni che abbiamo proposto risulta chiaramente che non vi è nessun criterio per distinguere all’interno della percezione, in modo assoluto e definitivo, se l’identità dell’oggetto esperito sia solo intensionale o estensionale. In altri termini, non vi è un criterio che ci consenta di decidere se si tratta di un’identità che si costituisce e che vive solo all’interno di una concatenazione di percezioni date o di un’identità che si annuncia certo nella percezione, ma che sussiste al di là di essa. E se non vi è nessun criterio che ci consenta di asserire una volta per tutte che una determinata identità è un’identità estensionale, con che diritto parliamo allora di un’identità che ha un fondamento ontologico e non soltanto fenomenologico? Credo che a questa domanda si debba rispondere semplicemente così: l’incertezza è parte del concetto stesso della conoscenza, ma questo non significa che dalla nostra incapacità di attestare una volta per tutte che le cose stanno così e così sia lecito dedurre la tesi secondo la quale non si può in generale affermare nulla che vada al di là della sfera di ciò che ci è propriamente dato. Dal fatto che non possa escludere di essermi sbagliato nel contare i platani di un filare o addirittura dal mio essere di volta in volta pervenuto a risultati differenti non si può dedurre che quei platani non siano in un numero che è indipendente dal mio contarli. La possibilità dell’errore non è una buona ragione per abbassare l’asticella del concetto di verità. Siamo così arrivati in fondo al nostro percorso. E questo vuol dire tra le altre cose che possiamo provare a riformulare le nostre tre proposizioni, cercando di dare loro una forma coerente con le considerazioni che abbiamo proposto: 1. Le cose concrete sono indipendenti dalla soggettività; 2. Abbiamo un’esperienza non rappresentativa delle cose del mondo; 3. Le cose si danno come punto di ancoraggio di unità concordanti di manifestazioni soggettive ed intersoggettive. La triade incoerente da cui avevamo preso le mosse all’inizio del corso può essere riformulata così, in una forma che esclude ogni interna contraddizione. Ci disponiamo sul terreno di un realismo diretto che riconosce tuttavia la presenza di mediazioni fenomeniche e che non ritiene che l’oggetto sia una componente delle nostre percezioni che, proprio per questo, non hanno di per se stesse natura relazionale. Allo stesso tempo siamo invitati a riconoscere che gli oggetti sono presenti nella nostra esperienza solo nelle forme e nei modi in cui li percepiamo dapprima e poi li pensiamo e conosciamo. Va tutto bene? Non è certo possibile dirlo e in qualche misura dobbiamo davvero accontentarci della prova dell’elmo di Don Quixote: ne abbiamo saggiato una volta la consistenza ed è andato in pezzi. L’abbiamo ricostruito con un poco di cura in più ed ora ci pare tanto solido da convincerci che sarebbe fatica sprecata controllarne ancora la resistenza. Insomma: ci fermiamo qui. Ma sarebbe necessario andare ancora avanti.