La Sicilia e Trieste:
terre che in realtà non esistono se
non nella letteratura.
Hermann Bahr, visitando Trieste diceva di
trovarla strana:
«Trieste non è una città. Si ha l’impressione
di non essere in alcun posto. Ho provato la
sensazione di essere sospeso nell’irrealtà».
N. POWELL, Viaggiatori a Trieste, trad. it. R.
Prinzhofer, Milano, 1980.
E Dominique Fernandez, parlando della Sicilia
diceva: «Terra che si inquieta e teme di non
essere che una pura illusione, un fantasma
fluttuante sul mare, senza consistenza e senza
storia».
GIUSEPPE PITRÈ, Goethe in Palermo nella primavera del 1787, introduzione di
Dominique Fernandez, Palermo, Sellerio, 1976, p. XI.
Città letterarie
• Come ha sostenuto Magris: «Trieste, forse più
di altre città, è letteratura, è la sua letteratura;
Svevo, Saba e Slataper non sono tanto scrittori
che nascono in essa, quanto scrittori che la
generano e la creano, che le danno un volto, il
quale altrimenti, in sé, come tale, forse non
esisterebbe».
ANGELO ARA, CLAUDIO MAGRIS, Trieste. Un’identità
di frontiera, cit. p. 15.
Goethe in Sicilia
•
•
La risposta è alquanto stupefacente: si attendeva di leggere i nomi esatti di
personaggi assolutamente ininteressanti. Il che vuol dire: il sentimento della
propria identità è così precario in un siciliano, che egli ha bisogno di sentirsi
confermare la sua esistenza dall’attestazione di un testimone autorizzato. […]
Come se non essendo stati ricordati i nomi di questi personaggi incontrati, essi
fossero per sempre svaniti nella notte della non esistenza e come se lui, Pitrè, si
sentisse minacciato dalla stessa sorte. E così è in effetti della Sicilia: terra che si
inquieta e teme di non essere che una pura illusione, un fantasma fluttuante sul
mare, senza consistenza e senza storia. Ed è questo un aspetto della sicilitudine: la
paura di volatilizzarsi come fantasmi; l’angoscia di non essere riconosciuti come
uomini, come individui aventi particolare identità; il bisogno patetico di ottenere
prova del loro passaggio sulla terra; e il sospetto, sempre insorgente, di essere
defraudati del loro destino. Chi sono io? Sono davvero sicuro di essere qualcuno?
Eterna, ansiosa domanda che agita i personaggi di Pirandello, di Brancati, di
Vittorini.
GIUSEPPE PITRÈ, Goethe in Palermo nella primavera del 1787, introduzione di
Dominique Fernandez, Palermo, Sellerio, 1976, p. XI.
Bufalino:
«identikit del Siciliano Assoluto».
• «Vero è che ogni cuore è difficile, tanto più arduo è
decifrare il cuore di una comunità. Soprattutto se essa
ha dietro di sé una storia di nascite, crescite,
ibridazioni, cadute, glorie e miserie che sfuggono a
ogni catalogo. Posti dalla sorte a far da cerniera fra
continenti e culture discordi; impastati di calcolo e
istinto, razionalismo europeo e magismo africano;
condannati da sempre a subire sul viso, come eroi
pirandelliani, il sopruso di molte maschere, tutte
attendibili e tutte false, veramente noi siciliani
scoraggiamo chiunque voglia racchiudere in una
formula univoca la nostra franta, ricca, contraddittoria
pluralità»
Il Confine
• L’origine indoeuropea del termine confine è “tiro”, “tirare”,
“trascino”, “solco”, “aratro”, e testimonia come esso sia un
segno, una traccia segnata sulla terra: il solco tracciato dal
vomere dell’aratro circoscrive, dunque, uno spazio
disancorandolo dal nulla, dall’indefinito. Per il mondo
latino la traccia del vomere è il solco originario, primigenio,
quello che fondava lo spazio separandolo dalla campagna,
un linea di demarcazione tra l’interno e l’esterno.
CELESTINA MILANI, Il “confine”: note linguistiche, in M. SORDI, Il
confine nel mondo classico, Milano, Università Cattolica,
1987, pp. 3-12.
Cfr., PIERO ZANINI, I significati del confine. I limiti naturali,
storici, mentali, Milano Mondadori,1997.
Limen o Limes ?
• Il limen è la soglia, che il dio Limentus custodisce,
il passo attraverso cui si penetra in un dominio o
se ne esce. Attraverso la soglia veniamo accolti o
e-liminati. Essa può rivolgersi al “centro”, oppure
aprire all’il-limite, a ciò che non ha forma o
misura, “dove” fatalmente ci smarriremmo.
• Limes è, invece, il cammino che circonda un
territorio, che ne racchiude la forma. […] Essa
bilancia in qualche modo il pericolo
rappresentato dalle soglie, dai passi, dal limen
Le vie dei canti di Bruce Chatwin
• Certe volte mentre porto «i miei vecchi» in giro per il
deserto, capita che si arrivi ad una catena di dune e che
d’improvviso tutti si mettano a cantare; «Che cosa
state cantando?», domando, e loro rispondono: «Un
canto che fa venir fuori il paese, capo. Lo fa venir fuori
più in fretta […]». Gli uomini del tempo antico
percorsero tutto il mondo cantando; cantarono i fiumi
e le montagne, le saline e le dune di sabbia. Andarono
a caccia, mangiarono, fecero l’amore, danzarono,
uccisero: in ogni punto della loro pista lasciarono una
scia di musica. Avvolsero il mondo in una scia di canto,
e infine, quando ebbero cantato la Terra, si sentirono
stanchi.
Cultura = abitare
• Cantare il mondo vuol dire darne un senso e un ordine.
Cultura, dal latino colere, è essenzialmente un abitare
«intervento modificatore dello spazio e dei corpi che lo
abitano». Remotti sostiene che la cultura è, non solo
canto, ma anche scrittura: attività universale e continua
di incisioni di segni su luoghi e corpi. La cultura umana
è taglio, incisione differenziazione, l’atto originario di
dare forma alla molteplicità del mondo.
FRANCESCO REMOTTI, Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio, del
tempo e del potere, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 4446.
Il cerchio dell’isolitudine
• 1093 chilometri di coste – 440 sul mar Tirreno, 312 sul mare
d’Africa, 287 sullo Ionio: ma questa grande isola del Mediterraneo,
nel suo modo di essere, nella sua vita, sembra tutta rivolta
all’interno, aggrappata agli altipiani e alle montagne, intenta a
sottrarsi al mare e ad escluderlo dietro un sipario di alture o di
mura, per darsi l’illusione quanto più è possibile completa che il
mare non esista (se non come idea calata in metafora nelle messi di
ogni anno), che la Sicilia non è un’isola. Che è come nasconder la
testa nella sabbia: a non vedere il mare, e che così il mare non ci
veda. Ma il mare ci vede. E sulle sue onde porta alle nostre spiagge
invasori d’ogni parte e d’ogni razza.[…] Il mare è la perpetua
insicurezza della Sicilia, l’infido destino.
• LEONARDO SCIASCIA, Rapporto sulle coste siciliane, in La corda pazza.
Scrittori e cose della Sicilia, Milano, Adelphi, 1991, p. 229.
Il sonetto
• Lo studio di Wilhem Pötters tende a dimostrare come il sonetto sia stato
costruito in base alla numerazione del cerchio presunta dalla disposizione
dei 14 endecasillabi in 7 distici di 22 sillabe. In tale disposizione si possono
riconoscere le misure concrete del cerchio. Scrive l’autore: «Se si sceglie il
7 come raggio, il cerchio formato da questo raggio possiede una
circonferenza la cui metà è pari a 22. Il cerchio e il sonetto nella
disposizione originaria possiedono una perfetta congruenza numerica
grazie all’identità delle loro misure basilari: 7 e 22» inoltre le misure
corrispondono al numeratore e al denominatore della frazione 22/7 che
rappresenta la famosa grandezza matematica scoperta da Archimede,
mediante un calcolo inventato da lui stesso, la quale sarà chiamata π nella
matematica moderna a partire dal Settecento, ossia la relazione costituita
dalla circonferenza a dal raggio. Qui riportiamo le conclusioni del
confronto: «La circonferenza corrisponde alla quantità delle sillabe di
un’unica riga del sonetto […] quindi 22; e un singolo verso endecasillabo (=
11) è uguale a un quarto della circonferenza del nostro cerchio (= ¼). […]
L’area di un sonetto è identica alla somma di tutte le sillabe del sonetto,
perché 14 versi per 11 sillabe danno un totale di 154 sillabe»
Il sofisma
• Il sofisma dunque è un procedimento logico, un metodo, un
ragionamento capzioso che segue delle regole ben precise che
consiste nel fare una serie di ipotesi, ognuna delle quali a sua volta
si divide in ipotesi interne, fino alle ipotesi ultime, che risultano
tutte assurde, vanificando così l’ipotesi di partenza. Gorgia fu il
teorico dell’arte della parola stabilendo dei canoni codificati in
modo definitivo. L’encomiastico elogio che si fa della parola
nell’Encomio di Elena è emblematico: «La parola è una grande
domatrice che un corpo sottilissimo ed invisibilissimo compie opere
divine; essa infatti può far nascere la paura, togliere il dolore,
infondere la gioia ed inspirare la pietà. E quanti e quanta gente
fecero credere cose diverse foggiando un finto discorso! Un
discorso che abbia persuaso l’anima costringe questa ad avere fede
nei detti ed a consentire nei fatti. La persuasione, raggiunta con la
parola, impronta l’animo come vuole». GORGIA DA LENTINI, Encomio di
Elena, frammento 11.
La parola
• Il sofisma e il sonetto potremmo, dunque, dire
che sono un genere nato come supplemento
(attraverso la forma supplire ciò che manca)
ad una carenza d’essere di fondo, per una
sostanziale mancanza di garanzia
dell’esistenza nasce l’esigenza di costruire
more geometrico ciò che non esiste nella
realtà o ciò che si sente continuamente sul
punto di perdere.
La fuga
• Si nasce assuefatti a fuggire in Sicilia. Si ha un
sospetto e si fugge. Si sogna qualcosa che non
persuade e ci si tien pronti alla fuga.
• Ivi, p. 433.
La tartaruga
• Ch’esce di sottoterra una volta all’anno, proprio al nostro ritorno
dalla svernata, come se venisse su dall’antichità dei tempi, con quel
suo grugno di muffa, per assicurarsi che ci siamo di nuovo, e che le
apparteniamo pur sempre, e che non cambiamo…[…] La nostra ha
una faccia come se avesse assistito alla costruzione della Torre di
Babele e alla sua caduta in rovina. C’era già prima della casa, ad
ogni modo, prima che nascesse mio nonno, ad ogni modo. […] Il
padre di mio nonno portava in giro il gregge di un altro. Gli antenati
di mio padre non avevano neppure la camicia che fosse di proprietà
loro; portavano in giro i greggi degli altri; ma avevano la tartaruga, e
a metà aprile o poco più tardi tornavano immancabilmente sul
posto dove sapevano che viveva lei.
• Ivi, pp. 664-65.
La statua di sale
• Chi si volta indietro, lo sai, si condanna a
mutarsi in una statua di sale. Mentre chi è
capace di andar oltre l’ipocrita lusinga delle
nostalgie non si rende nemica la provvidenza e
ha per di più la soddisfazione di essersi
comportato da uomo coraggioso.
• Ivi, p. 459.
Orfeo ed Euridice
• O quando tutte le notti - per pigrizia o per avarizia ritornavo a fare lo stesso sogno: una strada color
cenere, piatta che scorre con andamento di fiume fra
due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe
strapiomba sul vuoto. […]“Fermati”, gridavo “madre
mia, ragazza, colomba” […] Soltanto in quell’istante,
riaprendo gli occhi, capivo d’avere ancora una volta
giocato a morire, d’avere ancora una volta dimenticato,
o fatto apposta, la parola d’ordine che mi serviva.
• Ibidem
Il canto di Orfeo
•
•
Il poeta era venuto qui per lei, e aveva forzato le porte con passo conquistatore, e aveva piegato
tutti alla fatalità del suo canto. Perfino Menippo, quel buffone, quel fool, aveva smesso di
sogghignare, s’era preso il calvo capo fra le mani e piangeva, fra le sue bisacce di fave e lupini. E
tantalo aveva cessato di cercare con la bocca le linfe fuggiasche, Sisifo di spingere il macigno per
forza di poppa…E la ventosa ruota d’Issione, eccola inerte per aria, con un cerchio d’inutile piombo.
Un eroe, un eroe padrone m’era parso. […] Rivide il seguito: la corsa in salita dietro di lui […] felice
di poterlo vedere solo di spalle, felice del divieto che avrebbe fatto più grande la gioia di
riabbracciarlo fra poco…Quale Erinni, quale ape funesta gli aveva punto la mente, perché, perché
s’era irriflessivamente voltato? […] E così, risucchiata dal buio, lo aveva visto allontanarsi verso la
fessura del giorno, svanire in un pulviscolo biondo…Ma non sì da sorprenderlo, in quell’istante di
strazio, nel gesto di correre con dita urgenti alla cetra e di tentarne le corde con entusiasmo
professionale…L’aria non li aveva ancora divisi che già la sua voce baldamente intonava “Che farò
senza Euridice?”, e non sembrava che improvvisasse, ma che a lungo avesse studiato davanti ad uno
specchio quei vocalizzi e filature, tutto già bell’e pronto, da esibire al pubblico, ai battimani, ai
riflettori della ribalta…[…] Allora Euridice si sentì d’un tratto sciogliere quell’ingorgo dal petto, e
trionfalmente, dolorosamente capì: Orfeo s’era voltato apposta.
IDEM, L’uomo invaso, in Opere, cit., pp. 417-418.
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