Sistemi Economici Comparati Anno accademico 2014-2015 Prof.sa Renata Targetti Lenti Lo sviluppo comparato di Cina ed India. Il caso dell’India Lezione 9 13/11/2014 Letture -Balcet G., Valli V., Nuovi protagonisti dell’economia globale: un’introduzione, in Balcet G., Valli V., “Potenze economiche emergenti”, Il Mulino, 2012, pp. 9-48. -Beretta S., Targetti Lenti R., India e Cina nel processo di integrazione internazionale, in: Calchi Novati G. ( a cura di) “L’Alternativa Sud-Sud, chi vince e chi perde”, Asia Major 2011, Carocci, pp. 31-64. L’India è un’economia mista, con una forte presenza pubblica nel settore industriale ed in quello creditizio. Grandi conglomerati privati, in genere a controllo familiare, coesistono con un elevato numero di microimprese operanti nel settore informale dell’economia. Ancora oggi il governo, sia federale che statale, svolge un ruolo significativo tanto di regolazione quanto di gestione diretta delle numerose imprese pubbliche. Il periodo tra il 1947 ed il 1980 è stato definito come quello della “creazione del modello indiano di sviluppo”. Risale a Nehru la decisione di promuovere un modello di pianificazione centralizzata basato sull’ intervento dello Stato. Lo Stato è andato progressivamente assumendo un ruolo preponderante, quando non esclusivo, in settori rilevanti dell’economia indiana (si parla a questo proposito di Commanding Height). Il riferimento teorico per la stesura del piano era stato un gruppo di economisti di orientamento comunista guidato da Mhalanobis. Gli orientamenti di policy riflettevano, invece, in larga misura i principi gandhiani. La morigeratezza nei comportamenti di consumo trovava giustificazione nella ricerca di un migliore equilibrio tra uomo e natura ed era pertanto considerata molto importante ai fini del benessere complessivo di ciascuno. In India il sistema democratico, per di più strutturalmente decentrato, ha rappresentato un freno al processo di accumulazione. Le divisioni in caste ed il profondo dualismo tra settore formale e informale hanno ostacolato la pur rapida trasformazione dell’economia. Tasso di risparmio e tasso di investimento risultano sistematicamente inferiori a quelli cinesi. In India la carenza di infrastrutture adeguate continua a rappresentare un ostacolo per lo sviluppo indiano. Il controllo pubblico del sistema bancario e finanziario ha determinato un’offerta di credito insufficiente e distorsioni nella sua composizione. Il settore manifatturiero occupa un peso tuttora modesto (pari al 14,4% del PIL nel 2011 contro il 29,6% della Cina) mentre più consistente, e in qualche misura anomalo per un paese emergente, è il peso del settore terziario. Gli investimenti esteri in India sono stati considerati per molti anni un potenziale ostacolo allo sviluppo del sistema economico. Nei decenni che seguirono l’indipendenza lo Stato nazionalizzò alcuni settori-chiave dell’economia, sostenendone altri con ingenti investimenti, e sottoponendo il settore privato a un articolato sistema di regole e di controlli. Erano state introdotte severe (e crescenti) misure di restrizione commerciale al fine di proteggere le industrie locali, caratterizzate da bassa produttività. Il Licence Raj, sommandosi a quello dei dazi doganali, aveva determinato gravi distorsioni nel sistema produttivo favorendo le produzioni destinate a sostituire le importazioni piuttosto che a incentivare le esportazioni al fine di raggiungere l’autosufficienza. La pianificazione centralizzata, analogamente a quanto accaduto in Cina, aveva annullato ogni sorta di incentivo, riducendo di conseguenza la produttività e la competitività del sistema. I prezzi interni erano molto più elevati di quelli internazionali, mentre il sistema delle licenze aveva dato luogo al formarsi di posizioni di rendita. Tali politiche ebbero come effetto tassi di crescita dell’economia di modesta entità. Si è così consolidato il potere oligopolistico delle imprese statali e dei grandi conglomerati privati. Il periodo compreso tra l’inizio degli anni ’80 ed il 1990 è stato caratterizzato da un più accentuato decentramento dei processi decisionali e dalla promozione delle privatizzazioni e delle esportazioni. Grazie al deprezzamento del tasso di cambio reale e alla riduzione delle tariffe, le esportazioni di prodotti sia manifatturieri sia agricoli sono aumentate in misura significativa consentendo di importare beni capitali e tecnologie più avanzate. Il regime delle licenze è stato reso più flessibile sebbene in modo selettivo (l’Hindu rate of reform) . Gli investimenti sono stati progressivamente diretti al settore privato. I consumi interni sono cresciuti. I miglioramenti organizzativi introdotti nel settore industriale e il mutato atteggiamento del governo nei confronti dell’ imprenditoria privata hanno consentito un incremento della produttività. La scomposizione del tasso di sviluppo del reddito ha messo in luce come la modesta crescita precedente agli anni ‘80 fosse attribuibile all’aumento nella dotazione dei fattori, mentre quella successiva è da attribuirsi prevalentemente all’ aumento della loro produttività e cioè al migliorato utilizzo dei fattori nei diversi settori produttivi. Nel corso degli anni ‘80 la crescita indiana (Hindu rate of growth) ha registrato, per la prima volta, un’accelerazione. E’ stata in larga misura determinata da politiche di bilancio espansive che, unitamente all’aumento dei sussidi, avevano contribuito ad accrescere il disavanzo del settore pubblico. Il fabbisogno di quest’ultimo era stato in parte finanziato “monetizzandolo”, e cioè collocando titoli del debito pubblico presso la Banca Centrale. L’accumulo dei disavanzi si era tradotto in un aumento del debito pubblico con conseguenze significative in termini di elevati tassi di inflazione, necessità di ricorrere al credito estero per il finanziamento degli investimenti, aumento del debito estero. Nonostante gli interventi del FMI, della Banca Mondiale e del Giappone, l’economia indiana manifestava, all’inizio degli anni ’90, preoccupanti segnali di crisi. Le restrizioni commerciali (tariffarie e non) introdotte non si erano rivelate sufficienti a ridurre il disavanzo di parte corrente. Si erano, di conseguenza, progressivamente ridotte le riserve valutarie ed era aumentato il debito estero. La crescente inflazione interna aveva inoltre ridotto la competitività delle esportazioni indiane. Per far fronte alla crisi nei pagamenti internazionali dell’inizio degli anni ’90 l’India concordò con il FMI un nuovo prestito di 1,5 miliardi di dollari, nonché l’adozione di riforme strutturali. Solamente dopo il 1991 vennero create condizioni più favorevoli allo sviluppo anche se, nello stesso tempo, si aggravarono alcuni squilibri fondamentali e crebbero le diseguaglianze economiche e sociali. Fu Narasimha Rao, divenuto il nono primo ministro indiano, dopo l'assassinio di Rajiv Gandhi, ad avviare, con il supporto del ministro delle Finanze Manmohan Singh, un intenso processo di riforme economiche in senso capitalistico. Sono state caratterizzate da una combinazione di politiche di stabilizzazione e di aggiustamenti strutturali non solo nei grandi settori ma anche i diversi comparti del settore manifatturiero e dei servizi. La priorità fu assegnata al riequilibrio del bilancio pubblico ed alle politiche di stabilizzazione. Le riforme economiche varate nel 1991 e i positivi effetti dell’ accresciuta integrazione del paese nel sistema internazionale hanno favorito la valorizzazione delle sue potenzialità, così da determinare, in due decenni, un aumento del PIL di quasi quattro volte. Gli investimenti diretti esteri aumentarano. Le misure adottate dalla Reserve Bank of India a partire dal 1994 hanno inoltre consentito di ridurre l’inflazione al di sotto del 5% nel 1996 grazie all’aumento dei tassi di interesse reali. Il processo di liberalizzazione noto come “Delhi Consensus”, per sottolinearne la peculiarità rispetto al noto “Washington Consensus” è stato caratterizzato da un mix di politiche di stabilizzazione e di interventi strutturali di stampo liberista. La Commissione per il piano venne ridotta a un ruolo consultivo, mentre il processo di liberalizzazione riguardò gli investimenti, il tasso di cambio, il regime commerciale, il settore finanziario e quello fiscale. Durante la fase iniziale del programma di riforme la priorità fu assegnata all’abolizione del License Raj, il complicato e minuzioso sistema di licenze e di adempimenti richiesti fin dai tempi dell’indipendenza per iniziare e condurre un’attività economica nella maggior parte dei settori produttivi. Venne dimezzata la quota di produzione manifatturiera sottoposta a restrizioni non tariffarie. Le restrizioni non tariffarie sull’importazione di beni di consumo finali rimasero ancora elevate. Solamente nel 1997 ebbe inizio il processo di smantellamento anche delle licenze che riguardavano le piccole e medie imprese. Fu assegnata la priorità al riequilibrio dei conti pubblici e alle politiche di stabilizzazione. Si è aperta a questo punto la “terza fase” del processo di sviluppo. Il tasso di crescita del PIL è aumentato progressivamente attestandosi attorno al 6,2% in media all’anno nel periodo 19912001, per passare successivamente all’ 8% nel periodo 2001-2012 raggiungendo valori pari a circa il 10% nel 2010. Si è tuttavia ridotto al 6% nel 2012. La crescita è stata particolarmente significativa nei settori industriale e dei servizi nonché nella domanda di beni di consumo. Nello stesso tempo è prima cresciuta, ma successivamente al 2010 ridotta, l’accumulazione di capitale (figura 1). Figura 1 Il sistema manifatturiero che è andato delineandosi nei primi decenni successivi all’indipendenza, e che tuttora permane, è stato caratterizzato da industrie a elevato contenuto di lavoro qualificato e a elevata intensità di capitale. E’ sempre stata, invece, inferiore alla media dei PVS la presenza di industrie a elevato contenuto di lavoro non qualificato. Tali caratteristiche, che costituiscono una prima anomalia, non hanno subìto sostanziali modificazioni a seguito delle riforme degli anni ’80 e ’90. Contrariamente al modello cinese, basato sulla mano d’opera a basso costo, quello indiano ha privilegiato specifiche nicchie tecnologiche. Il ricorso alla subfornitura per imprese estere ha inoltre compensato, in molti casi, la scarsa domanda da parte del mercato interno. Un’altra caratteristica significativa del sistema industriale indiano, eredità della pianificazione, e seconda anomalia, è costituita dal peso relativamente equilibrato dei diversi settori. La produzione dei prodotti di base e intermedi coesisteva con quella dei beni di consumo. Tra questi ultimi il tessile, specialmente cotoniero, è tra i più antichi e importanti. L’industria cinematografica è tra le prime al mondo per numero di film prodotti. Negli ultimi anni si è considerevolmente sviluppata anche l’industria a elevata intensità tecnologica (aeronautica, elettromeccanica), oltre naturalmente al settore dell’informatica, particolarmente attivo nella produzione di software. Nel corso degli anni ’90 si è verificata una riorganizzazione dei conglomerati ed una loro maggior specializzazione su alcune specifiche aree produttive. Il modello conglomerale ha favorito la competitività interna e internazionale, grazie ai processi di circolazione di risorse finanziarie, personale, conoscenze e tecnologie all’interno del gruppo. Si è verificato uno spostamento verso livelli tecnologici più avanzati, anche se esso è avvenuto più nel terziario che nell’industria. Questo settore è stato, ed ancora è, polarizzato tra i grandi conglomerati e le micro-imprese dell’economia informale, con relativamente scarsa presenza delle imprese di medie dimensioni. Una terza anomalia del sistema industriale indiano è costituita dal modesto turnover delle imprese, determinato dall’abbondanza di finanziamenti a disposizione anche delle imprese poco efficienti originata a sua volta da una politica del credito molto “conservatrice”. Una politica creditizia poco aggressiva ha frenato la crescita dimensionale delle imprese, con conseguenze negative in termini di efficienza. La prevalenza delle piccole imprese si conferma tuttavia, ancora oggi, come un fattore di freno alla modernizzazione ed alla crescita del settore manifatturiero e come un’anomalia del sistema industriale indiano. Le politiche attuate nei decenni che hanno preceduto il processo riformatore, nonché le liberalizzazioni successive, spiegano, in larga misura, le caratteristiche e le specificità del sistema economico indiano. Le politiche industriali attuate nel tempo sono all’origine di un sistema produttivo marcatamente dualistico dal punto di vista delle tecniche impiegate e tra imprese private e pubbliche, imprese di grande o di piccola dimensione, imprese industriali o agricole. Le produzioni di beni di base, intermedi e di consumo (fra questi ultimi il tessile, specie cotoniero, è tra i più antichi e importanti) coesistono, e si sono sviluppate a ritmi comparabili. Nel settore pubblico le imprese erano e sono tuttora prevalentemente di grandi dimensioni e utilizzano tecnologie a elevata intensità di capitale. Il processo di privatizzazione ha trovato corrispondenza nello sviluppo di alcune grandi imprese a proprietà familiare. La piccola e media industria, tuttavia, mantiene un ruolo di rilievo. Una quarta anomalia, infine, è rappresentata dal peso del settore dei servizi. Questo non solo presenta un peso superiore a quello prevalente nella media dei paesi emergenti, ma è stato il principale motore della crescita. Numerosi sono i fattori determinanti di queste e di altre anomalie. Essi sono riconducibili non solo al regime delle licenze adottato nel primo periodo della pianificazione, ma anche alle rigidità del mercato del lavoro, nonché alla carenza di infrastrutture non solo fisiche ma anche sociali. Alcuni comparti, come quelli produttori di software, sono oggi assai dinamici e competitivi. Il settore dell’Information and Communication Technology è stato quello più dinamico, nell’ultimo decennio. In precedenza cadeva sotto il regime delle licenze e dei controlli, analogamente al settore manifatturiero. Altri comparti del terziario, invece, come quello bancario, sono caratterizzati da bassi livelli di efficienza. La loro evoluzione è il risultato non solo delle riforme strutturali del passato, ma anche di politiche settoriali. Il sistema bancario ha avuto e conserva un ruolo strategico per l’economia indiana, della quale costituisce il principale canale di finanziamento. Il credito erogato dal sistema delle banche commerciali è pari a circa la metà del Pil indiano. Sebbene questo valore sia ben lontano dal 90 per cento della Cina, è comunque nettamente superiore al contributo offerto da altri segmenti del mercato finanziario. La trasformazione del sistema bancario ha seguito un percorso parallelo a quella del sistema industriale. Inizialmente privato, il settore ha subito un processo di nazionalizzazione a partire dal 1969. Elevato dirigismo, obblighi di finanziamento di settori considerati prioritari e vincoli di riserva e di liquidità particolarmente onerosi avevano compromesso l’indipendenza operativa e la competitività delle banche. Solamente a partire dal 1992, è iniziato un percorso inverso finalizzato a liberalizzare il sistema, a favorirne la riorganizzazione, concorrenzialità e autonomia. È stata prevista la possibilità di istituire banche private, riducendo la quota pubblica nelle banche di Stato, e sono state gradualmente introdotte regolamentazioni prudenziali in linea con gli standard internazionali. L’efficienza degli istituti bancari resta inferiore a quella di altri paesi emergenti. Il peso dello Stato nella proprietà delle banche rimane significativo, il livello di consolidamento molto basso, obblighi di erogazione e di riserva che vincolano l’autonomia delle banche. Sono esclusi dall’accesso al credito i segmenti più deboli della popolazione (under-lending). Il processo riformatore degli anni ‘90 (dopo alcuni tentativi che risalgono alla metà del decennio precedente) hanno consentito all’India, forse per la prima volta dall’ indipendenza, di esercitare un ruolo di protagonista nel contesto internazionale. E’ andata in tal modo affermandosi una imprenditorialità diffusa la quale per altro, al momento, costituisce solo una premessa di sviluppo equilibrato nel medio periodo. Le riforme economiche varate nel 1991 hanno favorito la valorizzazione delle sue potenzialità, così da determinare un aumento del PIL di quasi quattro volte. Non sono state tuttavia in grado di ridurre in misura adeguata il fenomeno della povertà, che in molte zone rimane ancora molto elevato. L’India ha gradualmente aumentato il proprio capitale umano e il livello delle conoscenze, migliorando l’istruzione di base. Tuttavia, il livello di istruzione rimane mediamente più basso di quello cinese è fortemente polarizzato con ancora molti analfabeti o giovani con bassa istruzione, ma con un consistente e crescente numero di giovani laureati e tecnici. Una politica a favore dell’istruzione superiore ha favorito la nascita di imprese a elevata intensità tecnologica e di lavoro qualificato. L’assetto di un sistema universitario, profondamente segnato dall’influenza britannica, ha dato luogo a risultati ambigui. Il paese conta circa 200 atenei: i più antichi sono quelli di Kolkata, Mumbai e Chennai, sorti nel 1857. Ogni anno conseguono la laurea 400mila ingegneri. Ha, innanzitutto, favorito la produzione di beni immateriali informatici, biotecnologici e di servizi a elevato contenuto di innovazione. Tuttavia, ha finito anche, con l’alimentare un’emigrazione di lavoratori qualificati verso paesi anglofoni (Usa, Regno Unito). Dopo avere ottenuto l’indipendenza, l’India cercò di sviluppare un sistema scolastico unitario e integrato. Anche se dall’indipendenza il numero delle scuole e degli scolari è notevolmente aumentato, circa il 30 per cento dei bambini di età compresa tra i sei e i dieci anni non frequenta la scuola pubblica. Numerosi fattori spiegano l’elevato tasso di abbandono scolastico. Esiste, innanzitutto, una sorta di diffidenza da parte delle famiglie povere, soprattutto nelle zone rurali, verso la scuola pubblica. Il lavoro minorile è un fenomeno associato alla povertà. Negli anni ‘80 gli imprenditori indiani avevano imparato ad adattarsi alle prime pur modeste liberalizzazioni. Oggi sono gli imprenditori indiani ad acquisire quote di imprese straniere. Ne è un esempio la scalata da parte dell’indiana Mittal della lussemburghese Arcelor. Nonostante i progressi realizzati dal sistema educativo, cominciano tuttavia a emergere strozzature connesse alla qualità dei laureati. In talune produzioni l’India è considerata già oggi un’alternativa significativa alla Cina, anche in ragione dei livelli retributivi più contenuti del lavoro non qualificato, sebbene in tutto o in parte compensati, a seconda dei settori, da una più bassa produttività del lavoro. Il confronto deve tuttavia essere effettuato tenendo conto anche di fattori ulteriori, che possono condizionare l’attrattività del paese, in positivo o in negativo. Fattori sicuramente positivi sono la disponibilità di lavoro qualificato, utilizzabile in modo complementare a quello non qualificato, e l’esistenza di un terziario avanzato che potrebbe fornire importanti servizi alle imprese europee (e in particolare italiane). I prodotti industriali e informatici indiani hanno ormai raggiunto standard qualitativi del tutto comparabili a quelli occidentali, con un elevato contenuto di valore aggiunto, di innovazione e di design. Figura 20, Ed in alcune nicchie dei servizi è leader mondiale Principali esportatori ed importatori di computer services - 2009 Exporters value share European Union (27) 92100 60.0 Extra-EU (27) exports 34617 22.6 India 33383 21.8 United States 8575 5.6 Israel 7671 5.0 Canada 3658 2.4 Norway 2622 1.7 Philippines 1748 1.1 Malaysia 1454 0.9 Russian Federation 1212 0.8 Argentina 1055 0.7 Above 10 153480 100.0 Source: WTO 2011 Importers European Union (27) Extra-EU (27) imports United States Brazil India Norway Canada Russian Federation Malaysia Australia Hong Kong, China Above 10 value share 46600 62.8 15637 21.1 16263 21.9 2709 3.6 1617 2.2 1564 2.1 1526 2.1 1212 1.6 1206 1.6 1041 1.4 482 0.6 74220 100.0 Figura 21,Ed in alcune nicchie dei servizi è leader mondiale Principali esportatori ed importatori di communication services - 2009 Exporters European Union (27) Extra-EU (27) exports United States Kuwait a Canada India Russian Federation Switzerland China Singapore Indonesia Above 10 Source: WTO 2011 value share 45167 63.0 17648 24.6 9548 13.3 6905 9.6 2605 3.6 1484 2.1 1337 1.9 1331 1.9 1198 1.7 1053 1.5 1031 1.4 71660 100.0 Importers European Union (27) Extra-EU (27) imports United States Canada Russian Federation Saudi Arabia, Kingdom of Singapore India Korea, Republic of China Hong Kong, China Above 10 value share 45540 70.0 17916 27.6 7503 11.5 1968 3.0 1898 2.9 1857 2.9 1376 2.1 1280 2.0 1227 1.9 1210 1.9 1152 1.8 65010 100.0 La crescita dell’interscambio dell’India con il resto del mondo (unitamente a quello della Cina) costituisce uno dei fenomeni più significativi dell’ultimo decennio. Il sistema economico indiano ha registrato un crescente grado di apertura nei confronti dell’estero, pur non potendosi ancora considerare un sistema particolarmente “aperto”. Il suo “grado di apertura”, misurato dall’interscambio di beni e servizi, è passato infatti dal 20,4% nel 2000 al 29,9% nel 2005 e al 38,6% nel 2008, a segnalare una progressiva integrazione nel mercato internazionale. Il tasso annuo di crescita delle importazioni ha sempre superato quello delle esportazioni. L’incremento dell’interscambio è stato inoltre favorito dalla creazione delle “Zone Economiche Speciali” (Special Economic Zones) particolarmente vantaggiose sotto i profili fiscale, doganale e, in generale, regolativo e procedurale. Figura 12 Figura 13 Figura 14 La bilancia commerciale indiana ha sempre presentato un deficit strutturale, che si è aggravato nella seconda metà degli anni 2000, attestandosi al 4,2% nel 2012. Questa caratteristica differenzia profondamente il modello di crescita indiano da quello cinese. Un’altra significativa specificità indiana, che la differenzia da quella cinese, è data dalla forte competitività internazionale nel settore dei servizi, inclusi quelli più avanzati e a maggiore contenuto di conoscenza, come il software. Nell’industria manifatturiera, il modello di specializzazione indiano è restato relativamente stabile, attraverso le diverse fasi del processo di liberalizzazione, ed è ancora caratterizzato dal forte peso di produzioni intensive in lavoro. Spiccano i prodotti alimentari e tessili, accanto ai tradizionali prodotti della gioielleria (perle e pietre preziose). Tra i settori a forte intensità di economie di scala, emerge per capacità di esportazione l’industria chimica oltre a quelle farmaceutica, dell’acciaio e dei mezzi di trasporto. I dati sugli Ide, sia in termini di stock che in termini di flusso, mostrano una forte dinamica sia pure di molto inferiore a quella relativa alla Cina. Questo è vero anche per gli Ide in uscita, a causa della capacità di un numero crescente di imprese indiane di espandersi all’estero attraverso operazioni multinazionali. Le dinamiche degli Ide in entrata riflettono più ampie operazioni di trasferimento di tecnologia, veicolate anche da alleanze e joint venture e sono strettamente connesse ai flussi di Ide in uscita. E’ stata progressivamente elevata la quota di partecipazione consentita alle imprese straniere, provvedimento che ha dato immediato impulso a importanti operazioni nel settore automobilistico, delle telecomunicazioni e dei servizi informatici con la costituzione di joint venture con importanti partner stranieri (Honda, Toyota, Michelin). Per valutare l’effettivo grado di competitività del sistema indiano rispetto a quello cinese sia nell’attrarre investimenti esteri, sia nel definire il proprio ruolo nella divisione internazionale del lavoro occorre fare riferimento a una “batteria” standard di “indicatori di affidabilità”. La Cina risulta avvantaggiata quanto a tempo (in termini di giorni) richiesto per fare rispettare un contratto, per registrare una proprietà, per avviare un’attività e al tempo (in termini di anni) richiesto per comporre un’insolvenza. L’India risulta, invece, preferibile quanto a tempo (in termini di ore) necessario per adempiere agli obblighi fiscali, il che parrebbe segnalare una maggiore efficienza dell’apparato burocratico. Offre inoltre condizioni migliori dal punto di vista della qualità dell’imprenditoria locale, di alcuni indicatori di qualità delle istituzioni (diritto di espressione, efficacia della legge, controllo della corruzione), della protezione della proprietà intellettuale. E’ caratterizzata da una situazione demografica più favorevole in termini di popolazione giovane (oltre il 40% degli indiani ha meno di 30 anni) sia in valore assoluto (450 milioni contro 400) sia, a maggior ragione, in termini relativi. Il peso relativo della popolazione anziana previsto in India per il 2050 è altresì inferiore a quello cinese. Questa caratteristica della struttura demografica potrebbe rallentare la crescita della produttività complessiva, nonché incidere sull’impiego del risparmio: una quota crescente di esso dovrebbe infatti essere destinata al finanziamento dello stato sociale, con conseguente contrazione degli investimenti e del tasso di accumulazione. L’India è oggi il secondo paese più popoloso dopo la Cina, con 1 miliardo e 25 milioni di abitanti. L’elevato tasso di crescita della popolazione verificatesi negli ultimi decenni corrisponde ad una regolarità ben nota ai demografi. Ma se il tasso di crescita della popolazione indiana può essere considerato “normale” per un paese ancora in via di sviluppo, valori assoluti e distribuzione territoriale non lo sono. Il 71% circa degli abitanti vive infatti ancora in zone rurali. Le città molto popolose sono, per ora, relativamente poco numerose. Sono numerosi i fattori negativi che rendono l’India meno competitiva. Primi fra tutti le carenze infrastrutturali materiali e istituzionali (strade, irrigazione, istituti e cooperative di credito) a supporto delle attività industriali. In alcune regioni, segnatamente quelle del Sud, queste carenze rappresentano un vero e proprio ostacolo alle comunicazioni infraregionali e interregionali. Tra le carenze istituzionali occorre segnalare il cattivo funzionamento del mercato del lavoro: questo è segmentato, piuttosto rigido, caratterizzato da una legislazione accentuatamente vincolistica, da scarsa mobilità e da un rilevante peso delle “attività informali”. Il modello di specializzazione produttiva in industrie a elevata intensità di lavoro qualificato potrebbe, nel futuro immediato, presentare elementi di debolezza dal punto di vista della sostenibilità in relazione agli aumenti di costo del lavoro qualificato. Questi effetti si sono già manifestati sotto forma di incrementi dei livelli retributivi, e quindi di un aumento della diseguaglianza salariale, con particolare riferimento ai differenziali tra le retribuzioni dei lavoratori con istruzione superiore e quelle dei lavoratori con istruzione secondaria. Cambiamenti nelle politiche dell’istruzione, che si sono tradotti in un maggiore impegno nella formazione primaria e secondaria a svantaggio di quella superiore, si sono “combinati” con un aumento della domanda di lavoro qualificato, e quindi dello skill premium. La sostenibilità di questo modello di specializzazione, fino a oggi vincente, potrebbe tuttavia essere messa in discussione proprio nel comparto del software a opera di altri paesi dell’Asia del Sud come il Pakistan. Si prevede, tuttavia, che le migliori aziende indiane del settore informatico siano pronte a decentrare parte delle proprie operazioni in altri paesi dove il costo del lavoro è inferiore. In tal caso sarebbe l’India stessa a dare vita a una nuova forma di outsourcing. Già nel 2003 la quota di servizi che l’India aveva trasferito all’estero, e successivamente importato, era pari al 2,5 % del PIL, significativamente più elevata dello 0,4% degli Stati Uniti. Nel 2003 l’India era il quarto paese (dopo Regno Unito, Stati Uniti e Hong Kong) a presentare un surplus netto nel commercio di servizi. In India gli effetti negativi della maturità dei settori industriali e della popolazione si manifesteranno più tardi che in Cina. Se ancora oggi il ritmo di crescita della Cina è più elevato di quello dell’India, nei prossimi decenni la situazione potrebbe invertirsi, poiché la popolazione indiana è più giovane e la situazione politica e ambientale è più equilibrata. Le infrastrutture sono in India assai più arretrate che in Cina. L’inefficienza della pubblica amministrazione e le spinte centrifughe al suo interno rappresentano altri punti di debolezza. L’India deve contrastare alcuni stringenti vincoli alla propria crescita: ridurre il peso della divisione in caste e del dualismo tra settore formale ed informale dell’economia, ridurre progressivamente, con adeguate politiche, le aree di povertà e di deprivazione esistenti nelle zone rurali e nelle periferie delle grandi aree metropolitane. Le prospettive del’ economia indiana sono peggiorate negli ultimi due anni. Nel priodo 2010-2012 sono diminuiti sia il Pil che gli investimenti. Questa diminuzione è intervenuta dopo il 2010, e non immediatamente dopo la crisi finanziaria globale, ha radici di natura strutturale come le strozzture nell’offerta accompagnate da un elevata inflazione. Particolarmente rilevanti sono state le strozzature nel settore minerario ed enrgetico. Esse si sono riflesse sul settore manifatturiero. Queste strozzature si traducaono in una crescita delle importazioni (carbone ad esempio). Si sono ridotti i flussi di investimenti a causa delle crescenti difficoltà di ottenere permessi ad inquinare ed incremento della tassazione Si è verificata una riduzione degli investimenti in infrastrutture e delle società. In parallelo si è verificato un calo dei consumi e delle esportazioni. Queste circostanze hanno condotto ad un deterioramento nei rapporti con l’estero (crescita del disavanzo delle partite correnti e deprezzamento della rupia). Dal punto di vista interno lo spazio per politiche esapnsive è molto limitato. L’elevato disavanzo del bilancio pubblico e l’elevato debito pubblico pongono un limite alla politica fisacle. Allo stesso tempo l’elevata inflazione impedisce di adottare una politica monetaria più espansiva.