© 2008 Fandango Libri s.r.l.
Viale Gorizia 19
00198 Roma
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ISBN **********
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progetto grafico Studio Jellici
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Questo volume è stampato su carta Alsaprint delle cartiere Matussiere & Forest, la prima carta riciclata al
100% ottenuta al 100% da materiali disinchiostrati che ne fanno un prodotto di riferimento. La qualità della
superficie e il grado di liscio ottenuto assicurano una elevata qualità di stampa, una mano non comune (1,4)
ed una opacità molto alta. I problemi ambientali e la necessità di optare per una politica di acquisto veramente rispettosa dell’ambiente fanno di Alsaprint un prodotto faro in Europa.
Alsaprint è la carta riciclata più premiata in Europa (premio eco-prodotto francese, premio eco-prodotto
europeo).
Cosimo Argentina
Beata ignoranza
questo libro è dedicato a
Silvia Gatti e Paolo Vilbi
perché un precario ha un maledetto bisogno
di angeli custodi e
io, Clara, Francesco e Milena
a quanto pare
ne abbiamo trovati due di quelli veri
Introduzione
È la moda! Oggi tutti a parlare di scuola, di precariato, di
sofferenza sociale da parte delle classi in bilico… i blade
runner della pagnotta, i forzati delle dieci mensilità più
sussidio di disoccupazione. Eppure, signori miei, non vedo
le medaglie. E le medaglie si conquistano sul campo. Molti
parlano e scrivono ma lo fanno da porti sicuri, paratie alte.
Invece è necessario che chi blatera lo faccia con le mani
sporche dell’inchiostro di un registro di classe e con le
suole levigate dai gradini dei provveditorati (li chiamo
ancora così, altro che sovrintendenze).
I titoli, bisogna avere i titoli.
Quindi mi presento con due dati due: ecco le mie
medaglie.
Precario della scuola dal 1988. Non un giorno o due,
vent’anni… vent’anni scavalcati da poco. Vincitore di concorsi nazionali, regionali, dipartimentali, riservati e non.
Abilitato sia sul campo che grazie a un esame più simile al
gioco del lotto che a una verifica culturale.
Dall’88, per dirvela tutta, ho insegnato nella scuola
pubblica e in quella privata. A nord (Milano) e a sud
(Ginosa – provincia di Taranto – e Taranto). Ho insegna7
to in scuole legalmente riconosciute e non riconosciute. Ai
serali, ai diurni, nei corsi per adulti, nei corsi ordinari, in
quelli per vigilatrici di infanzia e per infermiere professionali.
Insegno tuttora, si può controllare. Non parlo da una
poltrona bulinata dei miei ricordi, no, signori miei, è roba
talmente recente che appena finisco ’sta pagina mi vesto e
vado in classe. Da precario ovviamente.
Ho insegnato nelle più disparate tipologie di scuola: Itis
(gli industriali coi ragazzi che filmano le bravate in classe),
Itc (istituti tecnici da competizione come ad esempio quelli per ragionieri), Itg (dove i geometri in erba non amano
il diritto), Ipc (i famigerati professionali di tutti i livelli…
ad alto impatto ambientale), i Pacle (cioè le scuole per corrispondenti in lingua estera soffocate dalle sperimentazioni), i Turistici (dove il cuoco è Gesù Cristo e il prof di italiano una caccola), i licei scientifici sperimentali (dove ce la
si tira un po’ e dove il precario è tale mille volte di più), gli
ex magistrali (che adesso hanno nomi improponibili della
serie licei socio-pedagogici e via dicendo), licei artistici
(dove l’arte è bella a vedersi ma poi a te di diritto ti fanno
un orario di merda), monoenni propedeutici (che non vi
sto a spiegare perché nemmeno quelli che mi hanno dato
la nomina, senza pagarmi, a tutt’oggi, a distanza di un
anno, hanno saputo spiegarmi di che si tratta). Mi mancano gli agrari e i licei classici e faccio tombola.
Ecco le mie medaglie.
E rilancio, sul piatto, con 46 anni di età, una laurea in
giurisprudenza acciuffata a 24 anni, venti scuole cambiate
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in vent’anni, moglie e due figli a carico e fedina penale
ancora immacolata.
Ecco chi dovrebbe parlare della scuola. Ecco chi dovrebbe parlare dei precari. E invece che mi tocca sentire? Le
parole di politici da operetta oppure le storie scritte da
gente che è stata nella scuola mille anni fa o che ha assaggiato una settimana di precariato e, guardando negli occhi
l’orrendo mostro, si è imbucato in una cuccia sicura buttando giù qualche paginetta di rovinose memorie.
Mostratemi i vostri vessilli e potremo cominciare a parlare. Senza tema di smentite. Cosimo Argentina, partita di
spesa del tesoro numero 1638/63, contratto a tempo determinato che mi scade il 30 giugno. E questo da vent’anni!
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Capitolo uno
Si fa presto a dire precario
Parlare di precari è una falsità.
È come parlare dell’inguine degli angeli. Come parlare
del latte in polvere. Ci sono centinaia di tipologie e sottomarche, diramazioni e distinguo… il precario non esiste.
Esistono i precari a mille euro al mese per otto, nove o
dieci mesi all’anno, i precari da due stagioni e poi dentro,
calcio nel culo indeterminato, i precari da trentamila euro
l’anno e quelli da trentamila al mese. A esser precisi anche
i grandi manager sono precari. I capitani d’industria.
Cesare Romiti vi dirà che nella sua vita non ha mai avuto
la certezza di un posto inamovibile… per lui parlavano le
cifre.
Nessuno ha mai ammesso che in un anno un precario di
lusso, un open space, riesce a mettere talmente tanto grasso in dispensa da essere a posto per parecchi luuunghi
inverni. Questo non si dice, no, non aiuterebbe il lamento. Ma il precario vero, quello di origine controllata, è il
gottoso mezz’acciaccato che coi soldi del mensile si trascina per trenta giorni e poi si vedrà…
Nella scuola il precario è un insegnante che ha tutte le
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incombenze del collega di ruolo ma quando firma il foglio
presenze si ritrova in un elenco a parte.
“Ah, sei precario? Cristo, mi dispiace!”
Eh! Come no! Mors tua vita mea…
Un precario deve dimostrare che gode di sana e robusta
costituzione con un certificato medico a settanta euro e
deve presentarsi un giorno X presso il provveditorato o le
cosiddette scuole polo per arraffare una nomina.
Siete mai stati in provveditorato il giorno delle nomine?
No? Andateci.
Vedrete noi… una marea grigia che cerca la dignità in
una giacchetta upim o in un tailleur dai cinesi e che arriva
due ore prima che gli impiegati decidano di aprire i cancelli e fare l’appello. E, a proposito… gli impiegati ci disprezzano. Se potessero ci sputerebbero in faccia perché noi
siamo dei perdenti di trenta, quaranta, cinquanta e sessant’anni che permettono a loro, perdenti di serie C1, di
potersi segnare il petto e… “madonna mia, ci sta di peggio!”.
Il giorno fissato per le nomine non lo sai fino all’ultimo
momento perciò, anche se vinci una vacanza coi punti
della Galbani, rassegnati: il giorno fatidico potrebbe essere
il 20 luglio o il 20 agosto e allora a quel punto neanche una
delega ti metterebbe al sicuro.
Insomma sei lì, fa caldo, fa freddo (ci sono stati anni in
cui la nomina l’ho avuta a gennaio) o fa quel che volete,
ma tu sei lì e, in attesa della nomina, discuti con i tuoi consimili.
Giuro che sono vent’anni che ascolto gli stessi discorsi.
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Provo orrore per i momenti che precedono la nomina
sicché il foglio col timbro diventa una liberazione dalla
ciurma depressa. Ci desquamiamo gli uni sugli altri… ci
aggrappiamo ai vestiti di chi ci è davanti in graduatoria per
capire che sede sceglierà… e poi, soprattutto, ci poniamo
gli uni gli altri sempre le solite grandi domande: dici che
immettono in ruolo, quest’anno? Secondo te sbloccano le
assunzioni? Quei figli di puttana dei riservisti ci toglieranno un posto?
Mortificazione e scoramento giocano ai dadi sui nostri
pezzi di carta. Lauree gettate nei bidoni della spazzatura, di
questo si tratta. Donne calve e uomini ormai sintonizzati
su un esaurimento nervoso di lungo corso entrano nel
recinto alle grida e attendono la loro sorte.
“Dio santo, Argentì… è sparita una cattedra!”
E già, perché le cattedre a luglio e ad agosto spariscono.
Spariscono sul serio per poi ricomparire a settembre/ottobre. Nulla di strano, si tratta di un vecchio gioco di prestigio dei presidi e dei compagnucci di merenda.
In pratica capita che qualche dirigente voglia favorire il
professor X o il dottor Y e allora imbosca una cattedra
dichiarando che non è sicuro di poterla formare e poi,
quando i legittimi sfigati hanno scelto sedi ai confini
dell’Arizona, chiamano il provveditorato e tirano fuori dal
cilindro nove ore più nove e il gioco è fatto.
Ma ad essere sinceri noi siamo i primi profanatori della
graduatoria. Noi, i precari annuali al 30 giugno, nascondiamo le cattedre che desideriamo per evitare che quello
che ci precede se la pappi. Siamo illusionisti. Storniamo
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l’attenzione. Spostiamo l’opinione pubblica. Creiamo falsi
scopi e seminiamo l’ambiente di notizie false e tendenziose… “la preside di Besana Brianza odia i meridionali!”…
“il preside di Mariano Comense convoca una riunione al
giorno!!!”… “gli alunni di Cinisello si mangiano i precari!”…
Il popolo dei nominandi ora dopo ora si gonfia, s’impuzzolisce, arriva alla frutta e dopo una mattinata di attesa vana comincia a schiumare.
Il novanta per cento di noi ha le orecchie infiammate
perché ha trascorso due ore al telefonino con le varie scuole per accertarsi che le cattedre nascoste siano lì, sotto uno
strato di foglie bollate. Parlano sottovoce per non farsi
ascoltare dai colleghi, ’sti 007 dell’indocenza, e si infilano i
cancri nel cervello. Lo fanno premendosi in modo compulsivo contro le tempie cellulari senza schermatura, quelli rimediati da ElettroJack a venti euro il pezzo.
“Tu cosa prendi, Argentì?”
“Mah… non saprei!”
Mai avere dubbi. I colleghi ti indirizzano condizionandoti come un capo bastone coi soldati. “Tu abiti da quelle
parti… prenditi a Meda… si sta bene, ascolta a me”.
Sappiamo tutto di tutti. Conosciamo le abitazioni di
ognuno… i figli, le mogli a carico, le amanti, le lauree e i
corsi di specializzazione fatti. Quando uno scala la graduatoria si sente in difetto. Magari ha comprato uno di quei
corsi on-line che ti permettono, spendendo dei quattrini,
di racimolare tre punti e scavalcare uno che ti sta davanti
da quindici anni, forse venti. E tu lo guardi… “Cristo,
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Francè, me l’hai messa in quel posto ’st’anno, ah?!”
“Argentì! Ho 54 anni. Devo entrare di ruolo!”
Alla fine, quando ti siedi per la scelta, hai in testa una
confusione totale e poi sulla schiena ti stanno appollaiati
gli avvoltoi che bramano le tue ore, il tuo completamento
cattedra, le tue briciole orarie… e tutto quello che ti scivola per terra se lo pappano i vampiri montessoriani facendo
anche la scarpetta col sugo della pubblica istruzione.
“Oggi hanno convocato dal numero 1 al numero 100!”
“Ah, bene, io sono il 13… e tu?”
“Il 287!”
Molti vengono a vuoto. Arrivano e cominciano a fare
calcoli e a lamentarsi perché a loro la convocazione non
arriverà mai. Ti chiedono i punti. Ti sottopongono a screeming per capire qual è il modo più onorevole per farti
fuori e passare dal 500esimo posto al 499esimo. Pregano
che ti venga un colpo. Un incidente stradale. Un blocco
sulla statale 106. Un uragano… Gesù che ti impone di
abbandonare la via della perdizione scolastica e darti
all’ascetismo…
Ecco chi sono i precari della scuola. Pressione arteriosa
a mille, tutti. La sistolica alle stelle e la diastolica sulla luna:
di questo si tratta.
E poi arriva il momento in cui ci si presenta in sede.
Hai scelto Cusano Milanino? Bene, ti metti su un treno
delle Nord e poi scavigli verso la segreteria e lì compili un
chilo di moduli ripetendo alla paranoia il tuo codice fiscale fino a che non lo sbagli per troppa sicurezza. Poi la presentazione col dirigente scolastico (guai a chiamarli presidi
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che alcuni la prendono male).
“Lei è sulla professoressa Deflangre?”
“Non so!” penso che se è carina magari starle addosso
non dovrebbe essere male.
“Sì… le assegno la cattedra della professoressa… cinque
classi. Le peggiori, sa… hanno avuto solo precari, negli
ultimi tre anni!”
La sala docenti è la prova successiva. Il cassetto coi registri, la postazione internet per le scuole che hanno un simile lusso, il raccoglitore delle circolari: su tutto domina uno
strisciante nonnismo.
Un precario che passa di ruolo da un giorno all’altro
comincia subito col dire “voi dovete alzare la voce!” VOI.
Il ruolo è una conquista sociale che il poveretto ha agognato per anni e adesso che è salito sul carro giusto guarda
quelli che corrono a piedi nudi e dice VOI… voi sfigati,
voi pezzenti, voi fottuti della terra, mentre io ce l’ho fatta.
Sono dentro appena in tempo e ho fottuto pure la Gelmini
che altrimenti mi spazzava via senza né leggere né scrivere.
Ecco il precariato scolastico… potrei dirvi molto
altro… potrei dirvi che il sussidio di disoccupazione prevede altre questue, altri moduli, altri codici fiscali; potrei
dirvi che se uno inizia a lavorare a settembre cosa pretende? Di avere lo stipendio a ottobre? L’accredito latita. Le
segreterie sbuffano. Si va in processione all’ufficio del tesoro ma lì si trovano code bibliche e impiegati esasperati –
magari precari pure loro.
Potrei dirvi che dopo vent’anni di lavoro la mia anzianità è zero. ZERO. 0.
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Se la voglio buttare sul patetico ho anche visto colleghi
con le mani in faccia e le lacrime che io la mettevo sul ridere ma loro avevano il mutuo come una scimmia cannibale
a mettergli paura.
Potrei dirvi che ogni volta che si rinnova la domanda in
provveditorato per l’inserimento o aggiornamento delle
graduatorie nasce un problema, un errore. Fascicoli smarriti; certificati abracadabrizzati… solleciti finiti nelle cloache dei provveditorati kafkiani.
Ma perché ne parlo? Tanto i precari sono destinati a
essere spazzati via, no? È solo questione di tempo, ci raccontano gli esperti.
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Capitolo due
Collegi docenti? No, grazie
Ne ho viste di tutti i colori, in vent’anni. Ne scriverò, ne
potrei scrivere per almeno altri venti. Controllare per credere: ecco le scuole in cui ho incrociato i guantoni con la
dolce marmaglia:
Nuova Europa di Ginosa
Carducci di Taranto
PACLE di Limbiate
Versari di Cesano Maderno
Primo Levi di Seregno
Itis Da Vinci di Carate
Pacle Parco Nord Cinisello Balsamo
Olivetti Monza
Falck Sesto San Giovanni
Itis Fermi di Desio
Itc Martino Bassi di Seregno
Liceo magistrale Rebora di Rho
liceo scientifico Cavalleri Parabiago
Itc Gandhi di Besana Brianza
Itis Maiorana di Cesano Maderno
Magistrale Parini di Seregno
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Isa di Giussano
Itc Gadda di Paderno Dugnano
Anna Frank di Meda
Ipc Milani di Meda
Quanti POF, puf e patapaf mi sono sorbito e a quanti inizi
non ha fatto seguito nulla. Forse è la vita! Ma nel lavoro
con la dolce marmaglia c’è un intarsio, una procedura che
differisce e di molto da quella che si applica alla costruzione di cuscinetti a sfera e casse da morto.
Ma fosse solo il rapporto con la dolce marmaglia la questione ci potremmo anche star dentro. Il fatto è che nella
scuola c’è tutto un mondo intorno a quei 50 minuti di
lezione che colma la misura nove volte su dieci.
Prendo ad esempio il Collegio docenti, un luogo fisico
dove tra un giornale sfogliato e un’occhiata alle gambe
della collega il popolo dei pagellizzanti prende le decisioni
collegiali più importanti. Un luogo che poi è l’organo che
incarna la scuola. Se non da un punto di vista economico
– quello è il Consiglio d’istituto – almeno da un punto di
vista organizzativo.
Come un marinaio che ha visto molti porti, io mi pregio di aver partecipato a questa mattanza culturale che è il
collegio docenti nelle più disparate condizioni ambientali.
A volte si è trattato di una buffonata… altre di una perdita di tempo con le signore in ansia per il tassametro della
baby sitter… altre volte si è arrivati allo scontro armato,
più spesso a quello verbale. Ombrelli che volano. Insulti.
“Mi hai derubato della mia funzione obiettivo!” che tra18
dotto significa volevo imboscarmi mille euro e invece me
li hai fregati tu! Frequente è il caso dei soliloqui non richiesti.
In ogni collegio docenti poi, a qualunque latitudine, ho
t rovato sempre un paio di oratori innamorati della propria
voce. Pistolotti mica da ridere. Retorica dell’ i n s e g n a m e nto, digressioni onanistiche… catechizzazione di un uditorio sintonizzato sui compiti da corre g g e re e gli sms a cui
r i s p o n d e re. Questi predicatori arano il deserto e si guard ano intorno compiaciuti perché, sospetto, ottengono da
noi la stessa reazione che hanno in classe con la dolce marmaglia.
Alla fine, quando la riunione di questi cento o duecento individui è allo sbando e nessuno sa più dove si trova e
cosa deve fare e i primi vitelli cominciano a spingere contro lo steccato per aprirsi un varco, il dirigente scolastico
pronuncia la fatidica frase che rimette le cose a posto e
porta tutti all’attenzione di un miniaturista del cinquecento: “Allora aggiorniamo il collegio a domani!”
Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaah!!!
Ciocche di capelli strappate, svenimenti, “approvo,
approvo tutto”, si firmano anche cambiali in bianco pur di
non doversi ritrovare tutti lì appassionatamente l’indomani.
E come in tutti i parlamenti che si rispettano, le decisioni importanti vengono prese al volo, là, in quello spazio
che dura cinque minuti coi ritardatari che cercano il foglio
firme, i cappotti già in groppa e i cellulari riaccesi e controllati con dita frenetiche.
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In tanti anni di collegi ne ho viste, altro che, da riempire due tomi e passa.
Lotte intestine… politiche… ideologiche, ma soprattutto di pagnotta.
Per ogni questione poi nasce una votazione. In un magistrale un anno si rese necessario capire come votare per
assegnare alcune funzioni che davano soldi agli interessati.
“Voto segreto!”
“Alleluia!”
Ma quale maggioranza? Questo il dilemma.
Maggioranza qualificata? Assoluta? Semplice? Unanimità?
“Umanità, preside… voglio l’umanità!”
Il preside decise di votare a maggioranza assoluta: il cinquanta per cento più uno degli aventi diritto.
“E perché? Dobbiamo decidere tutti come si deve votare!” dai pagellizzanti.
“E come si fa?”
“Votiamo!”
“E come votiamo?”
Insomma alla fine si votò per capire che maggioranza
adottare per il voto che avrebbe determinato la maggioranza con cui avremmo votato le funzioni in oggetto: un grandguignol. Azzeccagarbugliamenti. Sofismi… il pagliaccesco che sconfina nel delirio.
I precari invece nei collegi docenti sono come le guardie
che montano il turno nelle caserme. Sono al di sopra di
tutto. Hanno molta più dignità degli stanziali. Questa
forza interiore gli viene dalla consapevolezza che del malloppo loro non beccheranno neanche in cicinino. Zero.
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Figuriamoci se gli ultimi arrivati hanno dei diritti in tal
senso? Zitti e muti, al massimo faranno i segretari dei coordinatori di classe e beccheranno un rimborso orario… a
esagerare! Per il resto noi precari possiamo ambire a fare da
spettatori alle bagarre collegiali, alle vendette servite fredde, calde o intiepidite, ai muri presidenza contro RSU,
ciellini contro progressisti, felliniani contro maccartisti e
chi più ne ha più ne metta.
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Capitolo tre
Stipendi da fame? Diciamo che dimentichiamo il colore del l’aragosta
Molti mi dicono che gli insegnanti non fanno un bel nulla
e che quello che prendono è fin troppo. I primi che la pensano così sono gli alunni. Le famiglie a casa bombardano a
tappeto. Già me li immagino, all’ora di cena, la famiglia
riunita e il padre che chiede “a scuola?”. E la figlia “non
sono andata perché c’era un’uscita didattica e io che sono
ripetente già ci sono andata, lì!”.
“Ostia!” grugna il padre “io mi spacco il culo dalla mattina alla sera per duemila euro e quelli lì non fanno un
cazzo!”
Io come insegnante precario con moglie e due figli a
carico – 52 euro di detrazione per un figlio, gente! come se
in un mese potessi mantenere Francesco o Milena con una
somma del genere – guadagno 1.847,00 euro lordi che al
netto diventano 1.400,00… ripeto per chi ha gli occhi
distratti: con moglie e due figli minorenni di cui una sotto
i tre anni a carico. Un paio di anni fa sono andato in trasferta – gita di istruzione – in Francia e ho avuto un rimborso di 49,00 euro, al che volevo dire alla segreteria
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amministrativa di farsi un paio di birre alla mia salute.
Trasparenza.
Tutti si lamentano ma poi nessuno piazza le cifre sul
bancone. Se dobbiamo parlare facciamolo con quattro
numeri in mano.
Durante uno scambio con una scuola inglese abbiamo
domandato ai nostri colleghi come sono messi e loro sono
messi meglio di noi per via di scuole adeguate, uffici a
disposizione, computer, possibilità di trovare un benedetto
codice civile senza doverlo portare da casa, eccetera eccetera… non voglio addentrarmi in questo dilemma comparativo ché ogni giorno giornali, web e televisioni ospitano
parrucconi che snocciolano dati… siamo gli ultimi in
Europa, i terz’ultimi nell’Unione Europea, siamo di qui e
siamo di qua. Molti colleghi hanno il doppio lavoro. Lo
fanno per starci dentro. Lo fanno perché ci sono posti in
Italia dove i pomodori li paghi cinque euro lo scatolino e
la benzina, beh, lo sapete, no? costa da boutique – anche
perché dobbiamo pur mantenere Mourinho – e se ci
aggiungete gli annessi e i connessi si sballa, perciò gli insegnanti di educazione fisica curano i corsi per anziani a cui
fanno focalizzare il girovita e quelli di matematica e inglese cercano orfani della sufficienza per trascinarli in casa e
propinargli un tot di esercizi da liquidare in sessanta minuti a quaranta euro in nero. E poi si cerca di arrotondare con
Help, Idei, Cip e Ciop e varie formule interne che non
aggiungono e non tolgono nulla alla comprensione della
dolce marmaglia ma fanno mettere in tasca ai prof un ottavo di mutuo a tasso variabile – maledizione – che è uno
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sputo su una montagna ma comunque contribuisce a rendere umido l’ambiente.
I precari però, se proprio vogliamo fare una chiacchierata sui soldi che si sforchettano, spesso sono prima costretti a passare da due forche caudine, un’accoppiata tipo Scilla
e Cariddi, che ve le raccomando vivamente.
Una è la SISS (o almeno lo sono state fino a oggi), finte
scuole di istruzione superiore che servono per potersi iscrivere nelle graduatorie. Cosa sono? Be’, qui sbraco ma tanto
tutti lo sanno. Pagliacciate! Si dà la possibilità alle università di fare cassa e a un numero imprecisato di docenti di
fascia extra lusso di tenere corsi pagati e strapagati mentre
i precari, consapevoli che si stanno comprando l’abilitazione, saldano il pizzo in silenzio e preparano logorroiche
dispense, ricerche, dettati, copiati e balle varie dissanguandosi su internet alla ricerca del vocabolo perduto.
Il secondo mostro, il secondo cerbero istituzionalizzato… ministri della pubblica istruzione degli ultimi trent’anni… dove siete? è l’umiliazione di insegnare in alcune
scuole private, private di tutto, che ti privano di dignità e
stipendio.
Io ad esempio a inizio carriera napoleonesca ho lavorato in una scuola legalmente riconosciuta dove il gestore a
ottobre mi disse: “Argentì, tu hai poche ore è qui le buste
paga so’ nu picch’come Dio vuole, ce ddice?”.
“Hai ragione Peppì! Ma io metto la benzina che da qui
a casa mia so’ cinquantaquattro chilometri ad andare e
cinquantaquattro a tornare”.
Fatto sta che il gestore della scuola mi disse che era più
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dignitoso prendere uno stipendio alla fine del primo quadrimestre e uno alla fine del secondo: e così facemmo.
Voi mi direte: è una libera scelta, e poi lo facevate per il
punteggio. Infatti le scuole private parificate, legalmente
riconosciute, davano punteggio che poi uno poteva giocarsi nelle graduatorie pubbliche. Un garbato ricatto. Tu lavori gratis e io ti do 12 punti in un anno e siamo tutti contenti e felici. Tu non fai il rompiscatole, che i ragazzi li
dobbiamo promuovere se no vanno dalla concorrenza e
prima o poi entrerai di ruolo anche grazie a me. Questo è
l’andazzo. Sì, avete ragione voi, uno scambio tra adulti.
Ma a volte la faccenda si complica e alcuni di noi sono
stati costretti a fare il giro largo, il giro dalle scuole private
non riconosciute.
Un giro dell’oca dove la casella prigione salta sempre
fuori e dove sia che hai la candela sia che hai il fiaschetto
sempre in quel posto ti finisce. In pratica il ragionamento
è questo: io entro in una scuola non parificata, lavoro, mi
faccio conoscere, poi il gestore, che spesso è titolare di
scuole non riconosciute e scuole riconosciute dallo Stato,
mi passa a quelle parificate. Così metto in saccoccia dodici punti e poi lo mando a quel paese e me ne vado a
Milano o a Varese o a Cuneo o dove diavolo credo e mi
infilo nella graduatoria permanente. Solo che i gonzi precari fanno i conti senza l’oste. E l’oste, signori miei, è un
omone cedevole alle sirene dell’intrallazzo; perciò quello
che succede è che il babbo precario che ha accettato la
scuola non parificata soffoca lì nella muffa non riconosciuta e nelle sedi parificate invece, quando si libera un posto
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come in un reparto di malati terminali, arriva la figlia dall’assessore tizio o il figlio del tal preside o commissario del
ministero.
DioMio se ne ho viste di scuole non riconosciute spezzare le gambe a figli della pubblica istruzione convinti di
aver superato il primo gradino!
“Argentì, è fatta! Due anni qua, poi due anni nella sede
principale e a trent’anni sono nelle graduatorie… speriamo!”
E poi? Per paradosso a fine carriera la gente torna nelle
scuole non parificate. Ci sono vecchi presidi che diventano
nominali in queste scuole… vecchi insegnanti che arrotondano beccandosi qualche ora… fai trigonometria in quarta e pedalare… alcuni colleghi che vanno in panne e si
fanno il giro delle sette scuole col berretto in mano a chiedere un’ora, due ore, “che poi, Argentì, tra una supplenza
e una sostituzione esce lo stipendiuccio!”. E altri che aspettano una chiamata e intanto vanno a scaricare la frutta sul
retro dell’Ipercoop.
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Capitolo quattro
Meritocrazia… meritoche?
Maristella Gelmini, Ministro dell’Istruzione ha spinto
molto, direi troppo sulla storiella della meritocrazia.
Troppi soldi a occhio, meglio dare soldi non a pioggia
(quando mai!!!) ma a chi se li merita e a chi lavora bene e
produce.
Su questo punto il carnevale della politica ha sollevato i
suoi drappi più di una volta. Come nella tradizione circense ci si aspetta a un certo punto il numero col trapezio, così
nella politica c’è sempre qualcuno che ci dice che bisogna
premiare i bravi, gli operosi e sodomizzare gli altri. E di per
sé la questione è ineccepibile. Trovatemi un balordo che
affermi la volontà di dare soldi agli scarsi e calci nei fondelli ai fedeli alla bandiera. Non esiste.
ONORE AL MERITO. Dunque.
Questo vale solo per i defunti. Una medaglia alla
memoria. Per i vivi bisogna guardare la realtà. Il sottoscritto che, ripeto, è entrato e sgusciato fuori da un paio di
decine di scuole ha visto cosa succede sui fondi da destinare agli incentivi. Corsi, funzioni, progetti… gli amici, i
compari, i limitrofi alla presidenza, gli spericolati, i rompi27
coglioni: a loro un paio di fette a testa.
È matematico. Se abbiamo dieci patate e siamo in dieci
e il primo prende quattro patate e il secondo prende cinque patate, agli altri cosa resta?
Chi decide chi sono i bravi?
La parola magica in questi casi, soprattutto in Italia è
sempre la stessa: una commissione. Le commissioni…
commissioni di robot programmati per uccidere? No,
saranno i soliti noti che decideranno in base a principi
inappuntabili ma che ci si appunterà agli attributi quando
si capirà come volge il vento.
Soluzioni?
Eh no, signori miei, non ne ho.
Ma smascheriamo la faccenda della meritocrazia. Chi
decide cosa?
Gli studenti?
La dolce marmaglia rischierebbe di preferire i brillanti,
i prof di carisma e tutti gli sfigati super preparati ma che
non si cambiano la camicia se non alle feste comandate
sarebbero fatti a pezzi.
Il preside o dirigente scolastico che dir si voglia?
Troppo distante dall’aula… nella sua torre d’avorio ha
una percezione filtrata di come vanno le cose.
I colleghi più anziani?
Scelta peggiore… siamo uomini, né santi né dei…
uomini, perciò suscettibili di ripicche, invidie, vota a me
che voto a te e balle varie.
Esterni?
Tombola. Ma li devi pagare, così invece di restringere il
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cerchio, fai stringere la cinghia a tutti aumentando i soggetti subordinati. Ecco perché la vedo nera. Ci vorrebbe un
briciolo di onestà, bisognerebbe essere scafati e capire che
far funzionar le cose serve alle cose stesse ma anche alle
persone che si abbeverano allo stagno… ma tanto son
parole, no?
È dunque un falso problema che però ne risolve uno
bello grosso. Dire “daremo i soldi ai meritevoli” va tradotto con un “per adesso li togliamo a chicchessia e poi vediamo di studiare un metodo equo per tutelare la meritocrazia”… questo il messaggio.
Meritocrazia! Mi viene in mente il caso di quei chirurghi che asportavano un rene per far cassetta. E quelli risultavano sì i migliori, i meritevoli di un bonus-rene. O il
caso della televisione italiana, dove la meritocrazia dei programmi si confonde con l’audience, così le trasmissioni
pur di soddisfare l’auditel mettono in scena trivialità e truculenza. Vince chi fa ascolto, non chi fa qualità. È così che
volete allora la scuola?
Prendiamo il caso dell’università: già dovrebbe essere operativo un sistema di questo tipo eppure conta più un bel
cognome lustro e ottonato che dieci pubblicazioni scientifiche sulla rivista tal dei tali.
Meritocrazia… a volte non siamo in grado di dare i voti
alla dolce marmaglia e sì che ce li abbiamo davanti ogni
santo giorno, e ci crediamo in grado di poter dare i voti a
chi parla di Cartesio, Beccaria (tanto Giulia quanto
Cesare), di logaritmi e sistema arterioso? In realtà l’imbro29
glio regna sovrano e i padroni del vapore cercano solo il
sistema per rendere legittimo l’imbroglio, solo questo,
signori miei, solo questo è nulla più.
Del resto la categoria degli insegnanti, precari e non,
non è tutta sta gran cosa. Ammetterlo è doloroso visto che
chi scrive ci sta dentro fino al collo, ma è così. Negli anni
abbiamo accettato di tutto. Portatori di un peccato originale, “non facciamo niente di niente”, abbiamo rognato
dentro e accettato fuori ogni colpo di cannone sparato
contro la carretta scuola. Bombardate, bombardate, tanto
la ciurma è in silenzio stampa.
Potrei tirar fuori mille esempi. Ci pagate tardi? “Ma
tanto prima o poi arrivano, i soldi”… non adeguate gli stipendi al costo della vita? “Ma tanto mio marito fa l’accalappiacani e guadagna per tutt’e due!” la tua professionalità (?) non viene riconosciuta? “Ma si sa che è così da sempre, non ci faccio più caso”. Ma queste sarebbero già delle
risposte. In molte circostanze la categoria ha sollevato un
lecchinoso silenzio e ne ho avuto l’ennesima riprova ogni
anno della mia vita da prof.
“Ma cribbio appena venti euro in più in busta paga!”
“Meglio di un calcio nel culo, Argentì… che vuoi
fare… va così… comandano sempre loro!”
“Loro chi?”
“Loro.”
30
Capitolo cinque
Tina la generalessa di tutte le bidelle
Dom: ehi Tina, ma da quanti anni lavori nella scuola, tu?
Tina: eh, professò… sono arrivata a Milano nel ’73, prima
ho lavorato in fabbrica, alla Zanussi, poi sono finita
all’Icmesa e quando è scoppiato il casino, nel ’76, sono
passata allo Stato. E da lì le ho girate tutte, le scuole…
medie, elementari, superiori, serali, diurne… tutte va’!
Dom: e qui come ti trovi?
Tina: bene professò, io mi trovo bene da tutte le parti. Mi
faccio i fatti miei e non voglio sapere niente di niente. Mo
me ne vado in pensione e torno al paese mio ché mio marito c’ha il desiderio di morire là, così ha detto.
Dom: e da dove vieni?
Tina: Gioiosa Ionica. Sono calabrese.
Dom: come la vedi questa proposta di far fare i concorsi e
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i corsi nella scuola solo ai residenti?
Tina: e vabbè… mo non si capisce più niente, professò. Io
so solo che quando sono entrata nello Stato avevo la residenza a Seveso ma sono calabrese. Perciò a che vale? Invece
di fare ’ste fesserie dovrebbero mettere a posto le scuole che
cadono a pezzi… sapete che ho lavorato in scuole che sono
tutt’un pezzo di amianto? Eternit da tutte le parti. Altro
che adeguamento!
Dom: ma a voi vi vedo sempre rilassate, Tina, sarà che siete
in parecchie e poi il lavoro ai piani non è di gran sbattimento… però, insomma… ho visto di peggio
Tina: il lavoro in fabbrica era più duro, prof, su questo non
ci sono santi… che le devo dire? Qui è buono per le donne
che tengono famiglia. Guadagnano non troppo e non
poco, tornano a casa a orari onesti e possono curare i figli.
Quando ero in fabbrica i miei figli potevo scordarmeli.
Certo che per voi lo stipendio non è tutta ’sta cosa. Voi
uomini intendo. Capo famiglia. Un bell’uomo così, che ci
fa con mille e rotti euro? Una donna va bene, ma solo se
tiene il marito che lavora bene e non si ubriaca. Un giovane pure! Ma un pezzo d’uomo com’a lei non so… mi sembra poco!
Dom: eh, come no! Ma mica va a chilogrammi, Tina! Dai,
piuttosto fammi due fotocopie.
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Tina: è finita la carta, professò… ma se andate in didattica magari ve le fanno. Qui viene quello di musica e la finisce sempre, la carta. Anche lui, quello di musica, se non
facesse altro non ce la farebbe. La moglie è sulla sedia a
rotelle, lo sapevate?
Dom: no, Tina. E cosa fa? Suona in qualche orchestra?
Tina: macché! Vende aspirapolvere e una volta è venuto
pure a casa di una mia vicina e io sono andata a vedere la
presentazione e a lui ha preso male tanto che ha acchiappato arm’e bagagli e se n’è andato.
Dom: ma tuo marito che fa?
Tina: mo sta in pensione, ma prima lavorava all’Atm, guidava i tram a Milano… sa, anche quello di Mombello, il
treno delle serve, quello che porta le cameriere dall’hinterland in centro per andare a fare i mestieri nelle case dei
sciuri.
Dom: sì, lo conosco quel tram, ho abitato proprio di fronte al deposito.
Tina: e ora? E’ ancora lì?
Dom: no, adesso abito qui, a cento metri da qui… una
casa vecchia e grande. Diciamo che stringiamo i denti. Ma
tu? Tu sei stata prima precaria nella scuola?
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Tina: sì, ma per due anni solamente. Allora ti inseguivano.
Nessuno voleva fare la bidella. Adesso ci sono liste d’attesa
lunghissime, invece prima il lavoro c’era eccome. Bastava
voler lavorare e ne trovavi talmente tanto da dover dire di
no. Ora è tosta, professò. La conosce a Mariangela, no?
Quella fa nu mese sì e tre no eppure tiene a due figli e il
marito è in cassa integrazione. Gesù quante volte viene a
piangere da me!
Dom: capisco…
Tina: il vostro lavoro non ve lo invidio proprio, i ragazzi
mo sono maleducati e non conoscono il rispetto, ma anche
il nostro lavoro è importante, sa?! Un sacco di volte la preside viene e dice Tina per piacere fai questo, o fai quest’altro e io faccio anche cose che magari potrei evitare di fare.
Ma sono qui da tanti anni e oramai mi trovo come a casa.
Tutte le circolari le affidano a me. Io passo personalmente
per le aule a far firmare i professori che siete nu poco svagati… io controllo il faldone dove si archiviano le circolari. E poi a fine anno sistemo i tre piani per gli esami.
Ormai non mi dicono più nulla. Faso tutto mi!
Dom: sì, lo so che quando i collaboratori sono in gamba
va tutto meglio anche se poi alla fine sono sempre gli stessi che si sbattono però…
Tina: è vero, professò. Ma chi deve vedere spero veda. I
fannulloni ci sono e ci saranno sempre. Scansafatica e finti
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malati li ho trovati ovunque: in fabbrica, nel privato e qua
nella scuola. Qua ci sono un po’ di più garanzie, ma quelle ci vogliono, professò, che la vita una è!
Dom: però te ne vai con una buona pensione, ah?
Tina: dipende cosa intende lei per buona, professò! Mia
figlia l’ho sposata e sistemata e adesso fa l’impiegata. Mio
figlio lavora come tappezziere. Io e mio marito abbiamo
poche esigenze… guardiamo la tivvù, giochiamo a carte
tutt’e due, da soli, e qualche volta andiamo da mia sorella
che vive con il compagno vicino a Varese… per fare questo sì, la pensione basta… ma se va all’aria solo una di queste cose è notte, professò, notte cupa!
Dom: va bene, Tina… grazie delle chiacchiere. Tra quanto
suona la campana?
Tina: cinque minuti professò, appena il tempo di andare
da Nanda a fare le fotocopie.
Dom: menchia è vero, me n’ero dimenticato.
Tina: e noi che ci stiamo a fare qua, professò? O mi sbaglio?
Dom: no, Tina, tu non ti sbagli mai.
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Capitolo sei
La dolce marmaglia
C’ha un fascino, ’sto lavoro, che nessun altro lavoro ha. Lo
paghi con l’esaurimento e con uno stipendio buono per
raccogliere i pidocchi, ma il fascino resta. Il fascino proviene in battuta da loro: dalla dolce marmaglia.
La dolce marmaglia è quest’entità fatta di occhi, bocche,
cervelli, gambe, jeans sfilacciati, chewingum all’appiccico,
magliette, voci stridule, filamentose, coniche, rumoreggianti che mi tocca omaggiare ogni giorno con il mio personale spettacolo a metà tra il demenziale e il professionale.
Capitemi!
Entro, spiego, dico cose, parlamento italiano… mah!
norma giuridica… be’… l’atto giuridico e così via. Di
fronte femmine e maschi. In tanti anni ho avuto sotto
mano le tipologie più disparate. Classi solo maschili, classi maschili con qualche infiltrata, classi solo femminili,
classi femminili con qualche infiltrato e classi miste.
Coi maschi è facile… coi maschi è sempre facile. Entri,
li minacci e al tempo stesso sorridi, mostri il tuo vessillo
calcistico e spari due battute. Li ipnotizzi il giusto e loro
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ipnotizzano te e poi via, il programma ce lo succhiamo
fino al midollo e se i risultati non sono tutta ’sta roba fa
nulla, possiamo farcela, prof… il girone di ritorno andrà
meglio.
I maschi li puoi trattare a colpi di machete didattico ma
se gli fai capire che quel machete è di gommapane e loro
un approdo lo possono trovare in qualunque momento è
fatta. Entri in classe, dai un’occhiata a Pierino, strappi coi
denti il cellophane del kit di sopravvivenza e cerchi di evitare che la classe sbielli.
Le classi di maschi dove ci sono alcune ragazze sono
comunque classi di maschi. Alle femmine tocca adeguarsi
e quindi ’ste ragazze diventano rudi e cipigliose; non
mostrano la loro femminilità e se c’è ed è spiccata cambiano sezione o cambiano scuola che forse è meglio.
Le classi di femmine con pochi maschi sono un delirio
per i maschi. Anche se i ragazzi sono invidiati da quelli
degli Itis in realtà non se la passano bene perché avere di
fronte venti ragazze non è semplice… da che mondo è
mondo.
Poi ci sono le classi miste, quelle più equilibrate, dove il
mix è buono e una sponda bilancia l’altra e anche tu viaggi a dorso di cammello e sai che il motore non cederà a
meno di sconvolgimenti.
E alla fine ci sono, come quest’anno, le classi di sole
donne! Cinque classi di sole donne ad eccezione di Oscar.
È complicato.
Hai di fronte queste ragazze, insomma, dai quindici ai
vent’anni e ti ritrovi a fronteggiare splendidi meccanismi
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mentali di una complessità impressionante. Non te la puoi
cavare dicendo eccovi l’imprenditore, l’azienda è un complesso di beni ecceter’eccetera… no, bagaj, non funziona
così. Equilibri, pause, sguardi, richiami, voti… sollecitazioni e rimproveri devono essere calibrati come se tu fossi
un alchimista con in mano un immenso piatto posto su
una bilancia atomica. Ho perso alunne per una battuta
sbagliata. Ho conquistato ragazze che non ne volevano
sapere solo perché ho avuto la fortuna di toccare la corda
giusta, il liuto sospeso della sua anima e poi l’atto amministrativo è venuto di conseguenza. Quello che devi cercare
di fargli capire è che tu sei nella loro stessa barca… che ci
credano o no i vostri destini sono legati a doppio filo. Devi
restare in bilico se vuoi che lo siano anche loro. E devi cercare di essere sincero, perché il ruolo di prof bla bla bla non
ha più senso. Non più. E allora la tua autorevolezza deriva
dall’essere vicino ma non raggiungibile. Onesto, ma non
sbracato.
E poi c’è la taratura.
A noi precari non è consentito specializzarci. Noi soldati di ventura, plebaglia da macello, prima linea del registro
dobbiamo adattarci a quello che troviamo. A maggio spiegavi legislazione sociale in un pedagogico? Bene, probabile
che a settembre ti ritrovi a dover parlare di contratti in un
aziendale. Noi non scegliamo… veniamo scelti. Noi siamo
la fanteria della scuola… baionetta innestata avanziamo
alla come viene e di volta in volta conquistiamo una collina o una radura appartenuta al nemico. E il nemico chi è?
Uno una volta mi ha detto: noi stessi. Ma è un pazzo che
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ho conosciuto in una scuola dove credevo fosse il vicepreside e invece non era che un povero precario come me, ma
non voleva che si sapesse in giro.
E allora il precario fa collimare, dicevo, quello che deve
dire con chi ha di fronte. Ogni classe una fisionomia diversa. Ogni classe un coacervo di sensibilità diverse.
La prima C è formata da una ventina di ragazzine molto
giovani e ancora aggrappate al guscio; la seconda C è una
nave in battaglia e il mio abbordaggio dev’esser quotidiano… la terza C è un fiume affascinante ma troppo vicino
all’inferno per cercare di nuotarci dentro… la quarta C
ospita quindici mine vaganti che sarebbe bello far brillare… la quinta C è un baobab sotto cui vegliano una dozzina di leonesse… E ognuno potrebbe dire la sua.
Impatto verticale, con la dolce marmaglia.
I parrucconi che ci mangiano in testa a tutti dovrebbero entrare in classe, ogni tanto. Ma non nelle classi fighette dello Iulm o di scuole esclusive per figli baciati dalla dea
bendata. Né dovrebbero farlo per dieci minuti per fare un
discorso. Dovrebbero esserci nel vero senso della parola.
Dovrebbero esserci quando in prima P mi ritrovavo
Mohamed, un ragazzo pachistano di grande educazione
ma che non parlava perché non conosceva nemmeno una
parola di italiano.
“Mohamed… hai capito l’astrattezza della norma giuridica?”
“Eh?”
“L’astrattezza?”
“Prof… no capire!”
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“Cosa?”
“Eh?”
“Cos’è che non hai capito, Mohamed?”
“Prof… sì, bene!”
Ogni giorno così. Io e lui come due deficienti che parlavano senza capirsi e il resto della classe a gridacchiarsela.
O come con Tzentzen Yang.
“Ehi, Tzen, perché non prendi il foglio della verifica?”
“Ma prof!” mi fa una compagna “Tzen non sta capendo
nemmeno che ce l’ha con lei!”
Mi fanno impazzire gli innovatori della domenica. Si
parla di aumentare il rapporto alunni docenti nel senso
che, stando a delle tabelle che io non ho mai visto e a cui
non credo, ci sono troppi insegnanti per numero di alunni. Be’, io vi dico che nella mia esperienza sul campo –
sempre quella, non frottole e numeri al buio – in molti casi
se ci fossero stati più docenti e si fossero composte prime
meno numerose forse un po’ di attenzione in più alla dolce
marmaglia saremmo riusciti a dargliela.
Stesso discorso vale per il mitico Gabriele, un alunno
paraplegico che ha voglia di venire a scuola nonostante per
lui la vita abbia riservato un giro di quelli tosti. Poca fortuna, per Gabriele, ma grande umanità, ’sto ragazzo.
Ebbene, prendersi cura di lui è difficilissimo quando hai a
che fare con altre ventidue creature. Gabriele ha bisogno di
un’attenzione continua che in parte gli viene data dal
sostegno ma che dovrebbe ricevere anche dall’insegnante
di italiano, storia e via dicendo… vabbè… dai che facciamo notte…
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Entità complesse. Le abbiamo davanti e a volte non riusciamo a far nulla e le loro esistenze sono giocate ai dadi
dai padroni del vapore.
Roberto l’anno scorso frequentava la prima. Un giorno
ha deciso di non venire più a scuola. Qualche mese dopo
si è sparato nel bagno di casa.
Ecco cosa abbiamo di fronte: universi da esplorare, ma
la sonda ci viene strappata a morsi.
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Capitolo sette
La scuola come il Titanic
Io sono entrato nel mondo della scuola nell’88 e vi garantisco che da allora è stato un lento e inesorabile peggiorare
di ciò che già non era chissà che.
Sono partito con al comando Giovanni Galloni, uno
scudocrociato per una scuola che marciava per conto suo
modello “io ti pago poco e tu resti in classe lo stretto indispensabile”… Con Sergio Mattarella ho sguazzato nelle
scuole legalmente riconosciute dove, come ho scritto,
l’alunno-cliente andava omaggiato, salameleccato e soprattutto promosso. “Argentì, quanto c’ha Cianciotta?” “
Quattr’e mezzo, Peppe!” “E mettigli sette che il ragazzo
c’ha buona volontà!”
I sei si saltavano a piè pari. Si parlava del diritto al successo e noi, annuali con le suole della pedata nel sedere già
ad affiorare, ingoiavamo a vuoto e modificavamo i voti.
Poi sono passato allo Stato… stato di grazia? Macché!
Stato Italiano… Pubblica Istruzione, con a capo in successione Ge r a rdo Bianco, Riccardo Misasi, Rosa Ru s s o
Iervolino, Francesco D’Onofrio, Giancarlo Lombardi,
Luigi Berlinguer, Tullio De Mauro, Letizia Moratti che
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s’acchiappò anche l’università e Giuseppe Fioroni fino a
pochi mesi fa. Chi getterei dalla torre e chi salverei?
Una mattanza, questo verrebbe fuori. La logica che ha
sotteso le scelte è stata sempre la stessa: soldi nisba, tagli
necessari… tagli dove? Scuola.
Il resto è chiacchiere. Forse che i conquistadores spagnoli in Perù e nel resto dell’America Latina dichiaravano
“siamo qui per fregarvi l’oro”? Certo che no. I corteziani
dichiaravano il loro amore per la civiltà e per il regno di
Cristo e allora quegli indigeni ignoranti e pagani andavano educati, aiutati a comprendere la civiltà e battezzati.
Uguale qui. Mica possono dirci ehi, belli miei, i soldi servono e qui rompiamo meno le palle che in altri settori: rassegnatevi. No, si parla di razionalizzazione – e in alcuni
casi a ragione anche – si parla di redistribuzione delle risorse e di modernizzazione della scuola. Però!
Ogni governo, ogni ministro e ogni sottosegretario ha
dato una spallata al giocattolo.
Ai primi anni novanta eliminarono gli stipendi estivi
per il novanta per cento dei precari. Razionalizzazione,
signori, razionalizzazione. E noi? Ci guardammo tutti in
faccia come a dire per due mesi ci toccherà andare in letargo, anche se i mesi di luglio e agosto sono i meno adatti
alla bisogna. Dopodiché fu un valzer di cattive notizie…
feste natalizie non pagate, accrediti ritardati, scatti di
anzianità non riconosciuti e chi più ne ha più ne metta.
E i doveri? Quelli sono andati aumentando in barba al
principio della contrattazione. Il diritto di sciopero per i
pubblici dipendenti ha subito delle restrizioni. Le rivendi43
cazioni da astensione di un’ora hanno fatto scoppiare in
crasse risate il sistema e anno dopo anno i sindacati hanno
perso consenso se mai l’hanno avuto, nel mondo della
scuola. Già, i sindacati.
Nell’iceberg i sindacati della scuola hanno un ruolo
bello potente. Ho assistito a centinaia di assemblee con
rappresentanti sindacali imbarazzati che cercavano vie di
scampo dalle domande della plebe in-docente. Ho assistito a tradimenti di sangue, quando i rappresentanti sindacali venivano a tenerci buoni mentre i loro emissari firmavano contratti collettivi dove ci consegnavano al nemico
direttamente nella padella imburrata. Sempre veloci nell’organizzare scioperi, i sindacati, ma il sottoscritto si è
visto scavalcare negli anni da una corte dei miracoli fatta di
riservisti senza riserva, maestri elementari finiti nella mia
classe di concorso, abilitati nel sostegno che poi hanno scavalcato la staccionata, titoli saltati fuori dal cilindro e poi
istituzionalizzati grazie ad accordi e leggi quadro… di tutto
e di più. I sindacati della scuola non hanno mai ricevuto
bulloni dagli in-docenti e questo li ha tranquillizzati, placati, imbolsiti… le nostre giacchette di vecchio terital non
fanno paura a nessuno e non abbiamo neanche gli spargiletame dei cobas del latte. I sindacalisti questo lo sanno.
Sanno che siamo un popolo di topi bagnati dalla pioggia.
Sanno che difendiamo quei quattro centesimi perché
siamo terrorizzati dalle alternative e allora ci vanno giù
pesanti. Ad alzo zero. Traditi e razziati. Gli aumenti in
busta? Ma non rompete il santissimo che quello che vi
danno vi permette pure di andare al mare a Taranto a respi44
rare polonio e diossina!
Hanno ceduto su tutto, i sindacati, salvo poi venire a
chiederci i soldi per il fondo pensioni come se un precario
potesse pensare minimamente alla pensione. Noi non
siamo in grado di riflettere lucidamente sul settembre
prossimo, figurarsi se possiamo ipotizzare i prossimi vent’anni.
Infine i sindacati hanno messo in piedi un carosello che
ha intasando il sistema consegnando ai futuri tagliatori di
teste l’alibi che le cose non funzionano perché c’è un casino immane ovunque. Permettere, ad esempio, attraverso
una SISS di accedere alla graduatoria degli A019 di diritto
e piazzarsi al 500esimo posto quando i primi cinquanta
non sanno se lavoreranno è da codice penale. Vuol dire alimentare i sogni sapendo in partenza che da lì a breve
diventeranno incubi.
Quanto alla punta dell’iceberg… non lo so… ricordo il
suo esordio contro gli insegnanti meridionali e il sistema
scuola nel Meridione e poi viene fuori che lei, Maristella,
l’abilitazione alla professione, pur essendo di Brescia, se l’è
presa a Reggio Calabria… non so… i suoi ricordi di scuola terminano alla fine del liceo perciò mi sembra un po’ che
sia stata buttata allo sbaraglio, ma non preoccupatevi,
come i suoi predecessori farà i suoi bravi danni e magari in
alcune occasioni ci azzeccherà… certo che farlo senza
ascoltare la dolce marmaglia e gli in-docenti – almeno la
sorella maestra – non mi sembra il modo migliore per
cavalcare la tigre.
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Capitolo otto
La Gelmini raccontata alla classe
In terza C mi chiedono cos’è ’sto decreto Ge l m i n i .
Qualcuno mi chiede la differenza tra un decreto legge e
uno legislativo.
“Ehi, lo avete fatto in prima!”
“Ma non ce lo ricordiamo!”
“Va bene, repetita iuvant!”
Qualcuno mi dice che qui siamo in Brianza, che in classe di politica non si parla.
“Sono d’accordo. Perciò vediamo di accennare solo alla
parte normativa e lasciamo la parte politica a quelli che
hanno tempo da perdere!”
“Sì, prof. Ma la Gelmini di che partito è?”
“Niente politica, abbiamo detto!”
“Prof!”
“Eh?”
“Posso andare in bagno?”
“Vai.”
Le guardo. La dolce marmaglia di terza consta di due
fazioni che a volte si mescolano più per necessità che per
virtù.
46
“Allora… inizio con le probabili novità per voi delle
superiori. L’anno prossimo dovrebbe esserci una riduzione
del monte ore…”
“Allora usciamo prima!”
“Non voi… credo che si comincerà con le prime e poi
pian piano a regime… ehi, Doris, lascia perdere quell’affare e cerca di stare attenta! Dicevo… un’altra novità sarà
quella delle classi di concorso che verranno accorpate e
allora io che sono un A019 potrei essere unito agli A017
come la professoressa Gaviraghi che insegna economia
aziendale!”
“Ah! E lei potrà insegnarci aziendale?”
“Preferisco diritto!”
“E poi?”
“Poi si riformerà il comparto dei professionali e degli
istituti tecnici ma qui ci saranno delle leggi quadro e delle
decisioni successive che ci faranno capire di che morte
dobbiamo morire, e infine c’è la faccenda del voto di condotta ma quello lo sapevate già, che se insufficiente provoca la bocciatura. Quanto alle università si parla di trasformarle in fondazioni il che vorrà dire che cambia il modo di
recuperare i fondi e l’organizzazione interna sarà più simile alle attuali università private che a quelle statali, ma su
questo si sa ancora poco.”
“Ah! E mia mamma?”
“Che c’entra tua mamma!”
“Mio fratello alle elementari potrebbe uscire alle
12.30?”
“Per le elementari c’è introduzione del maestro preva47
lente. Il tempo pieno c’è chi dice che è finito e c’è chi dice
che sarà comunque garantito. Non saprei, al momento. Poi
viene introdotta la disciplina dell’educazione civica ma
senza aggiunta di ore curriculari…”
“Curricuche?”
“Non si faranno ore in più. Al limite il prof di lettere,
tipo la vostra, la Zito, magari sottrarrà qualche ora alla storia e farà educazione civica… però questo alle medie!”
“Ah… capito! Ma a lei questa riforma piace, prof?”
“No”.
“Perché?”
“Perché credo che in una società democratica le grandi
innovazioni e le novità vadano introdotte dopo aver avviato un dialogo con le parti in causa. Magari la Gelmini è
una buona legge ma io non la conosco, non so nulla, e mi
devo fidare di maggioranza e opposizione che si scannano
esibendo dati pro e contro che stanno a significare che
qualcuno bluffa e…”
“Prof!”
“Che c’è?”
“Posso andare in bagno?”
“E interrompi per questo?”
“Non ce la faccio più!”
“Ma c’è ancora…”
“No, Bea è tornata!”
“Ah già… vabbè, vai… anche perché la discussione
rischia di prendere una piega politica e abbiamo detto che
non si parla di politica in classe e allora rispetto la vostra
richiesta anche se ricordate che far politica non è solo par48
lare di Berlusconi e di Veltroni. La politica è uno stile di
vita… anche le civiltà primitive avevano un indirizzo politico anche se non conoscevano concetti come destra, sinistra, centro, marxismo, fascismo, comunismo e via dicendo. Voi fate politica sempre. Anche quando mi stressate col
bagno, la vostra è una rivendicazione anche di natura politica. E io a seconda dei termini che uso e di come mi comporto agisco come animale politico e… perché ridi, Sara?”
“Lei… si definisce un animale…”
“Sì, un cammello politico!”
Risata generale.
“Vabbè, chiudiamo ’sta parentesi e torniamo a bomba
sulla Corte dei conti e sui controlli che opera a proposito
del bilancio dello Stato!”
“Prof!”
“Eh!”
“Ma la riforma la manda via da questa scuola?”
“ Non sperare di liberarti così facilmente di me,
Martina, e ora concentrati sulla Corte dei conti altrimenti
poi facciamo i conti… battuta!”
“Sa fare di meglio, prof!”
È vero, ha ragione. So fare di meglio.
49
Capitolo nove
Colleghi
Di gente ne è passata e molti non li ricordo neanche più.
Con tanti c’è stato solo qualche cenno di saluto nei corridoi, con altri ce la siamo chiacchierata. Qualcuno mi ha
sbarrato la via… altri sono solo grigie sagome accatastate
da qualche parte nella memoria.
Un comune denominatore è di sicuro l’assenza di entusiasmo, direi la rassegnazione. Le lauree invecchiano, nella
scuola. Pian piano diventano lettera morta, ingialliscono,
cominciano a mandare un cattivo odore… si battono sempre i soliti sentieri, quelli che fanno parte del proprio credo
didattico, e non ci si guarda intorno.
Ci si adegua al ritmo impoverito di un valzer sopportabile e alla fine si resta irretiti da un pavimento che non ama
le teste sollevate. Tessere di un unico mosaico, restiamo
imbarazzati di fronte a qualcuno che osa fare qualcosa di
diverso mettendosi in luce per iniziative che, di fatto,
rimarcano una volta di più la nostra palude.
L’impegno c’è, su questo non discuto. Conosco e ho
conosciuto ottimi insegnanti nonostante uno degli sport
nazionali sia quello di sparare sulla croce rossa dell’istruzio50
ne. C’è gente che sa quel che fa e lo fa bene. Ma… non ci
si stacca mai dalla corrente del golfo. Il rischio non è il
nostro mestiere e il metterci in discussione è problematico
e mortale come lo schizzo di veleno di un mamba nero.
In vent’anni con pochissimi ex colleghi ho mantenuto
rapporti e questo è accaduto più per motivi extrascolastici
che per affinità elettive professionali.
Un precario è come un vagabondo delle stelle col registro sotto il braccio. Evita di legarsi alle persone perché sa
che di lì a qualche mese potrebbe non vedere più nessuno.
Spesso è un bene. Mi è capitato di pensare “dio mio in
questa gabbia di matti devo resistere solo sette mesi e poi li
mando tutti al diavolo… come fanno quelli che sono qui
da quindic’anni?”. Sì, devo ammettere che mi è capitato di
dire con disprezzo che ero felice di andar via, che potevo
dire quello che pensavo perché non avevo nulla da difendere mentre i pecoroni erano lì avvinghiati a un fazzoletto
di nomina per una commissione o per un corso serale.
Altre volte però con amarezza ho saputo che non sarei
potuto tornare. L’ho saputo per via di un trasferimento o
un utilizzo e comunque in un modo o nell’altro la cattedra
non era più disponibile e buona notte al secchio… perciò
via, verso nuove avventure. Il cambiamento mi porta adrenalina. Oggi non riuscirei a immaginarmi per vent’anni
nella stessa scuola, ma forse scrivo così perché questo è
stato il mio percorso.
Il mondo è pieno di “io non potrei mai!” e invece sappiamo che ci si adatta a tutto, anche a fare l’insegnante.
Quando sento qualcuno che mi dice “ah, io non potrei
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mai fare un lavo ro d’ u f f i c i o” mi girano le scatole.
Sappiamo tutti e due che lo potrebbe fare. Per mangiare si
fa di tutto. È che qualcuno ha la possibilità di scegliere…
altri hanno la fortuna dalla loro… i più la prendono in saccoccia e sbarcano il lunario come possono.
Non ci si lasci ingannare dall’articolo quattro della
costituzione… belle parole… ogni cittadino deve concorrere allo sviluppo e al progresso materiale e spirituale della
nazione… con il proprio lavoro che dev’essere quello che
lui desidera e via discorrendo.
Il settanta per cento degli insegnanti che ho conosciuto
avevano altre aspettative professionali, ma per arrotondare
hanno pensato all’insegnamento. Alla fine sono rimaste,
‘ste persone, con un mucchio di mosche in mano e una
nomina a tempo indeterminato e allora hanno continuato
a fare gli insegnanti. All’inizio dicendo massì, tanto poi
lascio e divento ingegnere, astronauta, ricercatore eccetera
eccetera e poi, a un certo punto, si sono accorti che erano
passati vent’anni e che non si poteva andar più da nessuna
parte.
Alcuni però mi sono rimasti impressi, di colleghi, mentre con altri tre o quattro continuo a sentirmi regolarmente.
Ricordo, ad esempio, una professoressa di matematica
di Sesto San Giovanni… una dark lady. E’ difficile trovare
una dark tra i colleghi. Lei era molto bella con questi occhi
verdi e i capelli come la Valentina di Crepax ma non era
questo il punto. Lei vestiva da dark ed era malinconica e
spiegava le derivate quasi piangendo. Durante le interroga52
zioni assumeva un’espressione da fan dei Cure e quando le
toccava fare un intervento in un consiglio di classe si schermiva e cercava di pronunciare meno parole possibili.
Un altro collega che voglio ricord a re è Ig n a z i o
Fragapane, un insegnante di fisica con cui ho lavorato a
Limbiate. Ignazio era poliomielitico e per questo a volte la
dolce marmaglia lo canzonava ed entrava in conflitto. Io
ero il coordinatore di una seconda e quell’anno scoppiò
una grana che riguardava alcune difficoltà tra le alunne e
l’insegnante di fisica. Loro dicevano di non capire le spiegazioni e lui diceva che in classe era la baraonda a creare le
maggiori difficoltà. Diomio, io coordinatore, ma si può!?
Io già odio coordinare me stesso… eppure… eppure ogni
tanto mi tocca. Parlai con le ragazze e chiesi loro due settimane di tempo. In pratica dovevano promettermi che per
due settimane si sarebbero comportate correttamente senza
far volare una mosca e se una mosca fosse entrata in aula
bien, dovevano imporre il silenzio anche a lei. Dopo due
settimane, se il prof non fosse riuscito a far capire qualcosa di fisica io mi impegnavo ad agire nei riguardi del collega. E intervenire come? Pensai… che faccio? Lo prendo a
mazzate? Lo caccio dalla scuola a calci in culo? Mah!
Vediamo.
Alla fine delle due settimane però il rapporto tra lui e le
ragazze era migliorato tanto che quando andò in Sicilia per
un ponte lungo tornando nell’hinterland milanese portò
alla classe i cannoli. Meglio così, no?
Un giorno Fragapane non viene a scuola né avverte nessuno. Viveva da solo a Paderno Dugnano, in una zona a
53
rischio… ma in un modo o nell’altro si considerava autonomo. Il giorno dopo è ancora assente e allora alle 12.30
io e un collega andiamo a Paderno all’indirizzo che era
segnato nel suo fascicolo personale in segreteria.
Il palazzone delle case popolari sorgeva a ridosso della ex
fabbrica Tonolli. Nella via scorticata all’osso si trovava stipato un angolo del mio Meridione, anche se ci trovavamo
a nord di Milano.
Panni stesi, braccia cariche di bambini e antenne televisive era ciò che riuscivamo a vedere mentre cercavamo di
raggiungere via Cernaia 11.
Insomma citofoniamo: nulla. Saliamo le scale e bussiamo alla porta: niente. Stiamo per andar via quando il mio
collega nota una macchia di sangue sullo zerbino e subito
scatta la telefonata ai carabinieri.
Per farvela breve, visto che non è questa la sede per storie come quella di Ignazio, Fragapane era stato ucciso a
colpi di bottiglia. L’appartamento frugato con discrezione.
L’omicida lo aveva riempito di botte e alla fine gli aveva ficcato la manica di un maglione in gola, ma l’agonia del
buon vecchio (51 anni anche se sembrava mio padre)
Ignazio era stata lunga e dolorosa.
I carabinieri rivoltarono come un calzino sia il quartiere che la vita di Ignazio. Era un brav’uomo con un’unica
debolezza: i viaggi. Ogni volta che tornava da un viaggio
all’estero portava dei doni. Il suo vicino di casa, un tipografo fallito, aveva ricevuto di tanto in tanto qualche
moneta o qualche gingillo e si era fatto strane idee sulle ricchezze dell’insegnante. Fatto sta che proprio il vicino di
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pianerottolo gli aveva sfondato il cranio con una bottiglia
di birra rinforzata con del nastro adesivo e poi si era barricato in casa fingendo di essere partito da giorni. Ma alla
fine, per una leggerezza commessa dietro lo spioncino della
porta d’ingresso, si era fatto beccare e i carabinieri se l’erano portato a Opera. Un precario prese il posto di Ignazio
e finì l’anno al suo posto.
Un’altra collega che non dimenticherò facilmente è stata
Rosanna, la prima collega che ho avuto in questo mondo
di matti.
Aveva due caratteristiche, Rosanna, regalava orchidee ed
era nata per insegnare italiano. Il primo giorno di supplenza – ehi, bagaj, quanti ne avrei fatti! – le venni affidato dal
gestore della scuola per farmi vedere cassetto, registro, aule
e orario provvisorio. Avevo 24 anni e m’era toccata in dote
una classe del serale fatta di camionisti e casalinghe e un
paio di classi del diurno dove la dolce marmaglia divorava
i banchi e succhiava i gessetti per la lavagna. Rosanna mi
perse sottobraccio e mi spiegò come funzionavano le cose.
“I ragazzi sono splendidi, vedrai! Un po’ vivaci ma sono
come l’argilla e tu devi fare un lavoro di fino per plasmarli e renderli predisposti ad ascoltarti!”
Io ero – e sono – un tarantino che andava malvolentieri in provincia solo perché un collega del tribunale mi
aveva chiesto il favore di alleggerirlo di alcune ore di lezione visto che lui lo faceva solo per il punteggio. Ai tempi
non avevo intenzione di fare l’insegnante – sì, proprio così,
anch’io… uno dei tanti ancora qui – però mi stuzzicava
l’idea di ritrovarmi dall’altra parte della barricata. Rosanna
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mi fece vedere i suoi registri. Gesù! Erano sistemati in
modo impeccabile, i nomi composti coi trasferelli, le
penne di colori diversi a seconda della legenda che aveva
creato sul retro. Di ogni alunno aveva un profilo psicologico e uno didattico. Io ero stravolto e confuso. Non avevo
ancora un metodo mio che col tempo sarebbe venuto fuori
naturalmente, ma sapevo che lei era un modello inavvicinabile. Aprì un cassetto e mi mostrò una caterva di relazioni supplementari a quelle richieste perché, mi disse, lo
faceva per capire chi aveva di fronte.
“Tu come pensi che ti muoverai?” mi chiese.
E che ne sapevo? A stento ero in grado di distinguere un
banco da una cattedra… avrei agito di istinto e poi avrei
preso le misure cercando di far collimare le mie esigenze
con quelle della dolce.
In definitiva trascorsi due anni con Rosanna. Il suo
modo di comportarsi e consigliarmi e supportarmi non
mutò nel corso del tempo e mi accorsi che non ero l’unico
che beneficiava dei suoi consigli. Lo eravamo tutti, là dentro. I ragazzi andavano da lei per un fazzoletto di carta, per
un problema in storia o se erano stati mollati dalla fidanzata, i colleghi le chiedevano i programmi, le relazioni e il
piano di lavoro e se c’era da coordinare un consiglio di
classe state pur certi che lo avrebbe coordinato lei. Inoltre,
di tanto in tanto, Rosanna si presentava a scuola con un’orchidea e la regalava a qualcuno. La prima volta che la donò
al sottoscritto mi lesse in faccia uno sguardo perplesso.
“Mi sa che non sei abituato a ricevere fiori… ma è una
cosa bella, no?”
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“Sai… sono uno di Taranto… del rione Montegranaro
e da noi le ragazze più che fiori sono abituate ai mappini o
ai baci trifolati e…”
Ma Rosanna era già da un’altra parte a consolare
un’alunna reduce da un tre in matematica e io con ’st’orchidea in mano cercavo di capire come stavano le cose.
A distanza di vent’anni so solo che Rosanna insegna a
Belluno. S’è sposata, ha avuto un paio di figli ed è entrata
di ruolo – beata lei! – una decina di anni fa. Sono sicuro
che anche in Veneto, anche in mezzo ai ladini Rosanna ha
continuato a fare la prof a tutto campo e non ho dubbi che
i fiorai di Belluno hanno incrementato i loro profitti da
quando la ragazza di Ginosa ha messo piede nel provveditorato di via Mezzaterra. Trattatela bene.
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Capitolo dieci
Fa tutto schifo… va tutto bene…
Sono uno all’antica. Sono uno che vede le cose con occhio
romantico anche là dove di romantico non c’è nulla. Nella
letteratura, nel rapporto coi figli, nei rapporti con gli amici
vedo le cose sotto un’ottica magica. Questo, mi rendo
conto, è un grave errore perché poi la vita è un uncino che
gratta il terreno brullo e pietroso e allora un po’ di sano
senso pratico non fa mai male.
Anche per il mondo della scuola tendo a scivolare in
una visione magister allievo… scuole peripatetiche con
Aristotele che se la passeggia sotto gli ulivi e i giovinetti a
sgambettargli dietro… storie tipo L’attimo fuggente…
Capitano! Oh mio capitano eccetera eccetera. Mi rendo
conto che le cose non stanno in questi termini e che in
realtà c’è la dolce marmaglia che si trascina in classe perché
così va il mondo e i docenti devono tenere sotto controllo
il bisogno primario che è quello del salario da portare nel
nido di competenza. Ma credo che tutte le esagerazioni sia
forzate.
Ormai sono entrate nel linguaggio ufficiale e nel gergo
di tutti i giorni parole come utenza, prodotto, valore
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aggiunto, visione aziendale del sapere e via dicendo.
È il fallimento.
Nel momento in cui pensiamo ai presidi come dirigenti scolastici e alle scuole organizzate e tirate su come aziende abbiamo snaturato la peculiarità della faccenda. Qui
non stiamo assemblando una Fiat 500. Qui non c’è un
prodotto da montare perché noi sappiamo che la dolce
marmaglia a distanza di un mese dell’enfiteusi ricorderà
solo questo nome un po’ ridicolo. In realtà noi attraverso
l’enfiteusi, il contratto di somministrazione, le derivate, il
corpo umano, l’Adelchi, la Grande Guerra e la corsa a ostacoli stiamo creando un battito… un respiro… uno stile,
una specie di sostrato tipo carta moschicida su cui poi si
spera attecchiranno nozioni e abilità che la dolce marmaglia svilupperà attraverso percorsi complessi e diversi nella
vita.
Mi fa venire il male sentir, invece, gente che parla della
scuola senza sapere di cosa sta farfugliando. Ignoranti – nel
senso che ignorano – di un mondo fragile, una specie di
ecosistema da mato grosso dove strappi una foglia e vien
giù una cascata di fango; dove sputi su un millepiedi e si
sveglia un puma.
Parlano di contratto formativo, di azienda scuola, di
patto con gli studenti quando in realtà tu entri in classe ed
è come se aprissi uno scrigno e cercassi di capire quante
pietre preziose, quanti pezzi di vetro e quanta paccottiglia
hai davanti.
E invece niente… dobbiamo somministrare il prodotto
scuola, offrire standard, tesaurizzare le competenze… ma
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dove? Con chi? Ci sono delle realtà in cui, dopo tutte ’ste
fesserie i professori si devono rimboccare le maniche e
diventare assistenti sociali, madri, padri, zii e nipoti al
tempo stesso perché di fronte si ritrovano devastazioni
umane impressionanti. Tu sei lì, solo, e davanti hai una
ragazza di diciott’anni con la famiglia all’aria, un presente
tossico e un futuro a doppio punto interrogativo e il deserto dei tartari intorno. E allora? Allora cosa fai? Gli sommi nistri le conoscenze didattiche le offri il prodotto diritto
piuttosto che il prodotto stage… ma, a dire il vero bisogna
vedere perché dipende dal budget che abbiamo a disposizione quest’anno… ti sapremo dire!?
Umanità!
Qui siamo tutti i giorni a contatto con umanità, con
microcosmi che se ti avvicini ad alcuni di loro a volte
potresti solo fuggire via o rinnegare gli dei a cui sei votato
per manifesta ingiustizia umana. Questo è il campo di battaglia. Altro che prodotti, brochure, open day e fumo negli
occhi.
E a proposito di budget si sa che nella scuola i soldi sono
pochi, ma come in tutti gli ambienti in cui i soldi sono
pochi gli sprechi ci sono, eccome.
È paradossale che si finisca per borbottare che tutto fa
schifo quando siamo all’opposizione e che si tranquillizzi la
nazione tanto tutto va bene quando siamo i legislatori di
turno. Le scelte poi si fanno sulla pelle di persone… carne,
ossa, muscoli, tendini.
Ci sono soldi che ci passano sotto il naso, a noi precari
dell’ultim’ora… ci sono stipendi che si gonfiano, compe60
tenze, funzioni, dettagli, ore supplementari, progetti di cui
uno come me nove volte su dieci non sa nulla. Ma poi arriva un pinco pallino qualunque e mi chiede di far sacrifici
e mi dice “ehi, bello mio, a te l’estate non la contiamo, perché, sai… dobbiamo risparmiare… e gli esami di maturità
li paghiamo uno sputo perché… sai com’è! i soldi non ci
sono…”.
Poi leggo che c’è gente che dichiara di aver fatto 300 ore
“…sai di che cosa, no?”.
No.
E arrivano in busta bei denari che non risentono di crisi,
congiunture economiche negative e salto lira euro.
Un anno ho assistito a un regolamento di conti in pieno
stile far west tra due insegnanti che si contendevano un
progetto. Cento ore a proposito di non ricordo più cosa.
C’erano di mezzo dei fondi della provincia e i due se le
davano di santa ragione. Un bidello era intervenuto a separarli mentre io me ne stavo in un angolo a mangiare un
ovetto Kinder in attesa dell’inizio di un consiglio di classe.
Un quarto d’ora dopo arriva il preside, un uomo che, a
dispetto del ruolo odioso per statuto, della serie controllore sul pullman, era una persona equilibrata. Be’, per chiuderla vi dirò che fu costretto a convocare in presidenza i
due e a uscirne dopo un paio d’ore con duecento ore di
progetto e a quel progetto vennero assegnati Pecos Bill e
Billy the Kid, cento ore a cranio.
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Capitolo undici
Dimmi a chi sei figlio e ti dirò chi sei
Nell’orario settimanale c’è una casella che mi manda a
male più di tutte le altre caselle messe insieme. Quella
occupata dalle lettere RP.
Il ricevimento parenti è un supplizio di Tantalo che
molti insegnanti vorrebbero evitare ma che fa parte delle
incombenze professionali.
I genitori!
Diavolo, ora che lo sono anch’io mi rendo conto che
questo è un terreno in cui muoversi è molto difficile. Si
tratta di una vera spina nel fianco di ogni preside e di ogni
prof di questa terra. I genitori, secondo l’accezione moderna, sono l’utenza.
In vent’anni giuro che ne ho visti di tutti i tipi… alti,
magri, belli, brutti, violenti, remissivi, polemici, esauriti,
depressi, combattivi, pazzi furiosi, responsabili, stolti, esibizionisti, millantatori, mafiosi, oltranzisti, patriottici,
avvinazzati, equilibrati, mediocri, colorati, variopinti, lussureggianti, libidinosi, felliniani, onesti, intelligenti…
Ci sono delle macrocategorie che si perpetuano negli
anni e poi ci sono le variabili impazzite che rendono la vita
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difficile agli insegnanti ma soprattutto ai presidi.
Io sono entrato nella scuola forte del ricordo dei miei,
di genitori… gente all’antica pure loro come me, gente che
qualunque cosa succedesse era sempre colpa del figlio, cioè
colpa mia, perché un adulto va rispettato a prescindere e la
scuola è una palestra che ti serve per ciò che diventerai
dopo, e che si impara di più dalle sconfitte e dalle ingiustizie che dalle vittorie e dalle soddisfazioni.
I genitori con cui ho avuto a che fare io invece sono,
nella stragrande maggioranza dei casi, degli ansiosi pronti
a coprire i figli a oltranza. Vittime del loro modo assente di
gestire la famiglia, si emendano diventando complici della
dolce marmaglia.
“Signora, sua figlia ha bigiato il giorno della verifica e io
l’ho beccata in stazione e adesso si configura un’ipotesi di
sospensione e…”
“Nooo! No, professore… io! Sono stata io a chiederle di
andare dalla nonna… l’ho costretta a non venire! Aveva
mal di pancia, sa… le sue cose… prof, le giuro sulla tomba
di mia madre che Miriam è una ragazza adorabile e non
bigerebbe mai e poi mai!”
La frase classica che fa da presupposto al bluff è “non
perché è mia figlia, ma!”. Dopo quel ma potete sentirvi
dire di tutto… che è un genio, una dea, una creatura elfica, che possiede un’intelligenza mostruosa ma adesso è
innamorata, deve prendere la patente, deve risolvere situazioni emotive… deve salvare la terra dai marziani e chi più
ne ha più ne metta.
I genitori si dividono in varie categorie:
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– i genitori dei bravi che si vengono a far dire quanto è
bravo suo figlio che poi sottintende ma che diavolo sei
venuto a fare qui, i voti sono buoni, comunicazioni non ne
hai avute, potevi risparmiarti ’sta sfacchinata
– i genitori dei geni incompresi… mio figlio è uno
scienziato ma ha sbagliato scuola e non lo vuole capire
– i genitori abbagliati. “Signora, suo figlio è stato bocciato in prima, in seconda, in terza rischia di ripetere…
secondo me dovete trovargli una collocazione migliore,
non so, magari cambiando indirizzo scolastico…” “ma
prof, che dice? Sono gli insegnanti che gli hanno fatto perdere gli anni. Quello di matematica di due anni fa lo odiava, quello di scienze dell’anno scorso ce l’aveva con lui,
quello di economica di quest’anno lo ha preso sulla punta
del naso fin da subito… ma lui è tanto bravo… se ne sta
tutto il giorno chiuso in camera sua a studiare?” “studiare
cosa, signora?” “ E che ne so? Mica faccio l’insegnante,
io… ma vedo che sta lì, davanti al computer che gli abbiamo comprato che lui voleva tanto” “ah, beh, abbiamo capito, allora!”
– i disperati. “Prof, mi dica lei che devo fare. È il doppio di me, nemmeno a suo padre ascolta. E sì che gli
diamo la macchina, la paghetta… ma gliel’ho detto…
Michele, se non studi quest’anno ti tolgo macchina e tutto
il resto… eppure è un peccato perché lui è un ragazzo
d’oro!” “Signora, ha la media del 3 e ha sfasciato una doccia nel centro dove vanno a fare educazione fisica!” “Ma
quello, prof, si sa, sono giovani… io non so che devo fare”
– i violenti. “Professore come va il ragazzo?” dicono
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tenendo il figlio per una spalla… “Male!” Sblaaaaaaam!
– i supplicanti. “Prof… me lo salvi! Lo mando a lavorare, ma me lo salvi, la prego!” “Signora, ha 2… se lui fa
qualcosa poi un aiuto glielo diamo, anche perché ha 23
anni ed è ancora in quarta…” “Sì, lo so… ma voi sapete
come fare, no?”
Il più delle volte sono vittime e carnefici frullati insieme, i
genitori. Mazza e panella non vanno più bene, capisco. Ci
si vanta di non aver mai sfiorato i propri figli oppure ci si
vanta di riempirli di botte per fargli capire il senso della
vita. Ma si cercano surrogati alla presenza costante che
ormai non esiste più perché i padri e le madri – e direi
anche le nonne e i nonni – sono troppo impegnati a far
soldi, a tirare avanti o semplicemente per realizzarsi per
stare ad ascoltare i propri figli.
Quando vedo una ragazza in difficoltà succede che mi
ponga un po’ di domande. Quando vedo i genitori non me
le pongo più. Sono loro la carta d’identità della dolce marmaglia. Non c’è dubbio. Possiamo vederla in mille modi
diversi e adottare decine di strategie ma quando osservo i
natali i pezzi del puzzle tornano tutti al loro posto.
Le chiacchierate coi genitori mi stancano. Mi distruggono. Uno cerca di essere diplomatico perché anche le pillole più amare devono essere somministrate con un tot di
granelli di zucchero ma loro spesso non ti ascoltano.
Prim’ancora di arrivare da te si sono già schermati attraverso dei convincimenti che gli servono per rimanere aggrappati a un barlume di dignità parentale e allora tu che dia65
mine vuoi? Spiegagli l’irretroattività della norma e zitto.
Muto. Al resto ci pensiamo noi.
Amen.
66
Capitolo dodici
Famiglie atto secondo…
Capisco che la Gelmini potrebbe incasinare alcune famiglie che sul tempo prolungato hanno edificato il loro stile
di vita. Madri che lavorano, padri in trasferta, nonne ai
corsi di danza del ventre… nonni ai tornei di palla avvelenata… la scuola è una buona soluzione per sdoganare i
figli.
C’è chi si indigna e c’è chi ne fa una ragione di vita.
Ormai, a 45 anni, mi sono reso conto che tutti hanno
ragione. Sono secoli che non trovo qualcuno che mi dica
“diamine, ho torto, sono un cretino, non ho capito niente!”. Nulla da fare. Tutti scienziati e depositari della verità.
La questione è complessa perché le madri lavoratrici
sono un dato di fatto. La scuola, dunque, soprattutto per i
più piccoli, è un’ottima alternativa al divano, alla tivù e alla
cocacola con i popcorn.
Io non so se l’eliminazione della molteplicità di maestri
nelle elementari creerà un danno nell’orario. Presumo di sì
perché le risorse delle singole scuole sono sempre al limite,
ma chi se lo può permettere sta già prendendo le contromisure.
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Si prevede, ad esempio, che le iscrizioni presso le scuole
private avranno un incremento del 25%. Già la gente
comincia a informarsi, a pre-iscrivere, a sondare, a domandare.
Del resto i nostri politici, a qualunque schieramento
appartengano, per i loro figli scelgono le private… ovvio,
gliela paghiamo noi, la retta!
Altri genitori sono scesi in piazza a manifestare. Altri
ancora attendono il verdetto legislativo con ansia.
Molti genitori si stanno indirizzando verso le scuole private per via del terrore della convivenza dei loro pargoli
con bambini extracomunitari.
“Non gli fanno festeggiare il santo natale!”
Io, sia da alunno che da insegnante, ho provato sia le
scuole private che quelle pubbliche. Al di là di poche sacche d’elite credo che le private siano più scarse dell’istruzione pubblica non foss’altro che per via di una tradizione
costituzionale del nostro paese.
Quanto ai bambini extracomunitari non conosco formule per tenere i nostri figli lontani dal fiume in piena, ma
una cosa è certa: l’equazione straniero delinquente ce la
stanno ficcando nel cervello a forza di calci nelle onde cerebrali, ma il mondo è altro. Da sempre i flussi migratori
hanno spinto masse di gente verso il pane. Dove c’è il pane
arrivano le bocche da sfamare. Tra tante bocche ce ne sono
di pulite e di guaste. Quella guasta manda in pezzi l’immagine del paniere.
Certo, mi rendo conto che questo lo puoi dire per principio ma poi quando uno vive sulla pelle i ghetti è un’altra
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storia.
Io sono un meridionale arrivato in Brianza nel ’90. Mi
hanno raccontato i vecchi sudisti arrivati qui negli anni ’50
e ’60 che all’inizio la gente del posto non affittava case né
voleva contatti con loro. Oggi, pur essendoci quelli che la
vedono come allora, c’è una tale integrazione fatta di gente
che s’è innamorata, sposata e partorito sull’asse SondrioFavignana che la questione è diventata buona solo per gli
slogan.
L’anno scorso avevo in classe ragazze di posti diversi
della terra. C’erano nei miei otto registri nomi ucraini,
polacchi, croati, sloveni, rumeni, cinesi, pachistani, iraniani, albanesi, cingalesi, russi, montenegrini, vietnamiti,
argentini, egiziani, colombiani, brasiliani, cubani, equadoregni, dominicani, indiani, bulgari, peruviani e c’era anche
una ragazza tarantina che mi fa piacere nominare ma che
non conto in questa breve rassegna.
Questi non sono merda, signori miei, son persone come
i brianzoli, i bergamaschi, i vastesi o i cittadini di
Noicattaro.
Inoltre c’è un dato di fondo: il mondo che ci aspetta è
quello che Philip Dick e Ridley Scott hanno ipotizzato in
Blade Runner.
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Capitolo tredici
Consigli… per gli acquisti? No, di classe
Il Consiglio di classe è sovrano, si dice.
Nel Consiglio di classe si affrontano tutti i problemi e
tutte le questioni interne alla classe. Il Consiglio di classe,
quest’organo formato da tutti gli insegnanti – sì, pure noi
supplenti, certo – e a volte anche dai genitori e dagli alunni, sia rappresentanti sia nella loro totalità, rappresenta il
momento in cui la famiglia lava i panni sporchi. Furti di
cellulari, alunne vessate, cambi di posto che quelle due
chiacchierano troppo, programmi, voti, situazioni familiari come attenuanti generiche e specifiche per questo o
quella, “mi hanno rubato la merendina!”, l’andamento
degli ultimi due mesi e così via… tutti argomenti trattati
in consiglio. Il consiglio chiuso è riservato ai soli insegnanti; quello aperto prevede anche le altre componenti. Di
solito i genitori disertano a meno che non ci sia un prof da
mettere alla gogna. La dolce marmaglia invece partecipa
solo se si tratta di approvare le gite o lamentarsi per il carico di compiti. A volte i consigli sono snelli ed efficaci.
Altre volte si trasformano in cortiletti pettegoli o in lapidazioni pubbliche. Ricordo un anno a Cinisello quando venti
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madri infuriate aggredirono un prof di tedesco. Il prof era
fuso di suo a causa di un lutto in famiglia e s’era perso nei
meandri di non so neanche io cosa e si sa, quando nel
branco c’è un animale ferito, i predatori è lì che attaccano
nei momenti di magra. E quindi la dolce marmaglia si era
ammutinata e lui aveva fatto fioccare voti rasoterra per
ristabilire le distanze pronto a far risalire la china a quanta
più gente possibile. Quest’uomo era un precario di 55
anni. Già questo mi sconvolgeva perché ai tempi di anni
ne avevo 27 e pensavo che il garzone di bottega lo si poteva fare per tre, quattr’anni, non di più. Il prof non fece in
tempo, in consiglio, a dire “non preoccupatevi, ho annullato tutti i voti” che un drappello di signore imbufalite lo
aveva messo all’angolo e lo stava riducendo a un mucchio
di detriti organici.
Ci sarebbe voluto l’intervento di Amnesty
International, altro che, perché qui eravamo ai livelli di
Aisha… pubblico ludibrio e lapidazione a oltranza, e noi
da soli non riuscivano a difenderlo, il reo.
In un’altra occasione due madri si presero a schiaffi perché le rispettive figlie uscivano con lo stesso ragazzo che era
di una classe terminale. Una delle due accusava l’altra di
permettere alla figlia di vestire in modo succinto e l’altra
dava senza mezzi termini della puttana alla compagna di
classe della figliola per via del furto con scasso del fidanzato in oggetto. Poi si venne a sapere che il giovanotto
aveva preso il largo con una terza allieva della scuola, suffragando il famoso detto che tra le due litiganti…
I consigli di classe rispecchiano la personalità dell’inse71
gnante che ne è coordinatore. Se il coordinatore è una persona spiccia e pragmatica tutto bene perché in un’ora e
mezza si riesce a dire quello che va detto e si tirano le
somme; se il coordinatore è dispersivo si va alle calende
greche e a un certo punto si formano i sottogruppi che
chiacchierano di pasta al forno, dell’ultimo film di
Mazzacurati o della roulotte in vendita a Novedrate.
Quando il consiglio è aperto ai genitori e alla dolce gli
insegnanti assumono pose più da prof proferendo frasi di
circostanza.
“Grazie di essere venuti ma non abbiamo niente da dirvi
se non sapere se approvate i nuovi testi in adozione ma
tanto non serviranno ai vostri figli.”
I genitori all’inizio sono intimiditi, ma se uno rompe gli
argini poi c’è il rischio che ci rompano le ossa a tutti.
Una domanda tipica è: “Si spera che quest’anno finisca
la girandola dei supplenti… non se ne può più. Mia figlia
ha cambiato tre insegnanti di diritto in tre anni”.
Di solito quelli di ruolo fanno di sì con la testa, che
quella dei precari è una sfiga che quel corso si porta dietro
da anni. Noi, i vagabondi dal registro fugace, sorridiamo
come ebeti. Cosa dovremmo fare? Rispondere “Signora, se
non ci fossi io qua sua figlia non farebbe una materia prevista nel monte ore… faccia lei!”. No. Si sta zitti, si sorride, si fa finta che tutto va bene e che dai, forse l’anno prossimo arriva una di ruolo così io vado a fare in culo e tu sei
contenta che almeno gli ultimi due anni tua figlia li faccia
con una prof fissa. Che altro possiamo dire?
Quando in un consiglio di classe fa capolino il preside
72
la gente si sistema le cravatte, si aggiusta i colletti dei tailleur e si passa una mano sull’orlo della gonna per capire se
è composta. Di solito i presidi sfiorano i consigli di classe
tanto poi i conti si faranno agli scrutini e lì ce la dichiareremo e vedremo i buoni e i cattivi. Nel frattempo grattatevela voi ché io ho un mucchio di cose da fare. Appena il
dirigente esce dall’aula dove si tengono i consigli le gambe
si stendono e partono le imprecazioni. Così, a prescindere.
Per statuto.
Negli ultimi anni sono arrivati i computer che una volta
su due non funzionano ma che quando funzionano è
anche peggio perché molti di noi si accostano questi aggeggi infernali con la reverenza di un prete di fronte all’altare.
La dolce marmaglia presente ai consigli di classe sembra
in visita allo zoo. Ci guardano, gli alunni, come fossimo
esemplari in estinzione – mai abbastanza, immagino – e
commentano tra loro la collana della prof di italiano e la
buccia di mandarino che spunta dalla tasca di quello di
disegno.
Un intervento tipico è quello ad personam.
“Allora”, dice il coordinatore, “come sempre nei consigli
di classe si tratteranno casi generali che riguardano tutta la
classe. Se ci sono problemi individuali con singoli docenti
o che riguardano un alunno in particolare ci sono i colloqui del ricevimento parenti. Bene, fatta questa permessa
passiamo all’ordine del giorno che prevede l’approvazione
dell’uscita did…”
Una mano alzata. Una signora di mezz’età con gli occhi
scuri e i capelli biondi.
73
“Mi dica, signora!”
“Mia figlia Carlotta, come va?”
A loro delle questioni della classe non frega nulla.
Vogliono sapere se il cinque e mezzo della figlia passerà a
sei… questo vogliono sapere. Né interessano tutte ‘ste
menate sulla didattica e sul tipo di apprendimento tanto
“poi al negozio di lavatrici del padre, lì le tocca!”.
Le madri sono molto più presenti dei padri, durante i
consigli, e la loro quantità diminuisce all’aumentare della
classe. Molta gente in prima, meno in seconda, pochi in
terza, nessuno in quarta… in quinta non vengono neanche
gli insegnanti… no, scherzo!
Quando poi il consiglio ha termine c’è l’assalto. Già che
sono lì le madri chiedono ai singoli insegnanti come vanno
i figli. Tu però ti smarchi alla grande se subito dopo inizia
un altro consiglio. Di solito si mettono per ultimi quelli
delle quarte e delle quinte per il motivo evidenziato sopra.
Ma a volte le madri non demordono e ti marcano stretto e
ti spingono verso un angolo dell’aula e lì ti stringono d’assedio chiedendoti in sostanza se hai intenzione di rovinargli le vacanze con un debito alla figlia. E quando alla fine
capiscono che farai di tutto per non lasciar macerie in giro
se ne vanno soddisfatte e, possibilmente, rimborsate.
74
Capitolo quattordici
Che ci faccio io qui?
Conoscevo un tale, qualche hanno fa, che aveva una Tipo
azzurra di dieci anni e in un’occasione feci un viaggio
Taranto-Milano a bordo del suo mezzo. E siccome in autostrada andava a settanta all’ora mi ricordo di avergli
domandato il perché.
“La macchina è in rodaggio!”
“In rodaggio?”
“Eh! Sul libretto così c’è scritto… più il rodaggio è
lungo e completo, meglio andrà la macchina.”
Aveva raggiunto i 120mila chilometri e la povera Tipo,
sottosforzo, non aveva mai superato i cento all’ora… per
dieci anni.
Devo dire che è così che ci si sente, da precario. Un
apprendista stregone che va avanti a oltranza, un giovanotto di bottega che resta tale per tutta la vita… un lattaio in
prova che consolida la sua instabilità.
Un anno, a Monza, siccome la persona che sostituivo
chiedeva quindici giorni alla volta arrivai ad accumulare
una cinquantina di nomine. C’era questa valanga di carta
conservata in una cartella rossa con l’elastico azzurro. E alla
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fine neanche la cartelletta ne poté più e l’elastico si spezzò.
I fogli vennero fuori zampillando sul pavimento. La segretaria si chiamava Anna e ogni volta che andavo a firmare
una nomina mi guardava e “Che rabbia, Argentina, e pensare che i soldi si buttano via per un sacco di cazzate e sembra che è su di te che devono fare tutto il risparmio del
mondo!”.
Io ci ridevo su. È sempre stato così. Ridere delle anomalie del sistema e non farsi stritolare. Il precario doc, quello
che ne ha viste tante, si trasforma in un clown filosofo…
prendete e cibatevi del mio voto di laurea, della mia abilitazione col massimo dei voti… eccomi a voi… spidocchiate il mio fascicolo personale, tanto io vivo un anno alla
volta. Un colpo per volta. Un vagabondo delle stelle è così.
Arriva, si spara un anno scolastico e poi saluta e via,
un’estate pericolosa in attesa di settembre. E a volte settembre non arriva mai. Soprattutto quando hai figli settembre
non arriva mai. Arrivano le bollette, quelle sì che arrivano.
Arrivano le multe, il condominio, l’affitto, la parcella dell’avvocato (ma prof, perché non ha fatto l’avvocato che
guadagnava di più? … questa una domanda tipica della
dolce… perché voglio scrivere e poi gli avvocati vestono
male!).
Ma da precario ho sempre cercato di sorridere sull’onda
anomala e cercare una via di fuga nei campi quando proprio le cose si mettevano male. Se poi si aggiungono un
paio di angeli custodi il gioco è fatto.
La riforma, dicono, metterà in ginocchio il precariato.
Altri ministri lo hanno fatto, non avevamo bisogno di
76
Maristella. Lei sta facendo la sua parte nel complicarci la
vita… si parla di stipendifici ma non si dice che gli insegnanti di religione sono pagati dallo Stato mentre altrove
non è così e che i prof di sostegno sono pagati dalla pubblica istruzione e non dalla sanità pubblica come in
Germania, ad esempio o come in Inghilterra..
Si vomitano parole di fuoco sul Sud ma questo è il
modo più stupido di risolvere le questioni, un modo che
vuole metterci gli uni contro gli altri e invece le cose non
stanno in questi termini. Io che ho insegnato a Taranto e a
Milano non noto tutte queste differenze… posso notare
livelli diversi tra un liceo classico e un Ipsia di frontiera e
anche lì, umanamente, non saprei chi scegliere e anzi forse
lo so ma me lo tengo per me.
Insomma spesso e volentieri quelli che sono al di sopra
di noi sono molto più scarsi e fuori dal senso delle cose
rispetto a chi agisce sul campo. Capisco che ormai la trippa è finita e i gatti miagolano, ma recuperare pane e companatico sempre dalle stesse classi, dai lavoratori dipendenti e da quei quattro pezzenti che pagano le tasse mi sembra
un segno di debolezza, di fragilità del sistema che non è in
grado di assumere un valore sociale e perciò preserva quattro figli di buona donna e dà nelle orecchie agli altri.
La scuola resta un punto cruciale della nostra vita. Io ho
legami che, dico spesso, risalgono ai tempi della scuola. Il
mio compagno di banco fa il chirurgo a due passi da qui
ed è ancora oggi Riccardo, il mio compagno di banco.
Benché ferita ’st’istituzione cerchi di difendersi e se proprio
dovete mandarla all’aria ditemelo subito che mi apro un
77
chiosco di bibite sulla spiaggia di Corralejo, Fuerteventura,
come ha fatto un mio amico ex insegnante di inglese.
78
Capitolo quindici
La scuola che vorremmo? Quien sabe!
In un articolo del 2 novembre 2008 un portavoce di
Bankitalia afferma, dopo uno dei soliti studi approfonditi,
che i ragazzi che hanno come insegnanti dei precari sono
più portati alla dispersione scolastica. Anche Bankitalia
s’accanisce, insomma… il sistema creditizio italiano è alle
cozze, il popolo dei risparmiatori è stato preso per il collo
e Bankitalia si concentra sui precari. Mutui, fondi comuni
di investimento, titoli criptici e indecifrabili sul bancone e
si gingillano coi dati sui supplenti.
Forse noi precari diamo fastidio perché per le banche
siamo carne bruciata. Non facciamo investimenti e ci
teniamo stretti quei quattro quattrini per tirare alla fine del
mese e non compriamo case e non cambiamo l’auto a ogni
rottamazione sponsorizzata dallo Stato. Forse Bankitalia
vede in noi un mucchio selvaggio che non fa ingozzare i
propri manager ma che sopravvive come una tribù di zulù
in via di estinzione che resiste asserragliata nella foresta
cibandosi di radici e topi morti.
E comunque l’instabilità a cui sottoponiamo la dolce
marmaglia non la vogliamo certo noi supplenti. Quello
79
che noi chiediamo da anni, da sempre, è regolarizzare le
posizioni acquisite, i diritti acquisiti… niente regali, Bank,
solo quello che ci spetta in base a concorsi vinti, corsi abilitanti superati e terreno grattato con le unghie.
Qui non c’è un problema ideologico… le ideologie
hanno rotto perché creano illusioni e nelle illusioni ci sono
quattro panzoni che s’arricchiscono e il resto del popolo
che boccheggia. Le ideologie le lasciamo ai leader, ai grandi manager, a chi gestisce le grosse grasse riserve auree. Noi
vorremmo insegnare le nostre due nozioni in santa pace ed
essere pagati a fine mese ma non per edificare imperi, no…
quelli li lasciamo ai compari di Bankitalia, ma per vivere in
modo dignitoso anche in estate e non dover gravare a cinquant’anni sul bilancio di genitori pensionati – e sì che
loro la pensione l’hanno conquistata – che per quanto longevi non sono delle sequoie.
Questo vorremmo.
Vorremmo una scuola semplice. Fateci stare più ore sul
posto di lavoro, ehi Maristella! non è questo il problema,
anzi… così almeno i commercialisti, gli ingegneri, gli
avvocati e tutti i prof che vedono la scuola solo come riempipista per pagarsi il 730 andrebbero fuori dalle scatole…
Ma dateci uno stipendio adeguato agli anni di studio sopportati e poi potrete pretendere quello che vorrete. Dateci
la possibilità di aggiornarci e dateci aule mica spaziali…
basterebbe una lavagna luminosa e un computer mezzo
scassato che noi siamo gente alla buona e potremmo
accontentarci. Snellite le procedure burocratiche e liberate
le iniziative dei docenti da tutta una serie di fardelli e bal80
zelli dove la carta bollata la fa da padrona e tutto il resto
non conta.
E invece negli ultimi anni non ho visto che appesantire
la macchina creando confusione e dispersione e, immagino, perdita di danaro pubblico.
Come la faccenda della qualità. Se basta copiare i programmi su una carta intestata della scuola per ottenere il
crisma della qualità non mi pare tutta questa prodezza…
serve solo a quattro parrucconi che sguinzagliano i loro
scagnozzi a controllare che tutti i timbri siano stati apposti. Una barzelletta. E la qualità dov’è quando, avendo
tagliato i fondi e costringendo i presidi ad assegnare cattedre complete, non c’è nessuno in grado di coprire gli insegnanti assenti – ebbene sì, ministro Brunetta, ci ammaliamo anche noi, con lei forse di meno, ma ci ammaliamo
comunque – con la conseguenza di avere classi scoperte e
dolce marmaglia allo sbando?
Domande retoriche, lo so… domande insulse e allora
forse è meglio concentrarsi su di loro, sulla dolce, perché
alla fine tutto ’sto ambaradan viene messo in piedi per allevare cuccioli di uomo e di donna e irrobustirli prima che
becchino gli schiaffoni dell’esistenza. A questo serviamo.
Non le tabelline né la parafrasi, ma irrobustire la mente,
crearsi uno stile, un potenziale, scoprire attitudini, comprendere eventualità umane che possono essere alla portata, abituare al sacrificio, alla conquista ora di un sei in
diritto, domani magari di qualcosa di più stimolante.
Tutto per loro. Sono loro, la dolce marmaglia, il mio pane
quotidiano. Sono un dio cannibale che si ciba delle loro
81
esistenze e loro sono degli immortali che mandano in
pappa il cervello dell’insegnante.
Infatti, anche se adesso vi farete una crassa risata, l’insegnamento è considerata dagli psicologi – e dagli psichiatri
– un lavoro usurante. Il cervello va in fumo… la capoccia
salata in aria.
Uno dei motivi credo sia legato a questa contrapposizione, questa sorta di battaglia sotterranea che si combatte
con la dolce. I voti in pratica condizionano tutto. Del resto
senza i numerini non sapremmo cosa fare. S’è provato con
arzigogolati giudizi ma credo che alla fine il voto sia più
onesto.
Un secondo motivo, almeno per il sottoscritto, è l’immortalità della controparte. Dio mio ho iniziato a insegnare nell’88 e avevo venticinque anni e i ragazzi di quarta
avevano diciassette anni e quelli di prima avevano quattordici anni. Oggi ne ho quarantacinque, di anni, ma loro
sono degli immortali, dei Connor MacLeod reincarnati… le
ragazze di quarta C infatti hanno anche quest’anno diciassette anni e le ragazze di prima C hanno quattordic’anni…
questo spacca. È come allontanarsi da una terra. E la terra
sta sempre là mentre tu vai verso una strana deriva dove i
legami con il mondo emerso si assottigliano e resti un po’
preoccupato per via dei rifornimenti.
Ecco, se fossi un ministro penserei a questo. Un prof di
venticinque, trentacinque anni può dare il meglio, uno a
sessantacinque può essere in gran forma e giocarsi l’esperienza, ma aumentano i rischi di incomprensione con la
dolce marmaglia… E allora ipotizzerei un cambio, una
82
mobilità tardiva nella pubblica amministrazione e un
ricambio generazionale più ampio. Ma questo, si sa, è un
film che non vale nemmeno la pena pensar di girare.
83
Capitolo sedici
Max
“Ehi Max, come te la passi?”
Al telefono la voce di un mio vecchio collega che non
sento da un po’, uno sempre molto aggiornato sugli eventi che riguardano la scuola.
“Bene! Argentina… e il bimbo?”
“Bene Max… ma adesso sono due, abbiamo raddoppiato… oltre al buon vecchio Francesco che ora ha cinque
anni e mezzo abbiamo Milena, nuova di pacco, dieci mesi,
nove chili di roba che mi gattona in casa.”
“Cristo Santo, Argentì… un precario che fa un secondo
figlio! Sei impazzito?”
“Sì Max, quello è: pazzia! Tipo Leonida in 300… due
spartani in casa e il borsellino che piange anche grazie alle
ultime novità che mi sa sono mica da ridere.”
“Sei un pazzo… lo sei sempre stato, in fondo… senti,
ma vai a Taranto?”
“A Natale, spero… ora sto finendo un pamphlet sulla
scuola e volevo chiederti che ne pensi della situazione
attuale… io mi sono fatto un’idea ma sai com’è, tu sei un
caterpillar dell’informazione scolastica… perciò… per
84
esempio, che ne pensi della Gelmini, non come donna
intendo, come legge? Vedi cose buone? C’è l’inghippo?”
“Di positivo secondo me, Argentì, c’è il ritorno alla
valutazione numerica nelle primarie e nelle medie inferiori, nonché la parte riguardante la condotta. Di negativo c’è
la riforma del maestro unico o prevalente introdotta a solo
scopo di contabilità, anche se in linea di principio non
sono contrario.”
“Ma tu, buon vecchio Max, pensi che la nostra posizione migliorerà con questa riforma?”
“Non ho ancora ben chiara la parte che mi coinvolge
direttamente perciò non mi pronuncio in modo definitivo,
ma già il fatto che non ci ho capito molto la dice lunga.”
“Tu da quanto tempo insegni, Max? E secondo te la
situazione è migliorata negli ultimi 15 anni?”
“Purtroppo insegno da più di 15 anni. È senz’altro peggiorata, Nella scala sociale siamo scesi agli ultimi posti e
siamo considerati negativamente da diverse famiglie e alcuni studenti per questa ragione. Mi hanno chiesto dei
ragazzi; “Perché non ha fatto l’avvocato? faceva più soldi”,
capisci?”.
“Sì, lo chiedono pure a me! Perché secondo te, Max,
nell’immaginario collettivo esiste il convincimento che noi
non facciamo un cazzo dalla mattina alla sera?”
“Purtroppo alcuni colleghi fanno nascere questo convincimento, non facendo un tubo ed elargendo 6, 7 e 8.
Purtroppo l’esempio negativo colpisce più del positivo, da
sempre!”
“Max, ti faccio ancora un paio di domande e poi ti
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lascio che Milena sta strappando i compiti in classe della
seconda C… Con lo stipendio da prof di ruolo – cosa che
io mi sogno – che vita ti permetti?”
“Molto spartano, ho ridotto molto la soddisfazione dei
bisogni secondari.”
“Be’, del resto sei uno di Taranto anche se vivi qui in
Lombardia. Perciò un po’ spartano lo sei dentro, no?”
“Se la cosa ti fa ridere e ti fa piacere, Argentì!”
“Cazzo, ma non sorridi mai?”
“Non quando si affrontano ’sti temi!”
“Max, sinceramente. Tornando indietro faresti l’insegnante?”
“Sì, penso di sì.”
“Ehi Max… un’ultima curiosità perché vedo che Milena
si sta mangiando il compito di Erika dopo aver sbafato
quello di Zorro.”
“Zorro!”
“Sì, la chiamiamo affettuosamente così, ma mica si
chiama Zorro sul serio! Allora… se avessi la possibilità di
dire qualcosa a Maristella, cosa le diresti?”
“Prova a vivere con 1500 ? al mese a Milano!”
“Senti Max… posso mettere il tuo nome e cognome
all’intervista semmai decido di inserirla nel libro?”
“Prova a mettere il cognome e vengo a Meda e ti sfascio!”
“Ullallà che caratteraccio! Dai, metto Max, Mad Max,
che ne dici?”
“Solo Max!”
86
Capitolo diciassette
Ferrovie Nord
Sono su uno di quei treni delle Nord.
Da Meda mi sto spostando in piazzale Cadorna, a Milano.
Mi tocca andare a fare il viaggio della speranza davanti agli
uffici del Tesoro in via Zuretti. La mia ultima busta paga è
un valzer degli errori. Milena non conteggiata più nelle
detrazioni – e sì che a dieci mesi è difficile che, pur volendo, possa andare a vivere per conto suo – l’indirizzo sbagliato e il conto corrente che cerco di modificare da due
anni.
Il treno è un carro bestiame… siamo tutti ammassati e
gli abiti puzzano di umidità e pioggia sporca. Un vecchio
davanti a me si infila di continuo un dito in bocca a massaggiarsi la gengiva. Una ragazza tiene sollevato un libro di
biologia all’altezza delle orecchie.
A Seveso sale Sara, una mia ex alunna dell’Isa di
Giussano che a volte vedo alle presentazioni dei miei libri.
“Salve prof! Sempre vestito di nero, lei!”
“E tu mai che ti fai i fatti tuoi… scherzo, Sara. Come
stai?”
“Bene. Sto andando alla Naba!”
87
“E perché? Giochi a pallacanestro? …Battuta!”
“Sa fare di meglio, prof… è la nuova Accademia di belle
arti!”
“Lo so, lo so!”
Sara si sistema meglio una spilletta a forma di torta sul
bavero di un giaccone militare e con un dito spinge su per
il naso un paio di occhiali da intellettuale new fashion.
“Lei dove va, prof?”
“Io?”
Ce ne stiamo in piedi praticamente faccia contro faccia
con la gente che ci pressa a ogni fermata un po’ di più. Nel
fianco ho il gomito del vecchio che si massaggia la gengiva
mentre Sara sta risalendo dal risucchio di due pifferai
magici che cercano di manomortarla per bene.
“Cerchiamo un posto più comodo?”
“Dove? Sul tetto?”
Ci spostiamo.
“Sara, voi dell’università come la vedete la faccenda
della riforma Gelmini?”
“Quale riforma?” fa Sara.
“In effetti una mia collega ha detto la stessa cosa… ha
detto che questa non è una riforma, è un salvagente per la
cassa dello Stato!”
Arriva il controllore.
Lo portano in trionfo come una rock star perché per lui
l’unico modo di passare è venir spostato a braccia come
Jim Morrison durante uno dei concerti delle porte della
percezione.
“Biglietti!”
88
“Eh?”
Sara tira fuori il suo abbonamento. Io tiro fuori il mio
biglietto andata e ritorno su ’sto tracciato a scartamento
ridotto ma dalla tasca mi vien fuori un pezzo di carta che
finisce per terra.
“Sangue della giustizia umana!”
“Glielo prendo io, prof!”
Sara si immerge tra le gambe tiepide della gente e io faccio la mia parte inginocchiandomi alla ricerca del foglio
perduto.
“È importante?” chiede la mia ex alunna.
“Non lo so!”
La gente sbuffa e si sposta. Gli scossoni aiutano a smuovere quest’ammasso di panni sovrapposti che dal basso
paiono stesi ad asciugare in un orinatoio pubblico.
“Prof, l’ho visto, ora vedo di prenderlo!”
“L’ho visto anch’io!”
Riemergiamo.
Sara ha in mano un pezzo di carta e io ho i palmi delle
mani sporche di fuliggine. Un filo di cotone mi è rimasto
impigliato nella barba.
“Ecco qui, prof, spero ne valga la pena… abbiamo fatto
la caccia al tesoro.”
“Veramente la caccia al Tesoro la farò non appena avrò
messo piede a Milano!”
La gente ci guarda con sospetto. Un ammasso di Brianza
tribal senza soluzione di continuità che ci scruta: un uomo
di mezz’età e una ragazza di vent’anni che cercano pezzi di
carta tra le gambe di perfetti sconosciuti è un movimento
89
fin troppo seccante per il popolo dei pendolari addormentati gli uni sugli altri.
Ci ritroviamo, io e Sara, schienati contro la parete di
eternit e plastica del vagone. Lei sorride curiosa.
Apro il foglietto e trovo… ah, già, trovo una poesia. Me
l’ha regalata una collega, Maria Rosa… si tratta di una
poesia di Montale, una poesia degli anni settanta. Io le
avevo chiesto un commento sulla riforma Gelmini e lei mi
aveva risposto… “caro Cosimo ecco un testo, a mio avviso
illuminante assai, che da almeno dieci anni mi risuona in
testa ad ogni tentativo di riforma da qualsiasi parte provenga il ministro che ne è l’artefice, o almeno si propone di
essere tale… I ministri passano, si sa, e le donne non fanno
eccezione, ma l’armonia vince di mille secoli il silenzio”.
Questo mi aveva detto Maria Rosa e poi mi aveva dato
questo foglietto con la poesia di Montale.
Il professore
Il professore ignora
se è supplente o aggregato
o è associato a tempo pieno o vuoto
o in toto esposto al vilipendio
o espettorato deputato con
doppio stipendio.
Il professore ha i capelli grigi,
non può cambiare mestiere.
Se a notte tutti i gatti sono bigi
meglio che la riforma
si faccia e poi si dorma.
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“Bella, prof…”
“Già… solo, mi chiedo: secondo te, Montale ha mai
vissuto un giorno da precario?” E intanto siamo arrivati a
Cadorna. Le porte si aprono, vomitano la Brianza sulla
piattaforma numero sei e io saluto Sara cercandomi dentro
una ragione, una forza per scendere in metropolitana e strisciare sottoterra… direzione Centrale.
91
Capitolo diciotto
Beata ignoranza…
Il grembiule, il voto in condotta, le focaccine all’intervallo,
i tornelli e compagnia cantante non sono il problema, sono
i contorni... e l’uomo pare il re dei contorni. Tutto contorno. Ci si accanisce sui contorni. Si studiano i contorni, si
analizzano, ci si spantega a macchia d’olio su questioni
minimali, su quisquilie e lo si fa per non dover affrontare
il cuore delle situazioni.
Se mettiamo a paragone un ragazzo di terza media di
oggi da un punto di vista didattico ne sa meno di uno del
1975. Ma se allarghiamo l’orizzonte sulle fonti cognitive
vince la dolce marmaglia del Ventunesimo secolo.
Ignoranti si nasce e poi iniziano le differenziazioni. Già
il fatto di nascere in un ambiente in cui ci sono libri e dove
viaggiano nell’etere parole non banali e svincolate dalla
logica delle soap e della fanghiglia realiteggiante aiuta.
Non possiamo far finta di niente.
Una volta la dolce veniva nutrita dalla parola, dal racconto, dalla narrazione. Oggi è il dio denaro che gioca sia
il ruolo principale che quello sussidiario. Agli occhi della
dolce marmaglia l’aver abbandonato lo studio legale in cui
92
avevo prospettive economiche notevoli – e magari diventavo ministro della pubblica istruzione! – per insegnare e
scrivere libri è una follia. È folle rinunciare a mettere in
tasca due bigliettoni in più per passare un’ora con il piccolo Franz e con la cucciola Milena.
La scuola è una specie di purgatorio dove i dannati senz’arte né parte vanno a svernare perché, è opinione comune, non sono in grado di finire nel paradiso dell’euro, del
lingotto d’oro, e al tempo stesso sono troppo miseri e piatti per osare discendere lo Stige o l’Acheronte all’inferno e
provare i brividi delle fiamme impazzite. La scuola perciò
diventa una sorta di limbo asettico.
Coltivare la beata ignoranza diventa una missione.
Trasmettere un sapere di legno e rigido dà la sensazione a
noialtri di essere comunque migliori della dolce… la scuola, si dice, è lo specchio dei tempi e i tempi sono sbudellati di fresco ogni giorno di più. Ogni tanto incontro un ex
alunno in giro, a volte li trovo messi bene, a volte in difficoltà… Uno ad esempio era diventato un santone e appariva in tivù fino a che gli è saltata la testa. Un altro lavora
sulle navi che fanno rotta verso la Groenlandia e quando
torna in Lombardia mi passa a salutare. Diego ha un locale a Cesano Maderno e la sera ogni tanto calo per una birra
e per domandare dei suoi ex compagni. L’unico che s’è
mosso dalla palude è finito per diventare assessore comunale. Da Diego incontro anche alunne del liceo artistico e
alunni da competizione dell’ Itis più violento della
Lombardia.
Numeri da circo, là dentro. Una seconda N indimenti93
cabile un giorno portò in classe una torta con tre candeline: un UNO e due ZERO.
“Ehi ragazzi, che ci fate con la torta… è il compleanno
di uno coi soldi o cosa?”
“No prof!” mi fa Vincenzino “È per la prossima ora…
festeggiamo perché quella di inglese di sicuro ci mette la
nota e quella sarà la centesima dall’inizio dell’anno!”
Ed eravamo solo a febbraio.
Sì, quella seconda era una classe violenta. Facevano gli
aerei di carta e li facevano volare. Quella di inglese lo disse
al preside.
“Be’, professoressa… è un classico, suvvia… chiuda un
occhio!”
“Mica vero, preside… quei delinquenti incendiano le
code e fanno le simulazioni verosimili!”
Un giorno facevo lezione in una quarta, sotto di loro, e
vidi piombar giù una cattedra. Vennero bocciati in diciotto su ventuno… Ma quando ne incontro uno, da Diego,
non trovo la dolce marmaglia… trovo maschi complessi,
irrisolti, cambiati – ovvio – e capisco che dietro il branco
c’erano personalità che non sono mai riuscito a capire fino
in fondo e che probabilmente noi abbiamo lasciato così
come li abbiamo trovate… nella beata ignoranza in cui
sguazzavano e avrebbero sguazzato per sempre.
Nulla di più. Nulla di meno.
Come mi è stato detto una volta… si va oltre! Oltre…
oltre le riforme, le cazzate e i tentativi di sabotaggio di ciò
che va bene e di ciò che potrebbe andare meglio.
Nonostante tutto se ritornassi indietro, come Max, rifa94
rei l’insegnante… forse…
Lo farei anche per esclusione perché non amo fare l’impiegato di banca; non sopporto fare l’avvocato perché devi
avere un pelo sullo stomaco che arriva alle ginocchia; non
reggo la vista del sangue perciò dal chirurgo al paziente
sono ruoli che non ho voglia di interpretare; non riesco a
vedermi giornalista perché sono un pasticcio vivente e gli
schemi, le battute e il numero di cartelle mi mandano a
male; per l’astronauta ho perso la coincidenza e per il missionario non ho la vocazione; per fare il pescatore c’era il
limite della sveglia e lo stesso valeva per il panettiere…
gratta gratta ecco che l’insegnante, gomito a gomito con la
dolce marmaglia, restava e resta un modo onorevole per
sbarcare il lunario e avere l’illusione di forgiare al meglio
dell’1% le nuove leve di questo mondo da incaprettati.
Il tutto, per quant’è possibile, fatto con il sorriso sulle
labbra.
Perciò prevedo che, a meno che noi precari non si venga
spazzati via dalla riforma al tagliere, qui mi toccherà restare… registro al seguito.
Questo salvo che, dopo aver scritto questo breve libro,
non decidano di sollevarmi dall’incarico per manifesta turbativa ambientale.
95
Indice
Introduzione
Si fa presto a dire precario
Collegi docenti? No, grazie
Stipendi da fame? Diciamo che dimentichiamo
il colore dell’aragosta
Meritocrazia… meritoche?
Tina la generalessa di tutte le bidelle
La dolce marmaglia
La scuola come il Titanic
La Gelmini raccontata alla classe
Colleghi
Fa tutto schifo… va tutto bene…
Dimmi a chi sei figlio e ti dirò chi sei
Famiglie atto secondo…
Consigli… per gli acquisti? No, di classe
Che ci faccio io qui?
La scuola che vorremmo? Quien sabe!
Max
Ferrovie Nord
Beata ignoranza…
7
10
17
22
27
31
36
42
46
50
58
62
67
70
75
79
84
87
92
L’AUTORE
Fandango Tascabili
1. Albinati & Timi Tuttalpiù muoio
2. Chris Gardner La ricerca della felicità
3. Davide Longo Il mangiatore di pietre
4. Horacio Verbitsky Il volo
5. Francesco Cecconi e Antonella Contaldo Maximilian e
la ricerca
6. Bill Buford Tra i furiosi del calcio
7. Thierry Meyssan L’incredibile menzogna. Nessun aereo è
caduto sul Pentagono
8. John Cheever Il nuotatore
9. Dizionario Affettivo della Lingua Italiana, a cura di
Matteo B. Bianchi e con la collaborazione di Giorgio Vasta
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