Pedagogia postmoderna e Educazione postcoloniale Francesca Marone La modernità – caratterizzata dalla rigidità dell’organizzazione territoriale, dalla forza statale, dall’immobilità e dalla presenza pervasiva delle istituzioni, dalla certezza delle conoscenze, dall’ordine inteso sia come sicurezza e affidabilità sia come certezza della propria posizione all’interno di una cosmologia predeterminata – sembrerebbe andata perduta per sempre, lasciando spazio ad un tempo in cui la leggerezza, la trasferibilità, l’abbandono, il nomadismo, la transitorietà, la caducità, la provvisorietà, l’inconsistenza, il riciclaggio sia nel senso ecologico sia nel senso cognitivo emergono come cifre distintive. Questa nuova condizione – storica, sociale, culturale, politica, antropologica – è stata descritta,, in termini non unitari, ossia i diversi autori che si definiscono postmoderni, sostenendo in pieno il fallimento di qualsiasi progetto universale o quantomeno coerente, tendono a non aggregarsi per scuole o movimenti, ma a pensare la condizione presente a partire dalla propria voce. Ciò impone al lettore di distinguere i diversi pensieri e posizioni che, pur avendo delle basi teoriche comuni (ad esempio il poststrutturalismo di Foucault o Derrida), divergono spesso non tanto circa le descrizioni dell’attuale condizioni umana, bensì circa gli effetti (o i risultati) di questa. Al fianco di una postmodernità intesa come approdo ad un tempo del gioco e della sperimentazione che consente all’individuo di farsi presente a sé stesso attraverso una libertà disorientante, il sociologo inglese, di origine ebraica, Zygmut Bauman, che si pone fuori dal coro rispetto a quel sentimento di vivacità confusa o di nichilismo attivo dei post-modernisti radicali, individua i disagi (Bauman, 2007) di un tempo frammentato: la solitudine globale (2002), la paura nelle città (2005), le nuove povertà (2004), la fragilità dei legami affettivi (2006), la decadenza degli intellettuali (2007). Nuove e più scottanti forme di esclusione, dunque, si generano a partire sia dai vecchi meccanismi di controllo sociale e marginalizzazione sia dai nuovi assetti dei processi di costruzione dell’identità personale: nella modernità liquida c’è <<forse una maggiore ‘predisposizione critica’ […], ma la nostra critica è, per così dire, ‘spuntata’, incapace di incidere sulle nostre scelte inerenti la ‘politica della vita’. La libertà senza precedenti che la nostra società offre ai suoi membri è corredata […] da una impotenza senza precedenti>> (Bauman, 2002, pag. 12). Tale situazione costituisce, per Bauman, il ritorno della struttura panoptica, ossia <<una nuova forma di controllo sociale che indebolisce ancora una volta il soggetto – nella sua responsabilità – consegnandolo, legato mani e piedi, alle dinamiche sistemiche e di potere, dalle quali egli è incapace di difendersi. Dietro l’ideologia della flessibilità è presente quindi un disegno che fa dell’instabilità il proprio punto di forza e che mira ad addomesticare gli individui>> (Magatti, 2003, pag. 17). La visione baumaniana dell’attuale condizione umana, dunque, si discosta fortemente da quella entusiastica libertà con cui il post-moderno è stato salutato e si pone come elaborazione figlia delle teorie della Scuola di Francoforte, il cui limite è quello di disegnare un soggetto fortemente passivo, incapace di scegliere autonomamente e, dunque, costantemente sottomesso alle mode e alle prospettive individuate dalla massa o dalle grandi aziende produttrici. Partendo da tale condizione, Bauman esplicita l’esigenza di limitare i rischi a cui l’individuo senza più guida è esposto; sicché – individuando la causa del generale disorientamento nella mobilità delle elites sociali che, non rispondendo più a nessuno, sono diventate tendenzialmente irresponsabili, in quanto svincolate da qualunque appartenenza – propone come nuova guida la fiera figura dell’intellettuale. Pedagogia postmoderna Passaggio da una condizione parziale (non si prendono in considerazione tutte le dimensioni) e parcellizzata (le dimensioni sono esaminate nella loro giustapposizione e non nella loro interazione) a una condizione sincretica e globale (tutte le dimensioni sono prese in considerazione e articolate). L’educazione postmoderna Caratteristiche della società postmoderna “Società di conquista” Crisi, rottura, disordine Ricerca dell’eccellenza, della qualità totale, della performance Dilemmi in ambito educativo Educare perché il soggetto affermi la sua libertà oppure perché agisca in conformità al gruppo? Bisogna puntare all’emancipazione sull’individuo o alla sua integrazione sociale? Dobbiamo favorire lo sviluppo di un uomo libero (e individualista) o un uomo sociale? Crisi dell’autorità e sviluppo del pensiero libero Passaggio da uno stato di soggetto-agente (sottomesso al sistema) per diventare un soggetto-attore (interprete attivo di un ruolo sociale, ma non ancora decisore) Per raggiungere la condizione di soggetto-autore (creatore del proprio mondo) Obiettivo dell’educazione oggi “sviluppare l’umanità in ciascun essere umano” Obiettivo complesso al cui raggiungimento concorrono famiglia, scuola e società. Rischio esclusione sociale L’ideologia efficentista, il modello sociale manageriale, l’esigenza di adattabilità, di mobilità, di flessibilità rischia di produrre Esclusione sociale per una parte importante della popolazione Bisogna lottare per il diritto all’inserimento sociale perché ciascuno possa occupare un posto nella società, quali che siano le sue origini, il suo colore, la sua cultura Funzione dell’educazione oggi Formare: soggetti dall’identità “solida”; persone autonome, responsabili, capaci di prendere impegni e rispettarli, inventive, dotate di un’immagine di sé positiva Educare a riconoscere l’Altro e il suo linguaggio Ricerca di forme di libertà, di uguaglianza, di solidarietà, di dignità Investire sull’educazione degli adulti e dell’intera società Società pedagogica Proporre percorsi di riflessione, punti di riferimento indispensabili allo sviluppo umano, strade d’accesso più complesse per l’agire pedagogico al fine di contribuire alla costruzione di una Comunità educante. Il pensiero postmoderno ha contribuito all'affermarsi di paradigmi interpreti dell'alterità e delle emergenze del mondo contemporaneo; in particolare, si è orientato nello smascherare la finzione logica del paradigma dell'eguaglianza il cui soggetto reale storicamente è il soggetto maschile, collocato al centro, con una valenza neutra che l’ha reso per secoli universale e, quindi, capace di includere il sesso femminile e di conformarlo a sé, relegando in una condizione di inferiorità tutto ciò che appare diverso e non corrispondente ai canoni maschilisti. Ciò ha segnato, altresì, un mutamento anche del paradigma educativo tradizionale, i cui modelli esplicativi (logico-razionali, causalistico-lineari) vengono messi in crisi, sconvolgendo l’economia delle opposizioni binarie e mettendo in discussione i dualismi: uomo/macchina, naturale/artificiale; maschile/femminile, eterosessuale/omosessuale/, occidentale/esotico. LA PEDAGOGIA CRITICA FEMMINISTA Ha affrontato un ripensamento di questioni fondanti la soggettività delle donne: questioni e temi che rappresentano snodi cruciali nei percorsi di formazione delle donne (quali la percezione della propria identità e quindi, della propria differenza; l’esperienza del proprio corpo; la maternità; il confronto con le “altre”); e, ha inaugurato una serie di riflessioni inedite, nate dall’analisi del contesto culturale, sociale ed economico della postmodernità (ad es. il rapporto con l’emergenza dei saperi; l’etica, le prassi politico-culturali e l’utilizzo delle nuove tecnologie). Cfr. i lavori di Egle Becchi, Emy Beseghi, Antonella Cagnolati, Carmela Covato, Margarete Durst, Rosella Frasca, Rosa Gallelli, Angela Giallongo, Maria Cristina Leuzzi, Barbara Mapelli, Franca Pinto Minerva, Tiziana Pironi, Anna Maria Piussi, Luisa Santelli Beccegato, Gabriella Seveso, Tina Tomasi, Simonetta Ulivieri, Silvia Leonelli, Ivana Padoan, Francesca Marone, etc…) Crisi dei rapporti sociali e dei modelli educativi (Alain Goussot) La società vive un momento di transizione e di trasformazioni: precariato, insicurezza, individualismo, egoismo, cultura dello spettacolo, consumismo pulsionale (Bernard Stiegler parla di ‘capitalismo pulsionale’ e Zygmunt Bauman di ‘società liquidà’ e ‘homo consumens’) Lacerazione e frattura dei legami sociali Globalizzazione omologante e localismi nonché chiusure di tipo comunitaristiche (geografiche, linguistiche, etniche, religiose e sessuali) (vedi C.Geertz: mondi globali e mondi locali) Sviluppo di forme di intolleranza: xenofobia, razzismo e discriminazioni culturali e sessuali Disuguaglianze e ingiustizie sociali Nuove forme di schiavitù e di dipendenza Crisi dei luoghi tradizionali dell’educazione e dei modelli educativi: famiglie e scuole(corto circuito nell’intreccio tra processi d’inculturazione e di acculturazione) Impatto pedagogico delle nuove tecnologie e dei media: ‘processi di captazione mentale’(vedi B.Stiegler) Le strutture sociali hanno una funzione pedagogica: la mercificazione dei rapporti umani (P. P.Pasolini: omologazione e genocidio culturale, S. Weil: lo sradicamento) Inversione generazionale, modelli adulti di riferimento Con la crisi dello strutturalismo e come filiazione diretta del postmodernismo, alla fine degli anni settanta, in particolare con la pubblicazione del testo di E. Said, dal titolo Orientalism, nasce quella teoria critica che si chiamerà “post-coloniale” e che si distingue per l’analisi dei rapporti tra l’“Occidente” e i mondi “altri” (Said E., 1978). Per Said l’Oriente era un luogo della mente dell’Occidente: una costruzione, un modo di rappresentare a se stessi l’Altro, un discorso con cui gli occidentali hanno dominato l’Oriente, finendo con indicare una pratica di subordinazione che non ha riguardato soltanto l’Oriente. A differenza della teoria postmoderna, che porta alla luce il carattere mitologico delle grandi narrazioni della modernità (Lyotard J.F., 1979), la teoria postcoloniale si concentra sui miti del colonialismo occidentale, sul processo di “violenza epistemologica” che è a fondamento della marginalità coloniale, nella sua accezione spaziale, politica e culturale, in quanto (ri)scrittura occidentale dell’Altro, della Storia, di sé e del proprio ruolo in essa. Una delle protagoniste più autorevoli in questo dibattito è Gayatri Chakravorty Spivak, filosofa statunitense di origini bengalesi. La studiosa, utilizzando la pratica della decostruzione, ha smascherato la pretesa universale dei sistemi patriarcale e coloniale-imperialista e le loro modalità di trasmissione del sapere. E l’ha fatto attraverso un discorso multidisciplinare che tocca la filosofia, la letteratura, la storia e la cultura dominanti perché hanno raccontato l’alterità senza compiere un decentramento di prospettiva; piuttosto hanno omesso le voci subalterne oppure mercificato la marginalità mediante la creazione di associazioni e movimenti, volti a celebrare e sostenere la cultura dei “paesi in via di sviluppo”, da una posizione inevitabilmente dominante con tutte le ipocrisie e le idealizzazioni che ne conseguono (Spivak G. C. 1999). Can the subaltern speak? In un suo fortunato saggio, Can the subaltern speak?, ha definito la figura e la posizione del soggetto subalterno come chi è concausa della propria subordinazione, non per una tendenza masochistica ma per un’erronea rappresentazione di sé e dei rapporti sociali in cui è coinvolto: tale rappresentazione prodotta da altri in posizione di dominio e di vantaggio è stata poi interiorizzata dal soggetto che non ne riconosce l’estraneità. La soluzione individuata da Spivak affinché i/le subalterni/e facciano parte di una comunità è nella loro possibilità di parlare, di autorappresentarsi e far conoscere la propria storia: diventare cioè soggetti attivi non “ventriloquizzati” capaci di essere intercettati (Spivak G. C., 2004). Contro la conformazione e l’esclusione, la studiosa propone un lavoro continuo di critica e di decostruzione della propria posizione d’intellettuale, con l’invito a sostituire al primato della conoscenza dell’altro il primato dell’immaginazione. In tal modo è possibile operare il passaggio da una sorta di cannibalismo epistemico alla possibilità di decentrarsi e farsi altro in una relazione non più segnata dal pregiudizio, ma all’insegna dell’accoglienza dell’alterità e della trasformazione di sé in un movimento sincronico, che anteponga il sentire al sapere. Un sentire che Spivak definisce come “amore morale”, che spinge l’individuo a superare i livelli di teorizzazioni che non hanno ricadute materiali nella pratica di avvicinamento all´Altro/a. Pertanto, un ruolo centrale nel progetto etico di Spivak è rivestito dall’educazione. Non quella tradizionale fatta di pratiche coercitive, come la memorizzazione dei testi o la trasmissione unilaterale dei desideri e degli intenti disciplinari dell´insegnante, e di cui lei rileva mancanze, forzature e mistificazioni. Ma un’educazione capace di affrontare le grandi questioni della mondializzazione e di educare i giovani al futuro, chiamandoli a sentirsi partecipi di un processo di trasformazione, che coinvolge tutti i popoli della terra e che li riguarda in quanto umani (Spivak G. C., 2002, p. 204). Dispositivi formativi d’elezione sono la letteratura e le materie umanistiche. Infatti, il testo letterario ha la forza di imporre nuove letture e creare mondi “altri”, superando categorie ed etichette. Dal canto loro, le materie umanistiche sono il perno da cui ripartire per riconsiderare la Bildung tradizionale che, nel riferirsi a culture originarie radicate nell’ambito della tradizione occidentale (greca e latina), ha escluso la possibilità di una reale integrazione culturale. Pertanto, appaiono indispensabili sia una moltiplicazione dei punti di riferimento culturali sia una supplementazione dei punti di focalizzazione sia una trasformazione della pratica d’insegnamento attraverso la riformulazione dei suoi strumenti. Inoltre, le materie umanistiche implicano la laicità dell’insegnamento, mostrano le discontinuità esistenti tra l´etico e l´epistemologico e tra l´etico e il politico e insegnano a insegnare, facilitando la capacità da parte dell´insegnante di ascoltare e imparare “dal basso”. Si tratta, in sintesi, di un riassetto non coercitivo del desiderio e di delineare una nuova geografia del vivente (Spivak G. C., 2002, p. 199). La postcolonialeducation è attraversata da istanze critiche e antirazziste, si pone in un’ottica sistemica e complessa, in quanto posa il suo sguardo sui processi di globalizzazione in atto, sul ruolo che anche i sistemi educativi possono giocare nel produrre esclusione sociale e discriminazione a diversi livelli (dalla formazione all’accesso alle risorse), e sui dispositivi di dominio (Striano M., 2010). “Freire dice che, senza una pedagogia degli oppressi, gli oppressi diventano a loro volta oppressori. … è necessario un processo continuo di educazione delle coscienze. Non è corretto affermare che la moltitudine sia già consapevole, la moltitudine non lo è mai e ogni nuova generazione deve essere educata di nuovo” (Bashi G., Spivak G. C., 2010, p. 33).