PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA
OPERA DON GUANELLA – BARI
«PREGA E
LAVORA»
PRODOTTO DELLA TERRA,
FRUTTO DEL LAVORO,
DONO RECIPROCO
Anno Pastorale
2014-2015
Penso che radunarsi intorno alla tavola sia un momento
di confronto e di dialogo soprattutto per le famiglie
che lavorano e che non si vedono durante la giornata.
Il cibo è una cosa importante perché è quello che ci fa vivere
e non bisogna sprecarlo perché ci sono persone che non
hanno niente.
(Mamma Carola)
Riunirsi è un bene che aiuta a capire tante cose. Amo il cibo.
Cerchiamo di non distruggere il pianeta che mi procura
l’adorato cibo. Facciamo solo la cena insieme, mi spiace.
(Pino, 16 anni)
So di non avere una corretta alimentazione e non faccio
nulla per cambiarla. Se non è sincera non vorrei una
famiglia stile «mulino bianco».
(Sharon, 14 anni)
Sappiamo che la
società non è
garantita nella sua
evoluzione e nel suo
progresso. È
sempre possibile
perdere garanzie e
posizioni di
vantaggio. Le
culture possono
anche tramontare.
Che cosa stiamo perdendo, in questa svolta storica, almeno
nel mondo occidentale? In senso generale e sintetico si
potrebbe rispondere con le parole di Giorgio Agamben, il
quale ancora negli anni ‘70 scriveva:
L’uomo contemporaneo è stato espropriato della sua esperienza: anzi,
l’incapacità di fare e trasmettere esperienze è, forse, uno dei pochi dati
certi di cui egli disponga di se stesso.
Viviamo un tempo
saturo di stimoli e di
passioni, ma
avvertiamo che ci è
stata sottratta la presa
diretta con la vita. Ci
sentiamo immersi in un
flusso emozionale
incessante,
potenzialmente liberi di
soddisfare ogni oggetto
del desiderio, eppure ci
accorgiamo di essere
come svuotati.
La società del consumo ha dato carne al desiderio ma a prezzo
di rilevanti riduzioni: la vita intesa come pura materialità, il
corpo come macchina pulsionale, la comunicazione come flusso
emozionale, la vita sociale come adeguamento e consenso. La
riduzione materialistica del desiderio si è accompagnata con la
spiritualizzazione della materia, proponendo così un’ideologia
globale dell’essere umano.
La vita è pensata come
«autoespressione», l’enfasi
posta sulla mobilità ne è la
diretta conseguenza: tutti
siamo sollecitati a
muoverci, a liberarci dai
vincoli, a entrare nei
circuiti globalizzati (le
tendenze, le mode, le
pressioni sociali).
Cambiamento accelerato e
crisi sono i due tempi
ineliminabili del nuovo
capitalismo. La velocità dei
ritmi è la condizione
perché le contraddizioni
siano attutite.
Per questo i consumi sono essenziali: le delusioni possono così
essere immediatamente sostituite da nuove esperienze, il vuoto
riempito da nuove sensazioni. Nell’economia, nella politica e
nelle scelte religiose, le società avanzate lasciano alle persone
una libertà formale apparentemente senza limiti. Poter
disporre di sé senza i vincoli della tradizione, del costume, di
un’etica condivisa, esalta le fantasie dell’onnipotenza.
Le persone sono lasciate
libere, non viene
richiesta loro alcuna
adesione coerente e
fedele. Il relativismo
etico rende equivalenti
tutti i significati. La
potenza delle nuove
tecnologie non è tuttavia
sufficiente a nascondere
la dimensione dei
problemi e i rischi di
fallimenti di questo
sistema di vita.
La psicologia insegna che la personalità matura nella misura in
cui ha l’opportunità di scontrarsi con la realtà, imparando a
mediare l’assoluto delle passioni e dei desideri con i vincoli della
quotidianità. Le fantasie di onnipotenza, rielaborate nel duro
scontro con il reale, possono così evolvere e conservarsi come
sogno e desiderio maturi. Alle nuove generazioni invece è stato
offerto un crescendo di comodità e di facilitazioni.
Si è alimentato in loro l’illusione di avere
«tutto», per poi trovarsi con «nulla». Gli
adulti si sono assunti la missione di
rendere la vita dei loro figli la meno
difficile possibile, fino a sostituirsi alla
loro fatica e responsabilità, secondo il
principio: «Dimmi che cosa ti piace e io te
la procuro», esonerandoli dal senso del
dovere (ma non dalla competizione
sociale), privandoli della soddisfazione
della conquista. Non si sono accorti della
squalifica che quel messaggio conteneva.
1. LA PRESA DIRETTA CON LA VITA
L’invito all’ebbrezza della
nuova libertà della società
consumista è stato letto
come possibilità di godere
di un eterno presente.
L’autore che forse per primo
ha intuito il senso delle
trasformazioni di fine
Novecento è stato Zygmunt
Bauman con la sua
definizione del nostro
mondo come «società
liquida», caratterizzata
dalla corruzione del codice
dell’amore.
I legami sono diventati
evanescenti e insicuri. Alla
leggerezza delle relazioni
senza impegno (la «relazione
pura» di A. Giddens) non
corrisponde però la stabilità
del piacere ma un’affettività
inquieta e pesante; alla
fragilità psicologica, seguono
le identificazioni «solide»
delle dipendenze, delle
immaturità; alla liquidità
degli affetti subentra
l’ingannevole sponda dei
comportamenti
standardizzati; alla
gratificazione illusoria del
narcisismo la paura dell’altro,
la ribellione nei confronti
della comunità.
L’esito complessivo è un rapido indebolimento dei
rapporti umani che si spogliano di intimità ed
emotività. Prevale così la sensazione di vivere in un
mondo fittizio, dove conta l’immediatezza della
comunicazione, dove la veracità (apparire autentici)
vale più della verità, l’immagine più della realtà.
Nel mondo dove non c’è più l’altro, non si coltiva la
responsabilità verso la verità, né sembra imporsi l’interesse a
farla valere. L’eclissi dell’esperienza si accompagna così a
un’altra perdita: la mancanza della risposta «religiosa» (in
senso ampio) alla domanda di significato e senso della vita.
È venuto meno lo spazio
trascendente, il luogo
mentale collettivo come
argine alla vita intesa
come mero consumo
oppure come
inarrestabile flusso
emozionale, dove si
annulla il pensiero. È
ancora possibile
affermare, tuttavia,
insieme a Eduard
Spranger che «la vita
educa», anche quando
non si è capaci di
riconoscerlo.
Il sentimento della vita è come brace
attiva sotto la cenere. Il vissuto e le
sensazioni individuali non possono
esaurire il reale. L’esperienza contiene
sempre più di quanto gli individui siano in
grado di rappresentare. Non si può vivere
chiusi nel proprio mondo, perché nel «qui
e ora» è sempre contenuto un «altrove» e
un «ancora». C’è sempre un «oltre» che
non può essere totalmente escluso. Questa
esperienza umana imprescindibile è il
senso trascendente della vita.
Nel concreto vissuto quotidiano (il visibile), è
continuamente sperimentato qualcosa che è più
grande di quanto è dato rappresentare, qualcosa che
viene «indicato» ma che non è colto del tutto, che si
presenta ma, al tempo stesso, sfugge.
In ogni vissuto esiste, in
altre parole, «un di
più» che l’esperienza
contiene sotto forma di
rimando, di desiderio,
di significato.
L’esistenza è sempre
opera «incompiuta»,
desiderio e attesa di ciò
che la trascende, che si
sporge di là
dall’orizzonte del «qui e
adesso». Nella vita di
un individuo non
esistono soltanto
bisogni materiali o
culturali da soddisfare.
Oltre ciò che già si è
realizzato, c’è sempre un
«non ancora» che rende
possibile il desiderio e la
speranza. Ciò che alimenta
l’attesa della vita umana, che
dà a essa senso e consistenza
e la fa amare, sono i
significati che a essa si
attribuiscono. La persona
umana, infatti, è «animale
simbolico», che
costantemente cerca di
trascendere i confini
immediati e materiali della
vita.
La trascendenza è contenuta nella stessa esperienza umana,
nell’agire, prima ancora che nel pensare. È un sentire
emozionale e sensibile (in senso ampio), prima ancora di
diventare contenuto mentale. La trascendenza è un’eccedenza
di vita, una realtà che supera i limiti dell’ordinario e del
quotidiano, pur essendovi contenuta. «Irrompe» in essi,
«sporge» oltre essi, a volte in modi sorprendenti e imprevisti.
Nella trascendenza gli individui sono sospinti «oltre»
ma questo «sentire» non significa uscire «fuori», ma
piuttosto entrare «dentro» l’esperienza sensibile. È
presa diretta con la vita.
Esperienza di trascendenza
è, per esempio, la poesia, lo
stupore per la bellezza
nascosta della vita, oppure
l’amarezza per
l’insufficienza della
materialità e le
contraddizioni della
propria pesantezza e la
determinazione a volerle
trasfigurare. La domanda
«religiosa» non può essere
taciuta ma, si propone, in
forme inaspettate, in ogni
epoca e condizione umana.
La sua funzione infatti,
sostiene ancora N.
Luhmann, è di
«rappresentare
l’appresentato».
Per questo il nostro
tempo è sempre
pieno di sorprese, è
ancora terreno fertile
di germi di speranze
inaspettate, di
risposte generose, di
assunzioni di
responsabilità che
contrastano
l’individualismo e
generano legami.
Nei movimenti di base come nelle associazioni e nelle
comunità, non è tramontata la voglia di radicamento,
la disponibilità al prendersi cura, la volontà di esserci.
Dai mondi giovanili fioriscono incessanti segni di
creatività sociale ed ecclesiale.
Il linguaggio simbolico non si è esaurito, appare anzi
più che mai una risorsa creativa. La sua forza
performativa non si limita a descrivere la depressione
del mondo, ma prefigura il nuovo e trasforma il reale.
L’esperienza del nulla apre un grande varco attraverso
cui passa il ritorno del trascendente.
Sempre meno, chi
prefigura la nuova
mentalità che
avanza, esclude la
dimensione della
spiritualità:
razionalità e
spiritualità, ci
vogliono entrambe,
l’economia non può
dare un prezzo a
tutto.
La socialità
postmoderna, capace
di esaltare il flusso
emozionale delle
masse di festa, delle
tifoserie, dello
spettacolo delle
merci,
dell’immaginario
planetario del lusso,
è densa di richiami al
trascendente.
I segnali di un «ritorno del religioso» non sono tuttavia esenti
da gravi rischi e da derive idolatriche. Si conferisce all’idolo il
potere di presentare il finito come assoluto, di ridurre
l’infinito alla materialità. Idolatrica diventa la scienza quando
le sue scoperte trasmettono l’idea che la persona altro non sia
che una macchina biologica e che le questioni fondamentali
della vita possano essere riportate a spiegazioni
neurocerebrali.
La costruzione di un mondo senza verità è irrealizzabile,
perché la vita sociale riproduce continuamente significati
che pongono domande di senso. Il mondo globalizzato,
avendo relativizzato i costumi ed esteso l’immaginarlo
della libertà, mette incessantemente le persone davanti
all’alternativa: che non ci sia alcuna verità o che la verità
abbia molteplici volti.
2. LA VITA AFFIDABILE
Per costruire un nuovo ordine
simbolico, infatti, ci vuole fede (in
senso anzitutto umano): fiducia,
desiderio, speranza. Occorre
entrare in rapporto con il «Grande
Altro» diceva J. Lacan. Il
t(T)rascendente (distinguendo
nell’unica parola la religione come
domanda umana e la fede religiosa
come dono) è sempre presente:
interpella all’impegno in prima
persona, e in questo modo fa
riemergere il senso dell’essere,
prima ancora che del fare.
I significati più immediati del vivere quotidiano, come
l’amore, l’amicizia, la fraternità, e anche la malattia, il
male e il peccato, continuano a interrogare individui,
famiglie e società. I fatti della vita e della morte
provocano, angosciano, sollecitano il pensiero.
L’inquietudine spinge a cercare nuove risposte. I
valori astratti e ideologici oggi non sono più in grado
di mobilitare le persone. Per ridare realtà
all’esperienza occorre andare oltre («tras-gredire») la
decadenza del pensiero e dei costumi, verso una nuova
generatività personale e sociale.
Questo presuppone di
«mettere fede»: apertura e
disponibilità alla ricerca di
senso. Solo se viene
intravista la possibilità della
gratuità, il nulla può essere
rivestito di significato. La
bontà non è solo la risposta
al male, ma è anche la
risposta al non-senso
generato dal fatto che, non
sapendo più produrre e
conservare alcun valore, la
società delle libertà si limita
a stimolare le preferenze
individuali.
La fede non può quindi che sfidare la postmodernità
sul suo stesso terreno: quello del desiderio. La nuda
fede insiste sull’idea dell’«affidarsi», del mettersi e
rimanere in cammino alla ricerca di una verità che non
si può mai pretendere di possedere, ma dalla quale si
desidera essere posseduti.
In un tempo
potenzialmente di grande
libertà ma che si confronta
direttamente con il nulla,
l’unica via attraverso cui
un «valore» riesce a
raggiungerci è quella della
sua incarnazione nella
concretezza della vita. Oggi
siamo immersi in una crisi
semantica senza
precedenti. Il mondo ha
perso il suo Mistero.
Ogni segno trascendente (ogni squarcio di cielo)
provoca un irresistibile bisogno di essere «spiegato» e
smascherato come un comune processo empirico. La
cultura moderna ha pochi strumenti per esprimere la
dimensione trascendente, al di là di un’indefinita fede
nel «progresso» o di un’alterna euforia per la novità.
L’ideologia (o l’integralismo religioso), da parte sua,
sfrutta la «verità» del Mistero come forza
d’identificazione e contrapposizione.
La questione del senso è oggi il terreno su cui si misurano
anche le crisi ricorrenti del capitalismo postmoderno: «A
che pro l’accumulo di ricchezza? Perché lo sperpero delle
risorse? Che ne sarà del degrado del pianeta?».
3. LA SOSTENIBILITÀ (PRODOTTO
DELLA TERRA)
Le inevitabili
trasformazioni che si
annunciano (risparmio
d’energia, energie pulite,
riduzione delle emissioni di
anidride carbonica,
riciclaggio, ecoconsumo)
non significano in alcun
modo un superamento
della civiltà iperconsumista
identificata con la
mercificazione quasi
assoluta dei modi di vivere.
Nelle nostre società ipercommerciali, anche i meno
abbienti rimangono iperconsumatori nella mentalità e
nell’immaginario. La prospettiva della sostenibilità si
propone di sostituire le distorsioni della società mercantile
(la concorrenza selvaggia, l’accumulazione senza limiti,
l’individualismo egoista).
Alla mentalità predatrice nei rapporti con la natura,
oppone i valori della reciprocità, della convivialità e del
rispetto dell’ambiente. Si tratta anche di ripensare i
concetti tradizionali di ricchezza e povertà, individuando
forme giuste e sagge di ridistribuzione dei beni della
terra, che appartengono a tutti.
Anche i concetti di
scarsità e di
abbondanza vanno
rivisti in una
prospettiva che
consideri non solo il
capitale economico
ma anche quello
naturale, le risorse
materiali ma anche
l’inestimabile bene
dei legami
interpersonali.
4. IL VALORE DEL LAVORO (FRUTTO
DEL LAVORO)
Il lavoro è parte essenziale
della quotidianità. È
necessario e importante
(ce ne accorgiamo quando
scarseggia) ma non è tutto:
non ha un valore assoluto.
Da solo non può dare
senso alla vita e le sue
promesse di salvezza
(progresso, denaro,
benessere...) sono un
pericoloso inganno.
Non possiamo fare a meno del nostro lavoro ma, nello
stesso tempo, ci sentiremmo come intimamente feriti
quando la nostra attività si limitasse a pura prestazione. Il
lavoro è quindi l’esperienza che ci rivela a noi stessi, il
luogo della liberazione o dell’asservimento.
Nel lavoro la vita può apparire anche povera e insignificante:
lavorare per mangiare, mangiare per lavorare... come un
destino che sembra schiacciare. Meglio coltivare altri pensieri,
avere altri ideali, sognare di essere altrove... Nel lavoro gli
individui si possono sentire persone: esprimere le loro
capacità, donare la propria intelligenza.
Possono vivere il lavoro
come vocazione: senza
rifiutarne la dimensione
di necessità, senza
limitarsi al suo valore
economico, possono
trasformare il lavoro in
occasione per amare gli
altri e migliorare il
mondo. La persona
umana non è solo un
fascio di bisogni di
sopravvivenza ai quali la
collettività potrebbe
provvedere, anche senza
il suo contributo.
Ogni persona aspira
non solo a lavorare, ma
a operare a un certo
livello di responsabilità
e di creatività. Senza il
lavoro le persone non
solo non possono
partecipare alla
distribuzione dei beni
della terra ma non
riescono a sviluppare
pienamente la loro
umanità.
Il lavoro è quindi un diritto-dovere fondamentale,
ambito in cui si moltiplicano le relazioni e i contatti
interpersonali perché la sua organizzazione coinvolge
una pluralità di attori (imprenditori e lavoratori,
lavoro della mente e lavoro delle braccia, produttori e
consumatori...).
La persona attraverso il lavoro diventa
quindi responsabile del dono di una
creatività che la inserisce nel mondo
come protagonista. Per questo il lavoro
racchiude sempre anche una domanda di
liberazione: il bisogno di essere orientato
verso qualcosa di più grande che tocca la
vita umana e la sua pienezza, l’attesa di
poter accogliere una motivazione non
sola orientata all’utile e al materiale.
Scarica

Scarica la catechesi - parrocchia maria ss. addolorata