PORCIANO
A circa un chilometro da Stia e sulla sinistra dell’Arno, lungo la strada che salendo per la Falterona
porta in Val di Sieve, si trova l’antico e famoso castello di Porciano.
Questo castello con il suo territorio fu riunito alla Repubblica Fiorentina che nel 1444 lo aggregò al
Comune di Palagio Fiorentino.
A questo castello di Porciano si ricollegano molte memorie e tradizioni riguardanti il Sommo Poeta
Dante Alighieri.
Pare che Dante da Porciano scrivesse quella famosa lettera piena di ira e di livore contro gli
“Scelleratissimi Fiorentini”.
La repubblica Fiorentina indispettita per l’ atteggiamento dell’ esule mandò un ambasciatore al
Castello per chiedere la consegna di Dante.
Il poeta scendeva verso Stia s’incontrò con l’ambasciatore fiorentino e non conoscendo questi Dante
gli chiese se il fuoriuscito Dante Alighieri si trovasse ancora a Porciano.
Il poeta non rispose argutamente così all’ambasciatore: - Quand’ì v’ero, ì v’era - .
Ancora a Porciano il 16 Aprile Dante scrisse all’ imperatore un’ altra lettera per invitarlo a
combattere ai danni di Firenze e “ schiacciarle il capo col piede “.
Ma certamente Dante fu a Porciano per spingere i conti Guidi a prestare un valido aiuto di denaro
all’imperatore Arrigo.
Questo fatto rese tanto sdegnato il poeta contro i Conti Guidi signori di Porciano che nella Divina
Commedia li trattò da “brutti porci”.
Una tradizione locale afferma che Dante fu imprigionato in un luogo posto dietro la Chiesa.
E’ però commovente sapere che Dante esule ha trascorso qui alcuni giorni importanti della sua vita.
Forse qui ha nutrito speranze, ha sofferto, ha atteso, ha scritto, ha amato, ha pregato e poi, forse
deluso, ha preso la via dell’esilio.
Ma anche lontano, lo accompagnerà sempre la visione di questi luoghi incantevoli e la sua poesia ne
sarà ricolma.
PORCIANO OGGI
A Porciano in Casentino,
tra una fonte ed uno spino
si trova una campana d’oro fino
che vale quanto tutto il Casentino!
Porciano è posto dove la Valle dell’Arno si allarga all’inizio della Pianura Casentinese.
Le strade che anticamente risalivano il corso del fiume per inoltrarsi nelle valli appenniniche per scavalcare
le montagne che collegavano il Casentino. Al castello si può anche accedere a piedi con una bella passeggiata,
che partendo da piazza Tanucci ripercorre l’antica e erta strada selciata.
Il castello di Porciano è una delle rocche più interessante del Casentino grazie alla recente ristrutturazione
fatta su iniziativa dei proprietari.
Porciano era scappato alle integrazioni e ricostruzioni in voga nell’800 ma era ormai ridotto ad un misero
rudere. Il Toponimo è di origine latina e deriva dal nome Portius o Porcius.
Nella zona sono state rinvenute monete di bronzo, una databile alla metà del III secolo d.C. conservate al
museo del castello. Questo viene nominato castrum. Porciano fu castello dei conti Guidi dando il nome ad un
ramo dalla famiglia comitale. I Guidi lo tennero ininterrottamente fino all’estinzione della famiglia.
Lodovico rinunciò alla contea nel monastero di Santa Maria degli Angeli di Firenze.
Porciano fu quindi riunito al dominio della Repubblica fiorentina che lo aveva già preso sotto la sua
protezione.
Porciano è famoso per le memorie dantesche: la tradizione non confermata vorrebbe che Dante sia stato
tenuto prigioniero. Arrivati al castello, l’importante funzione di controllo è evidente: dallo spiazzo antistante
il panorama si allarga fino a comprendere il Casentino.
CASTELLO
Un’inesattezza compare nelle novelle della Perodi con il termine
“castello” che coincide con la ricerca scientifica del tempo.
Questo termine prende il significato di dimora, di palazzo signorile e
non quello di villaggio fortificato, di villaggio circondato da mura ed
eventualmente comprendente anche una dimora signorile, un cassero,
un palazzo.
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Ella: lei
Mellifluo: sdolcinato
Creso: improvvisamente
Dacchè: dal momento in cui
Desinare: pranzare
Giullare: nel Medioevo giocoliere, acrobata
Balzano: bizzarro, stravagante
Indugiare: tardarsi volontariamente
Ingiungendogli: comandargli, imporgli
Terrazzani: nobili
Bardato: munito di finimenti
Vagheggiato: immaginare, sognare qualcosa che si
desidera tanto
Feudo: territorio concesso dal sovrano
Crucciarsi: preoccuparsi
Penne maestre:penne multicolore
Giovilità:recare beneficio
Brigata:gruppo di persone che si trovano insieme
Frizzi: parole dolci
Soldano:ricco nobile
Romito:frate
Paiuolo:pentola
Versiere:persone vecchie e molto malaticcie
Venerande:degno di profondo risetto
Ciarlare:parole inutiliente, di sorpresa
Canuta: vecchia
Sdipanarlo: srotolarlo
Placidamente: tranquillamente
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Moine: risatine
Destava: svegliava
Ove: dove
Rivoltolare: voltare
Screanzato: maleducato
Ghingheri: con molti ornamenti
Costei: lei
Cisposi: umore che si secca sugli occhi
Scuffia: copricapo
Rattrappite: irrigidite
Assuefatta: abituata
Appestato: malato
Colà: là
Membra: pelle
Smaltavano: ricoprire di smalto
Guisa: maniera
Brama: desiderio incontenibile
Leziosagine: atto smorfioso
Baldacchino: drappo sostenuto da 4 assi
Beneplacito: approvazione
Sottana: gonna
Fervido: impetuoso,caldo
Smodate: esagerato
Angustia: preoccuazione
Tufo: pietra porosa
Sviasse: uscisse dalla strada
Massaia: casalinga
Afflizzione: addolorato
Podere: terreno coltivato
Laconismo: rapido e breve
LE NOVELLE DELLA NONNA
Le novelle della nonna è una raccolta di storie scritte da Emma Perodi,
inserite dentro una cornice narrativa ambientata alla fine
dell'Ottocento.
TRAMA
Il “quadro” narra la storia della famiglia Marcucci, famiglia contadina
che abitava in un podere del Casentino.
I familiari si radunavano davanti al focolare e la Nonna Regina
raccontava le vicende che, erano a quell'epoca tutte a sfondo religioso.
Tutte le fiabe fantastiche che la nonna raccontava nei vari capitoli
sono ambientate in Casentino e si denota il rapporto non certo
amichevole che questa popolazione ha con Firenze.
LA CAMPANA D’ORO FINO: LEGGI LA STORIA
LEGGI LA RECENSIONE
EMMA PERODI
BIOGRAFIA
Emma, figlia dell'ingegnere Federico Perodi, nacque a Cerreto Guidi il 31 gennaio 1850.
Il dato lo fornisce l'atto del battesimo conservato nell'archivio di San Leonardo.
Le furono attribuiti anche i nomi di Maria, Caterina, Metilda.
Quando nacque, il padre risiedeva presso Fucecchio (Firenze) a pochi chilometri da Cerreto.
Venne battezzata il 2 febbraio 1850 dal sacerdote Ranieri Fattori nella pieve, che era stata
patronato dagli Adimari, di Cerreto.
La famiglia era costituita da agiati professionisti, e questo permise alla scrittrice di vivere una
vita tranquilla, superiore alla media e con ascendenti di grosso prestigio.
Partì per studiare e lavorare in grandi città italiane, godendo di un’indipendenza straordinaria.
Nonostante la breve permanenza la scrittrice deve essere tornata più volte presso la casa di
campagna, infatti il libro “I Briganti di Cerreto Guidi” è ricco di descrizione di ambienti,
persone e luoghi ben riconoscibili e ascrivibili al territorio di Cerreto.
Maturò le sue esperienze artistiche nell' ambito dei letterati fiorentini.
Nel 1895 si trasferì a Palermo dove lavorò fino alla morte con Salvatore Biondo.
Scrittrice e giornalista prolifica dedicò la maggior parte del lavoro alla letteratura per
ragazzi.
Il suo capolavoro resta il libro ”LE NOVELLE DELLA NONNA” fiabe fantastiche che ebbero
subito un successo considerevole.
Morì a Palermo il 5 marzo 1918.
LA CAMPANA D’ORO FINO
Quella domenica, mentre tutti i Marcucci aspettavano, seduti sull'aia, che la Regina narrasse la
novella, Vezzosa si mostrava inquieta e spiava sempre la via maestra come se attendesse
qualcuno. E infatti ella attendeva Cecco, partito verso le undici per Pratovecchio, insieme con
una comitiva d'amici, per festeggiare la copertura di una fabbrica di uno di loro. Vezzosa aveva
fatto un po' il broncio quando erano venuti a prendere il suo Cecco, e lo avrebbe volentieri
trattenuto, ma la Carola aveva detto:
- Non te lo mangiano mica! Ed ella, per non farsi biasimare dalla cognata, lo aveva lasciato
andare. Era la prima volta, dacché erano stati sposi, che Cecco si allontanava senza di lei dal
podere di Farneta, ed ella ne soffriva come se si fosse trattato di un lungo distacco. A
desinare non aveva mangiato nulla e non aveva parlato mai, sempre col pensiero rivolto
all'assente. È vero che ogni tanto si rimproverava di soffrire per un'assenza così breve, ma un
momento dopo ricadeva nella tristezza e non sapeva dominare il suo dolore. Se Cecco avesse
preso la consuetudine di star fuori di casa, che cosa sarebbe mai avvenuto di lei? Vezzosa era
immersa in questo doloroso pensiero e la Regina le leggeva nel cuore, desiderando anch'ella il
ritorno del figlio; così, per non vedere più la giovane sposa tanto ansiosa, prese subito a dire:
- L'ultima volta vi parlai di Porciano e di quel tal Banfio, giullare, che aveva portato il famoso
cavallo balzano che predisse la fortuna di Gentile e vi cooperò con tanta efficacia. Come
sapete, il cavallo morì sulla soglia del castello di Romena, e vi sarete figurati, senza che io ve lo
abbia detto, che il padron suo gli serbò gratitudine e gli fece dare onorata sepoltura. Quello
che non vi potete figurare fu ciò che avvenne di Banfio. Il giullare, dunque, vedendosi privato
del suo cavallo, chiese un compenso al conte di Porciano, il quale gli diede una borsa piena d'oro,
ingiungendogli di partire al più presto. Ma Banfio, che stava bene nel palazzo dell'ospitale
signore, s'indugiò alcuni giorni, e siccome era spesso invitato a bere ora dai soldati, ora dai
terrazzani, seppe che si diceva esservi in quel castello un gran tesoro, e imparò anche la
leggenda in versi che su quello correva.
La leggenda, dunque, diceva:
A Porciano, in Casentino,
Tra una fonte ed uno spino,
Si trova una campana d'oro fino,
Che vale quanto tutto il Casentino.
- È sempre bene a sapersi; - diceva Banfio, - ora partirò, ma potrei anche tornare a cercare
questo gran tesoro. E partì, infatti, dopo essersi comprato un altro cavallo e averlo bardato
con brandelli di panno rosso, penne e sonagli, per modo che si vedesse e si udisse da lontano.
L'ideale vagheggiato da lungo tempo da Banfio era di andarsene alla corte del duca d'Urbino,
che aveva fama del più liberale signore d'Italia. In quel tempo il Duca risiedeva a Gubbio, e fu
verso quella città che si diresse il buffone. Come fosse ricevuto non so, ma devo ritenere che
le cose non gli andassero tanto bene, perché cinque anni dopo, quando già il conte Gentile aveva
ereditato il feudo del nonno, Banfio ricomparve in Casentino, non più a cavallo, ma a piedi, e in
pessimo arnese, proprio come un gallo cui siano state levate le penne maestre. Anche d'umore
non era più quello, ed era tanto invecchiato che pareva su di lui fossero passati quindici anni
invece di cinque. Egli si recò a Porciano, e saputo che la profezia del suo balzano s'era
avverata, si sentì tutto consolare fidando nella gratitudine del giovane signore. Infatti Gentile
lo ricevé con molta cortesia appena fu giunto, e gli disse di trattenersi quanto voleva presso di
lui e di non crucciarsi di nulla. Quest'assicurazione rese un poca dell'antica giovialità al povero
Banfio, il quale per tenere allegra la contessa Clemenza tirò fuori dalla mente le vecchie
barzellette e riuscì a far ridere tutta la sera la brigata. Ma lo scopo di Banfio non era quello di
buscarsi gratis l'alloggio e il vitto in cambio di un paio di frizzi detti con garbo; egli s'era
ficcato in mente di trovare il tesoro, e di diventar ricco come il soldano d'Egitto, che era
reputato l'uomo più danaroso del mondo. Così, dopo la prima sera passata a divertire il conte
Gentile e la nobile consorte di lui, Banfio pensò che era tempo di lavorare sul serio. Questo
lavoro, secondo lui, consisteva nell'interrogare i vecchi, per raccogliere dalla loro bocca tutte
le notizie che potevano dargli sulla campana d'oro fino e sul luogo dove si diceva
che fosse.
Andò dunque a trovare un vecchio Romito, che si diceva avesse più di cento anni, e
viveva fra mezzo ai boschi dalla parte di Montemignaio. Alcuni tenevano quel vecchio in conto
di stregone e assicuravano che in casa sua si davan convegno, la notte del sabato, le streghe.
– Mi sapresti dire, - gli domandò Banfio, - dove siano quella tal fonte e quel tale spino fra i
quali si trova la campana d'oro fino? - Se lo sapessi, a quest'ora la campana non ci sarebbe più
ed io non mi sfamerei a castagne, - rispose il vecchio accennando il paiuolo che bolliva sul
focolare. - Non è una ragione, - replicò Banfio. – Forse per trovar la campana bisognerà
faticare, e tu non hai forza; mentre io ne ho ancora. Se tu m'indichi la fonte e lo spino, ti
prometto di dividere con te il tesoro, - ribatté il giullare. - Non posso indicarti nulla perché
non lo so; ma lo domanderò alle mie sorelle, che sonpiù vecchie di me, e forse loro lo sapranno.
Banfio sgranò tanto d'occhi nel sentire che il Romito aveva delle sorelle maggiori a lui, e pensò
che se erano anche più brutte del vecchio, dovevan esser versiere in carne e in ossa; ma, per
non offenderlo, prese un tono mellifluo e gli domandò: - E se le interrogassi io, quelle tue
venerande sorelle? Io ho una certa maniera per far ciarlare le donne, proprio tutta mia. –
Prova, - rispose il vecchio, - tanto più che Oliva, che è la maggiore, si lascia facilmente
intenerire dalle paroline dolci. Se gliele dico io, non le fanno effetto, tant'è vero che m'ha
fatto arrivare a quest'età senza volermi rivelare dove si trova la campana d'oro fino; ma se
gliele dici tu, a voce bassa, nell'orecchio, è capace che ti faccia ricco come un Creso. Banfio
gongolava, e già gli pareva di avere davanti agli occhi il misterioso tesoro di cui tutti parlavano
senza averlo visto, quando il Romito gli disse a bruciapelo: - Conosco bene Oliva! se vuoi
renderla dolce come il miele, le devi fare una promessa. - Quale? - Quella di sposarla! – replicò
il Romito. - Ma non dici che è più vecchia di te? - Sì. - È grinzosa? - Sì. - È canuta? - Sì. - E io
me la dovrei sposare, con tutti quegli anni e quei malanni addosso? - Faresti un affare d'oro, te
lo dico io; Banfio, pensaci bene e ritorna sabato a mezzanotte. Oliva sarà qui certo, e allora
combineremo. Banfio andò via un po' scoraggiato. L'idea di sposare la strega Oliva, più vecchia
del Romito, non gli sorrideva punto.
Però Banfio era uno di quegli uomini che non possono stare lungamente abbattuti, e fece presto
a consolarsi dicendo: - Non sarà mica noto solo alla strega il nascondiglio della campana di oro
fino.
Ci son tanti vecchi in questo paese! E ripreso coraggio andò a trovare una donnina tutta curva,
che camminava a malapena su due bastoni, ma che era tutta pepe. - Il posto te lo indico subito,
- rispose la vecchia. - La fonte che tu cerchi è a settemila passi dal noce, che cresce sotto la
torre a tramontana del castello di Porciano. Ti avverto però che non c'è strada, e bisogna
camminare sempre a diritto. Ma quando ti ho detto il luogo, non ti ho detto nulla, perché
soltanto Oliva, la sorella del Romito, possiede la sega per segare il macigno nel quale è
rinchiusa la campana d'oro fino. Banfio stette a sentire quello che gli diceva la vecchia, ma
siccome di Oliva non ne voleva sapere affatto, si consolò pensando che dal momento che sapeva
il luogo, a spaccare il macigno ci sarebbe riuscito senza l'aiuto di Oliva. Senza più indugiare,
Banfio cercò il noce, e poi, fattosi dare un gomitolo per non deviare né a destra né a sinistra,
incominciò a sdipanarlo camminando e contando. Ma siccome egli non aveva molta memoria, ogni
tanto saltava a pié pari qualche decina, oppure contava doppia qualche centinaia, e così
rifaceva il gomitolo e ricominciava da capo. Pare impossibile, ma gli ci vollero otto giorni prima
di aver contato settemila passi; e quando li ebbe contati si trovò in un punto dove non c'era né
fonte, né spino, né macigno, ma un bel praticello tutto fiorito. - Quella vecchia era rimbambita
e chissà quante sciocchezze mi ha dette! - esclamò Banfio. - Andiamo a interrogare qualche
persona che abbia il cervello più al posto. Ma i giorni passavano, per il buffone, in gite, in
palpiti, in ansietà, e quand'era notte e sperava di dormir placidamente, ecco che in sogno si
vedeva apparire Oliva, la quale gli sorrideva con la bocca sdentata, e con una voce che pareva il
rumore che fanno i tarli nel legno, gli diceva: - Banfio mio, se tu mi sposassi, io ti farei l'uomo
più ricco della terra; rammentati quello che dice la leggenda, che la campana d'oro vale quanto
tutto il Casentino. Saresti più ricco dei Guidi di Poppi, dei Catani di Chiusi, degli Ubertini di
Bibbiena. Ma le ricchezze sarebbero nulla in paragone della felicità di avere una moglie bella e
amorosa come me.
Finché Oliva gli parlava in sogno del tesoro, Banfio l'ascoltava sorridendo; ma
non appena gli faceva quelle moine, egli si destava spaventato e, per quella notte, addio sonno!
Il giorno dopo andava a interrogare altre vecchie e altri vecchi del paese; ma tutti gli
rispondevano che il luogo ove stava nascosto il tesoro lo sapevano, e ci sarebbero andati a
occhi chiusi; ma in quanto a scavarlo era un'altra cosa: occorreva la sega di Oliva. Banfio s'era
fissato in testa di arricchire e non aveva pace. - Ebbene, - disse un sabato, - anderò stanotte
da Oliva. In fin dei conti, ella può essere meno brutta di quanto mi figuro. Per ora la cosa
principale è di diventare ricco e di potermi rivoltolar nell'oro come i maiali nel fango. Presa che
ebbe questa determinazione, non gli pareva vero che suonasse la mezzanotte per andar a
bussare alla casuccia del Romito, fra i boschi, verso Montemignaio. A mezzanotte precisa era
davanti all'uscio e sudava freddo dall'ansietà. Egli bussò e la voce del Romito domandò: - Chi
sei? che vuoi? - Sono Banfio e voglio Oliva. - Potresti dire la bella Oliva, screanzato! – esclamò
una voce stridula. - Sono Banfio e voglio la bella Oliva, - disse il giullare. Allora l'uscio si aprì e
Banfio penetrò nella cucina; ma appena ebbe messo il piede sulla soglia, vi rimase inchiodato. –
Perché non entri? - gli disse il Romito. Banfio non rispondeva e teneva gli occhi fissi sopra un
gruppo formato da tre vecchie. Due di esse, vestite modestamente, stavano sedute sotto la
cappa del camino a scaldarsi; la terza, tutta in ghingheri, gli veniva incontro e gli sorrideva con
la bocca sdentata. In costei Banfio riconobbe subito l'Oliva veduta in sogno, ma anche più
brutta. Aveva la pelle color delle vecchie candele di cera, gli occhi cisposi, la bocca bavosa, le
mani rattrappite. Sulla testa pelata e tentennante teneva una scuffia di velluto ricamata di
perle e sulla fronte un diadema di pietre preziose. - Da molti sabati ti aspettavo, Banfio, disse la vecchia stendendogli la mano. - Perché non sei venuto prima, dolce amor mio? Banfio
non sapeva più in che mondo si fosse, e aveva una voglia matta di stritolare quella brutta
strega e di fuggir lontano; ma ella seppe trattenerlo, dicendogli: - Vuoi venir subito a veder la
campana d'oro fino? - Andiamo! - rispose il giullare. - È una parola! La via è aspra e lunga, e io
non sono assuefatta a calpestare sassi e steppi; prendimi nelle tue braccia amorose e portami
dove io t'indicherò, - disse Oliva. Banfio l'avrebbe volentieri buttata nel fuoco, ma tacque e
obbedì.
Però, appena ebbe fra le braccia quel mucchio d'ossi e sentì l'alito appestato della vecchia, la
strinse forte forte sperando di stritolarla. - Ho le membra delicate, amor mio; - disse Oliva, e tu devi portarmi gentilmente, senza farmi male. Quel mucchio d'ossa infagottato nei ricchi
abiti e nei gioielli pesava di molto, e Banfio sudava; ma nonostante camminò con quel carico per
la via indicatagli dalla vecchia, e giunse al prato fiorito, dov'era riuscito partendo dal noce di
Porciano. Giunto colà, egli aprì le braccia e lasciò cascar di botto Oliva sull'erba. - Piano, amor
mio; noi donne abbiamo le membra fragili e bisogna trattarci come fiorellini delicati. – Bel
fiorellino! - esclamò Banfio tutto arrabbiato. - Tu mi canzoni, strega. Qui c'ero venuto anche
da me, e non c'è né fonte né spino, e per conseguenza non c'è neppure il tesoro. - T'inganni, rispose Oliva. - Quest'erba e questi fiori lo celano agli occhi tuoi e a quelli di tutti. Scava qui, ordinò ella battendo il bastone, - e troverai la fonte. Era un lume di luna così bello che pareva
d'esser di pieno giorno, e Banfio distingueva non solo i fiori che smaltavano il prato, ma anche i
fili d'erba. Egli si diede a scavare con le mani, e mentre lavorava, il sudore dell'ansietà gli
gocciolava dalla fronte. Scava, scava, aveva fatto una buca abbastanza profonda, quando le sue
dita incontrarono la pietra. - Qui non c'è una fonte, ma un macigno! - esclamò egli indispettito.
- Smuovi la pietra che impedisce all'acqua di sgorgare e troverai la fonte, - rispose Oliva.
- Ma io sono stanco, - osservò il giullare. - Non ho mai lavorato la terra prima d'ora! – Prima
d'ora non fosti neppur ricco né marito felice, amor mio caro, - disse la vecchia. - Non ti
stancare; ogni felicità deve esser conquistata con molta fatica. Se non fosse stato il desiderio
della ricchezza, il giullare sarebbe scappato via, sì poco gli sorrideva l'altro di sposare quella
strega; ma l'oro aveva un gran potere sull'animo di lui, e si piegò anche alla fatica di smuovere
la pietra che tratteneva l'acqua. Questa, ormai libera, s'inalzò in una bellissima colonna, e
ricadde sul prato coprendo i fiori e l'erba; poi, trovato un punto più basso, scorse, a guisa di
piccolo rivo, verso il piano. - E lo spino dov'è? - domandò Banfio. - Sollevami ancora nelle tue
braccia amorose e te lo indicherò, - disse Oliva.
Il buffone dovette obbedire, e la vecchia lo guidò alla estremità opposta del prato, dove, col
bastone, gli ammiccò che da quel lato cresceva una siepe di spini. - E la famosa campana, dov'è?
- Vedi, - rispose la vecchia, - tutto lo spazio che corre fra la fonte e la siepe? - Lo vedo. –
Quanto calcoli che sia? - Quattrocento passi almeno. - Ebbene, la campana d'oro che tu cerchi
è larga altrettanto alla base. Gli occhi di Banfio brillavano di cupidigia e, dimenticando quello
che gli era stato detto, si buttò in terra e si mise a scavare con le mani. Scava, scava, trovò il
macigno. Allora fece una buca, a qualche distanza dalla prima, e lì pure sentì dopo poco sotto le
unghie un masso di durissima pietra. La vecchia stava accanto a lui e rideva. - Amor mio caro,
senza la sega che io sola possiedo e che per cento anni ho unta ogni giorno col grasso di topo,
tu non riuscirai a intaccare codesto macigno. - Dammi subito quella sega! - disse Banfio
accecato dalla brama di possedere quel tesoro. - Ho giurato di non darla altro che allo sposo
mio, - replicò la vecchia bavosa. - Se vuoi, quest'altro sabato faremo le nozze. - E sia! –
esclamò Banfio. - Ora, sposo mio diletto, ricopri la fonte e riconducimi dal fratel mio, - disse
Oliva. Quando furono a casa del Romito, la vecchia, con mille leziosaggini, annunziò alle sorelle
che era sposa, che il sabato venturo si facevano le nozze e che in quella settimana aveva da
fare un mondo per preparare la casa e il corredo. Prima che fosse giorno ella si fece aiutare a
salir sopra una mula, e soltanto dopo aver baciato e ribaciato Banfio, sbavandogli tutto il viso,
se ne andò in compagnia delle sorelle. Il buffone, quando l'ebbe vista sparire fra gli alberi del
bosco, credé di aver sognato e s'avviò verso Porciano con la testa imbambolata. Il tesoro lo
voleva, ma quella vecchia cisposa e bavosa, no davvero! Peraltro, quel giorno, attratto dalla
cupidigia, tornò al prato dov'era stato la notte e misurò la distanza che correva fra la fonte e
la siepe di spini. - Con quest'oro si compra un reame! - esclamò. - Se non posso averlo senza
sposar la vecchia, è meglio che la sposi; poi a farla crepare presto ci penserà la morte, che
pare si sia scordata di venirsela a prendere, o ci penserò io a rammentarla al Diavolo. In quella
settimana la via fra Porciano e il prato non mise erba; Banfio la faceva tre o quattro volte il
giorno, calcolando sempre quanto avrebbe potuto valere quella grande campana d'oro fino, e
pensando a tutte le soddisfazioni che si sarebbe potuto procurare quando quell'oro fosse suo.
Altro che le ricchezze del conte Gentile! Il signor di Porciano gli pareva uno straccione, anche
quando lo vedeva seduto a mensa, sotto il baldacchino frangiato di oro, o a cavallo, alla testa di
una schiera di paggi e di valletti. Una cosa sola invidiava a Gentile: la bella e giovane sposa.
Quando pensava a Oliva, gli s'agghiacciava il sangue nelle vene. Eppure tutta la notte il povero
Banfio se la vedeva davanti agli occhi, come quel sabato che l'aveva portata sul prato. La
settimana passò presto e la sera del sabato, Banfio, mogio mogio, andò a bussare alla casa del
Romito. Quella volta la porta gli fu subito spalancata, e la sposa gli andò incontro tentennando,
benché si appoggiasse sul bastone. - Dolce amor mio, tutto è pronto, non si aspettava altro che
te, - gli disse baciandolo con la bocca bavosa. Infatti, sopra una parete era preparato un altare
illuminato, e sopra a quello c'era un'immagine velata. Il Romito consegnò l'anello a Banfio
perché lo infilasse nel dito alla sposa; le due sorelle fecero da testimonî e appena terminata la
cerimonia si misero a tavola a mangiare. Il Romito beveva per dieci e dopo poco russava come
un ghiro; le sorelle si addormentarono e Banfio e la sposa rimasero a parlare. - Ora che ti ho
sposata, - disse a Oliva il giullare, - non mi potresti dare la sega per segare il macigno? - No,
amor mio; - rispose la vecchia, - prima che io ti faccia ricco, devi dimostrarmi il tuo affetto e
la tua gratitudine. A trovare il tesoro c'è tempo; che furia hai! Banfio, che si vedeva burlato,
ebbe voglia di strozzarla; ma tentò di prenderla con le buone per ottener l'intento. - Carina, le disse, - la morte ci potrebbe cogliere da un momento all'altro; perché non si debbono gustar
subito le ricchezze che possiamo appropriarci? - La morte può colpirti, non dico; ma in quanto a
me è impossibile; io ho fatto un patto con lei, e questo patto si rinnova ogni volta che mi
rimarito. - Dunque, - disse Banfio spaventato, - io non sono il tuo primo consorte? La vecchia
rise mostrando le gengive sdentate. - Il numero dei miei mariti è così grande che io non
rammento neppure più quanti ne ho avuti, né come si chiamavano. Il desiderio di avere il tesoro
li ha spinti a centinaia a sposarmi. - E son tutti morti? - Tutti: non per colpa mia, ma per colpa
loro. Chi ha voluto uccidermi per impossessarsi della sega; chi mi ha maltrattata; chi ha
tentato di fuggire. Ti avverto perché tu mi sei specialmente caro e vorrei serbarti lunghi anni
al mio fianco, vorrei che tu fossi l'ultimo. Banfio sudava freddo addirittura.
Dunque quella vecchiaccia gli avrebbe sopravvissuto, e senza il beneplacito di lei non poteva far
nulla. – Ora andiamo a casa nostra; - disse la vecchia, - desta le mie care sorelle, aiutale a salir
sulla mula; tu mi prenderai in groppa alla tua per avermi più vicina, dolce amor mio!
Il pover'uomo dovette ubbidire e andare a casa della vecchia. Il giorno seguente e quelli
successivi, la vecchia, col pretesto che nei primi giorni del matrimonio nessuno lavora, come nei
giorni di festa, si rifiutava di consegnare a Banfio la sega per segare il macigno, e se lo teneva
sempre d'attorno a farsi servire e accarezzare. Finalmente un giorno, a forza di moine, egli la
indusse a consegnargliela, e appena l'ebbe nelle mani corse al prato, scavò la terra e
quand'ebbe scoperto il macigno si diede a segarlo. Il ferro entrava nella pietra come un ago in
un masso di ghiaccio, e con poca fatica Banfio giungeva a toccar l'oro; l'oro, mèta di tutti i suoi
desiderî, delle sue brame sfrenate. Sega, sega, aveva staccato molti pezzi di macigno e vedeva
tutta la parte superiore della campana, che, oltre ad essere di metallo prezioso, era ornata di
finissimo lavoro e tempestata di gemme. Venne la sera, ma Banfio non si poteva staccar da quel
posto e non pensava più alla moglie né ad altri. Venne la notte, ed egli lavorava ancora.
Insomma, a farla breve, lavorò tanto, senza cessar mai, che quando spuntò l'alba aveva messo
allo scoperto tutto un lato della campana e vi era penetrato sotto. Quando vide quell'immensa
vòlta tutta d'oro massiccio, esclamò: - Quella strega, raccontandomi di tutti i mariti che ha
fatto morire prima di me, ha voluto sgomentarmi. Scommetto che lo ha fatto per tenermi
cucito alla sottana. Ora son ricco; marameo! chi s'è visto, s'è visto! Appena aveva pronunziato
queste parole, si sentì acchiappare per la cintola delle brache dal gancio del batacchio e «din
don» fu mandato di qua e di là, quasi che venti braccia tirassero la fune della campana. Questo
scherzo durò per un pezzo, e Banfio si sentiva più morto che vivo. Aveva la testa tutta
ammaccata, le braccia e le gambe rotte dai colpi, e pensava con terrore che anche a lui era
riservata la sorte de' suoi predecessori, e che le ricchezze che lo circondavano non le avrebbe
mai godute, mai! Ma appena la campana si fermò, egli riprese coraggio e pensò che sarebbe
stato più prudente di andare a Porciano ad avvertire della scoperta il conte Gentile.
Era quello un signore giusto di animo, e se gli avesse proposto di terminare lo scavo, che non
poteva far da solo, mediante un tanto di compenso, il Conte lo avrebbe aiutato anche a
trasportare la campana e a dividerla in tante parti per poterla fondere ed esitar l'oro. Lieto di
questa pensata, Banfio si disponeva a rifare la via già fatta per discendere sotto la grande
vòlta d'oro, quando, che è che non è, ecco che compare Oliva con gli occhi tutti lacrimosi. –
Marito mio caro, già ti piangevo morto! - esclamò ella buttandogli al collo due braccia, che
parevan pale da mulino a vento. - Perché, perché mi hai tenuta in tanta angustia? Banfio
fremeva dalla rabbia a vedersi capitar quel fulmine a ciel sereno, e voleva indurre la vecchia a
tornare a casa e a lasciarlo lavorare ancora; ma ella protestò che non voleva farlo morir di
fatica, e lo persuase a sdraiarsi per terra e dormire. Il pover'uomo era stanco e non tardò a
prender sonno. Quanto egli dormisse non lo so; però è un fatto che quando si svegliò sentì
sonare a morte. Era un doppio funebre, malinconico, e il più curioso si è che era proprio la
campana d'oro che sonava quel doppio. Banfio, non vedendosi più Oliva alle costole, pensò che
quello era il momento opportuno per correre dal signore di Porciano a fargli la proposta; ma
quando fece per camminare, la campana cessò di sonare, le gambe gli si fecero pesanti come se
fossero state di piombo, ed egli dovette mettersi di nuovo a giacere per terra. Allora
s'accòrse che la campana si stringeva lentamente, come se tutto l'oro che la formava tendesse
a riunirsi in un sol masso. - Sono morto! - gridò. - Oliva, Olivuccia, Olivina mia bella, salvami! A
questo grido nessuno rispose, mentre la campana si stringeva sempre e le pareti interne di essa
già gli toccavano la testa e i piedi. Per non rimanere schiacciato, Banfio dovette alzarsi; ma
dopo poco si trovò chiuso come in un astuccio, e la paura di morire lo assalì. Non chiamava più
Oliva, che non gli rispondeva, ma gridava, sperando di essere udito da qualche pastore, e
insieme con la paura di morire gli venne quella di esser dannato per sempre. Allora si diede a
invocare tutti i santi del paradiso. Intanto la campana lo schiacciava e si restringeva sempre. –
Vergine santa, - gridò allora, - mi pento di aver bramato le ricchezze, mi pento di tutto,
salvatemi! Dopo questa fervida invocazione, la campana incominciò ad allargarsi sensibilmente,
e Banfio poté uscir all'aria libera.
Appena fu fuori si gettò in ginocchio e pregò. Banfio riprese coraggio e, senza fermarsi mai,
corse a Porciano dove narrò tutto al conte Gentile, il quale esortò il giullare a cambiar vita e a
rinunziare alle brame smodate di ricchezze, nate in lui per suggerimento del Demonio. Il conte
Gentile, per convincere Banfio, lo condusse alla casa del Romito, e appena la toccò con una
croce che aveva al collo, la casa sprofondò nella terra e il Romito sparì in una voragine. Poi
ordinò a molti cavatori di pietra di scavare nel luogo ove Banfio aveva veduta la campana d'oro;
ed essi, scava scava, non trovarono altro che un masso di tufo. Convinto il buffone che tutto
quello che gli era successo non fosse altro che opera infernale, e per impedire che altri dopo di
lui fosse tratto nei lacci del Demonio, fece pubblica confessione de' suoi peccati e quindi andò
a farsi monaco a Camaldoli, dove visse molti anni disimpegnando gli uffici di converso. Ma
l'esempio di Banfio non levò dalla testa degli abitanti di Porciano che nel loro territorio vi
fosse il tesoro, e ancora, se andate nel paesetto costruito sotto il castello, vi diranno che:
A Porciano, in Casentino,
Tra una fonte ed uno spino,
Si trova una campana d'oro fino,
Che vale quanto tutto il Casentino.
Però, nonostante la leggenda, nessuno l'ha scavata, e nessuno è arricchito.
Qui Regina tacque e l'occhio suo corse a Vezzosa, che durante la narrazione della novella s'era
alzata una diecina di volte per andare sulla via maestra a spiare il ritorno di Cecco. Il resto
della famiglia andò a letto; la vecchia massaia e la giovane sposa, inquiete tutte e due, rimasero
ad aspettare l'assente. - Mamma, - disse Vezzosa, - vi sembro meritevole che Cecco mi tenga
in tanta angustia? - No, figlia mia; ma sii indulgente con lui, non lo rimproverare quando giunge.
Mostragli la tua afflizione, non il tuo rincrescimento; la prima intenerisce, il secondo irrita. – E
se Cecco si sviasse da casa? - Allora saprei richiamarlo io al dovere; ma per una volta sii
indulgente. - Eccolo, - gridò Vezzosa che lo aveva veduto comparire nella viottola del podere.
Era lui, infatti, ma taciturno e turbato.
Si vedeva che era pentito di essere stato tante ore
fuori di casa, e nel giungere diede appena la buona sera. - Che cosa t'è successo? - gli domandò
Vezzosa. - Nulla. Quando siamo in compagnia, una ciarla tira l'altra, un bicchiere tira l'altro, e
s'è fatto quest'ora. E senza aggiungere nessuna spiegazione, entrò in casa. - Mamma, a Cecco è
successo qualche cosa, lo sento, me ne accorgo; fatelo confessare voi, io non ne ho il coraggio!
esclamò Vezzosa correndo a piangere in camera sua. Ma anche alle vive e tenere insistenze
della mamma, Cecco rispose con lo stesso laconismo, e invece di salire a rassicurare la Vezzosa,
s'indugiò molto nella stalla e non andò a letto altro che quando suppose che la moglie fosse
addormentata.
LA CAMPANA D’ORO FINO
“La campana d'oro fino “ è una novella di Emma Perodi.
Emozionante e avvincente, la storia incuriosisce in un modo misterioso e
antico manifestando un senso ormai perso di semplicità e fantasia.
La leggenda, ambientata nei dintorni del castello di Porciano, consiste
nel trovare una campana d'oro che, secondo il racconto vale più di tutta
la vallata casentinese e si trova tra una fonte e uno spino.
Ovviamente la leggenda spinge molti a cercare la campana.
Banfio, giullare di corte, è uno di questi.
La smania di possedere la campana lo porterà a
fare cose inimmaginabili come sposare una
vecchia decrepita.
Riuscirà Banfio ad avere la campana d'oro fino?
Quali saranno le conseguenze della
sua voglia di ricchezza?
Solo leggendo questa bellissima
leggenda lo scoprirete.
L’ORIGINE DEI CONTI GUIDI
Secondo la tradizione, ritenuta vera sia da Giovanni Villani che da Scipione
Ammirato, la famiglia dei conti Guidi sarebbe arrivata in Italia dalla Germania con
Teudegrimo I, cavaliere al seguito dell'imperatore Ottone I, se non addirittura
nipote.
Otto I imperatore diede loro il contado di Modigliana in Romagna e là rimasero.
In realtà sebbene sia vero che il capo stipite delle casata sia stato Tegrimo o
Teudegrimo I, non è possibile che sia arrivato in Italia nel 951 con Ottone I e
tantomeno che sia l'imperatore a farlo conte di Modigliana.
Per ragioni ereditarie si spostarono in Casentino, prima a Badia di Strumi,
successivamente anche a Porciano.
I conti Guidi del ramo di Porciano, avevano la loro residenza nel castello di
Porciano di Stia che era anche capitale della loro contea, del luogo denominato
tuttora il Palagio tant'è che la città di Stia fino alla fine del'700 si chiamava Palagio
Fiorentino.
La presenza dei Guidi a Stia è per la prima volta mensionata nell' aprile del 1054
nella camera del pievano di S. Maria situata in Stia nel Casentino.
I conti di Porciano forse erano i signori di Palagio o di Stia.
In seguito il conte Antonio Guidi venne sconfitto e fu costretto ad abbandonare
quelle terre che possedeva per successione e che passarono a Firenze.
Poi perduti e svenduti altri castelli di famiglia i grandi Feudatari rimanevano soltanto
i Conti Guidi di Poppi che, dopo il 1440 si rifugiarono a Bologna.
UN'AVVENTURA A PORCIANO
SULLE “TRACCE” DELLA PERODI
Il 28 Aprile siamo andati a vedere il castello di Porciano.
Siamo arrivati a Porciano con il pulmino attraversando il borgo.
Appena arrivati ci siamo diretti in un grande giardino e siamo stati accolti
dalla custode che ci ha portato dentro il castello: era un luogo freddo e
buio, ci ha spiegato la storia della torre e ci ha fatto vedere degli oggetti
usati dagli abitanti di questo posto.
Poi siamo andati a visitare il secondo piano, dove in delle teche di vetro
abbiamo potuto ammirare gli oggetti recuperati durante i lavori di restauro.
Alle pareti erano attaccate le foto che rappresentavano gli antenati
dell'attuale proprietaria Martha Specht.
Infine siamo arrivati al terzo piano: un salone grandissimo dalle cui finestre
si poteva osservare un panorama stupendo, si potevano intravedere in
lontananza gli altri castelli dell'alto Casentino: Romena e Poppi.
Lì ci siamo seduti in un tappeto dove abbiamo recitato la novella intitolata
“La campana d'oro fino”.
Insomma è stata una bella esperienza e abbiamo avuto l'opportunità di
conoscere la vera storia del nostro castello: quello di Porciano.
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