Sistemi Economici Comparati
Anno accademico 2014-2015
Prof.sa Renata Targetti Lenti
Lo sviluppo comparato di Cina ed India.
Il caso dell’India
Lezione 9 13/11/2014
Letture
-Balcet G., Valli V., Nuovi protagonisti dell’economia globale:
un’introduzione, in Balcet G., Valli V., “Potenze economiche
emergenti”, Il Mulino, 2012, pp. 9-48.
-Beretta S., Targetti Lenti R., India e Cina nel processo di
integrazione internazionale, in: Calchi Novati G. ( a cura di)
“L’Alternativa Sud-Sud, chi vince e chi perde”, Asia Major 2011,
Carocci, pp. 31-64.
L’India è un’economia mista, con una forte presenza
pubblica nel settore industriale ed in quello creditizio.
Grandi conglomerati privati, in genere a controllo
familiare, coesistono con un elevato numero di microimprese operanti nel settore informale dell’economia.
Ancora oggi il governo, sia federale che statale, svolge
un ruolo significativo tanto di regolazione quanto di
gestione diretta delle numerose imprese pubbliche.
Il periodo tra il 1947 ed il 1980 è stato definito come
quello della “creazione del modello indiano di
sviluppo”. Risale a Nehru la decisione di promuovere
un modello di pianificazione centralizzata basato sull’
intervento dello Stato.
Lo Stato è andato progressivamente assumendo un ruolo
preponderante, quando non esclusivo, in settori rilevanti
dell’economia indiana (si parla a questo proposito di
Commanding Height).
Il riferimento teorico per la stesura del piano era stato
un gruppo di economisti di orientamento comunista
guidato da Mhalanobis.
Gli orientamenti di policy riflettevano, invece, in larga
misura i principi gandhiani.
La morigeratezza nei comportamenti di consumo
trovava giustificazione nella ricerca di un migliore
equilibrio tra uomo e natura ed era pertanto considerata
molto importante ai fini del benessere complessivo di
ciascuno.
In India il sistema democratico, per di più
strutturalmente decentrato, ha rappresentato un freno al
processo di accumulazione.
Le divisioni in caste ed il profondo dualismo tra settore
formale e informale hanno ostacolato la pur rapida
trasformazione dell’economia.
Tasso di risparmio e tasso di investimento risultano
sistematicamente inferiori a quelli cinesi. In India la
carenza di infrastrutture adeguate continua
a
rappresentare un ostacolo per lo sviluppo indiano.
Il controllo pubblico del sistema bancario e finanziario
ha determinato un’offerta di credito insufficiente e
distorsioni nella sua composizione.
Il settore manifatturiero occupa un peso tuttora modesto
(pari al 14,4% del PIL nel 2011 contro il 29,6% della
Cina) mentre più consistente, e in qualche misura
anomalo per un paese emergente, è il peso del settore
terziario.
Gli investimenti esteri in India sono stati considerati per
molti anni un potenziale ostacolo allo sviluppo del
sistema economico.
Nei decenni che seguirono l’indipendenza lo Stato
nazionalizzò alcuni settori-chiave dell’economia,
sostenendone altri con ingenti investimenti, e
sottoponendo il settore privato a un articolato sistema di
regole e di controlli.
Erano state introdotte severe (e crescenti) misure di
restrizione commerciale al fine di proteggere le
industrie locali, caratterizzate da bassa produttività.
Il Licence Raj, sommandosi a quello dei dazi doganali,
aveva determinato gravi distorsioni nel sistema
produttivo favorendo le produzioni destinate a sostituire
le importazioni piuttosto che a incentivare le
esportazioni al fine di raggiungere l’autosufficienza.
La pianificazione centralizzata, analogamente a quanto
accaduto in Cina, aveva annullato ogni sorta di
incentivo, riducendo di conseguenza la produttività e la
competitività del sistema.
I prezzi interni erano molto più elevati di quelli
internazionali, mentre il sistema delle licenze aveva dato
luogo al formarsi di posizioni di rendita.
Tali politiche ebbero come effetto tassi di crescita
dell’economia di modesta entità.
Si è così consolidato il potere oligopolistico delle
imprese statali e dei grandi conglomerati privati.
Il periodo compreso tra l’inizio degli anni ’80 ed il 1990
è stato caratterizzato da un più accentuato
decentramento dei processi decisionali e dalla
promozione delle privatizzazioni e delle esportazioni.
Grazie al deprezzamento del tasso di cambio reale e alla
riduzione delle tariffe, le esportazioni di prodotti sia
manifatturieri sia agricoli sono aumentate in misura
significativa consentendo di importare beni capitali e
tecnologie più avanzate.
Il regime delle licenze è stato reso più flessibile sebbene
in modo selettivo (l’Hindu rate of reform) .
Gli investimenti sono stati progressivamente diretti al
settore privato.
I consumi interni sono cresciuti.
I miglioramenti organizzativi introdotti nel settore
industriale e il mutato atteggiamento del governo nei
confronti dell’ imprenditoria privata hanno consentito
un incremento della produttività.
La scomposizione del tasso di sviluppo del reddito ha
messo in luce come la modesta crescita precedente agli
anni ‘80 fosse attribuibile all’aumento nella dotazione
dei fattori, mentre quella successiva è da attribuirsi
prevalentemente all’ aumento della loro produttività e
cioè al migliorato utilizzo dei fattori nei diversi settori
produttivi.
Nel corso degli anni ‘80 la crescita indiana (Hindu rate of
growth) ha registrato, per la prima volta, un’accelerazione.
E’ stata in larga misura determinata da politiche di bilancio
espansive che, unitamente all’aumento dei sussidi, avevano
contribuito ad accrescere il disavanzo del settore pubblico.
Il fabbisogno di quest’ultimo era stato in parte finanziato
“monetizzandolo”, e cioè collocando titoli del debito pubblico
presso la Banca Centrale.
L’accumulo dei disavanzi si era tradotto in un aumento del debito
pubblico con conseguenze significative in termini di elevati tassi
di inflazione, necessità di ricorrere al credito estero per il
finanziamento degli investimenti, aumento del debito estero.
Nonostante gli interventi del FMI, della Banca Mondiale e del
Giappone, l’economia indiana manifestava, all’inizio degli anni
’90, preoccupanti segnali di crisi.
Le restrizioni commerciali (tariffarie e non) introdotte non si
erano rivelate sufficienti a ridurre il disavanzo di parte corrente.
Si erano, di conseguenza, progressivamente ridotte le riserve
valutarie ed era aumentato il debito estero.
La crescente inflazione interna aveva inoltre ridotto la
competitività delle esportazioni indiane.
Per far fronte alla crisi nei pagamenti internazionali dell’inizio
degli anni ’90 l’India concordò con il FMI un nuovo prestito di
1,5 miliardi di dollari, nonché l’adozione di riforme strutturali.
Solamente dopo il 1991 vennero create condizioni più favorevoli
allo sviluppo anche se, nello stesso tempo, si aggravarono alcuni
squilibri fondamentali e crebbero le diseguaglianze economiche e
sociali.
Fu Narasimha Rao, divenuto il nono primo ministro
indiano, dopo l'assassinio di Rajiv Gandhi, ad avviare,
con il supporto del ministro delle Finanze Manmohan
Singh, un intenso processo di riforme economiche in
senso capitalistico.
Sono state caratterizzate da una combinazione di
politiche di stabilizzazione e di aggiustamenti strutturali
non solo nei grandi settori ma anche i diversi comparti
del settore manifatturiero e dei servizi.
La priorità fu assegnata al riequilibrio del bilancio
pubblico ed alle politiche di stabilizzazione.
Le riforme economiche varate nel 1991 e i positivi
effetti dell’ accresciuta integrazione del paese nel
sistema internazionale hanno favorito la valorizzazione
delle sue potenzialità, così da determinare, in due
decenni, un aumento del PIL di quasi quattro volte.
Gli investimenti diretti esteri aumentarano.
Le misure adottate dalla Reserve Bank of India a partire
dal 1994 hanno inoltre consentito di ridurre l’inflazione
al di sotto del 5% nel 1996 grazie all’aumento dei tassi
di interesse reali.
Il processo di liberalizzazione noto come “Delhi
Consensus”, per sottolinearne la peculiarità rispetto al
noto “Washington Consensus” è stato caratterizzato da
un mix di politiche di stabilizzazione e di interventi
strutturali di stampo liberista.
La Commissione per il piano venne ridotta a un ruolo
consultivo, mentre il processo di liberalizzazione
riguardò gli investimenti, il tasso di cambio, il regime
commerciale, il settore finanziario e quello fiscale.
Durante la fase iniziale del programma di riforme la
priorità fu assegnata all’abolizione del License Raj, il
complicato e minuzioso sistema di licenze e di
adempimenti richiesti fin dai tempi dell’indipendenza
per iniziare e condurre un’attività economica nella
maggior parte dei settori produttivi.
Venne dimezzata la quota di produzione manifatturiera
sottoposta a restrizioni non tariffarie.
Le restrizioni non tariffarie sull’importazione di beni di
consumo finali rimasero ancora elevate. Solamente nel
1997 ebbe inizio il processo di smantellamento anche
delle licenze che riguardavano le piccole e medie
imprese.
Fu assegnata la priorità al riequilibrio dei conti pubblici e alle
politiche di stabilizzazione.
Si è aperta a questo punto la “terza fase” del processo di sviluppo.
Il tasso di crescita del PIL è aumentato progressivamente
attestandosi attorno al 6,2% in media all’anno nel periodo 19912001, per passare successivamente all’ 8% nel periodo 2001-2012
raggiungendo valori pari a circa il 10% nel 2010. Si è tuttavia
ridotto al 6% nel 2012.
La crescita è stata particolarmente significativa nei settori
industriale e dei servizi nonché nella domanda di beni di
consumo. Nello stesso tempo è prima cresciuta, ma
successivamente al 2010 ridotta, l’accumulazione di capitale
(figura 1).
Figura 1
Il sistema manifatturiero che è andato delineandosi nei primi
decenni successivi all’indipendenza, e che tuttora permane, è
stato caratterizzato da industrie a elevato contenuto di lavoro
qualificato e a elevata intensità di capitale.
E’ sempre stata, invece, inferiore alla media dei PVS la presenza
di industrie a elevato contenuto di lavoro non qualificato.
Tali caratteristiche, che costituiscono una prima anomalia, non
hanno subìto sostanziali modificazioni a seguito delle riforme
degli anni ’80 e ’90.
Contrariamente al modello cinese, basato sulla mano d’opera a
basso costo, quello indiano ha privilegiato specifiche nicchie
tecnologiche.
Il ricorso alla subfornitura per imprese estere ha inoltre
compensato, in molti casi, la scarsa domanda da parte del mercato
interno.
Un’altra caratteristica significativa del sistema industriale
indiano, eredità della pianificazione, e seconda anomalia, è
costituita dal peso relativamente equilibrato dei diversi settori.
La produzione dei prodotti di base e intermedi coesisteva con
quella dei beni di consumo.
Tra questi ultimi il tessile, specialmente cotoniero, è tra i più
antichi e importanti. L’industria cinematografica è tra le prime al
mondo per numero di film prodotti.
Negli ultimi anni si è considerevolmente sviluppata anche
l’industria a elevata intensità tecnologica (aeronautica,
elettromeccanica), oltre naturalmente al settore dell’informatica,
particolarmente attivo nella produzione di software.
Nel corso degli anni ’90 si è verificata una riorganizzazione dei
conglomerati ed una loro maggior specializzazione su alcune
specifiche aree produttive.
Il modello conglomerale ha favorito la competitività interna e
internazionale, grazie ai processi di circolazione di risorse
finanziarie, personale, conoscenze e tecnologie all’interno del
gruppo.
Si è verificato uno spostamento verso livelli tecnologici più
avanzati, anche se esso è avvenuto più nel terziario che
nell’industria.
Questo settore è stato, ed ancora è, polarizzato tra i grandi
conglomerati e le micro-imprese dell’economia informale, con
relativamente scarsa presenza delle imprese di medie dimensioni.
Una terza anomalia del sistema industriale indiano è
costituita dal modesto turnover delle imprese,
determinato dall’abbondanza di finanziamenti a
disposizione anche delle imprese poco efficienti
originata a sua volta da una politica del credito molto
“conservatrice”.
Una politica creditizia poco aggressiva ha frenato la
crescita dimensionale delle imprese, con conseguenze
negative in termini di efficienza.
La prevalenza delle piccole imprese si conferma
tuttavia, ancora oggi, come un fattore di freno alla
modernizzazione ed alla crescita del settore
manifatturiero e come un’anomalia del sistema
industriale indiano.
Le politiche attuate nei decenni che hanno preceduto il processo riformatore,
nonché le liberalizzazioni successive, spiegano, in larga misura, le
caratteristiche e le specificità del sistema economico indiano.
Le politiche industriali attuate nel tempo sono all’origine di un sistema
produttivo marcatamente dualistico dal punto di vista delle tecniche impiegate
e tra imprese private e pubbliche, imprese di grande o di piccola dimensione,
imprese industriali o agricole.
Le produzioni di beni di base, intermedi e di consumo (fra questi ultimi il
tessile, specie cotoniero, è tra i più antichi e importanti) coesistono, e si sono
sviluppate a ritmi comparabili.
Nel settore pubblico le imprese erano e sono tuttora prevalentemente di grandi
dimensioni e utilizzano tecnologie a elevata intensità di capitale.
Il processo di privatizzazione ha trovato corrispondenza nello sviluppo di
alcune grandi imprese a proprietà familiare. La piccola e media industria,
tuttavia, mantiene un ruolo di rilievo.
Una quarta anomalia, infine, è rappresentata dal peso
del settore dei servizi.
Questo non solo presenta un peso superiore a quello
prevalente nella media dei paesi emergenti, ma è stato il
principale motore della crescita.
Numerosi sono i fattori determinanti di queste e di altre
anomalie.
Essi sono riconducibili non solo al regime delle licenze
adottato nel primo periodo della pianificazione, ma
anche alle rigidità del mercato del lavoro, nonché alla
carenza di infrastrutture non solo fisiche ma anche
sociali.
Alcuni comparti, come quelli produttori di
software, sono oggi assai dinamici e competitivi.
Il settore dell’Information and Communication
Technology è stato quello più dinamico,
nell’ultimo decennio. In precedenza cadeva sotto
il regime delle licenze e dei controlli,
analogamente al settore manifatturiero.
Altri comparti del terziario, invece, come quello
bancario, sono caratterizzati da bassi livelli di
efficienza.
La loro evoluzione è il risultato non solo delle riforme
strutturali del passato, ma anche di politiche settoriali.
Il sistema bancario ha avuto e conserva un ruolo
strategico per l’economia indiana, della quale
costituisce il principale canale di finanziamento.
Il credito erogato dal sistema delle banche commerciali
è pari a circa la metà del Pil indiano. Sebbene questo
valore sia ben lontano dal 90 per cento della Cina, è
comunque nettamente superiore al contributo offerto da
altri segmenti del mercato finanziario.
La trasformazione del sistema bancario ha
seguito un percorso parallelo a quella del sistema
industriale.
Inizialmente privato, il settore ha subito un
processo di nazionalizzazione a partire dal 1969.
Elevato dirigismo, obblighi di finanziamento di
settori considerati prioritari e vincoli di riserva e
di liquidità particolarmente onerosi avevano
compromesso l’indipendenza operativa e la
competitività delle banche.
Solamente a partire dal 1992, è iniziato un percorso inverso
finalizzato a liberalizzare il sistema, a favorirne la
riorganizzazione, concorrenzialità e autonomia.
È stata prevista la possibilità di istituire banche private, riducendo
la quota pubblica nelle banche di Stato, e sono state gradualmente
introdotte regolamentazioni prudenziali in linea con gli standard
internazionali.
L’efficienza degli istituti bancari resta inferiore a quella di altri
paesi emergenti. Il peso dello Stato nella proprietà delle banche
rimane significativo, il livello di consolidamento molto basso,
obblighi di erogazione e di riserva che vincolano l’autonomia
delle banche.
Sono esclusi dall’accesso al credito i segmenti più deboli della
popolazione (under-lending).
Il processo riformatore degli anni ‘90 (dopo alcuni tentativi che
risalgono alla metà del decennio precedente) hanno consentito
all’India, forse per la prima volta dall’ indipendenza, di esercitare
un ruolo di protagonista nel contesto internazionale.
E’ andata in tal modo affermandosi una imprenditorialità diffusa
la quale per altro, al momento, costituisce solo una premessa di
sviluppo equilibrato nel medio periodo.
Le riforme economiche varate nel 1991 hanno favorito la
valorizzazione delle sue potenzialità, così da determinare un
aumento del PIL di quasi quattro volte.
Non sono state tuttavia in grado di ridurre in misura adeguata il
fenomeno della povertà, che in molte zone rimane ancora molto
elevato.
L’India ha gradualmente aumentato il proprio capitale umano e il
livello delle conoscenze, migliorando l’istruzione di base.
Tuttavia, il livello di istruzione rimane mediamente più basso di
quello cinese è fortemente polarizzato con ancora molti analfabeti
o giovani con bassa istruzione, ma con un consistente e crescente
numero di giovani laureati e tecnici.
Una politica a favore dell’istruzione superiore ha favorito la
nascita di imprese a elevata intensità tecnologica e di lavoro
qualificato.
L’assetto di un sistema universitario, profondamente segnato
dall’influenza britannica, ha dato luogo a risultati ambigui.
Il paese conta circa 200 atenei: i più antichi sono quelli di
Kolkata, Mumbai e Chennai, sorti nel 1857. Ogni anno
conseguono la laurea 400mila ingegneri.
Ha, innanzitutto, favorito la produzione di beni immateriali
informatici, biotecnologici e di servizi a elevato contenuto di
innovazione. Tuttavia, ha finito anche, con l’alimentare
un’emigrazione di lavoratori qualificati verso paesi anglofoni
(Usa, Regno Unito).
Dopo avere ottenuto l’indipendenza, l’India cercò di sviluppare
un sistema scolastico unitario e integrato.
Anche se dall’indipendenza il numero delle scuole e degli scolari
è notevolmente aumentato, circa il 30 per cento dei bambini di età
compresa tra i sei e i dieci anni non frequenta la scuola pubblica.
Numerosi fattori spiegano l’elevato tasso di abbandono
scolastico. Esiste, innanzitutto, una sorta di diffidenza da parte
delle famiglie povere, soprattutto nelle zone rurali, verso la
scuola pubblica. Il lavoro minorile è un fenomeno associato alla
povertà.
Negli anni ‘80 gli imprenditori indiani avevano
imparato ad adattarsi alle prime pur modeste
liberalizzazioni.
Oggi sono gli imprenditori indiani ad acquisire
quote di imprese straniere. Ne è un esempio la
scalata da parte dell’indiana Mittal della
lussemburghese Arcelor.
Nonostante i progressi realizzati dal sistema
educativo, cominciano tuttavia a emergere
strozzature connesse alla qualità dei laureati.
In talune produzioni l’India è considerata già oggi un’alternativa
significativa alla Cina, anche in ragione dei livelli retributivi più
contenuti del lavoro non qualificato, sebbene in tutto o in parte
compensati, a seconda dei settori, da una più bassa produttività
del lavoro.
Il confronto deve tuttavia essere effettuato tenendo conto anche di
fattori ulteriori, che possono condizionare l’attrattività del paese,
in positivo o in negativo. Fattori sicuramente positivi sono la
disponibilità di lavoro qualificato, utilizzabile in modo
complementare a quello non qualificato, e l’esistenza di un
terziario avanzato che potrebbe fornire importanti servizi alle
imprese europee (e in particolare italiane).
I prodotti industriali e informatici indiani hanno ormai raggiunto
standard qualitativi del tutto comparabili a quelli occidentali, con
un elevato contenuto di valore aggiunto, di innovazione e di
design.
Figura 20, Ed in alcune nicchie dei servizi è
leader mondiale
Principali esportatori ed importatori di
computer services - 2009
Exporters
value
share
European Union (27)
92100 60.0
Extra-EU (27) exports
34617 22.6
India
33383 21.8
United States
8575
5.6
Israel
7671
5.0
Canada
3658
2.4
Norway
2622
1.7
Philippines
1748
1.1
Malaysia
1454
0.9
Russian Federation
1212
0.8
Argentina
1055
0.7
Above 10 153480 100.0
Source: WTO 2011
Importers
European Union (27)
Extra-EU (27) imports
United States
Brazil
India
Norway
Canada
Russian Federation
Malaysia
Australia
Hong Kong, China
Above 10
value share
46600 62.8
15637 21.1
16263 21.9
2709
3.6
1617
2.2
1564
2.1
1526
2.1
1212
1.6
1206
1.6
1041
1.4
482
0.6
74220 100.0
Figura 21,Ed in alcune nicchie dei servizi è
leader mondiale
Principali esportatori ed importatori di
communication services - 2009
Exporters
European Union (27)
Extra-EU (27) exports
United States
Kuwait a
Canada
India
Russian Federation
Switzerland
China
Singapore
Indonesia
Above 10
Source: WTO 2011
value share
45167 63.0
17648 24.6
9548 13.3
6905
9.6
2605
3.6
1484
2.1
1337
1.9
1331
1.9
1198
1.7
1053
1.5
1031
1.4
71660 100.0
Importers
European Union (27)
Extra-EU (27) imports
United States
Canada
Russian Federation
Saudi Arabia, Kingdom of
Singapore
India
Korea, Republic of
China
Hong Kong, China
Above 10
value share
45540 70.0
17916 27.6
7503 11.5
1968
3.0
1898
2.9
1857
2.9
1376
2.1
1280
2.0
1227
1.9
1210
1.9
1152
1.8
65010 100.0
La crescita dell’interscambio dell’India con il resto del mondo
(unitamente a quello della Cina) costituisce uno dei fenomeni più
significativi dell’ultimo decennio.
Il sistema economico indiano ha registrato un crescente grado di
apertura nei confronti dell’estero, pur non potendosi ancora
considerare un sistema particolarmente “aperto”.
Il suo “grado di apertura”, misurato dall’interscambio di beni e
servizi, è passato infatti dal 20,4% nel 2000 al 29,9% nel 2005 e
al 38,6% nel 2008, a segnalare una progressiva integrazione nel
mercato internazionale.
Il tasso annuo di crescita delle importazioni ha sempre superato
quello delle esportazioni.
L’incremento dell’interscambio è stato inoltre favorito dalla
creazione delle “Zone Economiche Speciali” (Special Economic
Zones) particolarmente vantaggiose sotto i profili fiscale,
doganale e, in generale, regolativo e procedurale.
Figura 12
Figura 13
Figura 14
La bilancia commerciale indiana ha sempre presentato un deficit
strutturale, che si è aggravato nella seconda metà degli anni 2000,
attestandosi al 4,2% nel 2012.
Questa caratteristica differenzia profondamente il modello di
crescita indiano da quello cinese. Un’altra significativa specificità
indiana, che la differenzia da quella cinese, è data dalla forte
competitività internazionale nel settore dei servizi, inclusi quelli
più avanzati e a maggiore contenuto di conoscenza, come il
software.
Nell’industria manifatturiera, il modello di specializzazione
indiano è restato relativamente stabile, attraverso le diverse fasi
del processo di liberalizzazione, ed è ancora caratterizzato dal
forte peso di produzioni intensive in lavoro. Spiccano i prodotti
alimentari e tessili, accanto ai tradizionali prodotti della
gioielleria (perle e pietre preziose).
Tra i settori a forte intensità di economie di scala, emerge per
capacità di esportazione l’industria chimica oltre a quelle
farmaceutica, dell’acciaio e dei mezzi di trasporto.
I dati sugli Ide, sia in termini di stock che in termini di flusso,
mostrano una forte dinamica sia pure di molto inferiore a quella
relativa alla Cina.
Questo è vero anche per gli Ide in uscita, a causa della capacità di
un numero crescente di imprese indiane di espandersi all’estero
attraverso operazioni multinazionali.
Le dinamiche degli Ide in entrata riflettono più ampie operazioni
di trasferimento di tecnologia, veicolate anche da alleanze e joint
venture e sono strettamente connesse ai flussi di Ide in uscita.
E’ stata progressivamente elevata la quota di partecipazione
consentita alle imprese straniere, provvedimento che ha dato
immediato impulso a importanti operazioni nel settore
automobilistico, delle telecomunicazioni e dei servizi informatici
con la costituzione di joint venture con importanti partner
stranieri (Honda, Toyota, Michelin).
Per valutare l’effettivo grado di competitività del sistema indiano
rispetto a quello cinese sia nell’attrarre investimenti esteri, sia nel
definire il proprio ruolo nella divisione internazionale del lavoro
occorre fare riferimento a una “batteria” standard di “indicatori di
affidabilità”.
La Cina risulta avvantaggiata quanto a tempo (in termini di
giorni) richiesto per fare rispettare un contratto, per registrare una
proprietà, per avviare un’attività e al tempo (in termini di anni)
richiesto per comporre un’insolvenza.
L’India risulta, invece, preferibile quanto a tempo (in termini di
ore) necessario per adempiere agli obblighi fiscali, il che parrebbe
segnalare una maggiore efficienza dell’apparato burocratico.
Offre inoltre condizioni migliori dal punto di vista della qualità
dell’imprenditoria locale, di alcuni indicatori di qualità delle
istituzioni (diritto di espressione, efficacia della legge, controllo
della corruzione), della protezione della proprietà intellettuale.
E’ caratterizzata da una situazione demografica più
favorevole in termini di popolazione giovane (oltre il
40% degli indiani ha meno di 30 anni) sia in valore
assoluto (450 milioni contro 400) sia, a maggior
ragione, in termini relativi.
Il peso relativo della popolazione anziana previsto in
India per il 2050 è altresì inferiore a quello cinese.
Questa caratteristica della struttura demografica
potrebbe rallentare la crescita della produttività
complessiva, nonché incidere sull’impiego del
risparmio: una quota crescente di esso dovrebbe infatti
essere destinata al finanziamento dello stato sociale, con
conseguente contrazione degli investimenti e del tasso
di accumulazione.
L’India è oggi il secondo paese più popoloso dopo la Cina, con 1
miliardo e 25 milioni di abitanti. L’elevato tasso di crescita della
popolazione verificatesi negli ultimi decenni corrisponde ad una
regolarità ben nota ai demografi.
Ma se il tasso di crescita della popolazione indiana può essere
considerato “normale” per un paese ancora in via di sviluppo,
valori assoluti e distribuzione territoriale non lo sono. Il 71%
circa degli abitanti vive infatti ancora in zone rurali.
Le città molto popolose sono, per ora, relativamente poco
numerose.
Sono numerosi i fattori negativi che rendono l’India
meno competitiva. Primi fra tutti le carenze
infrastrutturali materiali e istituzionali (strade,
irrigazione, istituti e cooperative di credito) a supporto
delle attività industriali.
In alcune regioni, segnatamente quelle del Sud, queste
carenze rappresentano un vero e proprio ostacolo alle
comunicazioni infraregionali e interregionali.
Tra le carenze istituzionali occorre segnalare il cattivo
funzionamento del mercato del lavoro: questo è
segmentato, piuttosto rigido, caratterizzato da una
legislazione accentuatamente vincolistica, da scarsa
mobilità e da un rilevante peso delle “attività informali”.
Il modello di specializzazione produttiva in industrie a elevata
intensità di lavoro qualificato potrebbe, nel futuro immediato,
presentare elementi di debolezza dal punto di vista della
sostenibilità in relazione agli aumenti di costo del lavoro
qualificato.
Questi effetti si sono già manifestati sotto forma di incrementi dei
livelli retributivi, e quindi di un aumento della diseguaglianza
salariale, con particolare riferimento ai differenziali tra le
retribuzioni dei lavoratori con istruzione superiore e quelle dei
lavoratori con istruzione secondaria. Cambiamenti nelle politiche
dell’istruzione, che si sono tradotti in un maggiore impegno nella
formazione primaria e secondaria a svantaggio di quella
superiore, si sono “combinati” con un aumento della domanda di
lavoro qualificato, e quindi dello skill premium.
La sostenibilità di questo modello di specializzazione, fino a oggi
vincente, potrebbe tuttavia essere messa in discussione proprio
nel comparto del software a opera di altri paesi dell’Asia del Sud
come il Pakistan.
Si prevede, tuttavia, che le migliori aziende indiane del settore
informatico siano pronte a decentrare parte delle proprie
operazioni in altri paesi dove il costo del lavoro è inferiore. In tal
caso sarebbe l’India stessa a dare vita a una nuova forma di
outsourcing.
Già nel 2003 la quota di servizi che l’India aveva trasferito
all’estero, e successivamente importato, era pari al 2,5 % del PIL,
significativamente più elevata dello 0,4% degli Stati Uniti.
Nel 2003 l’India era il quarto paese (dopo Regno Unito, Stati
Uniti e Hong Kong) a presentare un surplus netto nel commercio
di servizi.
In India gli effetti negativi della maturità dei settori industriali e
della popolazione si manifesteranno più tardi che in Cina.
Se ancora oggi il ritmo di crescita della Cina è più elevato di
quello dell’India, nei prossimi decenni la situazione potrebbe
invertirsi, poiché la popolazione indiana è più giovane e la
situazione politica e ambientale è più equilibrata.
Le infrastrutture sono in India assai più arretrate che in Cina.
L’inefficienza della pubblica amministrazione e le spinte
centrifughe al suo interno rappresentano altri punti di debolezza.
L’India deve contrastare alcuni stringenti vincoli alla propria
crescita: ridurre il peso della divisione in caste e del dualismo tra
settore formale ed informale dell’economia, ridurre
progressivamente, con adeguate politiche, le aree di povertà e di
deprivazione esistenti nelle zone rurali e nelle periferie delle
grandi aree metropolitane.
Le prospettive del’ economia indiana sono peggiorate negli ultimi
due anni. Nel priodo 2010-2012 sono diminuiti sia il Pil che gli
investimenti. Questa diminuzione è intervenuta dopo il 2010, e
non immediatamente dopo la crisi finanziaria globale, ha radici di
natura strutturale come le strozzture nell’offerta accompagnate da
un elevata inflazione. Particolarmente rilevanti sono state le
strozzature nel settore minerario ed enrgetico. Esse si sono
riflesse sul settore manifatturiero. Queste strozzature si
traducaono in una crescita delle importazioni (carbone ad
esempio).
Si sono ridotti i flussi di investimenti a causa delle crescenti
difficoltà di ottenere permessi ad inquinare ed incremento della
tassazione
Si è verificata una riduzione degli investimenti in infrastrutture e
delle società. In parallelo si è verificato un calo dei consumi e
delle esportazioni.
Queste circostanze hanno condotto ad un deterioramento nei
rapporti con l’estero (crescita del disavanzo delle partite correnti
e deprezzamento della rupia).
Dal punto di vista interno lo spazio per politiche esapnsive è
molto limitato. L’elevato disavanzo del bilancio pubblico e
l’elevato debito pubblico pongono un limite alla politica fisacle.
Allo stesso tempo l’elevata inflazione impedisce di adottare una
politica monetaria più espansiva.
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Accumulazione di capitale e crescita.