StorieMobili
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STORIE MOBILI
di Simona Baldanzi, Federico Bondi e Leonardo Sacchetti
Lavorando
Storie di lavoratrici e lavoratori
raccontate nei centri commerciali
capitolo_3
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capitolo 3
LAVORANDO
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Dentro il camper di Storie Mobili si sono raccolte e condivise tante storie con al centro il
tema del lavoro: dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza di tante famiglie al dramma
del disoccupato, dall’ansia di emergere del laureato ai racconti di chi è costretto a lavori
alienanti. Storie di fatiche e di sacrifici, di soprusi e ingiustizie, in cui emergono rabbia,
rassegnazione, ma anche dignità, gioia e fierezza di esercitare il proprio mestiere.
In queste storie ci sono il lavoro del passato e quello che ci aspettiamo dal futuro.
È presente il lavoro come cultura artigiana e come momento di riscatto sociale o di
integrazione. C’è il lavoro come elemento fondamentale della vita, sia quando c’è
che quando manca, quando è ormai un ricordo o magari solo una speranza per il
domani. C’è il lavoro come progetto di vita o costante angoscia precaria.
Se gli anziani hanno raccontato l’emozione e la fatica, i progetti che si realizzavano
col tempo e le difficoltà dell’oggi, della vita da pensionati, i più giovani hanno raccontato le - poche - speranze, la rabbia verso un paese che non riesce a concedere
loro una visione che vada oltre i tre mesi da precario. I racconti dei più giovani sono
sfilacciati, brevi, incerti. Eppure sembrano un’unica voce che denuncia che il passato e il presente sembrano aver mangiato il futuro.
Il lavoro, anche se appare indebolito nelle narrazioni collettive, è ancora centrale
nelle storie di tutti. Sui giornali leggiamo brevi trafiletti sulle inaccettabili morti sul
lavoro, assistiamo impotenti alla chiusura di fabbriche e stabilimenti che lasciano
famiglie e territori più poveri, ma dietro questa patina di sgomento e sofferenza ci
sono volti e vite che possono rendere dignità, corpo e anima al lavoro. Ripartire dalle
storie quotidiane, dare importanza all’ascolto e alla condivisione, può essere utile
a ricostruire un senso di storia comune, a prendere parte, a ridare fiato e senso ai
diritti e ad altre parole svuotate di significato.
La quasi totalità degli intervistati non ha potuto non fare riferimento al proprio lavoro.
Come a dimostrare che nel lavoro, anche in quello più modesto e comune o che “non
piace”, l’uomo trova se stesso, le sue capacità, la sua funzione nel mondo. La vita,
i ricordi, i tempi, gli affetti: tutto è declinabile all’interno di un orario e dell’occupazione che si svolge. Per questo, chi ha raccontato il proprio lavoro a Storie Mobili, ha
raccontato uno stato d’animo fatto di piccoli passaggi e di semplici azioni quotidiane.
Perché, se è vero ciò che scriveva P. Levi, “amare il proprio lavoro costituisce la migliore
approssimazione concreta alla felicità”, è anche vero ciò che diceva J. Conrad, “Il lavoro
non mi piace – non piace a nessuno – ma mi piace quello che c’è nel lavoro: la possibilità
di trovare se stessi, scoprire la propria realtà che nessun altro potrà mai conoscere”.
Per queste ed altre storie, sbirciate nell’archivio online www.storiemobili.it
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COME I CINESI
[ Si dice dei cinesi oggi che vanno sempre a diritto notte e giorno… Ma noi? S’è fatto anche
noi a Prato ]
Aldo, 72 anni, Prato.
Prato, 18/09/2010.
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ldo ci parla subito del suo lavoro ancor prima di salire sul camper. Una vita nel
tessile e ce lo dice come se per noi fosse scontato, visto che siamo a Prato. Ce lo dice
mostrandoci la faccia, come se ormai il telaio avesse tessuto ogni sua espressione del
viso. Ci racconta dall’inizio, quando anche lui certe parole del mestiere non le conosceva, non le sapeva tirar fuori come adesso, come un prestigiatore che tira fuori ogni
sorta di cose dal cappello.
Il primo giorno, venendo dalla campagna non è che si sapeva di telai. Poi, piano
piano, a forza di stare lì, si prende confidenza con la macchinetta, si prende confidenza con il telaio.
Aldo mima con le braccia gli spostamenti del filo, come se le parole non bastassero a
descrivere il lavoro. Perché il lavoro va fatto, va saputo dove mettere le mani e come
muovere le spalle, va imparato prima ancora di poterne parlare. Il lavoro è una storia
mobile, proprio come il telaio che non si ferma un attimo.
E così era il lavoro. Erano otto ore. Veniva 70-80 lire il giorno nel dopoguerra.
Questi prezzi qui venivano adottati per noi ragazzi dal ’47-’48 fino a dieci anni dopo.
Potevano arrivare a cento lire il giorno festivo, il sabato o la domenica.
Quando chiediamo ad Aldo di dirci come era Prato in quegli anni, la sua pelle sembra
stirarsi e risplendere.
Prato era bella per un certo senso e brutta per un altro. Per la città viaggiavano genti
untuose, con le maglie tutte sporche, era tutto uno spostarsi di questi artigiani. Le
fabbriche avevano tutto in mano loro. Cominciarono nel ’50 a dare i telai, a far tessere
fuori, e i primi furono i contadini. Facevano il podere e la donna la facevano lavorare
al telaio. Veniva seguito questo sistema. E c’era il barrocciaio che portava con il cavallo
le tele e portava il filo dalla fabbrica a lì. C’erano i barrocci per portare la rena, per
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portare i sassi nel Bisenzio, i mattoni per la fornace, dove si cercava di ricostruire
dopo la guerra il paese. La città di domenica quando si aveva un’ora, era piena, tutti
si divertivano a festa. Ci sembrava di andare chissà dove. Aldo si sistema il colletto
della camicia e i lembi della felpa appena sopra le spalle e sorride.
Si andava in centro a passeggio oppure al cinematografo, allora ce ne erano parecchi. Poi c’era un po’ di ballo per i giovani. Avevo intorno ai quindici anni quando
andavo dietro ai più grandi per vedere che facevano. Gli uomini andavano a cercare
le donne all’uscita di questi vespri serali. Si incontravano lì.
Aldo torna a parlare di lavoro, come se la domenica fosse finita e fosse appena ricominciata la settimana, anche adesso, nel ripercorrere i giorni, nel raccontare.
Nel tessile ci sono stato tutta la vita. 47 anni assicurato! Assicurato.
Precisa bene l’ultima parola come a dire che poi andrebbero contati anche gli anni non
assicurati, ma preferisce non farlo.
Ho cominciato a 14 anni col libretto. Una volta ho cambiato mestiere, invece che
tessitura, ho preso la filatura. Lì si cominciava scegliendo le bobine, o lunghe o corte,
per metterle dentro… per poter fare i fusi. Ci insegnavano il lavoro come si svolgeva,
era semplice. Allora c’erano anche le donne, potevano lavorare in filatura a mandare le macchine.
Dalla piccola finestra del camper, alle sue spalle si vedono camminare molti cinesi intorno al centro commerciale. Chissà quanti di loro lavorano nel tessile, quanti stanno facendo adesso il lavoro che Aldo ha fatto per quasi cinquant’anni. Vediamo le braccia distese
lungo i fianchi di queste persone che camminano e ci sfuggono e ci chiediamo quante si
muovono ogni giorno intorno ai tessuti, alla maglieria, al filato.
Le ore non si contavano. Si dice dei cinesi oggi che vanno sempre a diritto notte
e giorno… Ma noi? S’è fatto anche noi a Prato. Notte e giorno. Turni continuativi
che non cessavano mai. Quando ci fu il boom di lavoro, fra il ’60 e il ’70, chi aveva
i telai li voleva avere sempre più moderni per guadagnare sempre di più, ne volevano mettere uno per le spese e uno per il lucro. Veniva tutto tolto dal sangue delle
persone, ma d’altronde l’evolversi dell’industria era così. Noi si brontola i cinesi ora
perché vengono, lavorano, sono pagati sotto costo come noi nel dopoguerra, però
poveretti ora tocca a loro stringere i denti per superare questi anni di tanta difficoltà.
Si dice siamo contro perché ci rubano il lavoro, fanno qui, fanno là, ma d’altronde
è il bisogno, vengono di fuori, che devono fare?
Aldo ci guarda e sorride chiedendo un’approvazione, come se anche raccontare fosse un
piccolo lavoro e spera di averlo fatto nel modo migliore.
In sintesi l’è questa la storia. Potete spengere la bicicletta.
Aldo indica la telecamera. Si ride tutti.
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BOOM COLOR FULIGGINE
[ A quei tempi là, Milano era l’America ]
Carlo, 68 anni, Sesto Fiorentino.
Sesto Fiorentino, 3/10/2010
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l sogno italiano, quello nato dal boom del dopoguerra, trova un volto in quello di
Carlo. La fortuna, la perseveranza e la passione per il proprio lavoro. Senza montarsi
la testa, tutto questo può farti dire: sono felice di quel che ho fatto.
Io ho studiato da perito industriale alla Leonardo da Vinci. Appena diplomato, a
differenza di ora, ho ricevuto venti offerte di lavoro da altrettante ditte, tra le più
importanti in Italia. Andai all’Olivetti, mi assunsero. Andai a Milano. A quei tempi là,
Milano era l’America.
Sui calcolatori elettronici, perché la parola computers a quei tempi non era di moda,
ho lavorato su vari aspetti, hardware, software, ecc… E’ stato un momento bello
perché mi ha permesso di vivere quell’Italia in pieno sviluppo. Eravamo convinti di
ciò che facevamo, soddisfazioni morali, economiche e professionali. La cosa è stata
bella. Ho girato per il mondo, ho conosciuto un sacco di persone.
Poi – come se tutto si fosse fermato, dietro quei suoi occhiali scuri - è arrivata la crisi.
E i prepensionamenti. E’ finita la storia.
Il volto di Carlo, però, non si intristisce. Con un guizzo di entusiasmo, torna indietro
nel tempo, al suo primo giorno di lavoro. Al suo ingresso in un mondo che vorrebbe
trasmettere ai figli e ai giovani.
Ventitré ottobre 1961, primo giorno di lavoro a Milano. Mi soffio il naso, il fazzoletto bianco di stoffa diventa nero. Ecco il primo ricordo di Milano. Allora usavano
anche cherosene e si respirava quello, fuliggine.
Abbiamo vissuto il boom italiano e spero che ai miei figli si ripresenti. Lo spero ma
ho grossi dubbi.
Si può fare, ci esorta Carlo. Ho studiato per perito elettrotecnico. Quindi: alternatori,
motori, dinamo, ecc. All’Olivetti mi chiesero se volevo fare il riparatore di calcolatori elettronici. Gli risposi: ”Non so nemmeno cosa sono”. Risposero: “Gli facciamo
noi sei mesi di corso”. E fu così che cominciai a lavorare, a quei tempi, sul primo
calcolatore elettronico italiano transistorizzato - Ela 9003 - che ebbe un successo
strepitoso. Lanciò l’Olivetti nel mondo dei calcolatori, o computer. Fino a quando
l’Olivetti non andò in crisi e fu comprata da società americane e francesi.
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LE NOSTRE MENTI FRAGILI
[ A me piace la vita ]
Alessandra, 49 anni, Lastra a Signa.
Lastra a Signa, 12/09/2010
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lessandra ha i capelli corti biondi e una maglia verde senza maniche che mostra
braccia forti e disegna spalle dritte. È passata a comprare solo poche cose al centro
commerciale, giusto un salto perché poi deve entrare a lavoro. Eppure non ha fretta e si
ferma a leggere la scritta sul camper. Ogni parola sull’adesivo che riveste la carrozzeria
l’ha colpita. Le storie mobili, il fatto di raccontarle e condividerle. È curiosa e contenta
Alessandra, lo si vede, lo si sente.
Sono contenta sì, tanto. A me piace la vita tantissimo. Ringrazio sempre che c’è il
sole, che posso camminare, che posso essere indipendente, mi piace comunicare con
gli altri, cosa si può chiedere di più? Anche oggi, per dire, che incontro voi: questo
fatto del camper e di raccontare, è bello. È proprio bello.
Parla Alessandra anche mentre sale sul camper e ci dice delle sue domeniche.
Quando ho del tempo libero vado a correre. Per cui vado presto, faccio la mia corsa,
torno a casa e fo una bella doccia. Poi se trovo qualche amico bene, sennò torno a
casa, leggo un bel libro. Faccio una passeggiata ancora.
Oggi invece è domenica, ma lavora. Alessandra uscirà di qua, passerà da casa e poi via.
Lavoro in questo centro psichiatrico e mi piace tantissimo. Non potrei fare che questo nella vita, perché mi piace avere il senso del lavoro e aiutare gli altri. Secondo me
è la cosa più bella che possa capitare. Ho a che fare con persone che hanno problemi
molto gravi. Per lo più schizofrenici. Questo mi dà modo di confrontarmi con loro. Mi
rendo conto di quanto siamo fragili, di quanto la nostra mente è fragile, di quanta
verità nasce da quella fragilità, perché appunto in loro è scoppiata.
Sorride Alessandra. Anche sul divano mentre ci parla si sente la sua soddisfazione,
questi occhi che si muovono rapidi e che brillano.
Ora andrò lì. Ho intenzione di fargli vedere un film, perché poi si prende spunto per
poter parlare di qualcosa. C’è chi più o meno riesce a seguire il discorso, chi riesce a
seguire il film. Cerco poi di farli proprio entrare nel film. È un po’ difficile, però ci si
prova. Oggi voglio far vedere loro una cosa tosta. Qualcuno può dire che è negativo,
però secondo me è positivo. Il film è “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. È un film
vecchio e per l’appunto parla di questi problemi. Conoscendoli, mi aspetto che ci sarà
chi farà delle domande. E chiederà il perché di certe cose, di cosa riguarda loro, di
come viviamo questa cosa. Sdrammatizzeremo ovviamente, perché sempre è così. E
spero che abbia successo, che catturi l’attenzione, quello che è…Dopodiché faremo
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merenda tutti insieme. Poi faremo cena e via così.
Alessandra ha quasi cinquant’anni, ma sembra ancora una ragazza. Si porta dentro questa energia contagiosa, si porta dietro ancora un sorriso di un’infanzia felice.
Da piccola giocavo tanto all’aperto. Ho dei ricordi di cose da maschiaccio, con due
fratelli! Sugli alberi, corse, ginocchi rotti, merende con pane e pomodoro, olio. Me
la ricordo bene la mia infanzia perché tutta vissuta in campagna…Mi ricordo mio
fratello quando cascò dalla bicicletta. Aveva questo grembiulino che gli svolazzava e
urlava “Mamma!”. Poi mi ricordo io sull’altalena... Infatti anche ora, anche se sono
grande, quando le vedo non ce la fo, mi siedo sull’altalena e vado. Mi ricordo che mio
padre me le faceva. Prendeva le corde e le attaccava all’albero, e poi su questa tavoletta si andava. Mi ricordo proprio che mi sembrava di volare, su in alto con i piedi. Sì.
Alessandra guarda in alto. Un attimo di tristezza per i suoi genitori che non ci sono più.
Ma poi ritrova il sorriso. Se li porta dietro. Si porta tutta la vita dietro, anche sul lavoro.
La sua vita per le vite degli altri.
Poi, non lo so, ce ne sono tanti di ricordi. Quando si cambiò casa e non volevo venire via. Tutti quei pianti, “Non ci vengo!” Sicché il mio babbo: “Dai ti porto a vedere
la casa nuova che è bella, che avremo tutto”. Poi mi ricordo mia mamma la mattina
in questa casa di campagna - s’era tre piccini che si andava a scuola - si scaldava le
magliettine alla stufetta, perché la casa era umida, e vedevo questo fumo alzarsi. E
poi sentivo tutti questi rumori... Quando ci penso me ne ricordo molto bene. Sono
cose preziose dentro di me, perché mi fanno apprezzare quello che ho ancora di più.
La cosa bella era l’armonia che sentivo in questa casa quando ero piccola. C’era la
povertà ma… Guarda sembra di parlare di tanto tempo fa, ma non è così. C’era la
povertà, ma c’erano tante cose. Non so spiegare, capite?
Alessandra scende dal camper. Sale in auto. Passa davanti al camper, rallenta e ci saluta
dal finestrino. Va al lavoro con l’armonia in tasca. Ce la immaginiamo con quel sorriso
come ventaglio in mezzo alle tante menti fragili.
A NOME MIO
[ Fu un mese che furono trent’anni. E ho imparato un mestiere ]
Paolo, 71 anni, Firenze.
Le Piagge, 18/09/2010
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iuta l’aria, Paolo. Fiuta l’aria intorno al camper. Vuole parlare, vuole dire tante cose.
Ma è come se gli mancasse il coraggio per fare quel passo e avvicinarsi. Appena gli
consegniamo il volantino di Storie Mobili, è come se le pareti di una diga si aprissero. Io
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penso che Dio abbia sbagliato a fare qualcosa: quando una persona dura fatica a tirare avanti - io piglio 590 euro al mese di pensione e c’ho la mi’ figliola e la bambina a
carico - è difficile la faccenda. Quando invece questi deputati… Mi pare che ultimamente è stato aumentato di mille euro lo stipendio ai politici. Io posso dire solo una
cosa, una parolaccia: fanno schifo. Poi ci fanno vedere Brad Pitt che ha comprato una
villa a 400 milioni di euro. Ci fanno vedere George Clooney che ha comprato la villa
sul lago di Como. Poi ci fanno vedere che muore mille o duemila bambini il giorno
nell’Africa. E allora gli dite a questo Stato, a nome mio, che fanno schifo?
Fa per alzarsi. È come svuotato, stanco e sfiduciato per tutta la rabbia che ha dentro. Ma
basta poco perché intenda che qui, nel camper, può raccontare anche altro. Un pezzo
della sua vita, una passione che è arte e che diventa lavoro.
Io sono pittore e dalla Guerra in poi è stata durissima. Poi ha cominciato un pochino a migliorare la situazione. Mi sono sposato due volte. La miseria, guardi, l’era
tremenda. C’avevo due lavori, ero un ragazzino. La mattina andavo a fare l’ortolano
in via Giampaolo Orsini e poi la sera andavo al Circolo Borghese della Stampa a fare
il cameriere. Fin quando non presi un grande esaurimento nervoso: quando andavo a lavorare, vedevo la strada, il ponte che dovevo attraversare, girarmi così. Fa il
gesto di girarsi. Poi c’è stato un periodo che è andata un pochino meglio. Sono stato
cinque anni a Cortina. Mi hanno dato spazio in alcune gallerie, ho fatto delle mostre,
ho sempre venduto tutto. Però lei deve capire che uno che è stato sempre privato di
qualsiasi cosa, quando arriva ad avere qualcosa vuol godere della vita. Perché la vita
è una, non due. Forse lassù - indica il cielo - ce n’è una.
La sua crisi è quella di tanti. La rabbia di Paolo guarda noi ma guarda tutti. La sua arte
sembra arrendersi ai soldi che non ci sono. A una crisi che si mangia tutto.
Ma ora, ora c’è una miseria che la gente se ne frega di comprare un quadro. Oggi
durano fatica a comprare da mangiare, come fanno a comprare un quadro. Bisognerebbe andare dove c’è questa gente che l’è piena di soldi.
LA FABBRICA CON I PANTALONI LUNGHI
[ Ho conosciuto la fabbrica, le sei sirene al giorno ]
Massimo, 50 anni, Sesto Fiorentino
Sesto Fiorentino, 3/10/2010
M
assimo è arrivato al centro commerciale per cercare Storie Mobili, per prendere
al volo questa possibilità del racconto. Vuole lasciare una testimonianza, perché
Massimo non ce la fa a vedere certi temi stritolati giorno dopo giorno. Massimo vuole
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salire sul camper e raccontare la fabbrica, il lavoro, il sindacato, la politica. Cose che
sembrano non esistere più ma di cui, è certo, abbiamo ancora bisogno.
È passato tanto tempo dai primi giorni in fabbrica. Sono passati ben 35 anni e mezzo. Non avevo neanche quindici anni. Allora non era come adesso. Studiavi se avevi
le possibilità. Io sono il secondo di sei figli e le possibilità non c’erano. Erano limitate.
Lavorava solo il babbo, anche perché la mamma con sei figli era impossibile che potesse partecipare, al lavoro, intendo. Quindi ho conosciuto la fabbrica, per un bisogno di
reddito. Io volevo girare il mondo. Volevo fare la scuola alberghiera e girare il mondo.
E invece penso di aver conosciuto il lavoro. Il lavoro, ma più che altro i lavoratori.
Persone rudi, persone che non avevano un titolo di studio alto, persone generose. Ho
conosciuto la fabbrica, le sei sirene al giorno a orari fissi: a cinque alle otto, alle otto,
a cinque alle dodici, a cinque alle una, alle una e alle cinque. Ho conosciuto le docce
collettive perché allora lavoravo in una grande falegnameria, una grande azienda,
dove c’erano le catene di montaggio. Ma c’erano anche posti ovviamente dove si
poteva imparare il mestiere. E lì ho conosciuto il sindacato. Mi sono appassionato
alla politica sindacale, perché vedevo che potevo migliorare le mie condizioni di vita.
Era quello l’approdo. Non poteva esserci una strada facile. Tanti miei amici hanno
avuto la fortuna di studiare, di trovare altri luoghi di lavoro, altri ruoli, altri hanno
preso strade sbagliate. Erano i periodi dell’eroina, erano i periodi della lotta armata,
erano periodi dove dovevi essere molto attento a quello che facevi per non cadere in
nessun tipo di tranello e scorciatoia. Ecco, la fabbrica mi ha dato questo.
La fabbrica ha dato una strada da seguire a Massimo. La percorre con gli occhi. La vede
all’inizio, quando non sapeva bene dove portasse. Quando era acciottolata e disconnessa e imprevedibile. Ricorda il primo giorno in fabbrica. Quando guardava quella strada
da affrontare finalmente indossando i pantaloni lunghi.
Mi ricordo i pantaloni lunghi perché allora si portava i pantaloni corti per molto
tempo e già questo era importante. Mi hanno dato l’armadietto. Mi hanno dato la
cartolina da timbrare, mi hanno presentato il capo reparto e mi hanno detto all’incirca quello che dovevo fare a lavorare. Uscivo dalla scuola media inferiore e per me
è stato un impatto pesante. La fabbrica è rumorosa. Non è un posto idilliaco. La fabbrica ti detta i tempi di produzione. Sei tu attaccato alla macchina, non determini
tu i tempi. La fabbrica ti fa cooperare con gli altri. Quando si deve andare in bagno
si chiede il cambio e non sempre il cambio c’è. Oggi è così anche nei centri commerciali, per le commesse. Gli elementi della fabbrica sono stati trasportati in altri settori, ma la pesantezza del lavoro è rimasta uguale, anzi. Devo dire che è peggiorata,
molto. Se fossi un fine economista, direi che è un momento di riposizionamento del
capitale. Il capitale ha vinto.
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Lo ripete Massimo il capitale ha vinto, come a convincersi, come a darsi una giustificazione della scomparsa di certe immagini di fabbrica e di lavoro e di impegno. Come
a suonare la sirena, le sei sirene tutte insieme, per svegliarci tutti, per scandire nuovi
tempi.
Ha vinto e noi non sappiamo dare una risposta ai nostri giovani, perché non l’abbiamo data a noi stessi, di come si possa andare avanti. Bisogna avere una risposta
senza che si debba ricorrere al populista di turno che venga da destra o da sinistra.
Io non ho ambito a fare carriera. Il sindacato e la politica mi hanno permesso di
essere un uomo libero, questo ho ottenuto. La libertà dal bisogno. E quando hai la libertà dal bisogno, perché hai fortunatamente un lavoro, hai una famiglia, hai anche
un mutuo, hai un po’ di felicità. Quello di cui sono molto preoccupato oggi è che la
mia generazione ha avuto dalla precedente delle condizioni per crescere, per avere
una visione ampia, per continuare. Non so se a mio figlio lascerò questo.
Massimo si è avvicinato al camper di Storie Mobili per parlare a noi e per arrivare ai
giovani. Vuole parlare a quelli che entreranno nell’archivio del sito e ascolteranno la
sua storia. A chi si imbatterà nel suo volto, nei suoi occhi dietro occhiali leggeri. Ha
voluto donare un pezzo della sua storia per lanciare un appello.
Voglio dirlo alle nuove generazioni, ma non solo ai giovani. Mi rivolgo anche ai
cinquantenni come me. Sono su un crinale in cui penso ancora di dare alcuni consigli, ma riceverne tanti altri. Potrei dire ai giovani, ribellatevi a questo stato di cose.
Ribellatevi, ma dentro a delle regole. State dentro le istituzioni, state dentro ai partiti,
state dentro ai sindacati. Chiedete, pretendete, ma stateci invitando i più vecchi
non a essere rottamati, ma a stare al vostro fianco. Perché vi aiutano. Se non avessi
avuto i miei compagni in fabbrica, probabilmente la mia formazione sarebbe stata
completamente diversa. Io so che non si può riproporre quel periodo. Non sarebbe
neanche giusto. Però qualcosa va fatto. Bisogna inserirsi su questa terra di mezzo
fra capitale e lavoro.
È stato rigoroso. La strada del lavoro, del sindacato, del partito nel suo racconto è
lineare. Ma siamo noi a farlo tornare un po’ indietro, di nuovo e gli chiediamo cosa gli
ha lasciato di più bello la fabbrica. Silenzio. Gli occhi girano, ma lo sguardo rimane
alto. La commozione che sale, ma non straripa. Perché quella parola è già arrivata sulla
lingua e la sta solo assaporando. E quella parola desueta, polverosa, dimenticata in un
cassetto come un fazzoletto ricamato con le iniziali che la nonna una volta ti ha regalato
per un compleanno, Massimo la tira fuori e la sventola. Solenne. Definitiva.
La solidarietà.
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LA SOLITUDINE DEL LAVORO
[ Non c’era il giorno di Natale per me, non c’era il giorno di festa, non c’era domenica, non
c’era nulla. Ho sempre lavorato, anche di notte ]
Antonio, 65 anni, Potenza.
Empoli, 16/10/2010
A
ntonio non parla. È convinto che la storia del suo viaggio a rincorrere un lavoro,
non sia importante. Snocciola i chilometri e i giorni passati da solo, ancora un
bambino. Perché di lavoro si vive. Contro tutto e tutti. E la sua voce è quella di migliaia
di migranti: dal nostro Sud al Nord e poi di nuovo al Sud. Per fermarsi qui, alle porte
di Empoli. Con un pezzo di cuore lasciato in tutti i posti in cui ha vissuto. In tutti i posti
in cui ha lavorato.
Sono nato a Potenza. Ero contadino. C’era la crisi quando ero piccino. E a 13 anni
sono andato in Svizzera, a lavorare. Da solo. Ho fatto il manovale. Dopo un po’ di
anni mi son messo a mandare la gru per fare i blocchi dei palazzi. Sono stato 12
anni, non continuativi. Poi mi sono sposato e nel ’66 ho cominciato ad avere i figli.
E li ho portati lì, a lavorare perché si guadagnava abbastanza bene.
Però poi in fondo, tra quello che guadagnavi e quello che spendevi andavi anche
pari perché la vita era più cara… In ogni caso si stava meglio che in Italia. Siamo
rimasti lì fino a quando i bambini non hanno avuto 6 anni: c’era il problema della
scuola, perché allora non c’era la scuola italiana. “Che fo? Rimango qui e li mando
a scuola in tedesco o ce ne torniamo in Italia?”
Fu così che siamo tornati e ci siamo fermati qui per un anno, che c’era mio cognato.
In questo anno mi ero comprato la casa, senza una lira, fatto tutto a strisce. Tra le
cambiali e mangiare, mia moglie non lavorava, mi chiesi: “Che ci fo qui?” E allora
siamo tornati a Potenza, pensando che lì avremmo avuto qualche soluzione migliore. Ma là era ancora più disperata. Altri 4 anni. E così abbiamo deciso di tornare qui
a Empoli, nel 1978.
Il suo accento sembra una delle poche cose che, negli anni, non l’ha abbandonato. Se
lo porta dietro un po’ vergognandosi. Ma è anche un segnale: noi migranti siamo pronti
a tutto, sembra raccontare.
Andavo a scuola, alle elementari perché le medie non le ho fatte: uscivo e andavo
in campagna a pascolare mucche, maiali, pecore, tutto, parlando con rispetto. E
quando avevo fame, un pezzo di pane duro e mi avvicinavo a una mucca per mungerla, in una scodella. E lì mettevo il pane e mangiavo.
A Potenza stavamo in montagna e a dicembre iniziava a nevicare. Così, d’inverno, si
andava verso la parte marina, in Puglia. A sette anni, senza amici, con i genitori lonta-
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ni. Dovevo fare tutto: mangiare, stirare. Questa è stata la mia infanzia. Ma la ricordo
sempre: mi è piaciuta perché si viveva in compagnia, con allegria. La sera, in paese,
ci si metteva a ballare, ci si divertiva, senza spendere una lira. Invece oggi siamo degli egoisti e ci s’ammazza in quattro e quattr’otto. Oggi si campa per la disperazione.
È lo sguardo di Antonio, bruciato dal lavoro, a guardare avanti. Senza ottimismo.
Per me non c’erano giorni di festa. Non c’era domenica. Per me non c’era niente.
Ho lavorato anche di notte. Con fatica, però, mi sono costruito tanto.
Io ormai ho già superato la crisi. Sono in pensione e posso andare avanti. Ma per voi
giovani, che avvenire avete?
LA PRIMA COSA CHE MI VIENE IN MENTE
[ La domenica a tredici anni è un conto. A diciassette cambia tutto ]
Cosimo, 18 anni, Scandicci.
Lastra a Signa, 12/09/2010.
[ Quando dico che lavoro alle Piagge mi fanno due occhi così ]
Valentina, 23 anni, Lastra a Signa.
Le Piagge, 18/09/2010.
[ Abbiamo iniziato la vendemmia e non sapevo cosa fare. Per me era la prima volta ]
Sara, 24 anni, Firenze.
Gavinana, 26/09/2010.
[ Quando si comincia a traccheggiare, si traccheggia ]
Emiliano, 26 anni, Firenze.
Sesto Fiorentino, 03/10/2010
[ Io penso a un futuro strano. Ho due decisioni. Se lavoro faccio la mia vita, se non lavoro
mi rovino ]
Salija ed Emeraldo, 19 e 13 anni, Prato.
Prato, 10/10/2010
Sono belli, Cosimo e la sua fidanzata. Ancora con l’abbronzatura addosso: lui con i Ghostbusters sulla maglietta e lei con un pareo. Sembra cerchino una spiaggia e invece sono
nel parcheggio del centro commerciale di Lastra a Signa. Non per acquisti, ma per “passare la domenica”. Si fermano, anche se non hanno voglia di parlare loro, come gli altri
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giovani che abbiamo incontrato. Sentono di non avere una storia da raccontare. Di non
averla proprio, condizionati come sono da quelle degli altri. E allora, se gli chiediamo
Cosa ti fa pensare la parola”futuro”?, la risposta non fa sconti. Casa, la prima parola
che mi viene in mente è casa. Famiglia, lavoro e poi figli.
Ottimista? No, per niente. Mi piacerebbe esserlo ma la società di oggi non mi pare
così ottimistica. La fidanzata lo guarda e poi fissa un punto nel vuoto. Hanno paura a
parlare di loro, del loro futuro. Noi giovani, mi sembra, non abbiamo grandi possibilità nel futuro. Il futuro potrebbe essere anche nostro se solo non ci rovinassero e ci
tagliassero le gambe prima di partire. Tagliano nella scuola che è il primo passo per
costruire il nostro domani. Tanti laureati a servire al banco dell’Ipercoop.
Valentina le sue scelte le ha fatte. Ora lavoro, nei finesettimana. Poi studio: architettura. Si guarderà. Non è de Le Piagge. Quando dico che lavoro qui mi guardano con
due occhi! Parla del lavoro ma, soprattutto, dei colleghi e dei clienti. Per tutti sono “la
ragazza giovane”. Con loro, tante storie. Invece, con i più giovani, non ci siamo: sono un
po’, come dire, allo sbando. Anche a lei chiediamo: Il futuro? Il futuro, il futuro: non
faccio progetti. Sorride, come a voler esorcizzare alcuni ricordi e altre paure. Quando
li ho fatti sono andati tutti all’opposto. Via via, finiti gli studi, guarderò cosa fare.
Anche il lavoro: sono tempi brevi, contratti a tempo determinato. Guarderò.
Sara studia. Il lavoro, per lei, è quello occasionale. La vendemmia. Per me era la prima
volta in assoluto, racconta. Fuori dal camper, c’è il suo fidanzato. Lui è esuberante,
racconta e racconta. Lei più timida. Sfodera un sorriso che addolcisce ma, allo stesso
tempo, non scaccia un velo di malinconia. Mi guardavo attorno e cercavo di recepire
qualche informazione dalle persone anziane. All’inizio si stava tutti in silenzio e
solo piano piano abbiamo iniziato a parlare. E… niente. È abbastanza pesante.
Non so perché, ma lo sapevo. Emiliano studia fisica. Gli volevano far fare altro, magari ingegneria. Ma lui, no. Non so perché: ma è la mia scelta e ne sono convinto. È
convinto. Poi, davanti alla parola futuro, si irrigidisce. Come fosse un esame troppo difficile da superare. Potrei continuare a studiare oppure potrei fare l’allenatore di basket, visto che alleno una squadra di bambini e mi diverto come un matto. Penso sia
la cosa che mi dà più soddisfazioni. Poi mia mamma ha aperto un bed&breakfast
a mio nome: è una stanza, ma qualcosina rende. Dalla fisica al domani. Senza che
glielo chiediamo, finisce la sua storia cercando di allontanare da sé l’idea di emigrare,
una fuga dei cervelli. Tipo in Svizzera, dice. No, non mi piace l’idea di andarmene
chissà dove: m’immagino qui, a fare le stesse cose che facevo cinque anni fa e che
continuo a fare adesso.
Salija ed Emeraldo. Giovani, arrabbiati, ma sempre sorridenti. Quasi tutto il lavoro
l’hanno preso i cinesi, dice Emeraldo. Sì, ma forse loro hanno le palle: fanno cose che
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StorieMobili
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non facciamo noi, lo stoppa Salija. Partono a becchettarsi. Non è che ci vogliano le
palle: è che loro sono abituati così, come in Marocco dove tutti spacciano. È l’unica
cosa che non ho fatto: spaccio mai. Sono loro che non vogliono far parte di noi. Non
hanno soldi in tasca e sanno cosa rischiano a vivere ai margini. Praticamente, penso a un futuro strano. Nel senso: ho due decisioni. Se lavoro, faccio la mia vita. Se
non lavoro, mi rovino. Emeraldo si ferma e continua, guardando Salija. Lui, forse, è
più tranquillo. Più cattivo. Ho il contratto fino a fine mese, poi non so. Già ieri non
ho lavorato. Non c’è niente. Il futuro è mangiato dal passato e dal presente. E anche il
futuro, per Salija, ha solo un volto. I cinesi.
CON L’INFORMATORE DI GIUGNO
capitolo_4 Il dì di festa
Grafica_SocialDesign
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Un progetto di
Simona Baldanzi
Federico Bondi
Leonardo Sacchetti
promosso da
UNICOOP FIRENZE
in collaborazione con
SICREA
I filmati da cui sono tratte queste storie
sono su www.storiemobili.it
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Storie di lavoratrici e lavoratori raccontate nei centri