Essere di parola
La lingua è lo specchio della società?
Émile Benveniste, Essere di parola. Semantica,
soggettività, cultura, Milano, Mondadori, 2009.
Lingua e società
• La lingua è l’interpretante della società perché è lo
strumento di comunicazione che è e deve essere comune a
tutti i membri della società.
• La lingua contiene la società perché è impossibile
descrivere la società o la cultura al di fuori delle espressioni
linguistiche. Essa è lo strumento necessario per descrivere,
concettualizzare, interpretare sia la natura e sia
l’esperienza, cioè l’insieme di natura ed esperienza ch si
chiama società. È grazie alla capacità di trasformazione
dell’esperienza in segni e riduzioni in categorie che la lingua
può assumere come oggetto tutto anche se stessa. La
lingua avvolge la società e la include, ma allo stesso tempo,
in virtù del suo potere specifico, configura la società.
• Benveniste, cit., pp. 104.
Il verbo al futuro
• È da osservare che nel dialetto siciliano i verbi, le azioni, non
sono mai al futuro: fatto linguistico-esistenziale di grande
rilevanza; uno di quei fatti che dice tutto. *
• La paura del domani e l’insicurezza qui da noi sono tali, che
si ignora la forma futura dei verbi. Non si dice mai: “Domani
andrò in campagna” ma “Dumani vaju in campagna” . Si
parla del futuro solo al presente. Così quando mi si chiede
del pessimismo dei siciliani, mi vien voglia di rispondere:
“Come volete non essere pessimista in un paese dove il
verbo al futuro non esiste?” (in La Sicilia come metafora)
•
* Sciascia, Occhio di capra, Torino, Einaudi, 1974, pp. 86-87
Verbo-Concetto
• Non c’è verbo perché non c’è il concetto o non
c’è il concetto perché manca il verbo?
• E l’inglese? Manca il verbo al futuro. Ma chi si
sognerebbe di dire che agli inglesi manca il
senso del futuro?
Grammatica = Giustizia
• “Restaurando la grammatica si può cominciare a
restaurare la pratica*”.
• “Se si parlasse tutti uno stesso italiano, le
differenze sociali e culturali sarebbero abolite.
L’italiano, la lingua italiana, come sogno di
giustizia”. (In La Sicilia come metafora)
*Sciascia, prefazione alla Grammatica italiana di Panzini, Palermo,
Sellerio, 1982.
L’italiano non è l’italiano: è il
ragionare
Il consiglio d’Egitto
• Il Vella, che aveva inventato e reinterpretato il mondo con nuovi
caratteri, diceva che «Quel mondo che veniva declinando come
impostura si sollevava come ondata di luce a investire la realtà, a
penetrarla, a trasfigurarla».
•
‘Solo le cose della fantasia sono belle, ed è fantasia anche il
ricordo… Malta non è che una terra povera e amara, la gente
barbara come quando vi approdò san Paolo… Solo che, nel mare,
consente alla fantasia di affacciarsi alla favola del mondo
musulmano e a quella del mondo cristiano: come io ho fatto, come
io ho saputo fare… Altri direbbe alla storia: io dico alla favola’.
• Ivi, p. 33.
• Ivi, p. 150.
La scrittura della storia
• In effetti […], ogni società genera il tipo d’impostura che, per
così dire, le si addice. E la nostra società, che è di per sé
un’impostura, impostura giuridica, letteraria, umana […]
esistenziale. […] Questo non è un volgarissimo crimine.
Questo è uno di quei fatti che servono a definire una società,
un momento storico. In realtà se in Sicilia la cultura non
fosse, più o meno incoscientemente, impostura; se non fosse
strumento in mano del potere baronale, e quindi finzione e
falsificazione della realtà, della storia… Ebbene, io vi dico che
l’avventura dell’abate Vella sarebbe stata impossibile […]Dico
di più: l’abate Vella no ha commesso un crimine, ha soltanto
messo su la parodia di un crimine, rovesciandone i termini
[…] Di un crimine che in Sicilia si consuma da secoli.
Il consiglio d’Egitto
• ”Il Professore Tychsen è un grande orientalista
ma…”. “Non è un impostore?”. “No non è un
impostore ma…”. “Volete dire che voi ne sapete
più di lui?”. “Nemmeno questo, ma…”. “Volete
dire che si è fatto ingannare da me?” – dice Vella.
“Ecco…Sì”. “Ed allora io ne so più di lui?”. “No”.
“Lui più di me?”. “Sì, ma…”. “Ne sa più di me,
eppure sono riuscito a ingannarlo…Vi pare una
cosa possibile?”.
• LEONARDO SCIASCIA, Il consiglio d’Egitto, Milano,
Adelphi, 2006, pp. 108-109.
…
•
•
In questo breve e incisivo dialogo non solo assistiamo ad una modalità sofistica di
interloquire ma altresì notiamo come i puntini di sospensione siano cifra di un
silenzio impossibile da rompere a causa del ragionamento, eppure l’unica possibile
verità. Interessante è l’analisi di Bruno Montanari a proposito del silenzio che
intercorre tra la parola e la verità: «L’ambiguità verità-falsità nella prosa di Sciascia
esce fuori in maniera straordinaria attraverso quella corrosività e quel nichilismo
che ne costituiscono il tratto distintivo del “mondo” siciliano. Attenzione, il
nichilismo siciliano, del quale parlo, […], è quello che costituisce un codice
comunicativo intellettualmente raffinatissimo. Il nichilista raffinato, infatti, non è
colui che nega l’esistenza della verità, perché, se così facesse cadrebbe nell’antico
paradosso logico della negazione che contiene un’affermazione; il nichilista
raffinato sostituisce la verità, come dimostrazione di qualcosa, con l’allusione, la
suggestione, l’emozione che nascono dal semplice e suggestivo giocare della
parola e del silenzio».
BRUNO MONTANARI, Tavola rotonda, in Giustizia come ossessione. Forme della
giustizia nella pagina di Leonardo Sciascia, Milano, Edizioni La Vita Felice, 2005, p.
119.
Il fallimento dello scambio
comunicativo
• «Una cosa che pareva incredibile»: pensava l’avvocato
Di Blasi che aveva assistito al processo e alla sicumera
di Vella «eppure non c’era da sbagliare, aveva sentito in
Hager, inequivocabilmente, l’accento della passione,
della verità; la dolente impotenza e ripugnanza
dell’uomo onesto di fronte alla prepotenza e alla
menzogna, quel ritirarsi che appare di confusa
colpevolezza ed è invece di disperata innocenza. ‘La
menzogna è più forte della verità. Più forte della vita.
Sta alle radici dell’essere’».
• LEONARDO SCIASCIA, Il Consiglio d’Egitto, cit., p. 114
L’impostura
• Il procedimento linguistico-retorico utilizzato da
Sciascia segue dunque lo stesso svolgimento:
utilizzazione dello stesso sistema logico-argomentativo
per smascherare e condannare quella dialettica che
avvalendosi di una finissima ragione contiene in sé una
terribile «sconfitta della ragione» stessa.
Cosicché inventare e ricostruire il mondo e le cose è un
«declinare a suo modo l’impostura della vita:
allegramente… Non l’impostura della vita: l’impostura
che è nella vita…».
• Ivi, p. 149.
La storia
• Il lavoro storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che c’era più
merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da
antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro,
ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più
ingente compenso che quella di uno storico vero e proprio […].
«Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse esistono le
generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un
autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie
nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e ad un certo punto
se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. La storia delle foglie,
la storia dell’albero. Fesserie!».
Ivi, p. 59-60
La parola invalidata
• ”Ditegli…- a Di Blasi - Ecco: che di quello che ho fatto
sono pentito… I codici, voi capite… Sì, pentito e
desidero che lui lo sappia; e che… Niente: che sono
pentito, che lo saluto”. “E che è il vostro confessore?”.
“No, non è per… È una cosa complicata, sapete? una
cosa maledettamente complicata da spiegare… «Una
cosa talmente complicata» si disse «che non è per
niente vero che sono pentito: ma non è per ingannarlo,
che non voglio che sappia del mio pentimento. E non è
nemmeno per confortarlo, ché in fondo del mio
pentimento non gliene importa niente di me e dei
codici, e poi in questo momento. È che…».
• Ivi, p. 160.
Gorgia
• Scrive Gorgia a proposito della tragedia:
«è un inganno, in cui chi inganna è più giusto
di chi non inganna e chi è ingannato è più
saggio di chi non lo è».
L’affaire Moro
• Prima che lo assassinassero, Moro è stato
costretto, si è costretto a vivere per circa due
mesi un atroce contrappasso. Sul suo linguaggio
completamente nuovo, sul suo nuovo latino
incomprensibile quanto l’antico. Un contrappasso
diretto: ha dovuto tentare di dire con il linguaggio
del nondire, di farsi capire adottando gli stessi
strumenti che aveva adottato e sperimentato per
non farsi capire. Doveva comunicare usando il
linguaggio dell’incomunicabilità.
• LEONARDO SCIASCIA, L’affaire Moro, cit., p. 471.
Riassunto della vicenda
• 1978. Moro, leader democristiano è stato
sequestrato dalle BR, la sua scorta uccisa; egli scrive
lettere dalla prigione, sotto l’occhio delle BR, media
con loro, attraverso le parole, sulle parole, e
comunica col mondo esterno attraverso le lettere che
le Brigate rosse portavano a destinazione o fanno
ritrovare; la trattativa va avanti; c’è un depistaggio, la
trattativa fallisce; Moro è ucciso e il suo corpo
abbandonato in via Caetani. Tutta la tragedia, come
quella greca, avviene nel linguaggio, dentro il
linguaggio.
Comunicato finale delle Brigate Rosse
• «Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16
marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro
è stato condannato»
Eseguendo
• “Eseguendo”: gerundio presente del verbo eseguire.
Un presente dilatabile. E si preferisce dilatarlo verso il
futuro, verso la speranza. […] Pieni di speranza il
gerundio sale come un palloncino all’idrogeno: fluttua
tra le direzioni dei partiti, le redazioni dei giornali, la
radio, la televisione, i discorsi della gente. Non il
gerundio presente del verbo eseguire, ma la parola
gerundio. […] La vita e la morte – la vita o la morte –
perdono di realtà: sono presenti soltanto in un
gerundio, sono soltanto un gerundio presente.
• Ivi, pp. 549-550.
Letteratura e verità
• «Lasciata, insomma, alla letteratura la verità, la
verità […] sembrò generata dalla letteratura»
• “La letteratura è la più assoluta forma che la
verità possa assumere”(Nero su nero)
• Dopo Sciascia non si può più leggere il caso Moro
prescindendo dalla sua lettura. La realtà esiste
perché la letteratura l’ha inclusa in se stessa,
perché ne ha codificato l’evento.
• SI legga l’articolo di Marco BELPOLITI, L’affaire
Moro, un’idea di letteratura, «Nuovi argomenti»,
18, 2002, pp. 278-294.
• All’inizio del quarto capitolo dell’Affaire, Sciascia si sofferma su
l’origine dell’avvenimento cifra della sua indagine letteraria.
• Nel farsi di ogni avvenimento che poi gradatamente si configura c’è
un concorso di minuti avvenimenti, tanto minuti da essere a volte
impercettibili, che in un moto di attrazione e di aggregazione
corrono verso un centro oscuro, verso un vuoto campo magnetico
in cui prendono forma: e sono, insieme, il grande avvenimento
appunto. In questa forma, nella forma che insieme assumono,
nessun minuto avvenimento è accidentale, incidentale, fortuito: le
parti, sia pure molecolari, trovano necessità – e quindi spiegazione
– nel tutto; e il tutto nelle parti.
• LEONARDO SCIASCIA, L’affaire…, cit., p. 481.
• Ed esemplare è il post scriptum dell’Affaire Moro tratto
ancora una volta da Borges:
• Ho già detto che si tratta di un romanzo poliziesco… A
distanza di sette anni, mi è impossibile recuperare i dettagli
dell’azione; ma eccone il piano generale, […]. C’è un
indecifrabile assassinio nelle pagine iniziali, una lenta
discussione nelle intermedie, una soluzione nelle ultime.
Poi risolto l’enigma c’è un paragrafo vasto e retrospettivo
che contiene questa frase: ‘tutti credettero che l’incontro
tra i due giocatori di scacchi fosse stato casuale’. Questa
frase lascia capire che la soluzione è sbagliata. Il lettore,
inquieto, rivede i capitoli sospetti e scopre un’altra
soluzione, la vera.
• Ivi, p. 565.
• Trasse la convinzione di quanto non fosse difficile, in fondo,
distinguere anche sulle morte carte, nelle morte parole, la verità
dalla menzogna; e che un qualsiasi fatto una volta fermato nella
parola scritta, ripetesse il problema che i professori ritengono
s’appartenga soltanto all’arte e alla poesia.
• Poiché sentiva di non potere e di non dovere scrivere le cose vere e
profonde che gli si agitavano dentro, Di Blasi prese a scrivere dei
versi. L’idea che si aveva allora della poesia gli consentiva il pensiero
che in essa si potesse anche mentire. Oggi l’idea della poesia non ce
lo consente più, forse ancora ce lo consente la poesia stessa.
• Sciascia, Il contesto, in Opere 1971.1983, cit., p. 13.
• Sciascia, Il consiglio d’Egitto, cit., p. 167.
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Laboratorio 2 La parola