L’Italia è stata per molti secoli “frantumata” in regni, ducati, stati, staterelli; monete, lingue diverse, abitudini e usanze molto varie determinate dalla cultura, dal clima diverso, dalle vicende locali, delle distanze geografiche. Le valli tirolesi hanno ben poco in comune con la valle dei templi di Agrigento, come pure la pianura delle risaie vercellesi con la costiera amalfitana o i laghi alpini con il mare del Gargano. Ma è proprio questo il fascino dell’Italia: le sue “diversità” sono la nostra ricchezza. E non solo per i paesaggi geografici e gli ambienti di vita, ma soprattutto, per la grande varietà di usanze, tradizioni, feste, miti e leggende che sarebbe impossibile conoscere ed approfondire tutte. Tuttavia da qualche parte bisogna pur iniziare: per questo motivo abbiamo pensato di effettuare una piccola raccolta di miti, leggende, tradizioni e usanze italiane. Le sue origini si tingono di mito, il mito di una bella e leggiadra ninfa, di nome Amalfi, che infiammò il cuore di Ercole. Ma quando un giorno la vita della Dea fu stroncata, il figlio di Giove volle seppellirla nel luogo più seducente della terra per eternare fra quei mari e quei monti gli occhi e il sorriso della sua amata. Su quella tomba di smeraldo, lo stesso Ercole edificò una città cui dette il nome della ninfa amata: Amalfi. Amalfi ed Ercole! Bellezza e potenza! Un binomio la cui leggenda marchiò la storia della prima “ Repubblica marinara”. Era una sera buia e nebbiosa, un cavaliere, avvolto in un mantello militare, spingeva la sua mula per una delle vie del paese, verso l’aperta campagna. Faceva freddo e la mula avrebbe desiderato di rifugiarsi nella tiepida stalla del suo paese; invece trottava coraggiosamente, allontanandosi sempre più dalla città, o almeno così sembrava al misterioso cavaliere. Mentre cavalcava, il cavaliere pensava: “starò lontano finché ai miei compaesani sarà passata la bella idea di volermi eleggere vescovo della loro città. Proprio io che sono un soldato.” Tutta la notte viaggiarono di buona lena. Quando l’alba spuntò, Ambrogio sì guardò intorno per capire dove fossero arrivati dopo tanto correre. Si accorse allora con gran spavento che si trovavano ancora nei pressi di Milano; la sua mula aveva girato intorno alla città per tutta la notte. Già la gente usciva dalle case e gli si accalcava intorno. Subito Ambrogio incitò l’animale a cambiare direzione gridando: “ Curr, Betta …! Curr, Betta …! Cioè: - Corri, Betta…! Corri,Betta.” Ma invano. Tutte le campane annunciarono il futuro vescovo alla popolazione. Ambrogio divenne vescovo di Milano; ma al piccolo paese, rimase come nome il grido di Ambrogio: «Corbetta» appunto. Legato a Virgilio, Castel dell’ovo nasconde un segreto piccolo come un uovo. Una leggenda molto conosciuta fin dall’ epoca antica, risalente addirittura al trecento racconta che, il sommo poeta Virgilio sia vissuto a Napoli per molto tempo e abbia operato molti cambiamenti nella città per migliorarla e renderla ancora più bella ed accogliente. Della sua arte magica è rimasta risonanza in tutto il mondo. Fece le cose più strane che ancora oggi hanno riscontro nei muri, nelle grotte e nelle strade. Una delle magie che Virgilio operò a Napoli riguarda Castel dell’ ovo. Il castello spicca tuttora nel mare dell’ attuale via Caracciolo, offrendo uno scorcio di paesaggio suggestivo e affascinante. Questo castello si chiamava Marino perché sorgeva in acqua. Nei suoi sotterranei , il poeta latino pose un uovo di gallina sistemato in una caraffa di vetro piena d’ acqua protetta da una gabbia di ferro. Questa fu appesa ad una pesante trave di quercia sistemata in una cameretta fatta costruire apposta, nella quale penetrava un raggio di luce. Virgilio credeva che da questo uovo sarebbe dipesa la sorte di quel castello. I napoletani da allora, credono che il Castel dell’ovo (che così fu poi chiamato) esisterà fin tanto che quell’uovo nascosto nelle sue fondamenta non verrà distrutto. La leggenda delle streghe di Benevento diffusasi in Europa a partire dal XIII secolo, è una delle ragioni principali della fama della città sannitica. La credenza popolare secondo cui Benevento sarebbe il luogo di raduno delle streghe italiane è piuttosto ricca di risvolti e ne rimane vago il confine tra realtà e immaginazione. La leggenda vuole che le streghe, indistinguibili dalle altre donne di giorno, di notte si ungessero il corpo con un unguento e spiccassero il volo pronunciando una frase magica, a cavallo di una scopa di saggina o in groppa ad un caprone nero, voltandogli le spalle. Contemporaneamente le streghe diventavano incorporee, spiriti simili al vento: infatti le notti preferite per il volo erano quelle di tempesta. Si credeva inoltre che ci fosse un ponte in particolare dal quale le streghe beneventane erano solite lanciarsi in volo, il quale perciò prese il nome di Ponte delle Janare, distrutto durante la seconda guerra mondiale. Dopo le riunioni, le streghe seminavano l’orrore. Si credeva che fossero capaci di causare aborti, di generare deformità nei neonati facendo loro patire atroci sofferenze, che sfiorassero come una folata di vento i dormienti, e fossero la causa del senso di oppressione sul petto che a volte si avverte stando sdraiate. In alcuni paesini campani, tra gli anziani circolano ancora voci secondo cui le streghe di Benevento , di notte, rapiscano i neonati dalle culle per giocare con loro e terminato il gioco li riportino lì dove li avevano presi. Queste streghe, grazie alla loro consistenza incorporea entravano in casa passando sotto la porta, per questo si era soliti lasciare una scopa o del sale sull’uscio: la strega avrebbe dovuto contare tutti i fili della scopa o i grani di sale prima di riuscire ad entrare, ma nel frattempo sarebbe giunto il giorno e quindi sarebbe stata costretta ad andarsene. Nelle credenze popolari, la leggenda delle streghe, sopravvive ancora oggi, arricchendosi sempre di nuovi aneddoti e manifestandosi in atteggiamenti superstiziosi e paure di eventi soprannaturali. Al tempo dei tempi, nel lago di Carezza viveva una bellissima fata delle acque. La fata talvolta si sedeva sulla riva a cantare, ma appena spuntava qualcuno, scompariva nelle onde. Uno stregone che viveva sul vicino monte Latemar se ne innamorò e decise di rapirla per farne la sua sposa. Ricorse allora alle sue arti magiche e a mille stratagemmi per avvicinarla, ma invano. Allora, disperato, consultò una strega. “ Fabbrica un arcobaleno sul lago- gli disse quella,- e vedrai che la fata incuriosita uscirà dalle acque perché non lo ha mai visto. Tu, travestito da mercante, offrile ricchi gioielli e vedrai che riuscirai ad acchiapparla”. Il giorno dopo un magnifico arcobaleno smagliante di sette colori, univa la montagna al lago scintillante. Subito la fata uscì per ammirarlo. Allora lo stregone, dimenticando di travestirsi, corse verso la fata per afferrarla, ma svelta lei si immerse nella profondità del lago. Furente il mago afferrò l’arcobaleno e lo frantumò. I pezzi caddero nel lago e lasciarono alle acque dei colori meravigliosi. Da allora il lago oltre ai colori fantastici, diversi da tutti gli altri, ha anche un’altra particolarità: ogni fanciulla che vi si specchia vede riflesso sulla sua testa l’arcobaleno qualunque siano le condizioni atmosferiche della giornata. Tanti anni fa in un villaggio viveva una vedova con una sola figlia che non aveva mai abbastanza da mangiare. Un giorno, mentre cercava radici nel bosco, cominciò a piovere e lei andò a ripararsi nel cavo di un albero altissimo che con i suoi rami sembrava sfiorare il cielo. Nel suo tronco, però, abitava un diavolo con unghie e zanne che non volle più lasciarla andare; la ragazza gli piaceva, era dolce, grassoccia e buona da mangiare. Così il diavolo ne fece un solo boccone e risputò fuori le ossa bella pulite. La sera, la mamma aspettò invano il ritorno della figlia che non ritornò mai a casa. Così la povera vedova andò a cercarla nel bosco con un lume ma non la trovava; finché vide sotto quel gigantesco albero le ossa di sua figlia che piangevano e la chiamavano. La vedova le raccolse, le chiuse in una cesta, e si mise in cammino perché sapeva che da qualche parte c’era un paese dove aggiustavano gli uomini e lei voleva trovarlo. Cammina, cammina arrivò nel paese dove aggiustano gli uomini; subito la gente le andò vicino e le chiese “ Perché sei venuta qui!” “ Il diavolo ha mangiato mia figlia, in questa cesta ci sono le sue ossa.” “ Non dire altro, lasciale a noi e intanto porta a pascolo le nostre bestie. Bada però che non mangino erba, ma solo frutta che cresce su quegli alberi.” La donna si arrampicò sui rami più alti per cogliere i frutti migliore e li diede agli animali; lei invece si accontentò di quelli acerbi. Così quando tornarono in città il bue più grosso, muggì :” Che la figlia sia ben aggiustata, perché la madre è buona e fidata.” infatti la figlia fu aggiustata come si deve tanto che appariva molto più bella di prima. Quando le due se ne tornarono a casa, la loro vicina, che aveva la figlia brutta e storta decise che doveva provarci anche lei. Allora, schiacciò la figlia nel mortaio e la pestò finché non rimasero che le ossa. Poi le mise in una cesta e fece lo stesso percorso della sua vicina, ma quando portò le bestie al pascolo lei li nutrì con frutta acerba tenendo per se quella matura. Poi, quando fu sazia riportò in città gli animali ma il grosso bue muggì: “ Che la figlia sia mal aggiustata perché ha per madre una gran sciagurata.” E infatti, le restituirono la figlia ancora più brutta e storta di prima. Per la vergogna la madre si chiuse in casa per molto tempo. Anche Camerota come tutte le città della Magna Grecia è legata ad una leggenda, quella di Palinuro e kamaraton: lui era il nocchiero della nave di Enea, lei la più bella fanciulla a bordo. Palinuro si invaghì della ragazza, bella come una dea ma dal cuore duro come una pietra, la quale non corrispose il suo amore. Per molto tempo, Palinuro cercò di farle cambiare idea, ma la ragazza non volle saperne. Allora Venere, dea dell’ amore e della bellezza, adirata, trasformò kamaraton in desolata roccia. Partenope era una fanciulla di incomparabile bellezza, che viveva in Grecia in una città che si affacciava sul Mar Ionio. Si racconta che Partenope amasse il giovane Cimone, ma il padre di lei era contrario a queste nozze, perché la ragazza era già stata promessa ad Eumeo. Un giorno i due giovani presero la decisione di scappare in una nuova terra per coronare il loro sogno d’amore. La fertile terra dove Cimone e Partenope approdarono era la futura Neapolis. Dopo i due giovani, approdarono su questa terra centinaia di persone provenienti da ogni angolo del Mediterraneo, attirati dalla straordinaria fecondità di questa regione, che prese poi il nome di Campania Felix. In breve tempo furono costruite case, botteghe, templi per le divinità e infine le mura per difendere la città dagli attacchi nemici. Trascorsero molti anni e nel frattempo Partenope era diventata madre di dodici figli, conquistando l’amore e il rispetto di tutti gli abitanti di Neapolis, i quali obbedivano a tutto quanto lei stabilisse per legge.