UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE MILANO Dottorato di ricerca in Scienze linguistiche e letterature straniere ciclo XXIII S.S.D: L-FIL-LET/05 L-FIL-LET/14 L-LIN/01 STUDI PER UNA RIDEFINIZIONE DEL CONCETTO DI CLASSICO Coordinatore: Ch.mo Prof. Serena Vitale Tesi di Dottorato di: Maria Grazia Dinisi Matricola: 3610561 Anno Accademico 2010/2011 STUDI PER UNA RIDEFINIZIONE DEL CONCETTO DI CLASSICO Maria Grazia Dinisi Indice Indice 3 I INDAGINE TERMINOLOGICA 5 1 Classico 7 1.1 Accezioni ed eccezioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 1.2 La nascita della categoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 1.3 La nascita del termine, la nascita dell’idea . . . . . . . . . . . . . 25 II INDAGINE STORICA 31 2 Il mondo antico 35 2.1 Il Classico nell’età classica: il mondo greco . . . . . . . . . . . . 35 2.2 Il Classico nell’età classica: il mondo romano . . . . . . . . . . . 60 2.3 Il sublime e Del sublime . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 82 2.4 Il Tardo antico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89 3 105 Il Medioevo 3.1 Letteratura europea e Medio Evo . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105 3.2 La rinascita carolingia degli studi . . . . . . . . . . . . . . . . . . 106 3.3 La tradizione dei testi manoscritti monastici medievali . . . . . . 116 3.4 La tradizione dei testi manoscritti cortesi-borghesi medievali . . 126 3.5 La nuova cultura laica, dalla corte alle università . . . . . . . . . 130 3.6 Dante e la letteratura volgare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153 3 Indice 4 L’età moderna 5 161 4.1 Il libro stampato: una merce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 161 4.2 Rinascimento, Umanesimo e Classicismo. . . . . . . . . . . . . . 176 4.3 La Querelle des Ancients et des Modernes . . . . . . . . . . . . . 180 L’età contemporanea 207 5.1 Il ’700 e la nascita dell’identità politica e culturale europea . . . 207 5.2 La parentesi rivoluzionaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 217 5.3 Sainte-Beuve: che cosa è un classico? . . . . . . . . . . . . . . . 220 5.4 Eliot: che cosa è un classico? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 235 III LO STATO DEI LAVORI 6 Ipotesi teoriche per una definizione 259 261 6.1 Bello. L’estetica del Classico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 266 6.2 Buono. L’etica del Classico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 268 6.3 Buono. L’utile del Classico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 270 6.4 Uno. Polisemia del termine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 271 6.5 Uno. La restrizione di selezione semantica del Classico . . . . . . 276 6.6 Vero. La verità del Classico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 280 6.7 Vero. L’originalità del Classico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 289 6.8 Tempo. La collocazione del Classico . . . . . . . . . . . . . . . . 294 6.9 Tempo. La sedimentazione del Classico . . . . . . . . . . . . . . 299 6.10 Tempo. La durata del Classico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 302 6.11 La medietà del Classico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 304 6.12 Il genere del Classico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 305 6.13 Lo stile del Classico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 309 6.14 I gradi del Classico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 310 6.15 Questioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 315 6.16 Il futuro del Classico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 316 7 Ipotesi pratiche per la stesura dell’elenco Bibliografia 4 327 331 Parte I INDAGINE TERMINOLOGICA 5 Capitolo 1 Classico 1.1 Accezioni ed eccezioni Nel 1958 W. Tatarkiewicz pubblicava un piccolo saggio: Les Quatre significations du mot “classique”1 ; i tempi erano ormai maturi perché ci si spiegasse meglio: il termine “classico” aveva nei secoli accumulato ormai troppe valenze, troppe caratterizzazioni e si sentiva il bisogno di fare chiarezza. Wladyslaw Tatarkiewicz è uno dei maggiori filosofi del Novecento, nato a Varsavia nel 1886 fu allievo a Marburgo di H. Cohen e P. Natorp, a sua volta insegnò poi a Varsavia dal 1923. La sua opera maggiore, scritta tra il 1962 e il 1967, è Storia dell’estetica: tre poderosi volumi in cui affronta le teorie estetiche a partire dall’antica Grecia fino all’anno 17002 . Nel 1975 pubblicò Storia di sei idee3 che si occupa delle principali teorie estetiche dal 1700 ai nostri giorni; si tratta quindi di un’opera pensata come ideale proseguo ma anche come integrazione della prima, dal momento che recupera l’intera storia dei sei termini presi in esame, arte, bello, forma, creatività, imitazione, esperienza estetica, e dei relativi concetti. In tutti i suoi studi, Tatarkiewicz integra le teorie esplicite di ogni epoca con quelle che chiama “teorie implicite”, quelle cioè presenti in forma inespressa nelle opere d’arte e quindi deducibili da un attento esame 1 Wladislaw Tatarkiewicz, Les quatre significations du mot "classique” in “Revue internationale de Philosophie”, 43 1958. 2 Wladislaw Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, Einaudi, Torino 1980. 3 Wladislaw Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 2006. 7 1. Classico delle opere stesse. Les quatre significations du mot «classique» sont du domaine des sciences humaines. Les deux premières (A et B) peuvent être appliquées aux œuvres scientifiques et sociales; les deux dernières (C et D), seulement aux lettres et aux arts. “Classique” au sens A dènote une valeur, au sens B, une détermination chronologique, au sens C, c’est un style historique, au sens D, une catègorie esthétique. Au sens C, c’est un term de l’histoire de l’art, et au sens D, de la théorie générale des arts4 . Torniamo ora all’articolo da cui siamo partiti, che precede, e forse fonda, gli altri lavori, quantomeno cronologicamente. I significati della parola “classico” sono per Tatarkiewicz quattro e vengono indicati con le prime lettere dell’alfabeto. La prima accezione (A), che precede le altre, come già aveva indicato Gellio5 , denota un valore, indica “appartenente alla prima classe”; qualcosa riconosciuto universalmente come modello, come exemplum. «Classique» se dit de ce qui est «de première classe», de ce qui est le meilleur dans son genre, parfait, supreême, modèle, reconnu. C’est là la meême signification que déjà Aulus Gellius donnaitt au mot. En ce sens il apprècie l’œuvre appelée classique sans en déterminer le caractère6 . A questa prima definizione si accostano due varianti: la prima, A-2, ««Classique» se dit de ce qui est génèralement apprécié et admiré»; la seconda, A-3, «qui est d’usage dans la langue courante, «Classique» se dit de ce qui à force d’être apprécié, est passé dans les mœurs» 4 Wladislaw Tatarkiewicz, Les quatre significations du mot "classique” in “Revue internationale de Philosophie”, 43 1958, p. 10. 5 Si veda il cap. 1.3 6 Wladislaw Tatarkiewicz, Les quatre significations du mot "classique” in “Revue internationale de Philosophie”, 43 1958, p. 7. 8 1.1. Accezioni ed eccezioni La seconda accezione (B), che si forma durante il Rinascimento, denota un periodo cronologico; indica in toto le civiltà greca e romana e i loro prodotti oppure, come vedremo nella seconda variante, può indicare un periodo fulgente all’interno di questo arco di tempo. «Classique» se dit come synonyme de ce qui est antique. Si l’art antique est lee seul art parfait il a le droit au nom classique7 Anche a questa seconda definizione si accostano due varianti: la prima B-2 «Classique se dit de ce qui est ancien et en même temps consacré par l’admiration»; la seconda, B-3 «entend par «classique» uniquement l’apologée de l’antiquité, la période de la plus haute perfection des arts et des lettres antiques», il v-iv secolo a.C., l’Atene di Pericle, e il I secolo d.C., la Roma di Augusto, oppure l’intero arco di tempo che collega questi due periodi. A questa accezione possiamo aggiungere con Settis che: «Per definire l’antichità che noi chiamiamo “classica”, Winckelmann non usava il termine “classico”; né lo usarono in questo senso Ghiberti, Vasari o gli altri scrittori fra Quattro e Settecento. Di fatto, anche se la parola “classico” entra in circolazione fra Cinque e Seicento, il suo uso come sinonimo di antichità greco-romana non si stabilizzò prima degli inizi del xix secolo8 ». Questa precisazione ci porta direttamente alla terza accezione (C), presente fin dal xviii secolo, che infatti denota lo stile storico di chi si ripromette l’imitazione dei classici di cui al punto precedente (B), ma anche al primo (A), in effetti, è debitrice; normalmente chiamiamo costoro classicisti, proprio per distinguerli dall’antichità a cui si rifanno. «Classique» se dit de ce qui, sans être classique, est conforme aux modèles antiques. La quarta accezione (D), compare solo tra xix e xx secolo, denota una categoria estetica, indica la capacità di misura ed equilibrio 7 Wladislaw Tatarkiewicz, Les quatre significations du mot "classique” in “Revue internationale de Philosophie”, 43 1958, p.7. 8 Salvatore Settis, Futuro del "classico", Einaudi, Torino 2004, p. 71. 9 1. Classico Classique se dit des auteurs et des œuvres possédant des qualités telles que l’harmonie, la mesure, l’équilibre, car ce sont celles des classiques anciens (au sens B) et modernes (au sens C). A queste quattro possibili accezioni, in particolare alla prima e alla terza, aggiungiamo però una nota; di nuovo Settis dice: «“Classico” è di per sé un concetto statico, in quanto designa un periodo storico per definizione concluso; esso tuttavia non ha senso e non diviene operativo senza un meccanismo dinamico di nostalgia o di iterazione, senza una qualche pulsione ora verso il ritorno al “classico”, ora verso il suo superamento9 ». Torniamo a Tatarkiewicz che riprese il discorso nel 1975 con Storia di sei Idee e infatti, nel capitolo sulla storia della categoria del bello, troviamo un paragrafo titolato “Il bello classico”. Dopo tanti anni dal suo primo intervento sul Classico troviamo diversi nuovi argomenti: i significati sono infatti nel frattempo diventati sei, in riferimento diretto alla lingua polacca, anche se l’autore precisa che «la questione non è diversa in inglese, russo, italiano, tedesco» e nuovamente sono indicati dalle prime lettere dell’alfabeto10 . I primi tre significati sono gli stessi del 1958; il primo (A) è corredato anche da alcuni esempi o applicazioni del concetto: «In tal senso sono autori classici (o semplicemente “classici”) Omero e Sofocle, ma anche Dante e Shakespeare, Goethe e Mickiewicz, e lo sono anche alcuni artisti gotici e barocchi11 ». Interessante notare l’ultima considerazione che accoglie periodi tradizionalmente opposti all’antichità e alla classicità. Questa definizione non si riferisce solo ad artisti e letterati ma anche a studiosi di tutti i campi; a questo proposito cita lo stesso Goethe: «Alles vortreffliche ist klassisch, zu welcher Gattung es immer gehöre12 ». Il secondo (B), in particolare riferimento all’ambito più ristretto di cui abbiamo già parlato (B-3), viene meglio definito per metà storico e per metà valutativo, laddove il primo, come abbiamo visto, era esclusivamente valutativo. Il terzo (C), di nuovo con carattere storico viene a volte completamente 9 Salvatore Settis, Futuro del "classico", Einaudi, Torino 2004, p. 18. Per la determinazione del Classico nella lingua francese si veda il capitolo 5.3 con l’analisi fatta da Sainte-Beuve sul significato consolidato e la sua personale proposta a questo riguardo. 11 Wladislaw Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 2006, p. 188. 12 Wladislaw Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 2006, p. 188. Tutto ciò che è eccellente è classico, a qualsiasi genere appartenga. 10 10 1.1. Accezioni ed eccezioni assimilato al secondo significato. A questo punto Tatarkiewicz si discosta dalla prima trattazione inserendo due nuovi significati: (D) classico come «conforme a precetti» e (E) classico come «sinonimo di canonico, tipico, accettato, fissante una norma». L’ultimo significato torna a ricalcare il quarto della vecchia lista: (F) «Classico significa infine avere caratteristiche quali armonia, misura, equilibrio, serenità». A questa prima spiegazione seguono alcuni chiarimenti. In riferimento alla lingua francese nota che il termine ha assunto prima il senso di modèle (1835), più tardi quello di approuvé (1964) e, sebbene a volte le due accezioni possano coincidere in un solo autore, sono comunque due caratteristiche ben distinte. A questo proposito aggiunge che definire Classici Racine e Bossuet significa unire i significati A, C ed F. Nel secondo chiarimento riferisce che le accezioni più usate oggi sono C ed F, perché gli studiosi per le altre accezioni preferiscono usare termini meno ambigui. Nonostante la proliferazione dei significati notiamo come tutti afferiscano comunque ad una stessa categoria che non possiamo nominare se non col suo stesso nome: il Classico. Prendiamo l’accezione B, o la C, possiamo forse negarle il significato A, o il D, E, F? In qualche modo il classico compartecipa contemporaneamente di tutte le categorie valutative del termine e forse anche in egual misura, di questo parleremo però alla fine della nostra trattazione, per il momento assumeremo, quando si renderà necessario, queste ultime accezioni, da A a F, nel seguito della trattazione. Lasciamo da parte Tatarkiewicz, che non era stato infatti il primo ad interessarsi della parola “classico”; già nel 1944 Eliot, che titolava The Presidential Address to the Virgil Society, pubblicato l’anno seguente da Faber & Faber, What is a Classic? aveva sentito questa esigenza. Prima di entrare nella trattazione vera e propria in cui si propone di «enumerate certain qualities which I should expext the classic to display13 », Eliot infatti riassume alcuni significati del termine, in modo non esaustivo, in effetti, per potersene allontanare. But before I go farther, I should like to dispose of certain prejudices and anticipate certain misunderstandings. I do not aim to 13 T. S. Eliot, What is a Classic? in T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957. «Enumererò alcune qualità che mi aspetto di trovare in un classico» Questa traduzione, come tutte quelle di cui non sia indicato diversamente, è mia. 11 1. Classico supersede, or to outlaw, any use of the word ’classic’ which precedent has made permissible. The word has, and will continue to have, several meanings in several contexts: I am concerned with one meaning in one context. In defining the term in this way, I do not bind myself, for the future, not to use the term in any of the other ways in which it has been used. If, for instance, I am discovered on some future occasion, in writing, in public speech, or in conversation, to be using the word ’classic’ merely to mean a ’standard author’ in any language - using it merely as an indication of the greatness, or of the permanence and importance of a writer in his own field [...] no one should expect one to apologize14 . Eliot passa poi ad elencare alcune accezioni del termine che intende scartare; «classic of schoolboy fiction15 », i classici di genere ad esempio, ma anche i classici di campi lontani dalla letteratura propriamente detta quali la caccia o il Derby. Eliot quindi si avvicina al fuoco dell’indagine e ricorda che i classici possono essere anche «Latin and Greek literature in toto, or the greatest authors of those languages, as the context indicates16 » Eliot infine, prima di pervenire alla sua personale definizione, di cui diremo nel capitolo 5.4, si occupa del Classico come opposizione e ricorda l’opposizione classico-romantico. Molti anni più tardi anche Settis definisce Classico per opposizioni e ne ripercorre diverse: «classico può essere definito da una serie di opposizioni binarie: nel Cinque e Seicento, gli si contrappose il “gotico” (cioè l’arte medievale); nell’Ottocento il “romantico” (ma anche, fra gli storici dell’arte, il barocco); nel Novecento il 14 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 53. Ma prima di procedere, vorrei risolvere certi pregiudizi e anticipare possibili malintesi. Non miro né a superare né a proscrivere nessun uso della parola «classico» che i precedenti hanno reso possibile. La parola ha, e continuerà ad avere, diversi significati in diversi contesti: a me interessa un solo significato in un solo contesto. Nel definire il termine in questo modo, non mi sento obbligato per l’avvenire a non usarlo in qualcuna delle altre accezioni per cui è stato usato. Se, ad esempio sarò scoperto, in qualche occasione futura, nello scrivere, in una pubblica conferenza, o nella conversazione, ad usare la parola ’classico’ esclusivamente per indicare un ’autore standard’, di qualsiasi lingua - usandola esclusivamente come indicatore di grandezza o di durata e di importanza di uno scrittore nel suo stesso campo [...] nessuno si aspetti che io mi scusi. 15 Noi diremmo i classici per l’infanzia. 16 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 54. 12 1.1. Accezioni ed eccezioni “primitivo” (e forse sarebbe meglio dire l’“l’autentico”)17 ». Da ultimo una nota storico-geografica: l’idea di classico resta appannaggio esclusivamente occidentale; già Settis ha preso in analisi questo aspetto: In altre grandi civiltà storiche, per esempio in Cina o in India, sono ben note forme di culto per l’antico (in cinese gu), inteso anche come canone (in cinese gu-dian), ma sembra mancarvi il ventaglio di significati e di valori associati al “classico” nella tradizione europea e, in particolare, l’idea di un suo ritorno ciclico che, come vedremo, sembra essere assolutamente peculiare della nostra tradizione, e non di altre18 . A questo possiamo aggiungere anche che: «è un carattere storico così peculiare che Ernst Howald, in Die Kultur der Antike19 , ha potuto indicare la rinascita del “classico” come la “forma ritmica” della storia culturale europea20 ». Possiamo ipotizzare che questo sia dovuto ad un’altra presenza significativa nella cultura occidentale, assente invece nelle culture, ad esempio, orientali; mi riferisco al senso storico, assenza che già Pasquali aveva notato nel 1931: Faccio ancora domande sul Giappone: chiedo, per curiosità sincera, quando in esso sia stato introdotto il buddismo. Un momento di silenzio: poi l’uno dice: «mille anni fa», l’altro corregge: «saranno piuttosto duemila». Poi, mentre la mia faccia si impronta di costernazione, confabulano nella loro lingua tra loro. Di lì a poco mi comunicano la conclusione finale: hanno fatto un taccio, e si sono accordati su millecinquecento. Il giorno dopo riscontro un’enciclopedia, e vedo che essi hanno quasi ragione: la data è il 552 dell’era cristiana, ma io temo ancora che abbiano ragione per caso. E da quel momento ho la sicurezza che la loro cultura storica è senza cronologia, cioè non è storia; e mi ricordo che un altro popolo orientale, vicino a noi per razza, gli Arii dell’India, non ha una 17 Salvatore Settis, Futuro del "classico", Einaudi, Torino 2004, p. 72. Salvatore Settis, Futuro del "classico", Einaudi, Torino 2004, p. 19. 19 Ernst Howald, Die Kulture der Antike, Artemis Verlag, Zürich 1948. 20 Salvatore Settis, Futuro del "classico", Einaudi, Torino 2004, p. 84. 18 13 1. Classico storiografia e non ha senso per cronologia, che la maggior parte degli scritti che esso ci ha tramandato, non è databile, sebbene intorno ai suoi classici abbiano cominciato ad affaticarsi molto presto grammatici e commentatori raffinati, che di data controversa sono i personaggi anche principalissimi della sua storia21 . Curiosamente le civiltà citate da Settis e Pasquali sono le stesse (la civiltà giapponese è “figlia” di quella cinese e infatti la chiama “la grande madre”), sarà forse quindi più conveniente dire che, tra le culture orientali, quanto meno quelle cinese, giapponese e indiana non conoscono il senso cronologico che noi consideriamo connaturato alla storia stessa. Da ultimo bisogna anche aggiungere un altro elemento che è spesso legato alla storia ed è l’idea del progresso; a questo proposito possiamo portare il contributo di un autore d’oltre confine, per così dire, Junichiro Tanizaki che in In Ei Raisan22 , un saggio sugli squilibri sensiorali imputabili all’occidente e sulla persistente accettazione del Giappone dell’ombra contro la ricerca ossessiva della luce tipica dell’occidente, scrive: V’è, forse, in noi Orientali, un’inclinazione ad accettare i limiti, e le circostanze, della vita. Ci rassegniamo all’ombra, così com’è, e senza repulsione. La luce è fievole? Lasciamo che le tenebre ci inghiottano, e scopriamo loro una beltà. Al contrario, l’Occidentale crede nel progresso, e vuol mutare di stato. È passato dalla candela al petrolio, dal petrolio al gas, dal gas all’elettricità, inseguendo una chiarità che snidasse sin l’ultima parcella d’ombra23 . Adesso che abbiamo compiutamente preso in analisi i molti significati della parola possiamo indicare a quale accezione ci vogliamo riferire: per noi qui Classico indica primariamente un autore imprescindibile per comprendere la civiltà occidentale, che sia stato per questa anche modellizzante e normativo sia per forma che per contenuto. Questo non toglie che alla fine della nostra ri21 Visita di colleghi giapponesi in Giorgio Pasquali, Pagine stravaganti, Sansoni, Firenze 1968, p. 101. 22 Junichiro Tanizaki, In Ei Raisan, Tokio 1935. 23 Junichiro Tanizaki, Libro d’ombra, Bompiani, Milano 2009, p. 68. 14 1.2. La nascita della categoria cerca potremo vedere come e se i Classici, così come li abbiamo intesi, possano a volte coincidere anche con altre definizioni del termine. 1.2 La nascita della categoria Che cosa è un Classico? Prima ancora, che cosa è stato Classico storicamente, sempre che un’idea di Classico già esistesse, nelle diverse civiltà che ci hanno preceduto? Bisogna risalire molto indietro nel tempo per trovare la prima attestazione del termine “classico”, fino al secondo secolo con Aulo Gellio24 . Per trovare poi un probabile inizio dell’idea di Classico è necessario tornare ancora più indietro fino alla nascita stessa di quelle antichissime civiltà che, nel corso dei secoli e dei millenni, si sono evolute e sono mutate tanto da generare molte altre civiltà. Tra queste civiltà più recenti si trovano anche le civiltà greca e romana, genitrici a loro volta della moderna civiltà occidentale di cui noi qui ci occupiamo. Per il momento lasciamo quindi Gellio da parte e iniziamo prendendo in esame i testi delle civiltà più antiche. Quanto bisognerà tornare indietro, quando l’idea di Classico può essere verosimilmente nata? La comunità scientifica ha deciso di far iniziare la storia stessa con la nascita della scrittura, in quanto per secoli la tradizione scritta è stata l’unica fonte attendibile, e la scrittura è, del resto, lo stesso ambito che ci proponiamo ora di indagare. Nel 1960 William Frank Libby (1908-1980) ritirò il premio Nobel; era stato il primo a ideare un metodo per determinare l’età dei resti di materiali organici grazie alla misurazione della percentuale di carbonio radioattivo in essi contenuto. Dopo di lui altri continuarono il lavoro iniziato ed oggi esistono metodi di datazione basati anche su altri elementi: piombo, torio, rubidio, potassio e vari altri isotopi che permettono datazioni per periodi di tempo inimmaginabili (fino a tre milioni di anni fa). Negli ultimi cento anni quindi la scienza ha fatto velocemente importanti passi avanti arrivando ad essere dapprima un importante ausilio per le diverse scienze storiche, per poi diventare, come è oggi, una delle fonti primarie della ricerca storica. Ciò nonostante quanto di nuovo e più antico è stato scoperto ha iniziato in gran parte ad occupare due 24 Si veda il cap. 1.3. 15 1. Classico nuovi periodi, preistoria e protostoria, lasciando che la storia continuasse a nascere contemporaneamente all’affermarsi della scrittura nel 3100 a.C. circa, lasciando quindi anche che la storia diventasse più propriamente storia della civiltà. Quest’ultima è proprio la storia che interessa la nostra ricerca e quindi inizieremo anche noi dal 3100 a.C.. Il primo luogo sulla terra in cui videro la luce civiltà che usavano la scrittura è la mezzaluna fertile; in quest’area due culture, quasi contemporaneamente, ci hanno lasciato notizie scritte di sé: Sumer nella terra tra i fiumi Tigri ed Eufrate, nel sud della Mesopotamia, e Kemet, la fertile “regione nera” lungo le sponde e il delta del fiume Nilo. Per entrambe le principali civiltà della mezzaluna fertile passò molto tempo prima che venissero prodotti quei testi che sono giunti fino a noi e, sebbene molti altri possano essere andati perduti, è indubbio che la scrittura sia nata per motivi altri, la gestione dei beni, dalla produzione letteraria così come vedremo tra poco, e che quest’ultima sia apparsa solo successivamente. Per quanto riguarda la Mesopotamia la prima civiltà di cui conosciamo, almeno in parte, la letteratura, elemento centrale per la nostra analisi, è il regno di Sumer. La letteratura sumerica è oggi la più antica letteratura conosciuta e le origini della sua lingua scritta sono ancora più lontane; i Sumeri, che parlavano una lingua agglutinante a tendenza sillabica, inventarono una forma di scrittura pittografica attestata intorno al 3600 a.C., questa passò poi attraverso una fase ideografica, facilitata dalla struttura stessa della lingua, di cui sono prova evidente le tavolette di Uruk, datate attualmente intorno al 3300 a.C.25 . Denise Schmandt Besserat, Professor of Art and Middle Eastern studies presso la Austin University, Texas e una delle massime studiose sull’origine della scrittura, ritiene che gli ideogrammi sumeri possano essere la riproduzione dei più antichi gettoni d’argilla, i Calculi, in uso fin dall’8000 a.C. e che servivano a memorizzare le tipologie e le quantità di merci durante le transa25 La datazione classica della nascita della scrittura in Mesopotamia (Uruk IVb, 3300 a.C.) è il risultato della media aritmetica della forbice cronologica (3600 - 2900 a.C.) del gruppo archeologico diretto da Hans J. Nissen, le ricerche più recenti sul sito, invece, retrodatano l’inizio del Periodo di Uruk fino al 3750 a.C. (J.D. Forest) e relativamente la nascita della scrittura fino al 3600 a.C.). 16 1.2. La nascita della categoria zioni commerciali26 . Solo dopo alcuni millenni si arrivò alla famosa scrittura cuneiforme; le più antiche attestazioni di questa sono oggi collocate alla fine del iv millennio a.C.; di questo periodo però, sono conservate solo tavolette di argomento economico-amministrativo e liste lessicali per l’addestramento dei professionisti della scrittura che nel frattempo erano emersi come importante classe sociale: gli scribi. I più antichi testi cuneiformi che si possono considerare letterari sono stati trovati nel sito di Abu Salabick e sono oggi datati circa al 2600 a.C.; la massima parte dei testi letterari arrivati fino a noi sono però oggi attribuiti ad un periodo compreso tra 2000 e 1900 a.C., il cosiddetto periodo di Isin-Larsa, lo stesso periodo in cui il sumerico sparisce come lingua parlata e diventa lingua dotta esclusivamente scritta. In questo periodo troviamo numerosi tipi di opere letterarie; ché di generi ancora non si può parlare, genere letterario così come autore sono idee decisamente successive, abbiamo numerosi Inni alle divinità, testi storici, Inni regali, Tenzoni e infine i testi mitologici. Tra questi c’è il ciclo epico di Uruk, composto di undici poemi; proprio uno di questi, Enmerkar e il signore di Aratta, contiene anche il racconto mitologico della nascita della scrittura. Enmerkar era un leggendario re sumero che decise di imporre il proprio dominio anche sulla città di Aratta, nell’altopiano iranico. Decise di non intraprendere un’azione bellica bensì si limitò a mandare un messaggero per indurre il sovrano di Aratta a sottomettersi e pagare i dovuti tributi. Nel corso delle trattative Enmerkar non ritenne più sufficiente il messaggio orale, così decise di inventare un mezzo di comunicazione a distanza (nel tempo e nello spazio diremmo oggi) preciso ed affidabile poiché «il messaggero aveva la lingua pesante e non era capace di ripeterlo, il signore di Kullab impastò l’argilla e vi incise le parole come in una tavoletta». Era stata inventata la scrittura che, secondo il racconto, produceva una “alfabetizzazione spontanea” tanto che chiunque era in grado di capirla; si trattava forse della prima forma pittografica della scrittura sumera. Fatta la dovuta tara dal fatto che non conserviamo l’intero corpus della letteratura sumera né qualcosa che si si possa a questo pur solo avvicinare, il racconto della nascita della scrittura 26 Si vedano Denise Schmandt Besserat, How Writing Came About, University of Texas Press 1997; Denise Schmandt Besserat, When writing met art. From Symbol to Story, University of Texas Press 2007. 17 1. Classico è presente solo in questo testo, per quanto riguarda la cultura in oggetto, e non verrà più ripreso. Altri poemi ebbero invece più fortuna; gli argomenti trattati dal Ciclo di Gilgamesh, ad esempio saranno poi ripresi nella più tarda eponima Epopea che appartiene al periodo di Hammurabi, già Babilonese, che regnò dal 1728 al 1686 a.C.. Notiamo che l’Epopea di Gilgamesh ebbe davvero grande fama, quasi un Classico ante litteram, e dopo essere passata indenne ai grandi cambiamenti di millenni di storia mesopotamica, circolò poi attraverso la Turchia e la Palestina fino ad arrivare in Grecia, seppur con alcune modifiche. Sempre al periodo di Hammurabi risale la stele, nota come il codice di Hammurabi che è ritenuta la più antica traccia di un ordinamento giuridico. In questo caso è la stele stessa a indicare il proprio uso, leggiamo infatti nell’epilogo del codice, che parla con la voce dello stesso sovrano: L’oppresso che abbia una contesa venga davanti alla statua che mi rappresenta come re della giustizia, legga la mia stele iscritta, ascolti le mie preziose parole. La mia stele gli chiarisca la sua contesa, veda la legge che lo riguarda, si distenda il suo cuore [...] Il re che ci sarà nel paese nei giorni futuri osservi le parole di giustizia che sono scritte sulla mia stele non cambi la legge del paese che io ho promulgato e le sentenze che ho determinato, non elimini i miei disegni27 . Di qui la stele inizia con l’elenco delle maledizioni che cadranno su chi infrangerà la legge e, quale antenato illustre per il copyright, indica la stessa pena per chi erade il mio nome scritto o vi iscrive il suo nome, o a causa di questa maledizione lo fa fare ad un altro, quest’uomo, che sia re o signore o governatore o chiunque altro di tal fatta28 Nel frattempo l’antico Egitto, anche se con un certo ritardo, aveva prodotto una propria scrittura, diversamente strutturata; in quest’area del mondo la scrittura incontrò una cultura diversa e ne fu chiaramente influenzata, primo esempio 27 28 18 Giovanni Pettinato (a cura di), Mitologia Assiro-Babilonese, Utet, Torino 2005, pp. 27-28. Giovanni Pettinato (a cura di), Mitologia Assiro-Babilonese, Utet, Torino 2005, p. 28. 1.2. La nascita della categoria di questo è dato ad esempio dal fatto che la casta sacerdotale, più forte qui che in Mesopotamia, accolse questo nuovo mezzo molto in fretta e altrettanto in fretta lo fece diventare una propria prerogativa. Il racconto della nascita della scrittura secondo gli antichi Egizi viene riportato, di terza mano, da Socrate quale personaggio del Fedro di Platone. Il giudizio negativo che viene espresso è ascrivibile alla cultura greca piuttosto che agli antichi Egizi, in particolare a Socrate, che infatti in gran parte la condannava. La scelta del contesto della narrazione invece è dovuto all’aura di antichità che l’Egitto rappresentava per i Greci come già in Erodoto. Vediamo direttamente la sezione del dialogo in questione: Ho sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dei del paese, il dio a cui è sacro l’uccello chiamato Ibis e di nome detto Theut. Egli fu l’inventore dei numeri del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dell’alfabeto. Re dell’intero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città dell’alto Egitto che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re, gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano essere diffuse presso tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che gli sembrava negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. su ciascuna arte, dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Theuth sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo per esporli. Quando giunsero all’alfabeto: «Questa scienza, o re - disse Theuth - renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria». E il re rispose: «O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi 19 1. Classico cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno di essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti29 ». La scrittura intanto, e la tacita promessa di letteratura, vide la luce in luoghi molto lontani tra loro: in centro e sud America, e anche in Cina, tra i fiumi Giallo e Azzurro. Tralasciamo l’analisi delle produzioni in queste lingue antiche dal momento che ci allontanerebbero dalla nostra ricerca nei parametri che ci siamo posti inizialmente e veniamo alla nascita della scrittura alfabetica, quella che, nonostante le modifiche e le evoluzioni, usiamo ancor oggi. È interessante notare come la trasmissione della scrittura segua la stessa strada della trasmissione della cultura letteraria. I Fenici, che conoscevano il cuneiforme grazie a frequenti scambi commerciali, operarono una scelta: avevano bisogno di ventidue segni, quanto le consonanti di cui aveva bisogno la loro lingua e li scelsero tra i caratteri cuneiformi disponibili. Il sistema fu completo e non più fraintendibile quando gli antenati dei greci introdussero anche l’uso delle vocali. Se iniziamo a prendere in analisi la letteratura Greca ci accorgiamo che di alcune opere conserviamo il testo interamente, di altri abbiamo solo frammenti, per lo più desunti dalle citazioni posteriori, e di altri ancora conosciamo solo il titolo, citato magari come esempio illustre del patrimonio culturale. Quelli che dagli stessi Greci, e poi dai Romani, sono stati a lungo considerati come i primi testi scritti, i poemi omerici (ab Homero principium) sono stati tramandati fino a noi; conserviamo inoltre molte altre opere mitologiche, alcune rielaborazioni di altre, a volte andate perdute, come era stato già in Mesopotamia per i racconti su Gilgamesh contenuti nel Ciclo e, più tardi nell’Epopea, ma se ci 29 Fedro in Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2008, 274b-275d. 20 1.2. La nascita della categoria spostiamo poco più avanti nel tempo e prendiamo in esame le opere dei grandi tragici troviamo più opere citate che opere pervenute. Nel 2005 usciva The book of lost books di Stuart Kelly30 ; questo libro più che un saggio sembra in realtà un indice, per quanto ragionato, dei libri perduti; non di tutti quei testi di cui abbiamo oramai solo notizia storica, bensì di quei libri soltanto, la cui perdita crea rammarico nel nostro autore. Anche questo elemento è significativo: il testo amato in un’epoca, anche quando andasse perduto, può essere rimpianto e quindi apprezzato anche solo grazie al poco che di questo è stato da altri detto, tanto da creare imitatori da un originale assente31 . Smettiamo dunque di elencare quanto è rimasto e quanto è andato perduto, giacché anche il futuro ritrovamento di nuovi reperti non cambierà la questione principale: perché ci sono rimasti solo pochi testi e perché proprio questi? Perché tra i milioni di testi perduti solo di pochi è rimasta minima traccia e neppure di tutti questi esiste il rimpianto? Con la ovvia consapevolezza che in parte anche il caso abbia avuto la sua parte in questo processo, dobbiamo renderci conto che alcune considerazioni seppur ovvie sono necessarie. Prima cosa è necessario ricordare che la scrittura non fu subito ben accetta, e il percorso dal discorso orale al libro sembra davvero accidentato come ricorda, in una splendida sintesi Jean-François Gilmont32 . D’altra parte alcuni testi sono stati prodotti in maggior numero aumentandone le possibilità di permanenza, alcuni testi sono stati conservati con più attenzione, anche in questo caso aumentandone le possibilità di permanenza. Entrambe queste possibilità, che siano o meno state portate a compimento consapevolmente fanno ragionevolmente supporre che sin da subito gli esseri umani hanno giudicato l’importanza, in termini di bellezza, verità o altro, della propria produzione letteraria. D’altra parte quanto detto ci conferma anche che tutte le civiltà passate possedevano, in termini di patrimonio letterario, più di quanto si sia conservato abbastanza a lungo da arrivare fino a noi, o che fino a noi sia stato diversamente tramandato, facendoci 30 Stuart Kelly, The book of lost books, Polygon, Edinburgh 2010; edizione italiana: Stuart Kelly, Il libro dei libri perduti, Rizzoli, Milano 2006. 31 L’originale assente è titolo di un interessante testo sulla tradizione classica figurativa a cura di Monica Centanni le cui conclusioni prenderemo in analisi più avanti nella trattazione. Monica Centanni (a cura di), L’originale assente, Bruno Mondadori, Milano 2005. 32 Dal discorso orale al libro in Jean-Francois Gilmont, Dal manoscritto all’ipertesto, Le Monnier, Firenze 2006. 21 1. Classico infine supporre che il giudizio dei popoli cambi, almeno in parte, di civiltà in civiltà; come dirà Baldassarre Castiglione nel cappello della prima redazione del suo Libro del Cortegiano: talhor procede che gli costumi, gli habiti, riti e modi che un tempo sonno stati in pregio, divengon vili, et per contrario li vili divengon pregiati33 Il giudizio sull’opera letteraria è inoltre imposto da fattori contingenti e in se stessi abbastanza banali; bisogna ricordare che la proliferazione di testi richiedeva anche un giudizio di valore per la stessa gestione del tempo quotidiano. Questa necessità, iniziata così presto, mantiene oggi il suo valore non inalterato ma anzi accresciuto, così ad esempio dice Bloom Possediamo il Canone perché siamo mortali, e anche piuttosto tardivi. Di tempo non ce n’è più di tanto, e il tempo deve avere un limite, mentre c’è più da leggere di quanto ce ne sia mai stato prima34 . Non si può purtroppo rispondere a questa circostanza dedicandosi totalmente alla lettura, si rischierebbe così, come disse Montale, di rinunciare alla vita stessa per la lettura. Si può essere dei lettori partecipando ancora alla vita? Penso di sì. Non vedo una totale incompatibilità tra il vivere e il pensare. Questa antitesi veramente c’è, ma solo quando venga portata agli eccessi; portata agli eccessi, c’è. Sono esistite persone che hanno eliminato del tutto il pensiero e altre, invece, che hanno eliminato del tutto la vita. Il lettore impunito (non so di chi fosse questa definizione), il lettore accanito, il lettore famelico che legge tutto, 33 Prima redazione forma B. VAT LAT 8205 ff-1r-6v, stadio a. in Uberto Motta, Castiglione e il mito di Urbino. Studi sulla elaborazione del Cortegiano, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 46. 34 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 26. 22 1.2. La nascita della categoria non so quale partecipazione possa avere con la vita, quale rapporto possa avere con la vita: diventa un malato35 . La determinazione di un canone che identifichi cosa valga la pena di leggere, e in che misura, sembra quindi poter essere, potremmo aggiungere, anche una medicina. Questo sarà il nostro punto di partenza: tutte le civiltà dotate di scrittura hanno da subito dato un giudizio, estetico e morale, della propria produzione letteraria; in qualche modo l’idea di Biblioteca, Canone e Classico, laddove la prima contiene la seconda e questa la terza, nasce per necessità insieme alla letteratura stessa e con essa sembra cambiare. Aggiungiamo un altro tassello al quadro che si va delineando: Ernst Robert Curtius, della cui fondamentale opera tratteremo dettagliatamente più tardi. Nel 1932 Curtius in Deutscher Geist in Gefahr36 sostiene che è necessario riconoscere che esistono una serie di costanti di cui possono, nel tempo e nello spazio, cambiare la forma e l’applicazione ma la cui essenza e natura restano pur tuttavia invariate: la “Vernunft” cioè la ragione ma anche la tradizione e la cultura. Questo significa che popoli diversi potranno pur riconoscersi in diverse tradizioni e culture ma tutti riconoscono l’esistenza di queste categorie fondamentali. Sempre Curtius in Marcel Proust37 dice «Il bisogno di ritrovarsi e di avvolgersi in una tradizione si appaga completamente nel piacere della letteratura. Cultura letteraria, completa conoscenza delle opere classiche, interiore legame vitale con l’eredità umanistica, tutto questo concede allo spirito la grazia di nobili maniere di vita: solo la letteratura e il sapere donano le “belle maniere” dello spirito38 ». Nonostante la citazione delle “opere classiche” possa far pensare a quella che normalmente chiamiamo “antichità classica”, bisogna pur porre l’accento sul fatto che l’Umanesimo, di cui poco oltre, ha una lunga storia che parte dal Rinascimento carolingio passa per il xii secolo fino al “secolo umanistico”, il xv. Di lì in poi la “categoria umanistica” resta un punto saldo nella cultura occidentale; lo stesso Curtius, sempre in Deutscher Geist in Gefahr pone anche l’accento sull’umanesimo de35 Eugenio Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, Mondadori, Milano 1996, p. 22. 36 Ernst Robert Curtius, Deutscher Geist in Gefahr, Deutsche Verlags-Anstalt 1932. Ernst Robert Curtius, Marcel Proust, Edit de La Revue nouvelle, Paris 1928. 38 Ernst Robert Curtius, Marcel Proust, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 50-51. 37 23 1. Classico gli anni ’30 in Germania, su quella che è la sua stessa contemporaneità. Tutta la trattazione di Curtius, in questo testo, è centrata proprio sull’umanesimo e su come questo possa ancora, nel 1932, salvare la Germania e l’Europa dal disastro. Si trattava ovviamente dell’avvento del Nazismo, di cui Curtius risultò tra i primissimi in grado di coglierne il pericolo e la gravità; ma anche, e più profondamente, della perdita della spiritualità connaturata alla cultura tedesca: il rischio era proprio la morte di quest’ultima. Ancora Kurt Sulger, in un articolo dedicato a Curtius nel 1950, scrisse: «His main theses are: the presence, in the Occident, of one literary code, historically continuous from classical antiquity to modern times, and geographically continuous throughout Western Europe; the trasmission of this code through medieval Latinity rather than trough direct study of ancient literature; and the extension of codified patterns into texts which were falsely considered as wholly spontaneus and used as psychological or historical sources of information39 ». Curtius quindi appartiene sotto molti punti di vista al percorso che ci siamo riproposti di indagare e ci lascia un importantissimo contributo. Riassumiamo ora quelli che saranno nella nostra ricerca i “postulati” da cui partire: ” 1. Tutte le civiltà riconoscono l’esistenza di alcune categorie fondamentali: ragione, tradizione e cultura; 2. La produzione letteraria di una civiltà è espressione della sua tradizione e cultura e del suo modo di intendere la ragione; 3. Tutte le civiltà danno un giudizio sulla propria produzione letteraria individuando le opere che ne considerano le eccellenze; 4. Esiste un’unitarietà culturale nello spazio e nel tempo di quanto oggi, e storicamente, è l’Occidente Europeo, che è anche la tesi fondamentale di Curtius. Il secondo e il terzo punto danno poi adito ad un possibile corollario: il giudizio di un popolo sulla propria letteratura è anche un giudizio sulla propria cultura, un giudizio costruttivo che vuole mitigare gli estremi di entrambe (cultura e letteratura) e rendere la propria rappresentazione in quanto popolo sempre più aderente ai propri assunti estetici ed etici; la letteratura insomma non neces39 Kurt Sulger, Ernst Robert Curtius, Europäische Literature und lateinisches Mittelater in “Romanic Review”, 41:3 Oct 1950, p. 209. Le sue tesi principali sono: la presenza in Occidente, di un codice letterario, storicamente ininterrotto dall’antichità classica ai tempi moderni, e geograficamente ininterrotto attraverso l’Europa Occidentale; la trasmissione di questo codice attraverso la Latinità medievale tanto quanto attraverso lo studio diretto della letteratura antica; e l’estensione di modelli codificati ai testi che sono erroneamente considerati come completamente spontanei e usati come fonti psicologiche o storiche di informazioni. 24 1.3. La nascita del termine, la nascita dell’idea sariamente incarna la cultura di un popolo così com’è, ma senz’altro incarna l’idea di una cultura così come essa stessa vorrebbe essere. 1.3 La nascita del termine, la nascita dell’idea Abbiamo tentato finora di dimostrare che il giudizio sull’opera letteraria nasce insieme alla idea stessa di opera letteraria, come è per qualsiasi opera artistica. Secondariamente abbiamo notato che, essendo basato non solo su leggi di natura ma anche su “leggi di cultura”, questo giudizio può cambiare insieme alle diverse civiltà e implicitamente la permanenza di questo può indicare anche una forte identità tra culture che non possono più essere considerate diverse ma quantomeno affini. Lasceremo l’analisi sull’idea di Classico nelle culture più antiche così come nelle culture distanti a specialisti di questi settori; tenteremo di arrivare a cosa è Classico per la cultura occidentale e proveremo anche ad indagare cronologicamente da quando si è stabilita questa idea partendo dalla radice della nostra cultura, la civiltà greca. Torniamo adesso a Gellio che come abbiamo detto fu il primo ad usare e motivare l’uso di questo termine. Aulo Gellio nella sua opera, Noctes Atticae40 ha come argomento principale la cultura e la lingua latina, attraverso studi di tipo grammaticale, letterario, storico. Gli altri argomenti trattati sono eterogenei: filosofia, legge, religione, matematica, botanica, astronomia e altro ancora e fanno rientrare quindi l’opera nel filone enciclopedico. Gellio, al contrario di un altro e più antico autore dello stesso filone, il Plinio della Naturalis Historia41 , non ha però intenti scientifici, dall’opera emerge infatti la convinzione che il patrimonio culturale della tradizione costituisce la base del mondo in cui vive ed è quindi pensata come un catalogo sistematico dell’erudizione e può quindi essere usata come chiave di accesso e comprensione della realtà stessa. Per noi resta un’importantissima, a volte unica, fonte per lo studio della civiltà romana classica e soprattutto una 40 Aulo Gellio, A. Gelli Noctes Atticae. Recognovit brevique adnotatione critica instruxit P. K. Marshall, Typographeo Clarendoniano, Oxonii 1968. 41 Gaio Secondo Plinio, C. Plini secundi Naturalis historiae libri XXXVII. Post ludoviciani obitum recognovit et scripturae discrepantia adiecta edidit Carolus Mayoff, Teubneri, Lipsiae 1967-1996. 25 1. Classico miniera di frammenti di autori preclassici. Veniamo al passo dove per la prima volta Gellio parla della categoria del Classico. xiii. Quem “classicum” dicat M. Cato, quem “infra classem”. i. “Classici dicebantur non omnes, qui in quinque classibus erant, sed primae tantum classis homines qui centum et viginti quinque milia aeris ampliusve censi erant. ii. “Infra classem” autem appellabantur secundae classis ceterarumque omnium classium, qui minore summa aeris, quod supra dixi, consebantur. iii. Hoc eo strictim notavi, quoniam in M. catonis oratione, qua Voconiam legem suasit, quaeri solet, quid sit “classicus”, quid “infra classem”42 . Da qui parte Gellio per definire il «classicus scriptor, non proletarius» come uno scrittore di “prim’ordine”, non appartenente alla massa o ancora degno dei cittadini di prim’ordine, della prima classis, la stessa prima classe definita da Servio Tullio prima ancora che la Res Publica Romana fosse creata. Facciamo dunque un passo indietro e analizziamo quanto sembra oggi ovvio; cosa vuol dire classe, o meglio cosa voleva dire per i latini classis? secondo Quintiliano la classis, il cui ovvio significato di flotta o, ancora più anticamente, esercito43 , non metteva in dubbio, deriva proprio da calare, chiamare e nasce quindi contestualmente alla riforma Serviana che ci indica, come vedremo tra poco, le modalità di questa chiamata alle armi e alla difesa44 . Torniamo a Gellio che, partito da Servio Tullio, arriva a definire uno scrittore classicus come adsiduus, sempre in riferimento al censo, e antiquior45 ; come ci sottolinea a questo proposito Settis «l’anteriorità al presente è dunque un requisito della classicità46 ». Di questo però tratteremo meglio più tardi, nel ca42 Noctes Atticae 6, 13. “Classico” e “sotto classe” secondo Marco Catone. “Classici venivano detti non tutti coloro che rientravano nelle cinque classi ma solo gli uomini della prima classe, censiti per centoventicinquemila assi o più. “Sotto classe”, poi, erano chiamati quelli della seconda e di tutte le altre classi, che erano censiti per una somma inferiore a quanto detto sopra. Ho sommariamente annotato questo, giacché in riferimento all’orazione di M. Catone, deliberatoria sulla legge Voconia, si suole chiedere che cosa sia “classico” e cosa “sotto classe”. 43 Fab. Pict. apud Gell. X,15. 44 Quintiliano I, 6,33. 45 Noctes Atticae 19.8.15; 16.2-15 classicus come: adsiduus e antiquior 46 Salvatore Settis, Futuro del "classico", Einaudi, Torino 2004, p. 66. 26 1.3. La nascita del termine, la nascita dell’idea pitolo 6.9, per il momento teniamo a mente anche questo aspetto: l’anteriorità. Si tratta di quell’anteriorità necessaria come prova di chiarezza intellettuale e contemporaneamente prova dell’assenza di valutazioni che siano deviate da passioni politiche o sociali contingenti. Dopo secoli da quando si era tentata una classificazione censitaria del popolo romano, si sentiva ora il bisogno di classificare, oltre che di censire, le opere letterarie. Questa operazione portava alla compilazione di una lista, una definizione quindi di tipo estensivo, piuttosto che intensivo, che Quintiliano chiamava ordo e numerus; notiamo, tra l’altro, che entrambi i termini in latino risultano vicini a classis nel senso di categoria e che entrambi con questo stesso significato sono poi passati anche in italiano47 . Veniamo ora al passo di Livio che riguarda la riforma Serviana e la nostra ricerca. Livio I, 42-43. Censum enim instituit, rem saluberrimam tanto futuro imperio, ex quo belli pacisque munia non uiritim, ut ante, sed pro habitu pacuniarum fierent; tum classes centuriasque et hunc ordinem ex censu discripsit, uel paci decorum uel bello. 43. Ex iis qui centum milium aeris aut maiorem censum haberent octoginta confecit centurias, quadragenas seniorum ac iuniorum; prima classis omnes appellati; seniores ad urbis custodiam ut praesto essent, iuuenes ut foris bella gererent; arma his imperata galea, clipeum ocrae, lorica, omnia ex aere; haec ut tegumenta corporis essent: tela in hostem hastaque et gladius. Additae huic classi duae fabrum centuriae quae sine armis stipendia facerent; datum munus ut machinas in bello ferrent48 . 47 Ad esempio: “di ogni ordine e grado”, “nel numero dei grandi...”. Titi Livi, Ab urbe condita, recognovit et adnotazione critica instruxit Robertus maxwell Ogilvie, tomus I, Oxford university Press, Oxford 1974. Istituì (Servio) infatti il censo, provvedimento davvero salutare per uno Stato destinato a tanta grandezza, in virtù del quale le incombenze della pace e della guerra furono distribuite non per testa, come in passato, ma a secondo della condizione finanziaria; ripartì quindi le classi e le centurie in base al censo, fissando il seguente ordinamento, conveniente sia per la pace che per la guerra. Coi cittadini che avevano un censo di centomila assi o più formò ottanta centurie, quaranta di anziani e quaranta di giovani chiamati complessivamente prima classe; gli anziani devevano tenersi pronti alla difesa della città, i giovani a combattere fuori; come armatura furono ad essi prescritti l’elmo, 48 27 1. Classico Dopo aver definito la prima classe di cittadini secondo l’ordinamento costituito da Servio Tullio, Livio passa poi a parlare delle successive classi fino alla quinta, la possibile sesta classe non viene neppure definita tale, «Hoc minor census reliquam multitudinem habuit; inde una centuria facta est, immunis militia49 ». La prima classe comprendeva i cittadini più abbienti che in caso di guerra erano anche i meglio armati e meglio difesi; gradatamente le altre classi erano meno abbienti e gradatamente erano peggio armate fino all’ultima, che come abbiamo visto di classe non ha neppure il nome e che comprendeva i cittadini più poveri che non erano neppure letteralmente “chiamati” alla guerra. Costoro non avevano dunque letterarmente nulla a che fare con la classis. Un altro termine che è strettamente in relazione con il Classico è Canone; della similarità dei due campi d’indagine ha già detto Rognoni recensendo l’inconsueta avventura universitaria e il relativo libro del critico cinematografico Denby50 . Si tratta del famoso, o infame, ’canone occidentale’ a favore del quale, qualche anno fa, ha spezzato una lancia anche Harold Bloom (anzi una saetta, essendo Bloom lo Zeus dell’accademia USA), intervenendo nell’animato, ma spesso anche pretestuoso dibattito su cosa e quale sia un testo ’canonico’ nell’America multietnica, un aspetto non secondario di quella che Robert Hughes, nel vivace pamphlet La cultura del piagnisteo (Adelphi 1994), ha chiamato «la saga del politicamente corretto». O se si preferisce, la spinosa e forse impossibile soluzione accademico-istituzionale alla classica domanda: ’Cos’è un classico?’ cui, fra gli altri, nel Novecento hanno risposto T.S. Eliot e Frank Kermode, Italo Calvino e più recenil clipeo, gli schinieri, la corazza; queste armi, tutte di bronzo, dovevano servire alla difesa del corpo; armi offensive l’asta e il gladio. furono aggiunte a questa classe due centurie di fabbri , che dovevano prestare servizio senza armi; fu loro assegnato il compito di trasportare le macchine da guerra. traduzione italiana: Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, a cura di Mario Scandola, Fabbri, Milano 1996. 49 Il censo inferiore a questo comprese tutto il resto della popolazione; se ne formò una sola centuria esente dalla milizia. 50 D. Denby, Grandi libri, Fazi, Roma 1999. 28 1.3. La nascita del termine, la nascita dell’idea temente e imprevedibilmente Giuseppe Pontiggia (I contemporanei del futuro, Mondadori 1998)51 . La genesi del termine canone è però completamente diversa da quella di classico. Bisognerà aspettare il 1768 e David Ruhnken con Historia critica oratorum graecorum52 perché comparisse il nome di Canone, che fin’ora, e a partire dal iv secolo con Eusebio53 , era stato usato per designare i “libri ispirati” e quindi canonici della chiesa di Roma. 51 Francesco Rognoni, Di libro in libro. Percorsi nella letteratura inglese e americana di Otto e Novecento, Vita e Pensiero, Milano 2006, p. 397. 52 «Itaque ex magna oratorum copia tanquam in canonem decem duntaxat retulerunt» David Ruhnken, Historia critica oratorum graecorum in David Ruhnkenii opuscolorum, Altera, Lugduni Batavorum 1823, Tomus Primus, pp. 310-392. Il passo citato si trova alla p. 386. 53 Per i Canoni di Eusebio si veda AA.VV., Storia Ecclesiastica 1, Eusebio di Cesarea, Città Nuova, Roma 2001. 29 Parte II INDAGINE STORICA 31 Premessa: il tempo e lo spazio Prima di iniziare una qualsiasi indagine storica, come vuole essere qui la seconda sezione, è bene delimitare il campo dell’analisi; due sono i riferimenti primari che bisogna dare e rispondono alle due domande fondamentali: dove e quando, hic et nunc. Delimitiamo quindi il campo all’Europa per quanto riguarda le coordinate spaziali, e fin qui resta ben poco da specificare ulteriormente dal momento che questo intero studio vuole essere anche una dimostrazione della liceità dell’idea di Europa letteraria e di Occidente letterario; le coordinate temporali, invece, meritano qui qualche parola in più. Ripartiamo dallo spazio, abbiamo detto Europa e meglio sarebbe dire Occidente, o meglio Cultura Occidentale; Arnold J. Toynbee nella poderosa A Study of History54 si chiede quali siano gli intelligible fields of study degni di una trattazione storica e arriva a definirli proprio in termini di culture, le ventuno che identifica nella storia dell’uomo. La nozione di cultura porta già con sé entrambe le coordinate; una cultura è sempre in un dove e in un quando, e come un organismo vivo può nascere e cambiare e può anche morire. Partendo dal presupposto che noi ancora ci riconosciamo in qualche modo nella cultura occidentale, che quindi quest’ultima non è ancora morta, resta da chiedersi quando questa sia nata, e se e come sia poi mutata. Curtius, esponendo proprio le idee di Toynbee nel primo e introduttivo capitolo di Letteratura europea e medioevo latino, scrive che «Talvolta i singoli movimenti culturali possono essere tra loro indipendenti (ad esempio quello dei Maya e quello dell’antica Creta), talaltra possono essere invece legati da rapporti di dipendenza sicché l’uno può considerarsi derivante dall’altro. Un 54 Arnold J. Toynbee, A Study of History, Oxford University Press, Oxford 1963. 33 1. Classico rapporto di filiazione di questo tipo esiste tra la cultura classica e quella occidentale55 ». Il punto di partenza della cultura europea è quindi il punto di partenza della cultura classica, e lo stesso si può dire delle relative letterature: il punto di partenza della letteratura europea è il punto di partenza della letteratura classica. Su questo punto vediamo di nuovo Curtius quando dice che «La letteratura europea abbraccia il medesimo periodo di tempo della cultura europea, comprende cioè circa ventisei secoli (calcolati da Omero a Goethe). [...] Solamente chi padroneggia tutte le epoche da Omero a Goethe può acquisire una visione globale della letteratura Europea56 » e ancora in chiusura del capitolo «Della letteratura europea l’eroe fondatore (heros ktistes) è Omero, l’ultimo autore universale è Goethe57 ». Ora che abbiamo compiuto la misurazione, definendo l’arco di tempo, dobbiamo far anche riferimento alla seconda categoria temporale fondamentale e cioè la periodizzazione. Nella selva oscura delle proposte e delle ipotesi, come in questo studio divideremo il tempo, dal momento che il suo campo d’indagine non è puntuale ma anzi abbraccia ventisei secoli di storia? Quale periodizzazione risponde meglio alle esigenze di una storia che sia Europea e Occidentale? La periodizzazione più adeguata sembra quella fornita da Toynbee. Secondo lui cui la cultura classica arriva al 375, a questa segue un interregno dal 375 al 675. La cultura occidentale che prende avvio con l’ascesa dei Pipinidi è divisa in quattro periodi o epoche: epoca I 675-1075 per cui propone i nome di «Dark Ages», epoca II 1075-1475 per cui propone i nome di «Middle Ages», epoca III 1475-1875 per cui propone i nome di «Modern Ages» e infine la quarta epoca iniziata nel 187558 per cui, pur con qualche dubbio propone il nome «Post Modern Ages». Partiamo dunque dal mondo greco e da Omero. 55 Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006, p. 14. 56 Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006, pp. 20-21. 57 Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006, p. 24. 58 Si veda la tabella riassuntiva in Arnold J. Toynbee, A Study of History, Oxford University Press, Oxford 1963, vol.I p. 39. 34 Capitolo 2 Il mondo antico 2.1 Il Classico nell’età classica: il mondo greco Abbiamo già visto come la storia sia una marca fondamentale della cultura occidentale già a partire dal primo storico greco, Erodoto; il mondo greco produsse anche un’altra categoria di pensiero che da più punti di vista sembra caratteristico e caratterizzante la stessa cultura occidentale: questa è la filosofia. Nell’ansia comune di ricercare le origini più antiche di ogni fatto importante, quando la storia diventa un’ossessione e i pre-cursori e i proto-risultati iniziano a moltiplicarsi in progressione geometrica, si rischia di dimenticare chi fu in effetti il fondatore di questa téchne filosofica, téchne perché il dato fondamentale che separa la filosofia occidentale da quelle che per similarità di intenti si sono dette filosofie orientali è proprio il suo essere passibile di insegnamento. Platone, dunque; di Socrate, padre spirituale del primo, sappiamo solo quello che Platone ci ha detto e chi venne ancora prima viene etichettato come preplatonico, anche se dalla congerie di pensatori precedenti lo stesso Platone vuole salvare almeno Parmenide ed Eraclito. Platone è il primo filosofo, è anche, i due dati non sono certamente disgiunti, il pensatore antico di cui abbiamo conservato integralmente le opere, dato fondamentale per la nostra ricerca. Secondo alcuni però il primato non è solo temporale, è interessante a questo proposito vedere l’opinione condivisa, tra gli altri da North Whitehead e Gilson. Alfred North Whitehead ha detto che «All philosophy is nothing more than a footno35 2. Il mondo antico te to plato1 »; Gilson in riferimento al mondo medievale invece disse «Platon lui-même n’est nulle part, mais le platonisme est partout [...] disons plutôt qu’il y a partout des platonismes2 ». Queste affermazioni, che pur possono sembrare eccessive, rivelano un importante aspetto della questione. Partiamo con ordine; il termine “classico” non era ancora usato e la categoria neppure, c’era già invece il giudizio di valore che oggi è sotteso a questo nome e c’era un’idea del bello, anzi due, così forti, così generali, o universali, da arrivare pressoché indenni fino a noi; anche i nomi che hanno assunto, nella genericità degli attributi, sono segnali se non prove di generalità. Prima c’è l’Antica Teoria, quella che riferisce tutto alla mimesis, L’espressione “mimesis” è post-omerica: non compare ancora in Omero e neppure in Esiodo. I linguisti asseriscono che la sua etimologia è oscura. Di certo nacque assieme ai riti ed ai misteri del culto dionisiaco, e da lì ebbe il suo significato originario (differente dall’odierno). [...] Essa non era riproduzione della realtà esteriore, ma espressione di quella interiore. [...] Nel V secolo a. C. il termine “imitazione” passò dal linguaggio cultuale a quello filosofico. Iniziò allora a designare la riproduzione del mondo esteriore. [...] Socrate fece anche qualcosa di più: fu, a quanto pare, il primo a formulare una teoria dell’imitazione, ad esprimere cioè l’opinione che proprio questa fosse la funzione fondamentale di arti quali la pittura e la scultura. Si trattò di un evento importante nella storia del pensiero sull’arte. E non meno rilevante fu che tale teoria fosse accettata da Platone e Aristotele, i quali la svilupparono, dando al termine “imitazione” un senso più concreto. Ciascuno però le attribuì un significato differente, cosicché sorsero due varianti della stessa teoria, o più propriamente due teorie sotto lo stesso nome3 . 1 Tutta la filosofia non è altro che una nota a piè di pagina a Platone. Alfred North Whitehead, Process and reality. An essay in cosmology, Gifford Lectures delivered in the University of Edinburgh during the session 1927-28, The Macillan Company, Edinburgh 1929. 2 Etienne Gilson, La philosopie au moyen age, Payot, Paris 1944, p. 268. Platone stesso non è da nessuna parte, ma il platonismo è dappertutto [...] diciamo piuttosto che dappertutto ci sono dei platonismi. 3 Wladislaw Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 2006, pp. 273-274. 36 2.1. Il Classico nell’età classica: il mondo greco Esiste dunque una distanza incolmabile tra questi due filosofi in merito alla questione della mimesis; vedremo però come il sospetto di Platone per l’opera scritta farà sì che il suo contributo sull’argomento che ci riproponiamo sia ridotto rispetto alla chiara categorizzazione di Aristotele. La seconda è la Grande Teoria che si definisce in rapporto alla bellezza formale, La teoria generale del bello formulata nell’Antichità affermava che la bellezza consiste nella proporzioni della parti. Per meglio dire: nelle proporzioni e nell’appropriata disposizione delle parti; o ancora più precisamente: nella grandezza, la qualità e il numero delle parti e nel loro rapporto reciproco. [...] Questa teoria può ben a ragione chiamarsi la “Grande Teoria” dell’estetica europea. Poche infatti sono le dottrine che in tutti i rami della cultura europea sono state altrettanto durature ed hanno ottenuto un così vasto riconoscimento; poche sono state capaci d’investire l’intera sfera del bello in modo talmente comprensivo4 . Prima di approfondire queste due idee del bello in riferimento alla letteratura dobbiamo fare alcune precisazioni storiche. Il mondo greco visse tra la fine del V e la prima metà del VI secolo a.C. il passaggio da una cultura prevalentemente orale ad una cultura sempre più scritta; i filosofi del tempo, più di altri consapevoli del cambiamento, diedero per primi un giudizio sugli eventi. Abbiamo detto come il pensiero di Socrate sia arrivato fino a noi grazie all’impegno del suo più illustre allievo, Platone; sembra infatti che Socrate si sia sempre rifiutato di scrivere i suoi discorsi filosofici e abbiamo già visto nel capitolo 1.2 il motivo generale che generava il rifiuto della scrittura. D’altra parte bisogna aggiungere che lo stesso stile del pensiero socratico si concretizza in una sorta di oralità dialettica che mal si sposa con il libro scritto e con la fruizione solitaria di questo. Per Socrate il pensiero filosofico è sempre dialettico e necessita di due persone perché sia esercitato, egli inoltre vuole allontanarsi il più possibile dai sofisti che lo avevano preceduto e che facevano ampio uso delle parole dei poeti per affascinare l’uditorio. Ci sono dunque due cause significative per il 4 Wladislaw Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 2006, pp. 136-137. 37 2. Il mondo antico rifiuto della poesia in Socrate; proprio da questi ultimi “discorsi da parata” dei sofisti prende avvio l’analisi di Reale sulla funzione protrettica della dialettica socratica E in questi discorsi si alternava sovente la prova logica alla citazione della testimonianza di poeti e, anzi, sovente la citazione dei poeti teneva il posto della prova logica, con effetto (capziosamente calcolato) di pronta e sicura presa sul pubblico. Ma a che cosa serve tutto questo? [...] l’anima, la singola anima, si cura solo col dia-logo, ossia col logos che, procedendo per domanda e risposta, coinvolge fattivamente maestro e discepolo in una esperienza spirituale unica di ricerca in comune della verità5 . Il primo filosofo che è possibile prendere in considerazione è dunque Platone, l’opera è la Repubblica6 . Nel terzo libro Platone, trattando dell’educazione dei custodi, si sofferma sul valore pratico dei racconti poetici e sull’aspetto formale della poesia. Dapprima lamenta che i miti sull’aldilà influenzano l’atteggiamento dei Custodi di fronte alla morte in guerra tanto che appare necessaria una mitologia che al contrario sdrammatizzi la morte e promuova atteggiamenti virili, nel far questo elenca vari passi che influenzano negativamente i cittadini; neppure Omero si salva dal biasimo. Si tratta in effetti di un biasimo che ricopre l’intero ambito della produzione letteraria. Nella dialettica platonica, nell’uso obbligato dei logoi in assenza di un contatto diretto con l’essere, si manifesta una differenza, un distacco originario dalla verità della cosa che non può essere mai colmato7 . Viene però riconosciuta una validità relativa purché si mantengano centrali le istanze etiche necessarie alla comunità. Giovanni Reale, Storia della filosofia antica. Vol. I: Dalle origini a Socrate, Vita e Pensiero, Milano 1997, pp. 355-356. 6 Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2008, pp. 10671346. 7 Franco Trabattoni, La filosofia antica. Profilo critico-storico, Carocci, Roma 2002, p. 157. 5 38 2.1. Il Classico nell’età classica: il mondo greco Platone, infatti, nel determinare l’essenza, la funzione, il ruolo e il valore dell’arte si preoccupa solamente di questo: di stabilire cioè quale valore di verità essa abbia, ossia 1) se e in quale misura essa avvicini al vero; 2) se renda migliore l’uomo; 3) se socialmente abbia valore educativo oppure no. E le sue risposte, come è noto, sono del tutto negative8 . Le virtù che a suo parere devono esser prese a modello dai miti sono sincerità, temperanza e obbedienza; al contrario i poeti narrano di comportamenti negativi anche in riferimento agli dei e li portano, consapevolmente o meno, a modello di vita. Secondo Platone le opere poetiche vanno insomma giudicate con lo stesso criterio di giustizia che si usa nella vita reale; dove nella vita reale si condanni un uomo per aver commesso determinate azioni allo stesso modo si deve condannare l’opera poetica che narri le stesse azioni. Insomma, Platone non negò il potere dell’arte, ma negò che l’arte dovesse valere solo per se stessa: l’arte o serve il vero o serve il falso e tertium non datur. Dunque se vuole «salvarsi» dal punto di vista veritativo, l’arte deve assoggettarsi alla filosofia, che sola è capace di raggiungere il vero, e il poeta deve sottostare alle regole e alla dialettica del filosofo9 . Il poeta deve dunque essere utile alla società, non a caso si parla di loro proprio nella Repubblica, e per far questo deve far riferimento ai filosofi. Dopo questa prima sezione si passa poi ad analizzare l’aspetto formale della poesia; l’aspetto etico non viene comunque meno perché anche questa analisi è condotta in riferimento all’educazione dei Custodi. Esistono tre tipi di poesia: imitativo-drammaturgico, narrativo-ditirambico e il genere misto tipico dell’epica. Esistono diversi casi in cui il primo tipo è da evitare e sono tutti quelli in cui viene imitato un modello che sia sotto qualsiasi aspetto negativo; al contrario l’imitazione, se contenuta può avere anche degli effetti positivi se spinge ad Giovanni Reale, Storia della filosofia antica . Vol. II: Platone e Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. 209. 9 Giovanni Reale, Storia della filosofia antica . Vol. II: Platone e Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. 213. 8 39 2. Il mondo antico immedesimarsi in ruoli moralmente validi e virili. Tutta l’esposizione è evidentemente motivata e volta esclusivamente ad un fine morale, tanto che i poeti sono definiti come «padri della saggezza e guide10 »; posto anche che le difficili condizioni poste da Platone siano rispettate altro non è detto su come debba essere scritta un’opera poetica. L’aspetto morale della produzione poetica sembra, a prima vista, meno importante per un altro importante filosofo: Aristotele, che per primo tentò, nel corso di tutta una vita, di dare forma perfetta al reale. In ogni epoca ci fu un filosofo che tentò di unificare in un sistema tutto il sapere del suo tempo: nell’antichità fu Aristotele, nel Medioevo Tommaso d’Aquino, nell’Età moderna Hegel. Le loro opere costituiscono i tre massimi sistemi del pensiero europeo. [...] Per questi pensatori il compito di ogni procedimento filosofico è quello di dare forma a una totalità. [...] Tale unità che il soggetto ci presenta è appunto il suo sistema. Un sistema è l’invenzione, la creazione di una forma11 . Non a caso il concetto di unità sarà centrale anche nella riflessione più propriamente estetica di Aristotele fino a essere portato, come vedremo, ad emblema della sua intera riflessione sull’argomento. Prendiamo in analisi un testo fondamentale: la Poetica. La Poetica non ci spiega la sua collocazione nel piano complessivo del pensiero filosofico di Aristotele; è possibile che possa essere vista come un ideale proseguo di quanto detto in merito all’educazione del cittadino nell’ultimo libro della Politica, nulla è però detto su questo. Nelle prime righe dell’opera viene invece fornito l’argomento dell’opera suddiviso nei punti che verranno trattati. Diciamo della poetica in sé e delle sue forme, quale potenzialità ciascuna abbia e come si debbano comporre i racconti se il componimento poetico deve riuscire bene e, inoltre, di quante e quali parti consista e, ugualmente, anche di tutti gli altri argomenti 10 Lysis, 214 A Jeanne Hersch, Storia della filosofia come stupore, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 34-35. 11 40 2.1. Il Classico nell’età classica: il mondo greco che appartengono alla medesima ricerca, conformemente a natura incominciando per prime dalle cose prime12 . L’argomento è dunque il componimento poetico e la disciplina che se occupa, la poetica. Si tratta di un’arte non solo teorica ma anche pratica dal momento che può essere insegnata; l’intenzione è di definire come comporre i racconti per una buona riuscita dell’opera e anche di indicarne le parti costitutive. A prima vista qui si tratta della poetica in riferimento alla già citata Grande Teoria, la realizzazione della forma; già la frase successiva, però ci porta nell’alveo dell’Antica Teoria, dal momento che l’imitazione è sempre rivolta alla natura che a sua volta tende sempre nei suoi processi alla realizzazione della forma. Aristotele enumera le forme, oggi diremmo i generi letterari, che il componimento poetico può assumere e trova subito l’elemento comune che li lega: la mimesis. A questa assegna un valore positivo, come era già stato per Platone, anche se in misura minore dal momento che quest’ultimo negava comunque un qualsiasi valore conoscitivo; «per Aristotele al contrario la realtà sensibile è autentica realtà, quindi la poesia, in quanto rappresentazione di essa, possiede un autentico valore conoscitivo13 ». L’epica, dunque, e la poesia tragica, inoltre la commedia e la produzione di ditirambi e la massima parte dell’auletica e della citaristica sono tutte, nel complesso, imitazioni; ma differiscono l’una dall’altra per tre aspetti: o per il fatto di imitare con mezzi diversi, o cose diverse, o diversamente e non nello stesso modo14 . Nonostante questa dichiarazione d’intenti la Poetica, nella parte che è giunta fino a noi tratta l’arte poetica in sé (capitoli I-V), la tragedia (VI-XXII), l’epica (XXIII-XVI); degli altri generi conserviamo solo alcune considerazione parziali sparse per l’opera. Il fatto stesso che Aristotele abbia effettivamente scritto 12 Poetica I, 1447a traduzione di Pierluigi Donini sul testo critico stabilito da Rudolph Kassel per la collana dei classici greci e latini di Oxford in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 3. 13 Enrico Berti, Profilo di Aristotele, Edizioni Studium, Roma 1979, p. 147. 14 Poetica. I, 1447,a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 5. 41 2. Il mondo antico una sezione sulla commedia, come aveva previsto e promesso nel sesto capitolo15 non è universalmente accettato e gli studiosi si dividono su schieramenti opposti16 . Ci occupiamo dei testi che abbiamo in mano, che siano essi i soli pervenuti o i soli prodotti dall’autore non è, in questa sede, argomento che intendiamo trattare. All’interno poi della trattazione della tragedia, la sezione più corposa, Aristotele tratta delle quattro parti costitutive ed essenziali alla tragedia, comuni anche all’epica: il racconto (capitoli VI-XIV), i caratteri (XV), il pensiero (XIX) e il linguaggio (XX-XXII). Non possiamo sapere se Aristotele avesse scritto allo stesso modo degli altri generi, o se ne aveva quantomeno l’intenzione, resta comunque inferibile che Aristotele abbia comunque trattato primariamente dei generi che considerava più importanti, quelli più letterari o comunque più importanti in letteratura. Che cos’è la letteratura? Il termine in effetti ancora non esisteva: «L’arte che fa uso solo delle nude parole e quella che usa i versi [...] si trovano fino ad oggi ad essere senza un nome17 », l’oggetto invece era già noto tanto che Aristotele lamenta la mancanza di un nome che lo identifichi. La definizione della letteratura fu inizialmente tassonomica, l’arte poetica comprendeva il genere epico, il genere drammatico e il genere lirico che fu poi espunto, come abbiamo visto, da Aristotele nella Poetica, dal momento che non è imitativo né inventivo e lo scrittore si limita a parlare di se stesso. Per Aristotele rimane l’epica, cioè la forma della narrazione, e il dramma, cioè la forma della rappresentazione; quel che restava era insomma tutto in versi ed era definito quindi sostanzialmente in riferimento alla forma nella sua accezione più stretta. Prima di passare oltre bisogna anche ricordare anche che i due generi accettati da Aristotele persero con il tempo la forma in versi e la letteratura riassorbì la grande esclusa: la lirica, che rimase da allora l’unico genere in versi, a meritare il nome di poesia. Dalla triade epica, dramma, lirica si passerà a partire 15 Poetica VI, 1449b22. Si vedano: a favore Richard Janko, Aristotle on Comedy, Duckworth, London 1984; contro R. Cantarella, I «libri» della Poetica di Aristotele, in «Rendiconti dell’Accademia dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche», pp. 289-297. 17 Poetica I, 447a28-b9 tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, pp. 5-7. 16 42 2.1. Il Classico nell’età classica: il mondo greco dal Romanticismo, alla triade moderna di romanzo, teatro, poesia, i nomi sono cambiati ma la suddivisione di fondo è rimasta immutata. Torniamo al testo della poetica e alla difficoltà di nominarne i generi. Aristotele ricorda che i vari generi poetici sono normalmente identificati dal tipo di verso di cui fanno uso. La forma di un componimento poetico è dunque tanto importante che ne determina il nome; sarebbe invece meglio che il contenuto avesse parte nella determinazione del nome da assegnare ai poemi poetici e ai loro compositori e infatti Aristotele porta un importante esempio. Senonché gli uomini, ovviamente, combinando col verso il «comporre» danno agli uni il nome di poeti elegiaci, agli altri di poetici epici denominandoli poeti non per l’imitazione, ma accomunandoli per il verso. Sono infatti soliti chiamarli così anche qualora mediante i versi espongano un qualche argomento medico o fisico: ma non c’è nulla in comune a Omero e a Empedocle eccettuato il verso, perciò sarebbe giusto chiamare poeta l’uno, ma l’altro fisiologo piuttosto che poeta18 . Nel secondo capitolo Aristotele approfondisce molto brevemente il concetto di mimesis che si applica esclusivamente alle azioni, non alla nuda parola, dal momento che le letteratura tratta di uomini e gli uomini agiscono. Gli uomini, continua, possono essere suddivisi in base alle loro azioni: ci sono uomini che si comportano meglio, uomini che si comportano peggio e uomini che si comportano come la maggior parte delle persone. Così in base ai soggetti scelti, anche all’interno dello stesso genere, si crea una suddivisione. A questo punto sembra emergere il favore che Aristotele accorda ai poeti che scelsero di imitare le persone migliori come fece Omero, poeta epico per eccellenza; la scelta di trattare della tragedia subito dopo l’epica può lasciare avere la stessa motivazione. Secondo la medesima differenza si è distinta anche la tragedia dalla commedia: perché l’una vuole imitare persone peggiori, 18 Poetica I, 1447b tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 7. 43 2. Il mondo antico l’altra migliori di quelle di oggi19 . La forma, cioè i versi scelti per la composizione poetica, è stato il primo metodo di identificazione, il carattere dei personaggi il secondo; il terzo riguarda il modo in cui si imita come viene accennato nel terzo capitolo. Il quarto capitolo tratta le due cause naturali della nascita dell’arte poetica. Dalla prima causa emerge un giudizio positivo sull’imitazione e sulla poetica che ne è la miglior interprete; l’imitazione è infatti connaturata agli uomini e solo agli uomini su tutti gli altri animali. La seconda causa è il piacere che si trae dal fruire dell’imitazione più ancora che dell’oggetto imitato. La poesia è superiore agli altri generi di imitazione perché imita doppiamente grazie al verso. Essendo naturali per noi l’imitazione, l’armonia e il ritmo (infatti, che i versi sono parte dei ritmi è chiaro) da principio coloro che erano per natura particolarmente inclini a quelle cose fecero nascere la poesia dalle improvvisazioni sviluppandola a poco a poco20 . A questo punto segue una breve storia della nascita della letteratura che presuppone un Aristotele attento erudito oltre che fine pensatore21 . Aristotele applica il processo naturale di sviluppo anche alle attività umane, può in questo modo trattare la storia dell’attività poetica come un processo di successivo perfezionamento fino a una forma matura e compiuta22 . In questo excursus storico, dove sono mantenute fin da subito le differenziazioni causate dai diversi soggetti imitati, troviamo da una parte le invettive, dall’altra inni ed encomi. Già Aristotele non ha modo di citare dei nomi di 19 Poetica II, 1448a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 13. 20 Poetica IV,1448b tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 23. 21 Si veda I. Düring, Aristoteles. Darstellung und Interpretation seines Denkeens, Winter, Heidelberg 1966, tradotto in Düring, Aristotele, Mursia, Milano 1976, pp. 140-50. 22 Questa idea sarà poi centrale vista come progresso in tutta l’età moderna e contemporanea e vista come maturità nel pensiero di T.S. Eliot che la porterà ad esiti significativi come vedremo nel capitolo 5.4. 44 2.1. Il Classico nell’età classica: il mondo greco poeti di questo periodo ancestrale dal momento che non sono stati conservati; il primo nome che può fare è Omero, visto sia come poeta di versi eroici che di giambi, che rappresentano la seconda fase evolutiva della produzione letteraria. Di nessuno di coloro che precedettero Omero abbiamo la possibilità di citare un’opera poetica di quel genere, ma è plausibile che [poeti] ne esistessero molti; a comiciare da Omero è possibile, come il suo Margite e i componimenti simili23 . Omero non è solo il primo poeta di cui sia conservato il nome e l’opera, è anche il primo grande poeta, dal punto di vista della nostra trattazione potremmo dire il primo Classico. Dalla sua opera si evolveranno, nella terza fase di questa storia poetica, sia la tragedia che la commedia già probabili evoluzioni di ditirambi e canti fallici. E come Omero fu massimo poeta anche nel genere serio (fu infatti unico non solo nel far bene, ma anche perché fece imitazioni drammatiche) così fu anche il primo a far intravedere la forma della commedia, drammatizzando non l’invettiva ma il ridicolo: perché come stanno alle tragedie l’Iliade e l’Odissea, così anche il Margite sta alle commedie24 . Qui inizia la storia della tragedia che vede citati i suoi più grandi compositori insieme con le modifiche che apportarono rendendo la tragedia «in possesso della propria natura» cioè portando la sua forma alla perfezione; si tratta ovviamente di Eschilo e Sofocle. Il quinto capitolo si apre con la storia della commedia che rimane invece oscura; non si conoscono i poeti che apportarono per primi cambiamenti sostanziali alla commedia. Di seguito vengono prese in analisi le differenze che intercorrono tra epica e tragedia; entrambe sono «imitazioni in versi di persone serie», differiscono per verso, narrazione e durata. Quest’ultima differenza 23 Poetica IV, 1448b tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 25. 24 Poetica IV, 1448b-1449a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 25. 45 2. Il mondo antico è molto interessante per due motivi: Aristotele ricorda che se l’epica tratta di azioni in un lungo periodo di tempo la tragedia invece si riferisce al periodo compreso in un solo giro di sole, eppure in origine non aveva questa limitazione ed era quindi più simile all’epica che si conferma sua diretta antecedente. La tragedia appare comunque superiore all’epica, in un processo che è sempre inteso di graduale miglioramento verso un ideale di perfezione; la tragedia comprende di più e sembra quindi avvicinarsi maggiormente all’ideale della mimesis. Le parti sono alcune le stesse, altre sono proprie della tragedia. Perciò chi sa giudicare di una buona e di una cattiva tragedia sa anche a proposito dell’epica: infatti le parti che ha l’epica sono presenti anche nella tragedia, mentre quelle che ha questa non [si trovano] tutte nell’epica25 . Con il sesto capitolo, come abbiamo già detto, prende avvio l’analisi della tragedia; è anche interessante perché le prime righe hanno dato forza alla tripartizione della letteratura greca. Aristole, infatti, rimanda ad un’altra parte dell’opera la trattazione degli altri due tipi di componimento poetico. Della poesia imitativa in esametri e della commedia parleremo in seguito: ora diciamo della tragedia, ricavando dalle cose già dette la definizione d’essenza che ne risulta26 . Questo passo è doppiamente importante: da una parte, dal momento che sappiamo che tratterà anche dell’epica, conferma che tragedia e epica partecipano della stessa categoria, dall’altra che l’intenzione di Aristotele, a questo punto della stesura è di trattare tutti i tipi di componimento poetico. La tragedia viene indagata secondo le sue parti costituenti che, come abbiamo visto, comprendono anche le parti costituenti dell’epica e che sono indicate come un elemento prescrittivo per chi voglia diventare un poeta tragico. 25 Poetica IV, 1449b tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 35. 26 Poetica VI, 1449b tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 37. 46 2.1. Il Classico nell’età classica: il mondo greco È dunque necessario che di tutta la tragedia ci siano sei parti grazie alle quali la tragedia risulta di una certa qualità: queste sono il racconto, i caratteri, il linguaggio, il pensiero, lo spettacolo e il canto27 . Quindi Aristotele passa ad indicare la parte più importante di queste. Il più importante di questi è la composizione dei fatti: la tragedia è infatti imitazione non di uomini, ma di un’azione e della vita e della felicità <e dell’infelicità; ora la felicità> e l’infelicità sono nell’azione e il fine è una sorta di azione, non una qualità. Ma si è di una certa qualità grazie al carattere, si è felici, o al contrario, grazie alle azioni: dunque [i personaggi] non agiscono al fine di imitare i caratteri, ma includono in sé i caratteri grazie alle azioni. Di conseguenza, i fatti, cioè il racconto, sono il fine della tragedia e il fine è la cosa più importante di tutte28 . Da queste poche righe possiamo far emergere alcune considerazioni. La coerenza di caratteri e azioni, che è una necessità implicita alla mimesis, e anche la “riabilitazione” dell’epica che quest’ultima condivide con la tragedia non sono detrminate solo dalla serietà dei caratteri, che come abbiamo visto è secondo Aristotele, il primo elemento di stima per la produzione poetica, ma anche dal racconto, che tragedia e epica condividono e che è la cosa più importante di tutte. All’interno del racconto ci sono poi le parti che hanno maggior impatto sull’anima degli uomini e sono i rovesciamenti e i riconoscimenti. A questo punto Aristotele ritorna sull’importante legame tra azioni e caratteri per ribadirne l’importanza e per generare una graduatoria di importanza nelle parti della tragedia. Dunque, principio e quasi anima della tragedia è il racconto, in secondo luogo vengono i caratteri [...]. Terzo viene il pensiero [...]. Quarto *** è il linguaggio. Tra gli elementi che rimangono, 27 Poetica VI, 1450a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 41. 28 Poetica VI, 1450a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, pp. 44-45. 47 2. Il mondo antico la musica è il maggiore degli abbellimenti, mentre lo spettacolo seduce sì l’anima, ma è il più alieno dall’arte e il meno proprio della poetica; infatti la potenza della tragedia si esplica anche senza rappresentazione e senza attori29 . Risulta quasi impossibile a questo punto non notare che le ultime due parti sono sì messe in graduatoria insieme alle altre quattro, ma su di un gradino immensamente più in basso; vengono infatti definiti come meri abbellimenti. Il solo testo dell’opera drammaturgica è infatti stato, fin da subito, accettato come opera letteraria, come libro. Quando nel IV secolo a.C. Licurgo, per sottrarre le opere dei tre grandi tragici alle manipolazioni cui la pratica teatrali le esponeva, ne fa depositare nell’archivio ateniese il testo cui si sarebbe dovuto attenere chi le volesse rappresentare, egli riconosce ufficialmente al dramma il suo statuto di libro e consacra la struttura dell’antico copione quale forma per il teatro. Dunque Aristotele esamina la tragedia senza preoccuparsi dello spettacolo né dei suoi rapporti con Dioniso, il dio delle maschere e delle metamorfosi30 . D’altra parte bisogna anche ricordare che questi abbellimenti secondari sono proprio le parti che possiede la tragedia e che mancano all’epica. A questo punto Aristotele ritorna sulla parte più importante, il racconto, e la specifica ulteriormente; la descrizione della struttura del racconto continua ad essere in qualche modo prescrittiva. Definite queste cose, diciamo dopo ciò quale debba essere la composizione dei fatti, poiché questa è la prima e la più importante cosa della tragedia. È per noi stabilito che la tragedia è imitazione di un’azione compiuta e intera, dotata di una certa grandezza 29 Poetica VI, 1450b tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 49. 30 Giuseppe Serra, Da tragedia e commedia a lode e biasimo, Metzler, Stuttgart-Weimar 2002, p. 16. 48 2.1. Il Classico nell’età classica: il mondo greco perché ci può essere un intero anche senza avere alcuna grandezza. È intero ciò che ha un principio, un mezzo e una fine31 . Le tre caratteristiche fondamentali del racconto, compiutezza, interezza e grandezza vengono poi spiegati ulteriormente: possono essere visti come tre aspetti dell’“unità”. Questa caratteristica dell’unità ebbe poi grande seguito quando l’opera fu “riscoperta” dopo il Medioevo, fin oltre le intenzioni di Aristotele; così per esempio nota Berti [La] famosa unità di azione, che insieme con le altre due unità, di tempo e di luogo, ha così pesantemente condizionato l’estetica rinascimentale, per colpa non di Aristotele ma dei suoi miopi e dogmatici ripetitori32 . Per Aristotele unità d’azione indica solo che il racconto deve essere intero e compiuto: non può iniziare dopo i fatti, non può saltare dei fatti salienti e non può essere interrotto prima che si sviano sviluppati gli esiti diretti dei fatti. In riferimento alla futura unità di tempo, il racconto deve avere una determinata grandezza: non troppo piccolo né troppo grande, perché lo sguardo che l’abbraccia tutto possa essere unitario. Da una parte bisogna evitare i racconti tanto lunghi e complessi infatti l’estensione di questi «deve essere facile da ricordare33 »; dall’altra bisogna evitare i racconti troppo brevi. Questa prescrizione per la grandezza dei racconti condiziona anche la grandezza dell’opera; questo passo sembra infatti anche spiegare il mancato accordo assegnato alle opere poetiche molto brevi. Il meglio è che i racconti siano piuttosto grandi, il massimo che sia possibile evitando l’eccesso. Ma quanto al limite adeguato alla natura stessa della cosa, sempre è più bello nella sua estensione il più grande fino a che si mantiene comprensibile e, per darne una definizione semplice, quel31 Poetica VII, 1451a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 53. 32 Enrico Berti, Profilo di Aristotele, Edizioni Studium, Roma 1979, p. 148. 33 Poetica VII, 1451a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 53. 49 2. Il mondo antico l’estensione in cui, in una successione continua di avvenimenti secondo verisimiglianza o necessità, accada di passare alla buona fortuna dalla cattiva, oppure dalla buona fortuna alla cattiva, questo è un limite adeguato alla grandezza34 . È necessario a questo punto porre l’accento sull’idea di verisimiglianza o necessità che di nuovo lega la produzione dell’opera poetica alla realtà di cui è mimesis; vedremo poi come l’idea verrà ripresa e spiegata nel capitolo nono. L’ottavo capitolo riprende il concetto di interezza già visto da principio e l’associa al concetto di unità; Aristotele dice che ci sono forme ingannevoli di unità e che l’unità data dall’identità dei personaggi non può sostituire l’unità dell’azione. Il racconto è uno non, come alcuni credono, quando abbia per oggetto un’unica persona: perché a una persona accadono molti, anzi innumerevoli fatti, da alcuni dei quali non risulta alcuna unità35 . Non è neanche possibile raccontare tutti i fatti occorsi a una persona dall’inizio di una azione fino alle sue conseguenze perché alcuni fatti che accadono saranno incidentali e non connessi con l’azione che si intende raccontare. A questo proposito Aristotele porta l’esempio del poeta che a suo parere è stato il migliore in questa scelta, di nuovo torna il nome di Omero. Ma Omero, proprio come si distingue nelle altre cose, sembra aver visto bene anche in questa, sia per arte, o per natura: componendo l’Odissea, infatti, non rappresentò tutto quel che a lui accadde, per esempio che fu ferito sul Parnaso e che fece mostra di essere pazzo nell’adunata, fatti per i quali non c’era alcuna necessità o verisimiglianza che, per essere accaduto l’uno, accadesse anche l’altro. Compose invece l’Odissea intorno a un’azione come la diciamo noi e in modo simile anche l’Iliade. Come dunque anche nelle altre 34 Poetica VII, 1451a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, pp. 53-55. 35 Poetica VIII, 1451a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 57. 50 2.1. Il Classico nell’età classica: il mondo greco arti imitative l’imitazione una è di un oggetto uno, così è necessario che anche il racconto, poiché è imitazione di un’azione, lo sia di un’azione unitaria e insieme intera; e che le parti dei fatti stiano insieme in modo tale che, trasposta una parte o eliminata, l’intero ne sia alterato e sconnesso: perché quel che, aggiunto o non aggiunto, non produce alcunché di evidente, non è parte alcuna dell’intero36 . Nel nono capitolo Aristotele riprende l’argomento del verosimile e necessario e paragona lo storico, che racconta fatti avvenuti, al poeta che invece racconta fatti come potrebbero avvenire; non sempre la perfetta sequenza temporale e la necessità coincidono, a volte al contrario questo tipo di completezza rischia di falsificare la veridicità dell’azione. Egli osserva che mentre la storia racconta i fatti in successione cronologica, la poesia li dice in connessione causale: «che una cosa sia l’effetto di un’altra è ben diverso dal fatto che solo succeda a quest’altro (Poet. 52 a 20)». La poesia, così, racconta «un’azione unitaria», mentre la storia considera «un periodo di tempo, con tutti i fatti che vi accaddero ad una o più persone, ciascuno dei quali sta rispetto agli altri così come capitò»37 . Nell’agone tra storico e poeta lo scettro spetta dunque al poeta che maggiormente si avvicina al filosofo. La differenza è in questo, che l’uno dice le cose che avvennero, l’altro quali potrebbero avvenire. Perciò la poesia è cosa più filosofica e più seriamente impegnativa della storia: la poesia dice infatti piuttosto le cose universali, la storia quelle particolari38 . La vera mimesis dunque per Aristotele non consiste nell’imitazione pedissequa di tutto il reale, si tratta invece di un’operazione complessa che richiede di 36 Poetica VIII, 1451a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, pp. 57-59. 37 Luigi Pareyson, Il verisimile nella Poetica di Aristotele, Università di Torino. Pubblicazioni della facoltà di lettere e filosofia, Torino 1950, p. 9. 38 Poetica VIII, 1451b tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 63. 51 2. Il mondo antico scegliere le azioni significative, che raccontano il senso vero della vita; richiede di espungere tutte quelle azioni quotidiane e casuali che riempiono banalmente il tempo che passa tra un’azione e le sue dirette conseguenze. È evidente che in tal modo a questo problema è data un’impostazione logico-empirica, basata su una duplice distinzione: la distinzione logica fra possibile e impossibile, e la distinzione empirica tra accaduto e non accaduto. Queste due distinzioni non coincidono, perché il possibile è più esteso dell’accaduto e l’impossibile meno del non accaduto, sì che v’è una parte del possibile che coincide con una parte del non accaduto39 . Questa preferenza di base sui fatti solo verosimili rispetto ai fatti veri e accaduti non è però costrittiva, il poeta può raccontare fatti veri che siano anche verisimili, fatti già accaduti che, nella loro universalità, potrebbero accadere di nuovo, così come spesso fa la tragedia. Poiché nulla impedisce che tra le cose avvenute alcune siano tali, quali è verosimile e possibile che accadano e secondo questo aspetto egli ne è il poeta40 . Nel decimo e nell’undicesimo capitolo Aristotele passa poi a distinguere tra i racconti semplici e i racconti complessi; i racconti complessi si scostano dai primi in quanto usano riconoscimenti e rovesciamenti o entrambi. Questi artifici, di cui specificherà le possibilità nel sedicesimo capitolo, sono molto importanti e rendono migliore il racconto a patto che scaturiscano direttamente da esso e non siano quindi un elemento accessorio, il che inficerebbe l’unitarietà stessa del racconto; lo stesso si può dire per l’evento patetico. Dopo aver, nel dodicesimo capitolo, brevemente enumerato le parti formali della tragedia, Aristotele passa nel tredicesimo capitolo a specificare cosa deve raccontare la tragedia. 39 Luigi Pareyson, Il verisimile nella Poetica di Aristotele, Università di Torino. Pubblicazioni della facoltà di lettere e filosofia, Torino 1950, p. 5. 40 Poetica VIII, 1451b tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, pp. 65-67. 52 2.1. Il Classico nell’età classica: il mondo greco La composizione della tragedia più bella deve essere non semplice, ma complessa e, inoltre, capace di imitare casi paurosi e pietosi41 . Bisogna evitare che i migliori passino dalla buona alla cattiva fortuna e che i peggiori passino dalla cattiva alla buona fortuna, perchè verrebbe meno l’istanza etica della letteratura. Bisogna anche evitare che i migliori passino dalla cattiva alla buona fortuna o che i peggiori passino dalla buona alla cattiva fortuna perché ciò mancherebbe di pietà e di paura sebbene manterrebbe saldo il senso morale. È dunque necessario che si parli di un personaggio che non appartenga né al gruppo dei migliori né al gruppo dei peggiori. Rimane pertanto il personaggio intermedio tra questi. Tale è colui che né si distingue per virtù e giustizia, né muta cadendo nell’infortunio a causa del vizio e della malvagità, bensì per un qualche errore, essendo uno di coloro che godono di grande credito e fortuna, come per esempio Edipo e Tieste e gli uomini in vista che vengono da simili stirpi42 . Abbiamo visto come, nel tracciare una sommaria storia dell’evoluzione della tragedia, Aristotele abbia nominato Eschilo e Sofocle soltanto; a questo punto della trattazione compare il nome di Euripide che viene salvato anche se con qualche riserva. La tragedia più bella conformemente all’arte, dunque, risulta da questa composizione. Perciò cadono nel medesimo errore anche coloro che accusano Euripide perché fa così nelle tragedie e la maggior parte delle sue finisce nell’infortunio. Infatti, come si è detto, questo è corretto. Un indizio grandissimo [ne è questo]: sulle scene e nei concorsi quelle così fatte appaiono essere le più tragiche, qualora siano eseguite bene, ed Euripide, anche se per 41 Poetica XIII, 1452b tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 85. 42 Poetica XIII, 1453a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 87. 53 2. Il mondo antico gli altri aspetti non governa bene le cose, tuttavia, quanto meno, appare manifestamente il più tragico dei poeti43 . Nel capitolo successivo Aristotele specifica che la paura e la pietà devono scaturire dal racconto stesso e non dalla sollecitudine a sentimenti comuni o dalla sola messa in scena, tanto che la tragedia deve poter essere fruibile appieno anche con la sola lettura personale. Questo elemento appare ai nostri occhi un indizio di quanto la letteratura iniziasse allora a cercare di affrancarsi dal mondo del teatro e della rappresentazione scenica. Il quindicesimo capitolo si occupa dei caratteri dei personaggi che devono avere quattro qualità. Quanto ai caratteri, sono quattro gli aspetti che si devono tenere di mira. Uno e il primo, che siano validi. [...] Secondo, che siano convenienti [...] Terzo, che il carattere sia somigliante: che è una cosa diversa dal farlo valido e conveniente come si è detto prima. Quarto che sia coerente: perché anche se chi si offre all’imitazione sia incoerente e tale sia il carattere supposto, tuttavia deve essere coerentemente incoerente44 . Le prime due caratteristiche sono maggiormente legate alle istanze etiche del tempo; sono infatti le due caratteristiche che, a parere di Aristotele, negano di poter narrare la storia di una donna o peggio ancora di uno schiavo. Le altre due caratteristiche sono invece più interessanti perché prescrivono la verosimiglianza anche per i caratteri oltre che, come già detto, per il racconto. Nei capitoli seguenti Aristotele specifica e meglio determina alcuni punti già trattati, spiega perché il poeta migliore riesce a essere tale solo se è migliore degli altri da tutti i punti di vista, secondo ogni parte o dettaglio di cui si tratta nell’opera. Ora, bisogna cercare di possedere tutte le qualità e, se altrimenti, almeno le più importanti e nel maggior numero, soprattutto 43 Poetica XIII, 1453a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 89. 44 Poetica XV, 1454a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, pp. 103-105. 54 2.1. Il Classico nell’età classica: il mondo greco perché oggi si criticano i poeti: essendoci stati relativamente a ogni parte buoni poeti, si esige che uno da solo superi ciascuno di quelli nella sua particolare eccellenza45 . Dal diciannovesimo capitolo Aristotele passa ad occuparsi del pensiero e del linguaggio. Per il primo consiglia di considerare quanto già detto altrove sulla retorica perché è un argomento che pertiene quel campo; allo stesso modo dice per l’elocuzione bisogna rifarsi all’arte della declamazione. Fermiamoci un momento sul rapporto che c’è tra retorica e poetica; appare infatti difficile scindere completamente i due argomenti, soprattutto in riferimento alla teoria aristotelica. Si tratta, per Aristotele, di due percorsi specifici, due téchnai autonome; ed è l’opposizione di questi due sistemi: uno retorico, l’altro poetico, che definisce effettivamente la retorica aristotelica. Tutti gli autori che riconosceranno quest’opposizione potranno essere inquadrati nella retorica aristotelica; questa verrà a cessare quando l’opposizione sarà neutralizzata, quando retorica e poetica si fonderanno, quando la retorica diventerà una téchne poetica46 . Torniamo ad Aristotele che dal capitolo successivo, il ventesimo, si dilunga invece a trattare del linguaggio. Aristotele inizia a trattare del linguaggio secondo ogni sua parte, nell’ordine: lettera, sillaba, congiunzione, nome, verbo, flessione e discorso. Di queste parti fa un’analisi di tipo fonetico, linguistico e grammaticale rimandando per ulteriori approfondimenti a trattati di metrica. Resta interessante un passo alla fine del capitolo ventiduesimo dove Aristotele tratta l’opportunità di usare nomi non semplici, sempre che se ne faccia un uso privo di eccessi. Ora è una gran cosa servirsi a proposito di ciascuno dei procedimenti ricordati, i nomi doppi e quelli peregrini, ma molto più grande ancora è essere capace dei traslati; questa cosa sola, infatti, 45 Poetica XVIII, 1456a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, pp. 123-125. 46 Roland Barthes, La retorica antica, Bompiani, Milano 2006, p. 19. 55 2. Il mondo antico non è possibile ottenere da altri ed è segno di un talento naturale: perché far bene i traslati è saper vedere la somiglianza47 . L’uso dunque dei traslati è importante per due motivi: primo, appartiene alla natura e dunque non può essere interamente insegnato; secondo, perché riguarda ancora il concetto di mimesis, si tratta infatti di saperla cogliere nei diversi capi della realtà. Con il ventitreesimo capitolo si apre l’analisi della poesia epica che ricalca in gran parte quanto già detto per la tragedia che come abbiamo visto contiene tutte le parti della poesia epica. Aristotele quindi riassume brevemente quanto già detto sulla tragedia corredandolo di esempi riguardanti la poesia epica a riprova della sua tesi. Porta avanti, nel corso dei due soli capitoli dedicati all’epica, solo sei considerazioni e sempre in parallelo e in riferimento a quanto già detto sulla tragedia. Queste sono: la struttura del poema epico, l’oggetto, l’unità dell’azione, il piacere proprio dell’epica, l’estensione del racconto, le sue parti e le specie. L’unità dell’azione è quindi di nuovo sottolineata. A proposito dell’imitazione narrativa e in versi è chiaro che si devono comporre racconti, proprio come nelle tragedie, in modo drammatico e intorno a una sola azione intera e compiuta48 . Proprio in questo punto il legame con la tragedia è particolarmente evidente e portato avanti su diversi livelli, così nota, per esempio, Zanatta L’unità dell’azione è l’oggetto, per l’appunto, della terza indicazione, che Aristotele fornisce in espresso riferimento alla tragedia. Qui, anzi, il parallelismo è più che mai evidente, e si intuisce su piani che riguardano sia l’impianto strutturale del discorso, sia le determinazioni che l’azione deve avere per essere unitaria, sia la terminologia49 . 47 Poetica XXII, 1459a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 153. 48 Poetica XXIII, 1459a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 157. 49 Marcello Zanatta, La ragione verisimile. Saggio sulla "Poetica" di Aristotele, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2001, p. 282. 56 2.1. Il Classico nell’età classica: il mondo greco La trattazione dell’epica riporta l’occasione per l’elogio del migliore che è ancora una volta Omero, tanto bravo da superare apparentemente gli stessi limiti della capacità umana. Perciò Omero dovrebbe apparire sovrumano nel modo che già dicemmo anche per questo, per non aver tentato di fare un poema intero neppure dalla guerra, benché questa avesse un principio e una fine; perché il racconto sarebbe diventato troppo ampio e non facile da abbracciare con lo sguardo, oppure, se misurato nell’ampiezza, complicato per la varietà50 . Arrivato al capitolo ventiquattresimo Aristotele dichiara che anche le parti della poesia epica sono le stesse che la tragedia eccettuate musica e spettacolo che, come abbiamo già detto, sono comunque le parti meno importanti, di abbellimento. Di nuovo viene portato ad esempio il migliore, infatti come già detto per tutto il resto «di tutte queste cose Omero si è servito per primo e adeguatamente51 ». L’analisi del poema epico procede, seppur ridotto, sempre in parallelo con la trattazione della tragedia fino al capitolo ventiseiesimo dove Aristotele pone una domanda spinosa seppure si sia resa ormai necessaria: è migliore, e quindi da preferirsi, l’imitazione dell’epica o quella della tragedia? Inizialmente sembra prevalere l’epica a cagione del suo pubblico che è di miglior qualità rispetto a quello volgare della tragedia. Il pubblico ideale di Aristotele era infatti in grado di fruire dei piaceri della tragedia anche senza la rappresentazione; dobbiamo immaginarci un pubblico educato a questo scopo come prescritto dall’ultimo libro della Politica o dal secondo libro dell’Etica Nicomachea. A questo punto, infatti, seguono cinque considerazioni che ribaltano la situazione. La prima considerazione risponde all’accusa di volgarità del pubblico e dell’esecuzione che infatti «non tocca l’arte del poeta ma quella dell’interprete»; allo stesso modo la seconda ricorda che la tragedia compie la sua funzione, 50 Poetica XXIII, 1459a tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 157. 51 Poetica XXIV, 1459b tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 161. 57 2. Il mondo antico esattamente come l’epica, anche dalla sola lettura. La terza considerazione riprende ancora la completezza della tragedia che comprende tutto quello che ha l’epica e aggiunge la musica, elemento non trascurabile in quanto provoca con immediatezza i piaceri richiesti all’opera poetica. La quarta considerazione concede importanza alla grandezza della tragedia che è infatti più corta e permette allo sguardo di abbracciarla meglio. La quinta e ultima considerazione ribadisce l’importanza dell’unitarietà che può essere più facilmente disattesa dai poeti epici rispetto ai poeti tragici. La tragedia esce dunque vincitrice da questa sfida. Se dunque [la tragedia] si distingue per tutte queste cose e, inoltre, per l’opera propria dell’arte (esse devono infatti produrre non un piacere qualsiasi, ma quello detto), è manifesto che sarà superiore, perché ottiene il fine meglio dell’epica52 . Il valore che è attribuito alla tragedia e dunque di tipo etico, è superiore perché in riferimento allo scopo risulta più utile. La tragedia ha il pregio, e il compito, di elevare l’uomo così come in effetti fa. Lo spettatore sperimenta in un certo senso, nel cuore della crisi, la coincidenza dell’attività più intensa e della pace più perfetta, e così per un istante, dopo essersi lasciato alle spalle la confusione delle passioni umane, raggiunge la serenità divina53 . Il giudizio di valore che Aristotele assegna alla poesia, come nota Hersch, è dunque di carattere etico, tanto quanto lo era il rifiuto di essa per Socrate e Platone. L’accettazione della poesia non è dunque una rinuncia all’etica quanto al contrario il riconoscimento della sua utilità pratica nella formazione etica dell’individuo. Così Reale conclude la sua trattazione sulla Poetica e contemporaneamente sull’intero pensiero dii Aristotele. Platone aveva condannato l’arte - tra l’altro - anche per il motivo che essa scatena sentimenti ed emozioni, allentando l’elemento 52 Poetica XXVI, 1462b tradotto in Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 191. 53 Jeanne Hersch, Storia della filosofia come stupore, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 47. 58 2.1. Il Classico nell’età classica: il mondo greco razionale che le domina. Aristotele capovolge esattamente l’interpretazione platonica: l’arte non ci carica, ma ci scarica dell’emotività, e quel tipo di emozione che essa ci provoca, non solo non ci nuoce, ma ci risana54 . La Poetica termina qui, dopo aver trattato solo la tragedia e l’epica; dalla struttura dell’opera e da alcuni rimandi sparsi è possibile supporre che anche gli altri generi che restano in ombra sarebbero stati trattati allo stesso modo e avrebbero portato probabilmente agli stessi risultati. Torniamo infine alla tripartizione greca della letteratura di cui parlavamo all’inizio di questo capitolo e che ebbe grande successo, i romani ancora distinguevano tre tipi, stilus humilis, stilus mediocris, stilus gravis, Cicerone nell’Orator li metteva in correlazione con le tre grandi scuole di eloquenza dell’antichità; asianesimo e atticismo agli estremi e al centro il genere rodiese che tentava di mediare gli eccessi, e con i tre scopi dell’oratoria: probare, delectare e flectere. Erit igitur eloquens - hunc enim auctore Antonio quaerimus is qui in foro causisque civilibus ita dicet, ut probet, ut delectet, ut flectat. Probare necessitatis est, delectare suavitatis, flectere victoriae: nam id unum ex omnibus ad obtinendas causas potest plurimum. Sed quot officia oratoris, tot sunt genera dicendi: subtile in probando, modicum in delectando, vehemens in flectendo; in quo uno vis omnis oratoris est55 . Arrivato il Medioevo gli stili erano ormai stati identificati ad opera di Diomede con i tre generi di cui abbiamo detto con il compito rispettivamente di probare e docere, delectare, flectere. Infine Donato li collegò alle tre grandi opere dello Giovanni Reale, Storia della filosofia antica . Vol. II: Platone e Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. 594. 55 Orator, 21. Sarà dunque eloquente - questo tipo cerchiamo infatti seguendo il criterio di Antonio - colui che nel foro e nelle cause civili parlerà in modo che convinca, diletti e commuova. Il convincere è necessario, il dilettare è piacevole, il commuovere è vincere; infatti questo particolare contribuisce al di sopra di ogni cosa per raggiungere il successo nelle cause. Ma quanti sono i compiti dell’oratore, tanti sono i generi del suo dire: esauriente nel convincere, moderato nel dilettare, veemente nel commuovere; in questo particolamente consiste tutta la potenza dell’oratore. Tradotto in Cicerone, L’oratore, Mondadori, Milano 1998, p. 49. 54 59 2. Il mondo antico scrittore considerato più grande, Virgilio; la Rota Virgilii56 collegò infatti i tre generi a Bucoliche, Georgiche e Eneide, poesia pastorale, didascalica ed epopea. In questa forma la teoria tripartita ha avuto seguito per molti secoli57 . Prima di lasciare il mondo greco per il mondo romano dobbiamo ricordare che l’idea che oggi chiamiamo Classico, seppure sotto altri nomi era presente anche nel mondo greco; già allora si compilavano pinakes, cioè tavole, di quegli autori che erano in un certo qual modo “obbligati” per coloro che fossero interessati alla cultura letteraria, erano gli enkrithentes, autori scelti all’interno di ogni genere letterario. Pinakes era anche il titolo di un’opera di Callimaco che preparò una sorta di guida, per l’appunto, in ben centoventi volumi e che prendeva in considerazione tutti i rami della letteratura greca. Questo testo bibliografico non è giunto fino a noi ma questa opera classificatoria così antica resiste ancora e qualsiasi studente di ginnasio ancora oggi ha imparato che i tre grandi tragici greci sono Eschilo, Sofocle, Euripide, così come è stato “deciso” da altri tanto tempo fa. Facciamo adesso un passo avanti e prendiamo in analisi il mondo romano. 2.2 Il Classico nell’età classica: il mondo romano Abbiamo già analizzato il mondo romano per quanto riguarda la nascita del termine nel capitolo 1.3, vediamo adesso quali idee circolassero a Roma sull’opera poetica e quali consigli vengono dati a chi intenda cimentarsi con una tale impresa. L’autore che prenderemo in analisi adesso è Orazio che con l’Ars Poetica58 si occupa proprio di questo. Orazio in quest’opera si sente costretto a dialogare o quantomeno a tener in debito conto la tradizione; per quanto risponda, nel trattatello, alle istanze poetiche del suo tempo, non può fare a meno di tenere in considerazione quanto era stato scritto nella Poetica di Aristotele. Il testo si occupa principalmente del teatro; non a causa di un testo mutilo o incompiuto, come era stato per Aristotele, piuttosto per una precisa 56 Aelius Donatus,Ars Grammatica III. Si veda a questo riguardo Cesare Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino 1985, pp. 310-311 58 Orazio, Le lettere, BUR, Milano 2006, pp. 254-287. Basato sull’edizione curata da François Villeneuve per «Les belles Lettres» del 1967. 57 60 2.2. Il Classico nell’età classica: il mondo romano scelta di campo. Da una parte le condizioni del testo Aristotelico imponevano una scelta simile, dall’altra bisogna ricordare che Orazio visse in un periodo in cui anche la letteratura rispondeva a istanze di tipo propagandistico. Nel primo momento il fatto ci desta meraviglia, se pensiamo che Orazio non coltivò nessun genere di poesia drammatica; ci saremmo aspettati che egli volesse illuminare i Pisoni più specificatamente su quelle forme di poesia da lui stesso coltivate, e di cui quindi avrebbe potuto parlare da vero maestro. L’unica via a spiegare l’apparente contraddizione sta nell’ammettere che, in questo luogo, egli subisca la diretta influenza della Arte Poetica di Neottolemo, attraverso il quale gli era giunta ed aveva fatto presa sulla sua mente la interpretazione aristotelica della forma drammatica come la più rappresentativa della poesia, perchè la più mimetica, interpretazione rimasta fissa in tutte le poetiche posteriori59 . Esiste inoltre un’altra possibile prova di questa influenza dell’opera di Neottolemo su Orazio. Analizzando, infatti come Orazio si discosti dal pensiero aristotelico in merito, per esempio, alla rinuncia ai miti, Brink nota come questo allontanamento fosse già in Neottolemo, avvalorando così l’ipotesi della sua conoscenza dell’opera di quest’ultimo60 . Non è però possibile avere certezza assoluta di queste ascendenze e filiazioni, così è secondo Pace che conclude con questo monito l’analisi del v. 128 dell’Ars oraziana. Rimane in conclusione da sottolineare come sia sempre estremamente pericoloso tentare di accostare le poche testimonianze di poetica ellenistico-romana che ci sono rimaste e ritenere, in presenza di analogie di contenuto e di lessico, che un autore tenesse presente l’altro61 . La possibile ascendenza letteraria della sua Ars non deve però sviarci; il contributo di Orazio, come poeta ma anche come uomo romano, non è infatti secon59 Pietro Parrella, Introduzione allo studio dell’Arte poetica di Orazio, Campa, Napoli 1948, pp. 22-23. 60 C.O. Brink, Horace on poetry. The «Ars Poetica», Cambridge 1971, pp. 106-108 61 Nicola Pace, Alcune osservazioni su Orazio, Ars, 128-130, «Acme» 49, 3 (1996) p. 53. 61 2. Il mondo antico dario. Nella sua trattazione emergono senzaltro Aristotele e Neottolemo, ma soprattutto il pensiero di Orazio si dispiega in tutta la sua profondità. È tutta una organica trattazione intorno allo stile, ai generi, all’ufficio della poesia, ec.; trattazione tecnica fondata sui manuali delle scuole ellenistiche (in particolare sui precetti peripatetici di Neottolemo di Pario), ma pure non arida affatto: poiché Orazio vi ha largamente instillati i suoi sentimenti di poeta romano, e soprattutto ha trovato modo di far vibrare il suo consenso con quei capitali principi di vita virtuosa, non solo privata, ma sociale, che tanto dominavano allora nel suo intelletto62 . Orazio non scrisse dunque per il teatro ma volge la sua indagine proprio a questo in quanto il genere drammatico, e in particolare alla tragedia, era visto come il genere supremo, momentaneamente assente e quindi da ricercarsi, della letteratura. Può sembrare strano che un genere poco e nulla frequentato sia considerato il genere più alto; bisogna tenere però conto di almeno due fattori che determinarono questa scelta. Il teatro, o meglio la forma che assume con la tragedia, era stato incoronato già da Aristotele insieme alla poesia epica; la propaganda augustea, del resto, voleva magnificare l’operato di Augusto con tutti i generi degni, soprattutto i due vertici aristotelici. Virgilio aveva provveduto all’epica ma ancora restava vacante il posto della tragedia che aveva raggiunto con Aristotele il vertice assoluto. D’altra parte pochi si cimentavano con la scrittura di tragedie dal momento che a Roma ormai il teatro si era moltiplicato in molte nuove forme, preferite per lo più dal pubblico rispetto alla tragedia, più difficile e ovviamente meno divertente. L’opera di Orazio, nonostante quanto abbiamo appena detto, si allontana dal precedente Aristotelico da diversi punti di vista, abbiamo detto della distanza relativa che divide le due culture in cui Aristotele e Orazio vivevano, bisogna anche ricordare la distanza socio-culturale. Aristotele aveva scritto un’opera di ampio respiro e di carattere filosofico al sorgere della cultura scritta nel mondo greco; Orazio scrive un’opera di dimensioni e pretese ridotte senza alcun 62 62 Augusto Rostagni, Orazio, Edizioni Osanna Venosa, Venosa 1988, p. 78. 2.2. Il Classico nell’età classica: il mondo romano intento filosofico, piuttosto come un vecchio poeta che concede, su esplicita richiesta, consigli ad un aspirante giovane poeta. È noto quanto si sia parlato, e non sempre a proposito, dell’animo oraziano, della sua adesione a particolari correnti filosofiche, di una sua evoluzione che avrebbe portato il poeta dai porti epicurei alle piagge dello storicismo, senza tenere sempre nel debito conto la rivendicazione fatta da Orazio stesso della propria libertà, della propria indipendenza culturale, non vincolata ad alcuna scuola63 . Si tratta, ovviamente, di un vecchio poeta che aveva studiato filosofia, nei tempi e nei modi previsti dall’epoca in cui visse64 ; lo stesso Augusto agì secondo le prescizioni culturali del tempo se come dice Svetonio che «hortationem ad philosophiam Augustum scripsisse65 ». La passione di Orazio è confermata, non tanto dalla sua testimonianza concernente lo studio della filosofia dedicato in Atene, quand’era sui vent’anni (Epist.,2 2 43 sg.), quanto da tutta l’opera sua. Il che non contrasta con quanto giustamente afferma il Bodrero, che «Orazio non fu affatto un filosofo»66 . Aver studiato filosofia e non essere comunque un filosofo permetteva ad Orazio di gestire la sua attività letteraria, così come la sua vita, in piena libertà, questo dato è stato colto magistralmente, in anni più recenti, da Alberto Grilli che così determina più chiaramente quale genere di libertà Orazio concedesse a se stesso. Ai suoi tempi - come del resto sempre - libertà letteraria voleva dire libertà della propria cultura e del suo uso. questo soprattutto perchè l’insidia (e un po’ la moda, quella che sopra chiamavo una 63 Leonardo Ferrero, La «Poetica» e le poetiche di Orazio, Università di Torino, Pubblicazioni della facoltà di Lettere e Filosofia, Torino 1953, p. 10. 64 Si veda anche Emilio Bodrero, Orazio e la filosofia in A. Beltrami - E. Bodrero, La figura e l’opera di Orazio, Istituti di studi romani, Roma 1938. 65 Aug., 85. 66 Onorato Tescari, La filosofia in Orazio, in «Convivium», Società Editrice Internazionale, n. 2 1937 (XV), p. 197. 63 2. Il mondo antico delle sirene) era di mettere in mostra la propria conoscenza del pensiero greco e l’abilità di usarne: accanto alla retorica, la filosofia. Ma proprio qui dobbiamo stare sull’avviso: è un grossolano errore di noi moderni quello di ritenere che da Cicerone e Varrone in poi dobbiamo applicare a ogni personalità letteraria un’etichetta filosofica. Per il mondo antico, più che mai a Roma, filosofia voleva dire cultura superiore che permetteva di affrontare molti problemi generali, che permetteva di cogliere l’universale e che dava, grazie all’ascolto dei maestri delle varie scuole, una duttilità di ragionamento, oltre che la comprensione di molti aspetti della realtà che oggi rientrerebbero nel campo delle scienze67 . Tutto questo, ovviamente, non riduce assolutamente l’importanza del suo contributo, anzi, la sua pretesa di libertà lo rende in grado di essere più vicino alla temperie culturale in cui visse. Esiste forse un ulteriore motivo che spinse Orazio in quest’impresa. Si suole spesso sottovalutare i dedicatari delle opere epistolari antiche; sebbene la dedica stessa fosse già allora un evidente topos letterario come ha gia chiarito magistralmente Curtius68 , la dedica ai Pisoni ci fornisce alcune risposte. Nel progressivo spoglio dei papiri ercolanesi trovati nella villa dei Pisoni emergono numerosi frammenti su questo argomento; si tratta in realtà di una biblioteca di cui è dubbio il proprietario dal momento che Lucio Calpurnio Pisone Cesonino fu amico, protettore e discepolo di Filodemo di Gadara e che la biblioteca avrebbe potuto appartenere a quest’ultimo. Ciò nonostante è anche plausibile che i Pisoni fossero comunque fortemente interessati all’argomento, ed è possibile che richiesero davvero ad Orazio la stesura di un’opera su questo argomento. Si tratta in realtà comunque di un interesse che ha suscitato molte perplessità dal momento che Filodemo diresse, con Sirone, la scuola epicurea di Napoli e che, come abbiamo detto, Calpurnio Pisone fu suo discepolo. 67 Alberto Grilli, Pensiero e libertà poetica in Orazio, in AA.VV. Quattro lezioni su Orazio, Leo Olschki, Firenze 1993, p. 38. 68 Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006, pp. 101-102. 64 2.2. Il Classico nell’età classica: il mondo romano Di fronte alla mole di frammenti di papiri ercolanesi dedicati alla poesia, si può rimanere perplessi: tutti hanno ben presenti gli ammonimenti di Epicuro a fuggire l’educazione liberale nel suo complesso e particolarmente la poesia che di quella educazione era elemento fondamentale. ma anche la critica letteraria veniva apparentemente respinta da Epicuro come indegna anche solo di discussione69 . Da ultimo bisogna ricordare che l’importanza dell’opera è ai nostri occhi quasi accresciuta dal favore e dal credito che ebbe Orazio nei secoli successivi, sia come poeta che come maestro di poesia; lo vedremo poi soprattutto nei capitoli sul periodo medievale, quando la sua fortuna si consolida al passaggio verso il mondo nuovo che si va creando e Orazio diventa una auctoritas. La popolarità, quasi l’assunzione in proverbio di alcuni versi [...] dimostrano che le opinioni espresse nell’Ars offrono categorie di giudizio estetico o forniscono norme operative poetiche: perché il poemetto è stato il solo manuale di teoria di letteratura assiduamente usato, ricco di formule e di regole praticabili; e Orazio fu «auctor» soprattutto perché produttore di «auctoritates»70 . Iniziamo dunque la nostra analisi dell’Ars. Il testo di Orazio inizia quasi brutalmente, senza lasciar posto a preamboli, il lavoro compositivo del poeta, con un evidente richiamo alla mimesis greca di cui abbiamo già detto, viene subito paragonato al lavoro del pittore. Il pittore infatti, come il poeta, deve evitare di unire parti anatomiche discordanti; gli elementi centrali per la buona riuscita di un’opera sono infatti semplicità e unità. denique sit quod vis, simplex dumtaxat et unum71 . Questo verso appare quasi come il sunto dell’opera, che viene portata avanti per continue specificazioni. Orazio non intende impedire o intralciare la 69 Nicola Pace, La rivoluzione umanistica nella scuola epicurea: Demetrio Lacone e Filodemo, teorici di poesia, «Cronache Ercolanesi», 30 2000, p. 71. 70 Claudia Villa, Per una tipologia del commento mediolatino: l’«Ars poetica» di Orazio, in Il commento ai testi. Atti del seminario di Ascona 2-9 ottobre 1989, Birkhäusen 1992, p. 21. 71 Ars Poetica, v. 23. Insomma (l’opera) sia quel che vuoi, purché semplice ed unitaria. 65 2. Il mondo antico creatività del poeta, vuole invece metterlo in guardia dagli errori più frequenti ponendo dei limiti molto generici eppure indispensabili. L’errore più frequente sembra essere, nelle sue molte forme, l’autoinganno che porta agli eccessi. maxima pars vatum, pater et iuvenes patre digni, decipimur specie recti. brevis esse laboro, obscurus fio; sectantem levia nervi deficiunt animique; professus grandia turget; serpi humi tutus nimium timidusque procellae; qui variare cupit rem prodigialiter unam, delphinus silvis adpingit, fluctibus aprum: in vitium ducit culpae fuga, si caret arte72 . Questo cedere all’accesso non è l’unico difetto imputabile all’imperizia del giovane scrittore, il più rischioso consiste proprio nel non rendersi conto di non essere ancora all’altezza di compiti troppo gravosi. sumite materiam vestris, qui scribitis, aequam viribus et versate diu, quid ferre recusent, quid valeant umeri. cui lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc nec lucidus ordo73 . Subito specifica questo consiglio mettendolo in relazione con la scelta che deve operare il poeta ricordandosi anche di non farsi prendere dalla foga di dir tutto; bisogna insomma comprendere cosa mettere e cosa togliere per restare in quel giusto mezzo, quella aurea mediocritas, che è la cifra stilistica di Orazio e che pure era stata in qualche modo, come abbiamo visto, già prescritta da Aristotele. 72 Ars Poetica, vv. 24-31. La maggior parte dei poeti, padre e figli degni del padre, siamo ingannati dall’apparenza del giusto: cerco d’essere breve, divento oscuro; vengono meno e nerbo e calore a chi cerca la forbitezza; chi ostenta grandi cose riesce tronfio; striscia a terra il troppo cauto e timoroso della procella; chi desidera variare in maniera prodigiosa un argomento unitario dipinge un delfino nei boschi, un cinghiale tra i flutti. La fuga da un errore porta ad un vizio, se manca l’arte. 73 Ars Poetica, vv. 38-41. Scegliete, voi che scrivete, un soggetto pari alle vostre forze e ponderate a lungo che cosa ricusino e che cosa possano sostenere le vostre spalle. chi secondo le proprie forze avrà scelto l’argomento, costui non mancherà di abbondanza di parole e limpido ordine. 66 2.2. Il Classico nell’età classica: il mondo romano ordinis haec virtus arit et venus, aut ego fallor, ut iam nunc dicat iam nunc debentia dici, pleraque differat et praesens in tempus omittat. hoc amet, hoc spernat promissi carminis auctor74 . Fin qui Orazio ha definito l’opportunità della scelta in riferimento agli argomenti, adesso amplia il discorso e passa a trattare, e lo fa di pari passo, della forma. A questo punto, infatti, il discorso passa a definire la necessità della scelta anche in riferimento ai singoli vocaboli; si riferisce all’opportunità di scegliere termini adeguati o a coniarne di nuovi secondo regole certe e definite. Non si tratta a suo parere di una pratica completamente vietata, come per tutto il resto bisogna riuscire a vedere il limite che separa il lecito dal sovrabbondante. [...] dabiturque licentia sumpta pudenter, et nova fictaque nuper habebunt verba fidem, si Graeco fonte cadent parce detorta75 . Questa preferenza accordata per le parole di derivazione greca conferma il credito che la lingua, la cultura e la letteratura greche godevano a Roma; la relazione di filiazione culturale della cultura romana da quella greca non era ignota agli stessi Romani. Il discorso prosegue, come già in Aristotele, con un excursus sulla storia della letteratura; il primo nome ad essere citato è anche qui quello di Omero. res gestae regumque ducumque et tristia bella quo scribi possent numero, monstravit Homerus76 ; Aristotele aveva tracciato una storia della letteratura attraverso i diversi generi letterari, Orazio invece usa allo stesso modo la metrica; si tratta di una varia74 Ars Poetica, vv. 42-45. Dell’ordine questo sarà la virtù e la bellezza, se non mi inganno, che l’autore di un carme vivamente atteso dica subito ciò che deve essere detto subito, molte cose rimandi e per il momento ometta, questo accolga, quell’altro respinga. 75 Ars Poetica, vv. 51-53. [...] E te ne sarà data libertà, purchè presa con discrezione, e le parole nuove e formate da poco avranno credito, se derivate con parsimonia provengano da fonte greca. 76 Ars Poetica, vv. 73-74. Omero mostrò in quale metro si possono scrivere e le gesta e dei re e dei duci e le guerre funeste. 67 2. Il mondo antico zione sul tema dal momento che metro e genere nel mondo antico, sia greco che romano, arrivano quasi a coincidere. La trattazione della metrica dà spazio per definire in rapporto ad essa l’elemento centrale del pensiero di Orazio in merito all’opera poetica; la coerenza metrica è solo la prima delle accezioni in cui questa viene declinata. I racconti comici non possono sopportare la gravità della tragedia, allo stesso modo in una tragedia non si deve usare un linguaggio basso, degno dei personaggi infimi; così è per ogni composizione poetica: singula quaeque locum teneant sortita decentem. [...] non satis est pulchra esse poemata: dulcia sunto et quocumque volent animum auditoris agunto77 . Alla coerenza metrica si lega anche la seconda accezione del termine che potremmo definire come coerenza di carattere secondo i moti dell’anima che si vogliono mostrare. [...] tristia maestum voltum verba decent, iratum plena minarum ludentem lasciva, severum seria dictu78 . La terza accezione insegna che allo stesso modo bisogna comportarsi per le diverse situazioni, in quella che potremmo chiamare coerenza di registro. Nelle parole di Orazio possiamo qui ravvisare la consapevolezza di differenze di registro secondo diverse varianti; il consiglio sembra qui essere di matrice pratica, dove possibile conviene attenersi alla tradizione o il rischio è di nuovo l’incoerenza. intererit multum, divosne loquatur an heros, maturusne senex an adhuc florente iuventa fervidus, et matrona potens am sedula nutrix, 77 Ars Poetica, v. 92, 99-100. Ciascun argomento tenga il proprio posto e le forme convenientemente avute in sorte [...] Non basta che i componimenti poetici siano belli; siano dolci e trascinino l’animo dell’ascoltatore ovunque vorranno. 78 Ars Poetica, vv. 105-107. Parole tristi s’addicono ad un volto mesto, ad uno irato minacciose, scherzose ad uno allegro, gravi ad uno dignitoso. 68 2.2. Il Classico nell’età classica: il mondo romano mercatorne vagus cultorne virentis agelli, Colchus an Assyrius, Thebis nutritus an Argis. aut famam sequere aut sibi convenientia finge, scriptor79 . La prima variante, che vede contrapposti dei ed eroi potrebbe essere intesa, secondo la progressioni delle età della terra, come una variante diacronica; si tratta però forse di una interpretazione troppo forzata, le successive sono invece molto più chiare. Nell’ordine, la differenza di età dei personaggi indica quella che oggi chiameremmo variante diafasica; l’accostamento di matrona e nutrice, così come la coppia successiva, fa naturalmente pensare ad una variante diastratica e infine l’ultima, la variante diatopica è chiaramente esposta dalla diversa provenienza, su vasta o su più piccola scala degli stessi personaggi. Il consiglio di Orazio, abbiamo visto, è di essere coerenti con la tradizione consolidata quando si sceglie un argomento o dei personaggi che oggi definiremmo letterari, ovvero già presenti nella tradizione letteraria; qualora si scegliesse invece di trattare un argomento o dei personaggi nuovi bisogna almeno che sia mantenuta la coerenza del personaggio con se stesso. siquid inexpertum scaenae committis et audes personam formare novam, servetur ad imum qualis ab incepto processerit et sibi constet80 . Orazio qui continua a parlare delle opere nuove e dei rischi in cui si incorre nello scriverle. È sempre necessario saper ritagliare l’opera dalla massa della storia di cui è parte, bisogna saper scegliere gli episodi e saper dosare verità e invenzione, Aristotele avrebbe detto, secondo verosimiglianza. Bisogna fare attenzione a non dilungare troppo la storia o gli episodi; in riferimento a questo 79 Ars Poetica, vv 114-120. Molta differenza ci sarà se parli un dio o un eroe, un vecchio maturo o uno ardente di gioventù ancora fiorente, una matrona imperiosa od una zelante nutrice, un mercante girovago o il coltivatore d’un verdeggiante campicello, un Colco od un Assiro, uno cresciuto a Tebe oppure ad Argo. Scrittore, o segui la tradizione, oppure crea caratteri coerenti. 80 Ars Poetica, vv. 125-127. Se affidi alla scena qualcosa non ancora tentato ed osi creare un nuovo personaggio, si mantenga questo fino alla fine quale avanzò sulla scena da principio e sia coerente con se stesso. 69 2. Il mondo antico è preso nuovamente a modello Omero citato tramite l’incipit dell’Odissea, in quest’opera infatti seppe meglio di chiunque altro scegliere gli episodi e il filo della narrazione in mezzo ad un’enorme massa di eventi, avventure e incontri che Ulisse fece durante il viaggio. quanto rectius hic, qui nil molitur inepte: ’dic mihi, Musa, virum, captae post tempora Troiae qui mores hominum multorum vidit et urbes’81 . Anche la scelta operata da Orazio su Ulisse non è certo di secondaria importanza; possiamo a questo proposito ricordare l’analisi di Virginio Cremona che riconosce, in Orazio, un Ulisse lontano dall’interpretazione virgiliana che sarà poi la radice dell’Ulisse Dantesco e in generale medievale. Si tratta di una interpretazione per noi tanto più significativa perché motivata anche da più passi della sua stessa opera poetica. Ulisse, esemplare della patientia (Ep.I 7,40), della uirtus e della sapientia (Ep. I 2, 17-18; Ars 141-142) tetragono a ogni avversità affrontata per procurare il ritorno in patria per sé e per i suoi compagni (Carm. I 6,7), vittorioso delle Sirene e di Circe (Ep. I 2, 17-26), ben distinguendosi dalla sua ciurma viziosa e degenere, che alla patria aveva preferito il piacere vietato (Ep. I 6, 63-64). L’Ulisse oraziano è il prototipo dell’uomo saggio che nella vita ha scelto la via della virtù, che è vittoria sulle passioni. Non è l’Ulisse virgiliano operatore di frodi. È, in fondo, l’Ulisse omerico, che riassume in sé lo spirito dell’Odissea, che si traduce in una lezione di moralità, un’esortazione implicita a seguire la virtù82 . L’ammirazione per Ulisse e le citazioni in cui compare sono, nell’Opera Oraziana, solo una goccia del grande mare che è, in generale, il riconosciuto debito omerico. Così, infatti, Virginio Cremona inizia il saggio, Orazio omerico, che abbiamo appena citato. 81 Ars Poetica, vv. 140-142. Quanto meglio questo che nulla promatte scioccamente: ’Musa, cantami l’eroe, che vide i costumi e le città di molti uomini, dopo i tempi della presa di Troia. 82 Virginio Cremona, Orazio omerico in Studia classica Iohanni Tarditi oblata, a cura di L. Belloni, G. Milanese, A Porro, Vita e Pensiero, Milano 1995, Vol. I, pp. 494-495. 70 2.2. Il Classico nell’età classica: il mondo romano È nota l’ammirazione di Orazio per il «grande» Omero: Tu nihil in magno doctus reprehendis Homero? (Sat. I 10,52). Essa scaturiva da un’approfondita conoscenza dei due poemi, come risulta non tanto dai numerosi personaggi (una cinquantina) ricorrenti nell’opera oraziana - tutti ripresi con i loro caratteri e adattati al nuovo contesto, spesso quasi con valore di simbolo, che non escludono la provenienza indiretta - quanto da un’ottantina di spunti omerici innestati nel genere lirico, ricorrenti nei soli quattro libri delle Odi, che stanno a provare una conoscenza diretta dei testi83 . Torniamo adesso a Orazio, che, dopo aver citato, come abbiamo visto, l’opera dal suo incipit, così elogia l’andamento del racconto stesso come Omero lo porta avanti nell’Odissea. semper ad eventum festinat et in medias res non secus ac notas auditorem rapit et quae desperat tractata nitescere posse relinquit atque ita mentitur, sic veris falsa remiscet, primo ne medium, medio ne discrepat imum84 . Orazio continua rimarcando l’importanza della coerenza del personaggio in base alla sua età, per più di venti versi si dilunga a descrivere l’indole dell’uomo nelle successive fasi della sua vita. Si tratta di un breve excursus che contiene numerosissimi topoi sulle età dell’uomo e quindi sui relativi personaggi che mantiene inalterata ancor oggi il suo valore di modello. Il discorso a questo punto cambia improvvisamente e passa ad occuparsi sistematicamente delle norme che regolano l’azione drammatica. Dell’opera viene innanzitutto indicata la misura perfetta. 83 Virginio Cremona, Orazio omerico in Studia classica Iohanni Tarditi oblata, a cura di L. Belloni, G. Milanese, A Porro, Vita e Pensiero, Milano 1995, Vol. I, p 489. 84 Ars Poetica, vv. 148-152. Sempre si affretta alla conclusione e trascina nel cuore degli eventi l’ascoltatore, non altrimementi che se già fossero noti e tralascia quei fatti che, trattati, non spera possano acquistare splendore e così inventa e così mescola al vero il falso che il centro non discordi dall’inizio né la fine dal centro. 71 2. Il mondo antico neve minor neu sit quinto productior actu fabula, quae posci volt et spectanda reponi85 . Di tutti i fatti e le azioni presentate sulla scena alcuni saranno effettivamente recitati, altri invece solo raccontati; è bene porre attenzione a quali eventi si possono mostrare e quali invece è bene nascondere alla vista diretta dello spettatore sebbene sia anche necessario ricordare che i fatti recitati meglio colpiscono l’animo di quelli solo narrati. segnius inritant animos demissa per aurem quam quae sunt oculis subiecta fidelibus et quae ipsi sibi tradit spectator: non tamen intus digna geri promes in scaenam multaque tolles ex oculis, quae mox narret facundia praesens86 . Degli eventi che è bene nascondere alla vista sono portati degli esempi che illustrano come bisogna assolutamente evitare le azioni moralmente violente come la morte dei figli di Medea per la sua stessa mano, o l’imbandire di carni umane le mense; altre scene che non bisogna mostrare riguardano le metamorfosi umane, quali i ricordati casi di Procne o di Cadmo. Ci sono poi alcune azioni che non sono da evitarsi assolutamente ma di cui bisogna ridurre l’uso finché possibile come ad esempio l’intervento degli Dei in scena. Di qui Orazio passa poi a trattare la parte che in un’opera deve, a suo parere, avere il coro; di fondamentale importanza è di nuovo la coerenza che il coro deve mostrare nei suoi canti con l’intreccio della storia. Viene poi indicato come deve reagire alle azioni rappresentate in scena in modo che si mantenga come un ideale metro morale degli eventi. ille bonis faveatque et consilietur amice et regas iratos et amet peccare timentis; 85 Ars Poetica, vv. 189-190. Non sia più corto né più lungo di cinque atti, un racconto che già rappresentato voglia essere richiesto e ripresentato. 86 Ars Poetica, vv. 180-184. Più debolmente impressionano gli animi le cose ascoltate di quelle che sono sottoposte agli occhi fedeli e che lo stesso spettatore trasmette a se steso: tuttavia non porterai sulla scena cose degne di essere portate dentro e eviterai alla vista molte cose che poco dopo narrerà chi era presente. 72 2.2. Il Classico nell’età classica: il mondo romano ille dapes laudet mensae brevis, ille salubrem iustitiam legesque et apertis otia portis; ille tegat commissa deosque precetur et oret, ut redeat miseris, abeat Fortuna suberbis87 . L’argomento morale è importante per Orazio, che anche in questo è in linea con la cultura romana in genere e specificatamente della sua età; vedremo come più aventi il discorso venga ripreso e approfondito. A questa opera etica cui è sottoposto il coro segue da presso la descrizione della storia del teatro che da costumi seri e morigerati è passato agli eccessi; anche lo stesso accompagnamento musicale, un tempo di semplice ausilio all’opera è adesso votato all’esagerazione. Dopo un breve tratto in cui si dilunga a parlare del dramma satiresco, Orazio passa a trattare della metrica della poesia drammatica; la libertà che la poesia latina precocemente prese nell’allontanarsi dalle strutture greche lascia poi modo per lodare gli antichi scrittori di Roma che perfezionarono le strutture latine grazie ad un paziente e incessante lavoro di revisione. Il consiglio per chi voglia intraprendere la stesura di un’opera è quindi di imitarli e controllare e rifinire mille volte ogni verso prima che sia reso pubblico. [...] vos, o Pompilius sanguis, carmen reprehendite, quod non multa dies et multa litura coercuit atque praesectum deciens non castigavit ad unguem88 . Il nitore del verso che qui Orazio propugna non è esposto esclusivamente dal contenuto dei versi che se ne occupano, sono le sue stesse parole, in questa sede così apparentemente lontana dalla vetta letteraria di genere, che partecipano delle teorie esposte fornendoci, insieme alla teoresi, anche un mirabile esempio. 87 Ars Poetica, vv. 196-201. Sia favorevole ai buoni e li consigli amichevolmente e moderi gli adirati e ami coloro che temono di peccare; lodi vivande di unamensa parca, la giustizia salutare e le leggi e la pace dalle porte aperte; custodisca le cose affidate e preghi e scongiuri gli dei, affinchè la Fortuna visiti gli infelici, abbandoni i superbi. 88 Ars Poetica, vv. 291-294. Voi, o sangue di Pompilio, rifiutate la poesia , che il lungo tempo e molta pulizia non perfezionò e non abbia corretto con l’unghia dieci volte. 73 2. Il mondo antico Nell’Ars poetica e nella successiva epistola ad Augusto c’è una Stimmung di serenità e di largo equilibrio; quel mondo concluso verso cui voleva tendersi lo spirito di Orazio, quella inperturbabilità, quella pacifica luce mesta qui è attuata. L’uomo tuttavia è poeta, ha in sé, direi quasi, una polla musicale che non può essere fatta tacere [...]. Orazio che voleva fare un trattato d’estetica, non dirò continuamente (e ciò sarebbe in fondo contrario alle caratteristiche del suo «sermo») ma sovente, più sovente di quello che egli creda, pur nella sorda materia di questo che in senso largo è un mito, intona un suo cantare, una musica che è espressione d’un particolare stato d’animo. A leggere ad alta voce taluni passi dell’epistola ai Pisoni, specie taluni attacchi, si sente subito che tutta una luce spirituale investe l’argomento e lo sublima, lo fa vivo, lo fa poesia89 . Torniamo alla nostra analisi dell’Ars che da questo punto si fa più personale, dopo aver trattato dell’opera poetica e di come la si debba formare, passa, secondo uno schema allora usuale, a parlare allo stesso modo del poeta. Il Norden per primo fece un’ipotesi, non solo corroborata dall’osservazione di fenomeni affini, ma anche tale da spiegare l’ordinamento ed il nesso di tutta l’Arte poetica assai meglio di quanto non si fosse fatto fino allora. Egli partì dalla constatazione che nell’età alessandrino-romana avevano avuto grande diffusione dei manuali di avviamento pratico, detti con termine greco isagogici, che volgarizzavano a scopo di diffusione i risultati dell’investigazione scientifica su ogni genere di scienze e di dicipline: retorica, musica, filosofia, etc. Tutti questi manuali applicavano uno schema, di probabile origine peripatetico-stoica, secondo il quale erano divisi in due grandi sezioni: una prima sezione trattava dell’ars in generale e forniva precetti sulla disciplina in questione; una seconda sezione era più particolarmente dedicata a trattare dell’artifex, 89 74 Enrico Turolla, Orazio, Le Monnier, Firenze 1931, pp. 219-220. 2.2. Il Classico nell’età classica: il mondo romano della casistica e della precettistica, che riguardavano chi professasse una determinata disciplina. Le forme costantemente preferite erano la dialogica e quella epistolare90 . Orazio, come prima cosa, cita il luogo comune che vede il genio poetico sregolato e poco attento a nulla altro che non sia la creazione poetica; quindi lamenta che molti si definiscano poeti a sola cagione del rifuggire la dignitosa cura del proprio aspetto. Questa negazione della visione della poesia come invasamento o furore è molto interessante; la vocazione del poeta viene specificata qui, per opposzione, come dedizione e duro lavoro piuttosto che come carattere naturale. Se così non fosse, allora facile sarebbe diventare poeta, è invece difficile scrivere degne opere poetiche e Orazio si dichiara pronto a insegnare la giusta strada per raggiungere l’agognata meta. [...] ergo fungar vice cotis, acutum reddere quae ferrum valet exsors ipsa secandi; munus et officium, nil scribens ipse, docebo, unde parentur opes, quid alat formetque poetam quit deceat, quid non, quo virtus, quo ferat error. scribendi recte sapere est et principium et fons91 . La degna fonte dell’ispirazione potrà essere ricercata nella filosofia, identificata da Orazio per sineddoche con «le opere socratiche», quando questa conoscenza sarà salda nell’animo del poeta l’ispirazione fluirà spontaneamente. Il poeta deve conoscere in particolare l’etica così da dipingere chiaramente i tratti del carattere di qualsiasi personaggio; di nuovo la moralità è definita, come avevamo anticipato, come fondamentale per il poeta e la composizione poetica. Si passa quindi a trattare della diversità tra greci e romani; i primi ottennero facilmente il favore della Musa perché il valore della parola era allora tenuto in 90 Giuseppe Pavano, Introduzione all’«Arte Poetica» di Orazio, Palumbo, Palermo 1944, p. 9. Ars Poetica, vv. 304-309. Dunque farò la parte della cote, la quale vale a rendere il ferro tagliente, essa stessa inadatta a tagliare; insegnerò, nulla scrivendo io stesso, il compito e il dovere: dove ricavare la materia, cosa educhi e formi il poeta, cosa gli convenga, cosa non, dove conduca la pratica, dove l’errore. Dello scrivere bene, essere saggio è sia principio che fonte. 91 75 2. Il mondo antico massimo pregio, i romani invece concedono troppa importanza a meri interessi economici e quindi hanno insieme a minor interesse anche minor possibilità di riuscita. Lo scopo del poeta invece non è quello di mettere insieme grandi sostanze, al contrario. aut prodesse volunt aut delectare poetae aut simul et iucundia et idonea dicere vitae92 . Orazio individua tre grandi massime a cui è bene attenersi; in pochi versi raggiunge brevemente le radici comuni di molti dei difetti che ha fin’ora ricordato. La brevità, già citata come massima insieme alla semplicità all’inizio dell’opera, è proprio il primo di questi precetti, indispensabile perché il pubblico possa comprendere e ricordare tutte le parti dell’opera. quidquid praecipies, esto brevis 93 . Il secondo precetto richiede che si sia veritieri o, dal momento che si parla comunque di racconti e non di storia, che ci si tenga quanto più possibile al vero; torna qui nuovamente il tema della verosimiglianza già tanto caro ad Aristotele. ficta voluptatis causa sint proxima veris94 . Infine il terzo precetto è espresso da due versi di cui il primo ha da solo assunto il valore di proverbio; nonostante alcuni preferiscano opere che abbiano un intento morale e altri invece non sopportino opere troppo austere, anche a causa di quello stesso intento morale, è bene essere in grado di unire la piacevolezza all’utilità della norma etica, unire l’utile al dilettevole. omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci lectorem delectando pariterque monendo95 . 92 Ars Poetica, vv. 333.334. I poeti vogliono essere utili o dilettare o dire nello stesso tempo cose sia piacevoli che utili alla vita. 93 Ars Poetica, v. 335. Qualunque cosa ti proponi, sii breve. 94 Ars Poetica, v. 338. Le cose inventate per il piacere siano vicine al vero. 95 Ars Poetica, vv. 343-344. Chi unisce l’utile al dilettevole raggiunge completamente lo scopo dilettando e allo stesso modo insegnando al lettore. 76 2.2. Il Classico nell’età classica: il mondo romano Chi riesca insomma a divertire il suo pubblico senza rinunciare all’imperativo morale ha fatto guadagnare molto alla sua composizione. Delectare e monere sono i due estremi in cui si deve muovere lo scopo dell’opera poetica, non sono molto lontani dai tre fini dell’oratoria descritti da Cicerone nell’Orator: probare (altrove docere), delectare, flectere; forse non è inutile ricordare che in quest’ultima opera la filosofia è considerata fondamentale per l’oratoria, come per Orazio lo è per l’arte poetica96 . Il clima intellettuale dell’epoca era infatti coeso intorno alle stesse istanze teoriche che venivano declinate secondo i vari argomenti, il che rende forse valida la scelta di valutare l’opinione dei romani sull’argomento sulla base di un solo testo emblematico come qui abbiamo tentato di fare con l’Ars Poetica. Torniamo dunque a Orazio che inizia un lungo discorso sulla liceità, una volta assolti i tre precetti fondamentali, di indulgere su poche piccole ombre e imprecisioni; Orazio ammette che esistono opere di cui si fruisce in modo diverso e apparentemente le ammette tutte come ugualmente valide. ut pictura poesis: erit quae, si propius stes, te capiat magis, et quaedam, si longius apstes. haec amat obscurum, volet haec sub luce videri, iudicis argutum quae non formidat acumen; haec placuit semel, haec deciens repetita placebit97 . Orazio, che qui di nuovo ribadisce l’istanza che accomuna la pittura e la poesia come aveva già fatto iniziando questa opera; ricorda che esiste però una differenza fondamentale che separa l’opera che piace sempre, anche se è già conosciuta, da tutte le altre. Il fatto è che, sebbene in molti campi si possa tollerare il non perfetto, l’opera poetica mediocre non è mai e in alcun modo, accettabile. [...] mediocribus esse poetis 96 Si riveda, a questo proposito, quanto già detto alla fine del capitolo 2.1. Ars Poetica, vv. 361-365. Come la pittura è la poesia: ci sarà quella che ti conquista di più se ci stai più vicino, e quella se ci stai più lontano. Questa ama l’oscurità, quella, che non teme l’acume arguto del critico vuole essere osservata alla luce; questa piacque una sola volta, quest’altra piacerà rivista dieci volte. 97 77 2. Il mondo antico non homines, non di, non concessere columnae98 . La mediocrità risulta subito insopportabile in una composizione poetica, il rifiuto è talmente netto che Orazio, sempre attento alla brevitas, si concede di ripetere nuovamente il concetto già così bene espresso sic animis natum iuventumque poema iuvandis, si paulum summo decessit, vergit ad imum99 . Non c’è nulla di peggio, per un’opera poetica, che essere vicino alla perfezione e poi cadere, anche per piccole cose, e rendere vano tutto il buono che si era fatto. Tutta questa importanza assegnata alla perfezione anche formale non deve far dimenticare che da sola essa non basta. Orazio accenna alla diatriba che vede contrapposti coloro che riferiscono la buona riuscita di un’opera poetica alla perizia che si può conquistare con lo studio a coloro che invece pongono in primo piano l’estro poetico; la sua posizione è, una volta ancora, mediana. Bisogna di nuovo sapersi muovere contemporaneamente su due piani distinti e pur collegati. natura fieret laudabile carmen an arte, quaesitum est: ego nec studium sine divite vena nec rude quid prosit video ingenium: alterius sic altera poscit opem res et coniurat amice100 . In tutti i campi dell’agire umano è normale aspettarsi di dover imparare prima di operare perfettamente così come in tutte le gare i partecipanti, che siano essi atleti o musici, hanno esercitato a lungo le loro doti naturali. Al contrario sembra che chiunque si senta invece autorizzato a definirsi poeta dopo aver scritto anche solo pochi versi. Orazio lamenta la presenza di questi uomini che rifiutano in mille modi le critiche. Alcuni comprano il favore degli ascoltatori 98 Ars Poetica, vv. 372-373 Non gli uomini, non gli dei, non i pilastri hanno concesso il diritto di essere ai poeti mediocri. 99 Ars Poetica, vv. 377-378. Così una poesia nata e trovata per allietare gli animi, cade in basso se per poco si allontana dall’altezza. 100 Ars Poetica, vv. 408-411. Se per natura o per arte un carme divenga lodevole è stato chiesto: io non vedo quel che possa né lo studio senza una ricca vena, né un ingegno incolto: così una cos chiede l’aiuto dell’altra e ci si integra amichevolemente. 78 2.2. Il Classico nell’età classica: il mondo romano che attirati da laudi pasti o laudi guadagni si trasformano ben presto in ferventi ammiratori; altri chiedono un giudizio e sono poi pronti a trovar mille scuse per allontanare da se e dalle proprie composizioni poetiche ogni critica. L’ultimo consiglio di Orazio è invece quello di ricercare le critiche come cosa utile, e di ascoltarle e di renderle uno strumento per la continua rifinitura del proprio lavoro. È necessario trovare un critico onesto, come Quintilio, che non neghi un giudizio disinteressato e quindi seguire i suoi consigli per il lavoro di ripulitura dell’opera; se poi le critiche sono tante e tali da far sembrare questo lavoro troppo gravoso è bene piuttosto ricominciare il lavoro da capo che rendere pubblici componimenti non validi. Quintilio siquid recitares, ’corrige, sodes, hoc’ aiebat ’et hoc’. melius te posse negares bis terque expertum frustra: delere iubebat et male tornatos incudi reddere versus. si defendere delictum quam vertere malles, nullum ultra verbum aut operam insumebat inanem, quin sine rivali teque et tua solus amares101 . Bisogna ascoltare e tener in buon conto un bravo critico perché altrimenti lascerà il poeta poco disponibile alla critica da solo davanti agli ascoltatori con la sua misera opera: la fama di un solo componimento non curato distruggerà qualsiasi credito di cui si abbia precedentemente goduto. Torna qui l’immagine del poeta chiuso in se stesso e nel proprio vantato «furore poetico», di nuovo Orazio sottolinea la vacuità di questo modus vivendi et scribendi. È vero che ai vv. 372 ss. Orazio osteggia i mediocres senza vocazione a al v. 378 dichiara anzi che la poesia si paulum summo decessit, vergit ad imum; ma da tutta l’ultima parte dell’epistola appare chiaro che vocazione significa anche o addirittura soprattutto 101 Ars Poetica, vv. 438-444. Se tu recitassi qualcosa a Quintilio, ti direbbe: correggi, se vuoi ascoltare, questo e questo. se tu negassi di poter fare meglio avendo provato invano per la seconda e la terza volta; ti consiglierebbe di distruggerli e di sottoporre i versi mal torniti all’incudine. Se tu preferisci difendere anziché correggere l’errore, non spenderebbe nessun altra parola o fatica vana, perché tu da solo e senza rivale ameresti te e le tue cose. 79 2. Il mondo antico dedizione, competenza e duro tirocinio, senza la vanagloria di chi, dum vitat humum, nubes et inania captet (v. 230) finendo col partorire dalla montagna il ridiculus mus (v. 139). Ed ecco che l’epistola, partita dall’immagine straniante della donna-pesce, palmare trasgressione al principo-guida del prépon, si chiude col ritratto grottesco del poeta ’fanatico’, flagrante trasgressione all’ars: vesanum tetigisse timent fugiuntque poetam / qui sapiunt. E se costui (vv. 457 ss.) dum sublimis versus ructatur et errat, / ... veluti merulis intentus decidit auceps / in puteum foveamve, ben gli sta: sit ius liceatque perire poetis102 . Abbiamo visto cosa pensava dell’opera poetica un grande scrittore latino, Orazio, resta ancora da indagare quali scrittori o quali opere i latini consideravano Classici. Dobbiamo prima cosa ricordare che durante il lunghissimo periodo di egemonia della città di Roma, prima nella sola penisola e poi in un tutto il mediterraneo e oltre, gli autori “preferiti” dagli intellettuali cambiarono, almeno in parte. Con questi cambiamenti ebbe a che fare lo stesso Orazio come ci ricorda Pontiggia in un passo che da il titolo all’opera. Paradossale quanto esemplare destino di un poeta che nella Epistola ai Pisoni ha fissato, come una costellazione, i limiti luminosi dell’Ars Poetica classica. I contemporanei gli preferivano il nuovo, che per loro era l’arcaismo, l’imitazione degli antichi, e lui doveva difendere il vero nuovo, che era il suo. Ma Orazio contava sui contemporanei del futuro103 . Possiamo qui vedere quali autori si siano infine cristallizzati come esemplari al termine dell’avventura romana; questi sono gli stessi autori che costituirono poi la base della successiva cultura medievale. 102 Giancarlo Mazzoli, Orazio e il sublime in Doctus Horatius. Atti del Convegno di studi per Virginio Cremona (Brescia, 9-10 febbraio 1995), a cura di Pier Vincenzo Cova, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 39. 103 Giuseppe Pontiggia, I contemporanei del futuro, Mondadori, Milano 2001, p. 127. 80 2.2. Il Classico nell’età classica: il mondo romano Resta comunque da ricordare che nell’età classica i classici, almeno con questo nome non esistevano; sebbene esistesse invece la categoria dei, diremmo oggi, moderni. Anche quest’ultimo termine però ancora non esisteva come ci fa notare Pontiggia nel capitolo Nani e giganti di I contemporanei del futuro. Come si chiamavano i moderni quando ancora non esistevano? Si chiamavano recentes o novi o neoterici. Oppure, con quella concretezza terricola che contrassegnava i Romani, «quelli che vivono ora, oggi». E i classici, all’epoca dei classici? Non esistevano. ci sono voluti secoli prima che il censo più elevato passasse da una classe di cittadini a una classe di scrittori. E Gellio, l’erudito cui si deve la divulgazione della metafora forse più diffusa nella cultura occidentale, deve chiarirne l’origine, perchè evidentemente è stata dimenticata. Pare sia una tendenza diffusa in ogni nobiltà quella di dimenticare l’origine. E quando si risale agli dèi, è spesso per non scendere agli inferi104 . Per evidenziare il canone letterario romano è possibile far riferimento al canone scolastico del tempo e prendere quindi in analisi il lavoro dei grammatici; il primo per importanza è senz’altro Quintiliano e l’Institutio oratoria105 , come ebbe modo di dire Curtius, infatti «L’influenza di Quintiliano nel Medio Evo è ben più grande di quanto facciano supporre le notizie in nostro possesso. L’Institutio oratoria come guida alla formazione dell’uomo ideale può essere paragonata al Cortegiano (1528) di Baldassar Castiglione106 ». Per Quintiliano, come già per Cicerone nell’Orator, l’uomo ideale corrisponde all’oratore ideale dal momento che l’oratoria è, tra le arti umane, la più alta; le indicazioni lettura per l’oratore perfetto diventano quindi indicazioni di carattere più generale. La posizione assunta dall’etica è fondamentale e devono essere letti gli autori che hanno una forte valenza morale 104 Giuseppe Pontiggia, I contemporanei del futuro, Mondadori, Milano 2001, p. 38. 105 Quintiliano, Institutio Oratoria, Harvard University Press, Cambridge 1989. Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006, p. 487. 106 81 2. Il mondo antico mores ante omnia oratori studiis erunt excolendi107 Sono dunque indicati Virgilio e Orazio, anche se di quest’ultimo non è consigliata tutta l’opera; l’elegia amorosa è assolutamente sconsigliata ed è quindi escluso Ovidio - recuperato poi nel Medioevo - al contrario è utile leggere commedie, il che motiva il successo medievale di Terenzio. Un altro elemento di grande importanza ravvisabile nell’opera di Quintiliano è la divisione che opera nella grammatica che a suo parere è composta dalla Metodica e dalla Istorica, rispettivamente recte loquendi scientiam et poetarum enarrationem, la scienza del parlare corretto e la spiegazione dei poeti. Si può ravvisare in questa divisione il seme della divisione in lingua e letteratura che sarà propria di tutta la scienza letteraria successiva108 . Rivedremo questa suddivisione con Tolkien e Valedictory address to the University of Oxford, dove vengono biasimati gli eccessi di questa pratica, nel capitolo 5.4. 2.3 Il sublime e Del sublime Proprio al termine del periodo d’oro, sotto Augusto visse e operò Cecilio di Calatte109 ; si trattava di uno schiavo, o liberto, di origine greco-sicula che scrisse un’opera storica sulle guerre servili in Sicilia e anche diverse opere di polemica letteraria e retorica, in queste nel trattare la diatriba viva in quel periodo prendeva posizione a favore dell’atticismo contro la retorica asiana110 . Detto questo non possiamo presentare qui il suo pensiero dal momento che tutta la sua opera risulta perduta, resta però vivo un trattato successivo che qualcuno, che fu identificato a lungo e a torto con Longino, scrisse per confutare le tesi di Cecilio. Solitamente il ricordo dell’opera e dell’autore che dall’opera stessa ha fama vengono conservati insieme, quasi come prova reciproca; in questo caso, 107 Institutio oratoria, XII 2,1. Institutio oratoria, I 4, 2-3 e I 9,1. 109 Calacte è l’attuale Caronia, in Sicilia sulla costa tirrenica. 110 Contro i Frigi e anche, In che modo lo stile attico è superiore a quello asiano; qui interessa sopratutto un trattato sul sublime di cui non conserviamo neppure il titolo, tutte le informazioni su questo trattato sono espunte dalla risposta polemica che sollevò e di cui diremo. Oggi tutti i frammenti pervenuti sono raccolti nel testo Caecilii Calactini fragmenta collegit Ernestus Ofenloch pubblicato a Lipsia nel 1907. 108 82 2.3. Il sublime e Del sublime invece, dei due contendenti: di uno conserviamo solo il nome, dell’altro solo l’opera come se la storia avesse questa volta deciso come Salomone senza troppo riguardo per il sentimento dei ricorrenti. Torniamo all’opera contro Cecilio e al suo anonimo autore, abbiamo detto che fu attribuita a Longino, tanto che adesso si definisce il suo autore Pseudo-Longino. Il manoscritto che ha consegnato l’opera all’età moderna definiva in testa all’opera l’autore come Dionisio Longino, non si sapeva nulla di un autore con questo nome tanto che fu assimilato a Cassio Longino e si ipotizzò che il suo nome completo fosse Dionisio Cassio Longino. Solo nel 1809 Weiske scoprì che il manoscritto riportava come autore Dionisio oppure Longino nel sommario nel verso del foglio 1 del manoscritto111 . Nè Dionisio nè Longino possono verosimilmente essere stati autori di questo trattato. Dionisio, ovvero Dionisio d’Alicarnasso era un retore e storico greco tanto entusiasta della cultura romana da iniziare a scrivere nel 7 a.C. i venti libri delle Antichità romane, di quest’opera si sono conservati ben dieci libri e anche la sua opera retorica è giunta fino a noi in misura tale da conoscere la sua posizione nella diatriba retorica del tempo ed è certo che si posizionasse dalla parte opposta rispetto all’ autore del trattato, accanto al Cecilio cui è rivolta la critica; non poteva dunque essere assolutamente considerato autore del trattato in oggetto112 . Cassio Longino nacque, probabilmente ad Atene, nel 213 e morì a sessant’anni a Palmira. Compì i suoi studi ad Alessandria sotto la guida di Origene, diversamente dal compagno di studi Plotino non lo si ricorda dotato di ingegno significativo, tuttavia insegnò ad Atene prima di trasferirsi in Siria e diventare ministro della leggendaria Zenobia, regina di Palmira; qui fu fautore della resistenza antiromana tanto che fu infine giustiziato per ordine di Aureliano. Se 111 Il trattato è conservato dal verso del foglio 178 al verso del foglio 207 nel manoscritto Parigino Greco 2036, un codice costantinopolitano della seconda metà del X secolo preceduto dai Problemata physica dello Pseudo-Aristotele. All’inizio del trattato la disgiuntiva è assente per svista del copista, è invece presente all’inizio del manoscritto nel sommario del primo foglio. La disgiuntiva si ritrova anche in due codici quattrocenteschi che dipendono dal primo manoscritto, il Parigino Greco 985 che registra la stessa situazione del 2036 e il Vaticano Greco 285 che pur essendo copia del precedente presenta una correzione con l’interpolazione della disgiuntiva anche in testa all’opera. 112 Conserviamo però una sua importante opera retorica De compositione verborum, uno dei capolavori della critica letteraria antica. 83 2. Il mondo antico la sua opera come filosofo fu modesta, e infatti conserviamo solo due titoli di opere perdute, si guadagnò grande stima come critico letterario e retore; forse per questo due antichi manoscritti gli assegnano la paternità dell’opera Del sublime. L’attribuzione, erronea, fu confutata con un’accurata indagine storica e cronologica, oltre che stilistica, e l’opera oggi è assegnata ad un’anonimo autore definito, come detto, Pseudo-Longino. Di questi sappiamo solo che fu uno studente di Teodoro di Galara che, a sua volta, fu anche maestro di Tiberio. I tentativi di dare un nome a questo studente sono stati molteplici, alcuni hanno pensato a Ermagora altri a Elio Teone o Pompeo Gemino; l’unico dato che è divenuto ormai accettato è la collocazione cronologica dell’opera al periodo che va dalla fine del I secolo a.C. alla prima metà del secolo successivo, nel quadro della prima età imperiale. Si potrebbe a questo punto obiettare che l’analisi di un’opera che, come dice il suo stesso titolo, si riferisca al sublime non si adegui alla nostra indagine dal momento che è appurato che il sublime è altro da quanto fin qui trattato e anzi designa, quasi oppositivamente, un tipo di esperienza estetica distinta dal bello sia in ambito estetico che retorico. Ciò nonostante il sublime viene considerato, in questo momento storico come anche in altri a venire, al vertice: superiore ad ogni altro stile. Per questo motivo, che diverrà ancora più chiaro nella terza sezione di questa trattazione (capitolo 6.13), il sublime afferisce alla nostra trattazione, e dunque anche il contrario: la nostra trattazione si occuperà dunque anche del sublime. Partiamo analizzando la struttura stessa dell’opera, il trattato è piuttosto esteso pur tenendo conto delle sette vistose lacune, di cui l’ultima in conclusione, che tagliano il testo di un terzo, circa mille righe113 . Dopo aver impostato il trattato stesso definendone l’ambito di ricerca, l’autore passa subito ad analizzare i vizi del sublime e i possibili rimedi per evitarli, passa quindi ad elencare e a spiegare le cinque fonti del sublime. Fin dal primo capitolo, dopo i rituali dedica, a Postumio Terenziano, e motivazione dell’opera, colmare la grave lacuna metodologica, l’autore definisce il suo argomento. Dichiara di non al113 Il testo adottato nel resto del capitolo è la traduzione italiana Anonimo, Il Sublime, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano 2009, che utilizza l’edizione D.A. Russell, On the Sublime, Clarendon, Oxford 1964. 84 2.3. Il sublime e Del sublime lontanarsi dall’idea di Cecilio pur definendo il suo precedente come un lavoro riduttivo rispetto all’argomento stesso, gli contesta invece di non aver saziato il secondo scopo di ogni trattato, l’utile. L’opera di Cecilio non può, a suo parere, essere considerata come un manuale tecnico dal momento che non insegna la téchne, manca infatti l’indicazione di come sia possibile raggiungere la vetta che pure ha ben identificato saturando il primo scopo della trattatistica, definire l’argomento, fase questa che pur propedeutica alla seconda ne è inferiore per importanza. Vediamo l’incipit dell’opera che, tra l’altro è trasparente all’evidente impegno didattico dell’autore, l’impegno retorico scolastico infatti emerge chiaramente dall’impianto dell’exordium, da manuale diremmo oggi. Quando noi esaminammo insieme il libretto di Cecilio sul sublime, carissimo Postumio Terenzio, come ricorderai esso ci parve troppo modesto per un tema così complesso, fuorviante rispetto all’essenza della questione e di scarsa utilità a chi lo prendesse in mano, cosa che invece dovrebbe essere la prima preoccupazione di uno scrittore. Due sono infatti gli scopi di un trattato: primo spiegare quale sia l’argomento; secondo, ma primo per importanza, come e con quali metodi noi stessi ne potremo divenire competenti. Invece Cecilio cerca di dimostrare attraverso una moltitudine di esempi che cosa sia il sublime, come se noi lo ignorassimo, ma trascura inspiegabilmente di dire, quasi fosse una cosa irrilevante, come possiamo rinforzare il nostro ingegno per portarlo a tanta grandezza114 . In queste poche righe è già possibile trovare un elemento importante che concorre a fare del sublime la vetta, come abbiamo detto, per una certa temperie culturale. Non importa qui che si riferisca a Cecilio e paradossalmente neppure cosa aveva scritto quest’ultimo nel suo trattato, il nocciolo della questione è l’utile, «la prima preoccupazione di uno scrittore». Lo Pseudo-Longino passa quindi alla definizione del suo argomento che per sua stessa ammissione è breve dal momento che il suo lettore, Postumio, ha condiviso con lui gli studi e quindi le conoscenze acquisite anche sul sublime 114 Anonimo, Il Sublime, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano 2009, p. 41. 85 2. Il mondo antico il sublime è una sorta di eccellenza del linguaggio, e che i massimi poeti e prosatori non altrove che di qui raggiunsero il primato e consegnarono la loro fama all’eternità115 Il sublime cui si riferisce l’autore si allontana vistosamente dalla definizione dell’antica retorica che vedeva il sublime come uno stile, il sommo tra i tre possibili seguito dallo stile medio e da quello umile; i tre stili poi, come abbiamo già visto nel capitolo 2.1, erano connessi con le tre fondamentali funzioni riconosciute al discorso, probare, delectare, flectere; in effetti qui si parla de il sublime, to hypsos e non come nella trattatistica retorica precedente dello stile sublime, character hypselos; resta un legame con la tradizione antica ma siamo comunque di fronte ad un sostanziale ingrandimento di selezione semantica del termine che passa dalla designazione dello stile di un’opera fino ad una categoria che non è più solo stilistica anche se ancora la comprende. Ripartiamo dalla prima preoccupazione dello scrittore, l’utile, la risposta è il sublime stesso; se per l’opera retorica l’utile viene a trovarsi come scopo primo, anche il flectere lo segue e il modo migliore per muovere l’animo, anzi superiore alla persuasione è l’estasi a cui proprio il sublime porta il lettore. Il sublime persuade più della stessa persuasione grazie alla grande forza emotiva, scissa dalla ragione, che è l’estasi, la singolare sensazione di essere fuori di sé, sensazione che unisce idealmente coinvolgendo sia il poeta che produce che l’ascoltatore che usufruisce dell’opera116 . L’estasi che apparteneva alla sfera religiosa più mistica viene estesa alla poesia cui pure è connessa e nasce con i riti più arcaici. Infatti il sublime trascina gli ascoltatori non alla persuasione, ma all’estasi: perché ciò che è meraviglioso s’accompagna sempre a un senso di smarrimento, e prevale su ciò che è solo convincente o grazioso, dato che la persuasione in genere è alla nostra portata, mentre esso, conferendo al discorso un potere e una forza invincibile, sovrasta qualunque ascoltatore117 . 115 Anonimo, Il Sublime, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano 2009, pp. 41-43. Bisogna notare che l’opera presa in esame parla sempre di ascoltatori, akouontes, mai di lettori. 117 Anonimo, Il Sublime, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano 2009, p. 43. 116 86 2.3. Il sublime e Del sublime La definizione del sublime termina con l’accenno a due elementi importanti: la progettualità dell’opera l’unitarietà di questa da cui scaturisce, quest’ultimo elemento è da tenere in grande considerazione, dal momento che è una caratteristica che il sublime sembra avere in comune con altri stili che nel tempo hanno ottenuto la palma della vittoria nell’agone estetico. Se poi l’abilità dell’invenzione, la costruzione della trama, e la scaltrezza sull’intreccio li vediamo trasparire alla fine non da uno o due passi, ma dall’insieme dell’opera, il sublime che appare nel momento giusto sconvolge tutta la materia, come un fulmine, e dispiega nella sua pienezza l’intera potenza dell’autore118 . Prima di passare al precetto l’autore si ferma per definire questo compito, insegnare il sublime, come possibile dal momento che molti ritengono che il sublime non sia un’arte, una téchne che non si possa quindi insegnarla e riferisce il suo disaccordo prendendo in causa anche la misura, il giusto mezzo, che pure pare opposta all’idea di sublime che si riferisce all’estasi e quindi ad un estremo solo il metodo è capace di delimitare e facilitarne la misura, l’occasione, la pratica e l’uso più sicuri. La grandezza abbandonata a se stessa, senza la consapevolezza di sé, è in pericolo, instabile, incostante, lasciata all’impeto irriflessivo della propria audacia: spesso i geni hanno bisogno di un pungolo o di un freno119 . Di qui l’autore passa a indicare i vizi del sublime fornendone anche degli esempi, si tratta della gonfiezza, della puerilità che ne è quasi l’opposto; della freddezza e, di nuovo all’opposto, del falso entusiasmo. Dall’esposizione dei difetti letti come coppie di contrari emerge ancora un certo valore assegnato alla giusta misura; infine vengono definite le origini di questi eccessi Generalmente, pregi e difetti provengono dalla stessa radice: perciò, la bellezza dello stile, la sublimità, il piacere che vi si accom118 119 Anonimo, Il Sublime, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano 2009, p. 43. Anonimo, Il Sublime, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano 2009, p. 43. 87 2. Il mondo antico pagna determinano l’efficacia di un’opera, ma come sono l’origine e il fondamento del successo, così lo diventano del contrario120 . Con questo l’autore ribadisce il valore dell’insegnamento del sublime come arte, un insegnamento che, come abbiamo visto, sia a volte pungolo a volte freno. A questo punto lo Pseudo-Longino si chiede come si faccia dunque a separare il sublime da quanto non lo raggiunge appieno e da quanto lo ecceda; due sono i modi: nella contemporaneità esiste il persistere nella memoria del singolo e nella posterità il persistere nella, diremmo oggi, memoria collettiva. Grande è veramente solo quello che impone una lunga meditazione, al cui fascino è difficile se non impossibile sottrarsi e permane nella memoria vivo e incancellabile. Devi pensare che il sublime vero, e bello, è ciò che resta per sempre nel gusto di tutti121 . Una piccola nota da ricordare; qui il sublime viene accompagnato da due attributi: alethes e keikalon, vero e bello. A questo punto la trattazione entra nel vivo e vengono definite le cinque «fonti più autentiche del linguaggio sublime»; le prime due sono disposizioni innate, «la capacità di grandi concezioni» e la «passione violenta e ispirata», l’estasi per l’appunto; le altre tre si possono insegnare e acquisire con l’arte, la tecnica, e sono: una particolare costruzione delle figure (di parola e di pensiero), lo stile nobile che riguarda la scelta delle parole e l’uso dei tropi, e la disposizione delle parole che sia solenne ed elevata122 . La trattazione estesa delle cinque fonti che abbiamo detto lascia poi spazio a numerose valutazioni critiche di opere e passi letterari da cui, riassumendo, si evince una predilezione per Omero rispetto agli epici alessandrini, per Pindaro rispetto a Bacchilide, per Platone rispetto a Lisia, per Demostene rispetto a Cicerone che è anche l’autore più recente che sia citato nel trattato, inoltre è riconosciuto il valo120 Anonimo, Il Sublime, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano 2009, p. 51. Anonimo, Il Sublime, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano 2009, p. 53. 122 Anonimo, Il Sublime, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano 2009, p. 53. 121 88 2.4. Il Tardo antico re di Saffo123 ed è citato addirittura come esempio di sublime un passo della Genesi124 . Resta da aggiungere un’ultima cosa in riferimento alla discontinuità di tradizione: il manoscritto di quest’opera rimase a lungo dimenticato, fu poi pubblicato a stampa a Basilea da Robortello nel 1554; prima che il secolo si chiudesse uscirono altre due edizioni e anche una traduzione latina nel 1572. Una versione dell’opera, che come vedremo di traduzione proprio non si può parlare, in una lingua moderna dovette attendere più di un secolo quando nel 1674 uscì, ad opera di Nicolas Boileau il Traité du sublime et du merveilleux125 ; di questo autore però, di quanto dice in quest’opera e nell’Art Poetique, e in generale del pensiero della sua epoca sulla letteratua, avremo modo di vedere più avanti nel capitolo 4.3. 2.4 Il Tardo antico Il tardoantico è un periodo significativamente centrale per l’analisi del del Classico e del canone e quindi della civiltà cui si riferiscono dal momento che più di ogni altro periodo che abbiamo preso o prenderemo in considerazione presenta una vistosa frattura in termini, per l’appunto, di cultura e civiltà, Toynbee definisce infatti come periodo di interregno quello che va dal 375 al 675. Sebbene si faccia tradizionalmente riferimento all’anno 476, alla deposizione di Romolo Augustolo, la caduta dell’impero romano era iniziata da tempo, mentre l’indizio di quanto viene dopo era ancora lontano; nel 375 infatti gli unni distruggono il regno degli Ostrogoti in Russia meridionale e danno quindi inizio alle migrazioni di popoli, Pipino d’Heristal invece diventa maestro di palazzo di Austrasia solo nel 679. Michelangelo Cagiano de Azevedo definisce così il tardoantico: 123 Anonimo, Il Sublime, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano 2009, p. 65. Anonimo, Il Sublime, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano 2009, p. 59. Si tratta di Genesi I, 3-10 125 Nicolas Boileau, Traité du sublime et du merveilleux in Nicolas Boileau, Oevres complètes, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1966. 124 89 2. Il mondo antico Periodo, dunque, di cultura autonoma, che è rinserrato da un lato e da un tempo dalla civiltà romano-ellenistica; da molti altri lati e per lunghi periodi di osmosi dalle civiltà dei popoli dell’Europa centrale; da un lato e con una lunga continuità da quella civiltà bizantina, che solo in un secondo momento apparirà autonoma e indipendente, per assurgere, dall’epoca di Giustiniano, al ruolo di faro e di guida. Essa sopravviverà in Oriente, per un millennio, allo sparire di quel mondo politico amministrativo che la aveva generata, mentre in occidente la cultura si stringerà intorno al papato prima e all’imperatore franco poi, fino a che si costituirà una nuova koinè con gli Europeenses di Poitiers. Ma allora sarà il medioevo.126 . Il patrimonio di cultura che continua così in Oriente, l’oriente più prossimo dell’Occidente, per tutto il periodo che in Occidente è chiamato Medioevo, da una parte si ricongiungerà, all’inizio del Rinascimento all’Occidente, grazie agli studiosi bizantini esuli che saranno essi stessi un’importante fonte per la rinascita degli studi che farà di quel periodo un altro importante momento di passaggio per l’Europa; dall’altra parte passerà poi, con la caduta di Costantinopoli alla cultura slava di cui fa parte anche la cultura russa e si ricongiungerà poi, in parte, con l’Occidente solo con l’età contemporanea. Una volta definito questo periodo bisogna prendere in analisi l’idea di Classico che lo rappresenta; il tardo antico però è particolare proprio perché rispetto al periodo che lo precede e ancor più di quello che gli succede sembra non aver lasciato traccia. O le priorità dell’epoca erano completamente divergenti dalla ricerca di criteri di valore oppure, pur esistendo, non ne sono quasi rimaste prove, del resto anche molto altro, in riferimento allo stesso periodo, ha subito la stessa sorte. Come nel collo di una clessidra il tardo antico è un momento cruciale per il passaggio tra prima e dopo proprio in misura della forte cesura, della nascita di una civiltà figlia da diverse civiltà preesistenti e ugualmente generatrici: la civiltà greco-latina di cui abbiamo già detto, le ci126 Michelangelo Cagiano de Azevedo, L’eredità dell’antico nell’alto medioevo in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. IX Il passaggio dall’antichità al medioevo in Occidente, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1961, p. 450. 90 2.4. Il Tardo antico viltà barbariche che si sottraggono all’indagine vista la forma prevalentemente orale delle loro culture, e la civiltà ebraica, infine, che data la forma particolarissima del suo credo racchiude interamente le nozioni di biblioteca, canone e vertice della produzione letteraria nel Libro scritto per ispirazione divina a cui nulla è da aggiungere. La cesura rappresentata dal tardoantico però non è da intendersi come uno strappo a cui seguono tre secoli di completo disordine a cui solo un nuovo potere centrale può porre fine, al contrario si tratta di uno sfilacciamento minimo ma costante che produce i suoi effetti nel tempo e che solo l’occhio che si ponga ad una certa distanza riesce a cogliere; nel suo trascorrere il tardo-antico non era né tardo né antico era il semplice trascorrere del tempo con i suoi eventi più o meno inaspettati e significativi. Se pure mancava un pensiero consapevolmente espresso sull’argomento non mancava certo il giudizio di valore in sé; ovvero se pure nessuno definiva il bello o il Classico, un’idea sull’argomento era sicuramente presente e agiva sulle azioni degli uomini. Influiva ad esempio sulla pratica scolastica che da sempre è stata collegata al giudizio di valore espresso sull’opera letteraria; si tratta di una pratica scolastica che infatti continuò, seppur in modo discontinuo per tempi e luoghi, anche mentre il mondo antico si stava trasformando. Riché in riferimento alla fine del quinto secolo dice che Les institutions scolaires ont souffert des Invasions mais n’ont pas totalement disparu. Les écoles continuent à assurer un enseignement non seulement dans les grandes villes d’Italie, à Rome, Milan, Ravenne, mais en Afrique et Carthage ou dans des centres plus modestes de province. Dans ces écoles le programme d’études n’a pas changé. Ainsi les élèves et les amis d’Ennode de Pavie127 , qu’ils soient à Milan ou à Rome, lisent, relisent, commentent les auteurs classiques, les imitent en composant des exercixes oratoi127 Magno Felice Ennodio (474-521 d.C.) di origine gallica divenne nel 511 vescovo di Pavia, poligrafo attivissimo è interessante soprattutto per la combinazione di elementi pagani e cristiani nelle sue opere. 91 2. Il mondo antico res (dictiones). Nous retrouvons dans sa form et son fonds tous les traits de la rhétorique du Bas Empire128 . Del resto anche oggi i programmi scolastici sono gli ultimi a sentire il cambiamento ma comunque resta un segno forte di una tradizione che, pur arricchendosi, e contemporaneamente, di due nuove tradizioni culturali, continua e prosegue la cultura precedente. Riché prosegue indicando il genere e quindi lo scopo dell’insegnamento; è significativo ricordare che questa scuola manca ormai dei suoi vertici più alti, anche perché il ciclo completo degli studi romano prevedeva anche un livello di “perfezionamento” che si compieva normalmente altrove, in Grecia. La grande perdita di questo periodo è rappresentata dalla conoscenza del greco, e degli argomenti che ad esso si rifacevano; in primo luogo la filosofia. La culture que reçoivent les élèves est uniquement littéraire et oratoire, jamais scientifique, ni philosophique car la langue grecque n’est plus connue. L’éphémère «renaissance» de l’hellenisme en Italie se limite à Boece et à son cercle129 . Nonostante questa significativa scomparsa della lingua e della cultura greca lo scopo ultimo dell’insegnamento resta lo stesso, sebbene le motivazioni profonde inizino a virare, quasi seguendo i mutati sistemi di potere che si avvicendano in Occidente. 128 Pierre Richè, L’enseignement et la culture des laïcs dans l’occident pre-carolingien in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XIX La scuola nell’occidente latino dell’alto medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1971, p. 232. Le istituzioni scolastiche hanno sofferto delle invasioni ma non sono del tutto sparite. Le scuole continuano ad assicurare un insegnamento non solo nelle grandi città d’Italia, a Roma, Milano, Ravenna, ma in Africa e a Cartagine o nei centri più modesti di provincia. In queste scuole il programma di studi non è cambiato. Così gli studenti e gli amici di Ennodio di Pavia che siano a Milano o a Roma leggono, rileggono, commentano gli autori classici, li imitano componendo degli esercizi oratori (dictiones), ne ritroviamo nella forma e nella sostanza tutti i tratti della retorica del Basso Impero. 129 Pierre Richè, L’enseignement et la culture des laïcs dans l’occident pre-carolingien in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XIX La scuola nell’occidente latino dell’alto medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1971, p. 232. La cultura che ricevono gli allievi è unicamente letteraria e oratoria, mai scientifica né filosofica, perché la lingua greca non è più conosciuta. L’effimero «rinascimento» dell’ellenismo in Italia si limita a Boezio e al suo circolo. 92 2.4. Il Tardo antico Le but de l’enseignement reste le même: former un certain type d’homme digne de faire partie de la classe aristocratique. C’est une necessité d’autant plus ressentie que les Germains sont les maitres de l’Occident et que posséder une instruction classique est le plus sûr moyen de resister à leur influences130 . Sebbene lo scopo resti immutato il cambiamento degli orizzonti di attesa è significativo e a questo punto infatti Riché porta in campo una testimonianza significativa. Sidonio Apollinare apparteneva all’alta aristocrazia gallo-romana, dal 469 fu vescovo a Augustonemetum (Clermont-Ferrand), qui scrisse nove libri di lettere che tradiscono un impegno più patriottico che religioso. In una di queste lettere indirizzata al grammatico Giovanni dice che non esistono più metodi che permettano di distinguere le classi sociali secondo la loro importanza e che «le seul signe de la noblesse sera désormais la conaissance des lettres131 » la scuola antica aveva come unico scopo, unico utile, di fornire funzionari allo stato, che erano sì appartenenti ad una data classe sociale ma, beninteso, i segni della dignità di appartenenza erano altri, tanto più che l’istruzione era, letteralmente, acquistabile anche dai ceti degli arricchiti, perfino dai liberti. Riché continua portando altri esempi, altri sintomi di questo cambiamento in atto; Teodorico che, su consiglio di Cassiodoro, mantenne il trattamento economico degli insegnanti di Roma, Giustiniano che, con la Prammatica Sanzione del 551 restaura le scuole di grammatica, retorica, medicina e diritto «afin que fleurissent dans l’Etat les jeunes gens instruits des Arts libéraux», e infine 130 Pierre Richè, L’enseignement et la culture des laïcs dans l’occident pre-carolingien in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XIX La scuola nell’occidente latino dell’alto medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1971, p. 232. Il fine dell’insegnamento resta lo stesso: formare un certo tipo d’uomo degno di far parte della classe aristocratica. È una necessità d’altronde tanto più sentita dal momento che i Germani sono i maestri dell’Occidente e che possedere un’istruzione classica è il mezzo più sicuro per resistere alla loro influenza. 131 Lettre au grammairien Johannes, v. 478, Ep. VIII,2 in Pierre Richè, L’enseignement et la culture des laïcs dans l’occident pre-carolingien in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XIX La scuola nell’occidente latino dell’alto medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1971, p. 233. 93 2. Il mondo antico Le jeune Grégoire, le futur pape, eunt une instruction suffisante pour être jusque vers la trentaine un des hauts fonctionnaires de Rome. il fut d’ailleurs l’un des derniers à bénéficier de l’école du grammairien et du rhéteur comme en témoignent ses contemporains mais surtout toute son oeuvre littéraire. Mais Grégoire fut le témoin de la fin de la grandeur romaine et de ce qui en faisat la gloire.132 La scuola antica si disperde; non esiste, ovviamente, una data di morte precisa, come è per tutti i grandi cambiamenti storici, sebbene la prassi scolastica della periodizzazione cerchi sempre delle date che siano significative, o più significative di altre. Resta da chiedersi perché muoia una tradizione tanto antica. Muore, come già aveva avuto modo di notare Cassiodoro, a causa dell’esodo delle classi senatoriali che abbandonano le città e lasciano quindi le scuole cittadine, per così dire, senza la materia prima. In primo luogo mancavano infatti gli allievi perché ci fosse una sopravvivenza della scuola; d’altra parte le persone istruite, le classi aristocratiche istruite, sembrano, a Cassiodoro, non portare con sé la tradizione scolastica nei nuovi luoghi di residenza, come ricorda Riché, però L’école antique liée étroitement à la civilisation urbaine n’avait plus sa place dans une société de plus un plus rurale. Ceci ne veut pas dire que, là où l’école a disparu, la culture classique n’ait pas pu se maintenir133 . 132 Pierre Richè, L’enseignement et la culture des laïcs dans l’occident pre-carolingien in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XIX La scuola nell’occidente latino dell’alto medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1971, p. 233. Il giovane Gregorio, futuro papa, ebbe un’istruzione sufficiente per essere a trent’anni uno degli alti funzionari di Roma. Egli fu d’altronde uno degli ultimi a beneficiare della scuola dei grammatici e dei retori come testimoniano i contemporanei ma soprattutto tutta la sua opera letteraria. Ma Gregorio fu il testimone della fine della grandezza romana e di ciò che ne faceva la gloria. 133 Pierre Richè, L’enseignement et la culture des laïcs dans l’occident pre-carolingien in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XIX La scuola nell’occidente latino dell’alto medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1971, p. 234. La scuola antica, legata strettamente alla civilizzazione urbana non aveva più il suo posto in una società sempre più rurale. Questo non vuol dire che là dove la scuola è sparita la cultura classica non abbia potuto mantenersi. 94 2.4. Il Tardo antico Il saggio di Riché prende quindi ad esempio i territori francesi e spagnoli dove trova tracce significative di questa permanenza di interesse e di studio della cultura classica; l’insegnamento uscito dalle disgregate istituzioni scolastiche antiche trova nuovi luoghi e nuovi modi per sopravvivere. Gli aristocratici che avevano ricevuto un’educazione classica riconoscono i meriti di questa e si prodigano affinché la stessa opportunità sia data, in qualche modo, anche ai loro figli. nous sanons qu’ici et là les aristicrates laïcs ont continué à faire donner à leurs enfants une instruction classique. Les descendants des illustres familles sénatoriales, les Syagrii, les Apollinaires, les Aviti, les Sulpices, les Léonces restent fidèles, jusqu’au milieu du vii siècle, au sermo scholasticus134 . Questa fedeltà è attestata in diverse aree; in Provenza, in Burgundia, in Aquitania, in Gallia, in Neustria, in Austrasia e in Spagna dove la tradizione della cultura aristocratica si mantiene ancora più a lungo. Si tratta comunque di una tradizione che si sta sfaldando e che via via perde in profondità e ricchezza ma si tratta comunque di una tradizione che si può definire ininterrotta, di padre in figlio; questa tradizione poggia le sue fondamenta sul persistere dei testi conservati nelle biblioteche private, di famiglia. Les contemporains laïcs d’Isidore de Sèville et de Braulio de Saragosse ont non seulement des bibliothèques mais gardent le goût de la lecture. Certes le contenu de la culture laïque tel que mous pouvons l’entrevoir est assez pauvre, mais si mèdiocre que soit cette culture elle garde les caractères et les dèfault qu’elle avait au v siècle : art du discours, préciosité, érudition135 . 134 Pierre Richè, L’enseignement et la culture des laïcs dans l’occident pre-carolingien in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XIX La scuola nell’occidente latino dell’alto medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1971, p. 234. Sappiamo che qui e là gli aristocratici laici hanno continuato a far dare ai loro figli un’istruzione classica. I discendenti delle illustri famiglie senatoriali, [...] restano fedeli fino a metà del settimo secolo al sermo scholasticus. 135 Pierre Richè, L’enseignement et la culture des laïcs dans l’occident pre-carolingien in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XIX La scuola nell’occidente 95 2. Il mondo antico Paradossalmente l’insegnamento della cultura classica era così stabile che si iniziava a lamentare invece la carenza, in proporzione, della formazione culturale religiosa; Cassiodoro ad esempio pense autant aux laïcs qu’aux clercs lorsqu’il projette l’établissement d’une école de sciences religieuses à Rome en 535. Attristé de voir que les divines Ecritures n’étaient pas enseignées publiquement alors que les auteurs profanes faisaient l’objet de cours, il souhaite qu’une école chrétienne soit créée «afin que les fidèles s’assurrent du salut eternel en même temps qu’ils acquièrent un langage correct et pur»136 . Diverse sono le vicende dell’insegnamento in quelle aree dell’Occidente, come le isole britanniche, dove la scuola antica di matrice romana non aveva preso piede. Si tratta di quei luoghi dove ancora durante tutto il periodo della grandezza romana l’istruzione aveva mantenuto le modalità precedenti all’arrivo del potere romano. In queste aree l’educazione dei fanciulli poteva prender fondamentalmente tre strade; c’era il fosterage per cui i fanciulli sono presi in carica da una sorta di padre adottivo, un tutore retribuito, oppure i fanciulli potevano essere affidati ai filids, poeti organizzati in federazioni, infine potevano essere affidati ai druidi e alle loro celebri scuole. Los que le christianisme pénètre la société celtique les aristocrates voient dans le moines les éducateurs les plus aptes à élever latino dell’alto medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1971, pp. 234-235. I contemporanei di Isidoro di Siviglia e di Braulio di Saragozza hanno non solamente delle biblioteche ma conservano il gusto della lettura. Certamente il contenuto della cultura laica, come noi possiamo intravedere, è abbastanza povero, ma benché così mediocre sia questa cultura, essa conserva i caratteri e i difetti che aveva nel quinto secolo: arte del discorso, preziosità, erudizione. 136 Pierre Richè, L’enseignement et la culture des laïcs dans l’occident pre-carolingien in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XIX La scuola nell’occidente latino dell’alto medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1971, p. 236. [Cassiodoro] pensa tanto ai laici che ai chierici quando progetta la fondazione di una scuola delle scienze religiose a Roma nel 535. Rattristato nel vedere che le Sacre Scritture non erano insegnate pubblicamente mentre gli autori profani erano oggetto dei corsi egli si augura che una scuola cristiana sia creata «affinché i fedeli si assicurino eterna salvezza mentre acquisiscono un linguaggio corretto e puro». 96 2.4. Il Tardo antico leurs enfants. L’école du moines va succéder tout naturellement à l’école du druid ou du filid [...] ils sont instruits des Ecritures saintes comme on l’était autrefois des épopées celtiques137 . Questa tradizione di educazione fornita dai sacerdoti, prima celtici e poi cristiani è normale in Inghilterra e le scuole dei monaci si occupano sia dell’educazione del clero che dei laici. Questi ultimi stipulano dei veri e propri contratti in cui definiscono per quanto tempo l’allievo, il proprio figlio o protetto, resterà nel monastero, e quindi l’età in cui sarà libero di lasciare gli studi per tornare presso la famiglia d’origine, cosicché i monaci non possano sporgere rivendicazioni di sorta per la permanenza successiva dei loro allievi e la monacazione, in funzione degli sforzi profusi per la loro educazione. Successivamente i monaci riattraversarono la manica e arrivati sul continente fondarono nuovi monasteri e continuarono la propria tradizione educativa. On aurait pu s’attendre à ce que ce système d’éducation pénétrât sur le continent avec l’arrivée des moines celtes. En fait les moines colombaniens trouvaient en Gaule une situation différente, puisque les aristocrates restaient attachés au système traditionnel de lìéducation dans les families. La plupart des jeunes gens admis dans les monastères l’ont été comme oblats ou novices138 . Ciò nonostante alcuni laici iniziarono a mandare i propri figli presso questi monasteri per ricevere una degna educazione religiosa e letteraria anche perché 137 Pierre Richè, L’enseignement et la culture des laïcs dans l’occident pre-carolingien in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XIX La scuola nell’occidente latino dell’alto medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1971, p. 239. Quando il cristianesimo penetra la società celtica gli aristocratici vedono nei monaci gli educatori più adatti a crescere i loro bambini. La scuola del monaco va a seguire del tutto naturalmente alla scuola del druido o del filid. [...] Infatti essi sono istruiti alle Sacre Scritture come lo erano in passato alle epopee celtiche. 138 Pierre Richè, L’enseignement et la culture des laïcs dans l’occident pre-carolingien in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XIX La scuola nell’occidente latino dell’alto medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1971, p. 241. Ci si sarebbe potuto attendere che il sistema di educazione penetrasse sul continente con l’arrivo deii monaci celti. Infatti i monaci colombani trovarono in Gallia una situazione differente perché gli aristocratici restavano attaccati al sistema tradizionale dell’educazione nelle famiglie. La maggior parte dei giovani ammessi nei monasteri lo sono stati come oblati o novizi. 97 2. Il mondo antico i monasteri già presenti sul territorio tardarono ad aprire le proprie porte ai laici. Pourtant l’influences colombanienne sur la culture religieuse des laïcs est indéniable [...] par suite la spiritualité colombanienne gagna le cour139 . Dalla seconda metà del settimo secolo, in tutte le corti continentali, a partire dalla corte franca, inizia a farsi strada l’abitudine di chiamare presso il palazzo degli uomini istruiti, spesso quindi monaci, perché provvedessero all’istruzione dei principi, finchè, nell’ottavo secolo, assistiamo al rovesciamento di questa tradizione quando il futuro Pipino iii venne mandato nel monastero di Saint Denis per ricevere un’educazione religiosa e morale. In questo momento in cui la scuola inizia a trovare un nuovo luogo d’elezione si inizia nuovamente a pensare ad un programma di studi unitario. Dans une lettre adressée à un des fils de Dagobert, un évêque inconnu précise un programme d’instruction. Le prince doit relire les Ecritures afin d’apprendre les raisons d’agir daes anciens rois, ces rois qui ont été attentifs aux avertissements des prophètes140 . Il cambiamento fondamentale che divide la scuola medioevale da quella antica è ormai avvenuto, le condizioni dell’istruzione dei laici, e dei monaci, sono ormai fissate e l’insegnamento resterà uguale a se stesso per secoli; il declino di una cultura che sia fondamentalmente laica è ormai evidente e sebbene resti in vita presso alcune corti illuminate, grazie alle biblioteche lì depositate, dovrà aspettare almeno il tredicesimo secolo per rifiorire. 139 Pierre Richè, L’enseignement et la culture des laïcs dans l’occident pre-carolingien in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XIX La scuola nell’occidente latino dell’alto medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1971, p. 241. Pertanto l’influenza colombana sulla cultura religiosa dei laici è innegabile [...] quindi in seguito la spiritualità colombana conquistò la corte. 140 Pierre Richè, L’enseignement et la culture des laïcs dans l’occident pre-carolingien in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XIX La scuola nell’occidente latino dell’alto medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1971, p. 242. In una lettera indirizzata ad uno dei figli di Dagoberto, un vescovo sconosciuto precisa un programma d’istruzione. Il prinicpe deve rileggere le Scritture al fine di imparare le ragioni d’agire degli antichi re che sono stati attenti agli avvertimenti dei profeti. 98 2.4. Il Tardo antico Detto questo non resta che prendere in analisi i grammatici tardo-romani sul cui lavoro si basava l’insegnamento di cui abbiamo già detto i modi e i tempi per il tardo antico e di cui diremo in riferimento all’inizio del Medioevo. Di fondamentale importanza resta in questo periodo, e lo sarà ancora per secoli, il lavoro di Quintiliano a cui si affiancano i lavori di molti grammatici attivi nel III e soprattutto nel IV secolo; tra questi i più importanti sono Diomede, Macrobio, Marziano Capella e Elio Donato seguiti poi nel secolo successivo da Prisciano. Diomede141 ricalca i sentieri segnati dalla tradizione; individua lo scopo della poesia nel giovare e dilettare, restando quindi nel solco della tradizione romana; segue poi Quintiliano per quanto riguarda la suddivisione della grammatica in Metodica e Istorica, aggiungendo una terza parte: la Metrica. Per quanto riguarda la divisione dei generi letterari sembra seguire Lucilio, assegna il nome di poesis ad opere di vasto respiro e poema a composizioni più brevi; più importante risulta poi la suddivisione dei poematos genera che avrà grande fortuna nel Medioevo. Diomede individua tre grandi generi in base alla partecipazione diretta al discorso da parte dell’autore, ricalcando in questo un’abitudine di lunga tradizione che affonda le sue radici nello stesso Platone. Il primo genere riguarda le opere in cui l’autore non interviene direttamente, il genus activum vel imitativum; ed è suddiviso a sua volta in quattro sottospecie: tragica, comica, satyrica, mimica. Il secondo genere riguarda le opere in cui parla solo la voce del poeta, il genus enarrativum, exegeticon vel apangelticon; ed è suddiviso in tre sottospecie: angeltice, historice, didascalice. Il terzo genere, genus commune, koinon vel mikton, è misto, conosce sia gli interventi diretti dell’autore che dei personaggi, il ed è suddiviso in due sole sottospecie: heroica species e lyrica species. Macrobio142 è di fondamentale importanza se si desidera prendere in analisi il canone del periodo; appare infatti molto esigente, solo quattro autori, tra letteratura greca e latina, sono considerati sommamente degni: Omero, Platone, Cicerone e Virgilio. Omero è divinarium omnium inventionum fons et origo [fon141 142 Diomede Grammatico, Ars Grammatica in H. Kell, Grammatici latini, Leipzig 1855-1880. Macrobius, Commentarii in somnium scipionis, a cura di J.H. Willis, Stuttgart 1963. 99 2. Il mondo antico te e sorgente di tutte le invenzioni divine], Platone ipsius veritatis arcanum [segreto rifugio della verità stessa], Cicerone nullius sectae inscius veteribus approbatae [conoscitore di tutte le scuole ammesse dagli antichi], Virgilio disciplinarum omnium peritissimus [sommamente esperto di ogni scienza] ed erroris ignarus [ignaro di errore]143 . La vicinanza tra il giudizio di Macrobio e quello che sarà il giudizio del Medioevo non è forse casuale; Curtius lo espone magnificamente nell’excursus dedicato alla scienza letteraria nella tarda antichità. L’idea che egli si è fatto di Virgilio presenta una straordinaria affinità strutturale con la concezione medievale della poesia. Egli non si sente più partecipe di una letteratura ancora viva, ma conservatore e interprete di una tradizione ormai conclusa. I classici sono per lui «gli antichi». Il loro canone è ridotto a pochi nomi: Omero, Platone, Cicerone e Virgilio. Questa limitazione è il risultato d’un mutato atteggiamento spirituale nei confronti della letteratura. nel canone sono riuniti solo gli autori che possono essere considerati delle autorità religiose, filosofiche o scientifiche. Di conseguenza le opere degli autori canonizzati vengono lette e spiegate per il loro contenuto dottrinario e così l’allegoria diventa il metodo determinante per l’interpretazione. Tutti questi segni di una mutata spiritualità e della concezione della letteratura ad essa conseguente li ritroviamo ancora in Dante in tutta la loro efficacia. Solo una cosa è mutata: in Dante, Virgilio è stato introdotto nella concezione cristiana del mondo, mentre in Macrobio egli è l’autorità sacra per la pietas della tarda classicità pagana144 . Marziano Capella scrisse invece un’opera di grammatica travestita da abiti romanzeschi: De nuptiis Philologiae et Mercurii145 , proprio per questo fu mol143 Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006, p. 494. 144 Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006, p. 495. 145 Martianus Capella, De nuptiis Philologiae et Mercurii, Liviana, Padova 1975. 100 2.4. Il Tardo antico to amata poi nel Medioevo giacchè ne rispettava gli interessi e le priorità. L’interesse medievale non era rivolto solo all’argomento o alla veste romanzata ma anche all’impianto allegorico che prometteva di essere un serbatoio inesauribile di forme e idee. Elio Donato ci è noto attraverso l’Ars grammatica146 , un’opera di impianto tradizionale divisa in due parti, ma anche grazie a due commenti che ebbero grande fortuna nel Medioevo così come gli autori di cui trattano: Terenzio e Virgilio. Lo studio di Elio Donato (ars minor e ars maior) già maestro a Roma del giovane Girolamo, divenne poi propedeutico all’opera di Prisciano di cui si studiava l’Institutio grammatica. Prisciano è forse il più importante tra questi grammatici per gli importanti esiti che la sua opere ebbe poi nel Medioevo. Il luogo in cui portò avanti la sua attività di maestro, Bisanzio, gli permise infatti di attuare un iniziale recupero della teoria retorica greca che fu così traghettata fino al Medioevo. Alla consueta tradizione grammatica romana, informata ormai completamente dal cristianesimo, ricongiunse le radici mitologiche pagane che divennero una delle forme che il discorso poteva assumere. Nel De laude imperatoris Anastasii147 , ritroviamo un folto spoglio di topoi classici per l’epidittica, questo fu molto importante per i secoli successivi, come ricorda Curtius. Che Prisciano potesse raccomandare un simile esercizio poteva accadere, intorno al 500, solo nell’ambito della cultura Bizantina. Come uomini e cittadini si è cristiani; come retori, pagani: la possibilità di questa coesistenza pacifica fu offerta al Medio Evo proprio da Prisciano148 . Prisciano non è, ovviamente l’unico, a consentire questa via; l’apporto fondamentale in ambito dottrinale è stato sicuramente portato avanti da due padri della chiesa, Agostino e soprattutto Girolamo, che fornirono l’impianto teologico su cui l’accettazione e la ripresa dell’antico poteva più stabilmente basarsi. 146 Aelius Donatus, Ars grammatica, H. Holtz, Paris 1981. Priscianus, De laude imperatoris Anastasii,Vindobonae 1828. 148 Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006, p. 493. 147 101 2. Il mondo antico Girolamo si trovò nel centro della diatriba letteraria che opponeva cristiani e pagani a cagione della Vulgata, la traduzione della Bibbia che egli intraprese dall’originale; raccomanda la lettura della letteratura pagana, in questo già preceduto da altri nomi illustri quali Origene, Basilio, Lattanzio e Ambrogio. Per Girolamo la Bibbia rappresenta da sola un intero corpus letterario e culturale, non inferiore alla tradizione pagana. Questa opinione, espressa nelle introduzioni al testo, riconosce ai Salmi lo stesso valore poetico che la tradizione assegnava ai più grandi poeti pagani, nel paragone emergono i loro nomi e quindi l’idea di canone pagano che aveva Girolamo. David Simonides noster, Pindarus, et Alcaeus, Flaccus quoque, Catullus atque Serenus149 A questi nomi è possibile aggiungere Giovenco lodato nella lettera LVII e Cicerone che l’impianto stesso della lettera rievoca, così come Svetonio, ripreso nell’impianto nella storia della letteratura cristiana150 . Girolamo però era anche stato affascinato dalla cultura pagana, soprattutto in età giovanile tanto che il senso di colpa per questa passione non lo abbandonava neppure nel sonno; lui stesso racconta in una lettera di come in sogno gli fosse stato chiesto se fosse cristiano e la sua risposta, affermativa, fosse stata sbugiardata. Mentiris, ait, ciceroniamus es, non christianus. Ubi enim fuerit thesaurus tuus, illic erit et cor tuum151 . Terremo un momento da parte questo aneddoto perchè ritornerà più avanti come archetipo di un topos molto diffuso nel Medioevo come vedremo nel capitolo 3.3. Girolamo tornò spesso sulle lusighe della letteratura pagana usando spesso l’immagine delle Sirene che pure era già stato usato da Ambrogio. All’inizio della storia del simbolismo cristiano le Sirene rappresentano la sapienza pagana nei cui confronti il fedele deve sapersi cautelare [...] Gerolamo, che è il Padre latino che più sovente fa 149 Epistula ad paulinim 53, par. 8. si veda Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006, p. 498. 151 Epistulae XX ad Eustochium, 30 150 102 2.4. Il Tardo antico riferimento alle Sirene omeriche [...] anche se nell’uso di questo mito egli è di poco preceduto dal vescovo di Milano152 . Il mondo antico aveva ormai trasmesso le redini della cultura ad un nuovo mondo che ne riconosceva, in mezzo a tutte le differenze, la fondamentale tradizione. Di questo nuovo mondo, il Medioevo, passeremo ora a prendere in analisi le caratteristiche fondamentali di analisi dell’eccellenza letteraria. 152 Nicola Pace, Il canto delle Sirene in Ambrogio, Gerolamo e altri Padri della Chiesa, in Nec timeo mori, Atti del Congresso internazionale di studi ambrosiani nel XVI centenario della morte di sant’Ambrogio, Milano, 4-11 aprile 1997, Milano 1998, pp. 673-674. 103 Capitolo 3 Il Medioevo 3.1 Letteratura europea e Medio Evo Medio Evo, vale a dire età di mezzo, è un termine che è attestato in latino già nel 1604 e in francese nel 16401 . Oggi continuiamo ad usare questa definizione per un periodo di tempo non sempre ben delimitato che agli uomini del rinascimento pareva vuoto, senza una connotazione in proprio e in positivo. Era visto come l’epoca delle assenze, mancavano apparentemente tutte le caratteristiche che i nuovi uomini riconoscevano a se stessi oltre che all’antichità greca e romana che tanto amavano ed ammiravano. Il termine è rimasto, ed è esso stesso un’importante prova storica, l’idea invece non gode quasi più di alcuna considerazione. Non mi impegnerò a provare questo, altri già l’hanno fatto, molti altri; in questo capitolo mi limiterò a riproporre le loro considerazioni, perché il nostro discorso risulti continuo, così come lo è la tradizione di cui intendiamo occuparci. Perché letteratura europea? Due testi sono a mio parere fondamentali per la comprensione di questo periodo storico, per non commettere alcun torto il nostro capitolo è, come dire, il massimo comun denominatore di questi. Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius2 e il più recente Letteratura europea e medioevo volgare di Piero Boitani3 sono le bussole e testi 1 Jean Delumeau, Che cos’è il Rinascimento? in Il rinascimento italiano e l’Europa. Vol.1 Storia e storiografia, Angelo Colla Editore, Vicenza 2005, p. 39. 2 Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006. 3 Piero Boitani, Letteratura europea e Medioevo volgare, Il Mulino, Bologna 2007. 105 3. Il Medioevo principali a cui si fa riferimento. Il Medioevo, più di ogni altro periodo storico, anche più del periodo imperiale in cui il bilinguismo latino-greco prese piede, ha due centri, due fulcri per così dire che calamitano l’interesse dei letterati: latino e volgare. Detto questo si tratta di controllare la validità del nostro assunto e cioè se la civiltà antica e la civiltà medievale non siano sufficientemente distanti per vantare culture completamente distinte. 3.2 La rinascita carolingia degli studi Abbiamo visto come il Medioevo pensava se stesso in riferimento alla ricerca dell’eccellenza, vediamo ora come la tradizione-trasmissione dei testi influenzi la nostra ricezione del periodo. Partiamo dalle indagini di codicologia quantitativa: l’ipotesi di partenza è che esista una corrispondenza diretta tra l’importanza della produzione e la quantità dei libri conservati ai nostri giorni, così anche Munk Olsen. La fonte più ineccepibile è certamente costituita dai codici che ci sono pervenuti, spesso purtroppo mutili o sotto forma di frammenti. In primo luogo essi danno un’idea della diffusione dei testi nei diversi secoli, a patto che si tenga conto del fatto che le copie più antiche rischiano maggiormente d’essere andate distrutte e che i testi più lunghi sono spesso rappresentati da frammenti superstiti. La copia di un libro era un’impresa lenta e costosa che attesta un grand’interesse al possesso di un’opera. Ma se il testo era già molto diffuso nel periodo precedente, si poteva naturalmente trarre profitto degli esemplari ereditati e il bisogno di trascriverlo era meno urgente, presentandosi soprattutto quando occorreva completare una biblioteca meno ricca o fondarne una nuova4 . Alla caduta dell’impero romano la grande messe di testi che l’antichità aveva prodotto andò in gran parte perduta letteralmente sotto il fuoco nemico, come ricorda Bischoff. 4 Birger Munk Olsen, I classici nel canone scolastico altomedievale, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1991, p. 10. 106 3.2. La rinascita carolingia degli studi Le grandi perdite delle raccolte di libri antichi e cristiani risalgono già alla fine dell’evo antico, al tempo che precede il solido stabilimento degli ultimi regni germanici. In ogni caso c’era la necessità per una eventuale conservazione dei libri di trovare rifugio in un ambiente ecclesiastico, in primo luogo nelle città vescovili5 . In un periodo di tanta e tale instabilità politica l’interesse a preservare la cultura antica cadde sotto il peso della sopravvivenza; quando poi fu nuovamente possibile occuparsi della trasmissione del sapere, le prime opere che vennero salvate dall’oblio grazie alla loro riproduzione furono essenzialmente le opere dei primi cristiani. Insieme a queste c’erano anche alcune opere precedenti riassorbite dal nuovo sentire, e poco altro che per tradizione serviva esclusivamente all’istruzione alla lingua latina, necessaria per leggere i testi in diversa misura edificanti. Questa scelta non fu motivata soltanto dalla religione dominante, ma dal fatto che gli artefici di questo mantenimento furono principalmente gli ordini monastici e le chiese cattedrali. Inizialmente l’operazione di trasmissione e poi di copia fu portata avanti per mantenere possibile l’istruzione dei propri membri e l’assolvimento delle loro funzioni, in seguito gli scriptoria monastici divennero l’unico luogo di riproduzione di qualsiasi tipo di testo. Col tempo i luoghi di trasmissione aumentarono, mantenendo però il legame con il potere religioso, e si iniziarono a costituire nuovi scriptoria anche nelle chiese capitolari e cattedrali; l’innovazione però arrivò dai monasteri che pure per molto tempo legarono l’uso e l’istituzione delle biblioteche a motivi puramente d’uso. Queste antichissime biblioteche di cattedrali sono biblioteche di uso ecclesiastico, e i classici non hanno in esse una parte importante, anche se singoli codici di opere antiche vi ci trovano6 . 5 Bernhard Bischoff, Biblioteche, scuole e letteratura nelle città dell’alto medio evo in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. VI, La città nell’alto Medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1958, p. 611. 6 Bernhard Bischoff, Biblioteche, scuole e letteratura nelle città dell’alto medio evo in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. VI, La città nell’alto Medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1958, p. 613. 107 3. Il Medioevo Furono senz’altro i i monaci di Colombano e in generale i monaci d’oltremanica a dare nuovo impulso alla trasmissione delle opere antiche dopo che per un lungo periodo avevano convogliato oltremanica testi raccolti in tutta Europa. Già nella seconda metà del settimo secolo comincia un grande spostamento del patrimonio librario continentale. Allora il dotto missionario romano, Teodoro di Tarso, portò una serie rilevante di manoscritti a Canterbury, e in seguito vescovi e abati anglosassoni si procurarono nel corso dei loro viaggi a Roma libri in gran numero per le loro sedi vescovili e i loro monasteri7 . La volontà di trasmissione di cui abbiamo detto si trasferirà, probabilmente grazie soprattutto ad Alcuino di York, già direttore della scuola di York e poi consigliere alla corte di Carlo Magno, ad Aquisgrana dove lui stesso nel 782 fondò la Schola Palatina che tra l’altro impose all’Europa una nuova grafia, la minuscola carolina che, grazie alla sua semplicità di esecuzione e alla sua leggibilità, cercata attraverso diversi artifici (nette divisioni tra parole e pochi legature tra lettere della stessa parola, salvo la pausa tra XII e XIV secolo dovuto all’avvento della scrittura gotica elaborata più tardi in ambienti universitari) ha predominato nel mondo occidentale fino ad oggi. È uno dei maggior meriti della riforma carolingia l’aver nuovamente conquistato all’occidente un comune fondamento di cultura, dopo che nei secoli precedenti il volume e la composizione dell’eredità culturale si era sviluppata assai diversamente. Nello stesso modo della cerchia internazionale di dotti che Carlomagno aveva chiamato alla sua corte, la sua biblioteca, in cui erano affluiti libri dalle diverse parti dell’Impero, era espressione di questa osmosi8 . Proprio la marginalità geografica degli anglosassoni permise loro di sviluppare un autentico bilinguismo con il latino che dovevano infatti necessariamente 7 Bernhard Bischoff, Biblioteche, scuole e letteratura nelle città dell’alto medio evo in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. VI, La città nell’alto Medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1958, p. 613. 8 Bernhard Bischoff, Biblioteche, scuole e letteratura nelle città dell’alto medio evo in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. VI, La città nell’alto Medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1958, p. 615. 108 3.2. La rinascita carolingia degli studi studiare come lingua altra; una volta arrivati sul continente furono in grado di vedere come il latino continentale si stava trasformando in nuove lingue che del latino sempre più conservavano solo la grafia. È significativo a questo proposito ricordare il caso occorso al monaco anglosassone Wynfreth in occasione del suo secondo incontro con il papa Gregorio ii nel 722. Sebbene Wynfreth avesse già incontrato il papa nel 719 e avesse già avuto modo di conversare con lui, nel suo secondo incontro, dovendo essere giudicato in merito alla sua fede, chiese ed ottenne di svolgere il suo esame in forma scritta. L’episodio è riportato da due delle vitae del santo; la più antica è quella di Willibald che pur non conosceva il santo direttamente ma scrisse la vita prima del 768 basandosi sulle informazioni raccolte dai compagni del santo. L’intero episodio è ripetuto poi in quella di Otloh, dell’undicesimo secolo, che alla prima in parte si riferisce. Altre quattro vitae, intermedie tra le due principali e già incluse nell’edizione che ne fece Levison, pur menzionando l’esame non riportano il dettaglio. L’intero episodio risulta comunque credibile dal momento che piuttosto che esaltare la figura del santo sembra invece rischiare il contrario9 . Wynfreth ricevette una lettera dal papa in cui si richiedeva un incontro, partì dunque per Roma e arrivato a destinazione fu ricevuto dal papa. Adveniente itaque oportuno conlocutionis eorum die et ad basilicam beati Petri apostoli adventante glorioso sedis apostolici pontifici confestim hic Dei famulus invitatus est. Et cum paucis ad invicem ac pacificis se salutassent verbis, iam de simbulo et fidei ecclesiasticae traditione apostolicus illum pontefix inquisivit. Cui mox hic viri Dei humiliter respondit, dicens: ’Domine apostolice, novi me imperitum, iam peregrinus, vestrae familiaritatis sermone; sed queso, ut otium mihi, tempus conscribendae fidei concedas, et muta tantum littera meam rationabiliter fidem adaperiat’. qui etiam protinus consentit et, ut festine hanc scripturam deferret, imperavit. Cumque, aliquanto temporis evoluto spatio, sanctae 9 Wilhelm Levison, Vitae Sancti Bonifatti, Hahn, Hanover-Leipzig 1905. 109 3. Il Medioevo trinitas fidem urbana eloquentiae scientie conscriptam detulisset, reddititque praefato pontifici (28,6-22); “Dunque quando si presentò un giorno conveniente al loro colloquio, questo servo di Dio fu subito invitato alla Chiesa apostolica di San Pietro, gloriosa sede del Papa. Si salutarono con qualche parola amichevole, poi il Papa cominciò a fargli domande sulle credenze e le tradizioni di fede della Chiesa. Ma Bonifazio rispose umilmente così: ’Domine apostolice, capisco che, essendo straniero, non sono pratico della Sua abituale lingua colloquiale, e chiedo che Lei mi dia il tempo e l’occasione di esporre più meditatamente la mia fede in silenziosa forma scritta’. Il Papa accolse la richiesta e gli disse di tornare entro breve tempo col testo scritto. Un poco più tardi egli portò la sua spiegazione della fede nella santa Trinità, scritta in stile raffinato, e la consegnò al Papa”10 . Wynfreth supera dunque l’esame del papa, che lo ribattezza Bonifazio, e parte col nuovo nome per poi passare trent’anni ad estendere la diffusione del cristianesimo alle terre tedesche. Wright continua ricordando che i due riuscivano normalmente a comprendersi pur parlando diversamente, come del resto avevano già fatto in precedenza e faranno poi subito dopo la consegna dell’esame scritto, ma che l’importanza della domanda era tale da non rischiare l’incomprensione neppure per delle sottigliezze. Questo episodio avvalora le ipotesi della linguistica storica romanza che dice che il mondo della parlata nativa romanza della prima parte dell’ottavo secolo, che non comprendeva però la Britannia, era ancora sostanzialmente una comunità monolingue che aveva la fortuna di condividere la forma scritta della lingua mentre la forma parlata andava sempre più differenziandosi, sebbene come ricorda Wright Per il parlante romanzo nativo la forma scritta della parole era semplicemente la forma scritta di parole parlate, ed essi pronuncia10 Roger Wright, Latino e Romanzo: Bonifazio e il Papa Gregorio II in La preistoria dell’italiano, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 2000, p. 220. 110 3.2. La rinascita carolingia degli studi vano le parole nello stesso modo, tanto leggendo quanto parlando spontaneamente, come è normale in tutte le lingue11 . Al contrario Wynfreth che era nato nel 675 vicino Exeter ed era un parlante nativo anglosassone, non aveva motivo di pronunciare il suo latino diversamente da come era scritto. Era un linguista competente e il suo latino parlato appariva forse un po’ datato ma era comunque ancora perfettamente comprensibile nella forma dai nativi romanzi che erano abituati a sentirlo nei testi liturgici, la consapevolezza della distanza che si era creata era presente a lui come non lo era ai suoi interlocutori continentali e come non lo era stata comunque neppure per lui finché i rapporti furono solo epistolari e quindi scritti. Abbiamo qui, avant la lettre, un presagio della posteriore distinzione fra latino medievale da una parte e romanzo dall’altra. Naturalmente a quel tempo non si pensava ancora in questi termini, ma nel secolo successivo la dicotomia si sarebbe affermata: il versante che è oggi chiamato ’latino medievale’ si sarebbe fondato sulla perizia degli Anglosassoni e dei Tedeschi, e la latinità di questi germanofoni sarebbe stata sostanzialmente plasmata sulla tradizione linguistica istituita dallo stesso Bonifazio nel corso dei trent’anni che seguirono quest’incontro; l’altro versante sarebbe stato la normale parlata del mondo romanzo. Ed è perfino possibile che uno dei semi delle riforme carolinge, almeno per quanto riguarda questo aspetto, venisse piantato già negl’incontri degli anni 719 e 722, giacché si può intravedere la perplessità di Wynfreth allorché scoprì che neppure il Papa parlava il buon latino che parlava lui, e che aveva descritto nella sua Grammatica12 . La tradizione è insomma ormai stabilmente nelle mani del potere religioso, anche se ci arrivò, più che per una decisione e un progetto consapevole, a causa di un evidente vuoto di potere. Il mondo civile dovrà aspettare un periodo di 11 Roger Wright, Latino e Romanzo: Bonifazio dell’italiano, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 2000, p. 12 Roger Wright, Latino e Romanzo: Bonifazio dell’italiano, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 2000, p. e il Papa Gregorio II in La preistoria 222. e il Papa Gregorio II in La preistoria 224. 111 3. Il Medioevo grande crescita, la seconda rinascita del Medioevo, il Duecento, con l’affermarsi delle borghesie cittadine e la nascita delle università per accedere nuovamente ai metodi di trasmissione e quindi di potere “letterario” laico. Gli studenti spesso copiavano da sé i testi di cui avevano bisogno, alcuni studenti economicamente meno abbienti presero a copiare, dietro compenso, anche i testi per i compagni, la scrittura tornò ad essere conosciuta ed apprezzata da tutti quegli strati sociali che potevano permetterselo e aprì le porte alla future epoche di riscoperta che vanno sotto il nome di Umanesimo e Rinascimento. Questo nuovo tipo di borghese istruito, infatti, poteva usare il nuovo mezzo nel modo che preferiva, sciolto com’era dai legami religiosi che pur sopportava il monaco nel suo scriptorium, e poco alla volta sentì che poteva anche scrivere nella lingua che parlava tutti i giorni, seppur mediata dalle strutture grammaticali che conosceva in riferimento al latino. Tutto questo avveniva dapprima in luoghi davvero marginali, come dimostrano i numerosi atti legali, così ricchi di poesia a riempire proprio i margini liberi per evitare la frode legale dei documenti. Bisognerebbe chiedersi se la scelta di non ovviare al problema con dei segni neutri sia da imputare solo alla fantasia di pochi o alla fuga dalla ripetitività piuttosto che a una, seppur larvata, volontà di tradizione; la nascita del volgare scritto segnò infatti il passo decisivo, esuberante, che porterà alle letterature moderne. Iniziamo dunque con ordine e prendiamo in considerazione l’avvio del Medioevo e quindi il periodo Carolingio che ebbe l’immenso merito di accendere un rinnovato interesse per i tesori letterari del passato, dal momento che «a planned and well-maintained library system had not existed there since the end of Antiquity13 ». L’idea stessa di una collezione di libri era andata persa e infatti anche le raccolte che pure erano sfuggite alla distruzione andarono perdute per il loro smembramento, sebbene sia anche possibile scorgere una certa, pur larvata, tendenza alla riorganizzazione di alcune biblioteche fin dal settimo secolo, una tendenza che va via via rafforzandosi nel secolo successivo.Da questo punto di vista è bene ricordare ad esempio la biblioteca di Bobbio, seppur 13 Bernhard Bischoff, Manuscripts and Libraries in the Age of Charlemagne, Cambridge University Press, Cambridge 1994, p. 93. Un sistema di librerie pianificato e continuativo non esisteva lì fin dalla fine dell’antichità. 112 3.2. La rinascita carolingia degli studi questo caso resti isolato e rappresenti quasi un unicum almeno da questo punto di vista14 . Quando, nel 768, il regno di Pipino il Breve fu spartito tra i suoi due figli Carlo e Carlomanno, era già iniziato un processo di riforma della Chiesa dei franchi che infatti versava in una situazione precaria di decadenza. Questa si dimostrava non solo fisicamente in edifici sacri abbandonati o riconvertiti, ma anche, e peggio, in una diffusa e sottovalutata ignoranza dello stesso clero che era tanta e tale da rendere anche difficile trovare chi, per tramite dell’insegnamento, potesse porre un freno alla degenerazione della tradizione. Carlo Magno, come già suo padre prima di lui, anche se in misura minore, consapevole anche del fatto che di rimando non esisteva neppure una struttura adeguata per l’educazione e l’istruzione degli stessi funzionari imperiali, decise di rivolgersi a studiosi trovati al di fuori del suo regno. Primariamente si rivolse a dei grammatici italiani, primo tra tutti Paolo Diacono; poi, proprio in Italia, a Parma, conobbe Alcuino e lo portò alla sua corte dove, come abbiamo visto, quast’ultimo prese saldamente in mano la scuola di palazzo e il progetto di rinascita degli studi. Ecco cosa dice riguardo a questo tentativo Bischoff: About 780 or slightly earlier, in accordance with a new, clearly defined policy, libraries were urged to acquire texts which were copied out in several closely regulated scriptoria. The court library was founded at this time and was destined to become a glorious monument to Charlemagne’s desire to preserve the literary treasures of the past. Although today we can identify only a few manuscripts from this library, it was probably an extremely diverse collection. In addition to the standard holdings, it must have been a treasure trove of re-discovered rare texts and archetypes of textual tradiction, including antique and insular codices. It influenced other Carolingian libraries, whose masters mainteined close relations with the court15 . 14 Bernhard Bischoff, Manuscripts and Libraries in the Age of Charlemagne, Cambridge University Press, Cambridge 1994, p. 93. 15 Bernhard Bischoff, Manuscripts and Libraries in the Age of Charlemagne, Cambridge University Press, Cambridge 1994, p. 94. 113 3. Il Medioevo È davvero significativo il riferimento all’annodarsi di nuove relazioni culturali, dal momento che sono proprio queste a definire e determinare un clima, per così dire, fecondo. Fecondo non solo per la trasmissione, ma anche per la rielaborazione della cultura e più in generale per le nuove produzioni intellettuali che in effetti vediamo proprio in questo periodo rifiorire con rinnovato vigore e dare avvio ad un fenomeno tanto significativo quale la consapevolezza letteraria. Sebbene non sia pervenuto un catalogo della biblioteca di corte possiamo comunque presumerlo da altri dati del periodo. Proprio a questo proposito così continua Bischoff: A complete catalogue of its holdings is not preserved, but the list of manuscripts of latin authors recorded around 790 in the important grammatical codex, Berlin Diez. B.66, accords well with our notion of what Charlemagne’s library might have contained. This codex originated in the circle of Charlemagne’s court, and the list of works was written out by the same hand that copied the verses of the court poets Angilbert, Paul the Diacon, and others. Some of these works are listed by incipit: Lucan (libri 5), Statius’ Thebaid (libri 12), Terence, Juvenal, Tibullus, Horace’s Ars Poetica, Claudian’s De raptu Proserpinae among other works, Martial, Julius Victor, Servius’ De finalibus, Cicero’s Ad Catilinam, Ad Verrem andPro Deiotaro,speeches from the works of Sallust, including the Historia, Alcimus’ Controuersiae (now lost), and Ariusianus Messius. Even in later centuries, many of these authors would have delighted the heart of a schoolmaster who wanted to find reading material for his pupils; in the year 790 these works were very rare indeed. The appearance of so many rare texts in the list is in itself a strong argument for attributing it to the court library16 . A questo punto Bischoff passa ad occuparsi delle biblioteche carolinge più strettamente in contatto con la corte e le istanze di questa di rinnovamento nel solco della trasmissione dell’antico; due precoci esempi sono le biblioteche di 16 Bernhard Bischoff, Manuscripts and Libraries in the Age of Charlemagne, Cambridge University Press, Cambridge 1994, pp. 94-95. 114 3.2. La rinascita carolingia degli studi Corbie, amministrata da Adalhard, cugino dello stesso Carlo Magno e Lorsch, una nuova biblioteca fondata nel 764 e la cui recenziorità permette un’analisi più accurata dell’innovazione carolingia; inoltre il primo gruppo di copisti qui attivo era sotto il controllo dell’abate Richbod che era stato egli stesso studente di Alcuino a corte nei primi anni della schola. L’analisi di Bischoff passa quindi a trattare dei libri più strettamente legati alla didattica della lingua e della metrica, da questo la conclusione: Listing Christian and Roman poets together with, or very near to, grammatical works in library catalogues is a reflection of an educational tradition, The reading of epic poems had continued in Christian schools as a vehicle for teaching Latin, but as Christian poetry developed, Christian poets came to replace the Roman poets. A new canon was formed from the poems of Iuvencus, Sedulius, and other up to Venantius Fortunatus. Their names became a commonplace of unmatchable excellence in literary works. Carolingian schools adopted this canon of Christian poets17 . Questo ovviamente non significa che gli stessi autori furono letti allo stesso modo ovunque, allo stesso modo anche i poeti non inclusi in questo canone potevano essere studiati se presenti in biblioteche personali, dei maestri o altrove comunque reperibili; di Lucrezio, ad esempio abbiamo diverse attestazioni. Virgilio in particolare non fu mai del tutto abbandonato, era il primo poeta ad essere studiato con l’aiuto di commentari; piuttosto furono col tempo abbandonati alcuni di questi, lasciando il posto a nuovi commenti preferiti dalle nuove generazioni di maestri. Altrove lo stesso Bischoff precisa: Il periodo carolingio non ha riprodotto in ugual misura tutte le opere a lui pervenute: alcuni testi classici e patristici rimasero delle grosse rarità, mentre i libri utili alle scuole e una scelta di letteratura patristica dettata dall’esperienza si diffusero ovunque. Mo17 Bernhard Bischoff, Manuscripts and Libraries in the Age of Charlemagne, Cambridge University Press, Cambridge 1994, p. 103. 115 3. Il Medioevo nasteri e chiese vescovili gareggiano nel dotare le loro biblioteche secondo le esigenze della nuova concezione di cultura18 . Quale siano queste nuove esigenze e quale il canone imposto dalla nuova concezione di cultura lo vedremo nel prossimo paragrafo. 3.3 La tradizione dei testi manoscritti monastici medievali Passiamo ora ad occuparci del periodo che va dal ix al xiii secolo. Abbiamo già visto come unici detentori del sapere siano in questo momento i monasteri, dove la tradizione classica perdurava nella misura in cui gli autori antichi erano considerati indispensabili per lo studio del trivio, spesso solo per il primo gradino, costituito dalla grammatica, così troviamo le opere degli antichi sui banchi delle scuole monastiche. Nello studio del trivio medievale occorrevano due tipi di testi: i manuali tecnici sulla grammatica, la retorica e la dialettica, e le opere letterarie in senso proprio. Questi «appendicia artium», come li chiama Ugo di San Vittore nel suo Didascalicon, servivano ad imparare la buona lingua, il buono stile e, se erano in versi, la prosodia corretta, ma fornivano parimenti un insegnamento morale ed una conoscenza generale dell’antichità, che poteva essere utile anche per lo studio della Bibbia e dei Padri della Chiesa. I testi erano opere classiche, poemi cristiani oppure poemi medievali. Così Birger Munk Olsen inizia il suo I classici nel canone scolastico altomedievale19 , abbiamo già visto perché avrebbe allo stesso modo potuto espungere scolastico dal titolo senza per questo invalidare le ricerche proposte. Questo 18 Bernhard Bischoff, Biblioteche, scuole e letteratura nelle città dell’alto medio evo in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. VI, La città nell’alto Medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1958, p. 615. 19 Birger Munk Olsen, I classici nel canone scolastico altomedievale, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1991. 116 3.3. La tradizione dei testi manoscritti monastici medievali testo, nato da un seminario tenuto il 24 gennaio 1989 alla Certosa del Galluzzo, segue un ricchissimo lavoro, fatto di tre volumi e quattro tomi e numerosi articoli, di censimento e analisi di centinaia di manoscritti, che costituiscono il grande impegno di questo autore20 . Nel testo citato Munk Olsen prende in analisi alcuni testi che si proponevano di definire un canone, oltre che gli inventari delle biblioteche, soprattutto nei capitoli esplicitamente dedicate alle scuole, e arriva a definire un gruppo di dieci Auctores maiores21 : otto poeti, Giovenale, Lucano, Orazio, Ovidio, Persio, Stazio, Terenzio, Virgilio, e due prosatori, Cicerone e Sallustio. Questi autori non furono recepiti allo stesso modo, sia in termini di tempo che di importanza, e infatti il catalogo è definito in riferimento al trascorrere dei secoli. Prima di prendere in analisi il suo lavoro dobbiamo però mettere in evidenza alcune questioni per le quali ci rifacciamo sempre a Munk Olsen. I testi che si propongono di identificare un canone sono relativamente pochi, nel ix secolo non troviamo nulla degno di nota almeno per il fine che ci siamo proposti, il x secolo invece presenta due testi: la Storia di Francia (888995) di Richero di Reims che descrive l’insegnamento di Gerberto di Aurillac, il futuro papa Silvestro II, nella scuola cattedrale di Reims e il Libellus scolasticus di Gualtiero di Spira del 984 che ricorda i suoi stessi studi compiuti presso la scuola cattedrale di Spira. Per l’xi secolo conserviamo la Ars lectoria di Americo di Gâtinaux che ripartisce gli autori secondo il livello di perfezione di quattro metalli, la Vita auctoris trascritta insieme alla Vita Mahumeti di Embricone di Magonza che definisce le letture del futuro vescovo di Augusta, il Liber benedictionum di Ekkeardo iv di San Gallo che ricorda quali autori riposino insieme agli studenti nei giorni di libertà, il De doctrina spiritualis di Otlone di sant’Emmerano, la Vita Meinwerci. Da ultimo per il xii secolo troviamo il Figmentum Bononiense di Stefano di Tournai che definisce il canone ideale degli studi, il Sacerdos ad altare attribuito a Alessandro Neckam che definisce una lunga li20 Birger Munk Olsen, Chronique des manuscrits classique latins (IX-XII siècles) in “Revue d’Histoire des Textes”, 21 1991, pp. 37-76; Birger Munk Olsen, L’études des auteurs classiques latins aux XI et XII siècles, Edition du CNR, Paris 1982-1989. 21 La tendenza ad identificare autori maggiori e autori minori è sicuramente invalsa almeno dall’XI secolo, così in Corrado di Hirsau, Dialogus super auctores dove dice «Nouerat auctores maiores atque minores». 117 3. Il Medioevo sta di letture scolastiche consigliate, la Apocalypsis Goliae episcopi, il De animae exilio et patriae di Onorio Augustodunense, infine in coda ad un codice di Adersbach una serie di disegni esplicativi sulle arti liberali con le raffigurazioni di otto autori antichi. Resta da aggiungere il Dialogus super auctores di Corrado di Hirsau22 della prima metà del secolo che anche dichiara la propedeucità dei minori rispetto ai maggiori e che è fondamentale anche perché con un catalogo di 21 autori rappresenta un autentico programma degli studi Corrado di Hirsau (prima metà del xii secolo) elenca 21 autori, nel seguente ordine: 1. Il grammatico Donato; 2. Catone, il poeta gnomico (una raccolta di massime in distici o in monostici, dell’epoca imperiale); 3. Esopo (raccolta di favole in prosa, del iv o v secolo, parzialmente tratte da Esopo, che nella prefazione è chiamato anche «Romulus»); 4. Aviano (42 favole esopiche, scritte in distici, composte intorno al 400); 5. Sedulio (autore di una Messiade in versi, scritta intorno al 450); 6. Giovenco (compose, intorno al 330, una «armonia dei Vangeli» in versi); 7. Prospero d’Aquitania (mise in versi, nella prima metà del v secolo, sentenze di Agostino); 8. Teodulo (conosciuto soltanto come autore di una «egloga» del x secolo che contiene un dibattito tra il paganesimo e il cristianesimo); 9. Aratore (poeta epico biblico del vi secolo); 10. Prudenzio (il più importante, il più raffinato, il più universale dei primi poeti cristiani), 11. Cicerone; 12. Sallustio; 13. Boezio; 14. Lucano; 15. Orazio; 16. Ovidio; 17. Giovenale; 18. «Omero»; 19. Persio; 20. Stazio; 21. Virgilio [...] il loro valore è calcolato quasi soltanto in base all’efficacia dei loro ammaestramenti morali [...] Corrado di Hirsau rappresenta la tendenza rigorista; è pertanto notevole che di Terenzio, ben conosciuto durante tutto il Medio Evo, egli non faccia neppure il nome. L’elenco di questi 21 autori rappresenta però il vecchio programma scolastico: viene poi adottato anche da maestri di età posteriore, ma con notevoli ampliamenti23 . 22 Corrado di Hirsau, Dialogus super auctores, Berchem, Bruxelles 1955. Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006, pp. 58-59. 23 118 3.3. La tradizione dei testi manoscritti monastici medievali Prima di andare avanti con la nostra ricerca possiamo vedere anche quale sarà la tendenza nel periodo successivo; nel Laborintus, poema didascalico dedicato alla retorica e scritto da Eberardo il Tedesco dopo il 1212 e prima del 1280, il catalogo degli autori raggiunge il numero di 37 e sono 1. Catone (regula morum); 2. Teodulo; 3. Aviano; 4. Esopo; 5. Massimiano (prima metà del vi secolo); 6. Pamphilus; 7. Geta di Vitale di Blois (metà del xii secolo); 8. Stazio; 9. Ovidio; 10. Orazio (solo le satire); 11. Giovenale; 12. Persio; 13. Architrenius di Jean de Hanville (fine xii secolo); 14. Virgilio; 15. Lucano; 16. Alessandreide di Gualtiero di Châtillon; 17. Claudiano; 18. Darete; 19. Ilias latina; 20. Sidonio; 21. Solimarius (poema epico sulle crociate); 22. Un poema didascalico di argomento botanico forse di Emilio Macro; 23. De gemmis di Marbodo di Rennes; 24. Aurora di Pietro Riga; 25. Sedulio; 26. Aratore; 27. Prudenzio; 28. Anticlaudianus di Alano; 29.Tobias di Matteo di Vendôme; 30. Doctrinale di Alessandro di Villedieu; 31. Poetria nova di Geoffroi di Vinsauf; 32. Grecismus di Everardo di Béthume; 33. Prospero d’Aquitania; 34. Ars versificatoria di Matteo di Vendôme; 35. Marziano Capella; 36. Boezio; 37. De universitate mundi di Bernardo Silvestre24 . Questa tendenza va aumentando col trascorrere del tempo e con il Registrum multorum auctorum di Ugo di Trimberg, nel 1280 il novero degli autori raggiunge il numero di 80 e già esclude i prosatori. Nel corso dei secoli quindi aumentavano i testi propedeutici e, come vedremo, aumentavano nel contempo gli autori classici usati nelle scuole. Dall’analisi di tutti questi documenti emergono come abbiamo già detto dieci autori senza però darci un metro esaustivo del periodo. Anche gli inventari delle biblioteche pervenuti non costituiscono una prova inoppugnabile dal momento che sono relativamente pochi, 350, e i monasteri presenti sul territorio invece molti di più. Resta peraltro da aggiungere che gli inventari non sempre definiscono al loro interno i testi per la scuola se non quando sono catalogati a parte, a cura di un altro responsabile e anche in questo caso non possiamo sapere se la stessa scuola usava o permetteva l’uso di qualsiasi libro conservato all’interno dei monasteri. D’altra parte come ricorda Munk Olsen «Quando pure questi testi marginali non siano stati studiati che 24 Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006, p. 60. 119 3. Il Medioevo eccezionalmente sotto la direzione del maestro del trivio, è sempre possibile che i giovani scolari abbiano letto certe opere per conto loro, così come è probabile che da soli completassero lo studio del testi del canone, solo in parte spiegati e commentati in classe25 ». Bisogna anche ricordare che i cataloghi dell’epoca non erano esaustivi, si pensi ad esempio alla citazione del solo primo testo o del testo più importante in codici miscellanei che da solo bastava certo al bibliotecario per identificare e quindi inventariare l’intero volume, ma che non ci restituisce un’immagine commpleta dei testi allora disponibili. Restano da analizzare i codici che sono effettivamente pervenuti fino a noi, sebbene alcuni possano essere arrivati nei monasteri in seguito a donazioni anche più tarde; il libro infatti era all’epoca bene così prezioso da avere una vita lunghissima e passare di mano in mano per molte generazioni, anche da maestro a discepolo, prima di arrivare nelle biblioteche, monastiche o private che fossero. Tenuto conto dei pochi esemplari rimasti di contro al grande numero degli studenti e sebbene le biblioteche più importanti possedessero a volte più esemplari dei testi più importanti e anche numerose miscellanee e florilegi, sembra difficile che gli studenti possedessero realmente o almeno potessero usufruire stabilmente di tutti i testi considerati necessari allo studio. Anche solo ereditare libri era un’eccezione per gli uomini del Medioevo. In riferimento alla gestione del libro nel monastero Munk Olsen ci fa anche notare che ben tre capitoli della Regola di san Benedetto, il 6, il 32 e il 48, hanno un riferimento al problema «gli inventari di biblioteche ci sono pervenuti in un numero assai modesto, sebbene ne dovessero esistere a migliaia, se i monaci hanno preso davvero sul serio il cap. 32 della Regola di san Benedetto, che esige che «l’abate tenga un elenco di tutto per sapere cosa dà e che cosa riceve mentre i fratelli si succedono nei rispettivi incarichi26 » e infatti abbiamo alcune testimonianze di prestiti anche di testi non cattolici. Più avanti troviamo anche che «è possibile che i monaci benedettini abbiano preso a prestito testi pagani per le loro letture di quaresima, conformemente alle esigenze del cap. 48 della Regola di san Benedetto: «In questi giorni di quaresima 25 Birger Munk Olsen, I classici nel canone scolastico altomedievale, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1991, p. 97. 26 Birger Munk Olsen, I classici nel canone scolastico altomedievale, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1991, p. 71. 120 3.3. La tradizione dei testi manoscritti monastici medievali ognuno riceva un codice dalla biblioteca da leggere di seguito e interamente27 ». Da ultimo dice «che questi libri potessero anche essere pagani risulta chiaramente dai Signa Loquendi di diversi ordini religiosi, dapprima dei benedettini di Cluny. Qui per rispettare il silenzio secondo il cap. 6 della Regola di san Benedetto, occorreva, per ottenere un libro pagano, prima fare il segno generale per libro e poi toccarsi l’orecchio con un dito come il cane è solito grattarsi con una zampa «giacché non per nulla l’infedele è paragonato a un animale28 ». Era dunque possibile, anche per un monaco leggere testi pagani, anche se con il beneplacito del priore, che immaginiamo avrà pur richiesto ragioni e promesse a questo proposito Munk Olsen dice ancora «già i Capitularia di Aquisgrana dell’817 avevano stabilito che non si potevano ricevere libri senza il permesso del priore - e quindi che era possibile con il suo assenso29 ». Potrebbe a questo punto sembrare comunque riduttivo prendere in analisi, per uno studio sul Classico o sul canone, solo il sottogenere del canone scolastico, basato per di più su fonti così poco complete; bisogna però ricordare che, nonostante i divieti di leggere i classici in età matura, e soprattutto in virtù di questi divieti, ché non c’è necessità di vietare quello che comunque non è assolutamente prassi, i classici non erano certo abbandonati completamente in età adulta. Possiamo poi prendere in considerazione le numerose citazioni, che pur erano riportate a memoria e quindi erano un ricordo dell’età scolare. Difatti la memorizzazione teneva un posto importante nelle scuole, nell’età in cui la mente era ancora disponibile; Sugerio di Saint-Denis, secondo la Vita composta da Guglielmo di Saint-Denis, non potendo dimenticare i poeti antichi, era capace di recitare a memoria ventine o magari trentine di versi di Orazio, che contenevano qualcosa di utile. Inoltre si notano spesso inesattezze o 27 Birger Munk Olsen, I classici nel canone scolastico altomedievale, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1991, p. 104. 28 Birger Munk Olsen, I classici nel canone scolastico altomedievale, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1991, p. 105. 29 Birger Munk Olsen, I classici nel canone scolastico altomedievale, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1991, p. 105. 121 3. Il Medioevo confusioni nelle citazioni, che mostrano come non sempre siano state tratte direttamente dai libri30 Ci si chiede quale memoria potrebbe ritenere così a lungo qualcosa che gli sia completamente ostico o indigesto. Lo studio delle citazioni del resto non sembra utile a definire da solo un canone per l’epoca, così come non lo sono da sole le analisi delle diverse prove che Munk Olsen pure porta, insieme però rendono la ricerca assolutamente non vana e invece di grande interesse e ricca di credibilità scientifica, così conclude: Con tutte queste complicazioni e con i frequenti ricorsi molto probabilmente ai florilegi, non è dunque sempre facile decidere se le citazioni di un autore riflettano il canone scolastico di un’epoca o il contenuto delle biblioteche alle quali aveva accesso; certamente è rischioso ricostruire questo canone se ci si fonda unicamente sulle conoscenze letterarie degli scrittori medievali, senza tener conto in prima linea dei manoscritti superstiti, degli inventari delle biblioteche e delle testimonianze coeve più esplicite. Ma sembra per lo meno che sia necessario fare una distinzione netta tra i testi del canone e quelli delle letture marginali. Dei primi si faceva una selezione secondo i libri disponibili ed i gusti dell’epoca e dello scolastico, ed i testi scelti erano spiegati a fondo, integralmente o parzialmente, sotto la direzione del maestro, che utilizzava glosse, accessus e commenti. Ampie letture di testi marginali costituivano di certo l’ideale per dei buoni professori umanistici, ma in pratica erano probabilmente limitate a questo livello, considerata la mancanza di libri e specie di tempo, soprattutto nel caso in cui gli allievi fossero costretti a finire per conto loro quei testi che erano stati studiati solo in parte in classe31 . 30 Birger Munk Olsen, I classici nel canone scolastico altomedievale, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1991, p. 107. 31 Birger Munk Olsen, I classici nel canone scolastico altomedievale, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1991, p. 112. 122 3.3. La tradizione dei testi manoscritti monastici medievali Ciò nonostante tutto questo uso di citazioni si configura come un evidente interesse degli autori a migliorare la propria opera, il desiderio di conferirgli la forma migliore, non certo la peggiore; pare quindi chiaro che possiamo azzardare che i Classici scolastici altomedievali, così non sarà dopo il 1200, sono anche i Classici dell’epoca. A favore di questa tesi Munk Olsen porta numerose prove che faremo bene a ripetere anche in questa sede. La lettera di Lanfranco di Pavia a Domnall, vescovo di Munster e la lettera di Girardo di Barri a Gualtiero Map definiscono le letture classiche come una pratica di gioventù contro gli studi della maturità affidati alle Sacre Scritture e in genere a letture cristiane edificanti. Un altro esempio è costituito da Oddone di Cluny e Ugo di Cluny che sono spaventati nel sonno dai mostri32 , letteralmente tali, del passato e questo non stupisce vista la veemenza delle opinioni sugli antichi che vigevano a Cluny. Chissà quante volte, come abbiamo visto prima, questi due uomini avranno dovuto umiliarsi pubblicamente grattandosi l’orecchio come cani. Sebbene alcuni uomini dell’epoca maturavano un così grande senso di colpa per l’interesse per gli antichi il cui archetipo è senz’altro ravvisabile in Girolamo. Molti altri non subirono lo stesso sortilegio e numerose sono comunque le testimonianze di uomini in età matura che ancora leggevano i testi conosciuti in gioventù nella pratica scolastica e «non di rado consigli di lettura classiche sono indirizzati addirittura a degli uomini fatti [...]. Tuttavia, tranne le confessioni di Rosvita e le osservazioni di Otlone, le testimonianze esplicite del perdurare di letture classiche in età matura sono piuttosto rare33 » ma non è un dato che sorprende, i numerosi inviti a desistere da questa pratica decisamente non favorivano questo tipo di ammissione diretta della colpa. Veniamo adesso a prendere in considerazione con Munk Olsen lo studio nei diversi secoli che definirono questo canone di dieci autori. Il ix secolo preferiva in generale i testi dei poeti cristiani come Aratore, Giovenco, Prospero, Prudenzio, Sedulio eppure viene anche considerato Aetas 32 L’archetipo di questo, che è ormai diventato quasi un topos, l’abbiamo già visto in Girolamo, nel capitolo 2.4. La fortuna medievale è confermata anche dalla citazione di Abelardo in Theologia Christiana II, 2.123. 33 Birger Munk Olsen, I classici nel canone scolastico altomedievale, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1991, pp. 99-100. 123 3. Il Medioevo Virgiliana34 , il secolo del salvataggio di Virgilio, quasi il solo, tra gli autori classici, salvato, ma non completamente al sicuro, da riserve di tipo educativo e morale; tra Bucoliche, Georgiche ed Eneide ci ha consegnato da ventitre a trenta codici, per lo più glossati, a cui si vanno ad aggiungere ventisei codici di Servio che era considerato guida indispensabile allo studio di Virgilio come ricordato in un codice di San Gallo: Qui sine me libros uult discere Virgilianos Hic impensorum deperdit opus studiorum Seruius obscura loca pandit Virgiliana Gli altri poeti seguono a debita distanza: Lucano con 10 codici, Giovenale e Terenzio 7, Persio e Orazio 5, Stazio e Ovidio uno soltanto; tra i prosatori resiste solo Cicerone che vanta 6 esemplari del De Senectute, 4 del De Officis e 2 del De Amicitia, di Sallustio manteniamo solo 2 codici. Il x secolo vede allargare il canone degli autori classici; di Giovenale conserviamo 23 codici, che raggiunge Virgilio, anche lui con 23 manoscritti, che vanno però a sommarsi, come abbiamo già visto, ai lasciti del secolo precedente, seguono Terenzio e Orazio con 17, Persio e Lucano con 13, Stazio e Sallustio con 7; Cicerone invece mantiene la presenza del secolo precedente: 3 per il De Senectute, 4 per il De Officis e 3 per il De Amicitia. In coda resta Ovidio con solo due opere, Metamofosi e Tristia rispettivamente con 2 e un solo esemplare. L’xi secolo si configura come un periodo di consolidamento delle acquisizioni precedenti: Orazio è il primo con 50 codici, sebbene Traube definisca «aetas oratiana» il secolo precedente è solo ora che supera Virgilio che conta adesso 46 codici, seguono Terenzio con 38, Lucano 30, Stazio 21, Giovenale (40) e Persio (34) che raggiungono in questo secolo il proprio acme per poi perdersi successivamente; Sallustio (39) raggiunge quasi Giovenale mentre Cicerone non cresce altrettanto e vede anche cambiare le preferenze all’interno del corpus disponibile (7 De Senectute, 5 De Officis e 9 De Amicitia), ancora in coda resta Ovidio sempre con due opere, Metamofosi e Tristia rispettivamente con 11 e 4 esemplari. 34 124 L. Traube, Vorlesungen und Abhandlungen, Monaco 1911, p. 113. 3.3. La tradizione dei testi manoscritti monastici medievali Nel xii secolo il canone raggiunge la sua massima estensione, Lucano con 113 codici e Sallustio con 90 emergono nettamente, seguiti da Stazio con 61 e Ovidio con 34 esemplari delle sole Metamorfosi, 18 di Fasti e anche 13 di Epistole dal Ponto; Virgilio e Orazio continuano a destare interesse con 80 e 82 trascrizioni ciascuno, seguono Terenzio con 45 e Giovenale con 43, anche Cicerone inizia la sua affermazione cambiando nuovamente l’ordine di interesse delle sue opere: contiamo 23 esemplari del De Senectute, 41 del De Officis e 38 del De Amicitia. A questo punto possiamo tirare le somme per l’intero periodo in questione, secondo l’Appendice dei codici e frammenti superstiti dei testi classici studiati, senza qui tener conto delle diverse opere come fa Munk Olsen, abbiamo i seguenti totali tenuto conto che Virgilio sta per Eneide, Georgiche, Bucoliche, Ovidio per dieci opere, Orazio per sei opere, Lucano per la sola Farsaglia, Terenzio per le Commedie, Stazio per Tebaide e Achilleide, Persio per le Satire, Giovenale per le Satire, Sallustio per la Guerra Giugurtina e la Guerra Catilinaria, Cicerone per 43 opere tra cui anche le Epistole e le Orazioni, inclusione che giustifica numeri apparentemente così alti: Sec. ix Sec. x Sec. xi Sec. xii Virgilio 79 54 (133) 103 (236) 174 (410) Ovidio 8 3 (11) 26 (37) 91 (128) Orazio 27 87 (114) 270 (384) 425 (809) Lucano 10 11 (21) 30 (51) 113 (164) Terenzio 7 17 (24) 38 (62) 45 (107) Stazio 2 8 (10) 28 (38) 71 (109) Persio 5 11 (16) 34 (50) 21 (71) Giovenale 7 23 (30) 40 (70) 43 (113) Sallustio 4 13 (17) 70 (87) 173 (260) Cicerone 66 34 (100) 80 (180) 235 (415) I numeri riportati tra parentesi indicano il totale dei codici, sia copiati nel secolo in questione che giacenti dai periodi precedenti, disponibili al momento 125 3. Il Medioevo fino ai totali disponibili all’alba del Duecento, periodo da cui riprenderemo l’analisi più avanti. Nei primi due secoli presi in considerazione prevale Virgilio, mentre nei due secoli successivi Orazio lo raggiunge e lo supera. Da ultimo Munk Olsen prende in analisi i testi degli autori minori e marginali. I Disticha Catonis sono i primi ad essere presentati e probabilmente erano anche il primo testo preso in esame dagli studenti, la secondarietà dell’autore emerge anche dal nome con cui era spesso menzionato, Catunculus; segue l’Omero latino o meglio L’Iliade latina, quasi un succedaneo dell’Omero originale che spesso negli inventari viene attribuito allo stesso Omero, o a Pindaro, ovvero l’Homerunculus; entrambi i testi saranno poi accolti nei Libri Catoniani o Libri Homeriani insieme a testi cristiani tardo antichi o medievali. Secondo lo spoglio di Munk Olsen su questi ultimi, al termine del xii secolo, abbiamo le seguenti cifre che sommano i codici pervenuti e le citazioni negli inventari: Aviano con 23 occorrenze, Sedulio 17, Aratore 15, Prudenzio 13, Prospero 12, Teodulo 11, Giovenco 7, Boezio 5, Massimiano 3. Ci sono poi anche altri autori pagani che rientrano a volte in queste raccolte e sono l’Achilleide di Stazio, i Rimedi d’amore di Ovidio e le Satire di Persio e occasionalmente altri autori maggiori, di cui abbiamo già detto. Come ricorda Munk Olsen Non è possibile sapere se questi testi maggiori abbiano avuto all’occasione anche un uso nell’apprendimento elementare, sebbene nell’ultimo caso sia più probabile che Omero sia stato letto insieme a Terenzio in una fase più avanzata degli studi. Ma gli esempi mostrano almeno che la distinzione tra i diversi livelli dell’insegnamento non è sempre stata netta e definita35 . 3.4 La tradizione dei testi manoscritti cortesi-borghesi medievali La tradizione dei testi manoscritti non passò esclusivamente dai monasteri e dalle città vescovili, sebbene questa tradizione sia la più ricca e provata; resta 35 Birger Munk Olsen, I classici nel canone scolastico altomedievale, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1991, p. 73. 126 3.4. La tradizione dei testi manoscritti cortesi-borghesi medievali ora da vedere se e come il mondo medievale laico abbia avuto una parte, seppur modesta, alla formazione della cultura occidentale del periodo in questione, in continuità quindi con quanto avvenuto nel tardo-antico. La nostra attenzione si sposta quindi dai monasteri alle corti e, nelle città vescovili, dall’interno delle scuole cattedrali all’esterno di queste negli ambienti laici cittadini. Nelle biblioteche delle città tardo-antiche si era conservata un’eredità letteraria - sebbene spesso solamente come un seme, in tempi nei quali la letteratura taceva e la tradizione delle scuole era interrotta - (che) rese possibile più tardi il corredo scientifico delle scuole caroline e postcaroline36 . Abbiamo già visto come la necessità di preservare i libri, in quanto oggetti così facilmente deperibili, portò molti testi a trovar rifugio all’interno delle mura dei monasteri; o meglio solo i libri che avevano fortuitamente o appositamente trovato un degno rifugio si salvarono. Le mura dei monasteri non erano però le uniche mura ancora in piedi, anche dopo le devastazioni più radicali. Qualcosa si salvò anche nelle case private o ad opera dei privati, anche se l’attrazione verso le biblioteche monastiche o cattedrali si protrae per secoli e molti di questi finirono per convergere comunque nelle collezioni religiose; in merito alla biblioteca della cattedrale di Lione ad esempio Bischoff nota che: Manoscritti della Bibbia, di Agostino, di Origene, di Ilario del quinto, sesto e dell’inizio del settimo secolo sono stati in uso nei secoli merovingi: per la liturgia ma anche per la lettura privata. Lo prova la presenza di numerosi tomi, tra i quali nomi di donne: «Custantina», «Custantine sum» e «Iuliana legit lebrom estam, Iuliana fecit». Tutte queste note, dei secoli settimo e ottavo sono in un latino estremamente volgare37 . 36 Bernhard Bischoff, Biblioteche, scuole e letteratura nelle città dell’alto medio evo in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. VI, La città nell’alto Medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1958, p. 610. 37 Bernhard Bischoff, Biblioteche, scuole e letteratura nelle città dell’alto medio evo in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. VI, La città nell’alto Medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1958, p. 612. 127 3. Il Medioevo Il riferimento a nomi di donna così come la forma del latino impiegato sono dei chiari segnali del fatto che questi testi siano passati anche, se non solo, sotto gli occhi meno esperti di chi non aveva normalmente accesso agli stessi libri una volta che fossero inclusi nelle biblioteche religiose. Si tratta quindi di testi passati per le mani di illetterati, «l’équation laicus = ilitteratus est même devenue proverbiale. L’illetteratus c’est celui qui n’a pas beneficié de l’instruction, celui qui n’a appris la litteratio, c’est à dire le latin38 », tanto che anche la forma di queste note minime ne porta il risultato. Se, quindi, i laici non andavano a scuola dove venivano istruiti e quali erano le forme del loro accesso alla cultura? Questo è l’argomento preso in analisi da Riché nel saggio di cui abbiamo già parlato nel paragrafo sul tardo-antico. Esiste un altro elemento che può essere considerato a favore della tesi che individua strade di trasmissione di cultura diverse dalla tradizione monastica; i luoghi di trasmissione dei testi sembrano infatti avvalorare questa ipotesi. Le città erano per i romani i luoghi privilegiati per il reperimento dei libri, ed erano anche i luoghi, fatta salva la presenza di alcune biblioteche nelle ville di campagna, in cui erano spesso conservati. Nelle città comunque vivevano i possibili fruitori di questa merce così particolare e anche i frutti delle razzie convergevano, magari per la vendita, sempre nelle città. Allo stesso modo non poteva che avvenire nelle città anche la vendita di fondi familiari in un’epoca che aveva altre priorità che la trasmissione dell’intero patrimonio di famiglia, senza contare che l’alto valore e la maneggevolezza dell’oggetto lo rendevano a questo proposito appetibile. Resta da ricordare che normalmente la vendita di libri nell’alto Medioevo era molto rara e rappresentava comunque sempre un affare privato non inquadrato in attività commerciali stabili. Ma nella epoca carolina, e probabilmente già al tempo di Carlomagno stesso, si aprono altre fonti di antichi libri italiani. Nelle migliori e più importanti tradizioni manoscritte di classici vi è un considerevole numero di codici che contengono note individuali di copisti, correttori, possessori e lettori copiate da archetipi antichi, 38 Pierre Richè, L’enseignement et la culture des laïcs dans l’occident pre-carolingien in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XIX La scuola nell’occidente latino dell’alto medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1971, p. 231. 128 3.4. La tradizione dei testi manoscritti cortesi-borghesi medievali note che danno preziose informazioni sulle vie della trasmissione. Tra le indicazioni di luogo di queste sottoscrizioni si incontra e in altri casi si può supporre al primo posto Roma, poi con un numero leggermente minore Ravenna. Sono dunque gli stessi centri, che fino alla fine del mondo antico sono state le sedi primarie della cultura romana39 . Nel Medioevo la distinzione tra laico e religioso non era però così netta come in questi paragrafi che qui se ne occupano; esisteva una folta via di mezzo costituita dal clero secolare, i chierici. Carlomagno, forse convinto anche dallo stesso Alcuino e dalla tradizione d’oltremanica di cui abbiamo già detto, aveva definito un sistema che prevedeva che fossero le stesse scuole cattedrali e monastiche a formare anche il clero secolare ma le richieste di ammissione col tempo divennero numericamente più significative tanto che si tentò di limitare l’accesso alle scuole vescovili e ai monasteri solo ai futuri canonici e monaci. Dal momento che non c’erano altre scuole sul territorio si impediva così l’accesso alla necessaria preparazione anche ai burocrati necessari ai vari detentori del potere. Le soluzioni che si trovarono furono l’istituzione di nuove scuole in città che ne erano sprovviste e, nei monasteri, l’istituzione di scuole parallele: interne per gli oblati ed esterne per i futuri chierici. Queste soluzioni sono però molto importanti perché preannunciano la grande novità della futura cultura borghese, le università. Le grandi scuole cattedrali francesi preparano direttamente come le scuole italiane di diritto di Pavia e Ravenna le università dell’apogeo del medioevo. Del resto, non mancano nel quadro delle scuole dell’alto medioevo tracce di reciproca gelosia e rivalità, così caratteristiche per i tempi successivi40 . 39 Bernhard Bischoff, Biblioteche, scuole e letteratura nelle città dell’alto medio evo in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. VI, La città nell’alto Medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1958, pp. 614-615. 40 Bernhard Bischoff, Biblioteche, scuole e letteratura nelle città dell’alto medio evo in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. VI, La città nell’alto Medioevo, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1958, pp. 621-622. 129 3. Il Medioevo 3.5 La nuova cultura laica, dalla corte alle università Con il tempo la cultura laica trovò nuovi spazi e assunse dimensioni e importanza degni dei concorrenti; nuovi centri di gestione della conoscenza, le corti prima e le università dopo, si affiancarono ai monasteri e alle scuole cattedrali. Questi nuovi centri di potere intellettuale portarono il proprio bagaglio culturale anche nella letteratura che ne restò così cambiata e soprattutto arricchita di nuovi elementi del tutto estranei al mondo monastico e religioso; a questo proposito risulterà utile prendere in considerazione due testi fondamentali di C.S. Lewis. Le corti medievali non crearono un nuovo mondo culturale parallelo e distaccato dal mondo culturale tramandato dai monaci dei monasteri; gli uomini nuovi assorbirono la tradizione e a questa accostarono e in parte intrecciarono un nuovo modello culturale di cui erano i fondatori. In The Discarded Image41 Lewis prende in analisi il modello cosmologico della cultura medievale che rimase inascoltato nei secoli successivi, come ricorda lo stesso titolo del volume, ma che mantiene forte il suo legame con la tradizione precedente. In The Allegory of Love42 tratta invece di una tradizione che, iniziata nel Medioevo, mantiene ancora oggi quasi intatto il suo valore culturale. Se poniamo come ipotesi il fatto che l’intellettuale cerca con più attenzione e con più rigore le fonti necessarie allo svolgimento di un pensiero che ritiene fondamentale, possiamo inferire che le fonti di due aspetti così significativi per il Medioevo come la struttura stessa del cosmo e l’amor cortese siano cercate tra gli autori e le opere del passato allora considerate più importanti, significative e fededegne. Partiamo dunque dal primo dei due saggi. Il primo elemento su cui Lewis pone la sua attenzione è l’elemento di continuità con la tradizione precedente 41 C.S. Lewis, The Discarded Image, Cambridge University Press, Cambridge 1964. Di seguito si prende in considerazione l’edizione italiana: C.S. Lewis, L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale, Marietti, Genova 1990. 42 C.S. Lewis, The Allegory of Love, Clarendon Press, Oxford 1936. Di seguito si prende in considerazione l’edizione italiana: C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969. 130 3.5. La nuova cultura laica, dalla corte alle università secondo un modo che era la norma medievale e che almeno nel metodo allontana i presupposti culturale del Medioevo in egual misura da quanto l’ha preceduto così come da quanto lo ha poi seguito. Ciascuno scrittore, nei limiti del possibile, si basava su uno scrittore a lui precedente e seguiva un auctor, che di preferenza era latino. Questo è uno dei fattori che differenziano il Medioevo in egual misura dal mondo primitivo e dalla civiltà attuale. In una comunità primitiva la cultura viene assorbita in parte in maniera del tutto inconscia, mediante la partecipazione a uno schema eterno di comportamenti, e in parte attraverso le parole degli anziani della tribù. Nella nostra società, le conoscenze nascono soprattutto, in ultima analisi, dall’osservazione. Nel Medioevo ci si basava sui libri, e sebbene a quei tempi l’alfabetizzazione fosse ovviamente molto meno diffusa, la lettura era comunque parte integrante della cultura, molto più di quanto non lo sia ai giorni nostri43 . La priorità che il Medioevo assegna ai libri ovviamente facilita l’indagine sulle filiazioni e le influenze culturali dell’antichità, bisogna però ricordare che il mondo romano non è l’unica radice culturale del periodo; sebbene sia, come dice ancora Lewis, la radice prioritaria le restano accanto anche le vestigia di un passato che non ha conosciuto letteratura scritta propria. Questo avviene nelle aree che non erano state interamente romanizzate e poi, nel Medioevo queste nascoste fonti passarono attraverso vie letterarie a tutta l’Europa. Le misure di questa diversità di impatto del substrato non romano sono ravvisabili nell’analisi della frequenza delle citazioni. Naturalmente alcuni elementi dell’antico mondo germanico e celtico sopravvivono nei dialetti di epoche più tarde, ma che fatica scovarli! Per ogni riferimento a Wade o a Weland se ne incontrano cinquanta ad Ettore, Enea, Alessandro o Cesare. E per ogni eventuale reliquia di culto celtico fortunosamente rinvenuta 43 C.S. Lewis, L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale, Marietti, Genova 1990, p. 12. 131 3. Il Medioevo in un testo medievale, ecco decine e decine di pompose citazioni inconfutabilmente ispirate a Marte, Venere e Diana44 . L’importanza del mondo classico per la costruzione culturale del cosmo medievale non si limita ovviamente a sparse citazioni ma riguarda anche la sostanza della filosofia che sta alla base del modello; l’uomo medievale esegue una scelta nel materiale antico che ci consegna anche una misura del credito che i diversi autori antichi godevano presso i discendenti medievali. Gli autori scelti sono, infatti, sempre gli stessi che abbiamo già visto in merito al canone monastico nei capitoli precedenti; sulla vetta troviamo solo tre nomi In ogni caso le fonti che uno studioso di letteratura medievale deve assolutamente avere presenti sono soprattutto tre, e cioè la Bibbia, Virgilio e Ovidio45 . La notorietà di queste tre fonti spinge Lewis a non trattarle oltre: ritiene invece importante parlare di quelle opere che furono tanto fondamentali per il mondo medievale quanto oggi meno note. La prima di queste opere è il Somnium Scipionis, visione finale del De re publica di Cicerone che ricalca la descrizione della vita dopo la morte riferita da Er l’armeno al termine della Repubblica di Platone. Non a caso, dice Lewis, si tratta dell’unica sezione dell’opera che ci sia giunta intatta; ebbe infatti una tradizione autonoma che non solo indica il favore che godette nel Medioevo ma le ha anche permesso di essere tramandata e conservata. La seconda opera è la Pharsalia di Lucano; Lewis stenta a comprendere il favore riscosso da quest’opera ma non può far a meno di registrarlo. Per quel che ne so, non ebbe imitatori nel Medioevo, ma in ogni caso veniva trattato con grande rispetto. Dante nel De Vulgari eloquentia lo cita insieme a Virgilio, Ovidio e Stazio come uno dei regulati poetae (II, vi, 7). E nel nobile castello del Limbo Lucano siede a fianco di Omero, Orazio, Ovidio, Virgilio e Dante stesso. 44 C.S. Lewis, L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale, Marietti, Genova 1990, p. 13. 45 C.S. Lewis, L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale, Marietti, Genova 1990, p. 23. 132 3.5. La nuova cultura laica, dalla corte alle università Chaucer, poi, nello spedire il suo Troilus per il mondo, gli ingiunge di baciare la terra su cui hanno camminato «Virgilio, Ovidio, Omero, Lucano e Stazio» (V, 1791)46 . Lewis passa quindi ad indagare le fonti di un’immagine, Natura o Physis, molto feconda per il Medioevo. The Faerie Queene di Spencer, il Parliament di Chaucer, il Pèlerinage di Deguileville e sopra tutto il Roman de la Rose sono solo gli esempi più eclatanti di una larga messe di testi; ma anche autori lontani dal mondo della corte saranno attratti dall’immagine della dea Natura, basti a questo proposito pensare a De mundi universitate di Bernardo di Lilla e al Planctus Naturae di Alano di Lilla. Il debito maggiore, la radice di questa tradizione si può ravvisare nella Tebaide di Stazio e nel De raptu Proserpinae di Claudiano47 . L’ultima fonte di età classica per la creazione della cosmologia medievale, è secondo Lewis, il De deo Socratis di Apuleio; altre fonti possono essere trovate nella tarda antichità, una fase racchiusa tra il 205, anno di nascita di Plotino, e il 533, data del primo riferimento noto allo Pseudo-Dionigi. Gli autori scelti dal modello sono Plotino, Calcidio, Macrobio, lo Pseudo-Dionigi e Boezio. Plotino incarna l’ultima ondata di paganesimo, ed è il tramite per il passaggio di Platone al Medioevo; anche il secondo autore citato appartiene allo stesso ambiente culturale. Di Calcidio Lewis ricorda che non è certa la professione religiosa. Trova quattro prove a favore della sua cristianità e ben sette a sfavore; nell’elencare queste ultime definisce anche il suo personale canone letterario. 4) Cita Omero, Esiodo ed Empedocle come se fossero altrettanto degni di nota che i sacri autori48 . .L’opera di Calcidio, Platonis Timaeus interprete Chalcidio è una traduzione, incompleta, del Timeo di Platone corredato da un lunghissimo commentarius; la scelta di Calcidio è dunque anche interpretabile come un giudizio di valore 46 C.S. Lewis, L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale, Marietti, Genova 1990, p. 28. 47 Sulla tradizione della dea Natura si veda il capitolo VI di Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006. 48 C.S. Lewis, L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale, Marietti, Genova 1990, p. 45. 133 3. Il Medioevo sullo stesso Platone per il quale il Medioevo mostra spesso il proprio debito. Anche il terzo autore è annoverato tra le fonti a cagione di un commentarius, si tratta infatti dei Commentariorum in Somnium Scipionis libri duo di Macrobio che, di nuovo, coinvolge il suo soggetto, di cui abbiamo già detto, nel credito ricevuto. L’analisi delle specie di sogni è molto dettagliata e corredata degli esempi di letteratura medievale che se ne avvalgono dal momento che «tutti i poemi onirici allegorici del Medioevo riportano un somnium simulato»49 ; così anche uno dei testi più letti del Medioevo, che vedremo più tardi: «Il Roman de la Rose, il libro più letto del Trecento europeo laico, ha esso stesso forma onirica50 ». Il quarto autore, lo Pseudo Dionigi, è citato in virtù di quattro libri: Le gerarchie celesti, Le gerarchie ecclesiastiche, i nomi divini e La teologia mistica. Il primo di questi è di primaria importanza dal momento che presenta l’angelologia che diverrà tipica della mente medievale. L’ultimo autore, a chiudere il cerchio, è Boezio, la cui importanza è però di primaria importanza. Dopo Plotino il maggior autore del periodo embrionale è Boezio (480-524), il cui De consolatione philosophiae rimase per secoli uno dei testi più autorevoli mai scritti in latino51 . Prima di passare a descrivere il cosmo così come lo conosceva il Medioevo, Lewis cita velocemente altri due autori: Isidoro di Siviglia52 e Vincenzo di Beauvais53 . Due autori di epoca più tarda, e di livello molto inferiore. Essi non contribuirono di persona al Modello come quelli descritti finora, eppure a volte è proprio grazie a loro se ci è possibile immaginarlo quasi com’era in realtà. Si tratta di due enciclopedisti54 . 49 C.S. Lewis, L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale, Marietti, Genova 1990, p. 55. 50 Piero Boitani, Letteratura europea e Medioevo volgare, Il Mulino, Bologna 2007, p. 186. C.S. Lewis, L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale, Marietti, Genova 1990, p. 63. 52 Etymologiae 53 Speculum Majus 54 C.S. Lewis, L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale, Marietti, Genova 1990, p. 74. 51 134 3.5. La nuova cultura laica, dalla corte alle università Se dunque non forgiarono il modello lo rendono oggi comprensibile ai nostri occhi e, cosa più importante, contribuirono in modo determinante a diffonderlo attraverso tutta l’Europa. Di Isidoro Lewis ci fornisce un ideale canone seppur con qualche riserva sul metodo. Quando però entrano in gioco gli auctores Isidoro non fa nessuna distinzione: ai suoi occhi la Bibbia, Orazio, Ovidio, Marziale, Plinio, Giovenale e Lucano (quest’ultimo per i serpenti) hanno tutti la stessa autorità55 . Isidoro cerca negli autori antichi le fonti per qualsiasi argomento, non vede la differenza tra autorità letteraria e scientifica; lui crede agli autori antichi per una sorta di fede intellettuale. Dal punto di vista antropologico si potrebbe quasi dire che crede agli autori che ama in virtù del valore letterario che assegna loro. Questa idea di verità letteraria è presente anche in riferimento all’immagine del passato che è parte integrante del Modello medievale. L’uomo medievale credeva alle opere sull’antichità senza porre discrimine tra opere letterarie e opere scientificamente storiche. Tutti «sapevano» - proprio come noi «sappiamo» che lo struzzo nasconde la testa nella sabbia - che il passato comprendeva Nove Notabili: tre erano pagani (Ettore, Alessandro e Giulio Cesare), tre ebrei (Giosuè, Davide e Giuda Maccabeo) e tre cristiani (Re Artù, Carlo Magno e Goffredo di Buglione). Tutti sapevano che discendiamo dai troiani [...]56 . Dopo aver descritto il Cosmo a partire dagli strati più esterni Lewis arriva a trattare della terra e dei suoi abitanti; qui si sofferma sulle arti liberali e in particolare su Grammatica e Retorica, quello che oggi noi chiamiamo critica. Il Medioevo loda gli autori quasi sempre in base a criteri stilistici; Lewis ci presenta una sorta di catena della lode che vede ogni autore lodare un antecedente ed essere lodato da un successore. 55 C.S. Lewis, L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale, Marietti, Genova 1990, p. 122. 56 C.S. Lewis, L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale, Marietti, Genova 1990, p. 146. 135 3. Il Medioevo Virgilio è per Dante colui che gli ha insegnato «lo bello stilo» (Inferno, I, 86). Petrarca è per Chaucer, nel Clerk’s Prologue, l’uomo che fece risplendere l’Italia intera con la sua «dolce retorica» (E 31). E nel Book of Thebes Chaucer è per Lydgate il fiore (flour) dei poeti britannici per la sua «superiorità in retorica ed eloquenza» (Prologo, 40)57 . Manca l’anello che lega Dante a Petrarca: forse è parso sufficientemente noto a Lewis da poter essere, in questa sede, tralasciato. Il secondo contributo di Lewis che prenderemo in esame, The Allegory of Love, tratta di un tema proprio della cultura laica medievale attraverso le metamorfosi che ha subito nello scorrere del tempo. Prima di occuparci di questo dovremo però prendere in analisi come secondo Lewis appaia l’idea stessa di amore nella cultura occidentale così da veder emergere quanto dell’amore classico rimane nella concezione medievale e quanto invece sia mutato nell’immaginario di questo nuovo mondo; l’elemento di assoluta novità appare a suo parere innegabile. I poeti francesi scopersero o inventarono o espressero per primi nel secolo undicesimo quella specie romantica di passione che gli inglesi ancora cantavano nell’Ottocento. Effettuarono un cambiamento che non lasciò intatto nemmeno un cantuccio della nostra etica, immaginazione e vita quotidiana, ed eressero barriere invalicabili tra noi, il passato classico e l’oriente di oggigiorno58 . La permanenza di questo cambiamento è tale che la difficoltà principale che si incontra a studiarla consiste proprio nel figurarci una realtà culturale in cui sia assente, o quanto meno più sfumato; tanto che siamo quasi portati a leggerla anche dove non esiste e quindi a sottovalutare la novità medievale. L’amore nel mondo classico è, per Lewis, solo «la comodità e l’utilità di una buona mo57 C.S. Lewis, L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale, Marietti, Genova 1990, p. 153. 58 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 6. 136 3.5. La nuova cultura laica, dalla corte alle università glie59 » ben espresso dall’amore di Odisseo per Penelope; il resto gli appare così lontano da essere considerato alla stregua di una malattia, una tragica follia, come sono delineate le figure di Medea, Fedra e Didone. L’eccesso d’amore, in questi casi estremi, diventa solo un gioco di eccessi, poco più che un luogo poetico. Se Catullo e Properzio variano il tono, con grida di rabbia e disperazione, non è perché siano dei romantici, quanto piuttosto degli esibizionisti60 . Proprio la forza residua della “religione d’amore” ci porta a leggere nelle loro opere, e in altre, tratti distintivi di un sentimento che Lewis ritiene solo posteriore e in cui questi autori non hanno alcuna parte, merito o colpa che sia. Tutto questo non esclude però una forma di permanenza dell’antico nel Medioevo, anche in riferimento alla concezione d’amore. Il Medioevo di nuovo opera una scelta nella larga messe della letteratura antica e pone alcuni testi come fondamento, fonte, del proprio ideale amoroso. La prima di queste fonti, filosofica, è il cosidetto “amor platonico”, che pure di platonico non ha pressoché nulla. Il travisamento operato su questa fonte non nega però che la permanenza di questo autore nei favori medievali è in parte dovuto a questa errata lettura. La seconda fonte, letteraria, è Ovidio, anch’esso almeno in parte frainteso. Forse il più caratteristico degli antichi scrittori amorosi e certo il più influente durante il medioevo è Ovidio. [...] Il disegno stesso della sua Arte dell’amore presuppone un pubblico per cui l’amore è uno dei peccatucci minori della vita, e lo scherzo consiste proprio nel prenderlo sul serio, dedicandogli un trattato con regole ed esempi en règle su come condurre appropriatamente gli amori 59 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 60 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 6. 7. 137 3. Il Medioevo illeciti. È divertente alla stregua del solenne rituale di vecchi gentiluomini che si accingono a fare una bella bevuta. Il cibo, il bere e il sesso sono i più antichi argomenti di scherzo, e una forma abituale dello scherzo è la pretesa di fare sul serio61 . Gli intellettuali medievali, per i quali l’amore stava smettendo di essere una piccola cosa per ottenere uno statuto quasi religioso, lo presero invece molto sul serio; per loro, che gestivano il matrimonio alla stregua di un contratto d’affari, alla fine l’amore illecito divenne l’unica vera forma d’amore. Lewis stenta a riconoscere in questo l’influsso del culto della Vergine, sebbene ammetta che nei microcosmi germanici dove l’influsso del cristianesimo arrivò più tardi non vi sia traccia di amor romantico. Allo stesso modo ritiene che l’influsso ovidiano non sia il dato fondamentale di questa trasformazione dell’amore dal momento che la culla di questo sentimento nuovo fu la Provenza e l’influenza di Ovidio è maggiore altrove. Una teoria più promettente cerca di riportare il tutto a Ovidio ma si trova di fronte - oltre che all’inadeguatezza suggerita sopra - alla fatale difficoltà che tutte le prove indicano una influenza ovidiana molto più forte nel nord che nel sud della Francia62 . Alla fin fine possiamo definire come l’elemento più importante che portò alla nascita dell’amor cortese, in Provenza anziché altrove, in alcune considerazioni di tipo storico-sociologico piuttosto che letterarie. Solo in quei luoghi fu possibile una cavalleria senza terra, dove l’onore del cavaliere poteva valere più delle rendite fondiare e dove l’assenza di queste impediva a molti di loro la possibilità del matrimonio e quindi imponeva loro come unico possibile, l’amore adultero. Tutto questo ovviamente non spiega la complessità del fenomeno dal momento che come ricorda Lewis «se l’amor cortese ha bisogno dell’adulterio, non per questo l’adulterio necessita dell’amor cortese63 ». 61 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, pp. 7-8. 62 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 13. 63 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, pp. 13-14. 138 3.5. La nuova cultura laica, dalla corte alle università Lasciamo adesso da parte l’indagine sui motivi della iniziale collocazione di questo nuovo sentire, che ci allontana dai nostri propositi; abbiamo parlato del cambiamento dell’idea dell’amore, vediamo ora come cambia l’allegoria stessa. L’allegoria non è infatti un’invenzione medievale, e non solo è un dato già acquisito dal mondo antico; si tratta in vero di una forma stessa del pensiero. L’allegoria, per qualche verso, non appartiene all’uomo medievale ma piuttosto all’uomo o, anche, alla mente in generale. È nella natura stessa del pensiero e del linguaggio rappresentare l’immateriale nei termini del percettibile64 . Questo è dunque l’allegoria che, come ci dice ancora Lewis, è contemporaneamente molto vicina e molto distante dal simbolismo, anch’esso tipico della mente medievale. Il simbolismo costruisce anch’esso un ponte tra reale e irreale, possiamo quasi dire che costruisce la carreggiata opposta; dal mondo reale verso qualcosa che è vissuto come se portasse una carica di realtà ancora maggiore. La differenza tra i due metodi non potrebbe essere maggiore. L’allegorista lascia il dato - le sue passioni - per parlare di qualcosa che, per sua ammissione, è meno reale e addirittura una finzione, mentre il simbolista lascia il dato per mettersi alla ricerca di qualcosa di più reale65 . Il simbolo è anch’esso molto importante nel Medioevo, basti a questo proposito pensare ai bestiari, sebbene il periodo storico che ne darà la massima espressione sia piuttosto l’epoca romantica; ciò nonostante lo studio delle sue fonti, come abbiamo già detto a proposito della cosmologia e dell’amor cortese, sarà significativo per la nostra ricerca. Possiamo vedere che anche il simbolismo affonda le sue radici, filosofiche e letterarie, nel mondo antico, a questo proposito dobbiamo di nuove fare, come prima cosa, il nome di Platone. 64 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 65 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 44. 45. 139 3. Il Medioevo Il simbolismo ci arriva dalla Grecia e fa la sua prima comparsa nel pensiero europeo con i dialoghi di Platone. Il Sole è l’imitazione di Dio, il tempo è l’immagine mobile dell’eternità, ogni cosa visibile esiste solo in quanto riesce ad imitare la Forma. Né la scarsità di manoscritti né le difficoltà di diffusione delle dottrine greche impedirono al medioevo di assorbire questa teoria. Non è mio compito tracciare qui in dettaglio i modi del suo percorso, e risulterebbe forse ozioso ricercare delle fonti particolari. La diffusione del platonismo o del neo-platonismo (seppure esiste la differenza) di Agostino, dello Pseudo-Dionigi, di Macrobio o del divino volgarizzatore Boezio fornirono l’atmosfera stessa in cui si ridestò il nuovo mondo. Negli scritti di Ugo di San Vittore si vede come lo spirito del simbolismo fosse pienamente assorbito dal pensiero medievale giunto a maturazione66 . Il dato che quindi emerge non si discosta da quanto detto finora, anzi conferma quanto già detto sulla temperie culturale medievale. Torniamo adesso all’allegoria. Nel mondo romano la distinzione tra dei e personificazioni era labile e discontinua e dipendeva per lo più da motivazioni di puro opportunismo formale, così che poteva variare da autore ad autore ma anche da opera e opera dello stesso autore, così come la struttura del testo di volta in volta richiedeva. Lewis ritiene trattarsi di qualcosa, insomma, che non aveva ancora trovato una chiara classificazione nel mondo antico. Siamo costretti a concludere che una distinzione per noi fondamentale - la distinzione, voglio dire, fra un’astrazione universale e uno spirito vivente - si presentava soltanto vaga e intermittente alla mente dei romani67 . L’allegoria emerse, secondo Lewis, quando questa confusione andò esaurendosi e la differenza tra personificazione e mito venne messa meglio a fuoco. Secondo 66 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, pp. 45-46. 67 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, pp. 48-49. 140 3.5. La nuova cultura laica, dalla corte alle università Lewis questo accadde la prima volta nella Tebaide di Stazio. Non si tratta a suo parere di una considerazione quantitativa, l’importante non è dunque la frequenza con cui le personificazioni appaiono in paragone, ad esempio, con l’Eneide; si tratta piuttosto della qualità delle stesse. Nella Tebaide è infatti all’opera un duplice processo. Da un lato gli dèi divengono sempre più simili a mere personificazioni, mentre dall’altro le personificazioni travalicano sempre più i limiti loro imposti da Johnson68 . Di qui Lewis passa a prendere in analisi diverse allegorie presenti in Stazio: analizzandone il comportamento in quanto autentici personaggi. L’opera di Stazio appare infine come sintomo di un fondamentale cambiamento nella stessa ricezione della religione romana; la personificazione di Natura ben esemplifica questo passaggio. Questa «Natura» a cui Pietà può appellarsi al di sopra di uomini e dèi, altro non è che l’Uno, alla cui luce gli olimpici cominciano ad impallidire. Ella è il Tutto (o il dio, la Natura, il Cosmo) degli stoici; la phusis di Marc’Aurelio, la Natura di Seneca e la progenitrice della Natura di Alano e della Kinde di Chaucer69 . Il secondo momento di passaggio dello stabilirsi della allegoria come mezzo significativo d’espressione si può trovare nella Psycomachia di Prudenzio; il primo poema compiutamente allegorico sebbene sia anche un’opera di non massimo ingegno. Resta comunque un passaggio significativo in quanto l’allegoria smette qui di essere un elemento dell’ornatus per diventare la stessa spina dorsale dell’opera. L’analisi prosegue individuando in tre autori la progressiva trasformazione in allegoria dell’antica mitologia: Claudiano di cui Lewis cita diverse opere (De consulatu Stilichonis, In Rufinum, Epithalamium de nuptiis Honorii Augusti), Sidonio Apollinare ed Ennodio con i rispettivi Carmina; 68 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 49. Johnson, citato da Lewis alla pagina precedente diceva «Fama racconta una vicenda e Vittoria svolazza sul capo di un generale o va ad appollaiarsi su di un vessillo, ma né l’una né l’altra sanno far niente di diverso». 69 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 57. 141 3. Il Medioevo a questi tre nomi Lewis ne aggiunge anche un quarto, il De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, un po’ discosto dagli altri «giacché questo nostro universo che ha prodotto l’orchidea nera e la giraffa non ha mai prodotto niente di più bizzarro di Marziano Capella70 ». L’importanza di quest’ultimo è fondamentale perché, come ricorda Lewis, divenne un libro di testo nel Medioevo, nonostante risulti all’occhio moderno quasi indigesto ebbe il merito di arricchire il Medioevo di una connotazione che gli è peculiare. Egli stabilì un precedente disastroso per quanto riguardava l’interminabile lunghezza e la mancanza di struttura delle opere letterarie. Eppure non sono del tutto convinto che il medioevo abbia avuto la mano così infelice nello scegliersi un maestro. può darsi che Marziano fosse una fata cattiva, ma sangue fatato nelle vene lo aveva di certo71 . Questo fu senz’altro il suo fondamentale apporto; l’ingresso della fantasia nella letteratura, fantasia riconosciuta come tale. Il mondo antico credeva ai propri miti, la fantasia è una conquista di uno spirito del tempo che diviene maturo, «non si rintraccia alle origini di nessuna letteratura perché alle origini le meraviglie sono meraviglie considerate reali72 ». Il mondo culturale si impossessa così di un intero nuovo e sconosciuto continente che potrà così a sua volta produrre generi nuovi per cui cercare nuove vette di eccellenza. Il poeta post-rinascimentale ha a sua disposizione il probabile, il meraviglioso-considerato-come-realtà, e il meraviglioso-riconosciutocome-fantasia. Sono questi i tre mondi a cui nacquero Spenser, Shakespeare e Milton73 . 70 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 71 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 72 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 73 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 76. 79. 80. 80. 142 3.5. La nuova cultura laica, dalla corte alle università Una volta fondate le fonti dell’immaginario allegorico medievale, Lewis passa in rassegna molto velocemente gli episodi successivi della trasmissione dell’allegoria fino al comparire del Roman de la Rose, che sarà il centro della sua indagine. La strada consolidata da Marziano passa attraverso Boezio con il De consolatione philosophiae, sebbene possa sembrare starno porre questo autore tra i poeti allegorici, Fulgenzio con il Continentia vergiliana, Fortunato con l’Epitalamio per Brunilde, Audrado con i Carmina e Sedulio Scoto con la Contesa del giglio e della rosa. Questi autori non vengono qui considerati in quanto hanno prodotto opere compiutamente allegoriche, dal momento che, come ci ricorda Lewis, le Età Oscure segnano un arresto anche per l’allegoria, bensì per il perdurare, per l’uso reiterato che si fa di questa figura retorica. L’allegoria rifiorirà solo con l’avvento della scuola di Chartres e del De mundi universitate sive megacosmus et microcosmus di Bernardo Silvestre. La scuola di Chartres era platonica, nel senso in cui il platonismo veniva inteso in quel periodo, quando i testi importanti erano la traduzione del Timeo ad opera di Calcidio, e lo pseudoDionigi. Era inoltre umanistica in entrambe le accezioni del termine, e naturalistica nel duplice senso di studio e riverenza per la natura74 . Prima di arrivare al Roman de la Rose dobbiamo fare un’ultima fermata e prender velocemente in analisi l’opera di Chrétien; nel capitolo, il terzo, dedicato al Roman Lewis tira le redini del discorso e ci concede un’agile sintesi di quanto ha dimostrato nelle pagine precedenti Si è già visto che le condizioni della società avviarono il nuovo sentimento in direzione dell’adulterio e dell’umiltà, che la situazione letteraria lo ricollegò alla preesistente tradizione ovidiana, sia pure modificandola e persino fraintendendola, che il ciclo arturiano gli offrì i contenuti e che, in mano ad un grande poeta, la storia 74 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 86. 143 3. Il Medioevo di Artù, trattata in termini di amore cortese, fu occasione dei primi esempi notevoli di narrativa psicologica e sentimentale75 . Chrétien usa l’allegoria quando vuole esprimere concetti psicologici e lo fa agevolemente dal momento che l’allegoria stessa era nata per assolvere questo bisogno letterario. L’allegoria però nelle sue opere non travalica mai lo spazio che gli viene opportunamente concesso: l’attenzione di Chrétien era infatti attratta da due diversi interessi, fantasia e allegoria, che sebbene fossero due elementi di fondamentale importanza per il mondo medievale, non arrivano mai, nelle sue opere, a fondersi compiutamente. Nella sua opera egli utilizza due metodi diversi perché fonde due interessi diversi. Vuole soddisfare il gusto dell’avventura fantastica e ci riesce in migliaia di distici (di cui poco si parla nelle storie letterarie), che cantano le oneste gesta di onesti cavalieri e incantamenti, tutto sommato non dissimili da qualsiasi altro romanzo in versi. Ma per soddisfare anche il gusto di un raffinato sentimentalismo, interrompe di tanto in tanto le sue narrazioni oggettive con lunghi soliloqui e introspezioni dove, come si è già notato, tende sempre a scivolare nell’allegoria. Il difetto fondamentale di Chrétien è che questi due tipi di interessi procedono paralleli senza mai fondersi davvero76 . Chrétien quindi non compie il passo finale della trasformazione e cede quindi il centro dell’attenzione al Roman de la Rose. Il Roman riporta in primo piano l’amore e lo scinde ravvisandone due forme diverse, due diversi personaggi con prerogative e comportamenti molto distanti. Nell’opera allegorica più significativa del Medioevo possiamo scorgere il ritorno dell’amore come fatto naturalmente fisico e in questo possiamo cogliere un importante legame con la tradizione antica e l’opera di un grande scrittore latino, fin qui mai citato: Lucrezio. 75 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 109. 76 Jean Francois Lafitiau, Moeurs des sauvages américains comparées aux moeurs des premiers temps, Paris 1727, pp. 109-110. 144 3.5. La nuova cultura laica, dalla corte alle università Nel Roman Venere rappresenta l’appetito sessuale - il puro fatto naturale in contrapposizione con il dio d’Amore che è invece il sentimento raffinato. È la forza generatrice della natura che la scuola di Chartres aveva insegnato agli uomini a contemplare filosoficamente e riguardare con gli occhi di Lucrezio e non di Ovidio o di San Girolamo. La distinzione fra Venere e suo figlio, che in Jean de Meun diventa esplicita, è solo implicita in Guillaume e tuttavia necessaria alla comprensione della sua opera77 . Il Roman de la Rose, pur essendo la migliore interpretazione allegorica fin allora mai prodotta non assurge al titolo di Classico; gli manca la caratteristica di unità che fin dai Greci caratterizzava l’eccellenza letteraria78 . Questa carenza non è in se stessa dovuta all’epoca che la vide nascere o all’allegoria che ne costituisce l’ossatura; un’altra opera, anch’essa di impianto fortemente allegorico riuscirà dove il Roman aveva fallito. Si tratta ovviamente della Divina Commedia. Tutte le idee di Jean, in sé per sé, si potevano fondere insieme, ma lui non fu capace di farlo. La natura e la portata del suo fallimento diventano evidenti non appena si pensi a Dante. Eppure, per strano che possa apparire, non è per questo meno vero che il materiale dei due poeti è molto simile. Si può quasi dire che non c’è nulla in Dante che non si trovasse anche in Jean de Meun, fuorché Dante, naturalemente. Il punto di partenza è lo stesso per entrambi i poeti ed è l’amore cortese, in entrambi si trova lo stesso accumulo di dottrina scolastica, e la stessa determinazione di impartirla, la stessa serie illimitata di esperienze eterogenee, sia reali che fantastiche. se è stato detto che i due poeti differiscono solo riguardo alla loro capacità tecnica, rispondo che la tecnica non è altro che una manifestazione della facoltà unificatrice. La capacità di saldare in un tutto grezzi ammassi di esperienza è la medesima 77 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 78 Si veda, a questo proposito il capitolo 6.4. 116. 145 3. Il Medioevo che, in una singola frase, estrae dal caos della lingua la parola giusta e il perfetto espediente sintattico. Così, in un certo senso, Jean non mancava di nessuna delle capacità di Dante, se non quella di coordinare. Questa è la ragione per cui Dante rimane un forte candidato ai massimi onori poetici di tutto il mondo, mentre Jean lo leggono solo i letterati di professione e neanche tanti79 . L’importanza del Roman va ravvisata non, come abbiamo detto, nel raggiungimento dell’eccellenza, quanto piuttosto nella sua produttività postuma, nel suo essere un libro germinativo; ispirazione e modello per molti autori successivi in luoghi anche distanti. Si tratta di una caratteristica che condivide con la Commedia, che però riesce ad andare oltre. Non possiamo considerare il Roman un Classico del pensiero occidentale, resta comunque un Classico della letteratura francese e un Classico del pensiero occidentale medievale. Il Roman de la Rose è uno dei maggiori «successi letterari», nel senso comune del termine, di tutti i tempi. Ne esistono trecento manoscritti, fu parafrasato e moralizzato in prosa; gli si «rispose», lo si tradusse ed imitò in tedesco, inglese ed italiano, e Agrippa d’Aubigny, nel Seicento, ne parla ancora come di un’opera ammirata. I poemi che ne derivano costituiscono il più importante fenomeno letterario del basso medioevo: come libro germinativo, in questi secoli, non è secondo a nessun altro, se non la Bibbia e il De consolatione philosophiae. Tutto ciò, nondimeno, può venir facilmente frainteso: il Roman non è il primo di una lunga serie di poemi ad esso simili nella loro essenza; al contrario, ben pochi, per non dir nessuno, tentarono di rifare quel che aveva fatto Guillaume de Lorris, vale a dire raccontare una vicenda o storia d’amore per mezzo di una allegoria continuata. Di allegorie continuate se ne trovano molte che non trattano, però, d’amore, o perlomeno non esclusivamente80 . 79 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 149. 80 151. 146 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 3.5. La nuova cultura laica, dalla corte alle università L’autore allegorico che viene presentato nel capitolo successivo, Chaucer, al contrario riesce a raggiungere la vetta dell’universalità anche nel riconoscimento che ne fa Lewis. L’opera citata è il Troilus, il che ci ricorda subito la sua fonte più autorevole, la fonte della materia stessa dell’opera che era già stata trattata da Boccaccio nel Filostrato. Chaucer riporta indietro le lancette del tempo e riesce a medievalizzare in modo compiuto la storia e l’opera. In ogni età i conseguimenti hanno meno dei tentativi il sapore della propria epoca e parlano un linguaggio universale. Anzi è proprio da questo che li riconosciamo per opere riuscite. Le cose migliori si trovano a casa loro in ogni epoca e vi rimangono per sempre, nel proprio distretto di spazio e di tempo. Il Troilus è un’opera «moderna», se si vuole - ma la definizione di eterna sarebbe più saggia e meno presuntuosa - perché è perfettamente e schiettamente medievale81 . Dunque il Troilus è un’opera completamente medievale e pure di materia classica. Più di molte altre opere si configura come un ponte che dall’antichità, attraverso il Medioevo, giunge fino ai lettori contemporanei. L’importanza di Chaucer è ormai riconosciuta, quanto meno all’interno della letteratura inglese, così, ad esempio, ne parla Boitani. Sul suolo inglese, ad esempio, e contemporaneo al Sir Gawain e il Cavaliere Verde, opera uno scrittore che è il primo grande classico di quella letteratura, Geoffrey Chaucer. [...] In altre parole, negli ultimi decenni del Trecento Chaucer riassume tutta la tradizione romanzesca precedente82 . Chaucer, come ricorda Boitani83 , è autentico interprete di un sentire comune del suo tempo; da una parte riconosce fattivamente, usandoli come fonti e collocandosi subito dopo di essi, il valore degli scrittori dell’antichità, dall’altra parte cerca con forza e fermezza di staccarsi da loro in quanto esponenti di 81 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, pp. 171-172. 82 iero Boitani, Letteratura europea e Medioevo volgare, Il Mulino, Bologna 2007, p. 51. 83 iero Boitani, Letteratura europea e Medioevo volgare, Il Mulino, Bologna 2007, p. 39. 147 3. Il Medioevo una cultura che aveva fallacemente fondato la propria fiducia in dei «falsi e bugiardi». But litel book, no makyng thow n’envie, But subgit be to alle poesye; And kis the steppes where as thow seest pace Virgile, Ovide, Omer, Lucan, and Stace84 . In questo piccolo gruppo di illustri predecessori sembra emergere anche, attraverso un’evidente reminiscenza anche il nome di Dante. Rispetto al conto che fece Dante manca solo Orazio; Stazio, come abbiamo visto, manca nel gruppo solo perché Dante lo incontrerà poi sul Purgatorio. Allo stesso modo possiamo aggiungere alcuni nomi anche per Chaucer che, nella gran sala del Palazzo della Fama, «contempla gli scrittori del passato e le loro «materie»: Flavio Giuseppe ed altri sette autori ebraici, Stazio e Tebe, gli scrittori di Troia, Virgilio ed Enea, Ovidio e l’Amore, Lucano e Roma85 ». La predilezione di Chaucer per l’antichità, a volte sbandierata e a volte ripudiata è espressa chiaramente in un’altra sua opera The Parlement of Foules dove arriva a dire che «dai libri antichi viene tutta la nuova scienza che si apprende86 ». Il valore dell’opera di Chaucer, secondo Boitani così come per Lewis, è quindi quello di essere stato il migliore interprete di un’epoca, con in più l’opportunità, essendo arrivato alla fine di questa, di essere in qualche modo esaustivo. Potrebbe sembrare che le scelte di Chaucer siano fuori del comune nell’Inghilterra del Trecento, che esse siano dovute alla straordinaria autocoscienza del suo massimo poeta. Non è così. Con l’eccezione di Boccaccio, tutti i nomi fatti da Geoffrey ritornano nella cultura generale del secolo, tra intellettuali così diversi come Gower e il vescovo Reed87 . 84 Troilus and Criseide V, 1852-1855 iero Boitani, Letteratura europea e Medioevo volgare, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 211-212. 86 The Parlement of Foules, 22-25 87 Piero Boitani, Letteratura europea e Medioevo volgare, Il Mulino, Bologna 2007, p. 213. 85 148 3.5. La nuova cultura laica, dalla corte alle università Torniamo a Lewis che a questo punto abbandona il Medioevo e continua a seguire da presso la storia del genere allegorico. Lasciamo dunque da parte per un momento l’impianto cronologico che abbiamo scelto per questa parte e affacciamoci verso le epoche successive perché l’analisi dell’allegoria da modo a Lewis di esprimere il suo giudizio di valore anche su opere di periodo successivo: Gower, Thomas Usk, Lydgate e Spenser. Il capitolo sulla Faerie Queene è molto interessante per la nostra analisi in quanto questa costituisce quasi il pretesto per un grande elogio dell’epica italiana; questa infatti è la progenitrice diretta dell’opera di Spenser. Se il poema spenseriano non avesse modelli più recenti, se ci arrivasse dal Roman de la Rose attraverso una evoluzione ininterrotta, sarebbe straordinariamente più notevole la sua originalità che non la fedeltà ai modelli. E infatti esso discende in linea diretta non dall’allegoria inglese, ma, naturalemente, dall’epica italiana88 . L’opinione di Lewis sull’epica italiana è netta, non ammette alcuna forma di mezze misure, per lui tutta quanta sembra aver raggiunto la somma eccellenza. L’epica romantica italiana è uno dei grandi trofei del genio europeo: un genere genuino, che non si può rimpiazzare con altri, e semplificato da una produzione estremamente copiosa e ricca di talento. È uno dei «successi», dei risultati indiscussi89 . L’epica italiana - Boiardo, Ariosto, Tasso - viene costantemente messa in paragone con altre opere epiche riuscendone sempre a testa alta, tanto che Lewis arriva ad asserire che «non esistono, però, equivalenti dello stesso livello dell’Orlando innamorato e dell’Orlando furioso90 »; questo avviene anche a discapito dello stesso Spenser che dà il titolo al capitolo e di cui pure dice 88 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 294. 89 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 295. 90 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 297. 149 3. Il Medioevo La sua opera è un tutto unico, una cosa viva e in continua crescita, una pianta; simile all’albero stesso della vita, con i rami che raggiungono il cielo e le radici all’inferno91 . Spenser ebbe insomma il merito di fungere da ponte tra Medioevo ed Età moderna, tra cielo e inferno come spiega meglio in un altro passo. Esiste una storia della grande letteratura che ha un ritmo più lento di quella della letteratura in generale e che si muove in regioni più alte. Le cose più grandi non operano in fretta. Solo dopo secoli è divenuta evidente la posizione di Spenser, e ora egli ci appare il grande mediatore fra il medioevo e la poesia moderna, colui che ci ha salvati dalla catastrofe di un rinascimento troppo totale92 . Torniamo adesso al giudizio sull’epica italiana espresso da Lewis che salva Boiardo nonostante l’incompiutezza dell’opera, in una dimostrazione di fiducia che non arriva ad essere imbarazzante solo per la diversa provenienza geografica di elogiante e elogiato. Boiardo non perde mai la testa e non v’è dubbio che, s’egli avesse terminato il suo poema, tutte le fila si sarebbero ordinatamente ricongiunte. In quanto a Spenser, ha un intreccio così esiguo, a paragone con l’Italiano - un estratto in prosa della Faerie Queene sarebbe una bagatella messo in confronto con un riassunto dell’Orlando innamorato - e procede così lentamente, che non può dar neanche l’idea dello «scherzo» del Boiardo93 . Anche nel paragone con le opere epiche, e tragiche, antiche l’epica italiana mantiene il suo “decoro”; così è il caso di Ariosto che supera Boiardo e raggiunge Dante. 91 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 357. 92 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 357. 93 297. 150 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 3.5. La nuova cultura laica, dalla corte alle università L’Ariosto è riconosciuto come il maggior poeta italiano dopo Dante, ma forse la sua superiorità rispetto al Boiardo non è immediatamente chiara per un inglese94 . Ancora è messo in paragone con la migliore tragedia antica Nel suo strano modo, l’Orlando furioso è un capolavoro di costruzione all’altezza dell’Edipo re95 . Altrove invece condivide la grandezza con Omero e, di nuovo, con Dante Per chi si schiera con Atene, Londra e Oxford, come faccio io, Ariosto non è certo un «grande poeta»: se si lascia però da parte «l’elevata serietà» e si crede che la vivezza, l’armonia e un’assoluta supremazia tecnica siano elementi sufficienti a costituire la grandezza, allora l’Orlando furioso sta sullo stesso piano dell’Iliade e della Divina Commedia96 . L’opera dell’Ariosto pare a Lewis inesauribile, ne elogia la capacità di mantenere il tutto in armonia mirabile e la fatica, lo sforzo della creazione che pur resta inavvertibile; leggere Ariosto, così come appare dalle parole di Lewis sembra un’esperienza unica e imperdibile. In questa sua apologia dell’epica italiana traspare non solo l’elogio del critico ma anche il sincero plauso ed entusiasmo del lettore privato, una fotografia davvero privata delle abitudini di lettore di Lewis. Stancarsi dell’Ariosto vuol dire stancarsi del mondo intero. Nel momento stesso che si comincia a credere di non poterne più di avventure, ecco che ne comincia un’altra con qualcosa, all’esordio, di così esilarante, arguto e così poco scontato, che si decide di leggerla, almeno questa, fino in fondo. A questo punto si è perduti: 94 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 298. 95 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 299. 96 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 300 151 3. Il Medioevo si è costretti ad andare avanti fino all’ora di coricarsi, e il mattino seguente si ricomincia daccapo. L’abilità con cui l’interesse è mantenuto costante rimane quasi sempre in ombra97 . La presentazione dell’epica italiana segue un percorso in crescendo, un climax che vede l’esponente successivo superare il precedente; pur di continuare il suo elogio Lewis parla anche di Tasso, tradendo lo stesso titolo del suo capitolo dal momento che ammette che la Faerie Queene non ne fu, se non sporadicamente, influenzata. Così come Ariosto aveva superato Boiardo, Tasso riesce a superare entrambi i predecessori riuscendo a riconsegnare all’epica italiana la serietà dell’epica antica; supera insomma l’unico difetto che a suo parere si può contestare ad Ariosto. La Gerusalemme liberata di Tasso merita a suo parere moltissimi elogi, più ancora che le due opere già citate è un tentativo - riuscito - di riportare l’epica romantica alla vera serietà dell’epica e all’unità di azione, pur mantenendo quant’è possibile della sua varietà, dei suoi interessi amorosi e del suo romanticismo98 . e ancora La si può leggere anche solo per la storia da capo a fondo. La sua misura di realismo e di fantasia è la più felice che si possa immaginare. La sua nobiltà e il suo fervore religioso, niente affatto sforzati, la pongono su di un piano diverso da altri poemi analoghi99 . Il favore che accorda Lewis a questa parte di letteratura è ovviamente un giudizio anche personale che ben si può evincere dalle sua parole conclusive al paragrafo 97 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 299. 98 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 300. 99 300. 152 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 3.6. Dante e la letteratura volgare Il dottor Johnson descrisse una volta il tipo di felicità ideale che avrebbe scelto, se non si fosse dovuto preoccupare del futuro. La mia scelta personale, con le medesime riserve, sarebbe leggere l’epica italiana - essere sempre convalescente di qualche lieve malattia, seduto accanto alla finestra, con la vista sul mare, e leggere questi poemi per otto ore al giorno di felicità100 . Lasciamo dunque Lewis e passiamo oltre; abbiamo visto qualcosa sulle fonti del pensiero medievale; il Medioevo porta però con sé anche innovazioni di portata ben più grandi, la nascita delle lingue romanze e il loro uso letterario porta naturalmente alla nascita delle letterature nazionali. Di questo importante argomento parleremo nel prossimo paragrafo. 3.6 Dante e la letteratura volgare Abbiamo visto in che modo l’ingresso nel mondo culturale delle nuove classi laiche arrivò a modificare l’impianto stesso della liceità culturale di forme e contenuti. Resta ancora da prendere in analisi l’innovazione fondamentale della forma base di questa nuova temperie culturale: il codice lingua. I nuovi detentori del potere politico, economico ed intellettuale d’Europa, i borghesi, si trovarono da subito a dover rendere conto della nuova lingua che usavano, dapprima solo per fini pratici e quindi anche per la produzione letteraria. Il contributo più importante in questo ambito è portato avanti da Dante nel De vulgari eloquentia101 ; un’autore di somma e riconosciuta grandezza tanto che Yeats poté definirlo come «la più alta fantasia della Cristianità102 ». Boitani usa parole diverse, il giudizio di valore che esprime è comunque di tono universale. La filologia e la critica (da De Sanctis a Ozanam, da Witte a Moore e Paget Toynbee) trattano l’opera dantesca alla stregua del 100 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, pp. 300-301. 101 Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di P. V. Mengaldo, Padova 1968. 102 W.B. Yeats, L’opera poetica, Mondadori, Milano 2005, p. 517. 153 3. Il Medioevo suo maestro Virgilio. Non più «sesto tra cotanto senno», Dante si staglia ormai, assieme ad Omero a Shakespeare, nella triade suprema103 . Già il titolo dell’opera che per prima prenderemo in esame, De vulgari eloquentia, risulta significativo perché riconosce al volgare la dignità di lingua nel momento che intende trattarne l’eloquenza. Dante inizia la sua peroratio sul volgare con un topos classico, motiva infatti il suo lavoro con l’assenza di altre opere che si prendano carico del compito, anche se solo parzialmente. Cum neminem ante nos de vulgaris eloquentiae doctrina quicquam inveniamus tractasse, atque talem scilicet eloquentiam penitus omnibus necessariam videamus104 . La novella necessità di regolare la pratica di una lingua proviene direttamente dall’uso della stessa che inizia ad essere veicolo intellettuale oltre che di servizio. Lo scopo dell’opera può sembrare distante dalla ricerca che ci siamo proposti, è però necessario ricordare che Dante, nel suo discorso, per argomentare la sua tesi fa più volte riferimento alle autorità riconosciute della sua epoca, sia per portare nuova forza alle proprie convinzioni, sia perché ritiene necessario confutarne alcuni dettagli. L’analisi di queste fonti, senza alcuna differenza tra le prime e le seconde, potrà quindi portare nuove prove a sostegno della nostra tesi. La prima fonte che viene presa in analisi, e anche la più spesso citata, è la Bibbia, a iniziare dai libri della Genesi e dei Numeri, la seconda è Ovidio di cui è citata anche l’opera. Si vero contra argumentetur quis de eo quod Ovidius dicit in quinto Metamorfoseos de picis loquentibus, dicimus quod hoc figurate dicit, aliud intelligens105 . 103 Piero Boitani, Letteratura europea e Medioevo volgare, Il Mulino, Bologna 2007, p. 245. De vulgari eloquentia, I, I, 1 Poiché non abbiamo trovato nessuno che prima di noi abbia trattato in qualche modo l’arte dell’eloquenza in volgare, e vediamo che questa eloquenza è senza dubbio a tutti profondamente necessaria Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di P. V. Mengaldo, Padova 1968. p. 41. 105 De vulgari eloquentia, I, II, 7 Se poi uno voglia ricavare argomenti contrari da ciò che dice 104 154 3.6. Dante e la letteratura volgare Dopo aver messo in chiaro questa e alcune altre premesse Dante passa a parlare della storia delle lingue a partire da Adamo fino ad arrivare alle lingue romanze e ai tre idiomi, Oc, Oil e Sì che prendono il nome dal termine usato per assentire. Il suo primo interesse è quello di dimostrarne l’origine comune; per fare questo inizia a mostrare le somiglianze delle tre lingue portando ad esempi dei versi poetici tratti da autori che usarono queste lingue. Nell’ordine sono Giraut de Bornelh, Re di Navarra e Guido Guinizzelli. Ciascuna di queste tre lingue pretende la palma del vincitore a cagione dell’uso che ne fecero i suoi più illustri autori. Detto questo Dante intende occuparsi solo della propria, la lingua del sì, prendendo in analisi tutte le sue varianti; prima di far questo scorre velocemente i “campioni” delle tre lingue. La lingua d’Oil vanta il primato nella produzione in prosa, basti pensare alla storia sacra, ai cicli romani e troiani, al ciclo di Artù oltre che alla produzione storica e trattatistica; la lingua d’Oc è stato il primo volgare ad essere usato per la produzione letteraria, a partire da Peire d’Alvernia; la lingua del Sì infine è la più aderente alla grammatica come seppe dimostrare Cino da Pistoia e lo stesso Dante106 . La fonte successiva, per le indicazioni geografiche, è Lucano107 ; per le indicazioni linguistiche invece cerca i suoi riferimenti tra i modi di dire e tra le opere scritte nei diversi volgari. Gli autori riportati in queste pagine non hanno però la valenza di autorità quanto piuttosto di esempio, sebbene Dante li scelga tra coloro che considera tra i migliori. Nel capitolo secondo Dante lascia l’intento descrittivo a favore di considerazioni più propriamente prescrittive; la sua prima fonte è Orazio e la Poetica108 seguito da Virgilio, citato come Poeta e attraverso la sua Eneide109 e poi nominato direttamente110 . Più avanti Dante ci consegna invece una sorta di elenco degli autori eccellenti nella forma e quindi definiti «regolati»; gli autori che il poeta dovrebbe Ovidio nel quinto delle Metamorfosi a proposito delle gazze parlanti, sostengo che egli lo dice per figura, con significato allegorico Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di P. V. Mengaldo, Padova 1968, p. 46. 106 De vulgari eloquentia, I, X, 2 107 De vulgari eloquentia, I, X, 4-7 108 De vulgari eloquentia, II, IV, 4 109 De vulgari eloquentia, II, IV, 11 110 De vulgari eloquentia, II, VIII, 4 155 3. Il Medioevo aver studiato perche gli siano di modello. Et fortassis utilissimum foret ad illam habituandam regulatos vidisse poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum, nec non alios qui usi sunt altissimam prosas, ut Titum Livium, Plinium, Frontinum, Paulum Orosium, et multos alios quos amica sollicitudo nos visitare invitat111 . Non resta molto altro da segnalare in questa sua opera, del resto l’intento dichiarato era diverso dal nostro; Dante continua cercando di identificare quale sia tra le varianti italiche la migliore e passa poi a trattare delle forme poetiche a suo parere più degne. Non lasceremo però subito Dante dal momento che altrove, nella sua grande produzione, è possibile trovare dati aderenti al nostro intento. Non è possibile trattare Dante in riferimento al canone o al Classico senza prendere in considerazione, almeno brevemente, la sua opera maggiore, la Comedia, che si configura come opera-mondo in cui tutto, e quindi anche il Classico, è trattato. Nel quarto canto dell’Inferno Dante arriva nel Limbo dove ha modo di tracciare i confini dell’eccellenza dell’intelletto umano. Quattro uomini si presentano al suo cospetto e sono i più grandi poeti mai esistiti; subito salutano il ritorno di Virgilio, il quinto del gruppo che si era allontanato per correre in soccorso di Dante nella selva. «Onorate l’altissimo poeta: l’ombra sua torna che era dipartita». Poi che la voce fu restata e queta, vidi quattro grand’ombre a noi venire: sembianza avean né trista né lieta. Lo buon maestro cominciò a dire: «Mira colui con quella spada in mano, che vien dinanzi ai tre sì come sire. 111 De vulgari eloquentia, II, VI, 7 E sarebbe forse la cosa più utile, per acquisirne l’abito, avere studiaato i poeti regolati, ovvero Virgilio, Ovidio nelle Metamorfosi, Stazio e Lucano, e anche altri che usarono la prosa più elevata, come Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio, e ancora molti altri, a frequentare i quali amoroso interesse ci sospinge. Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di P. V. Mengaldo, Padova 1968, pp. 162-164. 156 3.6. Dante e la letteratura volgare Quelli è Omero poeta sovrano; l’altro è Orazio satiro che vene; Ovidio è il terzo, e l’ultimo Lucano. Però che ciascun meco si convene nel nome che sonò la voce sola, fannomi onore, e di ciò fanno bene112 ». L’ordine di presentazione delle quattro ombre appare essere anche un ordine di importanza: prima di tutti viene Omero, regale capo della delegazione, a cui sono dedicati due versi; segue Orazio che occupa da solo un solo verso; ultimi Ovidio e Lucano che condividono lo stesso verso. La posizione che avrebbe qui occupato Virgilio non è nota, nota invece è la predilezione di Dante che ne fa la sua guida, o meglio - secondo le parole di Dante stesso che lo invoca - duca, signore e maestro113 . Dante continua a descrivere l’incontro e, come indicò nel suo commento su questi versi, Momigliano, «Dante si isola dalla letteratura contemporanea e si pone tra i continuatori della grande arte dell’antichità», racconta infatti come, dopo una breve discussione, sia stato accolto dalle quattro ombre con soddisfazione anche dello stesso Virgilio. Così vidi adunar la bella scola di quel signor dell’altissimo canto che sovra gli altri com’aquila vola. da ch’ebber ragionato insieme alquanto, volsersi a me con salutevol cenno; e ’l mio maestro sorrise di tanto: e più d’onore ancora assai mi fenno, ch’e’ sì mi fecer della loro schiera, sì ch’io fui sesto tra cotanto senno114 . La consapevolezza che aveva Dante della grandezza che stava raggiungendo è molto interessante, ne tratteremo poi nel capitolo 6.5. 112 Inferno IV, 80-93 Inferno II, 140 114 Inferno IV, 94-102 113 157 3. Il Medioevo Il racconto di Dante prosegue e i sei raggiungono il nobile castello che ospita gli spiriti magni, il che concede a Dante l’opportunità di un elenco; vi sono i grandi uomini e le grandi donne della storia e anche i grandi filosofi e scienziati. In mezzo a questi anche Dioscoride, Orfeo, Cicerone, Lino e Seneca. Qui l’episodio e il canto si concludono e Dante entra infine nell’inferno. Il novero dei grandi poeti non è però concluso; solo nel Purgatorio Dante incontrerà, trattato con lo stesso rispetto e riconoscenza, Stazio che dichiara così la sua cristianità e quindi il suo diritto ad essere nel Purgatorio invece che con gli altri nel Limbo. E pria ch’io conducessi i Greci a’ fiumi di Tebe poetando, ebb’io battesmo; ma per paura chiuso cristian fu’mi lungamente mostrando paganesimo115 Poco dopo, proprio su richiesta di Stazio, Virgilio informa Dante, e il lettore, degli altri illustri ospiti del Limbo, di coloro che Dante non ha incontrato nel suo passaggio. dimmi dov’è Terenzio nostro antico, Cecilio e Plauto e Vario, se lo sai: dimmi se son dannati, ed in quale vico». «Costoro e Persio e io e altri assai» rispuose il duca mio «siam, con quel greco che le Muse lattar più ch’altro mai, nel primo cinghio del carcere cieco: spesse fiate ragioniam del monte che sempre ha le nutrici nostre seco. Euripide v’è nosco e Antifonte, Simonide, Agatone e altri piùe greci che già di lauro ornar la fronte. Quivi si veggion delle genti tue Antigonè, Deifilè e Argia, 115 158 Purgatorio XXII, 88-91 3.6. Dante e la letteratura volgare e Ismenè sì trista come fue. Vedeisi quella che mostrò Langìa: evvi la figlia di Tiresia e Teti e con le suore sue Deidamìa»116 . Nello stesso gruppo, insieme agli autori, Dante pone anche i personaggi di diverse opere antiche, con uguale pretesa di veridicità d’esistenza. Questa pretesa di verità della letteratura, quando questa assurge ai massimi onori, è significativa e la riprenderemo in esame nel capitolo 6.6. Dante, abbiamo visto, si mette in coda a una degna processione di grandi autori, di Classici; li usa come fonti in molti passi e in molti altri diventa lui stesso la fonte per gli scrittori successivi, così Boitani: La consacrazione dantesca della similitudine fiore-cuore costituisce un evento culturale e poetico decisivo. Se in tante altre occasioni (e certo all’inizio dello stesso canto II dell’Inferno, con la terzina dell’«aere bruno») egli utilizza immagini derivate dai classici, qui è lui stesso a diventare un classico. Dopo di lui, «Quali fioretti» diviene un topos117 . La Comedia nella sua straordinaria ampiezza d’impianto permette a Dante di indicare anche i nuovi poeti, i suoi contemporanei degni di lode, questo dato, così importante e già segnalato nel De vulgari eloquentia, resta comunque lontano dall’ideale di Classico, possiamo invece ascriverlo al campo della nuova letteratura che si andava formando; il credito che questi ebbero presso Dante fa di loro dei maestri e precursori, di alcuni degli amici, ma non li consegna necessariamente al campo dei Classici. 116 117 Purgatorio XXII, 97-114 Piero Boitani, Letteratura europea e Medioevo volgare, Il Mulino, Bologna 2007, p. 86. 159 Capitolo 4 L’età moderna 4.1 Il libro stampato: una merce A questo punto1 è necessario interrompere un momento l’ordine del nostro discorso per far spazio ad un evento che da solo e con le sue molteplici conseguenze cambierà l’andamento e la percezione del fatto letterario e quindi anche la materia della nostra ricerca. Se all’occhio moderno spesso sembra strano il rapporto che ebbero gli uomini del Medioevo con la parola scritta, con l’assenza, quasi, dell’idea di autorialità che spesso emerge dallo studio dei manoscritti, anche il rapporto idealizzato che ancora oggi si immagina tra scrittore e lettore per il tramite dell’opera non è scevro da pregiudizi romantici. Le particolari modalità del sistema di produzione meccanico introdotto in campo librario dalla stampa a caratteri mobili e la legge del profitto che ne regolava almeno nei centri maggiori i tempi e i modi, provocarono da questo punto di vista conseguenze specifiche innanzi tutto nella scelta dei testi da pubblicare, che sin dall’inizio fu in molti casi dettata dalla ricerca di quanto vi era di più tradizionale e dall’eliminazione del nuovo, con conseguente rilevante difficoltà di espressione pubblica attraverso il nuovo mezzo per gli ambienti elaboratori di testi e di acculturazione reale per 1 Il libro: una merce è il titolo del quarto capitolo di Lucien Febvre - Henri-Jean Martin, La nascita del libro, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 129. 161 4. L’età moderna il pubblico più vasto; onde si potrebbe giungere ad affermare, in modo probabilmente riduttivo e paradossale, che il sistema di produzione meccanico del libro proprio della stampa ha allargato, non ridotto, la forbice che separava, ed ha sempre separato, gli autori dal pubblico2 . Tra questi due grandi comprimari, autori e lettori, esiste tutta una serie di attori minori e anche comparse di cui è bene occuparci, dal momento che tutti, a loro modo, concorrono alla definizione di cosa è un valore e cosa invece non lo è, in riferimento alla parola scritta dopo la nascita della stampa. Partiamo dal principio. Il mezzo, cioè l’inchiostro era noto da sempre, seppur si rese necessario renderlo più denso e grasso perché potesse aderire meglio alla superficie metallica dei caratteri e di lì sul foglio di stampa. Il supporto era pronto, la carta era arrivata da tempo dall’oriente e aveva ormai perduto la coda di dubbi sulla sua resistenza al tempo. La carta è infatti un elemento fondamentale per l’invenzione della stampa dal momento che i supporti antichi mal si prestavano all’impressione, il papiro perché troppo fragile e la pergamena perché troppo rigida; esisteva dalla fine del Medioevo la velina ma resta pur vero che non è possibile impiantare un metodo di produzione protoindustriale su un prodotto così ridotto per quantità quanto è la pelle del vitello nato morto. Per quanto riguarda il meccanismo bisogna fare una precisazione, il torchio era sì noto da sempre ma l’elemento caratterizzante dell’invenzione della stampa è piuttosto quella dei caratteri mobili; la tecnica necessaria al loro implementamento era nota agli orefici e ai coniatori di medaglie o monete, serviva dunque solo un uomo pieno di inventiva, e di capitali, per unire il tutto motivato dal costante ingrandirsi del mercato del libro in Europa e per imprimere quindi una svolta con il libro stampato. Johannes Gensfleisch, detto Gutemberg, che era orefice di professione, ebbe, tra tante altre idee3 quella della stampa a caratteri mobili, nel 1450 trovò un finanziatore, Johannes Fust e così ebbero inizio le 2 Introduzione di Armando Petrucci a Lucien Febvre - Henri-Jean Martin, La nascita del libro, Laterza, Roma-Bari 2007, p. XLVII. 3 Dagli atti del famoso processo di Strasburgo del 1439 sappiamo che Gutemberg era già entrato in società con Hans Riffe, Andreas Dritzehn e Andreas Heilmann per almeno tre invenzioni, oltre alla stampa a caratteri mobili che si indovina dagli strumenti indicati, torchio, pezzi e forme, anche specchi e pietre levigate. 162 4.1. Il libro stampato: una merce ricerche pratiche. Poco tempo dopo, già nel 1455, il sodalizio si scioglie e benché sia Fust a continuare i lavori con Peter Schöffer, il merito dell’invenzione resterà a Gutemberg, seppur sarà a volte condiviso con gli altri che in quegli anni tentarono di trovare una soluzione allo stesso problema quali ad esempio Johan Mentelin di Strasburgo o Waldfoghel, Coster, Pripiac in altrettanti luoghi diversi d’Europa4 . Detto tutto questo resta da riconoscere che il testo a stampa più antico di cui abbiamo una data certa, il Salterio di Magonza, è datato 14 ottobre 1457 e riconosce la propria paternità a Fust e Schöffer. Chiunque sia stato ad avere per prima l’idea o il primo a metterla in pratica con profitto, la stampa portò con se nuovi mestieri e nuove figure di intellettuali, accanto a torcolieri, compositori e correttori vediamo infatti anche stampatori e librai. Queste ultime due figure hanno un ruolo fondamentale nella ricerca che ci prefiggiamo di portare avanti. Pur tenendo debito conto del fatto che spesso le due funzioni si sovrappongono, almeno in certi momenti nello stesso individuo - lo stampatore è sempre anche mercante libraio, non sempre invece il contrario - possiamo comunque analizzare in che modi intervengono sulla effettiva disponibilità editoriale d’Europa e quindi in che modo influenzarono l’andamento letterario fino alla apparizione di veri e propri editori. L’immagine finale che scaturirà da questa analisi conferma i motivi principali che spinsero all’invenzione di questa nuova arte: l’editoria, tranne rari casi in cui partecipa in forma non esclusiva di questa matrice, è un fatto commerciale. A questo proposito bisogna aggiungere che soprattutto nei primi tempi, quando gli stampatori non erano ancora abbastanza avviati da avere capitali propri e infatti «chi presta i soldi - il capitalista - interviene dunque per esercitare una funzione essenziale. È lui a sopportare i rischi delle imprese; lui a incaricarsi di smerciare la produzione, ancora lui a scegliere spesso i testi da pubblicare5 »; è il caso ad esempio di Barthélemy Buyer che, nato all’incrocio di due mondi, il 4 Mentelin, notaio del vescovo ed ex miniaturista aprì un’officina tipografica a Strasburgo sicuramente prima del 1460; suo genero, Adolf Rusch è il misterioso stampatore dalla R bizzarra. Prokop Waldfoghel, di Praga, tra il 1444 e il 1446 si impegna con un contratto pervenuto fin a noi, ad insegnare ad alcuni avignonesi elementi di oreficeria e l’ars scribendi artificialiter. Laurent Janszoon, detto Coster, di Haarlem, prima del 1441 inventò la stampa, secondo quanto riferito nella cronaca d’Olanda di Adriaan van Jonghe, medico nella stessa città intorno al 1568. 5 Lucien Febvre - Henri-Jean Martin, La nascita del libro, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 140. 163 4. L’età moderna padre desideroso di lettere e la madre di famiglia commerciale, strinse relazioni con Nicolas Jenson, il primo stampatore a Venezia e poi importò la nuova arte, remunerativa, a Lione; o ancora di «Jean Petit: autentico capitalista, diventato alla fine del secolo xv e all’inizio del xvi il dominatore del mercato librario parigino6 » grazie alla capacità di scoprire e incoraggiare in Josse Bade un ottimo tipografo, o Koberger o Plantin, il più potente tra i produttori librari fino all’Ottocento. Questa funzione decisionale verrà svolta dagli stampatori o dai librai solo quando saranno essi stessi investitori e nella misura in cui parteciperanno all’impresa. Le fonti principali per analizzare il lavoro e l’apporto di librai e stampatori alla definizione di un canone letterario, oltre che i libri stessi che stamparono e fecero circolare, sono i documenti personali; libri mastri, appunti e soprattutto lettere, le migliaia di lettere che accompagnavano i libri nei trasferimenti attraverso tutta l’Europa e ancor di più viaggiavano sole per tenere in costante aggiornamento i primi attori dell’editoria sia dal punto di vista economico, come ad esempio con le lettere di cambio, sia dal punto di vista commerciale, per monitorare il mercato, che infine con scopi critici o estetici. Gli stampatori scrivevano ai librai per informarli sulle produzioni, informarsi sulle vendite e sul gusto del loro pubblico. Gli stampatori inoltre comunicavano spesso tra loro per informasi dei progetti futuri e non saturare precocemente un mercato almeno fino alla comparsa dei privilegi che furono ideati dagli italiani, in particolare dai librai milanesi, molto precocemente fin dal 14817 . All’inizio però i privilegi non avevano ancora bloccato tutta la messe di materiale stampabile e per così dire già pronto per la stampa; del resto «l’edizione di un libro è non di rado un’impresa aleatoria, perché si ignora l’accoglienza che le farà il pubblico. Così si spiega la bramosia con cui gli editori ricercano le opere di sicuro smercio, come i libri di Chiesa, gli unici che siano certi di vendere in periodo di crisi. E si spiega anche la necessità, per evitare i rischi dovuti all’insuccesso di un volume unico su cui si contava, d’intraprendere molte edizioni 6 Lucien Febvre - Henri-Jean Martin, La nascita del libro, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 146. 7 Andrea de Bosiis ottiene il privilegio per la Sforziade di Giovanni Simonetta stampata da Antonio Zaroto. Lucien Febvre - Henri-Jean Martin, La nascita del libro, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 306. 164 4.1. Il libro stampato: una merce contemporaneamente, e perciò di impegnare capitali considerevoli8 ». Quando il bacino di pescaggio di quanto era già pronto iniziò ad esaurirsi, gli stampatori dovettero anche tenersi informati, a monte, sulle possibili nuove edizioni. Abbiamo infatti prova di un fitto carteggio tra stampatori e scrittori e occasionalmente con gli intellettuali che spesso lavoravano anche a distanza come correttori o consiglieri editoriali, diremmo oggi. Degli scambi epistolari tra gli autori e i loro corrispondenti personali si è fin da subito, dato anche il genere letterario che presuppone, occupata la critica e non è quindi questo il luogo adatto per dilungarsi oltre. Anche i librai impararono a comunicare tra loro per scambi di informazioni e metodi o trucchi commerciali, oltre che di libri. Da ultimo troviamo anche una fitta corrispondenza che vedeva protagonisti i fruitori ultimi delle opere, i lettori che spesso scrivevano ai librai di fiducia o persino direttamente a lontani stampatori quando non pure agli stessi autori. Un’altra fonte che sta negli ultimi anni ottenendo la giusta attenzione sono i cataloghi degli editori, insieme con gli avvisi che questi andavano man mano pubblicando, i cataloghi di alcuni librai, e soprattutto i Meßkataloge, i cataloghi delle fiere. Questi ultimi sono un’importante novità dovuta soprattutto alle fiere di Francoforte che, dopo quelle di Lione, furono le più importanti solo fino al xvi secolo finché la guerra dei trent’anni passò lo scettro del comando alle fiere di Lipsia. I cataloghi di libri furono una necessità sentita molto presto, i più antichi datano indietro fino al 1470 e furono dapprima delle liste compilate dagli agenti degli stampatori più influenti, spesso personali e manoscritte, utili a ricordare i titoli di magazzino durante i viaggi d’affari attraverso l’Europa. I primi avvisi collettivi invece risalgono alla fine del secolo, il più antico pervenutoci è il Libri venales Venetiis, Nurembergar et Basileae che il libraio Albrecht di Memmingen decise di pubblicare per pubblicizzare lo smercio di circa duecento titoli. Con il passare degli anni e con l’aumentare dei titoli disponibili, in molti decisero di usare questo ausilio e di distribuirlo poi alle fiere agli agenti librari presenti9 , finché si pensò di pubblicare insieme questi cataloghi fino a 8 Lucien Febvre - Henri-Jean Martin, La nascita del libro, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 138. 9 Manuzio nel 1541, Griphe nel 1549, Estienne nel 1552 e nel 1569, Plantin nel 1566 e ancora nel 1567, 1575, 1587. 165 4. L’età moderna formare dei cataloghi dei libri disponibili durante le fiere. L’idea venne a Georg Willer, libraio d’Augusta fin dal 1564 e fu presto seguito anche da altri, finché nel 1598 fu il Consiglio municipale di Francoforte a farsi direttamente carico del compito e fece uscire il catalogo regolarmente fin al xviii secolo. I cataloghi di Francoforte, antenati delle bibliografie, furono così, a partire già dal Seicento, la fonte primaria dei primi lavori bibliografici di area tedesca. Come abbiamo appeno detto, fin dal Seicento, un’altra fonte importante sono i lavori bibliografici, alcuni di questi si configuravano come work in progress tanto da diventare pubblicazioni periodiche; la necessità era data anche dal comparire prepotente sulla scena delle pubblicazioni nelle lingue nazionali. Nel 1648 e fino al 1654, padre Jacob iniziò una pubblicazione annuale di una «Bibliographia parisiana» e una «Bibliographia gallica»; presto l’esempio fu seguito anche altrove, in Inghilterra ad esempio, dove nel 1657 uscì il Catalogue of the Most Vendible Books in England, che ci porta una nuova prova dell’importanza del fatto commerciale in riferimento al libro stampato: il canone non è dei migliori ma dei più smerciati, quantunque le due cose possano essere anche coincidenti, il punto di vista resta comunque chiaramente diverso. L’importanza e l’utilità di questo genere è confermata dalla periodicità sempre più ravvicinata che ebbero queste compilazioni finché dalla seconda metà del secolo xvii la stampa periodica e bibliografia si incontrarono. Hilbert per primo seguì il consiglio di Chapelain e incaricò Denis de Sallo di redigere una pubblicazione mensile, così il primo gennaio 1665 uscì per la prima volta il «Journal des Savants», i tempi erano davvero maturi visto che il giornale ebbe tanto riscontro da essere tradotto in italiano, tedesco e pure in latino. Presto anche l’Inghilterra, e soprattutto l’Olanda misero mano a opere consimili, proprio in Olanda uscirà ad esempio «Nouvelles de la République des lettres» che già dal titolo dimostra chi erano quei lettori tanto affamati di queste pubblicazioni da permettere che divenissero un autentico genere. La stampa bibliografica fin da subito dimostrò un grandissimo potere di influenza sugli acquisti e sul maturare delle nuove idee e quindi merita un posto primario nelle ricerche di verifica della tradizione e della trasmissione intellettuale. Da ultimo è possibile analizzare la costituzione delle singole biblioteche private, i documenti che si prendono quindi in analisi sono i lasciti testamentari, i 166 4.1. Il libro stampato: una merce cataloghi delle biblioteche personali messe all’asta alla morte del proprietario, i cataloghi di quelle confluite in altri fondi in date certe e infine i cataloghi e gli acquisti delle biblioteche monastiche e nobiliari prima e di quelle pubbliche poi. Proprio queste ultime sono di considerevole importanza a partire dal xvii secolo che le vide nascere, la Bodleiana a Oxford, l’Ambrosiana a Milano e poi a seguire tutte le altre, si riproponevano di raccogliere il maggior numero di testi possibile; come le biblioteche di alcuni ordini monastici, avevano anche il permesso di conservare le opere considerate pericolose, per consentire di “preparare le difese” dall’assalto del nemico. Dai cataloghi in genere si fa, da ultimo, discendere la pratica e dopo la disciplina delle bibliografie. Questo bisogno fu sentito molto presto e ne furono messe a punto di diversi generi; per argomento, per localizzazione geografica o persino universali. A questo riferimento bisogna chiedersi cosa è universale nel Cinquecento. L’esempio più significativo è senz’altro la Bibliotheca Universalis che Konrad Gesner scrisse nel 154510 . L’universalità del titolo sembra davvero riduttivo oggi ma è significativa proprio in riferimento al presente studio. Si tratta infatti dell’elenco di autori e opere scritte in tre sole lingue (e quali lingue!): latino, greco ed ebraico. Questo ci riporta subito all’idea di canone che è, come abbiamo già visto sottoinsieme, da più punti di vista ideale, dell’idea di biblioteca, tabto più che voleva essere, nei suoi intenti, piuttosto che elenco descrittivo proprio un elenco prescrittivo, seppur di ben dodicimila testi prima e quindicimila dopo, con l’Appendix del 155511 . Un ulteriore motivo di importanza ha per noi questa opera in quanto, non contento del pur immane lavoro compiuto, Gesner già nel 1548 pubblicò le Pandectae12 , una classificazione generale in cui per primo sembra superare il tradizionale sistema delle arti liberali. L’anno della svolta sarà infatti il successivo, del 1549 è la traduzione italiana delle Poetica curata da Segni che darà l’avvio a una intera «serie di poetiche scritte con spirito aristotelico13 » se, come precisa Tatarkiewicz, il passaggio dalla teoria antica delle arti a quella contemporanea si compie primariamente eliminando dal novero delle arti artigianato e scienze e inserendo 10 Konrad Gesner, Bibliotheca Universalis, Froschauer, Zurich 1545. Konrad Gesner, Appendix, Froschauer, Zurich 1555. 12 Konrad Gesner, Pandectae, Froschauer, Zurich 1548. 13 Wladislaw Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 2006, p. 44. 11 167 4. L’età moderna la poesia. L’opera di Gesner vedrà molti epigoni, uno tra questi ci sembra particolarmente interessante in quanto già dal titolo intende superare moralmente la prima; si tratta della Biblioteca Selecta, redatta dal gesuita Antonio Possevino e che rappresenta il canone cattolico, anzi per l’appunto gesuita, del periodo14 . Dal momento che abbiamo visto come la stampa sia stata, fin da subito, un fatto eminentemente commerciale, e il suo attore principale sia stato il mercante libraio, sarà utile prendere in analisi alcuni trucchi di vendita, almeno quelli che presentano un legame con la nostra ricerca in quanto informarono di sé la struttura stessa del canone dell’epoca. Il primo di questi è il ricorso alla sottoscrizione sperimentato in Inghilterra dalla fine del XVII secolo e in Francia dal benedettino Bernard de Montfaucon nel 1716 per «Antiquité expliquée», si tratta di una tecnica che sarà ormai generalizzata nel 175015 . Il secondo è il romanzo periodico, metodo inaugurato nel 1730 e usato largamente da Baculard d’Arnaud intorno al 176016 ; torneremo su questo argomento nel capitolo 5.1. Non meno importante è ricorso alle auctoritates negli indici e negli estratti, si tratta di una pratica molto comune e sebben spesso gli autori antichi siano citati come fonte o parte dell’opera anche quando la loro presenza è minima o addirittura completamente inesistente17 . Nel percorso che porterà alla nascita dell’editore partiamo da una prima posizione in cui la preminenza è data al libraio sullo stampatore, è quindi il libraio a indicare, sulla base delle sue osservazioni di mercato allo stampatore quale opera intraprendere. I pochi che costituiscono un’eccezione a questo sistema sono in effetti considerabili editori ante litteram, si pensi ad Aldo Manuzio o Christophe Plantin o ancora agli Elzevir o agli Estienne Tra i numerosi editori ante litteram prendiamo ad esempio in considerazione l’attività di Aldo Manuzio; molti sono i motivi per cui è possibile prendere questo stampatore veneziano a paradigma di questa nuova e altrettanto rara figura dell’editore, vediamone velocemente alcuni. Poco dopo l’apertura del14 Antonio Possevino, Bibliotheca selecta qua agitur de ratione studiorum in historia, in disciplinis, in salute omnium procuranda, Typographia Apostolica Vaticana, Roma 1593. 15 Jean-Francois Gilmont, Dal manoscritto all’ipertesto, Le Monnier, Firenze 2006, p. 113. 16 Jean-Francois Gilmont, Dal manoscritto all’ipertesto, Le Monnier, Firenze 2006, p. 113. 17 Jean-Francois Gilmont, Dal manoscritto all’ipertesto, Le Monnier, Firenze 2006, p. 113. 168 4.1. Il libro stampato: una merce la sua stamperia a Venezia, dove arrivavano esuli calligrafi e studiosi bizantini pubblica una Gallomyomachia, nella cui prefazione traccia un programma delle future pubblicazioni quantomeno ambizioso, e un’immagine di sé come umanista di cui mantiene la promessa se infatti costituisce l’Accademia Aldina, con cui, in giorni fissi, si incontra per decidere quali manoscritti sia necessario preparare per la stampa. Il credito di studioso e mecenate è tale che anche l’impresa commerciale ne condivide il lustro e il credito. Nel 1499, per primo smette di numerare i fogli di stampa per passare a numerare direttamente le pagine del libro finito nelle Cornucopiae di Niccolò Perotto18 , uso questo diventato corrente, per interesse degli umanisti fin dalla metà del sedicesimo secolo. Nel 1501 Manuzio lancia sul mercato l’enchiridion, un nuovo modello di libretto da mano che fonderà da solo un genere bibliografico, raccoglierà infatti un favore senza precedenti e numerosi tentativi di imitazione anche se il formato non era in realtà davvero innovativo, basti a questo proposito pensare ai piccoli ed eleganti codici del calligrafo Bartolomeo Sanvito, anch’esso veneto. Sempre nel 1501 fa incidere da Francesco Griffo dei caratteri tondi ispirati alla cancelleresca romana, seguiti poi dal corsivo, entrambe le serie riscuoteranno enorme successo e, di nuovo, imitatori, in tutta Europa; uno di questi imitatori poi, Garamond, fonderà caratteri che saranno ancora più perfetti e diventeranno di uso generalizzato. Oltre a Manuzio, in Europa c’erano anche altri stampatori umanisti come Christophe Plantin, gli Elzevir, gli Estienne, un’intera dinastia di stampatori umanisti cui diede avvio Josse Bade, Sébastien Griphe, l’animatore, anche attraverso la diffusione delle opere aldine dell’umanesimo lionese e, tornando in Italia, i Giolito. Fermiamoci un momento sull’avventura editoriale dei Giolito e prendiamone in analisi la produzione come appare dagli Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari da Trino di Monferrato, stampatore in Venezia, Roma 1890-95 di Salvatore Bongi19 e le integrazioni di Camerini20 in Notizie sugli annali giolitini di 18 Niccolò Perotto, Cornucopiae, Manuzio, Venezia 1499. Salvatore Bongi, Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari da Trino di Monferato, stampatore in Venezia, presso i principali librai, Roma 1890-97. 20 Camerini, Notizie sugli annali giolitini di Salvatore Bongi, Penada, Padova 1935. 19 169 4. L’età moderna Salvatore Bongi21 . Gli autori pubblicati dai Giolito sono 290, da questi bisogna però espungere tutti quegli autori che, pubblicati una sola volta e mai più ristampati, rappresentano il 72% del totale. Il resto degli autori pubblicati è rappresentato da almeno due titoli, tra questi, in vetta, troviamo venti autori con cinque o più titoli che rappresentano il 7% del totale degli autori ma che, con 397 edizioni rappresentano il 39,2% dell’intero catalogo Giolitino. In testa a questo gruppo troviamo Ariosto con 30 edizioni del Furioso più le ripetute edizioni di Rime, Satire e Commedie per un totale di 45 edizioni. Segue Petrarca con ventidue edizioni del canzoniere, per cui furono preparati tre differenti commenti, le Epistule e la traduzione del De remediis utriusque fortunae per un totale di 24 edizioni. Infine troviamo Boccaccio con 26 edizioni di sei opere. Nello stesso tempo Giolito si prodiga nell’edizione di opere spirituali, prediche soprattutto oltre che opere di carattere devozionale e liturgico, in particolare dopo la riforma tridentina. Spiccano per quantità nel catalogo le opere di tre autori: 62 edizioni per Luigi di Granata, 39 per Antonio di Guevara e 33 per Antonio Musso. Un’ultima nota resta da fare dall’analisi dell’impresa giolitina. I Giolito, come si evince anche dalla svolta assunta dall’impresa dopo il concilio tridentino, erano dotati di una rara attitudine al commercio, oggi li diremmo conoscitori e fautori di marketing; furono loro infatti a iniziare la pratica delle collane, che diventerà prassi consolidata in Europa solo con il xviii secolo. Restando nell’ambito spirituale di cui dicevamo poc’anzi troviamo la «Ghirlanda spirituale» in cui ogni nuovo libro costituiva un «fiore» e l’«Albero spirituale» di cui uscì un solo libro che nell’impegno dell’editore doveva essere il primo di numerosi «frutti». Il primo esperimento in questo senso fu però la «collana istorica», che fondò poi il termine divenuto corrente, contava, nel progetto, 12 «anelli»: Ditte Candiotto e Darete Frigio, Erodoto, Tucidide, Senofonte, Polibio, Diodoro, Dionigi d’Alicarnasso, Giuseppe Ebreo, Plutarco, Appiano, Arriano, Dione; è proprio la programmaticità di tale progetto che la configura ai nostri occhi come una sorta di canone, sull’argomento storico, secondo il giudizio dell’e21 Amedeo Quondam, Mercanzia d’onore, mercanzia d’utile. Produzione libraria e lavoro intellettuale a venezia nel Cinquecento in Armando Petrucci (a cura di), Libri, editori e pubblico nell’europa Moderna, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 51-103. 170 4.1. Il libro stampato: una merce ditore e, vista l’importanza di quest’ultimo, come un’importante traccia per lo studio del canone del periodo. Proprio l’atteggiamento modellizzante che questi pochi editori, eruditi ed illuminati, avranno sul libro farà a volte di loro i pochi stampatori-editori che seppero autenticamente muovere il gusto oltre che il mercato, quando invece al contrario non li condannò all’oblio; è il notissimo caso di Schweinheim e Pannartz che quando tentarono di stampare testi classici con l’aspetto che allora avevano solo i testi universitari, lettere gotiche su due fitte colonne, non riuscirono a smaltire per tempo le copie e miseramente fallirono. Insieme alle copie che rimasero direttamente nei magazzini degli stampatori bisogna anche considerare tutte le copie che furono semplicemente tesaurizzate e rimasero quindi a giacere, non lette, negli armadi dei loro proprietari. D’altra parte sono senz’altro più numerose, visto il costo che aveva la lettura, le copie che furono lette da un numero elevato di lettori, all’interno della stessa famiglia o grazie all’abitudine dei prestiti e degli scambi. Proprio queste copie sparirono prima di altre in quanto lo stesso uso e i numerosi trasporti le usurò prima fino a dissolverle, letteralmente, nel passaggio di mano. Un esempio eclatante di questa pratica che vedeva i libri letteralmente fatti e letti a pezzi è dato dal caso dell’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo; delle almeno 228 copie della prima edizione, di cui abbiamo notizia certa da diversi carteggi, nessuna è pervenuta fino a noi, della seconda si è salvata solo una copia incompleta, delle due edizioni del 1495, una di 1250 copie è andata interamente perduta, l’altra ci ha consegnato un solo esemplare; di altre edizioni, quelle non autorizzate che furono peraltro parecchie, non abbiamo alcuna traccia22 . Vediamo ora quali dati emergono dall’analisi dei diversi documenti; i dati proposti in questo intero capitolo, quando non altrimenti specificato, sono tutti tratti da La nascita del libro, «edito da quasi venti anni e già divenuto, a suo modo, un «classico»23 ». In un primo momento i primi stampatori non sentirono il bisogno di cercare un nuovo pubblico e continuarono quindi a rivolgersi ai principali fruitori del 22 Gesamtkatalog der Wiegendrucke, Berlin 1925-38. Introduzione di Armando Petrucci a Lucien Febvre - Henri-Jean Martin, La nascita del libro, Laterza, Roma-Bari 2007, p. VII: 23 171 4. L’età moderna libro manoscritto e a pubblicare materiale già disponibile e per il quale non era quindi neppur necessaria alcuna opera di revisione, anche l’impaginazione e in generale l’aspetto materiale del libro non subisce modifiche. Per tutto il quindicesimo secolo la distribuzione dei generi rimase quindi invariata: il 44,49% di argomento religioso, il 36,07 % di argomento letterario o filosofico sia classici che medievali o contemporanei, il 10,93% di argomento giuridico, il resto suddiviso tra scienze, tecnica e quant’altro24 . Se analizziamo lo stesso corpus espungendo i libri fatti per le microculture del sapere, per cui la lettura rientrava nel novero delle attività propedeutiche, e cioè gran parte dei libri religiosi e giuridici, troviamo delle percentuali che meglio ci raccontano l’universo dei lettori del tempo. Questi testi rappresentano il 18,97 del totale e possono essere così suddivisi: 4,30 per la poesia, 4,12 per teatro, orazioni e lettere, 3,81 per romanzi, novelle e facezie, 3,36 per storia e biografie, 1,44 per la sola Vergine Maria, 0,94 per le scienze occulte, 0,73 per i calendari, 0,27 per la magia; tutto questo pur tenuto conto della difficoltà con cui si lasciano classificare molte opere del tempo. Per quanto riguarda il campo religioso e teologico, tenendo da parte l’enorme produzione di Bibbie per cui non ci sono varianze e di Sermoni di cui sono innumerevoli e spesso anonimi gli autori, vediamo quali opere venivano prevalentemente stampate. La Patristica aveva un’importanza rilevante, si contano circa 120 edizioni di Agostino e Girolamo, segue Gregorio con 75 edizioni, in coda poi troviamo Ambrogio con 30 edizioni, Crisostomo e Eusebio con 25 edizioni e Cipriano, Attanasio e lo Pseudo-Dionigi con 10, 7, 5 edizioni ciascuno. Le opere più moderne vedono in testa la Legenda Aurea di Iacobus de Varagine con più di 240 edizioni e l’Imitatio Christi con più di cento edizioni. I lavori storici presentano qualche difficoltà di catalogazione in quanto spesso avevano contenuti differenti e inoltre erano spesso letti dalle persone colte, ecclesiastici e giuristi che ne attingevano per gli studi loro propri. La poesia sia in volgare che in latino, mostrava il predominio degli italiani, Petrarca su tutti e poi Battista Mantovano, che veniva detto il Virgilio Cristiano. 24 statistiche di J.M. Lenhart, Pre-Reformation Printed Books, New York 1935, p. 68-70. Si veda anche Rudolph Hirsch, Printing, Selling and Reading. 1450-1550, Wiesbaden, 1967, pp 125153 e la traduzione italiana in Armando Petrucci (a cura di), Libri, editori e pubblico nell’europa Moderna, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 1-50. 172 4.1. Il libro stampato: una merce Anche i luoghi di produzione mantengono una certa rilevanza, almeno due terzi di tutti gli incunaboli erano stati scritti da domenicani e francescani, anche a dimostrazione della persistente continuità tra tradizione manoscritta e stampata, venivano poi agostiniani e certosini seguiti poi da benedettini e cistercensi; i produttori laici erano in coda, lontanissimi dalla vetta così come era già stato per la tradizione manoscritta. Questo ultimo dato inoltre invera anche le informazioni sulla lingua usata per questo primo secolo di stampe. Sui 24421 incunaboli analizzati da J. M. Lenhart 18909 erano in latino e coprivano il 77,42% del totale, seguivano l’Italiano con il 7,39%, il Tedesco con il 5,82%, il Francese con il 4,56% e poi l’Olandese (1,35), lo Spagnolo (1,27), il Fiammingo (0,70) e l’Inglese (0,66). Se analizziamo l’incidenza delle produzioni in volgare limitatamente ai territori dove quel volgare era in uso otteniamo percentuali molto più alte: 55% in Inghilterra, 51,9% in Spagnolo e Catalano 29,3 % in Francia, 24,4 % in Olandese o in Fiammingo, 19,7% in tedesco, 17,5% in Italiano. Questi dati ci danno inoltre un quadro della permanenza maggiore del latino in quelle aree, in particolare in Italia, dove la riscoperta delle antichità classiche era iniziata precocemente. La stampa quindi non rivoluzionò il mondo del sapere; al contrario agì da acceleratore, moltiplicando i testi già noti e richiesti e facendo quasi scomparire il resto, quasi annegato dalla quantità delle nuove pubblicazioni: entro il 1500 infatti la stampa immise sul mercato almeno venti milioni di nuovi esemplari. Queste percentuali rispecchiano però anche il pubblico dei libri che era infatti nell’ordine un pubblico di religiosi, umanisti, notabili e universitari. Ovviamente più libri religiosi si vendevano nelle città cattedrali, quanto libri giuridici si vendevano nella città universitarie, prova anche ne è che furono spesso proprio queste istituzioni dapprima a chiamare gli stampatori e poi a proteggerli con il mezzo del privilegio. Bisogna anche ricordare che di tutte queste officine resistettero solo quelle che erano costruite su basi commerciali sufficientemente solide; cioè con un ricco bacino di utenza interno alla città o con adeguati sbocchi commerciali esterni in virtù della possibilità di facili trasporti, sia in riferimento alle materie prime che al prodotto finale. Prima di passare oltre determiniamo meglio il primo grande gruppo di libri, i libri religiosi infatti non sono tutti della stessa importanza o finezza teologica 173 4. L’età moderna e al primo posto nella nostra classifica convivono opere di carattere e levatura completamente diverse. Dapprima troviamo le numerose edizioni delle sacre scritture, prima le edizioni latine e poi anche quelle nelle lingue nazionali. Queste edizioni erano fortemente richieste oltre che dagli ecclesiastici soprattutto da chiese e monasteri che dovevano ripristinare continuamente gli strumenti per il culto, alle sacre scritture infatti si affiancano subito i testi necessari al culto e anche breviari e messali, indispensabili per lo studio personale e la preparazione dottrinale degli ecclesiastici. Solo secondariamente troviamo i grandi, le opere appartenenti al canone della filosofia e teologia medievale sono dirette infatti a un pubblico di fruitori ristretto agli studenti delle università che pure continuarono a lungo con il sistema delle pescaie. Infine ci sono le opere più modeste teologicamente che, paradossalmente, costituiscono la messe maggiore di questo primo raccolto: i libri di devozione tra i quali alcune opere di alto livello come i grandi testi mistici, seppur spesso adattati e ridotti, come l’Imitazione di Cristo che è insieme con la Bibbia una delle opere più ristampate fino a tempi non sospetti. L’editoria non cercò mai, neppure ai suoi fulgidi inizi di muovere più di tanto il gusto del pubblico, invece che segnare una svolta, iniziò con il portare alle estreme conseguenze il preesistente gusto del pubblico di cui già abbiamo detto. Veniamo ora all’analisi vera e propria della produzione dal momento che abbiamo visto che fu il mercato, il lettore quindi, ad affermare la scelta dei testi da stampare: le percentuali già fornite possono infatti essere analizzate nel dettaglio. Nei grandi centri, come Roma ad esempio, dove il potere costituito assumeva diverse form,e gli stampatori agivano di conseguenza, «secondo una logica puramente commerciale, che vedeva la medesima officina sfornare libri liturgici, Mirabilia Urbis, documenti e formulari di curia, opere giuridiche e testi di classici e di Padri della Chiesa25 ». A Parigi dove esistevano due ottimi motivi per installare delle officine, l’università da una parte e gli organi d’amministrazione dall’altra; librerie ed officine si installano dapprima a Sainte-Geneviève e nella rue Saint-Jacques, nel quartiere universitario ma anche nelle gallerie 25 Introduzione di Armando Petrucci a Lucien Febvre - Henri-Jean Martin, La nascita del libro, Laterza, Roma-Bari 2007, p. XXIV. 174 4.1. Il libro stampato: una merce del Palazzo di Giustizia prima e nelle vie limitrofe poi. Ancora nel Seicento è a parigi che tenevano bottega Barbin e Thierry, editori dei grandi classici francesi. Interessante è infine notare una certa specializzazione dei centri di produzione anche in riferimento al mercato più ampio, quello religioso; Venezia dominava la stampa di Bibbie e di vite di santi, Parigi la patristica e la teologia generale, Roma i sermoni. Nonostante tutti questi esempi è necessario ribadire, seguendo l’opinione di Gilmont, che Una delle caratteristiche dell’editoria d’Ancien Régime è la sovrapposizione di due pratiche: da una parte c’è la logica del capitalismo commerciale che, poiché lo scopo è creare profitto, lascia che sia il mercato o orientare la produzione. Questo spesso, come si vedrà tra poco, favorisce la produzione di edizioni proibite. D’altra parte, però, l’editoria rimane segnata anche dalle protezioni politiche e sociali: pur permettendosi anche pubblicazioni proibite o censurate, il libraio provvede comunque a intrattenere le migliori relazioni possibili con il potere in carica. La benevolenza delle autorità è essenziale, poiché da essa dipendono permessi e privilegi. Il legame tra editoria e potere è dunque fondamentale26 . Bisogna anche ricordare che il potere è ancora decisamente proteiforme e accanto al potere statale è ancora significativo il potere religioso. Un caso esemplare di questa condizione è quello di Etienne Dolet che nel 1538, nonostante sia un autentico letterato, amante di belle lettere e in special modo di Cicerone, decide comunque di iniziare la propria attività con un innoquo e pur sicuro libretto di devozione, il Cato christianus, che pur sarà l’unica opera nel solco della tradizione religiosa e che lascerà subito il posto agli amati autori latini oltre che alle opere dei suoi Erasmo, Olivetano, Melantone per le quali e con le quali salirà al rogo il 3 agosto 1546. Nel secolo successivo l’audacia tutto sommato isolata di Dolet diventerà generalizzata, «i librai editori, da parte loro, non 26 Jean-Francois Gilmont, Dal manoscritto all’ipertesto, Le Monnier, Firenze 2006, p. 116. 175 4. L’età moderna si preoccupano più di rendere un servizio al mondo dello spirito, ma di pubblicare opere che potranno sicuramente vendere27 » e così l’audacia religiosa dei lettori diverrà l’audacia dei librai e degli stampatori, del resto il rogo diventerà sempre meno usato per lasciare poi definitivamente il posto alla ghigliottina. Questa mutata priorità nelle scelte dell’editore non si dimostrerà solo una moda passeggera: nata allora, continua ad essere ancor oggi il fulcro del mercato editoriale; così ad esempio deplora la situazione Montale nel 1961. Se anche in Italia può verificarsi il fenomeno del best seller, questo non significa nulla. Il libro che il vento della moda porta in cresta all’onda può o non può avere un valore letterario, ma è quasi certo che chi si lascia sedurre da quel vento e acquista il libro «di cui si parla» non è mosso dall’impellente bisogno di conoscere un’opera d’arte, bensì dall’urgenza di conformarsi a un supposto obbligo sociale, di aggiornarsi28 . Chi e come abbia influenzato il mercato, cioè il pubblico dei lettori, abbiamo già visto; per quanto riguarda il rapporto con il potere vedremo come questo cambi con la fine dell’Ancien Régime, quando un nuovo potere si affaccerà, e sarà l’opinione pubblica che con il mercato stesso si identifica. Stanti così i rapporti tra editoria e mondo, lasceremo il discorso editoriale a questo punto e lo riprenderemo solo con la rivoluzione e l’esplosione della stampa periodica nel capitolo sul Settecento e la nascita dell’identità europea (capitolo 5.1). 4.2 Rinascimento, Umanesimo e Classicismo. Nel trattare della nascita della stampa, abbiamo già visto, nel capitolo 4.1, quali fossero i giudizi del tempo sulla produzione letteraria; non abbiamo però avuto modo di meglio determinare alcuni termini ricorrenti e fondamentali per la comprensione del periodo storico e culturale, oltre che letterario, che va sotto il nome di Rinascimento. 27 Lucien Febvre - Henri-Jean Martin, La nascita del libro, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 189. 28 Auto da fè, in Eugenio Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, Mondadori, Milano 1996, p. 98. 176 4.2. Rinascimento, Umanesimo e Classicismo. Jean-Baptiste Seroux d’Agincourt fu il primo, ad inizio Ottocento, a formalizzare il termine “Renaissance” con l’accezione di ri-nascita della classicità nell’arte italiana, dopo che Voltaire, e poi anche Edward Gibbon, avevano organizzato la storia successiva all’antichità, d’Agincourt, da parte sua, aveva già compiuto questo computo definendo, nella storia della cultura, fasi alterne di splendore e decadenza29 . Solo poco più tardi, a metà Ottocento, venne enunciato il concetto storiografico di Rinascimento; sempre nello stesso periodo nello Stones of Venice di Ruskin il Rinascimento è visto come «central event in the tragic drama of the West30 ». Per questi motivi il Rinascimento, anche se in negativo, acquisisce un posto centrale nella nostra ricerca in quanto si tratta di un fatto preminentemente europeo. Ogi notiamo che ai ritorni ciclici dell’interesse per l’antichità iniziano ad affiancarsi anche dei ritorni ciclici del Rinascimento che, sua volta, vedeva le proprie radici proprio nell’antichità. Si direbbe quasi che il Rinascimento appartenga, di una sola generazione più giovane, alla stessa famiglia degli antichi. Il classico, l’antichità classica, sembra qui aprire per una volta le sue porte e accogliere nuovi membri: il Rinascimento, come un principe, può assolvere alle prerogative regie del padre, e mediarne la conoscenza; mutuando l’idea dal titolo del celebre romanzo di E. M. Forster, il rinascimento è davvero una Room with a View sulla classicità antica. Fin qui sulla letteratura e l’arte, il termine rinascimento, infatti, arriva a delineare l’intera cultura del periodo storico cui si riferisce solo nel xix secolo con J. Michelet che la coniò e Jacob Burckhardt che la reinterpretò e diffuse31 . Anche il termine Umanesimo, che allo stesso periodo si riferisce, apparve molto tardi: «Il termine apparve in francese solo nel xviii secolo, e caratterizzò da allora una posizione filosofica che mette l’accento sul valore fondamentale dell’uomo32 », o secondo la formulazione che nel 1954 ne fece Paul Oskar 29 Marcello Fantoni, Storia di un’idea in Marcello Fantoni (a cura di), Il rinascimento italiano e l’Europa: Storia e storiografia, Angelo Colla Editore, Treviso 2005, p. 8. 30 J. Ruskin, Stone of Venice (1851-1853) citato in Marcello Fantoni, Storia di un’idea in Marcello Fantoni (a cura di), Il rinascimento italiano e l’Europa: Storia e storiografia, Angelo Colla Editore, Treviso 2005, p. 10, nota 21 «evento centrale nel dramma tragico dell’Occidente». 31 Jules Michelet, Histoire de France au seizième siècle, renaissance, Paris 1855 e Jacob Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, Basel 1860. In Marcello Fantoni, Storia di un’idea in Marcello Fantoni (a cura di), Il rinascimento italiano e l’Europa: Storia e storiografia, Angelo Colla Editore, Treviso 2005, p. 10. 32 Jean Delumeau, Che cos’è il Rinascimento? in [?, 44] 177 4. L’età moderna Kristeller, che meglio si sposa con la nostra ricerca, «a characteristic phase in what may be called the rethorical tradition in Western culture33 ». Nel 1950 Chabod nei suoi studi su questo periodo disse che il Rinascimento è «un momento storico della vita culturale europea34 ». Il rinascimento, e l’Umanesimo, sono dunque un fatto europeo, con profonde radici e lunghi rami in tutta la cultura occidentale; l’Italia ebbe però una parte non secondaria nel suo emergere, come ricorda Margiotta: «È più naturale che una questione tra antichi e moderni, che abbiamo visto non ignota alle letterature classiche, sorgesse in Italia molto prima che altrove35 ». Nel capitolo 4.3 vedremo come l’Italia fosse il centro culturale e letterario dell’Europa di questo periodo non solo dal punto di vista della creazione letteraria e più latamente intellettuale ma anche dsal punto di vista più strettamente tecnico. Anche la questione sulla lingua, che è un elemento centrale nel Rinascimento, ebbe origine in Italia, nonostante la particolare fortuna che, abbiamo già visto, ebbe nella penisola, anche tardivamente, l’uso del latino. Dopo l’appassionata e appassionante perorazione di Dante nel De vulgari Eloquentia, che abbiamo visto nel capitolo 3.6, seguì l’impegno di Leon Battista Alberti che tra il 1440 e il 1450 si presentò, a partire dalle sue prefazioni, come paladino del volgare italiano e del suo uso. Il dibattito sulla questione andò avanti contando l’apporto di moltissimi autori illustri fino alla categorizzazione di Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua36 . L’approfondimento sulle ipotesi ottocentesche sul periodo potrà trovare maggior posto più avanti, ne capitolo 5.2.. Veniamo adesso alla autoanalisi che di sé fece questo periodo dal punto di vista storico, storiografico, letterario, artistico e più ampiamente culturale. Nonostante le dispute che vedevano nel Rinascimento alternativamente il diavolo 33 Paul Oskar Kristeller, The Humanist Movement, in Reinassance Thought: The Classic, Scholastic, and Humanist Strains, New York 1961. cit. p. 11 «una fase caratteristica in quella che può esser chiamata tradizione retorica della cultura Occidentale». 34 F. Chabod, Scritti sul rinascimento, Einaudi, Torino 1967, p. 159. 35 Giacinto Margiotta, Le origini italiane de la querelle des anciens et des modernes, Editrice Studium, Roma 1953, p. 7. 36 Un excursus in Vernon Hall, Reinassance Literary Criticism, New York 1945. 178 4.2. Rinascimento, Umanesimo e Classicismo. e l’acqua santa, per così dire; il Rinascimento legge se stesso essenzialmente in positivo, in contrapposizione con il Medioevo come abbiamo già visto nel capitolo precedente. Marsilio Ficino ebbe a dire: «Hoc enim seculum tanquam aureum, liberales disciplinas ferme iam extinctas reduxit in lucem: grammaticam, poesim, oratoriam, picturam, sculpturam, architecturam, musicam 37 ». Tre furono in questo periodo le leggi fondamentali che legavano all’antichità, vediamole brevemente. Primo: il primato degli antichi è incontestabile. Secondo: gli antichi hanno già detto tutto quello che era possibile dire, iniziando proprio da questa seconda legge, già terenziana. Terzo, gli antichi sono il modello primario per il presente, funzionali al riuso e alla reinvenzione. Da questo procede il corollario e la prassi: l’imitazione, degli antichi, sancita dagli stessi antichi che a loro volta imitavano, la natura. Si rende quindi necessario conoscere gli antichi e le loro opere, spiegarle alle nuove generazioni e, più in generale, tramandarli. Si fonda quindi così uno dei cardini dell’Europa occidentale: la Tradizione. Rinascimento, Umanesimo, Classicismo; si tratta di tre termini che seppur siano spesso usati quasi come sinonimi indicano tre aspetti di una particolare temperie culturale. Riassumiamo e facciamo un po’ di ordine. Per uno studioso usare per questo periodo il termine Rinascimento indica la volontà di porre l’accento sul distacco avvertito e voluto dal periodo precedente, il Medioevo. L’uso del termine Umanesimo, invece, pone l’accento sulla centralità dell’uomo, come abbiamo già detto. Infine l’uso del termine Classicismo, seppur possa sembrare vicino al “rinascimento dei classici”, porta con sé anche un’altra valenza, «Il Classicismo è, infatti, per tanti aspetti, il primo esteso e duraturo fenomeno culturale dell’Europa moderna con una forte e ben profilata strategia di disciplinamento e omologazione»38 . 37 Marcello Fantoni, Storia di un’idea in Marcello Fantoni (a cura di), Il rinascimento italiano e l’Europa: Storia e storiografia, Angelo Colla Editore, Treviso 2005, p. 39, nota 3. «Si tratta di una vera età dell’oro che ha riportato alla luce le arti liberali prima quasi estinte: grammatica, eloquenza, pittura, architettura, scultura, musica. E tutto a Firenze» 38 Amedeo Quondam, La virtù dipinta. Noterelle (e divagazione) guazziane intorno a Classicismo e Institutio in Antico Regime in G. Patrizi (a cura di), Stefano Guazzo e la Civil Conversazione, Bulzoni, Roma 1990, p. 240. 179 4. L’età moderna Prima di chiudere questa parentesi sul Rinascimento, prendiamoci il tempo per un’ultima divagazione. Abbiamo qui anticipato La Querelle des Ancients et des Modernes, che sarà l’argomento principale del prossimo capitolo; abbiamo spiegato cosa sono gli antichi, e i Moderni? Moderno come aggettivo, col significato di ’introdotto o cominciato da poco’, tipico dell’epoca attuale o d’un periodo recente è già in Dante, attestato tra 1313 e 1319; come sostantivo il termine indica due significati diversi a seconda del numero: al singolare indica ’ciò che appartiene al nostro tempo o ne esprime i gusti’; al plurale invece ’gli uomini viventi nell’epoca attuale’ attestato sempre in Dante tra 1304 e 1308. Etimologicamente il termine arriva da una voce dotta del latino tardo, nel significato attuale attestato nel V secolo d.C., è un aggettivo tratto da modu(m), ’ora, in questo momento, attualmente39 ’. Già Quondam, riferendosi all’uso del termine nella Civil Conversazione ricorda: «una stessa famiglia semantica: moda, modello, moderno. da modus/modum/modo: questione di misura, di maniera. Quelle di oggi40 ». Est modus in rebus, dalla stessa radice, modo, misura, limite, norma nascono significati così diversi che quasi non ne cogliamo più l’innegabile vicinanza semantica. 4.3 La Querelle des Ancients et des Modernes Sarà ormai chiaro41 , dopo tanto discorrere che, nel caso in questione, intendiamo Classico diversamente che come puro parametro dell’estetica dell’antichità; ciò nonostante ci apprestiamo ad analizzare un dibattito che fin dal titolo disattende le premesse. Eppure proprio nei periodi storici che sembrano dare per sinonimi queste due principali accezioni del termine noi troviamo una ricca messe di informazioni utili. Intanto “correggiamo” gli antichi di cui sopra. 39 Manlio Cortellazzo - Paolo Zolli (a cura di), DELI Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli, Bologna 1999: Moderno. 40 Amedeo Quondam, La virtù dipinta. Noterelle (e divagazione) guazziane intorno a Classicismo e Institutio in Antico Regime in G. Patrizi (a cura di), Stefano Guazzo e la Civil Conversazione, Bulzoni, Roma 1990, p. 320. 41 Per l’intero capitolo sono debitrice di Marc Fumaroli, Le api e i ragni, La disputa degli antichi e dei moderni, Adelphi, Milano 2005, cui rimando. 180 4.3. La Querelle des Ancients et des Modernes Per definire l’antichità che noi chiamiamo “classica”, Winckelmann non usava il termine “classico”, né lo usarono in questo senso Ghiberti, Vasari o gli altri scrittori fra Quattro e Settecento. Di fatto, anche se la parola “classico” entra in circolazione fra Cinque e Seicento, il suo uso come sinonimo di antichità greco-romana non si stabilizzò prima degli inizi del xix secolo. Prima di allora, i termini d’uso per contrapporre (o paragonare) i Greci e i Romani alle esperienze e ai progetti del presente erano piuttosto “Antichi” e “moderni”. Fu dunque naturalmente intorno ad essi che andò cristallizzandosi il dibattito su quello che più tardi si sarebbe chiamato “classico”. Per questo, un’analisi dei significati del termine “classico” (anche nei limiti di un abbozzo come il presente) non si può fare senza tener presente le modalità con cui esso si incrocia con la coppia Antichi-moderni, e con gli usi che ne furono fatti. È su questo sfondo, inoltre, che va collocata (per sintonia e per sincronia) la tematica del “Rinascimento dell’antichità”, e cioè il progetto di creare, imitando l’antichità “classica”, una nuova “classicità” dei moderni42 . Ecco il motivo della nostra apparente digressione: «creare una nuova classicità dei moderni». Pensare una classicità aperta anche ai successori della “classicità classica”. Questo è il seme dell’idea di Classico così come lo abbiamo fino ad ora inteso. Entrambi i termini di questa tanto feconda opposizione, Antichimoderni, non avevano una connotazione temporale così come oggi saremmo portati a credere; continuiamo a leggere Settis che spiega il dettaglio così approfonditamente e brevemente insieme che riassumere è impossibile oltre che inopportuno. La parola modernus era già nel latino di Cassiodoro, ma solo nei secoli xiii-xiv si cominciò a costruire l’opposizione polemica fra Antiqui e moderni, dapprima nella pratica scolastica (per esempio, il modernus Occam contro l’antiquus Aristotele) e poi in ambito religioso, con la devotio moderna di Gert Groote (sec. xiv), 42 Salvatore Settis, Futuro del "classico", Einaudi, Torino 2004, pp. 61-62. 181 4. L’età moderna una nuova religiosità che insisteva sulla dimensione interiore della fede e della preghiera, opponendosi alle tradizionali forme esteriori di manifestazione della pietà. Per Petrarca e Boccaccio, furono moderni i filosofi scolastici; ma fra gli antiqui essi annoverano non solo Virgilio e Cesare, ma anche Cola di Rienzo con i suoi sogni di rinascita della Roma antica in quella comunale. Antiquus, in questo senso, non aveva più il senso di un’etichetta cronologica, ma piuttosto la pregnanza di un progetto etico-politico, che nel presente (sec. xiv ) intendeva far rivivere le passioni e le virtù degli Antichi. [...] In tutti questi casi, come in molti altri di eguale sapore, la contrapposizione si giocava di fatto tra modelli, posizioni, progetti strettamente contemporanei43 . Si tratta insomma del famoso enunciato: “Noi, gli antichi; noi, i moderni”; l’opposizione dunque non era di tipo cronologico quanto, piuttosto, di tipo filosofico. Anche Kermode nega un’opposizione sostanziale tra i due termini; in The Classic, literary images of permanence and change, torna sul legame tra il concetto di Classico e quello di Moderno ponendo l’ideale di rinnovamento, di sostanziale ritorno, come elemento che differenzia i due contendenti. The word ’modern’ was apparently done without until the sixth century, but its invention made it possibile to say, in A.D. 800, that Charlemagne had insituted a Saeculum modernus. The kind of change introduced by Charlemagne always involves a certain amount of quarrelling, but it constitutes not a querelle so much as a renovatio, a renovation of classical models, attended by a certain amount of clerical opposition. This modern is a renewal of the ancient. Still renewing the past changes our sense of it. The greatest of the renovations, the one we call the Renaissance, did that too44 . Ora non ci resta che analizzare queste due apparentemente opposte posizioni, ricordando che fu proprio nell’ambito della Querelle des Ancients et des Moder43 Salvatore Settis, Futuro del "classico", Einaudi, Torino 2004, pp. 62-63. John Frank Kermode, The Classic, literary images of permanence and change, Faber & Faber, London 1983, p. 16. 44 182 4.3. La Querelle des Ancients et des Modernes nes che la parola già latina classicus fu fatta riemergere e ritornò a circolare nelle moderne lingue europee dopo secoli di assenza e poté così anche assumere l’accezione di cui oggi dibattiamo. Primariamente si applicò alla letteratura, solo più tardi e poco alla volta, iniziò a coprire altri campi; la pittura, la scultura, la cultura in tutte le sue sfaccettature. Classico era quanto appariva in qualche modo imprescindibile, normativo, e visto che di questo si occupa la scuola, Classico, con curioso gioco falso-etimologico divenne “quello che si studia in classe”. «L’attestazione più antica sembra essere nell’Art Poétique di Thomas Sebillet, 1548, dove “les bons et classiques poètes francois” sono Jeaan de Meun, sec. xiii, e Alain Chartier, sec. xv. Il termine divenne poi nell’uso generale soprattutto dopo la fondazione dell’Accademie Française (1635)45 »; Classico come normativo. Del significato del termine ’moderno’, invece, abbiamo già detto alla fine del capitolo 4.2. Quando possiamo far iniziare la disputa tra Antichi e Moderni, o meglio, quando possiamo trovare le radici moderne di questo dibattito, dal momento che di qualcosa di simile c’è traccia anche nella stessa antichità? Sicuramente il punto di partenza è Petrarca, ma del fondatore inconsapevole della poesia occidentale e dell’idea di Umanesimo - Protoumanesimo sarebbe meglio dire - qui non diremo. I suoi vituperati Moderni sono i contemporanei scolastici, lontanissimi da ogni punto di vista dai Moderni di cui parleremo ora, potremmo dire Moderni cartesiani e poi Moderni illuminati. Entrambe le categorie sono però in qualche modo omogenee, foss’anche solo per il loro continuo opporsi in una diatriba seria e seriosa, approfondita e continuata in modo tale da configurarsi come uno dei motori fondativi “rassodanti” della Repubblica delle Lettere, che fu da subito europea e contribuì al consolidarsi poi anche sociale e politico dell’Europa che prefigurava. Se “fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani”, quando l’Europa si fece, gli europei erano stati fatti già da un pezzo; erano ancora divisi in più fazioni, certo, ma di sé avevano già l’idea e in qualche modo la certezza. Queste sono le radici del problema, il germoglio lo possiamo ritrovare in pieno Cinquecento, quando un filosofo francese, Pierre de La Ramèe, iniziò una riforma antiaristotelica del cuore della retorica, arrivando a fonderla con la dialettica e separando poi nettamente l’elocutio da inventio e dispositio. Se il 45 Salvatore Settis, Futuro del "classico", Einaudi, Torino 2004, p. 67. 183 4. L’età moderna primo dei Moderni è un filosofo, dopo di lui seguono gli storici: «Jean Bodin (Methodus, 1566) e Louis Le Roy (La Vicissitude, 1575) riprendono e rinnovano il luogo comune medievale della traslatio imperii et studii per legittimare la superiorità dell’“epoca moderna” (quella del Rinascimento francese) sui cicli precedenti dell’imperium e del sapere46 ». Jean Bodin che, già nato giurista, nei Sei libri della Repubblica del 1576 tracciò origini e limiti della sovranità. Prima di lasciare il Cinquecento e, entrando nel Seicento, entrare anche nel cuore del problema prendiamo in considerazione Montaigne che nei Saggi, scritti e poi rimaneggiati proprio alla fine del secolo, tre sono le edizioni 1580, 1588 e 1595, incarna lo “stato dei lavori” dell’epoca47 . Michel Eyquem de Montaigne nacque nel 1533 in Francia, si avviò alla carriera legale che però interruppe seccamente nel 1570. Si ritirò allora nel suo castello sito nel Périgord, dopo dieci anni di ritiro nel 1580 iniziò un viaggio in Germania e in Italia di cui scrisse nel Diario di viaggio in Italia, edito poi postumo solo nel 1774. L’opera sua principale sono però i Saggi in cui ci racconta la sua interpretazione laica e pure scettica dell’universo. L’opera, che fonda stabilmente il genere di cui porta il nome, sembra nascere sulle sue personali annotazioni ai classici antichi per poi dilatarsi fino ad un colloquio interiore. Questa dicotomia è presente anche nella forma, la sua prosa è di stampo classico, senechiano, ma assume nel lessico, con un certo gusto manieristico, finanche elementi dialettali. L’opera ebbe un numero molto elevato di ristampe e compendi tanto da poter supporre che sia stato tra i testi più letti non solo in Francia ma anche in tutta Europa. Nei suoi Saggi Montaigne, come già detto, ci da il quadro della situazione a fine secolo ma non si pone ancora come castigatore dei tempi moderni, resta semplicemente in adorazione dei tempi passati tanto che dice: Le produzioni di quelle ricche e grandi anime del tempo passato sono ben al di là dell’estremo orizzonte della mia immaginazione e della mia aspirazione. I loro scritti non soltanto mi soddisfano e e mi riempiono, ma mi stupiscono e mi lasciano sbigottito per l’ammirazione. Io giudico la loro bellezza; la vedo, se non fino 46 Marc Fumaroli, Le api e i ragni, La disputa degli antichi e dei moderni, Adelphi, Milano 2005, p. 18. 47 Michel Eyquem Montaigne, Saggi, Adelphi, Milano 1992. 184 4.3. La Querelle des Ancients et des Modernes in fondo, almeno fino a tal punto che mi è impossibile aspirarvi. Qualsiasi cosa io intraprenda, devo un sacrificio alle Grazie48 . Montaigne sembra qui segnare quasi il discrimine tra il classicismo dei suoi predecessori e il neoclassicismo che deve ancora venire; tra chi guarda all’antichità convinto di trovarvi il modo migliore, da imitare e raggiungere e chi guarda all’antichità, sempre convinto di trovarvi il modo migliore, ma anche convinto che con tutto lo studio la perfezione sia ormai perduta per sempre, e pure ci prova ancora. Con lui la disputa pone radici nella lingua francese, dopo che per secoli si era svolta nelle biblioteche e negli scritti ormai paludati dei latinisti. Non può essere un caso che proprio ora e anche grazie a Montaigne, nonostante la sua sfiducia espressa sulla sua lingua rispetto alle antiche, proprio la lingua francese diventerà la lingua della Repubblica delle Lettere, e il francese stesso diventerà una potente carta nella mani dei Moderni contro il latino degli Antichi. La Repubblica delle Lettere, di cui abbiamo appena detto, si nutre di confronti e a volte anche di scontri. Francesco i, re dal 1515, istituì quattro cattedre regie, di greco ed ebraico che nel 1530 si trasformarono nel Collège de France che così dichiara il suo orientamento chiaramente umanistico; nel 1539 poi l’ordinanza di Villers-Cotteret rende obbligatorio l’uso del francese nell’esercizio della giustizia. In Italia nel frattempo si correva ai ripari, è del 1542 circa il Dialogo delle lingue di Sperone Speroni49 , tallonato dalla difesa del francese che diede in risposta J. Du Bellay nel 1549 con Défense et illustration de la langue française50 . Dopo quasi cento anni, nel 1635 il cardinale Richelieu istituì l’Académie Française; fece questo anche perché il francese non fosse più un volgare succedaneo del latino, ma ne prendesse pienamente il posto come lingua di cultura, e di trasmissione di questa, attraverso tutta l’Europa e quindi attraverso tutta la Repubblica delle Lettere. Anche il breve riaffiorare dell’interesse per la lingua e la cultura italiana era ormai finito in Francia, nel 1624 quando a Maria de’ Medici successe, per decisione del re suo figlio, di cui era stata reggente fin dal 1610, Armand-Jean du Plessis, per l’appunto duca di Richelieu che come abbiamo visto fu fautore profondamente convinto della 48 Michel Eyquem Montaigne, Saggi, vol. II, p. 17. Sperone Speroni, Dialogo delle lingue, Manuzio editore, Venezia 1542. 50 Joachim Du Bellay, Défense et illustration de la langue française, Chamard, Paris 1970. 49 185 4. L’età moderna rivalsa del francese. Nel Seicento un uomo di cultura poteva ancora decidere di scrivere in latino, se viveva in Italia scriveva in Italiano, dal momento che chi lo aveva imparato certo non lo disimparò per far piacere al primo ministro; meglio però, per avere il maggior uditorio possibile, scrivere in francese, o procurare che la propria opera in francese venisse al più presto tradotta. Negli anni Venti del Seicento Parigi infatti diventa una vera e propria fucina di traduzioni; si veda l’esempio che Fumaroli ci dà di Francis Bacon che già nel 1605 spera che il suo Of the Advancement of Learming51 sia tradotto in francese mentre dovrà accontentarsi, nel 1623, di una riduttiva, ormai, traduzione in latino52 . Il passaggio dal latino lingua di cultura al francese lingua di cultura non fu però diretto e nell’interregno delle lingue nazionali l’editoria cessò momentaneamente di essere un fatto autenticamente europeo come, abbiamo visto nel capitolo 4.1, fù fino a questo momento. Ciò nonostante il francese aveva saputo far meglio, nella contesa con il latino, di quanto nel secolo precedente avesse già fatto l’Italiano, che non aveva una corte e un potere politico unitario che potesse perorare e facilitare questa trasformazione. L’italiano aveva avuto dalla sua parte diverse opportunità: il primo umanista, Petrarca era di nascita italiano, e sebbene abbia passato tanta parte della sua vita in terra francese, alla corte di Avignone, scelse come lingua volgare, sempre sottoposta al latino, l’italiano. Il rinascimento, a partire dall’arte, era stato italiano ed aveva quindi facilitato l’ascesa della lingua italiana nelle preferenze europee. L’italiano inoltre aveva avuto un suo vocabolario con un secolo di anticipo rispetto al francese, edito nel 1694; nel Cinquecento «la tanto deprecata Italia diviene soprattutto per questo (cfr. supra la transculturalità e trasconfessionalità che acquistano le ’forme’ del Rinascimento italiano, veicolate dai testi di Baldassarre Castiglione, di Giovanni della Casa e di Stefano Guazzo) meta imprescindibile dell’educazione dell’artista e del gentiluomo e - per fare un esempio concreto - fra 1550 e 1640 sono circa quattrocento i titoli italiani tradotti in inglese, di 225 autori diversi, e senza contare quelli in lingua originale53 ». Anche la carta, 51 Francis Bacon, Of the Advancement of Learming from Rome to End, Colonial Preess, 1900. Marc Fumaroli, Le api e i ragni, La disputa degli antichi e dei moderni, Adelphi, Milano 2005, p. 23. 53 Marcello Fantoni, Storia di un’idea in Marcello Fantoni (a cura di), Il rinascimento italiano e l’Europa: Storia e storiografia, Angelo Colla Editore, Treviso 2005, p. 31. 52 186 4.3. La Querelle des Ancients et des Modernes veicolo importante della scrittura e presupposto indispensabile alla stampa era stata predominio d’Italia che «rimase fino al Cinquecento la grande fornitrice di carta di qualità per tutta l’Europa [...] in questo campo, con i loro capitali e con le loro conoscenze tecniche, gli Italiani ebbero all’inizio una parte fondamentale. Dalla fine del Quattrocento, la produzione italiana non basta più ai bisogni d’Oltralpe54 » e gli abili commercianti italiani si trasferirono all’estero o all’estero finanziarono l’installazione o la riconversione dei mulini agricoli per la lavorazione della carta55 . Anche la stampa abbandonò ben presto Magonza e la Germania se già nel 1480 le stamperie erano più numerose e attive in Italia che in qualsiasi altro luogo d’Europa; il predominio venne perso presto e pochi ma eccellenti rimasero i luoghi della stampa in Italia con a capo la fulgente Venezia dei Manuzio per iniziare e poi Torresani, Giolito e Remondino e altri ancora, tutti raggruppati vicino, vicinissimo alla laguna che mantenne a lungo il suo primato, tallonata da due città francesi: Parigi e Lione. Persino nel campo della legatoria, arte così sensibilmente legata alla storia del libro, con l’introduzione in Europa del Marocchino e della tecnica della doratura su cuoio, fin dalla fine del Quattrocento l’Italia era stata l’assoluta avanguardia anche grazie al favore accordato direttamente da Aldo Manuzio. Ecco a questo proposito cosa dice Victor Scholderer nella prefazione al VII volume del Catalogue of Books Printed in the XV century del British Museum56 : L’Italia [nel Quattrocento] si trova culturalmente molto più avanti i confronto al resto dell’Europa occidentale. Non c’è soggetto (eccettuata la teologia) in cui essa non sia all’avanguardia, sia nella quantità, che nella qualità dei suoi libri. E per parecchie opere, specialmente per quelle umanistiche e per le scienze naturali, essa ha quasi un monopolio, tanto che gli studiosi degli altri paesi erano interamente dipendenti per il loro strumenti di studio dalle opere ivi stampate. Nello stesso tempo, mentre gli incunaboli italiani formano il più variato ed interessante corpo di libri del loro 54 55 Jean-Francois Gilmont, Dal manoscritto all’ipertesto, Le Monnier, Firenze 2006, p. 52. Lucien Febvre - Henri-Jean Martin, La nascita del libro, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 24. 56 Catalogue of Books Printed in the XV century. British Museum, William Bookseller, London 1657, p. XXXVIII. 187 4. L’età moderna tempo, la cultura che essi rivelano è così a pieno elaborata, da apparire nel suo complesso statica. Il contributo del Nord alla stampa delle origini è per molti aspetti inferiore a quello italiano, ma presenta ad ogni modo il vantaggio di mostrare la cultura nordica nel suo differenziato processo di crescita. Nonostante tutto questo e nonostante anche la diffusissima pratica del Grand Tour per tutto il “long eighteenth century”, centoventicinque anni dal 1689 al 1815, e la diaspora artistica di tutti quegli italiani, artigiani della cultura (architetti, stuccatori, ingegneri, ma anche cantanti e musicisti) verso le grandi corti europee che erano prontissime ad accoglierli, la lingua italiana non riuscirà a compiere quel salto di qualità che seppe fare invece la lingua francese che conquistò la coraona e seppe poi conservarla indiscussa dalla seconda metà del diciassettesimo fino al ventesimo secolo, anzi from the long eighteenth century to short twentieth century. Una volta diventata la lingua della trasmissione di cultura, il francese divenne la lingua di trasmissione tout court, anche la diplomazia se ne appropriò, ma questa è un’altra storia, quello che ci interessa è che Parigi divenne oltre che capitale di Francia anche capitale della Repubblica delle Lettere e che il fuoco del dibattito si svolgerà infatti in Francia e in Francese. L’interesse sviluppato dai francesi per la formalizzazione e l’esportazione del francese, bisogna ricordarlo, viaggia di pari passo con l’assolutismo monarchico; anche le lettere seguirono lo stesso percorso e il francese di Parigi soppiantò tutte le spinte provincialistiche del resto del territorio. Diversamente accadde in Italia dove, però, accanto alla varietà di lingua si poté instaurare anche una pluralietà di generi e di stili, già Boileau, il grande formalizzatore del secolo, ne aveva coscienza e così infatti scrisse nell’Art poetique: Evitons ces excès: laissons à l’Italie De tous ces faux brillants l’éclatante folie57 57 Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, I vv. 43-44. Evitiamo questi eccessi: lasciamo all’Italia / di tanti falsi splendori l’eclatante follia. 188 4.3. La Querelle des Ancients et des Modernes I francesi rinunciarono anche a questo e la letteratura francese perderà le sue periferie rafforzando invece in Parigi, e nella corte, il suo centro, ancora Boileau dice: Sans la langue, en un mot, l’auteur le plus divin Est tojours, quoi qu’il fasse, un méchant écrivain58 Boileau, ci soffermiamo ancora un momento su questo autore che fra poco raggiungerà il centro del nostro interesse, si perita anche di indicare quale lingua e quale stile bisogna acquisire, la medietas di oraziana memoria è sempre al centro del suo interesse: Souvent la peur d’un mal nous conduit dans un pire. Un vers était trop faible, et vous le rendez dur; J’évite d’être long, et je deviens obscur L’un n’est point trop fardé, mais sa muse est trop nue. L’autre a peur de ramper, il se pers dans la nue[...] Prenex mieux votre ton. Soyez simple avec art, Sublime sans orgueil, agréable sans fard59 . Allo stesso modo è importante l’idea di ragione, che infatti col suo intero campo semantico sembra ricoprire l’intera opera. Quelque sujet qu’on traite, ou plaisant, ou sublime, Que toujours le bon sens s’accorde avec la rime [...] Aimez donc la raison: que toujours vos écrits Empruntent d’elle seule et leur lustre et leure pensèe[...] Avant donc que d’écrire apprenez à penser. Selon que notre idée est plus ou moins obscure, 58 Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, I vv. 161-162 Senza la lingua, in una parola, l’autore più divino / È comunque, qualsiasi cosa faccia, un mediocre scrittore. 59 Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, I vv. 64-68, 101-102. Sovente la paura di un male ci conduce ad uno peggiore. / Un verso era troppo debole, e voi lo rendete duro; / Evito di essere prolisso, e divento oscuro / Il primo non ha troppi fronzoli, ma la sua musa è troppo nuda. / L’altro col timore di strisciare, si perde tra le nuvole è[...] Scegliete meglio il vostro tono. Siate semplici con arte, / sublimi senza orgoglio, Aggraziati snza orpelli. 189 4. L’età moderna L’expression la suit, ou moins nette, ou plus pure60 . Lasciamo per ora da parte la storia della lingua francese, dal momento che un ulteriore approfondimento esula dal nostro discorso e torniamo alla Querelle. Nel frattempo anche in Italia si era aperta la discussione, che pure presto confluirà in quella francese. Nel 1565, a Modena nasce Alessandro Tassoni. L’opera più nota di Tassoni fu senz’altro La secchia rapita, un vasto poema edito nel 1624, tradotto e imitato più volte, che arrivò perfino a dare all’autore, in seno alla disputa di cui discorriamo, fama di moderno. Il poema, nella pochezza del motivo del contendere, la secchia, sembra a volte una parodia canzonatoria dell’epica antica dove ad essere rapite, invece, erano le donne più belle del tempo. Ad un a più profonda analisi invece la pochezza di cui diciamo sembra invece denigrare l’intelligenza e lo spirito, moderno, dei protagonisti che la secchia rapirono e peggio ancora che per la secchia rapita iniziarono una sanguinosa guerra, Bologna e Modena nel xiii secolo. Nasce l’epica alla rovescia, e la secchia rapita ne è il primo capolavoro europeo61 , ed è ben diversa dalla parodia dell’epica, da cui aveva ad esempio iniziato Charles Perrault con Les murs de Troie, parodia dell’Eneide, composta nel 1653. Il poema di Tassoni viaggiò attraverso tutta Europa e fu subito benaccetto così come testimoniano le subite traduzioni e le imitazioni tra cui spicca Le Lutrin di Nicolas Boileau, un poemetto satirico in sei canti iniziato nel 1674 e pubblicato completo nel 168362 . Boileau recepisce il messaggio nella sua sostanza e trasformerà la secchia dei modenesi nel leggio della Sainte-Chapelle di Parigi la cui disposizione estetica era disputata acremente dal maestro del coro e dal tesoriere. Più tardi anche 60 Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, I 26-27, 37-38, 150-152. Di qualsiasi argomento si tratti, comico o sublime, / sempre il buon senso si accordi con la rima [...] Amate dunque la ragione: che sempre i vostri scritti / traggano da lei sola sia il loro lustro che la loro intenzione [...] Prima di scrivere imparate a pensare. / secondo che l’idea sia più o meno oscura, / l’espressione la segue o più nitida, o più pura. 61 Il genere, in nuce, è già nel Morgante di Pulci pubblicato nel 1478 in 23 cantari e poi nel 1483 in 28 cantari (Morgante maggiore), si veda ad esempio il passo di Morgante e Margutte all’osteria, nel canto xviii dove invece che creare suspence chiedendosi che fine farà l’eroe (anche modernamente, in chiusura di molte puntate di telefilm o cartoni animati: ce la farà il nostro eroe...?), l’autore propone «Or udirete come andò il formaggio». 62 Nicolas Boileau, Le Lutrin, Brunetière, Paris 1911. 190 4.3. La Querelle des Ancients et des Modernes l’Inghilterra mostrò il suo apprezzamento, nel 1712 con il The rape of the lock, Il ricciolo rapito, di Alexander Pope63 . Procediamo con ordine, nel 1613 Tassoni esordì con una raccolta di meditazioni critiche, sull’onda del genere inaugurato trionfalmente da Montaigne, titolato Varietà di pensieri di Alessandro Tassoni e diviso in nove parti; nel 1620 ve ne aggiunse una decima, Ingegni antichi e moderni64 che si pone in polemica con l’auctoritas di Aristotele a favore dei moderni. Curioso notare che Tassoni in questo testo, oltre che a ripetere quanto già detto ad esempio da Montaigne sulle lingue moderne, e sempre ben lungi dal cadere nel baratro del laudator temporis acti, sempre come Montaigne, si soffermi anche a parlare dei generi letterari. Gli antichi a suo parere erano ottimi nei generi puri: tragedia e commedia, generi adombrati come di per se stessi superiori; mentre i moderni sono eccelsi inventori e fautori dei generi misti e cita ad esempio la tragicommedia, notiamo di sfuggita che anche la sua stessa opera maggiore difficilemente si può considerare di genere puro. Era nata la Querelle, e nonostante continuasse anche in Italia, ad esempio con i Ragguagli del Parnaso di Traiano Boccalini65 , dove il Parnaso voleva rappresentare tutta la Repubblica delle Lettere, subito il centro della contesa si spostò nuovamente in Francia. Le immagini di Boccalini erano ancora quelle di Montaigne, senza una netta contrapposizione quanto piuttosto un parallelo secondo la tradizione rinascimentale italiana, e vincevano comunque gli antichi. Un ultimo tassello della disputa italiana che è comunque parentesi al nostro discorso: l’Hoggidì di don Secondo Lancellotti di cui di nuovo Fumaroli. Nel 1623 a Venezia veniva pubblicato un volume davvero cospicuo: L’hoggidì ovvero il mondo non peggiore, né più calamitoso del passato; il titolo sembra già suggerire tutto il suo enorme contenuto66 . Ad ogni modo possiamo considerare Lancellotti come un ponte dalla disputa italiana alla disputa francese e quindi europea. Il primo volume dell’opera era dedicato a papa Urbano VIII, ciò nonostante nel 1641 Lancellotti fu costretto a rifugiarsi a Parigi dove dedicò il compendio dell’opera, che riu63 Alexander Pope, The Rape of the Lock, Lintott, London 1714. Alessandro Tassoni, Varietà di pensieri, Vaschieri, Carpi 1620. 65 Traiano Boccalini, Ragguagli del Parnaso, Guerigli, Venezia 1636. 66 Secondo Lancellotti, L’hoggidì ovvero il mondo non peggiore, né più calamitoso del passato, Guerigli, Venezia 1636. 64 191 4. L’età moderna scì subito a dare ai torchi, al cardinale Richelieu. L’anno successivo morì e non ci è dato di sapere quale apporto alla disputa francese avrebbe saputo o potuto darci, comunque il passaggio era avvenuto e la Querelle sarà di qui in poi affare francese. Gli hoggidiani sono coloro che dicono sempre hoggidì, per spregiarne quanto più possibile, sono i pedanti amanti del passato, dipinti qui prima ancora che la discussione portasse alcuni degli esponenti di questa parte a comportamenti simili; abbiamo visto fin’ora come gli amanti del passato non si sognino neppure di esaltare il passato come perfetto contro un presente completamente degradato: già Tacito del resto aveva messo in guardia da questi eccessi. Mentre Lancellotti procurava di pubblicare a Parigi un compendio dell’opera, sempre in italiano, Sieur de Rampalle si impegnava ad adattare il testo in francese, che uscì quello stesso anno, il 1641, con il titolo di L’Erreur combattue. Discours académique, où il est curieusement prouvé que le monde ne va point de mal en pis67 . Il seme ormai era stato lanciato e trovava in Francia e in francese un terreno fertilissimo dove crescere e moltiplicarsi. Abbiamo visto come Richelieu si dedicò alla propaganda per la supremazia del francese, non fu l’unico e il tentativo non si spense con lui nel 1642; anzi in un certo qual modo lui steso continuò l’opera anche dopo tale data. A Parigi nel 1595 nasceva Jean Desmarets de Saint-Sorlin, fu membro dell’Accadémie fin dalla sua fondazione e confidente intimo di Richelieu; con l’aiuto del primo ministro ebbe importanti incarichi amministrativi e su suo invito scrisse numerose opere drammatiche. Desmarets si comportò sempre fedelmente e si convinse ben presto che fosse degno e anche piacevole sottomettersi completamente all’autorità che governa lo stato e che dona benefici ai più devoti. Completamente formato dalle idee moderniste del cardinale gli sopravvisse e continuò per suo conto, né Mazzarino prima né lo stesso Luigi xiv vollero servirsi di lui come invece implorava. Era ormai avanti con l’età quando, quasi comprendendo la grandezza della disputa che si profilava, volle quanto meno darle inizio: nel 1670 scrisse infatti Comparaison de la langue et de la poésie française avec la graecque et la latine, ovviamente, memore del suo primo ed unico mentore, tutta la sua trattazione innalza la lingua, la poesia francese, e quindi 67 Rampalle, L’Erreur combattue. Discours académique, où il est curieusement prouvé que le monde ne va point de mal en pis, Courbé, Paris 1641. 192 4.3. La Querelle des Ancients et des Modernes la Francia e il suo re. Mais notre langue règne, et doit etre immortelle. Nos Rois sont protecteurs de l’Église éternelle. Cet état et nos vers Dureront avec elle autant que l’Univers68 . Alcuni anni dopo, prossimo ormai alla morte difese ancora la lingua francese con un poema dedicato a Perrault, a cui sembra passare il testimone: Perrault, arme avec moi ton style, Joins ta voix à ma voix. À mon luth accorde ta lyre. Publions en tous lieux où s’étend cet empire La force et la beauté des ouvrages francais. Du siècle de luois célébrons l’avantage69 . Il testimone era stato passato ed accettato, Desmarets aveva chiesto di celebrare il secolo di Luigi e Perrault eseguiva. Nel 1687 Charles Perrault, per festeggiare degnamente la guarigione del suo re, Luigi xiv, prepara il poema Le Siècle de Louis le Grand, declamato poi trionfalmente davanti all’Accadémie Française, di cui sarà membro dal 1671, dall’abate di Lavau. Perrault porterà avanti la parte dei Moderni anche grazie ad altri scritti teorici quali i Parallèles des anciens et des modernes scritto tra 1688 e 1697, che aprì ufficialmente la disputa, e Les hommes illustres qui ont paru en France pendant le xvii siècle tra 1696 e 1700. Il suo contributo maggiore alla disputa, così come alla letteratura francese è però più fattivo che teorico; pubblicò, infatti, numerosi libri di fiabe, fondandone il genere in Francia. Con questo voleva opporsi alla potenza didattica 68 H. Gaston Hall, Richelieu’s Desmarets and the century of Louis XIV, Clarendon Press, Oxford 1990, p. 301, citato in Marc Fumaroli, Le api e i ragni, La disputa degli antichi e dei moderni, Adelphi, Milano 2005, p. 126 Ma la nostra lingua regna, e deve essere immortale. / I nostri Re sono protettori della chiesa eterna. / questo stato e i nostri versi / dureranno con lei quanto l’universo. 69 Jean Desmarets, La défense de la poésie, et de la langue française, adressée a Monsieur Perrault, Le Gras, Paris 1675, p. 29. Perrault arma con me il tuo stile, / unisci la tua voce alla mia voce. / Al mio liuto accorda la tua lira. / Rendiamo pubblico in tutti i luoghi in cui si estende questo impero / la forza e la bellezza delle opere francesi. / Del secolo di Luigi celebriamo la supremazia. 193 4. L’età moderna ed educativa della mitologia classica, fornendone una degna alternativa nella fiaba, laddove i soggetti e la moralità sono colti dall’antica tradizione orale e sono portati brillantemente all’evidenza di opera d’arte soprattutto in virtù di una forte semplicità e sobrietà che finisce per avvicinarli proprio agli antichi racconti di mitologia antica da cui voleva allontanarsi. Con questi Perrault fonderà la futura letteratura dell’infanzia. La bella addormentata nel bosco, I racconti di mamma Oca, Cappuccetto rosso, Cenerentola, Il gatto con gli stivali sono diventati il modello della fiaba nel mondo occidentale e possono a buon titolo essere considerati Classici di genere70 . Torniamo ora al poema di Perrault da cui eravamo partiti: La belle Antiquité fut toujours vénérable, Mais je ne crus jamais qu’elle fut adorable. Je vois les Anciens sans ployer les genoux, Ils sont grands, il est vrai, mai hommes comme nous; Et l’on peut comparer sans crainte d’etre injuste Le siècle de Louis au beau siècle d’Auguste71 . Appare buffo che proprio mentre cerca di allontanarsi, seppur con garbo, dagli antichi, Perrault usi un topos greco, quello che vede la sede della forza nelle ginocchia, che cedono quindi per il timore davanti ai più grandi e ai più degni ed è parte infatti anche del makarismos, il riconoscimento di forza e felicità dovuto al sovrano che ad esempio fa Ulisse davanti a Nausicaa sulla spiaggia dei Feaci riconoscendola di fatto come la figlia del re. Notiamo qui subito che il disegno dell’opera prevede di fare proprio del re la prova schiacciante della superiorità dei moderni. L’inganno verrà però svelato e nel 1687 Longepierre nel suo Discours sur les Anciens dichiarerà che si tratta solo di un sofisma e che Luigi non è il re di una sola parte, come lui stesso dimostrerà accordando favori e protezione a persone variamente schierate: 70 Si veda ad esempio Marc Soriano (a cura di), Les Contes de Perrault, études critique, Gallimard, Paris 1968. 71 Charles Perrault, Le Siècle de Louis le Grand, vv. 1-6 La bella Antichità fu sempre venerabile, / ma non ho mai creduto fosse da adorare. / Io vedo gli Antichi senza piegare le ginocchia, / essi son grandi, è vero, ma sono nuomini come noi; / e si può paragonare senza timore d’essere ingiusti / il secolo di Luigi al bel secolo di Augusto 194 4.3. La Querelle des Ancients et des Modernes Si fa appello alla gloria del re. Si vuole impressionare con lo splendore che circonda la sua persona; e senza vedere che così lo si vuol rendere complice di un’ingiustizia, si pensa soltanto che la vittoria si accompagni sempre al suo augusto nome, e che niente sia impossibile con un simile soccorso72 . Torniamo a Perrault che passa a gettare discredito sugli antichi, Aristotele, Platone ma anche Erodoto come fosse non fededegno nella sua disposizione storica; d’altra parte poi elenca con incredibile fierezza le invenzioni recenti che portano i Moderni a buggerarsi degli Antichi tanto che: La docte Antiquité, dans toute sa durée A l’egal des nos jours ne fut point èclairée73 . Interessante è la specificazione che dell’antichità fa qui Perrault, non si vuole limitare a una sezione particolarmente brillante dell’antichità; non si riferisce al periodo d’oro che va da Pericle ad Augusto, né tanto meno alla riduzione massima che vede come gioielli dell’antichità i soli due secoli di Pericle, sempre, e di Augusto. Pur prendendo in considerazione tutta l’antichità, questa, a suo parere, è ormai stata in tutti i campi surclassata. A questo punto fa entrare in gioco anche Omero, dove la critica si fa più leggera: non è infatti colpa sua se è nato nell’antichità; Perrault se ne rammarica, pensando a quali vette sarebbe arrivato se avesse avuto la somma fortuna di nascere sotto il regno di Luigi ed emendare dai difetti antichi la sua opera. Viene qui proposta un’idea di progresso moderna, gli uomini sono intelligenti e capaci sempre alla stessa maniera ma le circostanze del regno di Luigi sono le migliori che si siano mai verificate. I contemporanei non sono più nani sulle spalle dei giganti, di medievale memoria, sono anzi quasi giganti sulle spalle di nani. Perrault non ereditò da Desmarets solo il compito di glorificare Luigi e il suo secolo moderno, ereditò anche il suo più grande nemico che pur gli sopravvisse: Nicolas Boileau. Del suo subitaneo apparire nella disputa con Le Lutrin 72 H. B. De Longpierre, Discours sur les Anciens, Aubouin, Paris 1687, p. 187. Charles Perrault, Le Siècle de Louis le Grand, vv. 69-70 La dotta Antichità, in tutta la sua durata / non fu punto illuminata quanto ai nostri giorni. 73 195 4. L’età moderna abbiamo già detto, vediamo ora il resto della sua vita che presa per intero (16361711) copre perfettamente il periodo insieme storico e culturale che indaghiamo in questo capitolo. Nicolas Boileau, detto Boileau-Despréaux, dal nome di una proprietà di famiglia usato per distinguerlo dai fratelli in particolare da Gilles, membro dell’Académie fin dal 1659, dapprima avviato alla avvocatura dal padre si interessò alla letteratura apparentemente solo alla morte di questo. Amico e confidente dei letterati più in auge del tempo, tra cui Molière, Racine, La Fontaine, ottenne subito l’appoggio del pubblico quanto la protezione, e nel 1699 una pensione di 1000 livres, di Luigi xiv: «J’ordonnerai à Colbert de vous les payer d’avance et je vous accord le privilège pour l’impression de tous vos ouvrages74 ». Entrò a far parte dell’Académie nel 1684, e l’anno successivo nell’Académie des inscriptions et médailles, e contestualmente anche della disputa di cui la nostra analisi. Autore noto per le sue cocenti satire, da cui dovette peraltro astenersi per un quarto di secolo, venne comunque tacciato di rigidità e sottomissione dal secolo dei romantici che non ne volevano vedere l’autonomia attraverso la pur indiscussa fedeltà al re che gli procurò, insieme a Racine, anche la non desiderata carica di storiografo di corte nel 1677. Lo stesso anno decise di contrapporsi alla sua causa Bernard Le Bovier de Fontenelle che, forse per i Corneille, di cui è nipote e quindi contro Racine, nel 1687 pubblicherà Digression sur les Anciens et les Modernes. L’apporto fondante alla Querelle verrà poi nel 1683 con i Noveaux dialogues des morts, dove al Parnaso di Boccalini fa eco l’inferno plutonico: il rovesciamento non poteva essere più completo e verrà anche ripreso nel 1700 da Fénelon nel suo Dialogues des morts anciens et modernes. Bisogna anche aggiungere che già con Fontenelle il dibattito sembra ormai aver perso il suo spessore per diventare, in confronto ai suoi predecessori, quasi un esercizio dovuto. Torniamo adesso a Boileau, in questa sede lo prenderemo in analisi principalmente come critico e storico della letteratura a cagione della sua Art Poétique del 1674 che dopo la pars destruens costituita dalle Satire si può considerare, almeno in parte, la successiva pars construens che fondi da capo l’idea del sublime. La sua definizione del sublime non si può dire completamente né intensiva 74 196 Vera Zdrojewska, Boileau, La Scuola, Brescia 1948. 4.3. La Querelle des Ancients et des Modernes che estensiva, l’apporto maggiore al discorso non è dato infatti dal “come si fa” o dal “ come ha fatto tizio”, piuttosto dal “come non si fa, come non ha saputo fare caio” anche laddove caio è un caro amico o un esponente della sua stessa parte; tutto questo in pieno accordo col suo animo satirico e censorio. Nel primo canto dell’opera Bolieau esordisce parlando della natura del poeta in riferimento alla creazione poetica: la sua posizione è evidentemente nel solco lasciato dalla fortunata massima poeta nascitur, indicazione temperata, come abbiamo già visto dal fortissimo risalto dato alla ragione e allo studio. Potremmo con le stesse parole di Fumaroli dire: «A suo avviso la fonte e i criteri del giudizio trascendono tutti i secoli e tutte le epoche; sono costanti giurisprudenziali comuni a tutti i grandi spiriti della storia umana75 ». Ecco l’incipit dell’opera che ben esemplifica questo concetto: C’est en vain qu’au Parnasse un téméraire auteur Pense de l’art des vers atteindre la hauteur: S’il ne sent point du ciel l’influence secrète, Si son astre en naissant ne l’a formé poète, Dans son génie étroit il est toujours captif: Pour lui Phebus est sourd, et Pegase est rétif76 . La poesia è quindi un dono fatto al poeta che deve da parte sua coltivarlo e saggiarlo con l’aiuto di un critico onesto, se stessi in prima istanza, poi gli amici sinceri che, a suo parere, dovrebbero comportarsi proprio come lui stesso fece in questa stessa opera, dove non poté esimersi dalla critica anche nei confronti degli amici. Soyez-vous à vous-même un sévère critique [...] Mais sachez de l’ami discerner le flatteur[...] Un sage ami, toujours rigoreux, inflexible, 75 Marc Fumaroli, Le api e i ragni, La disputa degli antichi e dei moderni, Adelphi, Milano 2005, p. 130. 76 Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, I, 1-6. È invano che l’autore temerario del Parnaso / Pensa di raggiungere l’altezza con l’arte dei suoi versi: / Se non sente l’influenza segreta del cielo, / se alla nascita il suo astro non l’ha fatto poeta, / È sempre prigioniero del suo ridotto genio: / Per lui Febo è sordo, e Pegaso restio. 197 4. L’età moderna sur vous fautes jamais ne vous laisse paisible77 E ancora nel quarto canto: Je vous l’ai déja dit, aimez qu’on vous censure, Et, souple, à la raison, corrigez sans murmure78 . L’ultimo giudice, ovviamente, è solo il re. «Boileau si rivolge al pubblico contemporaneo - e allo stesso re -, dall’alto, mostrandogli come lui non sia né il solo né il miglior giudice: la letteratura è un fenomeno di lunghissima durata; per diventare un Classico, un capolavoro letterario deve trarre il suo significato, la sua risonanza, i suoi sapori dai capolavori del passato, dei quali si nutre e con i quali compete79 ». Ecco le parole di Boileau: Htez-vous leentement; et, sans perdre courage, Vingt fois sur le métier remettez votre ouvrage: polissez-le sans cesse et le repolissez; Ajoutez quelquefois, et souvent effacez80 . Un occhio al passato (fortissimo l’eco del festina lente con cui iniziano questi versi) e l’altro al futuro, lontanissimo dall’immagine di parruccone e passatista a cui la critica romantica lo consegnerà. La rigidità nel giudizio invece, almeno per quanto riguarda il campo che solo sembra interessarlo, sembra appartenergli del tutto visto che nel quarto canto dice: Il est dans tout autre art des degrés différents. On peut avec honneur remplir les seconds rangs; Mais dans l’art dangereux de rimer et d’ècrire, 77 Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, I, 184. Siate per voi stessi un critico severo [...] sappiate discernere dall’amico l’adulatore [...] Un amico saggio, sempre rigoroso, inflessibile, / non vi lascia mai riposare sui vostri errori. 78 Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, IV vv. 59-60. Ve l’ho già detto, amate chi vi censura, / E remissivo alla ragione, correggete senza proteste. 79 Marc Fumaroli, Le api e i ragni, La disputa degli antichi e dei moderni, Adelphi, Milano 2005, p. 157. 80 Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, I vv. 171-174. Affrettatevi lentamente; e, senza perdere coraggio, / venti volte rimettete in cantiere la vostra opera: / pulitela e ripulitela senza tregua; / aggiungete qualche volta e più spesso cancellate. 198 4.3. La Querelle des Ancients et des Modernes Il n’est point de degrés du médiocre au pire81 . Dopo il primo, quindi, esistono tutti gli altri; questo sembra riportarci proprio al primo significato di Classico, cioè della prima classe; tutti gli altri stanno insieme, decisamente sotto il primo. Di questo dettaglio, che non ci sentimao di appoggiare pienamente, riparleremo più tardi nel capitolo 6.14. L’ultimo consiglio che Boileau lascia è di guardarsi dall’arte che ha intenzioni morali, in questo modo non sarebbe più vera arte, nell’opera infatti l’interesse è sempre concentrato sulla forma consona ad ogni genere; sembra quasi una profetica visione de «l’arte per l’arte» che seguirà solo dopo alcuni secoli. Allo stesso modo nell’Epitre ix, generalmente considerata come un’integrazione all’Art poétique sembra anticipare dapprima la stagione romantica ottocentesca tanto vicina al concetto di verità: «Rien n’est beau que le vrai, le vrai seul est aimable»; e quindi di nuovo il Novecento con il desiderio di semplicità e autenticità: «La simplicité plait sans étude et sans art». Ancora una piccola nota prima di lasciare Boileau, nel 1674, nella stessa raccolta dell’Art poétique, e prima ancora di prendere parte alla disputa, a testimonianza del suo sincero interesse per la questione, compare una bellissima traduzione, Le traité du sublime, probabilmente già iniziata dal fratello Gilles, di cui eredita tutti i manoscritti, di un trattato di poetica, Del Sublime, che abbiamo già analizzato nel capitolo 2.3. Appare interessante notare il suo interesse per le posizioni che, tanto tempo prima, i suoi stessi amati antichi avevano assunto sul problema che lui stesso stava affrontando: un’ulteriore prova di quanto Boileau e gli Antichi sapessero portare letteralmente a nuova vita lo spirito che riconoscevano nei predecessori82 . Alla traduzione si affiancheranno nel 1694 nove Reflexions sur Longin seguite infine da altre tre nel 1701. In queste riflessioni è interessante notare come Boileau non usi solo versi di autori antichi per dimostrarne la indiscutibile grandezza ma anche versi di autori suoi contemporanei che pure lui affianca e considera pari ai migliori tra gli antichi. Nella quarta riflessione, ad esempio, riferendosi al quarto libro dell’Iliade, 81 Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, IV vv. 29-32. Ci sono in tutte le altre arti gradi differenti. / In cui si può con onore occupare il secondo rango; / Ma nell’arte pericolosa del rimare e dell’ scrivere, / non ci sono passaggi intermedi tra mediocre e pessimo. 82 Si veda ad esempio Jules Brody, Boileau and Longinus, Librairie E. Droz, Geneve 1958. 199 4. L’età moderna dove viene allegoricamente descritta la Discordia, motore della guerra di Troia, dopo aver citato i cedri del Libano del salmo 36 aggiunge anche due versi dell’Esther di Racine, suo amico e evidentemente a suo parere Antico pari agli Antichi. In questa riflessione accosta quindi le radice della cultura europea: da una parte l’antichità classica, dall’altra la tradizione biblica. Al tutto unisce infine l’apporto del mondo a lui contemporaneo che viene accolto con pari credito, e pari merito, dall’antichità. Eppure come nella settima riflessione ci dice, non può giudicare la grandezza dei contemporanei infatti bisogna aspettare «l’approbation de la postérité qui puisse établir le vrai mérité des ouvrages»; la contemporaneità può infatti essere distratta nel giudizio da elementi accessori, non universali. Abbiamo parlato e citato più volte il primo canto dell’Art poetique, nei successivi Boileau ci lascia alcune indicazioni sulla sua idea di canone, su quelli che sono i suoi Classici, vediamoli. Il primo genere di cui tratta è l’idillio, la medietas è forse difficile da trovare ma «suivez, pour la trouver, Thèocrite et Virgile83 »: basta seguire Teocrito e Virgilio. Seconda è l’elegia, malgestita dai moderni ma ottima in Tibullo e Ovidio84 . Segue l’ode di cui riporta, pur senza nominarlo, l’ode xii del libro ii di Orazio85 . Dell’epigramma dice poco e male avendo, a suo parere, rovinato d’artificiosità madrigale, sonetto, tragedia ed elegia tanto che «La raison outragée enfin ouvrit les yeux86 » e se li scrollò di dosso lasciando uno spiraglio al solo epigramma che giochi sul pensiero, la tanta amata ragione, e non sulle vuote parole; già nel primo canto aveva ricordato che le stesse rime, cuore dell’epigramma, sono serve e non padrone: «La rime est une esclave, et ne doit qu’obéir87 ». Cita poi velocemente e con una certa benevolenza rondò, ballata e madrigale per poi soffermarsi sulla tanto amata satira; sono molti qui i modelli proposti, forse per il favore dato al genere in se stesso, Lucilio per primo e poi Orazio, Persio e Giovenale. Nel terzo canto, un vero deposito di prestiti oraziani più ancora che gli altri tre, inizia a trattare 83 Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, II v. 26. Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, II vv. 54-55. 85 Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, II vv. 69-70. 86 Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, II v. 123. La ragione oltraggiata infine aprì gli occhi 87 Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, I v. 30. La rima è una schiava, destinata ad obbedire. 84 200 4.3. La Querelle des Ancients et des Modernes i generi più antichi; parte ovviamente dalla tragedia di cui ci indica prima i personaggi principali, da cui possiamo ben intendere gli autori. Edipo che ci riporta a Eschilo, Oreste che riunisce i tre grandi tragici greci, Eschilo, Sofocle, Euripide. Dopo qualche verso, nel far la storia antica del genere, a scanso di equivoci nomina Eschilo e Sofocle, come aveva già fatto Aristotele (si veda il capitolo 2.1) lascia per una volta da parte Euripide. In riferimento alla tragedia Boileau resta ligio alle tre unità aristoteliche infatti al verso 43 dice: Mais nous, que la raison à ses règles engage, Nous voulons qu’avec art l’action se ménage; Qu’en un lieu, qu’en un jour, un seul fait accompli Tienne jusqu’à la fin le thé tre rempli. Jamais au spectateur n’offrez rien d’incroyable: Le vrai peut quelquefois n’être pas vraisemblable. Une merveille absurde est pour moi sans appas: L’esprit n’est point èmu de ce qu’il ne croit pas88 . Teniamo da parte quest’ultimo verso perché è davvero significativo, la verità fonda qui il canone estetico in accordo con le unità aristoteliche; più tardi, altrove, Manzoni le negherà ma sempre fondando la sua personale scelta sulla verità. È questo un elemento molto importante che riprenderemo alla fine del nostro lavoro nel capitolo 6.6. Boileau passa poi a parlare della poesia epica dove porta come esempio e modello la storia di Enea, ecco di nuovo Virgilio, e l’ira di Achille, Omero, che degnamente hanno parlato di argomenti alti; eppure Boilaeu sente ora il bisogno di aggiungere la morale cristiana e il vangelo con la sua verità (di nuovo) in questo genere. Questa operazione oggi non solleva critiche, ma era condotta allora in un periodo, ricordiamolo, che vedeva una disputa in parte accesa sulla liceità di un poema sia epico che cristiano. Boileau qui anticipa 88 Nicolas Boileau, Art Poetique, Delalain, Paris 1815, III, 43-50. Ma noi che ci siamo impegnati alle regole della ragione, / vogliamo che con arte l’azione sia organizzata; / Che in un luogo, in un giorno, un solo fatto compiuto / tenga il teatro pieno fino alla fine. / Giammai sia offerto allo spettatore nulla d’incredibile: / La verità può qualche volta non essere affatto verosimile. / Una meraviglia assurda è per me senza attrattiva: Lo spirito non è punto commosso da quello a cui non crede. 201 4. L’età moderna la critica, c’è stato Tasso ma la sua opera deve maggior successo ai momenti leggeri piuttosto che alla stessa gravità del soggetto inoltre ha mescolato il Dio di verità agli dei delle menzogne. Piuttosto plaude ad Ariosto che, dice, ha sottratto la cintura di Venere. Dalla tragedia passa poi alla commedia per cui prescrive lo studio della natura prima e, per l’invenzione dei personaggi, la corte e la città; gli unici autori che paiono davvero degni di nota sono Menandro e Terenzio, anche Molière non è riuscito ad eguagliarli. Nel quarto canto Boileau canta della nascita della poesia a partire da Orfeo, i consigli si fanno più generici, eppur c’è ancora spazio per l’elogio di Esiodo, prima dimenticato; interessante il verso 49: «ecoutez tout le monde, assidu consultant89 ». Per Gellio lo scrittore classico, come abbiamo visto nel capitolo 1.3, è antiquior e adsiduus: Boileau ha già detto dell’antichità necessaria affinché si possa mantenere uno sguardo oggettivo, con questo “assidu” satura tutte le valenze. Anche Racine a sua volta partecipa alla disputa dalla parte degli antichi, spesso insieme all’amico Boileau e quindi non ci soffermeremo oltre, Boileau è ottimo portavoce; è comunque interessante notare che, in un passo, degli antichi pare ci indichi i migliori, i Classici: Sofocle, Euripide, Terenzio, Omero e Virgilio sono ancora oggetto della nostra venerazione, come lo sono stati ad Atene e a Roma90 . Ciò non toglie, potremmo aggiungere che Racine si sente libero di aggiungere a questi anche altri, che come loro abbiano raggiunto le vette dell’espressione. Lasciamo ora da parte Boileau e procediamo con l’analisi del periodo storico di cui stiamo comunque trattando. Nel 1670 Jacques-Bénigne Bossuet fu nominato da Luigi xiv precettore del Delfino e Pierre-Daniel Huet fu nominato suo assistente; così Huet, con il beneplacito del re si impegnò in un’impresa titanica, la pubblicazione dei classici greci e latini ad usum Delphini per i tipi della stamperia reale, installata al palazzo del Louvre. Solo quattro anni dopo 89 90 20. 202 Ascolta tutto il mondo, consultatore assiduo J. Racine, OEvres complètes. vol II Prose, Bibliotèque de la Pléiade Gallimard, Paris 1952, p. 4.3. La Querelle des Ancients et des Modernes si unì alla schiera dei suoi quaranta collaboratori Anne Lefèvre che come M.me Dacier diventerà protagonista primaria della disputa su Omero, ultimo passaggio, in Francia, della Querelle. Notiamo che, dopo la nomina di Boileau e Racine, questo si configurava come l’ennesima prova della vittoria degli Antichi, almeno presso Luigi e la sua più stretta corte, eppure L’Académie con l’elezione di Fontenelle del 1691 diverrà presto feudo dei moderni. Nel 1697 Fontenelle viene eletto anche all’Académie des Sciences di cui dal 1699 sarà anche segretario perpetuo. La petite Académie nel frattempo si allontanava dal partito dei moderni finché, con il nome di Académie des inscriptions et médailles, nel 1701 l’abate Bignon la separò dall’Académie. Stessa sorte alterna capitò a tutto il sistema francese delle accademie. Chi aveva dunque vinto la Querelle? Se non è possibile accettare un ex aequo noteremo solo che il secolo diciassettesimo, grazie a Moliere, Racine, Boileau, è tuttora considerato il secolo classico della letteratura francese. Prima di concludere torniamo a Anne Lefèvre che nel 1711 come M.me Dacier, dopo il matrimonio con André, segretario perpetuo dell’Accadémie, pubblicò quella che venne considerata la miglior traduzione dell’Iliade mai fatta in lingua francese, oltre che la prima integrale, e aprì la disputa su Omero che ebbe il suo culmine nel 1715, anno in cui le pubblicazioni in qualche modo omeriche letteralmente si sprecarono e si poté dir conclusa l’anno successivo. Alla sua traduzione rispose Antoine Houdar de La Motte con una riscrittura tagliata corretta e modernizzata sempre dell’Iliade, l’Odissea resterà infatti estranea alla contesa, convinto che Omero fosse troppo lontano dai moderni e che se proprio si volevano proporre degli Antichi al pubblico moderno bisognava almeno avvicinarli. Non era dunque a suo parere il lettore a doversi sforzare per leggere l’opera bensì l’opera a doversi sforzare per essere apprezzata dal lettore. La Motte non fu l’ultimo a prendere questa posizione, ancor oggi ad esempio gli adattamenti per l’infanzia fanno cassa in libreria, però la critica moderna traduce e non adatta: questo è un fatto e sembra di nuovo far vincere gli Antichi che proprio con M.me Dacier avevano trattato della questione della priorità da assegnare comunque all’originale sulla traduzione91 . 91 Anne Dacier, Des causes de la corruption du gout, Rigaud, Paris 1714. 203 4. L’età moderna Nella prefazione all’edizione italiana de Le api e i ragni, titolata Genealogia di un terrore, Marc Fumaroli scrive: Nello zibaldone privato che scrisse fra il 1800 e il 1824, il saggio e acuto Joseph Joubert pronunciava, senza ulteriori commenti, questa sentenza: “l’Antichità finisce nel 1715”. Possiamo interpretarla così: alla morte di Luigi xiv, con il trionfo dei partito dei Moderni nella disputa iniziata nel 1685, e nonostante la recrudescenza della disputa di Omero, ha inizio il Secolo dei Lumi, e con esso la contestazione del principio di lentezza, di distanza contemplativa e di dialogo con i predecessori che l’antichità aveva rappresentato per Montaigne e per il suo “retrobottega”92 . Tranne che per la digressione italiana, in questo capitolo abbiamo deciso di rivolgere la nostra attenzione tutta sulla Francia, i motivi li abbiamo già forniti, Parigi era del resto il centro della disputa; questo non toglie che la discussione verrà anche esportata fuori dai confini del regno, e del secolo, di Luigi xiv. In Inghilterra la Querelle è senz’altro più che viva ancora nel 1692 quando Sir William Temple93 pubblica Essay upon Ancient and modern Learning contro la Digressione di Fontenelle94 ; due anni dopo è William Wotton a prendere la parti di quest’ultimo con Reflection upon Ancient and Modern Learning95 . La discussione aveva in Inghilterra ormai una avviata filiale; molti parteciperanno: Dryden96 , e soprattutto Jonathan Swift con An account of the battle between the ancient and modern books del 170497 . La disputa prosegue anche in Italia con Vico e De nostri temporis studiorum ratione del 1708 e ancor più con De mente heroica del 173298 . 92 Marc Fumaroli, Le api e i ragni, La disputa degli antichi e dei moderni, Adelphi, Milano 2005, p. 11. 93 William Temple, Essay upon ancient and modern learning and on poetry, Clarendon Press, Oxford 1909. 94 Bernard Fontenelle, Digression sur les anciens et les modernes in Pastoral Poetry, Shakleton, Oxford 1955. 95 William Wotton, Reflection upon ancinet and modern learning, Temple, London 1694. 96 John Dryden, Preface to Fables ancient and modern, London 1700. 97 Jonathan Swift, An account of the battle between the ancient and modern books, James Library, London 1697. 98 Oggi tutti disponibili in Giambattista Vico, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1957. 204 4.3. La Querelle des Ancients et des Modernes A questo punto essendo la Francia il fuoco del nostro discorso appare utile vedere cosa si leggeva in Francia quando il francese diventava la lingua della cultura europea e quindi esportava meglio di qualunque altro luogo le sue idee attraverso tutto il vecchio continente, tenendo anche conto della longevità dei libri a stampa, per cui i libri stampati, così come prima di loro i manoscritti, potevano avere numerosi lettori che si succedevano nel possesso dei libri, merce di lusso e quindi soggetta al collezionismo e di rimando alla conservazione. Tutto questo fu supportato dal fatto che, in Francia prima che altrove, il mercato libraio permise, per ampiezza, questo tipo di impresa; questa innovazione fu infatti più lenta in Spagna, in Inghilterra o nei paesi germanofoni almeno fino alla riforma. Non si tratta esclusivamente di letteratura francese, per lingua oltre che per temperie, dal momento che la Francia, abbiamo già visto, per prima si impegnò nell’opera di traduzione, voluta e quasi imposta dai suoi stessi regnanti. In particolare Luigi XII che incaricò Claude de Seyssel di numerose traduzioni e Francesco I che le ripescherà per darle alle stampe, accompagnate da altre commissionate appositamente. Sinificativo è ancora il periodo della reggenza di Caterina de’ Medici per il piccolo Carlo IX che porterà la Francia ad accettare e tradurre la temperie italiana coeva fino a Enrico IV, già re di Navarra che espanderà il fenomeno spesso seguito da un grande successo editoriale dovuto anche in parte alle prestigiose firme dei traduttori. Vediamo dunque adesso cosa si traduce, in particolare dagli autori antichi dacché il progetto, come abbiamo visto, era di rendere il Francese una degna lingua della cultura, e per fare questo si cercava di renderlo adeguato come le lingue antiche ai temi più alti, alle opere migliori. Si traducono maggiormente quegli autori che hanno indubbiamente meglio resistito agli assalti del tempo anche perché già gli stessi antichi, assolutamente degni di considerazione e credito li consideravano tra i migliori; questo ovviamente succede non solo in terra d Francia. Virgilio aveva goduto di moltissimi lettori fin dal Cinquecento, Mambelli ricorda almeno 263 ristampe in latino e poi nel tredicesimo secolo sei traduzioni in italiano e una in francese e in inglese; il secolo successivo le traduzioni si moltiplicano e ne troviamo settantadue italiane, ventisette francesi, undici inglesi e anche cinque tedesche e spagnole e due in fiammingo99 . 99 G. Mambelli, Gli annali delle edizioni virgiliane, Firenze 1954. 205 4. L’età moderna Ovidio contava meno traduzioni, ma innumerevoli adattamenti e rimaneggiamenti, e poi soprattutto gli autori storici, che ben si adattavano alla ritrovata passione per l’antico: Cesare, Svetonio, Flavio Giuseppe, Tacito, Valerio Massimo, Plutarco, Eusebio, Polibio, Erodiano, Paolo Diacono, Senofonte, Tucidide, Erodoto, Tito Livio. Resta ancora da ricordare che molte di queste traduzioni arrivarono alla stampa prima ancora che le stesse opere nella loro lingua originale. Vennero tradotti anche i maggiori esponenti della letteratura in latino più recenti, Battista Mantovano, Tommaso Moro, Poggio Bracciolini e di nuovo gli storici: Paolo Emili, Paolo Giovio, Guicciardini, anche in questo campo l’Italia è la grande innovatrice. Quando le opportunità delle traduzioni divennero esplicite, e questo accadde molto presto, si iniziarono a tradurre opere non più solo dal latino o dal greco ma anche dalle altre lingue romanze; Petrarca e Boccaccio, ma anche Brant della Nave dei folli, in testa a tutti e poi quegli autori cui si deve il merito, grazie alla divulgazione che ebbero, di aver mantenuto la letteratura europea coesa, nonostante tutte le varianti e le differenze100 . Molto amati furono, dacché si pubblica se esiste mercato e il pubblico compra quel che ama, Sannazzaro, Bembo, Machiavelli, Ariosto, Tasso e i seguaci e gli epigoni della teoria platonica (ancora Platone) dell’amore di Marsilio Ficino, tra tutti Il cortegiano di Baldassarre Castiglione101 e l’Amadís de Gaula di Garci Rodríguez de Montalvo. Tra i contemporanei troviamo Erasmo e Rabelais. Una nuova temperie culturale si stava però affacciando sulla scena europea, e presto la Querelle lascerà gli antichi e anche i moderni: l’Europa stava infatti uscendo dall’età moderna per entrare nell’età contemporanea. 100 Per tutti questi dati e i seguenti si veda l’ultimo capitolo di Lucien Febvre - Henri-Jean Martin, La nascita del libro, Laterza, Roma-Bari 2007. 101 Baldassarre Castiglione, Libro del Cortegiano, Garzanti, Milano 1999. 206 Capitolo 5 L’età contemporanea 5.1 Il ’700 e la nascita dell’identità politica e culturale europea Nel secolo precedente erano stati i moderni ad ergersi immobili negando ogni cedimento, al contrario nel ’700 i Moderni diventeranno gli Illuministi, i philosophes elastici nei giudizi quanto non saranno gli Antiquaires eredi degli Antichi. Forse anche questa categorizzazione merita di essere approfondita. «Was ist Aufklärung?» Arrivati al Settecento si rende necessario rispondere a questa domanda, eppure già nel 1783 il “Berlinische Monatsschrift”, seguita ed autorevole rivista berlinese si poneva questa domanda e pure indiva un concorso a premi per la migliore risposta che fosse pervenuta a chiarire, per l’appunto, che cosa fosse l’Illuminismo. Le risposte di affermati pensatori da tutta Europa cominciavano ad arrivare e già la varietà di metodi e ambiti e punti di vista tradiva la complessità dei significati che la parola aveva allora ormai già assunto. Il contributo certamente più noto fu quello di Kant che alle descrizioni sembrava preferire le prescrizioni, indicando la strada da tenere per l’adempimento dell’Illuminismo, anche se in modo sì paradossale da essere spesso frainteso1 . Eppure la costruzione semantica del termine non era ancora conclusa, completa, così come non lo era ancora lo stesso “evento” di cui si indagava il termine, così per Kant ma non per lui soltanto; ancora su questo, 1 Immanuel Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung? 1784 207 5. L’età contemporanea ad esempio, si dilungava Mendelssohn quando lo definiva come un processo, beninteso non ancora concluso2 . E quanto, potremmo domandarci, la conclusione di questo processo era allora, alla soglia dell’Ottocento, di là da venire se incompiuto era ancora per Habermas quasi due secoli più tardi3 . Più interessanti, dal nostro punto di vista, sono le considerazioni di carattere estetico di alcuni di questi saggi. Soprattutto importante è da considerare che l’Illuminismo, con la sua prima espressione dell’opinione pubblica vasta quanto la genitrice Repubblica delle Lettere, gettò il seme di una nuova idea globalizzante, seme che ha generato e ancor oggi genera la possibilità di riferirsi, in ricerche come questa, a campi geografici, e storici, sempre più vasti. Da una parte la possibilità è suggerita dalle teorie proposte, dall’altra è confermata dalle sue stesse prime applicazioni: si pensi alle prime bozze per una teoria di storia mondiale che, figlia delle storie “dalla creazione del mondo” di biblica reminiscenza, recuperi i propri ascendenti in progetti come quelli di Schiller (Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, 1795), Herder o Schlüter4 . Da lì integrare questa nuova istanza con le storie particolari, di cui la storia letteraria è solo più noto e antico esponente, il passo è davvero breve. Torniamo però ora alla nascente opinione pubblica; sebbene possa essere vista come una filiazione della Repubblica delle Lettere se ne discosta a sufficienza perché si rendano necessarie alcune precisazioni. Della Repubblica delle Lettere abbiamo già visto come si sia andata formando e come si sia consolidata a partire dalla sua stessa presa di coscienza. Era tanto estesa quanto ridotta per esponenti; pochi infatti, abbiamo visto, potevano permettersi di farne parte come pochi avevano potuto permettersi un’educazione tale da sentirne la necessità. Proprio nel periodo che abbiamo preso in esame invece l’opinione pubblica, in qualche modo nata già nel secolo precedente, iniziò ad avere consa2 Moses Mendelssohn, 1729-1786, filosofo tedesco di origine ebraica, fu tra i principali protagonisti della haskalah, corrente illuminista di stampo ebraico, nelle sue due opere ascrivibili al movimento, Dialoghi filosofici del 1755 e Gerusalemme, o sul potere religioso e sull’ebraismo del 1783 si rifà all’idea di libertà di coscienza come presupposto per il cambiamento che vede in corso d’opera. 3 Jürgen Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit: Untersuchungen zu einer Kategorie der Bürgerlichen Gesellschaft, Berlin, Luchterhand, 1962. 4 Dorinda Outram, The Enlightenmeent, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, II ed 2005; Dorinda Outram, L’Illuminismo, Il Mulino, Bologna 2006. 208 5.1. Il ’700 e la nascita dell’identità politica e culturale europea pevolezza di se stessa. Questo per quanto riguarda il quando, resta da chiedersi il dove. Ovviamente nel neonato mondo occidentale, ma più precisamente in alcuni luoghi che in qualche modo diventarono “deputati” a quello scambio reciproco che è il fondamento dell’opinione pubblica. Questo accade sia quando è condivisa dal governo - ed è la prima volta che il governo condivide le idee del popolo rispetto a quando è meglio dire che è il popolo a condividere le idee del governo - sia quando invece al governo si contrappone. L’opposizione è inoltre cambiata anche nei termini, non si può infatti più dire che l’opinione pubblica segue o diverge nelle idee dal potere dacché è proprio da questo momento che essa stessa si configura come una forma di potere, a volte più forte o lacerante di quello che, d’ora in poi e per distinguerlo, sarà detto potere costituito. Così era già nel 1780 quando un anonimo redattore di Histoire de la Repulique des Lettres en France scrisse che «esiste un regno che governa soltanto la mente [...] che onoriamo col nome di Repubblica in quanto possiede una sua forma di indipendenza» i cui abitanti «godono di una reputazione brillante quanto quella dei grandi potentati della terra5 », di lì a poco questa repubblica avrebbe conquistato nuovi territori, e forse anche perso qualcosa in profondità con l’aumentare della percentuale dei lettori e il diminuire di quella degli scrittori, diventando poi quella che oggi è chiamata opinione pubblica. Questi luoghi sono davvero numerosi sia quantitativamente che qualitativamente. Dapprima vi furono le istituzioni, ovvero quegli organismi che dal secolo precedente erano già i luoghi della Repubblica delle Lettere, luoghi controllati anche quando e se attori del rinnovamento. Poi, ed è questo il cambiamento fondamentale, arrivarono le conferenze pubbliche, le biblioteche circolanti e le grandi biblioteche pubbliche, i gabinetti di lettura e, sinonimo dell’epoca, i caffè6 . Tutti questi, o quasi, erano però iniziative private e seppure non sempre e non solo presero vita con intenti commerciali, ebbero fortuna proprio perché seppur diversamente, diversi strati sociali e culturali poterono e vollero partecipare, e ne decretarono, per l’appunto, il successo commerciale. Il pubblico dei caffè nelle proprie sale consumava i tre grandi prodotti del se5 Histoire de la Republique des Lettres en France, Paris, 1780, pp. 5-6. citato in Dorinda Outram, L’Illuminismo, Il Mulino, Bologna 2006, p. 27. 6 Il Cafè Procope «Les plus ancien café du monde et le plus célèbre centre de la vie littéraire et philosophique» vantava in realtà una fondazione già al 1686. 209 5. L’età contemporanea colo: caffè, per l’appunto, e te e zucchero ma consumava anche giornali, libri e in qualche modo le idee che poi rimandava, in parte già digerite, indietro verso le terre nuove che avevano prodotto con quegli altrettanto nuovi prodotti di consumo l’occasione dei loro incontri. Il traffico delle idee, queste nuovissime merci, divenne, in entrambi i sensi, quasi più assiduo di quello degli oggetti: da questo momento l’idea di Europa si ingrandisce e si trasforma nell’idea del mondo occidentale. A questi luoghi fisici sono da aggiungere altri luoghi, forse anche più importanti per la diffusione capillare delle nuove idee, si tratta ovviamente della carta stampata che vede significativamente crescere di importanza i giornali e le riviste rispetto ai libri. Tra questi ultimi spiccano per importanza le riscoperte opere di consultazione. Questo dato, unito al cambiamento nel modo di lettura, da intensiva ad estensiva, da sociale a introspettiva, come spiega anche Engelsing7 , merita però molta attenzione e lo riprenderemo più tardi. Dopo aver trattato della sua nasscita nel capitolo 4.1, veniamo ora a parlare di nuovo specificatamente del mondo dell’editoria e del ruolo che ebbe nella costruzione di questo nuovo potere, l’opinione pubblica. Il primo elemento da prendere in considerazione è di nuovo costituito dai puri mezzi tecnici, le macchine da stampa, la carta, l’inchiostro e i mezzi di trasporto. Gli stessi elementi che fondarono e resero possibile la nascita della stampa, ora con la loro stessa evoluzione, permisero cambiamenti tali da permettere una radicale rinnovamento del mezzo e anche degli effetti che questo iniziò ad avere sulla società civile. La carta subì forse il cambiamento maggiore, tre scoperte in particolare lo favorirono. Intorno alla metà del secolo John Baskerville, al di là della Manica, già noto nell’ambiente per le sue apprezzate serie di caratteri, riuscì a produrre della carta di ottima qualità, bianca, straordinariamente uniforme e senza filigrana. La quantità delle produzioni viene invece influenzata, alla fine del secolo dalla fabbricazione continua, Nicolas-Louis Robert, al di qua della Manica, integra infatti l’innovazione di Baskerville con il rullo continuo. Da ultimo la terza scoperta permette di nutrire adeguatamente questa produttrice Rolf Engelsing, Der Büuger als Leser: Lesergeschichte in Deutschland, 1500-1800, Stuttgart-Metzler 1974. 7 210 5.1. Il ’700 e la nascita dell’identità politica e culturale europea di carta: la pasta vegetale fa il suo ingresso nel mondo dell’editoria. La carenza di stracci, materia prima della carta per secoli, viene superata in molti modi, inizialmente si usa paglia, piante erbacee varie, tra cui al primo posto l’Alfa8 , e anche la carta straccia (configurandosi come l’origine antica della carta riciclata). Poco dopo iniziano gli studi per un succedaneo adeguato che possa sopperire completamente alla carenza della materia prima; il risultati seguono alterne fortune così che spesso la carta prodotta per quasi un secolo, dalla metà dell’Ottocento, risulta qualitativamente molto fragile fino a quando le moderne tecniche di produzione dalla pasta di legno non presero il sopravvento. Il torchio da stampa subì lo stesso cambiamento che incontravano quasi tutte le altre macchine dell’epoca, si passò infatti dal torchio manuale al torchio meccanico, adattando i mezzi esistenti alla rinnovata velocità di produzione del supporto. Dal torchio a un solo colpo di Didot e Annison messo a punto nel 1781 si passa al torchio Stanhope fino al torchio Koenig del 1810. Infine la rotativa di Thomas Nelson riesce a produrre dal 1851 fino a 10000 esemplari in una sola ora di lavoro. Da ultimo anche l’inchiostro, che era stato via via modellato sulle nuove carte e sui nuovi mezzi, si perfezionò via via finché nel 1790 William Nicholson inventò il rullo inchiostratore che permetteva di accelerare anche questo ultimo passaggio. I cambiamenti fin qui elencati permettevano una produzione incredibilmente veloce e nello stesso tempo divoravano non solo enormi quantità di carta ma anche grandi quantità di idee, servivano quindi nuove idee da stampare e far circolare. Le nuove idee dovevano esser scritte in fretta e, in questa nuova foga per la vittoria commerciale, trovarono il loro posto le stampe periodiche che potevano permettersi di parlare di tutto e in modo non troppo approfondito; venivano così incontro sia alle necessità degli scrittori, che degli editori che anche del pubblico, soprattutto il nuovo pubblico, anche di recente alfabetismo, che trovava allora, come anche oggi, più agevole informarsi sul mondo più che studiarlo. Tutti questi cambiamenti nei mezzi, e nei contenuti così sostenuti dal pubblico, cambiarono anche il loro stesso modo di fruizione. Nuovi libri, nuovi 8 Si tratta di una graminacea di origine araba. 211 5. L’età contemporanea mezzi di diffusione e anche nuovi lettori; anche quando si trattava per così dire di lettori vecchi con un nuovo interesse per generi nuovi e nuovi modi di fruizione. Un solo cambiamento promosse conseguenze che pur proteiformi portarono ad un risultato per così dire unitario. Il passaggio del latino alle lingue romanze, tra cui per prima la lingua francese esplose per così dire in molte conseguenze. Il primo cambiamento apprezzabile segnò già il primo attore del mondo editoriale, molti più uomini erano in grado di scrivere nella propria lingua madre, o anche in francese, la nuova lingua di comunicazione internazionale - scientifica, diplomatica, erudita - rispetto al bacino degli scriventi latino che andava diminuendo, in più con il diminuire dei libri in latino diminuiva anche il bisogno di studiarlo in un’ideale spirale centripeta. A questo si aggiunge “l’altra metà del cielo”, se, come vedremo tra poco, questo cambiamento porterà milioni di potenziali lettrici nel mercato editoriale, ora notiamo che iniziano a comparire sulla scena le scrittrici, dapprima relegate a membri invisibili della Grub Street9 ma che il secolo successivo porterà in palmo di mano come vedremo, ad esempio, con George Sand. Analizziamo adesso il secondo attore; l’editoria invece era in continua tensione verso la crescita e il progressivo abbandono del latino fu deciso da molti fattori, alcuni concomitanti, altri conseguenti. Chi per mestiere produceva libri cercando sempre nuovi mercati e spesso oppresso dalla catena dei privilegi che bloccava per anni le edizioni comprovate già dalle vendite, finiva per pubblicare tutto quello che dava garanzie o spesso almeno l’impressione di un mercato sicuro, quantunque ridotto per dimensioni; anzi più che sicuro vista la necessità di vendere e liberare i magazzini e gli investimenti impiegati nel più breve tempo possibile. L’editoria assunse le categorie industriali molto prima di altri settori e, quasi, li trainò. La produzione di carta stampata, libri ma anche riviste e giornali, durante il secolo aumentò sensibilmente. Il catalogo della fiera di Lipsia del 1764 riferiva cinquemila titoli di novità, meno di cinquant’anni dopo, il 1800 arriva invece fino a dodicimila, lo stesso accadeva in Francia, in Inghilterra ma anche nelle aree marginali, in Italia, e nelle colonie dove l’importanza 9 Grub Street è il nome che Robert Darnton assegna a quelli che furono storicamente i primi scrittori di professione, sottopagati e rosi spesso dall’invidia per i grandi scrittori riconosciuti dell’Ancien Regime. Robert Darnton, Il grande affare dei lumi. Storia editoriale dell’Encyclopedie 1775-1800, Edizioni Sylvesttre Bonnard, Milano 1998. 212 5.1. Il ’700 e la nascita dell’identità politica e culturale europea della stampa periodica era preponderante. Una risposta favorevole del pubblico ad una piccola tiratura, fatta inizialmente magari solo per tenere occupati i torchi, poteva espandere un primo timido tentativo in un’intera categoria libraria. Tutto questo produceva modi e mode di lettura che sembrano a prima vista ricalcare i consueti modi - della lettura intensiva e del genere religioso che nei secoli precedenti ne costituiva la materia primaria - ma che sappiamo aver aperto le porte dell’editoria moderna. I numerosi lettori e le ancor più numerose lettrici che sospirarono sui romanzi di Richardson prima in maniera anche tanto ossessiva furono, almeno in parte, gli stessi e le stesse che lessero avidamente il romanzo epistolare di Rousseau dopo e infine piansero e si addolorarono con il giovane Werther di Goethe. Non che gli stessi fossero necessariamente in grado di leggere inglese, francese, tedesco e magari anche l’italiano dell’Ortis; abbiamo infatti già detto della nuova “lingua” che andava nascendo in Europa: la traduzione. Il rinascimento delle lettere da secoli concluso aveva insegnato a tradurre bene dagli antichi; sospeso l’interesse per gli antichi, il tradurre bene era passato alle lingue moderne. Anche tutti gli attori secondari di questo mondo confermano il cambiamento in atto, dei traduttori abbiamo già detto ma anche i trasporti favorirono questo cambiamento e ne furono favoriti e anche i gabinetti di lettura e le società letterarie e in generale le biblioteche itineranti e non. Dorinda Outram tratta questo cambiamento in riferimento a quanto avvenuto nel Settecento ai libri delle biblioteche, sia per quanto riguarda i libri acquistati da queste ultime: I cataloghi delle biblioteche dimostrano che all’inizio del secolo i libri più acquistati erano quelli di teologia, mentre alla fine del secolo cominciarono a prevalere i romanzi e i testi di divulgazione scientifica10 . Che per quanto riguardava invece un dato ancor più significativo, i prestiti che vennero effettuati: 10 Dorinda Outram, L’Illuminismo, Il Mulino, Bologna 2006, p. 139. 213 5. L’età contemporanea Le opere di devozione e teologia persero, a quanto pare, la loro posizione di preminenza. I prestiti effettuati dalle biblioteche tedesche, inglesi e nordamericane verso la fine del secolo mostrano caratteristiche sorprendentemente simili: oltre il 70% dei libri presi in prestito apparteneva alla categoria dei romanzi; per il 10% si trattava di libri di storia, biografie e viaggi; meno dell’1% erano libri di religione. In altre parole questo periodo vide l’affermazione del romanzo, direttamente a spese della letteratura teologica, come veicolo principale di trasmissione di idee e atteggiamenti ai lettori. Non sorprende dunque che in molti romanzi illuministici l’elaborazione di una struttura narrativa di fantasia abbia lo stesso peso dell’esposizione di informazioni fattuali e della discussione di punti di vista controversi11 . Questo è uno di quei casi in cui il progredire della disciplina della storia del libro conferma quanto da tempo accettato dalla critica letteraria; non per questo si tratta di un elemento meno importante né tantomeno di una prova dell’impossibilità di sbagliare della sola critica. Nel frattempo, in questo di clima di scambi continui, l’idea di biblioteca tornava indietro verso gli editori che, intravisto un nuovo motivo di vendita, la fecero propria. Nacquero così nuovi tipi di collane, basate cioè non su una similarità di autori o generi ma sulla similarità dei lettori, il primo e maggior esempio di questo è dato in Francia, a Troyes, dalla Bibliothèque bleue, di Oudot. Sotto questo nome uscivano ancora operette di devozione e almanacchi ma anche biografie romanzate di uomini contemporanei e sunti di romanzi cavallereschi e romanzi contemporanei. Con il tempo poi queste iniziative editoriali iniziarono a proporre testi che sempre di più dovevano alla contemporaneità e ai suoi grandi autori, finendo con il preparare e avvicinare la grande massa alla Repubblica delle Lettere e fondando l’ampio bacino della futura opinione pubblica. Adesso che abbiamo appurato come il Settecento abbia visto germogliare il seme dell’opinione pubblica, vediamo cosa è per questa nuova massa e nuova messe di gente degna di nota, degna di ricordo. 11 214 Dorinda Outram, L’Illuminismo, Il Mulino, Bologna 2006, p. 27. 5.1. Il ’700 e la nascita dell’identità politica e culturale europea Abbiano già sfiorato l’importanza che iniziarono ad assumere le opere di viaggio reale o immaginario che fossero, in un argomento che può sembrare tanto lontano dal nostro fuoco troviamo un accenno di particolare rilevanza. Louis-Antoine, conte di Bougainville e navigatore francese nel 1767 compì un viaggio di esplorazione scientifica nell’Oceano Pacifico, scoprì numerose isole, tra cui quella che prese da lui il nome, e scoprì nuove piante, tra cui quella che di nuovo prese da lui il nome, e infine nel 1771 scrisse un libro Voyage autour du monde12 . In questo testo, scritto in un periodo di grandi e lontane scoperte, in riferimento a luoghi nuovi e lontani, dove cioè non ci aspetterebbe proprio di trovarlo, troviamo il ricordo della classicità. Lo strumento che ritiene appropriato per la comprensione degli arcipelaghi appena scoperti è Omero e l’Odissea, dal momento che l’eroe Odisseo per primo aveva vagato tra isole sconosciute e diverse e avventurose. Al di là della retorica, pure presente in tale similitudine, pare innegabile che ancora nella seconda metà del Settecento di fronte ad avventure così nuove la mente dell’uomo europeo, seppur ben istruito, ancora vada indietro ai classici greco-romani, e dai nuovi testi esplorativi tanto amati dalle classi sociali medie e basse, questa formulazione del reale arriverà ai loro lettori. Tra questi lettori alcuni erano più consapevoli di altri, ecco infatti che l’anno successivo alla pubblicazione Denis Diderot scrisse Supplément au Voyage de Bougainville13 , pubblicato però solo nel 1796; secondo Diderot il nobile selvaggio, qual’era Atouru che Bougainville portò indietro con se, era come una lente, noi diremmo uno “schermo del tempo”, con la propria cultura infatti replicava le origini della Grecia o dell’antica Roma. Già nel 1727 lo storico Jean Lafitiau, moralizzante com’era tutto il mondo illuministico, aveva sostenuto che gli indiani d’America erano modello vivente delle società del mondo classico14 . Così le idee tornavano indietro sui propri passi e se le terre lontane quanto selvagge e inesplorate erano state dapprima un interesse contrapposto all’amore per le antichità classiche, ora incoraggiavano lo studio e un rinnovato interesse per le stesse antichità in quanto esse stesse terre 12 Louis-Antoine Bougainville, Voyage autour du monde, Presses de l’Université de ParisSorbonne, Paris 2001. 13 Denis Diderot, Supplément au Voyage de Bougainville,Grant & Cutler, 1988. 14 Jean Lafitiau, Moeurs des sauvages américains comparées aux moeurs des premiers temps, Paris 1727. 215 5. L’età contemporanea selvagge e pure. I libri di viaggio nel frattempo con la loro forte componente scientifica iniziarono ad aumentare il pubblico di lettori in questo campo favorendo l’impegno e le nuove scoperte; anche l’impulso tassonomico e più genericamente scientifico favorirono anche, paradossalmente il ritorno verso lo studio della letteratura e delle antichità classiche. Giambattista Vico, ad esempio in Scienza nuova15 , del 1725, affermava che le scienze naturali non avrebbero mai potuto essere completamente disvelate e conosciute e che solo lo studio delle cose umane e passibile di perfezione, dal momento che noi siamo l’unico oggetto che siamo realmente in grado di conoscere. In questo modo l’idea della superiorità intellettuale degli studi umanistici seppe dare nuova forza alla ricerca sia in riferimento alle antichità classiche che alla filosofia che alla ricerca estetica. Se fino a questo punto la nostra ricerca è stata ostacolata dalla reticenza degli autori successivi all’età classica nel parlare chiaramente di priorità estetiche, dall’Ottocento in poi, al contrario, in molti cercheranno di esprimere un canone del proprio tempo, fino agli eccessi del presente dove alla gara verso il successo vengono sottoposte tutte le attività umane. L’illuminismo, processo o progetto come abbiamo visto esser considerato, non si concluse alla fine del secolo eppure il Settecento finì, la rivoluzione spazzò via tutto e mantenne vivo solo il potere di più recente nascita. Alcuni storici ritengono che fu proprio l’opinione pubblica, nelle idee nate da grandi pensatori ma divulgate realmente più dalle centinaia di scribacchini della Grub street, a fondare la rivoluzione oltre che esserne rimasta indenne, come scrisse Tocqueville. Ogni passione politica si camuffò da filosofia; la vita politica fu violentemente spinta nella letteratura e gli scrittori, prendendo a dirigere l’opinione pubblica, si trovarono ad un certo momento al posto che per solito occupano i capipartito nei paesi liberi16 . 15 Giambattista Vico, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1957. Alexis De Tocqueville, L’ancien régime et la révolution, 1856, tradotto in Alexis De Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, Rizzoli, Milano 1981, p. 180. 16 216 5.2. La parentesi rivoluzionaria Il Settecento finiva con una rivoluzione e l’Ottocento si affacciava alla storia gravido di una presenza nuova, quell’opinione pubblica che oggi sembra essere al sua apice. 5.2 La parentesi rivoluzionaria Nello svolgersi della storia occidentale, tra il secolo che vide la caduta della monarchia e il secolo che vide il sorgere e il repentino crollare dell’impero, esiste un ostacolo. Tra il 17 giugno 1789 con la proclamazione, ad opera del Terzo Stato, degli Stati Generali ad Assemblea Generale e il 18 giugno 1815 quando in una allora oscura cittadina belga di nome Waterloo Napoleone visse la fine dell’illusione dei 100 giorni, la rivoluzione francese prima e l’avventura napoleonica dopo, segnarono una cesura storica profonda e densa di conseguenze per la storia occidentale; ciò nonostante le radici intellettuali della svolta hanno ancora una volta a che fare con il Classico. I rivoluzionari francesi vissero quegli anni importanti quasi nella convinzione di rivivere la storia classica; sebbene possa sembrare ossimorico vissero una rivoluzione densa di classicismo. In ventisei anni netti gli intellettuali rivoluzionari francesi vissero l’intera parabola della storia di Roma passando dalla monarchia alla repubblica e infine all’impero e alla sua caduta. Il classicismo della Rivoluzione prosegue una temperie già iniziata e non è sempre, per così dire, di prima mano; spesso appare mediato dal classicismo del gran secolo. Il Seicento era stato, abbiamo visto, un periodo in cui il classicismo aveva avuto modo di radicarsi così profondamente nella cultura francese da divenirne parte integrante e il Seicento, da parte sua, aveva moltiplicato il valore delle radici latine diventando in brevissimo tempo a sua volta un secolo classico e una fonte ugualmente valida. Possiamo a questo proposito prendere come esempio l’influsso sull’arte figurativa che da sempre si appoggia alla letteratura come fonte primaria di descrizioni e dettagli sull’antichità. Il giuramento degli Orazi (1784, Parigi, Louvre) di Jacques-Louis David rappresenta un episodio della storia di Roma così come tramandata dagli storici latini ma nel contempo appare debitrice dell’Horace, la mirabile tragedia che Pierre Corneille scrisse nel 1640. Siamo dunque nel campo della tradizione, cioè trasmissione 217 5. L’età contemporanea viva e continuamente variata per via di arricchimento della cultura e della storia antica, questo modo di ritorno al passato dimostra proprio la vivacità di una storia sentita come propria e imprescindibile. Nella Francia rivoluzionaria la storia, presa ad esempio e modello, è dunque la storia di Roma, mentre la storia greca, al contrario di quanto avviene in area germanica, è lasciata in secondo piano. Una delle motivazioni di questa scelta è senz’altro da ravvisare nello stato degli studi antichi francesi che fin dal Seicento avevano preferito lo studio del latino tralasciando quasi completamente lo studio della lingua greca e quindi della sua cultura e storia, anche politica. L’autore più conosciuto, oltre che prediletto, Plutarco; quasi ignoto Tucidide, che invece sarà riscoperto e per la prima volta tradotto in lingua ’moderna’ (dopo Hobbes!) dai termidoriani. Anche Isocrate - specie l’Isocrate dell’Aeropagitico - è conosciuto, magari attraverso il filtro del famoso Voyage du jeune Anacharsis dell’abate Barthélemy, scritto subito prima della rivoluzione ma ben noto e diffuso anche molto dopo, nell’Ottocento. E proprio dall’Aeropagitico poteva ricavarsi l’immagine, del tutto fuorviante, di Sparta «vera democrazia»17 . L’impatto delle conoscenze storiche dell’epoca è davvero significativo, infatti se messi nella condizione di scegliere dal solo bacino della storia greca, gli uomini della Rivoluzione sceglievano il modello di Sparta contro il modello ateniese; anche questa scelta sembra dettata dallo stato precario dello studio del mondo greco. Il governo di Sparta era inteso come un governo libero e democratico dove le differenze tra i cittadini che oggi ben conosciamo era sconosciute o taciute. Il modello di Sparta era il modello di Robespierre che infatti lo cita così tanto nei discorsi pubblici come esempio di virtù nel quale rivede il rigore rivoluzionario che, quando il 9 Termidoro ovvero il 27 luglio 1794, avverrà il colpo di stato che ne rovescerà il potere e che porterà Robespierre al patibolo, i suoi avversari accompagneranno la salita al potere con l’elogio del governo di Atene, considerato un esempio di democrazia permanente e la condanna di Sparta e di Robespierre che, a dir loro, avrebbe portato tutti allo stato di schiavitù che 17 218 Luciano Canfora, Ideologie del classicismo, Einaudi, Torino 1980, pp. 12-13. 5.2. La parentesi rivoluzionaria era stato degli Iloti. Il processo di rivalutazione scientifica dell’antichità era ormai partito e poco alla volta emerse la distanza incolmabile tra il mondo antico e il mondo moderno. La schiavitù antica, riscoperta dagli intellettuali della rivoluzione, emerge sempre più chiaramente e il mondo antico diventa sempre meno un’esempio e un modello, ormai superato agli occhi del secolo dall’esperimento francese. L’antichità aveva solo saputo mascherare da democrazia una oligarchia più o meno diffusa che solo nel migliore dei casi si dimostrò aristocrazia. Gli uomini della rivoluzione al contrario erano convinti di essere sul punto di aprire le porte alla democrazia autentica, senza differenze, che al contrario delle democrazie antiche non avrebbe dovuto un giorno fare i conti con una mutata definizione della totalità dei cittadini. Oggi sebbene ammettiamo ancora l’importanza e l’innovazione del periodo già vediamo dei difetti negli esiti rivoluzionari a cominciare dall’esclusione dal novero dei cittadini di donne e bambini. Questa distanza, che iniziò allora ad essere avvertita proseguirà poi il suo cammino; a questo proposito vediamo di nuovo Canfora. Ma via via che ci sia allontana dalla Rivoluzione (e il linguaggio assume, come modelli, appunto i fatti e gli schieramenti della Rivoluzione) classicismo e progressismo si divaricano, e una comprensione più fondata dell’antico tende ad affermarsi entro un orizzonte conservatore ed antidemocratico. Quanto più recupera i valori elitistici e antiegualitari del mondo classico e della tradizione superstite, tanto più il classicismo europeo guadagna in profondità di comprensione (un fenomeno che vedremo approfondirsi nel secolo successivo)18 . Come abbiamo già accennato, le diverse condizioni degli studi portarono esiti diversi nei paesi germanofoni; in Prussia ad esempio Wilhelm von Humboldt nella sua riforma dell’istruzione superiore del 1808-1809, al contario di quanto stava accadendo in Francia stabilizzerà la diffusione dello studio della lingua e della cultura greca, già meglio conosciuta, studiata e apprezzata che nella vicina Francia, facendone il nucleo, Bildungsfundament, della formazione dell’uomo 18 Luciano Canfora, Ideologie del classicismo, Einaudi, Torino 1980, p. 19. 219 5. L’età contemporanea tedesco e lascerà invece il latino quasi in secondo piano. Nel corso del secolo verranno quindi poste le basi della successiva svolta antipositivistica della filologia classica attraverso fasi alterne di predominio del latino, dovuto alle influenze francesi e fasi in cui la lotta antifrancese spinse invece per gli studi greci. Alla fine dell’Ottocento, la predominanza dello studio del greco venne messo in pericolo con la riforma dell’ordinamento scolastico superiore del 1892 che, dopo il licenziamento di Bismark del 1890, voleva rendere l’istruzione coerente con il rinnovamento guglielmino. Il compromesso tra scuole tecniche e ginnasio si attuerà con la creazione di un nuovo indirizzi di studi da affiancarsi agli indirizzi già esistenti, il Real gymnasium dove era sparito il greco ma era stato mantenuto lo studio del latino. Gli studi classici restano insomma appannaggio di pochi o pochissimi come del resto era stato da sempre nell’età medievale e poi moderna ma anche alle origini, agli stessi tempi di Roma o di Atene e Sparta, lo studio delle letteratura, lingua e produzione letteraria, era per pochi - nobili, benestanti o cittadini - anche quando la lingua di produzione era in misure diverse condivisa dalle masse. Come più tardi Leopardi nel Dialogo di Tristano e di un amico farà dire allo stesso Tristano, personaggio con cui l’autore rappresenta se stesso19 : L’istruzione superficiale può essere, non propriamente divisa fra molti, ma comune a molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se non a chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo. E, levati i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, e fornito esso individualmente di un immenso capitale di cognizioni, è atto ad accrescere solidamente e condurre innanzi il sapere umano. 5.3 Sainte-Beuve: che cosa è un classico? Il più noto intervento moderno su cosa sia un Classico è senz’altro il saggio di T.S. Eliot del 1945 che porta proprio il titolo What is a Classic?, subito l’autore 19 Il Dialogo di Tristano e di un amico è l’ultima delle Operette morali, scritta nel 1832 quasi come difesa alle critiche nate per la prima edizione dell’opera (1927) e viene pubblicata nella seconda edizione nel 1934. Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, Newton & Compton, Roma 1997. 220 5.3. Sainte-Beuve: che cosa è un classico? dice che «It is not a new question» e cita quindi un altro saggio con il medesimo titolo di un illustre predecessore: Charles Augustine Sainte-Beuve, iniziamo quindi da questo scrittore, intellettuale e critico letterario francese. L’autore di Qu’est-ce qu’un Classique?20 nacque nel dicembre del 1804 in Francia a Boulogne-sur-Mer, qui iniziò la sua educazione completata poi al college Charlemagne di Parigi; Nonostante l’avviata carriera medica iniziò subito a tessere legami letterari, con Victor Hugo in particolare e con il Cenacolo. Già membro dell’Académie Française dal 1845 venne nominato dal novello imperatore Bonaparte professore di poesia latina al Collège de France, pur dimissionario dopo le prime contestazione di un gruppo di studenti. Scrittore prolifico, intellettuale e senatore (1865) impegnato in favore delle libertà di stampa e di parola, era anche un critico attento, noto soprattutto per il suo lavoro che propugnava la necessità di conoscere la biografia dell’artista, nel senso più ampio del termine, per poterne comprendere l’opera. Proprio questa sua idea gli valse un’aspra critica dal più noto Marcel Proust che impegnato a confutarla in un articolo finì poi con lo scrivere la Recherche che, oltre ad essere la sua opera maggiore, è anche una lunghissima opera autobiografica21 . Torniamo al primo contributo di Sainte-Beuve sul Classico del 1850, nel 1858 infatti tornerà sull’argomento con posizioni molto diverse, vedremo poi quali e verosimilmente perché22 . L’articolo sul Classico del 1850, dopo poche premesse teorico-metodiche riferite per lo più alla necessità di intraprendere il compito e al tempo di quiete in cui è bene svolgerlo, parte dalla definizione «consueta» del termine: «un vecchio autore canonizzato dall’ammirazione, e un’autorità nel suo particolare stile» per poi analizzare la nascita del termine con Gellio. Questa data di nascita del termine è per lui coeva alla nascita della categoria come se i Greci, e la loro letteratura, non fossero ancora sufficientemente maturi tanto per definire e individuare il Classico quanto per categorizzarne il termine; allo stesso tempo 20 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III. 21 M. Proust, Contre Sainte-Beuve, prècédé de Pastiches et mélanges et suivi de Essais et articles, a cura di P. Clarac con la collaborazione di Y Sandre, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1971. M. Proust, À la recherche du temps perdu, texte établi et présenté par P. Clarac, et A. Ferré, 3 voll., Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1954. 22 De la tradition en littérature et dans quel sens il la faut entendre (1858) inCharles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. XV. 221 5. L’età contemporanea la letteratura greca viene riconosciuta come classica in toto. Il Classico quindi viene inizialmente concepito dai romani, secondo Sainte-Beuve, come l’antico. Pour les modernes, à l’origine, les vrais, les seuls classiques furent naturellement les anciens. Les Grecs qui, par un singulier bonheur et un allégement facile de l’esprit, n’eurent d’autres classiques qu’eux-mêmes, étaient d’abord les seuls classiques des Romains qui prirent peine et s’ingénièrent à les imiter. Ceux-ci, après les beaux âges de leur littérature, après Cicéron et Virgile, eurent leurs classiques à leur Iour, et ils devinrent presque exclusivement ceux des siècles qui succédèrent23 . A questo punto passa a parlare dell’idea di Classico del Medioevo, che non condivide anche se rigetta l’idea di regresso spesso associata a quest’epoca. Si lascia infatti andare ad alcune esemplificative correzioni quantomeno per quanto riguarda la priorità da assegnare ad alcuni autori su altri, fino al quindicesimo secolo che a suo parere finalmente mette un po’ di ordine nella questione. Le moyen âge, qui n’était pas aussi ignorant de l’antiquité latine qu’on le croirait, mais qui manquait de mesure et de goût, confondit les rangs et les ordres : Ovjde y fut traité sur un meilleur pied qu’Homère, et Boëce parut un classique pour le moins égal à Platon. La renaissance des Lettres, au xve et au xvie siècle, vint éclaircir cette longue confusion, et alors seulement les admirations se graduèrent. Les vrais et classiques auteurs de la double antiquité se détachèrent désormais dans un fond lumineux, et se groupèrent harmonieusement sur leurs deux collines24 . 23 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p. 39 All’inizio gli unici veri classici per i moderni erano gli antichi. I greci, per la peculiare buona fortuna e la naturale illuminazione mentale, non hanno classici se non loro stessi. Loro erano all’inizio gli unici autori classici per i Romani che si sforzavano e riuscirono infine ad imitarli. Dopo i grandi periodi della letteratura Romana, dopo Cicerone e Virgilio, i Romani ebbero a loro volta i loro Classici, che divennero gli autori classici quasi esclusivi dei secoli successivi. 24 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol III p. 39 Il Medioevo, che era meno ignorante dell’antichità Latina di quanto si credesse, ma che mancava di proporzione e gusto, confondeva livelli e 222 5.3. Sainte-Beuve: che cosa è un classico? Vediamo come qui trasponga l’altezza letteraria su di un piano fisico, di tipo altimetrico; riprenderemo questa immagine per farla nostra nel definire il rapporto tra Classico, Canone, Antologia e Letteratura nel capitolo 6.14. SainteBeuve passa a trattare delle moderne letterature nazionali dando subito la preminenza alla letteratura italiana e a Dante. Cependant les littératures modernes étaient nées, et quelquesunes des plus précoces, comme l’italienne, avaient leur manière d’antiquité déjà. Dante avait paru, et de bonne heure sa postérité l’avait salué classique. La poésie italienne a pu se bien rétrécir depuis, mais, quand elle l’a voulu, elle a retrouvé toujours, elle a conservé de l’impulsion et du retentissement de cette ’ haute origine25 . A questo punto Sainte-Beuve inizia con la sua teorizzazione, infatti sebbene l’Italia abbia i suoi Classici come anche la Spagna, la Francia sembra non esserne allo stesso modo dotata ma la classicità è da ricercarsi anche in qualcosa d’altro che non siano le grandi vette isolate: Quelques écrivains de talent, en effet, doués d’originalité et d’une verve d’exception, quelques efforts brillants, isolés, mais sans suite ; aussitôt brisés et qu’il faut recommencer toujours, ne suffisent pas pour doter une nation de ce fonds solide et imposant de richesse littéraire26 . ordini. Ovidio fu posto sopra Omero, e Boezio sembrava un classico tanto quanto Platone. La rinascita degli studi nel quindicesimo e sedicesimo secolo aiutò a portare questo caos, durato tanto a lungo, all’ordine, e solo allora l’ammirazione è stata giustamente proporzionata. Da quel momento in poi i veri autori classici dell’antichità greca e latina si stagliarono su uno sfondo luminoso e furono armoniosamente raggruppati secondo le loro due altezze. 25 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol III p. 40. Nel frattempo nacquero le moderne letterature, e alcune delle più preziose, come l’Italiana, già possedevano lo stile dell’antichità. Dante sembrò, e, fin da subito, la posterità lo salutò come un classico. La poesia italiana fin da subito si ridusse a limiti molto più ridotti: ma, in qualsiasi momento abbia desiderato farlo, ha sempre ritrovato e riabbracciato l’impulso e l’eco delle sue prospere origini. 26 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p. 40. Un piccolo gruppo di scrittori talentuosi dotati di originalità e immaginazione straordinari, pochi brillanti tentativi, isolati, senza seguito, interrotti e ricominciati, non sono sufficienti per dotare una nazione di una solida e imponen- 223 5. L’età contemporanea Questa generale temperie che ritiene indispensabile alla classicità è dunque presente in Francia ed è l’età di Luigi XIV, in questo modo la letteratura francese sembra risollevarsi dallo scarto che sembrava tenerla lontana dai risultati delle altre letterature nazionali. Non appena questa età fu sufficientemente distante nel tempo da poter essere contemplata con lo sguardo mostrò la sua incredibile ricchezza. A questo punto del saggio Sainte-Beuve sente la necessità di definire propriamente il Classico e per farlo, in veste di scrittore, non di critico, prende le distanze dalle definizioni accademiche che pure torneranno in positivo nel discorso del 1858. Le premier Dictionnaire de l’Académie (1694) définissait simplement un auteur classique, « un anteur ancien fort approuvé, et qui fait autorité dans la matière qu’il traite. » Le Dictionnaire de l’Académie de 1835 presse beaucoup plus cette définition, et d’un peu vague qu’elle était, il la fait précise et même étroite. Il définit auteurs classiques ceux a qui sont devenus modcles dans une langue quelconque ; » et, dans tous les articles qui suivent, ces expressions de modèles, de règles établies pour la composition et lff style, de règles strictes de l’art auxquelles on doit se conformer, reviennent continuellement. Cette définition du classique a été faite évidemment par les respectables académiciens nos devanciers en présence et en vue de ce qu’on appelait alors le romantique, c’est-àdire en vue de l’ennemi. Il serait temps, ce me semble, de renoncer à ces définitions restrictives et craintives, et d’en élargir l’esprit. Un vrai classique, comme j’aimerais à l’entendre définir, c’est un auteur qui a enrichi l’esprit humain, qui en a réellement augmenté le trésor, qui lui a fait faire un pas de plus, qui a découvert quelque vérité morale non équivoque, ou ressaisi quelque passion éternelle dans ce cœur où tout semblait connu et exploré ; qui a rendu sa pensée, son observation ou son invention, sous une forme n’importe laquelle, mais large et grande, fine et sensée, saine et belle en soi ; qui a parlé à tous dans un style à lui et qui se trouve aussi celui te base per la ricchezza letteraria. L’idea di classico implica qualcosa che abbia continuità e consistenza, e che produca unità e tradizione, informi di sé e si trasmetta da sola, e duri. 224 5.3. Sainte-Beuve: che cosa è un classico? de tout le monde, dans un style nouveau sans néologisme, nouveau et antique, aisément contemporain de tous les âges 27 . Solo a questo punto, dopo aver fatto la tara dalle definizioni correnti il campo è pronto per la sua personale definizione di Classico sebbene come aveva detto in apertura riconosca che sia «una questione delicata, a cui alcune soluzioni diversissime potrebbero essere date in accordo ai tempi e alle stagioni»; attendere a questo compito è per lui difficile ma è necessario applicarcisi «se non per risolverla, almeno per esaminare e discutere faccia a faccia con i miei lettori, quanto meno per persuaderli a rispondere a questa (questione) da soli, e, se posso, per portare il loro giudizio, e il mio a un momento di chiarezza28 ». Ecco qual’è la sua definizione, incredibilmente innovativa per ampiezza e portata Un vrai classique, comme j’aimerais à l’entendre définir, c’est un auteur qui a enrichi l’esprit humain, qui en a réellement augmenté le trésor, qui lui a fait faire un pas de plus, qui a découvert quelque vérité morale non équivoque, ou ressaisi quelque passion éternelle dans ce cœur où tout semblait connu et exploré ; qui a rendu sa pensée, son observation ou son invention, sous une forme n’importe laquelle, mais large et grande, fine et sensée, saine et 27 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76,vol. III pp. 41-42. Il primo dizionario dell’accademia (1694) definisce un autore classico meramente come “un molto apprezzato autore antico, che è un’autorità in riguardo al soggetto che tratta. Il dizionario dell’accademia del 1835 restringe ancor di più la definizione e dona precisione ma anche limiti alla sua piuttosto vaga forma, descrivi gli autori classici come coloro “che sono diventati un modello in qualsiasi lingua”, e in tutti gli articoli che seguono, l’espressione, modelli, regole fisse per composizione e stile, strette regole dell’arte cui gli uomini devono conformarsi e a cui continuamente ricorrere. Questa definizione di classico è stata evidentemente prodotta dai rispettabili Accademici, nostri predecessori, di fronte all’evidenza di quello che poi sarà chiamato romantico – vale a dire, di fronte al nemico. Mi sembra tempo di rinunciare a queste timide e restrittive definizioni e di liberare la nostra mente da loro. 28 Qu’est-ce qu’un Classique ? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p. 38. Question délicate et dont, selon les âges et les saisons, on aurait pu donner des solutions assez diverses. Un homme d’esprit me la propose aujourd’hui, et je veux essayer sinon de la résoudre, du moins de l’examiner et de l’agiter devant nos lecteurs, ne fût-ce que pour les engager eux-mêmes à y répondre et pour éclaircir làdessus, si je puis, leur idée et la mienne. 225 5. L’età contemporanea belle en soi ; qui a parlé à tous dans un style à lui et qui se trouve aussi celui de tout le monde, dans un style nouveau sans néologisme, nouveau et antique, aisément contemporain de tous les âges. Un tel classique a pu être un moment révolutionnaire, il a pu le paraître du moins, mais il ne l’est pas ; il n’a fait main basse d’abord autour de lui, il n’a renversé ce qui le gênait que pour rétablir bien vite l’équilibre au profit de l’ordre et du beau 29 . Possiamo quindi sottolineare gli ideali che sono sottesi a questa definizione. Il Classico ha dunque a che fare con «una verità morale non equivocabile», deve essere «ampio e grande» e «sano e bello» e deve appartenere «all’intero mondo» rimanendo «contemporaneo in ogni tempo». Riprenderemo organicamente tutti questi concetti e li definiremo in tutto il capitolo 6. A questo punto soltanto Sainte-Beuve si sente autorizzato ad indicare dei nomi di autori francesi a cui il termine “classico” può essere attribuito e lo fa come se fosse una concessione, come se gli autori, grazie alla definizione data da soli attraessero il termine. On peut mettre, si l’on veut, des noms sous cette définition, que je voudrais faire exprès grandiose et flottante, ou, pour tout dire, généreuse. J’y mettrais d’abord le Corneille de Polyeucte, de Cinna, et d’Horace. J’y mettrais Molière, le génie poétique le plus complet et le plus plein que nous ayons eu en français 30 . 29 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p. 42. Un vero classico, come vorrei sentirlo definito, è un autore che ha arricchito lo spirito umano, ha incrementato il suo tesoro, e gli ha permesso di avanzare di un gradino, è chi ha scoperto qualche morale e non equivocabile verità, o ha rivelato qualche eterna passione in cui il cuore sembra tutto conosciuto e scoperto; che ha espresso il suo pensiero, osservazione, o invenzione, non importa in quale forma, solo a condizione che sia ampio e grande, raffinato e sensibile, sano e bello di per se stesso; che abbia parlato a tutti nel suo stile peculiare, uno stile che si trova anche ad essere dell’intero mondo, uno stile nuovo senza neologismi, facilmente contemporaneo in ogni tempo. Un tale classico potrebbe per un momento essere rivoluzionario; potrebbe al massimo sembrare tale, ma non lo è; potrebbe solo impedire e sovvertire qualunque cosa possa impedire il ripristino del bilanciamento di ordine e bellezza. 30 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p. 42 Se lo si desidera, possono essere applicati dei nomi a questa definizione che io desidero rendere appositamente fondante e malleabile, o in 226 5.3. Sainte-Beuve: che cosa è un classico? Proprio Moliere è l’autore che Sainte-Beuve voleva inserire nel novero dei Classici, come se l’articolo fosse quasi stato scritto per lui solo e per avvalorare la sua tesi porta anche una citazione lunga ed entusiasta di Goethe, «C’est en ce genre ce qu’il jr a de plus grand», che appare più significativa tenuto conto del fatto che anche quest’ultimo è considerato dal nostro autore un Classico a sua volta oltre che «ce roi de la critique». Sainte-Beuve resta cosciente dell’innovazione che con questo testo porta alla disputa tanto che sembra quasi volerne, in parte, prendere le distanze, recuperando alcune nozioni di forma che nell’impeto della definizione aveva dovuto trascurare; non vuole infatti tagliare nettamente con le considerazioni già sedimentate e aggiunge: «Je ne me dissimule pas que cette définition que je viens de donner du classique excède un peu l’idée qu’on est accoutumé de se faire sous ce nom. On y fait entrer ’surtout des conditions de régularité, de sagesse, de modération et de raison, qui dominent et contiennent toutes ies autres31 ». A questo proposito porta anche i contributi di altri quali M. de Rémusat, Marie-Joseph Chénier e Buffon per i quali continua però a nutrire qualche riserva. A questo punto deviamo un po’ dal nostro discorso e prendiamo in esame il saggio del 1858. L’occasione del nuovo testo fu data dall’attività accademica di Sainte-Beuve che tenne nel 1858 la lezione inaugurale all’École Normale Supérieure; le premesse contestuali erano completamente diverse e Sainte-Beuve tenne fede alla sua funzione di accademico e insegnante dando una definizione completamente normativa che permettesse di intendere e conservare la tradizione. Compagnon nota che in questo secondo testo il «noi» prende il posto che nel primo saggio aveva l’autore nella sua irriducibile individualità, questa scelta è motivata dall’appartenenza ad un gruppo compatto, gli accademici, e invita già dalla forma a una adesione forte motivata dalla necessità di azione, nello specifico di tradizione, nel senso letterale del termine. Si tratta di un invito insomma ad una parola onnicomprensiva. Potrei metterci il Corneille di Policeuta, Cinna e Orazio. potrei metterci Moliere, il più completo e intero genio poetico che noi abbiamo mai avuto in Francia. 31 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p.43. Non posso nascondere a me stesso che la definizione di classico che ho appena dato eccede un po’ la nozione normalmente associata al termine. Questo dovrebbe, soprattutto, includere condizioni di uniformità, saggezza, moderazione e ragione che domina e contiene tutte le altre. 227 5. L’età contemporanea aderire ad un imperativo morale, in riferimento alla questione, che si concretizza con la difesa e la preservazione del patrimonio nazionale francese anche se sembra comunque mitigare le differenze sostanziali con il primo intervento32 . Ricorda infatti: «non nego la facoltà poetica, fino a un certo punto universale, dell’umanità». In questo intervento la ragione, posta dapprima in secondo piano, viene completamente riabilitata e gli slanci dello stesso Goethe verso l’altro, l’oriente, quasi scherniti: «le sue peregrinazioni alla ricerca della varietà del bello non avrebbero più fine». In questo secondo testo la visione del Classico più che mitigata pare agli opposti, aderente al classicismo dell’epoca; del resto il contesto accademico era effettivamente molto ristretto e SainteBeuve sembra mimetizzarsi nella folla. Come ricorda Compagnon: «nel primo testo il punto di vista era quello dello scrittore, al quale i Classici, nella loro diversità, originalità, inesauribile freschezza, servono da emulazione, ma all’École Normale è il professore che parla, e il criterio di valore non è più lo stesso: non è più l’ammirazionefeconda dell’aspirante scrittore per i suoi predecessori, ma l’applicazione della letteratura alla vita, la sua utilità per la formazione degli uomini e dei cittadini33 ». Nel testo di Compagnon però l’interesse è posto alla teoria della letteratura e quindi è l’accademico, il critico Sainte-Beuve a interessare maggiormente, nella nostra trattazione invece è lo scrittore Sainte-Beuve a interessarci di più, torniamo quindi al saggio del 1850 che, dove lo avevamo lasciato. Sainte-Beuve rinserra il discorso e cita nuovamente Goethe nella sua definizione più chiara ed esplicita. J’appelle le classique le sain, et le romantique le malade. Pour moi le poëme des Niebelungen est classique comme Homère ; tous deux sont bien portants et vigoureux. Les ouvrages du jour ne sont pas romantiques parce qu’ils sont nouveaux, mais parce qu’ils sont faibles, maladifs ou malades. Les ouvrages anciens ne sont pas classiques parce qu’ils sont vieux, mais parce qu’ils sont énergiques, frais et dispos. Si nous considérions lé romantique et le clas32 Antoine Compagnon, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Einaudi, Torino 2000, p. 260 e ss. 33 Antoine Compagnon, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Einaudi, Torino 2000, p. 263. 228 5.3. Sainte-Beuve: che cosa è un classico? sique sous ces deux points de vue, nous serions bientôt tous d’accord 34 . Questa definizione del Classico secondo la sua buona salute è molto interessante perché sembra riferirsi alla bontà in senso etico, rivedremo questo concetto nei capitoli 6.2 e 6.3. A questo punto la trattazione rivela tutta la sua ampiezza con un elenco critico e giustificato di quelli che per Sainte-Beuve sono i Classici. La citazione di Goethe dei Nibelunghi assume un’importanza impensabile per l’epoca e anche per quanto fin’ora aveva detto dal momento che espande la nozione di Classico ben al di là del mondo Europeo coevo, anche di quello che noi oggi chiamiamo mondo occidentale, arrivando a definire, secondo quanto sapeva anche di mondi tanto lontani, quasi un canone mondiale, umano. Et en effet, avant de fixer et d’arrêter ses idées à cet égard, j’aimerais à ce que tout libre esprit fit auparavant son tour du monde, et se donnât le spectacle des diverses littératures dans leur vigueur primitive et leur infinie variété 35 . Prima di tutti viene Omero, un Classico inconsapevole e «le père du monde classique, mais qui lui-même est encore moins certainement un individu simple et bien distinct que l’expression vaste et vivante d’une époque tout entière et d’une civilisation à demi barbare.36 »; seguono «des anciens augustes, vénérables, des Eschyle, des Sophocle, mais tout mutilés, et qui ne sont là debout 34 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p. 46. Io chiamo il classico sano, e il romantico stucchevole. Nella mia opinione la canzone dei Nibelunghi è più classica di Omero. Entrambi sono sani e vigorosi. I lavori di oggi sono romantici, non perché sono nuovi, ma perché sono deboli, in difficoltà o stucchevoli. I lavori antichi sono classici non perché sono vecchi, ma perché sono potenti, freschi e sani. Se guardiamo al romantico e al classico da questi due punti i vista saremmo presto tutti d’accordo. 35 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p. 46. Infatti, prima di determinare e fissare le opinioni su tale questione, vorrei che ogni mente libera da pregiudizi facesse un giro intorno al mondo e si dedichi a un sondaggio sulle diverse letterature nel loro primitivo vigore e infinita varietà. 36 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III, p. 46. Il padre del mondo classico, meno un singolo distinto individuo che la vasta vivente espressione di un’intera epoca e di una semi barbarica civiltà. 229 5. L’età contemporanea que pour nous représenter un débris d’euxmêmes, le reste de tant d’autres aussi dignes qu’eux sans doute de survivre, et qui ont succombé à jamais sous l’injure des âges 37 ». A questo punto Sainte-Beuve passa al mondo moderno e inserisce una nozione di priorità ovvero il fatto che i Classici non siano tutti sullo stesso piano. C’è la letteratura e all’interno di questo un canone di Classici di second’ordine e infine sulla vetta un gruppo ristretto di Classici di prim’ordine. Non sempre, nota, i Classici assumono subito il posto che compete loro e in particolar modo l’arrivare presto, alle origini di una letteratura, crea più difficoltà di giudizio nei contemporanei. L’appiglio per questa categorizzazione viene dall’analisi di Shakespeare e infatti Sainte-Beuve dice: Les plus grands noms qu’on aperçoit au début des littératures sont ceux qui dérangent et choquent le plus certaines des idées restreintes qu’on a voulu donner du beau et du convenable en poésie. Sliakspeare est-il un classique, par exemple ? Oui, il l’est aujourd’hui pour l’Angleterre et pour le monde ; mais, du temps de Pope, il ne l’était pas. Pope et ses amis étaient les seuls classiques par excellence ; ils semblaient tels définitivement le lendemain de leur mort. Aujourd’hui ils sont classiques encore, et Us méritent de l’être, mais ils ne le sont que du second ordre, et les voilà à jamais dominés et remis à leur place par celui qui a repris la sienne sur les hauteurs de l’horizon 38 . 37 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p. 46 Gli antichi augusti, venerabili, Eschilo e Sofocle, mutilati, è vero, e lì solo per presentarsi a noi con detriti di se stessi, i sopravvissuti tra molti altri per personalità, sicurezza, come sono sopravvissuti, ma che hanno ceduto alle ingiurie del tempo. 38 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p. 47. I più grandi nomi che possono essere trovati all’inizio delle letterature sono quelli che disturbano e vanno in senso opposto a certe idee stabilite di cosa è bello e appropriato in poesia. Per esempio, è Shakespeare un classico? Si, ora per l’Inghilterra e per il mondo; ma nel tempo di Pope non era considerato così. Pope e i suoi amici erano i soli classici preminenti; subito dopo la loro morte sembrava sarebbe stato così per sempre. Adesso sono ancora classici, come meritano di essere, ma sono solo di second’ordine, e sono per sempre subordinati e relegate al posto che compete loro da colui che e tornato di nuovo al suo posto, sull’altezza dell’orizzonte. 230 5.3. Sainte-Beuve: che cosa è un classico? Nonostante tutte le difficoltà il vero Classico riesce comunque ad emergere con l’aiuto del tempo, lo stesso che affossa gli autori prematuramente assunti a Classico. Les vrais et souverains génies triomphent de ces difficultés où d’autres échouent ; Dante, Shakspeare et Milton ont su atteindre à toute leur hauteur et produire leurs œuvres impérissables, en dépit des obstacles, des oppressions et des orages39 . Ed è così che Byron, per esempio, grazie anche ad una nuova citazione di Goethe, e a una fortuna immagine che lega la grandezza degli scrittori all’altezza di metaforici muri, riesce al fine ad ottenere solo il secondo posto Goethe a encore dit là-dessus le vrai mot quand il a remarqué que Byron, si grand par le jet et la source de la poésie, craignait Shakspeare, plus puissant que lui dans la création et la mise en action des personnages : « Il eût bien voulu le renier ; cette élévation si exempte d’égoïsme le gênait ; il sentait qu’il ne pourrait se déployer à l’aise tout auprès. Il n’a jamais renié Pope, parce qu’il ne le craignait pas ; il savait bien que Pope était une muraille à côté de lui. » Si l’école de Pope avait conservé, comme Byron le désirait, la suprématie et une sorte d’empire honoraire dans le passé, Byron aurait été l’unique et le premier de son genre ; l’élévation de la muraille de Pope masquait aux yeux la grande figure de Shakspeare, tandis que, Shakspeare régnant et dominant de toute sa hauteur, Byron n’est que le second 40 . 39 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p. 48. Il genio vero e sovrano trionfa sopra le grandi difficoltà che fanno cadere gli altri: Dante Shakespeare e Milton sono in grado di raggiungere la loro altezza e produrre i loro lavori imperituri nonostante gli ostacoli, i disagi e le tempeste. 40 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p. 48. Goethe ha detto il vero in quel punto in cui ha osservato che Byron, grande per il flusso e la fonte della poesia, ha temuto che Shakespeare fosse più potente di lui nella creazione e nella realizzazione dei suoi caratteri. “avrebbe voluto negarlo, l’elevazione così libera dall’egoismo lo irritava, si sentiva quando vicino che non poteva spiegarlo a se stesso agevolmente. Non ha mai rinnegato Pope, perché non ne aveva paura; sapeva che Pope era solo una muro basso accanto a sé. Se, come Byron desiderava, la scuola di 231 5. L’età contemporanea Allo stesso modo prende in analisi anche la letteratura francese che non ha raggiunto vette, o muretti, degni di canonizzazione fino al secolo di Luigi xiv, anche Rabelais è in difetto; i grandi Classici francesi sono Molière e La Fontaine. A questo punto Sainte-Beuve prova a fare il punto ma non riesce comunque a dare una norma prescrittiva, nessun trucco per scrittori che aspirino a divenire Classici. Il n’y a pas de recette pour faire des classiques ; ce point doit être enfin reconnu évident. Croire qu’en imitant certaines qualités de pureté, de sobriété, de correction et d’élégance, indépendamment ducaractère même et de la flamme, on deviendra classique, c’est croire qu’après Racine père il y a lieu à des Racine fils ; rôle estimable et triste, ce qui est le pire en poésie. Il y a plus : il n’est pas bon de paraître trop vite et d’emblée classique à ses contemporains ; on a grande chance alors de ne pas rester tel pour la postérité 41 . Proprio a questo punto la narrazione si allarga nei suoi presupposti e si rende autenticamente mondiale, la casa dei Classici viene descritta secondo quello che è il suo «progetto per l’edificio». Homère, comme toujours et partout» y serait le premier, le plus semblable à un dieu ; mais derrière lui, et tel que le cortége des trois rois mages d’Orient, se verraient ces trois poëtes magnifiques, ces trois Homères longtemps ignorés de nous, et qui ont fait, eux aussi, Pope avesse ottenuto la supremazia e una sorta di impero onorario nel passato, Byron sarebbe stato il primo e solo poeta nel suo particolare stile; l’altezza del muretto di Pope avrebbe tolto la grande immagine di Shakespeare dalla vista, considerato che quando Shakespeare regna e detta legge in tutta la sua grandezza, Byron è solo il secondo. 41 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p. 49. Non c’è alcuna ricetta per fare classici; questo punto deve essere riconosciuto chiaramente. Credere che un autore diventi un classico imitando certe qualità di purezza, moderazione, accuratezza ed eleganza, indipendentemente dallo stile e dall’ispirazione, è come credere che dopo Racine padre ci sia un posto per Racine figlio; ruolo insignificante e stimabile, il peggiore in poesia. Inoltre è pericoloso accettare troppo velocemente e senza opposizione il posto di classico in presenza dei propri contemporanei; in quel caso c’è una grossa possibilità di non mantenere la posizione con la posterità. 232 5.3. Sainte-Beuve: che cosa è un classico? à l’usage des vieux peuples d’Asie, des épopées immenses et vénérées, les poëtes Valmiki et Vyasa des Indous, et le Firdousi des Persans : il est bon, dans le domaine du goût, de savoir du moins que de tels hommes existent et de ne pas scinder le genre humain.[...] Les Solon, les Hésiode, les Théognis, les Job, les Salomon, et pourquoi pas Confucius lui-même ? Accueilleraient les plus ingénieux modernes, les La Rochefoucauld et les La Bruyère,[...] Sur la colline la plus en vue et de la pente la plus accessible, Virgile entouré de Ménandre, de Tibulle, de Térence, de Fénelon, [...] Non loin de lui, et avec le regret d’être séparé d’un ami si cher, Horace présiderait à son tour [...] le groupe des poëtes de la vie civile [...] Pope, Despréaux, l’un devenu moins irritable, l’autre moins grondeur : Montaigne, ce vrai poëte, en serait, [...] La Fontaine s’y oublierait,[...] Voltaire y passerait, [...] Sur la même colline que Virgile, et un peu plus lias, on verrait Xénophon,[...] réunir aulour de lui les attiques de toute langue et de tout pays, les Addison, les Pellisson, les Vauvenargues, [...] Au centre du lieu, trois grands hommes aimeraient souvent à se rencontrer devant le portique du principal temple (car il y en aurait plusieurs dans l’enceinte),[...] Leurs trois noms sont devenus l’idéal de l’art : Platon, Sophocle et Démosthène. Et, malgré tout, ces demi-dieux une fois honorés, ne voyez-vous point là-bas une foule nombreuse et familière d’esprits excellents qui va suivre de préférence les Cervantes, les Molière toujours, [...] Le moyen âge, croyez-le bien, et Dante occuperaient des hauteurs consacrées : aux pieds du chantre du Paradis, l’Italie se déroulerait presque tout entière comme un jardin ; Boccace et l’Arioste s’y joueraient, et le Tasse retrouverait la plaine d’orangers de Sorrenle42 . 42 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III pp. 51-53. Omero, come è stato sempre ed ovunque, dovrebbe essere il primo, come fosse un dio; ma dietro di lui, come la processione dei tre saggi re dell’est, si dovrebbero vedere I tre grandi poeti, I tre Omeri, così a lungo ignorati da noi, che scrissero poemi epici per le antiche popolazioni dell’Asia, I poeti Valmiki, Vyasa degli Indù, e Firdousi dei Persiani: nel dominio del gusto è bene sapere che questi uomini esistono e 233 5. L’età contemporanea Dopo la citazione ai Nibelunghi ecco citati autori indiani e persiani fino alla definizione generalizzata di questa inclusione: «En général, les nations diverses y auraient chacune un coin réservé, mais les auteurs se plairaient à en sortir, et ils iraient en se promenant reconnaître, là où l’on s’y attendrait le moins, des frères ou des maîtres. Lucrèce, par exemple, aimerait à discuter l’origine du monde et le débrouillement du chaos avec Milton43 ». A questo punto la descrizione lascia il posto alle note conclusive del testo che sono molto interessanti perché anticipano quello che è il motivo fondante dell’analisi di T. S. Eliot da cui eravamo partiti. Il vient une saison dans la vie, où, tous les voyages étant faits, toutes les expériences achevées, on n’a pas de plus vives jouissances que d’étudier et d’approfondir les choses qu’on sait, de savourer ce qu’on sent, comme de. voir et de revoir les gens qu’on aime : pures délices du cœur et du goût dans la maturité. C’est alors que ce mot de classique prend son vrai sens, et qu’il se définit pour tout homme de goût par un choix de prédilection et irrésistible. Le goût est fait alors, il est formé et définitif ; le bon sens chez nous, s’il doit venir, est consommé. On n’a plus le temps d’essayer non per dividere il genere umano. [...] Solone, Esiodo, Theognis, Job, Salomone e, perché no, Confucio, accoglierebbero i migliori moderni, La Rochefoucauld e La Bruyère [...] Sulla collina, più facilmente distinguibili, in un luogo di più facile ascesa, Virgilio circondato da Menandro, Tibullo, Terenzio e Fenelon [...] Non lontano da lui, deplorando la separazione da un tanto caro amico, Orazio, a sua volta, dovrebbe presiedere [...] il gruppo di poeti di vita sociale [...], Pope, Boileau, il primo diventato meno irritabile, l’altro meno pignolo. Montaigne, un vero poeta sarebbe tra loro [...] Ci sarebbe La Fontaine [...] Voltaire ne sarebbe attratto [...] Un poco più in basso, sulla stessa collina dii Virgilio, Xenofonte, [...] si potrebbero vedere a raccolta tutto intorno a lui, gli attici di tutte le lingue e di tutte le nazioni, gli Addison, Pellison, Vauvenargues [...] Nel centro di questo spazio, nel portico del tempio principale (per questo ce ne sono molti nel recinto) tre grandi uomini si incontrerebbero spesso [...] I loro tre nomi sono diventati l’ideale dell’arte – Platone, Sofocle e Demonostene. Questi semidei onorati, noi vediamo una compagnia numerosa e familiare di spiriti di scelta che seguono, i Cervantes e i Moliere [...]Nel medioevo, credetemi, Dante occuperebbe la cima sacra: ai piedi del cantante del Paradiso tutta l’Italia sarebbe illuminata come un giardino; Boccaccio e Ariosto lì si divertirebbero, e Tasso troverebbe ancora gli aranceti di Sorrento. 43 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p. 53. Di solito un angolo sarebbe riservato per ciascuna delle diverse nazioni, ma gli autori si delizierebbero a lasciarle, e nei loro viaggi riconoscerebbero dove dovrebbero aspettarsi, fratelli o maestri. Lucrezio per esempio gradirebbe discutere le origini del mondo e la riduzione dal caos all’ordine con Milton. 234 5.4. Eliot: che cosa è un classico? ni l’envie de sortir à la découverte. On s’en tient à ses amis, à ceux qu’un long commerce a éprouvés. Vieux vin, vieux livres, vieux amis44 . La maturità del lettore, necessaria per Sainte-Beuve per il godimento dei Classici diventerà per Eliot la maturità stessa del Classico; vediamo adesso come. 5.4 Eliot: che cosa è un classico? Nel 1975 J.F. Kermode pubblicava The Classic, literary images of permanence and change. La prima parola del saggio era «Eliot»; non evidentemente un caso, dal momento che poco più avanti lo stesso Kermode dichiara il personale debito di questo libro nei confronti di questo poeta e critico eccezionale. Vediamo dunque questo incipit che si cura anche di spiegare l’ambito di ricerca che, già stato di Eliot, era allora il suo come è adesso il nostro. But the inquiry ought to begin with the very title of Eliot’s essay. The question it puts is a very old one, for it must be asked in some form whenever there is in process any kind of secular canon-formation, any choice of authorities in matters of doctrine and style45 . Kermode iniziava il suo studio da Gellio per poi passare a Sainte-Beuve e ad altri autori che abbiamo già visto in questa sezione di indagine storica. Veniamo adesso a Eliot che il 16 ottobre 1944 tenne un discorso alla Virgil Society che 44 Qu’est-ce qu’un Classique? (1850) in Charles Augustine Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Garnier, Paris 1874-76, vol. III p. 54. Arriva un momento nella vita quando, compiuti tutti i nostri viaggi, la nostra esperienza finisce, non c’è godimento più delizioso che studiare ed esaminare a fondo le cose che conosciamo, per trovare piacere in quello che sentiamo, e nel vedere e rivedere ancora le persona che amiamo: la gioia pura della nostra maturità. È allora che la parola classico assume il suo vero significato, ed è definito per tutti gli nuomini di buon gusto da una scelta irresistibile. Allora il gusto è formato, ha forma ed è definito; allora il buon senso, se completamente possiamo possederlo, è perfetto in noi. Non abbiamo più tempo per gli esperimenti, nessun desiderio di andare lontano in cerca di nuovi pascoli. Ci aggrappiamo ai nostri amici, quelli provati da una lunga familiarità. Vecchio vino, vecchi libri, vecchi amici. 45 John Frank Kermode, The Classic, literary images of permanence and change, Faber & Faber, London 1983, p. 15. 235 5. L’età contemporanea venne poi pubblicato l’anno seguente con il titolo What is a Classic? Eliot aveva in mente Virgilio, cosa già di per sé evidente dal luogo che ospitò l’evento e ancor di più per quanto ci dice subito lo stesso autore. Prendiamo in esame il testo, così come venne pubblicato. Abbiamo già visto all’inizio dello scorso capitolo come subito venga fatto il nome di Sainte-Beuve, poco oltre lo stesso Eliot ammette che: The pertinence of asking this question, with Virgil particularly in mind, is obvious: whatever the definition we arrive at, it cannot be one which excludes Virgil - we may say confidently that it must be one which expressly reckon with him46 . Vedremo infatti più avanti come per Eliot non solo Virgilio meriti il titolo di Classico secondo la sua personale definizione ma anche sia l’unico ad ottenere il titolo di Classico e, oltre ancora, di Classico Universale. I shall distinguish between the universal classic like Virgil, and the classic which is only such in relation to the other literature in its own language or according to the view of life of a particular period47 . Il saggio, dopo una breve sezione volta a determinare l’ambito e il significato del termine a cui si fa riferimento48 nega il giudizio di valore che accompagna il termine fin dalla nascita dell’antitesi Classico-Romantico; By the terms of the classic-romantic controversy, to call any work of art ’classical’, implies either the highest praise or the most contemptuos abuse, according to the party to which one belongs. 46 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 53, tradotto in Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 473. L’opportunità di porre questa domanda avendo in mente proprio Virgilio è evidente: perché, qualunque sia la definizione a cui giungeremo, essa non potrà mai essere tale da escludere Virgilio; possiamo anzi affermare tranquillamente che dovrà fare i conti con lui. 47 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p.55, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 475. Distinguerò tra classico universale - qual’è Virgilio - e il classico che è tale soltanto in relazione alla letteratura cui appartiene o alla concezione della vita in una certa età. 48 Si riveda il capitolo 1.1 236 5.4. Eliot: che cosa è un classico? it implies certain particular merits or faults: either the perfection of form, or the absolute zero of frigidity. But i want to define one kind of art, and am not concerned thet is absolutely and in every respect better or worse than another kind49 . In questo modo, determinando le qualità che si aspetta di ritrovare in un’opera che meriti il titolo di Classico, riporta il termine Classico ad una categorizzazione priva di tratti di elevazione, sia per quanto riguarda l’opera che sia definita come Classico come anche per la letteratura nazionale che la ha generata. But I do not say that, if a literature is to be a great literature, it must have any one author, or any one period, in which all these qualities are manifested. If, as I think, they are all to be found in Virgil, that is not to assert that he is the greatest poet who ever wrote - such an assertion about any poet seems to me meaningless - and it is certainly not to assert that Latin literature is greater than any other literature. We need not consider it as a defect of any literature, if no one author, or no one period, is completely classical, or, if, as is true of English literature, the periodo which most nearly fills the classical definition is not the greatest50 . Lo scarto da una accezione che determini il giudizio di valore è molto netta e più volte ripetuta fino alla costruzione della sua personale definizione di Classi49 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 54, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 474. Stando ai termini della controversia fra classici e romantici, il definire “classica” una qualsivoglia opera d’arte implica, secondo il partito che si segue, o la lode più alta o il più sprezzante vituperio. Implica certi particolari pregi o difetti: in un caso la perfezione della forma, nell’altro la totale frigidezza. Ma io intendo definire una data specie di arte, e non m’importa se questa sia in senso assoluto e per ogni rispetto migliore o peggiore di un’altra specie. 50 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 54, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 474. Ma non voglio dire che una letteratura, per essere grande deve necessariamente possedere un dato autore o un dato periodo in cui tutte queste qualità siano presenti. Se come penso, esse si ritrovano tutte in Virgilio, ciò non significa asserire che egli è il più grande dei poeti - un’asserzione simile mi sembra insensata nei riguardi di chiunque - e neppure che la letteratura latina è più grande di ogni altra. Non si deve stimare manchevole una letteratura perchè nessuno dei suoi autori o periodi è compiutamente classico; o perchè, come nel caso della letteratura inglese, quello che meglio corrisponde alla definizione di classico non è il suo periodo più grande. 237 5. L’età contemporanea co che, come abbiamo visto, passa attraverso le qualità necessarie e sufficienti a definirlo. La maturità è la prima di queste qualità sia nell’ordine di esposizione che per importanza; ciò nonostante non viene definita To define maturity without assuming thet the hearer already knows what it means, is almost impossible [...] but if we are mature we either recognize maturity immediately, ore come to know it on more intimate acquaintance 51 . La mancanza di una definizione di maturità non esclude però la possibilità che questa sia comunque complessamente specificata; si tratta infatti di maturità di civiltà, di lingua, di letteratura oltre che di maturità individuale dell’autore. A classic can only occur when a civilization is mature; when a language and a literature are mature and it must be the work of a mature mind.52 Il concetto di maturità, così importante e centrale in questo saggio, è presente anche altrove nella vasta produzione saggistica di Eliot, nel saggio Tradition and the Individual Talent53 , ad esempio, egli motiva l’importanza della categoria della maturità per il poeta e il suo lavoro: The mind of the mature poet differs from that of the immature one not precisely in any valuation of ’personality’, not being necessarily more interesting, or having ’more to say’, but rather by 51 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p.55, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 475. È quasi impossibile definire la maturità senza muovere dal presupposto che l’ascoltatore ne sappia già il significato [...] Se invece siamo maturi, o riconosceremo immediatamente la maturità, ovvero giungeremo a riconoscerla dopo una più intima frequentazione. 52 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 55, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 475. Un classico non appare se non quando una civiltà, una lingua e una letteratura sono mature; e la sua deve essere l’opera di una mente matura. 53 Tradition and the Individual Talent, pubblicato per la prima volta in The Egoist, settembredicembre 1919; mentre l’autore data questo saggio al 1917. 238 5.4. Eliot: che cosa è un classico? being a more finely perfected medium in which special, or very varied. feelings are at liberty to enter into new combinations 54 . Se la civiltà cui il Classico appartiene è poi universale, per importanza, lingua, spiritualità anche il Classico che genera sarà a sua volta Universale, proprio perché la produzione letteraria di una civiltà in un dato periodo storico è specchio della stessa civiltà che la genera. A questo punto viene definita anche una maturità relativa del poeta rispetto al periodo storico e culturale in cui vive, alla letteratura e alla cultura generale cui appartiene First that the value of maturity depends upon the value of that which matures, and second, that we should know when we are concerned with the maturity of individual writers, and when with the relative maturity of literary periods. A writer who individually has a more mature mind may belong to a less mature period then another, so that in respect his work will be less mature55 . Si potrebbe dire che appartenere ad un periodo maturo concede ad un autore un ampio margine di vantaggio, se poi il corridore più veloce parte svantaggiato invece che avvantaggiato dal proprio periodo storico-letterario potrà anche non raggiungere per primo il traguardo; restando nella metafora sportiva potremmo dire che in questo caso non sarà registrato alcun nuovo record. Resta ovviamente compito precipuo dell’autore riconoscere questa necessità, già accennata in un altro saggio, The music of Poetry, di qualche anno prima, è infatti del 1942, dove ricorda che «the task of the poet will differ, not only according 54 T.S. Eliot, Selected Essays, Faber & Faber, London 1934, p. 18, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1904-1939, Bompiani, Milano 2001, pp. 397-398. Lo spirito del poeta maturo differisce da quello del poeta immaturo non tanto per una qualsiasi valutazione della “personalità”, né perché è necessariamente più interessante o perché abbia “da dire di più”, quanto piuttosto perché è un ambiente più finemente perfezionato nel quale i sentimenti particolari, i più vari sentimenti, sono liberi di entrare in nuove combinazioni. 55 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 55, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 476. Il valore della maturità dipende da ciò che matura, e poi bisognerebbe sempre distinguere tra la maturità individuale di uno scrittore e la relativa maturità dei periodi letterari. Uno scrittore con una mente più matura di un altro può appartenere a un periodo meno maturo, e da questo punto di vista anche l’opera sua sarà meno matura. 239 5. L’età contemporanea to his personal constitution, but according to the period in which he finds himself56 »; non si tratta insomma di un’unione fortuita di due elementi quanto di una scelta del poeta che deve essere, almeno in parte, consapevole. Sebbene siano presentate tante accezioni del concetto di maturità è pur vero che la letteratura è specchio della società, della civiltà che la ha prodotta e quindi una letteratura matura appartiene ad una civiltà altrettanto matura. Non è detto allo stesso modo il contrario dal momento che una civiltà matura non necessariamente produce una letteratura matura di conseguenza alla sua stessa maturazione. Nel 1948 Eliot pubblicherà un saggio dal titolo Notes Towards the Definition of Culture; probabilmente coevo a quello che stiamo più dettagliatamente prendendo in analisi, il saggio non registra infatti un’evoluzione del suo pensiero, bensì un approfondimento57 . In questo testo vengono prese in analisi più dettagliatamente le condizioni necessarie ad una civiltà perché la sua cultura fiorisca e viene individuata nella sua relativa divisione interna l’elemento portante di questo mutamento. It is a recurrent theme of this essays, that a people should be neither too united nor too divided, if its culture is to flourish. Excess of unity may be due to barbarism and may lead to tyranny; excess of division may be due to decadence and may also lead to tyranny: either excess will prevent further development in culture 58 . 56 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 35, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 309. Il compito del poeta varia non solo secondo il suo temperamento personale, ma anche secondo il tempo in cui vive. Il saggio, The music of Poetry, è il testo della terza conferenza delle W.P. Ker Memorial Lectures tenuta alla Glasgow University il 24 febbraio 1942, pubblicato dalla Glasgow university Press lo stesso anno. Oggi in T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, pp. 26-38. 57 «Notes Towards the Definition of Culture fu pubblicato da Faber & Faber, London 1948. Il volume contiene, in appendice, il testo di tre conversazioni radiofoniche tenute alla BBC, “German Service”, il 10, 17 e 24 marzo 1946, e pubblicate a Berlino lo stesso anno con il titolo Die Einheit del Europäischen kultur. In una sua premessa, lo stesso Eliot informa che il saggio fu iniziato “quattro o cinque anni fa” (rispetto alla data 1948), formandosi attraverso alcuni appunti pubblicati in The New English Weekly.» T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 1568: Note ai testi. 58 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 50, tradotto inT.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 561. È tema ricorrente in 240 5.4. Eliot: che cosa è un classico? Questa ideale divisione interna viene poi spiegata prendendo ad esempio la condizione della cultura e della letteratura nelle isole britanniche, dove le differenze locali hanno magistralmente permesso alla lingua e alla letteratura inglesi di crescere organicamente. Secondariamente Eliot indaga questa stessa divisione all’interno della cultura europea, questa coscienza dell’identità culturale europea è, per il nostro lavoro, invece che di secondaria, di fondamentale importanza. One people in isolation is not aware of having a ’culture’ at all. And the differences between the several European nations in the past were not wide enought to make their peoples see their cultures as different to the point of conflict and incompatibility: culture-consciousness as a means of uniting a nation against other nations was first exploited by the late rulers of Germany59 . Fintanto che le divisioni restano entro certi limiti la cultura europea può continuare ad evolversi, anzi trae vantaggio da questa condizione di separazione; quando invece le divisione passano il limite la cultura comune subisce una nota di arresto, insieme con le relazioni non propriamente culturali. Così la chiusura delle culture europee portò al fallimento tutte le iniziative che si basavano sulla collaborazione intellettuale internazionale; tra queste anche la rivista The Criterion diretta dallo stesso Eliot che proprio in merito al fallimento di questo eperimento letterario dice: And I attribute this failure chiefly to the gradual closing of the mental frontiers of Europe. A kind of cultural autarky followed questo saggio che un popolo non dovrebbe essere né troppo unito né troppo diviso perché la sua cultura fiorisca. L’eccesso di unità può essere dovuto a barbarie, e condurre alla tirannia; l’eccesso di divisione può essere dovuto a decadenza, e condurre esso pure alla tirannia: l’uno e l’altro eccesso impediranno un ulteriore sviluppo della cultura. 59 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 90, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 604. Un popolo isolato non ha coscienza della propria cultura. E le differenze tra i diversi popoli europei non erano nel passato tanto ampie da far ad essi sembrare che le rispettive culture fossero tanto differenti da essere ostili e incompatibili: la coscienza culturale come mezzo per unificare una nazione contro altre fu utilizzata per la prima volta dai recenti dominatori della Germania. 241 5. L’età contemporanea inevitably upon political and economic autarky. this did not merely interrupt communications: I believe that it had a numbling effect upon creative activity within every country. The blight fell first upon our friends in Italy. And after 1933 contributions from Germany became more and more difficut to find60 . Eliot non fu l’unico intellettuale a interrogarsi sulla cultura e sul suo futuro proprio in riferimento all’esperienza dei totalitarismi europei e soprattutto del Nazismo; su questo ritorneremo più dettagliatamente nel capitolo 6.16. Abbiamo detto come la maturità della letteratura vada di pari passo con la maturità della civiltà che la produce; torniamo al primo saggio di Eliot che abbiamo qui preso in considerazione e vediamo che lo stesso vale per la lingua che infatti, nella sua analisi, sembra procedere di pari passo con la letteratura. Un grande scrittore può far maturare la lingua più velocemente di molti altri ma, se appartiene ad un periodo in cui la lingua è ancora molto immatura, il suo aiuto sarà meno significativo di un autore considerato minore ma che appartenga ad un periodo successivo o comunque più maturo. La maturità di cui abbiamo fin qui detto non è esente, come invece lo è il termine “classico”, da un giudizio di valore dal momento che appartiene al contesto semantico del progresso che è una delle idee portanti del mondo occidentale. A mature literature, therefore, has a history behind it: a history, that is not merely a chronicle, an accumulation of manuscripts and writings of this kind and that, but an orderer though uncoscious progress of a language to realize its own potentialities within its own limitations61 . 60 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 116, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 633. E attribuisco questo fallimento principalmente al graduale chiudersi delle frontiere mentali in Europa. Una sorta di autarchia culturale inevitabilmente seguì all’autarchia politica ed economica. Ciò non interruppe unicamente i contatti: ritengo che abbia avuto l’effetto di intorpidire l’attività creatrice entro ogni paese. Il flagello cadde dapprima sui nostri amici d’Italia. E dopo il 1933 divenne sempre più difficile ricevere contributi dalla Germania. 61 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, pp. 55-56, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 476. Ogni letteratura matura ha quindi una storia dietro di sé: non soltanto una cronaca, un cumulo di manoscritti e opere di questo o quel genere, ma l’ordinato seppur inconscio progresso d’una lingua nell’acquistare consapevolezza delle proprie possibilità entro i propri limiti. 242 5.4. Eliot: che cosa è un classico? Questo legame tra lingua e letteratura intesa quasi come suo stesso esito è molto forte tanto che nel resto del saggio il dicorso sulla lingua tende a nascondere quello sulla letteratura ed è del resto ben presente anche in altri autori non meno importanti. Si pensi al discorso di commiato tenuto da Tolkien, anch’egli scrittore e critico in egual misura, nel 1959 quando lasciò, dopo quattordici anni, la cattedra Merton Professor of English Language and Literature. In questo discorso, per l’appunto, si pone contro la divisione tra lingua e letteratura che nel saggio divengono Lit e Lang due folletti, due cuculi rivali e infine due gemelli siamesi62 . Il legame imprescindibile tra lingua e letteratura è stato poi messo in luce, in tempi più recenti, anche da scrittori non filologi; così ad esempio dice Pontiggia in I classici in prima persona, dopo aver pur ammesso la sua passione per la filologia: «Posso dire che, se non avessi avuto in mente di fare lo scrittore, avrei voluto fare il filologo63 ». per Pontiggia il legame non è solo tra lingua e letteratura ma anche tra letteratura e lingua. Io penso che la letteratura sia critica del linguaggio; è tante cose, ma direi che è sempre critica del linguaggio, perché essa recupera il senso delle parole, recupera la potenza del linguaggio, restituisce una vitalità che la parola dei classici aveva e che noi riscopriamo tutte le volte che li leggiamo64 . Per Pontiggia il legame tra lingua e letteratura è portatore di senso, di credibilità e di verità; riprenderemo questo elemento nel capitolo 6.6, vediamo subito la sua idea a riguardo. 62 Valedictory address to the University of Oxford in J.R.R. Tolkien, The Monsters and the Critics and other Essays, Harper Collins, London 2006, p. 230, tradotto in J.R.R. Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Luni Editrice, Milano-Trento 2000, p. 327. Prima aveva occupato per vent’anni, dal 1925 al 1945, la cattedra Rawlinson and Bosworth Professor of Anglo-Saxon; questo, di commiato, fu però l’unico discorso ufficiale che tenne. 63 Giuseppe Pontiggia, I classici in prima persona, Mondadori, Milano 2006, p. 9. 64 Giuseppe Pontiggia, I classici in prima persona, Mondadori, Milano 2006, p. 16. 243 5. L’età contemporanea La parola - che è l’oggetto più mercificato, oggi - diventa invece irradiazione di energia e verità, se noi leggiamo i classici. Per me è stata un’àncora di salvezza quando, nel periodo dell’Avanguardia, sembrava disperata la partita con il linguaggio: come si può credere alla verità? Come si può credere a una parola che rivela la verità? E allora ecco l’esmpio dei classici, la lettura dei classici: per me un antidoto formidabile è stsato leggere Dickens, il David Copperfield65 . Torniamo a Eliot e al saggio What is a Classic? che definisce la lingua in base al suo uso, sia in poesia che in prosa, e conclude che il processo di maturazione della lingua risulta più manifesto nella prosa piuttosto che nella poesia, e che anche nella stessa prosa possono attuarsi delle differenziazioni per cui una lingua maturi prima per un genere che per un altro. In genere lo sviluppo verso una prosa classica tende ad un common style; le diversità tra gli scrittori non scompaiono però, divengono solo più sottili, sono specchio di una società ordinata e stabile, equilibrata e armoniosa, fatta di «uomini che hanno senso critico rispetto al passato, fiducia nel presente, nessun dubbio esplicito sul futuro». We may expect the language to approach maturity at the moment when men have critical sense of the past, a confidence in the present, and no conscious doubt of the future66 . Questo significa che sia il poeta che i suoi lettori hanno un’idea chiara dei predecessori, dei padri letterari; indica insomma una comunicazione attiva del poeta con il proprio passato. Il poeta si trova così, anche quando vorrebbe il contrario, a continuare una tradizione e quindi a divenirne parte in un gioco di equilibrio tra il passato e la propria irriducibile diversità, il proprio talento 65 Giuseppe Pontiggia, I classici in prima persona, Mondadori, Milano 2006, p. 16. 66 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 57, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, pp. 478-479. Naturalmente possiamo attenderci che a maturità di linguaggio vada congiunta maturità di menti e di costumi; una lingua è prossima alla maturità nel momento in cui gli uomini che la usano dimostrano di avere senso critico del passato, fiducia nel presente, e nessun dubbio esplicito sull’avvenire. 244 5.4. Eliot: che cosa è un classico? individuale. Anche questa idea di tradizione è già presente altrove nell’opera di Eliot. Nel saggio The classics and the Man of Letters67 dove dice che «la continuità della letteratura è essenziale alla sua grandezza68 » la tradizione assume chiaramente la connotazione di continuità che ne è infatti il fulcro; l’elemento di continuità nella tradizione è più essenziale dei tratti di cambiamento, innovazione o rifiuto. Ancora più chiaro appare il legame con il passato nel già citato saggio, Tradition and the Individual Talent che è quasi interamente dedicato alla questione della tradizione dove ne viene anche esplicitata la portata e l’importanza. Tradition is a matter of much wider significance. it cannot be inherited, and if you want it you must obtain it by great labour. It involves, in the first place, the historical sense, which we may call nearly indispensable to anyone who would continue to be a poet beyond his twenty-fifth year; and the historical sense involves a perception, not only of the pastness of the past, but of its presence; the historical sense compels a man to write not merely with his own generation in his bones, but with a feeling that the whole of the literature of Europe from Homer and within it the whole of the literature of his own country has a simultaneous existence and composes a simultaneous order. This historical sense, which is a sense of the timeless as well as of the temporal and the timeless and of the temporal together, is what makes a writer traditional69 . 67 Testo della conferenza tenuta il 15 aprile 1942 alla Classical Association, fu pubblicato lo stesso anno dalla Oxford University Press. 68 T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 318. 69 T.S. Eliot, Selected Essays, Faber & Faber, London 1934, p. 14. tradotto in T.S. Eliot, Opere 1904-1939, Bompiani, Milano 2001, pp. 393-394. Ma il concetto di tradizione ha una portata molto più vasta. La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare: chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. Essa esige che si abbia, anzitutto, un buon senso storico, cosa che è quasi indispensabile per chiunque voglia continuare a fare il poeta dopo i venticinque anni. Avere senso storico significa essere consapevole non solo che il passato è passato, ma che è anche presente; il senso storico costringe a scrivere non solo con la sensazione fisica, presente nel sangue, di appartenere alla propria generazione, ma anche con la coscienza che tutta la letteratura europea da Omero in avanti, e all’interno di essa tutta la letteratura del proprio paese, ha una sua esistenza simultanea e si struttura in ordine simultaneo. Il possesso del senso storico, che è senso dell’atemporale come del temporale, e dell’atemporale e del temporale insieme: ecco quello che rende tradizionale uno scrittore. 245 5. L’età contemporanea Riprendiamo l’analisi del saggio sul Classico dove Eliot continua quindi a rifinire la definizione iniziale di maturità che arriva ad essere definita «maturity of mind, maturity of manners, maturity of language and perfection of the common style70 », a questo punto la dicotomia tra spirito del poeta e spirito del tempo, la distanza tra lingua e letteratura sono state risolte dall’argomentazione. Eliot insiste ancora sull’importanza della storia per la formazione di un Classico e, ancora, arriva a meglio determinare l’influsso sul poeta: non è sufficiente la conoscenza della propria storia nazionale, che pure è fondamentale per collocare se stessi nel solco di una tradizione. Fatto questo è quindi necessario collocare la propria storia nazionale all’interno di un quadro più vasto ed infine è necessario conoscere altre storie. Oggi diremmo forse che inizia a sembrare necessario, o quanto meno utile, conoscere la storia del pensiero occidentale, quanto meno. Consciousness of history cannot be fully awake, except where there is other history than the history of the poet’s own people: we need this in order to see our own place in history. There must be the knowledge of the history of at least one other highly civilized people, and of a people whose civilization is sufficiently cognate to have influenced and entered into our own71 . Forse il pensiero occidentale, nel corso dei secoli, ha incrociato nel suo cammino così tante altre strade da rendere necessario conoscere la storia del pensiero umano quasi per intero per poterne apprezzare tutte le sfumature. Dal momento che molti autori europei si sono fatti influenzare da letture esterne, prima tra tutte le letterature orientali, diventa importante conoscerle per sviluppare una 70 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 59, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 481. Maturità di mente e di costumi, maturità di lingua e perfezione dello stile comune. 71 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 61, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 483. Non ci può essere piena coscienza della storia, se non esiste qualche altra storia oltre quella del popolo a cui il poeta appartiene: ne abbiamo bisogno per renderci conto del posto che ci spetta. Bisogna conoscere la storia di almeno un altro popolo di elevata civiltà, e di civiltà abbastanza affine da aver influenzato e penetrato la nostra. 246 5.4. Eliot: che cosa è un classico? critica adeguata; col passare del tempo questa necessità diventa sempre più manifesta tanto che «in the world of future it looks as if every part of the world would affect every other part72 ». Tra questi autori europei si colloca lo stesso Eliot che, nella prima appendice sull’unità della cultura europea al già citato saggio Notes Toward the Definition of Culture ricorda l’influenza sulla sua opera della filosofia e anche della poesia indiana. What of the influences from outside Europe, of the great literature of Asia? [...] Long ago I studied the ancient Indian languages, and while I was chiefly interested as thet time in Philosophy, I read a little poetry too; and I know that my own poetry shows the influences of Indian thought and sensibility 73 . Eliot porta se stesso ad esempio ma poi aggiunge altri nomi noti per sottolineare come la cultura e la letteratura europea, per quanto già raggruppino elementi anche diversi tra loro, non sono comunque un cosmo totalmente disgiunto e indipendente da tutto il resto che si agita accanto o anche lontano da esso. That there has been some influence of poetry of the East in the last century and a half is undeniable: to instance only English poetry, and in our own time, the poetical translation from the Chinese made by Ezra Pound, and those by Arthur Waley, have probably been read by every poet writing in English. It is obvious that through individual interpreters, specially gifted for appreciating a remote culture, every literature may influence every other; and I emphasises this. For when I speak of the unity of european cul72 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 121, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 637. Pare che nel mondo avvenire tutte le parti del mondo si influenzeranno tra loro. 73 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 113, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, pp. 629-630. Che dire delle influenze esterne all’Europa, delle grandi letterature dell’Asia? [...] Molto tempo fa studiai le antiche lingue indiane, ed in quel tempo, mentre mi interessavo particolarmente della filosofia, leggevo anche un poco di poesia; e so che la mia stessa poesia rivela l’influenza del pensiero e della sensibilità indiane. 247 5. L’età contemporanea ture, I do not want to give the impression that I regard European culture as something cut off from every other 74 . Il fulcro del discorso resta quindi nella permeabilità di una cultura, sia verso le culture vicine, sia verso le culture lontane; la distanza diatopica non deve restare un confine invalicabile e allo stesso modo deve essere trattata anche la distanza diacronica. The frontiers of culture are not, and should not be, closed. But history makes a difference. Those country which share the most history, are the most important to each other, with respect to their future literature. We have our common classics, of Greece and Rome, we have a common classic even in our several translations of the Bible 75 . Poter accedere ad una letteratura vicina alla nostra per vicinanza o filiazione di cultura resta comunque l’opzione più densa di opportunità di crescita e di compimento. Questa infatti è l’opportunità che è stata concessa al mondo romano, e a Virgilio, grazie alla conoscenza di una civiltà affine ma diversa come il mondo greco e che quest’ultimo invece non ebbe, per forza di cose, e non poté, quindi, far nascere un Classico sufficientemente consapevole e maturo. La decisione di attingere nella valutazione dei modelli anche, e maggiormente, da una letteratura altra rispetto a quella di appartenenza è segno di più elevata maturità, ed 74 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, pp. 113114, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 630. Che nell’ultimo secolo e mezzo vi sia stata una certa influenza della poesia orientale è cosa innegabile: per fare unicamente l’esempio della poesia inglese e contemporanea, le traduzioni poetiche dal cinese di Ezra Pound, e quelle di Arthur Waley, sono state lette probabilmente da ogni poeta che scriva in inglese. È ovvio che attraverso interpreti individuali, particolamente dotati per apprezzare una cultura remota, ogni letteratura può influenzarne un’altra, ed è cosa su cui voglio insistere. Poiché, quando parlo dell’unità della cultura europea, non voglio dare l’impressione che io la consideri come qualcosa di disgiunto da ogni altra cultura. 75 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 114, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 630. Le frontiere della cultura non sono e non dovrebbero essere chiuse. Ma la storia fa una differenza. Quei paesi che sono partecipi della più gran parte di storia, hanno, per quel che riguarda la letteratura futura, la maggior importanza reciproca. Noi abbiamo i nostri classici comuni di Grecia e di Roma; abbiamo un classico comune anche nelle nostre diverse traduzioni della Bibbia. 248 5.4. Eliot: che cosa è un classico? ha concesso proprio a Virgilio di diventare un Classico. Virgilio conosceva più di quanto conoscessero i greci, noi d’altra parte conosciamo più di loro, «and they are that which we know76 ». Le considerazioni fatte su Virgilio portano poi il discorso sull’Eneide e sull’episodio di Didone considerato come altissimo episodio di coscienza civile, la maturità del linguaggio e dello stile invece non viene esemplificato dal momento che il luogo dell’incontro per cui fu tenuto il discorso di cui parliamo è significativamente prova della competenza in merito degli uditori. Resta comunque da indagare se, per una letteratura, sia effettivamente un fatto positivo generare un Classico dal momento che questo sembra esaurire le risorse cui attinge e quindi lasciare quasi terra bruciata dietro di sé, come mostra lo stesso esempio di Virgilio. Un Classico nella sua completezza arriva a completare anche la letteratura che lo ha prodotto in questo la conclude. Quello che possediamo come appartenenti ad una letteratura è duplice: A pride in what our literature has already accomplished, and a belief in what it may stil accomplish in the future. if we cease to believe in the future, the past would cease to be fully our past: iy wolud become the past of a dead civilization77 . Se torniamo ancora una volta al saggio Appunti per una definizione della cultura troveremo nuovamente un approfondimento sull’argomento. Eliot infatti pone nuovamente il punto sulla necessità per una letteratura di non possedere solo Classici, proprio perché questi si generino. In poetry at least, no one country ca be consistently highly creative for an indefinite period. Each country must have its secondary epochs, when no remarkable new development takes place: and so the centre of activity will shift to and fro between one 76 T.S. Eliot, Selected Essays, Faber & Faber, London 1934, p. 16, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 396. Ed essi sono appunto ciò che noi sappiamo. 77 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 65, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 488. L’orgoglio di ciò che la nostra letteratura ha già compiuto, e la fede in ciò che saprà ancora compiere. Se cessassimo di credere nell’avvenire, il passato non sarebbe più pienamente il nostro passato: diverrebbe il passato di una civiltà morta. 249 5. L’età contemporanea country and another. And in poetry there is no such thing as complete originality, owing nothing to the past. Whenever a Virgil, a Dante, a Shakespeare, a Goethe is born, the whole future of European poetry ia alterated. Whena great poet has lived, certain things have been done one for all, and cannot be achieved again; but, on thr other hand, every great poet adds something to the complex material out of which future poetry will be written 78 . Non viene quindi alterato solo il futuro della letteratura nazionale che genera una grande opera; dal momento che le culture e le letterature europee sono strettamente legate, viene cambiato il futuro di quel macroinsieme che è la letteratura europea. Negare questo legame non può comunque inficiare le conseguenze che esso ha già generato nella storia della cultura e della letteratura europea e che ancora può generare. I have been leading up to another important truth about poetry in Europe. This is, that no one nation, no one language, would have achieved what it has, if the same art had not been cultivated in neighbouring countries and in diffrent languages. We cannot understand any one European literature without knowing a god deal about the others. When we examine the history of poetry in Europe, we find a tissue of influences woven to and fro. [...] Now, the possibility of each literature renewing itself, proceeding to the new creative activity, making new discoveries in the use of words, depends on two thinghs. first, its ability to receive and assimilate 78 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 114, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, pp. 630-631. In poesia, almeno, non v’è paese che possa essere altamente creativo per un periodo illimitato. Ogni paese deve avere le sue epoche secondarie, nelle quali non si ha alcun svolgimento notevole: e così il centro dell’attività si sposterà da un paese all’altro. Ed in poesia non v’è originalità completa, che nulla debba al passato. Ogni qualvolta nasca un Virgilio, un Dante, uno Shakespeare, un Goethe, l’intero futuro della poesia europea viene alterato. Quando è vissuto un grande poeta, certe cose sono fatte una volta per tutte, né possono essere compiute di nuovo; ma, d’altro canto, ogni grande poeta aggiunge qualcosa al materiale complesso da cui si trarrà la poesia futura. 250 5.4. Eliot: che cosa è un classico? influences from abroad. second, its ability to go back and learn from its own sources 79 . Eliot a questo punto specifica quali siano le fonti delle letterature nazionali; non intende infatti mettere in subordine le fonti diverse e peculiari delle diverse letterature europee. A questo proposito ricorda come esempio la varietà degli elementi di cui è costituita la lingua e la letteratura inglese: il fondamento germanico, l’apporto scandinavo, l’elemento franco-normanno, le influenze francesi, i neologismi latini e infine anche l’elemento celtico. Vedremo poco più avanti, in questo stesso capitolo, come questa stessa varietà di elementi porti a suo parere la lingua inglese, in confronto per esempio con le lingue neolatine, ad allontanarsi dalla possibilità di generare un Classico. Tra le fonti di una lingua non ci sono solo quelle sue peculiari ma ci sono, e sembrano più dense di conseguenze, anche le fonti comuni a tutte le letterature europee. Lo scopo di Eliot è qui di ricordare come le fonti comuni siano anche il tramite per cui le diverse letterature nazionali possono trovare il legame che le unisce, mantenere buoni rapporti culturali e quindi crescere insieme. Every literature must have some sources which are peculiarly its own, deep in its own history; but, also, and at least equally important, are the sources which we share in common: that is, the literature of Rome, of Greece and of Israel 80 . La letteratura europea deve quindi il suo esistere a numerose componenti: i classici comuni Greci, Latini e Biblici, le produttive relazioni con le letterature 79 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, pp. 112113, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 629. Sono così giunto ad una importante verità riguardo alla poesia europea, e cioè che nessuna nazione e nessuna lingua avrebbe compiuto ciò che ha compiuto se la medesima arte non fosse stata coltivata in paesi vicini, in lingue diverse. Né possiamo comprendere alcuna letteratura europea senza conoscere ampiamente le altre. Quando esaminiamo la storia della poesia in Europa scopriamo l’intessersi di una tela di influenze. [...] Ora la possibilità che ciascuna letteratura si rinnovi, e proceda a nuova attività creatrice, e compia nuove scoperte nell’uso della parole, dipende da due cose: in primo luogo, dalla sua capacità di ricevere ed assimilare influenze dall’esterno, e in secondo luogo, dalla sua capacità di ritornare ad apprendere dalle sue stesse fonti. 80 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 113, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 629. Ogni letteratura deve avere fonti che le sono peculiari, radicate nella sua stessa storia; ma che di non minore importanza sono le fonti che abbiamo in comune: cioè la letteratura di Roma, della Grecia e di Israele. 251 5. L’età contemporanea europee altre e infine le - per lo più future - relazioni con le letterature remote. La stessa esistenza di una letteratura europea rende infine necessario rendere conto del centro propulsivo di questo fenomeno che è per Eliot mutevole. Possiamo dire che il regno della letteratura europea vanta una corte itinerante che nel corso dei secoli si è spostata attraverso tutta l’Europa. Eliot stesso fa un esempio di questo spostamento che lo coinvolge in prima persona. For instance, in the final years of the eighteenth century and the first quarter of the nineteenth, the Romantic movement in English poetry certainly dominated. But in the second half of the nineteenth century the greatest contribution to European poetry was certainly made in France. I refer to the tradition which starts with Baudelaire, and culminates in Paul Valéry. I venture to say thet without this French tradition the work of three poets in other languages - and three very different from each other - I refer to W. B. Yeats, to Rainer Maria Rilke, and, if I may, to myself - would hardly be conceivable. And, so complicated are these literary influences, we must remember that this French movement itself owed a good deal to an American of Irish extraction: Edgar Allan Poe. And, even when one country and language leads all others, we must not assume that the poets to whom this is due are necessarily the greatest poets 81 . Eliot sta sempre attento a far sì che le sue parole non vengano fraintese e continua quindi a tenersi lontano da qualsiasi definizione che possa sottendere un giudizio di valore. 81 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 112, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 628. Per esempio, gli ultimi anni del secolo XVIII ed il primo quarto del XIX, furono certamente dominati dal movimento romantico della poesia inglese. Ma nella seconda metà del secolo XIX il massimo contributo alla poesia europea fu senza dubbio apportato dalla Francia. Mi riferisco alla tradizione che comincia con Baudelaire e culmina con Paul Valéry. Oso dire che senza questa tradizione francese, l’opera di tre poeti in lingue diverse - e assai diversi l’uno dall’altro - mi riferisco a W.B. Yeats, a Rainer Maria Rilke e, se mi è lecito, a me stesso - sarebbe difficilmente immaginabile. E tanto complicate sono queste influenze letterarie, che questo stesso movimento francese dovette assai ad un americano di origine irlandese: Edgar Allan Poe. E quando un paese ed un linguaggio fanno da guida agli altri, non dobbiamo pretendere che i poeti ai quali ciò è dovuto siano necessariemente i maggiori. 252 5.4. Eliot: che cosa è un classico? Torniamo al primo saggio che abbiamo citato, What is a Classic?, Eliot conclude brevemente l’argomento, come abbiamo già accennato, indicando nel genere stesso delle lingua la possibilità di generare un Classico. Le lingue neolatine, tra loro più omogenee, risultano maggiormente portate allo stile comune e quindi sono, per così dire, geneticamente avvantaggiate nel generare un autore classico. La lingua inglese invece parte svantaggiata dal momento che sembra maggiormente portata alla varietà, in quanto lingua mista per i suoi stessi elementi costitutivi; questo del resto, come già detto, non è necessariamente un motivo di scoraggiamento. A questo punto l’indagine di Eliot si allarga e pone la distinzione, che sembra riecheggiare quella tra beau relatif e beau universelle che già fu della Querelle, tra Classico relativo e Classico assoluto, tra letteratura classica in rapporto alla sola propria lingua e quella che lo è in relazione a numerose altre. L’analisi parte della rilevazione di un’altra caratteristica del Classico, la comprensività che è definita dalla capacità di questo di contenere interamente, in modo consapevole o almeno latente, tutto l’essere di un popolo; in questo modo si ritrova in grado di muovere tutto il popolo cui appartiene senza alcuna divisione di gruppo, che sia sociale, politico o altro. Quando questa comprensività si allarga ad abbracciare altre culture che anche parlino altre lingua questa comprensività, che supera anche i gruppi nazionali, diventa a buon titolo universalità. Proprio questa caratteristica più di ogni altra consegna definitivamente lo scettro di Classico solo a Virgilio e assolutamente a nessun altro in nessuna altra lingua moderna. La stessa natura della lingua latina, lingua dell’impero romano, lingua universale della scienza e radice delle lingue moderne la porta ad essere la lingua del fato, così come proprio Enea, protagonista ed eroe dell’opera virgiliana, era uomo del fato. Il fato che l’ha resa, a parere di Eliot, in grado di generare l’unico autore classico, metro per la valutazione di tutti e di ogni opera successiva e precedente che ambisca al grado di arte. Il metro di paragone che fornisce è il dono maggiore che ha fatto alla cultura occidentale; come metro di paragone costituisce una guida e così lo ricorda in conclusione Eliot, come guida di Dante e attraverso il suo stesso commiato, proprio le ultime parole che questi gli fa pronunciare. 253 5. L’età contemporanea Il temporal foco e l’eterno veduto hai, figlio, e se venuto in parte dov’io per me più oltre non discerno82 . Durante tutto il saggio Eliot porta numerosi esempi di maturità prima e di comprensività e universalità poi, spesso mettendo in relazione più autori; potrebbe essere interessante prendere in analisi la frequenza con cui appaiono. A un certo punto però presenta coloro che più di ogni altro si sono avvicinati alla meta e sono, per la poesia, Dante, Racine, in misura minore Chaucer e poi Pope; per il dramma poetico Shakespeare e Racine; per il poema epico Milton; e ancora Goethe comprensivo ma non universale83 . Aveva citato allo stesso modo in un altro saggio, come abbiamo già visto, Virgilio, Dante, Shakespeare e Goethe. Il punto fondamentale, a parer suo, è che ogni grande poeta esaurisce il campo che coltiva, da questo punto ripartiremo, secondo due diversi punti di vista, nei capitoli 6.7 e 6.8. Abbiamo fin qui preso in analisi diversi saggi di Eliot; siamo partiti da What is a classic? per poi approfondire il discorso attraverso l’analisi contemporanea di Tradition and the Individual Talent; The music of Poetry; Notes Towards the Definition of Culture con le tre appendici sull’unità della cultura europea e infine The classics and the Man of Letters. Prima di chiudere il nostro discorso su Eliot vorrei soffermarmi brevemente su altri due suoi saggi: What Dante means to me del 1950 e Vergil and the Christian World del 1951. Il primo aspetto che mi porta a voler prendere in analisi questi due testi brevemente è spiegato da Eliot proprio all’inizio del primo dei due dove ci ricorda che «the first impulse to write about a great poet is one of gratitude84 ». Cosa significa Dante per me, come si desume facilmente dal titolo, non è il saggio del critico Eliot, bensì il discorso di Eliot poeta e, in quanto tale, è per noi, come abbiamo visto in riferimento alla componente della tradizione, ancora 82 Purgatorio XXVII, 127-129 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, pp. 63-67, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, pp. 486-491. 84 T.S. Eliot, To Criticize the Critic and other writings, Faber & Faber, London 1965, p. 127, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 949. Il primo impulso a scrivere di un grande poeta è l’impulso di gratitudine. 83 254 5.4. Eliot: che cosa è un classico? più interessante. Nel corso di tutta questa seconda parte, di intento storico, spero sia emerso sufficientemente non il legame dei Classici con il pubblico dei lettori bensì il legame di tradizione che lega i Classici del passato ai Classici, potremmo dire del futuro o ancora da essere. Eliot spiega che nel corso della sua attività ha contratto numerosi debiti con gli scrittori del passato. Alcuni debiti sono parziali come quelli registrati con i primi autori, spesso minori, che gli spalancarono le porte della letteratura; altri sono inconsci; altri ancora consapevoli; infine ci sono quegli autori a cui ci si accosta lentamente, in una sorta di progressione verso la maturazione. Sono questi autori, e il debito verso di loro, a interessare maggiormente la nostra ricerca. One test of the great masters, of whom Shakespeare is one, is that the appreciation of their poetry ias a lifetime’s task, because at every stage of maturing - and that should be one’s whole life - you are able to understand them better. Among these are Shakespeare, Dante, Homer and Virgil85 . Shakespeare, Dante, Omero e Virgilio dunque sono i Classici di Eliot, non necessariamente per Eliot, che abbiamo visto riconosce solo Virgilio come Classico universale della letteratura occidentale. Una piccola nota: sebbene ci suggerisca che ce ne sono anche degli altri, dato che non asserisce che “questi sono” e dice invece “tra questi”, resta il fatto che ha consapevolmente deciso di citare “solo questi”. Eliot continua poi a parlare del suo debito verso Dante, in riferimento ai prestiti, agli adattamenti e soprattutto alle idee dal momento che «the important debt does not occur in relation to the number of places in one’s writings to which a critic can point a finger, and say, here and there he wrote somethingh which he could not have written unless he had had Dante in mind86 ». 85 T.S. Eliot, To Criticize the Critic and other writings, Faber & Faber, London 1965, p. 127, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 950. Uno dei criteri di valutazione dei grandi maestri, dei quali Shakespeare fa parte, è che l’apprezzamento della loro poesia è lavoro di tutta una vita, perché a ciascun livello di maturazione - e questo dovrebbe avvenire lungo il corso dell’intera vita di ciascuno - si impara a capirli meglio. Tra questi ci sono Shakespeare, Dante, Omero e Virgilio. 86 T.S. Eliot, To Criticize the Critic and other writings, Faber & Faber, London 1965, p. 132, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 955. Negli scritti di qualcuno, 255 5. L’età contemporanea Il debito maggiore verso Dante sta nel fatto che è un autore da cui si continua a imparare e a questo proposito sottolinea tre punti. The first is, that of the very few poets of similar stature there is none, not even Virgil, who has been a more attentive student of the art of poetry, or a more scrupolous, painstalking and conscious practitioner of the craft. [...] The second lesson of Dante - and it is one which no poet, in any language known to be, can teach - is the lesson of width of emotional range. [...] What I have been saying just now is not irrilevant to the fact for me it appears an incontestable fact - that Dante is , beyond all others poets of our continent, the most European87 . Notiamo come, sebbene per Eliot critico l’unico Classico universale sia rappresentato da Virgilio, Dante lo supera per tutte e tre le caratteristiche riportate. Passiamo dunque di nuovo a Virgilio e all’ultimo saggio di Eliot che prenderemo qui in considerazione. Il merito di Virgilio è stato quello di essere scelto dalla cristianità tra tutti gli autori Greci e Latini. Al di là del motivo aneddotico della quarta Egloga, pur così importante, c’è una fortissima vicinanza di cultura tra il mondo latino che Virgilio incarna e il mondo cristiano medievale. Virgilio più di Omero, senz’altro, ma anche il mondo latino su quello greco; sebbene Eliot si tenga, come sempre e fin dalle prime battute, sempre lontano dal creare una sorta di scala di importanza. Il saggio inizia con queste parole: il debito importante non si trova in relazione al numero di punti che un critico può individuare dicendo “qui e là costui ha scritto qualcosa che non avrebbe potuto scrivere se non avesse avuto in mente Dante”. 87 T.S. Eliot, To Criticize the Critic and other writings, Faber & Faber, London 1965, pp. 132134, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, pp. 955-957. Il primo è che tra i pochissimi poeti di una simile statura non ce n’è nessuno, nemmeno Virgilio, che sia stato un più attento studioso dell’arte della poesia o un più scrupoloso, accurato e consapevole professionista del mestiere. [...] La seconda lezione di Dante - ed è tale che nessun poeta, in nessuna lingua che io conosca, può insegnare - è quella dell’ampiezza della sfera emotiva. [...] Ciò che ho detto finora non è irrilevante in relazione al fatto - dal momento che per me appare come un fatto incontestabile - che Dante è, rispetto a tutti gli altri poeti del nostro continente, di gran lungo il più europeo. 256 5.4. Eliot: che cosa è un classico? The esteem in which Virgil has been held throughout Christian hostory may easily be made to appear, in a historical account of it, largely due to accidents, irrelevances, misunderstandings and superstitions. Such an account can tell you why Virgil’s poems were prized so highly; but it may not give you any reason to infer that he deserved so high a place; still less might it persuade you that his work has any value for the world to-day or to-morrow or forever. What interest me here are those characteristics of virgil which render him peculiarly sympathetic to the Christian mind. to assert this is not to accord him any exaggerated value as a poet, or even as a moralist, above that of all other poets Greek or Roman 88 . Sebbene insista su questo non voler elevare Virgilio più di tutta la letteratura antica definisce il valore della sua opera universale sia in riferimento ad oggi che ad un qualsiasi futuro. Dell’opinione che ebbe Eliot su Virgilio abbiamo però già detto in riferimento a What is a Classic?; questo ultimo saggio risulta molto più interessante, per i nostri propositi, nelle sue ultime battute, quando viene nuovamente portato in campo Dante. L’analisi viene infatti portata avanti su basi lessicografiche; Eliot fa il punto sulle parole fondamentali presenti in Virgilio che sottendono dei valori che saranno centrali per il mondo medievale: labor, pietas e, come abbiamo visto anche in What is a Classic?, fatum. A Virgilio però mancarono lume e amor che furono invece parte del meraviglioso bagaglio di Dante e che sono centrali nella cultura europea medievale e successiva. Qui, infatti, Eliot pone di nuovo Dante sopra Virgilio, seppur nuovamente si impegni a negare un giudizio di valore assoluto alla questione, Dante è arrivato oltre e ha lasciato Virgilio dietro di sé. 88 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 121, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 981. Il favore che Virgilio ha sempre goduto presso la Cristianità, ne esaminassimo la superficie storica, potremmo facilmente farlo risalire in gran parte al caso, a circostanze non pertinenti, a malintesi e superstizioni. Da un tale esame ricaveremmo il perché di tanta stima ma nulla da cui si possa concludere che Virgilio la meritò; ancor meno se ne potrebbe inferire che la sua opera ha per noi un valore universale e che sempre lo conserverà. Io, invece, mi propongo di mettere in luce quelle qualità che resero Virgilio particolarmente congeniale alla mentalità cristiana; senza, peraltro, volerlo porre, né come poeta né come moralista, al di sopra di tutti gli altri autori greci e romani. 257 5. L’età contemporanea Virgil was, among all authors of classical antiquity, one for whom the world made sense, for whom it had order and dignity, and for whom, as for no one before his time except the Hebrew prophets, history had meaning. But he was denied the vision of the man who could say: ’Within its dephs I saw ingathered, bound by love in one volume, the scattered leaves of all the universe.’ Legato con amor in un volume89 . 89 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 131, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, pp. 993-994. Fra tutti i classici antichi, Virgilio si distingue per la sua concezione del mondo e della storia: il mondo ha per lui un senso, ha ordine e dignità; e la storia ha un significato, ciò che nessuno credette prima di lui, fuorché i profeti d’Israele. Ma a lui era negata la visione che permise ad altri di cantare: Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaterna 258 Parte III LO STATO DEI LAVORI 259 Capitolo 6 Ipotesi teoriche per una definizione La verità è infinita, ma l’intelligenza umana è finita. Perseguire l’infinito con ciò che è finito è un’occupazione pericolosa. Chuang Tzu, Il sacro libro di Nan Hua. Abbiamo scorso fin qui storicamente l’idea di Classico, notiamo brevemente che le indagini più sistematiche sull’argomento sono nate presto: insieme alla storia e alla filosofia dobbiamo tutto al mondo greco. Con il tempo, poi, la ricerca si è fatta discontinua e poco organica, solo in tempi relativamente recenti alcuni pensatori si sono posti di nuovo con chiarezza la domanda su cosa sia un Classico. Sono questi i motivi che ci porteranno a ripescare fin dall’antico alcune considerazioni utili alla nostra tesi e altresì a considerare il mondo greco, e poi la contemporaneità, come luoghi d’elezione per le prove che vorremo qui portare. Dal novero di secoli, millenni di pensiero occidentale sulla questione, emergono alcune voci, tante voci, che paiono essere più in accordo di quanto possano esse stesse supporre; la chiarezza che solo il tempo e la distanza possono conferire speriamo ci possa permettere adesso di riproporre una tesi unitaria sull’argomento. 261 6. Ipotesi teoriche per una definizione Come prima cosa sarà bene esplicitare le premesse e determinarne l’ambito. La tesi che si intende dimostrare è il risultato di una catena di quattro anelli: primo: ogni civiltà determina la propria cultura; secondo: la civiltà occidentale è unitaria e quindi ha una cultura unitaria; terzo: ogni cultura ha una propria idea di bello, di buono, di vero, di uno; quarto: il termine “classico” indica comunque un vertice, un giudizio di valore strettamente positivo. Partiamo dunque dal rapporto che regola civiltà e cultura. In un testo edito nel 1948 e di cui abbiamo già detto, Appunti per una definizione della cultura1 , T.S. Eliot affronta la questione, seppur marginalmente; infatti per lui si tratta di un rapporto di totale identificazione tanto da non richiedere ulteriori precisazioni I have made no attempt in this essays to determine the frontier between the meanings of these two world: for I came to the conclusion that any such attempt could only produce an artificial distinction 2 . Piuttosto Eliot si sofferma a definire cosa la cultura, e quindi anche la civiltà, indichi e rappresenti; subito indica il rapporto fondamentale che la lega alla religione e quindi passa alle tre condizioni che definisce importanti perché si sviluppi una cultura: struttura organica, suddivisione regionale, equilibrio tra le parti e il tutto. Queste condizioni sono tanto importanti che «you are unlikely to have a high civilization where these conditions are absent3 »; l’alta civiltà cui accenna è la civiltà matura che genera tra le altre cose anche una letteratura. 1 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, pp. 519-641. 2 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 15, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 521. In questo saggio non ho fatto alcun tentativo per determinare la frontiera che separa i significati delle due parole: poiché son giunto alla conclusione che qualsiasi tentativo del genere non potrebbe che portare ad una distinzione artificiale. 3 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948. p. 16, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 525. è improbabile si abbia un’alta civiltà, ove manchino tali condizioni 262 The first of these is organic (not merely planned, but growing) structure, such as will foster the hereditary transimission of culture within classes. The second is the necessity that a culture should be analysable, geographically, into local cultures: this raise the problem of ’regionalism’. The third is the balance of unity and diversity in religion - that is, universally of docrtine with particularity of cult and devotion 4 . La prima condizione è assolta da tutte le civiltà storiche, manca invece solo in alcuni gruppi umani molto piccoli sopravvissuti isolati in aree remote del pianeta; per questo non approfondiremo l’argomento. La seconda condizione e quindi anche la terza sono invece più interessanti per il nostro discorso e ci riportano al secondo anello della nostra catena: la civiltà occidentale è unitaria e quindi ha una cultura unitaria. Questa unitarietà non è sempre stata da sempre e universalmente accettata; la stessa opportunità di compiere studi di filologia romanza è stata da più parti contestata, tanto da richiedere continue giustificazioni. Di fronte alle altre più speciali, e in mezzo a loro, essa conserva una propria giustificazione nella coscienza che il suo oggetto è una tradizione di civiltà comune, variamente articolata, certo, ma unitaria nelle sue origini e nel suo significato. La coscienza che questa unità non è solo il risultato di una ricostruzione comparativa (del tipo dominante nel secolo scorso, quando nel nostro ordinamento universitario la cattedra di filologia romanza si chiamava ufficialmente «Storia comparata delle lingue e delle letterature neolati4 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948. p. 15, T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 524. La prima di esse è che vi sia una struttura organica (non semplicemente pianificata, ma capace di sviluppo), tale da tutelare la trasmissione ereditaria della cultura all’interno di una cultura: e ciò richiede la conservazione delle classi sociali. La seconda è che una cultura sia analizzabile geograficamente in culture locali: e questo solleva il problema del “regionalismo”. La terza è l’equilibrio fra unitarietà e differenziazione nella religione-universalità, cioè, nella dottrina e particolarità nel culto e nella pratica religiosa. 263 6. Ipotesi teoriche per una definizione ne»), la coscienza che essa rappresenta una concreta realtà storica, s’è anzi venendo accentuando negli ultimi tempi5 . L’opportunità e la stessa necessità di una disciplina che si occupi di Letteratura Europea è sempre più sottolineata da ottimi studi sull’argomento che con la loro stessa riuscita convalidano il campo di studi cui afferiscono. Si pensi ad esempio ai lavori di Werner Milch6 , Ernst Robert Curtius7 o Erich Auerbach8 ; o in tempi più recenti ad Harold Bloom9 . Abbiamo già visto, prendendo in analisi il periodo medievale, come la cultura europea, nonostante il regionalismo imposto dal differenziarsi delle lingue sul suo territorio, sia unitaria; e lo sia proprio grazie al collante religioso che per secoli unì l’Europa sotto l’egida del cristianesimo e del papato. Lo scisma d’Occidente avviato da Lutero dal 1517 non è stato che un momento di crisi che ha portato comunque al citato «equilibrio fra unitarietà e differenziazione nella religione-universalità, cioè, nella dottrina e particolarità nel culto e nella pratica religiosa». Bisogna inoltre ricordare che per la Repubblica delle Lettere la distanza linguistica non fu mai un ostacolo insormontabile, già prima che venisse così definita dall’illuminismo. Fin da quando si iniziò ad abbandonare progressivamente il latino in favore delle lingue romanze e si determinò una iniziale distanza linguistica, gli uomini europei continuarono a intessere rapporti culturali attraverso tutto il territorio europeo. La differenza linguistica determinò solo il moltiplicarsi delle occasioni e consegnò via via all’Europa un bagaglio incredibilmente più ricco. Abbiamo già visto come Eliot ritenga che una letteratura matura abbia sempre una storia dietro di sé con cui potersi confrontare; la particolare condizione linguistica europea ha fatto sì che ciascuna 5 Saggio introduttivo di Aurelio Roncaglia a Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000, I p. XV 6 Werner Milch, Europäische Literaturgeschichte: ein Arbeitsprogramm, Wiesbaden 1949. 7 Ernst Robert Curtius, Europäische Literatur und Lateinisches Mittelalter, Bern 1948, edizione italiana: Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006. 8 Erich Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, A. Franke, Bern 1956, edizione italiana: Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000. 9 Harold Bloom, The western canon. The books of the ages, Harcourt Brace & Co., New York 1994, edizione italiana: Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994. 264 letteratura nazionale abbia avuto oltre che una storia dietro di se, soprattutto quella latina e greca, anche molte storie accanto. Così circondate di storia le letterature europee hanno potuto dare e ricevere vicendevolmente molto in termini di idee, forme e influenze e nel contempo hanno mantenuto in equilibrio quel rapporto di particolare-generale da cui siamo partiti. Alla fine troveremo che il Classico è quel testo, non autore in toto, che rappresenta e presenta il vertice culturale di una civiltà nei termini di bello, buono, vero e uno dove quest’ultimo rappresenta non solo l’unicità del vertice (un solo Classico è possibile) bensì anche l’unitarietà del testo, presupposto, per la civiltà occidentale, sia dal bello che dal buono che dal vero. L’unicità del Classico viene inficiata dalla forma, una categoria di fondamentale importanza fin dalle origini. Come abbiamo già accennato dal momento che la cultura occidentale è una e che le lingue che parla sono molte, molte sono le vette che la letteratura ha potuto raggiungere. Se la torre di Babele ha causato incomprensioni e scontri e guerre, ha anche concesso la moltiplicazione delle opportunità di scrivere e godere del vertice della bellezza, bontà, verità. D’altra parte la moltiplicazione delle lingue è anche sintomo e segno della moltiplicazione degli apparati statali unitari, l’emergere del concetto europeo di nazione ha spinto la letteratura a diventare anch’essa nazionale e in obbedienza a questo riconosciuto valore la vetta letteraria è stata assegnata a opere o ad autori che più degli altri potevano concorrere alla formazione del cittadino nuovo e nazionale10 . Questo cambia solo la definizione di cosa è buono in letteratura e non cambia l’importanza data alla categoria stessa della bontà; se in un fase storica di una civiltà il buono coincide ad esempio con l’utile, quest’ultimo non inficia comunque la categoria del buono. Se «in senso stretto la letteratura (il confine tra il letterario e il non letterario) varia notevolmente a seconda delle epoche e delle culture11 » non allo stesso modo variano le categorie di valore che si applicano all’opera letteraria e umana in generale. Il termine letteratura ha dunque un’estensione più o meno va10 Si pensi a questo proposito al caso nazionale Italia quando, all’alba della sua unità, si pose la necessità, fatta l’Italia di fare gli italiani. 11 Antoine Compagnon, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Einaudi, Torino 2000, p. 26. 265 6. Ipotesi teoriche per una definizione sta a seconda degli autori, dai classici della scuola al fumetto e la sua estensione odierna è difficile da giustificare. Il criterio di valore che vi include un dato testo, ovvero ne esclude un altro, non è in sé letterario, e neanche teorico, ma etico, sociale e ideologico, in ogni caso extraletterario12 . A tutto questo bisognerà infine aggiungere che esistono due grandi categorie di Classico, il Classico di fondazione, su tutti Omero, e il Classico di consolidamento, per cui resta in essere tutta l’argomentazione di Eliot su Virgilio oltre che il saggio sulla definizione di cultura che, insieme alle tre conversazioni allegate chiarisce quando una cultura può fiorire. Di più ancora, al di là dei significati storici, il vero Classico compartecipa di tutte le possibili definizioni che con Tatarkiewicz abbiamo posto all’inizio di questo lavoro. A questo punto non ci resta che prendere in analisi successivamente queste quattro caratteristiche: bello, buono, uno, vero. 6.1 Bello. L’estetica del Classico Tutte le ereditiere sono belle. John Dryden, Re Artù. Si tratta ora di analizzare cosa vuol dire per un testo, che sia portato a paradigma del Classico, essere bello. Sebbene la civiltà occidentale, nelle sue diverse fasi storiche, abbia attraversato declinazioni diverse della categoria del bello, da sempre la riconosciuta bellezza è stato la prima delle condizioni per determinare il valore di un’opera. Questo è avvenuto per la letteratura così come per tutte le attività umane riconosciute come artistiche. Detto questo resta comunque molto difficile definire il bello senza scivolare dentro il campo di indagine di altre categorie che possono dirsi letterarie ma non propriamente estetiche. Definire il bello diversamente sembra essere un’operazione 12 Antoine Compagnon, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Einaudi, Torino 2000, p. 29. 266 6.1. Bello. L’estetica del Classico che molto facilmente può incorrere nelle rimostranze di detrattori della nostra, necessariamente sempre personale, idea estetica. Dal punto di vista pragmatico, il valore estetico può essere riconosciuto o esperito, ma non può essere veicolato a chi sia incapace di coglierne le sensazioni e le percezioni. Litigare a suo pro è sempre un errore13 . L’unica via possibile che sembra restare è quella di trasformare la propria ricerca di una definizione del bello nell’analisi storica di quanto è stato, in passato, considerato tale. Questo processo di analisi è stato portato avanti durante tutto l’arco di esistenza della cultura occidentale e per secoli è stato l’unico elemento di giudizio dell’arte letteraria tanto da definirne i più alti esponenti. Il concetto stesso di bellezza, tra tutti i campi che ne partecipano, è stato analizzato in modo più completo dagli studiosi di storia dell’arte e, quando questa emerse chiaramente dagli studi filosofici, dagli studiosi di estetica. Il testo forse più interessante a cui è possibile fare riferimento resta la Storia di sei idee di Tatarkiewicz14 , dalla cui analisi di “classico” siamo partiti all’inizio della nostra indagine. Arte, Bello, Forma, Creatività, Imitazione ed Esperienza Estetica esauriscono, attraverso la storia delle idee e dei concetti, attraverso la ricezione, il rifiuto e il ribaltamento di queste, tutto quanto si potesse dire sull’argomento. Quanto è stato detto riguarda quasi tutto l’arco temporale della civiltà occidentale ma anche la novità contemporanea dell’«arte per l’arte», che sembra negarla, non può prescindere dalla categoria della bellezza Non può esserci poesia in sé per sé, e tuttavia qualcosa di irriducibile abita nell’estetico. Il valore che non può essere assolutamente ridotto si autocostituisce tramite il processo dell’influenza interartistica, un’influenza che contiene componenti psicologiche, spirituali e sociali, ma il cui componente principe è l’estetico15 . 13 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 15. 14 15 Wladislaw Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 2006. Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 21. 267 6. Ipotesi teoriche per una definizione Questo principio di bellezza che appartiene alla poeticità è, sempre secondo Bloom, anche alla base della definizione dell’eccellenza; si tratta di una bellezza al massimo grado che include in sé numerose caratteristiche, alcune delle quali tratteremo singolarmente nei prossimi paragrafi. Uno dentro il canone irrompe solo per forza estetica, la quale consiste primariamente di un amalgama: padronanza del linguaggio figurativo, originalità, capacità cognitiva, sapere, esuberanza espressiva16 . Oltre a tutto questo dobbiamo riconoscere che fin dal mondo greco il bello passa attraverso la categoria dell’armonia, dell’unità quindi, malgrado tutte le variazioni che il tempo ha saputo apportare a questo concetto17 . La categoria del bello verrà quindi meglio spiegata quando arriveremo a parlare della categoria dell’uno nel capitolo 6.4. 6.2 Buono. L’etica del Classico Il bello è il simbolo del bene morale. Immanuel Kant, Critica del giudizio Si tratta ora di analizzare cosa vuol dire per un testo, che sia portato a paradigma del Classico, essere buono. La categoria del buono, nella cultura occidentale, è da sempre stata strettamente collegata alla categoria del vero. Il vero infatti sembra ammantarsi della sfumatura dell’onesta che da sempre è considerata il valore primario delle relazioni umane. La stessa letteratura definisce a suo modo la verità di un’epoca, anche quando l’idealizzazione depura la realtà dagli errori, dagli incidenti della quotidianità. Gli uomini amano vedere rappresentata la summa etica della 16 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 25. 17 Si vedano ancora Wladislaw Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, Einaudi, Torino 1980; Wladislaw Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 2006. 268 6.2. Buono. L’etica del Classico propria cultura anche e soprattutto quando questa non si realizza pienamente nella realtà. Questa rappresentazione è quindi buona in quanto costituisce un modello non teorico cui è possibile rifarsi quando si desidera elevarsi al di sopra della folla. Costoro, però, amano ritrovarsi nelle finzioni del poeta, proiettano si di esse la propria «autorappresentazione» idealizzata, vi ritraggono «la propria esistenza al di fuori della storia, priva di qualunque scopo, come creazione estetica assoluta18 ». Di questo già si era accorto Eliot quando nel suo saggio What is a Classic? dice But if the poet can portray something superior to contemporary practice, it is not in the way of anticipating some later, and quite different code of behaviour, but by an insight into what the conduct of his own people at hia own time might be, at its best19 . Se questo poeta viene poi assurto alla categoria di grandissimo o di Classico diventa un modello per i lettori e le generazioni future che attraverso l’imitazione, beninteso non necessariamente prevista dall’autore, porteranno a compimento, eticamente, le considerazioni solo o principalmente estetiche del poeta. Nei fatti le generazioni cui il Classico serve da modello interagiscono con questo portandolo a compimento perché non si può prescindere totalmente da un modello riconosciuto e ammirato. Il Classico diventa, dopo essere considerato bello, anche buono, e in riferimento alla ricerca della perfezione dell’uomo, utile ad uno scopo. 18 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000, vol. I p. 152; citato anche in Piero Boitani, Letteratura europea e Medioevo volgare, Il Mulino, Bologna 2007. 19 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 62, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 484. Ma se un poeta è capace di descrivere qualche cosa di superiore a quanto si pratica nella sua epoca, non è che già preveda qualche regola di condotta futura e del tutto diversa, bensì intuisce quale potrebbe essere, portandola a perfezione, la condotta del suo popolo e dei tempi suoi. 269 6. Ipotesi teoriche per una definizione 6.3 Buono. L’utile del Classico In generale, quando una cosa diventa utile cessa di essere bella. Théophile Gautier, Poesie complete, prefazione. Abbiamo già accennato al fatto che la categoria del buono persiste anche quando un determinato periodo storico assume una categoria di bontà sovrapponibile ad esempio all’utile, in campo religioso, politico, sociale o quant’altro. Questo in effetti è avvenuto spesso nella storia della cultura occidentale e ha seguito proprio questo andamento, mutando il campo d’influenza man mano che variava la concezione etica della cultura. Nel mondo medievale infatti l’etica predominante metteva al primo posto la religione e la religiosità; testi che fossero in grado di aiutare questa causa partivano sicuramente con una marcia in più. Dopo l’incontro della cultura occidentale con Machiavelli20 e nonostante la mediazione di Botero21 , con la nascita della moderna politica, la moderna Ragion di Stato divenne una priorità etica in tutta Europa e così le letterature nazionali privilegiarono testi che sembravano in grado di aiutare la fondazione della nascente identità nazionale. Infine con l’Ottocento la cultura europea iniziò a volgere lo sguardo verso i problemi sociali, dapprima nazionali e poi internazionali, così anche la letteratura iniziò a considerare prioritario il tema sociale22 . Queste intenzioni etiche seppure tanto diverse illustrano sempre la categoria dell’utile, in epoche in cui l’utile è considerato fondamentale in ordine al raggiungimento di un obiettivo. Al contrario di questo altre epoche considerarono eticamente corretto che la letteratura, e a volte anche altre arti, fossero completamente sciolte e libere da indicazioni morali; anche questa era comunque una posizione etica. L’utile, insomma, viene definito come qualità etica tout court, il buono e l’utile arrivano a sovrapporsi completamente, così ad esempio in Manzoni nella Lettera al marchese Cesare d’Azeglio sul romanticismo 20 Il Principe, 1513 e Dell’arte della guerra, 1519-20 Ragion di stato, 1589 22 Si veda su tutti il Naturalismo francese e Zola con il ciclo Les Rougon-Macquart, histoire naturelle et sociale d’une famille sous le seconde empire, 1871-1893 21 270 6.4. Uno. Polisemia del termine Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso mi sembra poter essere questo: che la poesia e la letteratura in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo23 . Abbiamo appena detto del principio etico e dell’utile, vedremo il vero nel capitolo 6.6 e infine l’interessante manzoniano sembra afferire, nel suo essere mezzo, alla categoria della bellezza di cui abbiamo brevemente detto nel capitolo 6.1. Non è possibile poi determinare se la categoria dell’utile sia stata storicamente vincente in riferimento al buono in quanto periodi opposti si sono tendenzialmente alternati nella storia europea tanto da non lasciare intravedere nessuna preferenza di fondo nel suo svolgersi. La categoria del buono, di cui utile è una delle declinazioni pratiche, resiste dunque indenne a tutte le accezioni storiche attraverso cui è passata. 6.4 Uno. Polisemia del termine La mente umana è naturalmente portata a dilettarsi dell’uniforme. Giambattista Vico, La scienza nuova. La parola uno, inteso come attributo, quasi in polemica con se stesso, conserva una fondamentale polisemia; sebbene si riferisca alla categoria dell’unità questa ha assunto nel corso del tempo diverse connotazioni anche distanti tra loro. A questo campo si riferisce anche la “legge aristotelica” delle tre unità, di tempo, di luogo, d’azione che tanto successo ebbe nelle discussioni letterarie europee delle Età moderna e contemporanea che pur ne ridimensionarono l’importanza. Questa legge infatti veniva sempre più avvertita come un limite, 23 Alessandro Manzoni, Tutte le Opere, Mondadori, Milano 1957-1990. 271 6. Ipotesi teoriche per una definizione soprattutto nelle sue accezioni di tempo e di spazio, nella ricerca della verosimiglianza di cui parleremo nel capitolo 6.6. Le tre unità avevano avuto genesi diverse, se pur Aristotele fonda l’unità d’azione e l’unità di tempo, l’unità di luogo era stata definita a partire dalla constatazione che il teatro classico non presentava esempi di cambiamento di scena. L’unità di azione e di tempo erano per Aristotele un elemento fondamentale della tragedia che proprio per queste due caratteristiche si allontanava dall’epopea; l’unità di azione poi procedeva da queste. Così Castelvetro nella spiegazione del passo: Ora s’era detto di sopra, paragonando la lunghezza della tragedia con quella dell’epopea, in un luogo, che, quanto alla lunghezza che cade sotto il senso della vista e dell’udita, quella della tragedia non poteva passare dodici ore, là dove quella dell’epopea poteva passare molti dì, e in un altro luogo s’era detto che, quanto agli episodi, la tragedia gli aveva brievi e l’epopea lunghi; e ora qui alle cose dette s’aggiugne che la lunghezza della tragedia dee essere minore di quella dell’epopea per un’altra via, percioché l’epopea può avere per soggetto un’azione ripiena di più azioni o di più favole dipendenti l’una dall’altra; il che non può avere la tragedia, alla quale basta l’una delle molte azioni o favole per riempirla sufficientemente. Sì che la tragedia ha la lunghezza minore che non ha l’epopea e perché non può rappresentare un’azione se non di dodici ore, e perché dee avere gli episodi brievi, e perché non dee avere se non una parte d’una azione lunga; e l’epopea può narrare un’azione nella quale spenda molti dì, e può avere gli episodi lunghi, e contenere un’azione quantunque lunghissima e atta ad essere divisa in più parti o più favole24 . Alla nascita del genere del romanzo moderno bisognava definirne l’ambito di appartenenza, se, insomma, avvicinarlo alla tragedia o all’epopea. Quest’ultima opportunità parve da prima la migliore, anche dal momento che la materia trattata, moderna, era considerata più affine alla tragedia e sebbene per lun24 Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, a cura di Walter Romani, Laterza, Roma-Bari 1978. 272 6.4. Uno. Polisemia del termine ghezza sia invece più vicina all’epopea. Presto, però, molte voci si alzarono in difesa di un allontanamento dalle tre unità aristoteliche. Questa fu per esempio la posizione che Manzoni portò avanti nella prefazione a Il conte di Carmagnola e più analiticamente nella Lettre à M.r C*** sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie rispondendo all’estesa recensione del letterato e studioso di teatro Victor Chauvet; le unità di tempo e di luogo vengono definite in subordine all’unità d’azione [questo nel testo]. Del resto, questo non ha a che fare con la questione delle due unità; giacché il sistema storico, pur prestandosi in modo mirabile alla rappresentazione graduale degli avvenimenti e delle passioni che possono portare al delitto, offre anche i mezzi di eliminare, in tutti i soggetti in cui è rappresentato il delitto, questa lunga e disgustante premeditazione. Non so se il sistema delle due unità offra in proposito le stesse possibilità, e se non ponga invece il poeta nell’alternativa o di lasciare che la premeditazione del delitto sia immaginata, o di introdurre il delitto stesso in modo inverosimile e forzato25 . Torniamo adesso alla polisemia del termine: riferendo che un oggetto è uno, possiamo riferirci ad una qualsiasi delle caratteristiche cui rimanda: unicità, unitarietà, uniformità, unitezza (cioè l’unione di uniformità e compattezza), universalità, univocità. Per evitare ulteriore confusione possiamo assegnare a ciascuno di questi astratti un attributo che lo possa, qui, identificare senza incorrere in incomprensioni semantiche; usando lo stesso ordine avremo: unico, unitario, uniforme, unito, universale, univoco. Resta da capire quale, o quali, di questi significati attribuiamo al Classico. L’unicità letta come originalità è da sempre un tratto distintivo dell’eccellenza, e ne tratteremo nel capitolo 6.7 in riferimento al concetto di vero cui anche è legata. Allo stesso modo l’universalità è un elemento determinante il valore dell’opera ai suoi massimi livelli, l’universale non si limita ad accogliere nell’u25 Traduzione italiana a cura di A. Sozzi 273 6. Ipotesi teoriche per una definizione nità il molteplice ma arriva ad accogliere il tutto, in questo senso il Classico universale si configura come opera-mondo; riprenderemo l’argomento quando prenderemo in analisi i gradi di eccellenza nel capitolo 6.14. L’univocità al contrario sembra essere lontana dal mondo del Classico dal momento che nelle opere preferite dal mondo occidentale si tenta sempre, con più o meno successo, di ravvisare molteplici piani di significato o quanto meno diversi ambiti di valore. Solo Omero sembra sfuggire a questa caratteristica; come già ebbe modo di notare Auerbach «Si può analizzare Omero, come noi qui abbiamo tentato di fare, ma non lo si può interpretare26 ». Ciò nonostante le analisi su Omero continuano a produrre nuovi dati restituendo ad Omero una forma di molteplicità nella sua irriducibile inesauribilità. Senza questa considerazione l’univocità sembrerebbe quasi configurarsi quale il contrario dell’universalità che più ancora di unire il molteplice sembra racchiudere in sé il tutto che l’univocità rigetta. Anche per questo facciamo riferimento al capitolo 6.14. Unitarietà, uniformità e unitezza possono agevolmente essere trattati insieme dal momento che sono tutte declinazioni dello stesso concetto in ambiti diversi quali la forma, lo stile e il contenuto. Sono tutti ugualmente necessari e molto importanti; Dante, nel De vugari eloquentia parla dell’importanza dell’unità in riferimento alla lingua Resumentes igitur venabula nostra, dicimus quod in omni genere rerum unum essse oportet quo generis illius omnia comparentur et ponderentur, et a quo omnium aliorum mensuram accipiamus27 . Si tratta qui, in vero, del concetto di unità numerico in cui l’unità è misura del molteplice; allo stesso modo il Classico partecipa di questa caratteristica nel momento in cui diviene misura della produzione letteraria. 26 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000, vol. I p. 15. 27 De vulgari eloquentia, I, XVI - 1. Riprendendo dunque le mie armi da caccia, dico che in ogni genere di cose deve esserci una unità rispetto alla quale tutte le cose appartenenti al genere possano ragguagliarsi e valutarsi, e dalla quale noi possiamo ricavare la misura di tutte le altre. Tradotto in Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di P. V. Mengaldo, Padova 1968, p. 115. 274 6.4. Uno. Polisemia del termine Lewis si lasciò andare ad una vera e propria requisitoria in favore dell’unità, intesa come l’unione delle tre accezioni di cui abbiamo detto, quando nell’Allegoria d’amore ne deplora l’assenza in Jean de Meun che nel Roman de la Rose si allontana dall’impianto allegorico iniziale producendo una sorta di confusione di senso rafforzata dalle frequenti digressioni. Le sue digressioni costituiscono una colpa di altro genere ma egualmente grave. A dire il vero qualcuno le giustifica come caratteristiche del medioevo, accusandoci inoltre di voler imporre con la forza una regola classica - l’unità - ad un’arte cui essa è estranea. Io però non accetto questa difesa: l’unità di interesse non è una regola classica e non è estranea a nessuna forma d’arte che sia esistita o che possa esistere in futuro. L’unità nella diversità, quando è possibile, o altrimenti l’unità soltanto, come seconda soluzione, sono norme valevoli per tutte le opere dell’uomo, non già dettagli del mondo antico ma innate nella sua coscienza. Nessuna scuola di critica o di poesia può venir meno a questa regola, senza venire da questa regola infranta. Se le opere medievali mancano spesso di unità non è perché sono medievali ma perché sono difettose, almeno in questo senso. Anche l’irregolarità delle strade nel medioevo era solo accidentale e non proveniva da nessun gotico amore per la confusione. [...] Non conseguì l’unità perché si era proposta progetti enormi con risorse inadeguate. Quando il disegno fu modesto - come in Sir Gawain and the Green Knight o in qualche chiesetta normanna - o le risorse furono adeguate - la cattedrale di Salisbury e la Divina Commedia - l’arte medievale raggiunse un’unità di primissimo ordine, comprendendovi al massimo diversità di particolari subordinati28 . La vetta, dunque, viene raggiunta quando all’unità, in tutte le sue accezioni - fatta salva l’univocità - si uniscono risorse intellettuali e artistiche adeguate. Questa considerazione apre un nuovo interrogativo: se Dante nella Divina 28 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, pp. 135-136. 275 6. Ipotesi teoriche per una definizione Commedia ha raggiunto l’apice della produzione letteraria considereremo un Classico Dante stesso, una sua opera e cioè la Divina Commedia oppure infine la sua Opera in toto? Proveremo a rispondere a questo interrogativo nel prossimo paragrafo. 6.5 Uno. La restrizione di selezione semantica del Classico La più generale definizione della bellezza [...] Molteplicità nell’Unità. Samuel Taylor Coleridge, On the Principles of Genial Criticism Abbiamo già visto nella seconda sezione come Classico sia un termine che storicamente si è attribuito ad autori e anche alla loro opera. In senso ancora più ristretto: la letteratura sono i grandi scrittori. La nozione è ancora romatica: Thomas Carlyle vedeva in essi gli eroi del mondo moderno. Il canone classico era formato da opere modello, destinate a essere imitate in maniera feconda; il pantheon moderno è costituito da scrittori che incarnano al meglio lo spirito della nazione. Si passa così da una definizione della letteratura dal punto di vista degli scrittori (le opere da imitare) a una definizione della letteratura dal punto di vista dei professori (gli uomini degni di ammirazione). Alcuni romanzi, drammi o poesie appartengono alla letteratura perché sono state scritte da grandi scrittori, con il seguente corollario ironico: tutto ciò che è stato scritto da grandi scrittori appartiene alla letteratura, ivi compresi la corrispondenza e i conti della lavanderia, di cui si interessano 276 6.5. Uno. La restrizione di selezione semantica del Classico i professori. Nuova tautologia: la letteratura è tutto ciò che gli scrittori scrivono29 . Sembra giusto quindi che Classico si riferisca principalmente all’opera e venga assegnato all’autore solo quando l’opera in questione è tutto quel che del relativo autore oggi possediamo; è lo stesso infatti dire che Iliade e Odissea siano Classici o che Omero invece lo sia. Bisogna a questo punto determinare i limiti che assegniamo alla parola «opera». La Commedia è un’opera di Dante, l’Iliade un’opera di Omero, il Sogno di una notte di mezza estate un’opera di Shakespeare; d’altra parte sono tutte solo una parte dell’Opera del loro autore. Detto questo è bene notare che la Commedia è da sola un Classico, e il Sogno, all’opposto da solo non riesce a meritare questo titolo, l’Opera di Shakespeare invece è tutt’altra storia. Dante sapeva perfettamente, già al primo verso cui mise mano, in quale avventura letteraria si andava infilando e pure era fiducioso della riuscita, dal momento che da solo pone l’alloro sul suo capo quando nel suo passaggio nel Limbo dice, dopo aver incontrato le «quattro grand’ombre», Omero «poeta sovrano», Orazio, Ovidio, Lucano che con Virgilio, che dal Limbo infatti è salito alla selva per la salvezza di Dante, formano la bella scola di quel signor dell’altissimo canto che sovra gli altri com’aquila vola30 L’incontro, cioè, dei più grandi fra i grandi che scrissero epica, l’altissimo canto, come il loro maestro Omero «che le Muse lattar più ch’altro mai31 »; e poi prosegue per l’appunto dicendo e più d’onore ancora assai mi fenno, ch’e’ sì mi fecer della loro schiera, sì ch’io fui sesto tra cotanto senno32 . 29 Antoine Compagnon, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Einaudi, Torino 2000, pp. 27-28. 30 Inferno IV, 94-96 31 Purgatorio XXII, 102 32 Inferno IV, 100-102 277 6. Ipotesi teoriche per una definizione Dante davvero sapeva cosa stava facendo ed aveva altissima opinione del risultato raggiunto, di Shakespeare, ad esempio, sembra non potersi dire lo stesso. Sembra quasi che sia importante a questo proposito la consapevolezza e il desiderio di autoaffermazione, di gloria. In altri casi non abbiamo alcuna prova che ci dica l’intenzione in questo senso dell’autore se non le righe che ci ha lasciato scritte; si tratta in questo caso di ritagliare dall’Opera la sezione che nella sua ampiezza meglio risponde alle caratteristiche di valore richieste. Esiste dunque una misura del Classico che sia misurabile più che per qualità, per quantità? In che misura questa quantità deve poi essere strettamente unita e coesa? Eliot in What is Minor Poetry?33 sembra porsi proprio questo quesito: I do not say that even this test - which, in any case, everyone must apply for himself, with various result - of whether the whole is more than the sum of its parts, is in itself a satisfactory criterion for distinguish between a major and a minor poet. [...] All I have affirmed is, that a work which consist of a number of short poems, even of poems which, taken individually, may appear rather slight, may, if it has a unity of underlying pattern, be the equivalent of a first-rate long poem in estabilishing an author’s claim to be a ’major’ poet. That claim may, of course, be estabilished by one long poem, and when that long poem is good enough, when it has within itself the proper unity and variety, we do not need to know, or if we know we do not need to value highly, the poet’s other works34 . 33 What is Minor Poetry?, testo del discorso tenuto presso l’Association of Bookmen of Swansea and west Wales, a Swansea, il 26 settembre 1944. Pubblicato in Welsh Review, III, 4, dicembre 1944. 34 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 47, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001. Non intendo tuttavia affermare che la prova suddetta, se l’intero superi la somma delle parti - prova che in ogni caso ciascuno può effettuare per proprio conto con varietà di risultati - sia di per sé un criterio soddisfacente per distinguere i poeti maggiori dai minori [...] Io sostengo che un’opera formata di un certo numero di poesie brevi, perfino di poesie che prese individualmente possono sembrare piuttosto insignificanti, può, se è un’opera unitaria e rispondente a uno schema ben concepito, conferire di diritto all’autore il titolo di “poeta maggiore” quanto un eccellente lungo poema. Per ottenere questo titolo può bastare anche un’unica poesia d’un certo respiro, e nel caso si tratti di un’opera di valore, unitaria e riccamente articolata, non occorrerà conoscere tutte le altre opere dell’autore, e, se si conoscono, non occorrerà averne un’alta opinione. 278 6.5. Uno. La restrizione di selezione semantica del Classico Il diritto di poeta maggiore viene assegnato all’autore che abbia scritto «anche una sola poesia di ampio respiro in cui unità e varietà sono armonicamente composte35 ». Esiste dunque una misura minima che Eliot definisce come poesia di ampio respiro, una quantificazione incredibilmente problematica per la sua stessa impugnabilità. Eliot a questo punto, dopo aver dissertato sulle differenze tra poesia e poeti, minori o maggiori e aver definito come necessaria la lettura completa delle opere dei soli autori maggiori, dal momento che «poeta maggiore è colui la cui opera deve essere letta per intero se vogliamo apprezzarne pienamente ogni singola parte», sembra porre sopra questi un ulteriore livello di eccellenza: quello dei poeti massimi. The difference between major and minor poets has nothing to do with whether they wrote long poems, or ony short poems though the very greatest poets, who are few in number, have all had something to say wich could only be said in a long poem36 . A tutto questo è doveroso aggiungere che le condizioni sociali generali e prestate al compito dello scrittore cambiano molto nei secoli che dividono questi due grandi, Dante e Shakespeare, quest’ultimo era e si sentiva uno scrittore fin da subito, mentre il Medioevo non consentiva questa individuazione netta, per di più bisogna aggiungere che con il passare del tempo il concetto di Opera prese sempre più forza nel mondo letterario occidentale. Fin qui ho tralasciato Omero, che prima avevo portato ad esempio, il discorso a questo proposito si fa più complesso; Omero viene scelto da una messe di materiali, tanto ampia quanto radicata nell’oralità, come massimo facitore e così da solo rappresenta l’interezza della tradizione di cui faceva parte. Da ultimo voglio ricordare che più d’uno in tempi ormai recenti - credo che il Romanticismo sia a questo riguardo il momento d’inizio - ha configurato la propria intera esistenza letteraria come un’opera. L’opera-vita, quando cercata T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 411. Per unità e varietà si riveda il paragrafo precedente. 36 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 49, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 414. la differenza tra poeti maggiori e i minori non ha nulla a che vedere col fatto che essi abbiano scritto lunghi poemi o soltantobrevi poesie; pur se tutti i massimi poeti, che sono pochissimi, ebbero bisogno del poema di vasto respiro, né poteva essere altrimenti, per dire ciò che dovevano. 35 279 6. Ipotesi teoriche per una definizione dall’artista, anche se non da subito, permette anche a questi di espungere per tempo quanto non è ritenuto degno dal disegno di questa omnicomprensiva opera. Al più le opere giovanili possono addirittura rappresentare il caos primigenio da cui con forza e sforzo immane il genio riesce a trarsi fuori e quindi sono adeguate premesse alla mise en scene del proprio romanzo di formazione. In questo ultimo caso la consapevolezza dell’impegno è quindi comunque presente; si potrebbe dire che è cifra distintiva del Classico. Questo avviene quantomeno nella sua declinazione in termini di consolidamento, dal momento che il Classico di fondazione, per la sua stessa funzione, difficilmente può essere cosciente della propria futura funzione. 6.6 Vero. La verità del Classico “Beauty is truth, truth is beauty” that is all / ye know on earth, and all ye need to know. John Keats, Ode su un’urna greca. Abbiamo visto come il mondo occidentale abbia spesso declinato la bontà dell’opera letteraria come verità; la verità dell’opera non la rende solo buona ma anche bella, apprezzabile come ci ricorda Keats, qui in epigrafe, in una delle sue opere più belle e note. Si tratta ora di vedere come la verità possa essere intesa; ne individueremo tre accezioni possibili. Riferendo che un oggetto è vero possiamo far riferimento alla sua veridicità, alla sua onestà, alla sua verosimiglianza o al suo realismo. Infine possiamo riferirci alla sua originalità, ma di questo parleremo nel capitolo 6.7. La prima accezione di verità che prenderemo in analisi riguarda l’essere veritieri. Sebbene sia l’eccezione più semplice del termine è anche quella che più facilmente, e in modo meno rilevante può essere disatteso. Molto presto la cultura occidentale ha diviso storia e letteratura consegnando questo tipo di verità al primo dei due generi letterari. 280 6.6. Vero. La verità del Classico Ciò nonostante l’opera d’arte quando assurge alla categorie di massimo valore viene creduta come vera. Ancor oggi, pur riconoscendo la finzione del gioco letterario a Omero fatichiamo a non considerare i suoi eroi alla stregua degli eroi storici della stessa provenienza culturale e geografica; citiamo Alessandro come esempio e modello allo stesso modo in cui citiamo Achille o anche Enea. Questa pretesa di verità è al centro del primo capitolo, La cicatrice di Ulisse di Mimesis, la poderosa opera che Auerbach scrisse a Istanbul, ai confini del mondo occidentale, che porta some sottotitolo proprio Il realismo nella letteratura occidentale. Questa pretesa di verità è riconosciuta, in forme diverse alla Bibbia e ad Omero. In Omero la pretesa di verità è portata avanti da un punto di vista tale che ogni cosa appare sempre a fuoco, precisa e determina sia in termini spaziali che temporali e anche appare sempre presente e quindi oggettiva, vera. Il motivo originale si dovrebbe cercare nella fondamentale tendenza dello stile omerico a presentare le cose in una forma finita ed esatta, palpabili e visibili in tutte le loro parti e nelle loro relazioni di spazio e di tempo37 . E ancora, poco più avanti Auerbach aggiunge: E questo trascorrere delle cose avviene in primo piano, vale a dire sempre in assoluta presenza locale e temporale38 . Omero ottiene una sensazione di verità perché racconta un mondo intero e quindi vero in se stesso; non esiste motivo di cercare un livello interpretativo superiore alla lettera perché il racconto da solo motiva il suo stesso esistere. Il rimprovero, spesso rivolto a Omero, d’essere bugiardo, è un rimprovero insulso; egli non ha alcun bisogno di farsi forte della 37 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000, vol. I pp 6-7. 38 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000, vol. I p. 7. 281 6. Ipotesi teoriche per una definizione verità storica della sua narrazione; la sua realtà è forte a sufficienza: ci avvince, ci chiude nella sua rete, e gli basta. In questo mondo «reale», per se stesso esistente, entro il quale siamo stati attirati, non c’è nessun altro contenuto, i poemi omerici non tengono nulla celato, in essi non esiste nessuna dottrina né un secondo senso segreto. Si può analizzare Omero, come noi qui abbiamo tentato di fare, ma non lo si può interpretare. Da certe tarde correnti critiche sono state tentate interpretazioni allegoriche che non hanno approdato a nulla39 . La pretesa di verità della Bibbia trascende completamente dal metodo omerico, per l’Eloista non c’è alcuna necessità di mostrare il reale e infatti non ci dice mai più di quanto non sia strettamente necessario, «il fine religioso determina però una pretesa assoluta di verità storica40 », la verità delle sue parole è emanazione diretta dell’ispirazione divina. Quanto egli esponeva non mirava dunque in primo luogo alla «realtà», e se pur anche gli riusciva, ciò era pur sempre mezzo e non scopo; mirava invece alla verità. Guai a chi non credeva in essa41 ! Bisogna a questo punto notare, seppur incidentalmente, che la stessa pretesa assoluta di verità è condivisa anche dal Nuovo Testamento, che venne, fin dal Medioevo, creduto con la stessa intensità del Vecchio. Anche i Vangeli, che pur furono scritti molto tempo dopo rispetto ai testi omerici, non ricorrono ad alcun mezzo che determini realismo, non seguono alcuna regola retorica o poetica, e restano comunque veritieri, sempre presenti. Non vi è quindi nessuna ragione di una divisione del sublime dall’umile quotidiano che anche nella vita e nella sofferenza di Cristo sono indissolubilmente legati insieme, e non c’è nessun motivo 39 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000, vol. I p. 15. 40 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000, vol. I p. 16. 41 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000, vol. I pp. 16-17. 282 6.6. Vero. La verità del Classico di preoccuparsi di raggiungere l’unità di luogo, tempo o azione; poiché esiste un solo luogo: il mondo; un solo tempo: adesso, che fin dall’inizio è di ogni tempo; e unica azione: caduta e redenzione dell’uomo42 . Questi due casi, Omero e la Bibbia, restano quindi, pur accomunati dalla pretesa di verità, immensamente distanti per l’intensità della stessa: Omero è vero per come racconta la realtà, la Bibbia è vera e quindi non ha alcuna importanza come venga raccontata. La pretesa di verità della Bibbia non soltanto è più urgente che in Omero, ma è tirannica, esclude ogni altra pretesa43 . Queste pretese di verità furono in effetti accolte come tali dal pubblico dei lettori occidentali, così ad esempio H. Bloom citando Curtius. L’eminente medievalista Ernst Robert Curtius sottolinea che Dante considerava autentici, prima del suo, soli due viaggi nell’aldilà: quello di Enea nel libro sesto del poema di Virgilio e quello di San Paolo qual è riferito in 2 Corinti 12,244 . Nel frattempo è però avvenuta una nuova inclusione, quella dello stesso Dante - che già ci ha permesso di verificare Iliade, Odissea e Eneide come opere credute - che passa allo stesso modo ad essere creduto. Singleton ben se ne accorse quando definì la caratteristica principale della Divina Commedia nell’ossimoro: «La finzione della Divina Commedia è di non essere una finzione45 ». Quello che questa frase vuole spiegare non è che Singleton, o noi, crediamo davvero che un tal giorno, anch’esso ben determinato, Dante si perse in un atro bosco e riuscì a tornare a casa soltanto a prezzo di un viaggio faticoso quanto misterioso attraverso il mondo ultraterreno. Si tratta piuttosto della pretesa di verità 42 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000, vol. I p. 173. 43 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000, vol. I p. 17. 44 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 16. 45 Charles Singleton, La poesia della Divina Commedia, Il Mulino, Bologna 2002. 283 6. Ipotesi teoriche per una definizione del viaggio di Dante. Questa pretesa è portata avanti dallo stesso impianto dell’opera, la giustificazione del viaggio - la volontà della santa Beatrice, l’accordo di Dio stesso a questo viaggio - ne fonda anche la verità e la credibilità. La Bibbia fonda la sua pretesa di verità sulla natura stessa del suo autore dal momento che si tratta di un testo ispirato, voluto da Dio. Dante fonda la sua verità sulla (presunta) volontà, sull’accordo di Dio al suo viaggio. Dante dunque fece la sua parte e consegnò al mondo un’opera che definiva la propria pretesa di verità, la questione fondamentale è però altrove, nella cultura che accettò e fece propria questa pretesa; noi possiamo quindi cercare delle prove di questa avvenuta accettazione. Molto spesso la Commedia viene creduta perché ripete credenze già consolidate, a questa considerazione, pur ovvia, bisogna aggiungere che vennero credute anche quelle che noi possiamo definire come creazioni dantesche. L’esempio che più spesso è portato a riprova di questa tesi è il Purgatorio; sebbene l’idea di questo fosse precedente la forma che ne darà Dante risultò vincente come notò Le Goff: «Il Purgatorio di Dante rappresenta la conclusione sublime della lenta genesi del Purgatorio avvenuta nel corso del Medioevo46 ». Dobbiamo a questo punto chiederci cosa c’era dunque prima del Purgatorio di Dante; la voce Purgatorio nel Dizionario dell’Occidente medievale è curato proprio da Le Goff, all’inizio Purgatorio non indicava un preciso luogo quanto piuttosto definiva lo scopo di una pena. L’aldilà cristiano bipolare rimase pressoché invariato fino al XII secolo, quando grandi mutamenti religiosi e sociali sfociarono nella nascita di una nuova società che trasformò la propria visione del mondo, non soltanto quaggiù ma anche nell’aldilà. Sant’Agostino aveva diviso gli uomini in quattro categorie: i «del tutto buoni» destinati al paradiso; i «del tutto cattivi» spediti all’inferno; i «non del tutto buoni» e i «non del tutto cattivi» per i quali non si sapeva bene che genere di sorte Dio avesse in serbo. Si pensò che i defunti che, morendo, avevano sulla coscienza soltanto peccati «leggeri» 46 Fabio Gambero, Intervista a Jacques Le Goff. L’invenzione del Purgatorio in “Corriere della Sera”, Milano 27 settembre 2005. Si veda poi Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, Einaudi, Torino 2006, in particolare l’ultimo capitolo che proprio a Dante è dedicato. 284 6.6. Vero. La verità del Classico se ne sbarazzassero dopo la morte subendo «pene purgatorie» attraverso un «fuoco purgatorio» simile al fuoco infernale e situato in certi «luoghi purgatori»47 . Inizialmente non era chiaro dove si trovassero i morti che attendevano di essere purgati per entrare in Paradiso, le opinioni erano diverse finché a un certo punto si iniziò a pensare che la pena purgatoria, come tale, venisse somministrata all’Inferno, nell’unico luogo ultraterreno di pena che venisse allora concepito. L’individuazione di questi luoghi restava assai vaga. Alla fine del VI secolo Gregorio Magno pensò che potessero trovarsi sulla terra, ma la soluzione più frequentemente adottata fu quella di distinguere all’interno dell’inferno una Geenna inferiore, l’inferno propriamente detto da cui non si usciva mai, e una Geenna superiore dalla quale, dopo un periodo più o meno lungo di supplizi e di purgazione, si poteva ascendere al paradiso48 . Solo più tardi il Purgatorio ottenne uno statuto autonomo, un’indicazione geografica propria che permise poi a Dante un’adesione e soprattutto una fondamentale integrazione strutturale. Nella seconda metà del XII secolo si inventò un luogo indipendente per questi eletti rimandati, il purgatorio. Fu il «terzo luogo dell’aldilà», intermedio fra il paradiso e l’inferno, che sarebbe scomparso al momento del Giudizio finale, ormai svuotato dei suoi abitatori, tutti saliti in cielo49 . Questo è il punto di partenza, a cui Dante apporterà importanti modifiche che verranno interamente recepite dal Medioevo. La più importante di queste modifiche è la struttura stessa del Purgatorio, una struttura che tra l’altro trova la 47 Jacques Le Goff and Jean-Claude Schmitt (a cura di), Dizionario dell’Occidente medievale, Einaudi, Torino 2003-2004: Purgatorio. 48 Jacques Le Goff and Jean-Claude Schmitt (a cura di), Dizionario dell’Occidente medievale, Einaudi, Torino 2003-2004: Purgatorio. 49 Jacques Le Goff and Jean-Claude Schmitt (a cura di), Dizionario dell’Occidente medievale, Einaudi, Torino 2003-2004: Purgatorio. 285 6. Ipotesi teoriche per una definizione propria veridicità anche nella storia della sua formazione che, attingendo alla Bibbia, non può essere sconfessata. Dante ha trasformato completamente la geografia dell’aldilà. Per lui, il Purgatorio non è più un luogo sottoterra, vicino e simile all’Inferno. E’ invece una montagna che si erge in mezzo al mare, fatta di circoli concentrici che le anime percorrono dal basso verso l’alto. Per accedere al Paradiso devono risalire completamente le pendici del Purgatorio, con un percorso ascensionale inverso a quello dell’Inferno. Dante traduce in immagini l’elemento rivoluzionario introdotto dal Purgatorio, vale a dire la dimensione della speranza. Una speranza che sul piano dell’immaginario collettivo cambia tutto50 . L’immagine che del Purgatorio diede Dante riuscì a permeare la cultura occidentale nonostante l’atteggiamento che la stessa Chiesa ebbe nei suoi confronti. Come ho detto, la Divina Commedia ha svolto un ruolo fondamentale nel processo che ha imposto il Purgatorio come un elemento essenziale dell’oltretomba. La Chiesa pero non se ne è occupata più di tanto. Dante era un laico e quindi il suo straordinario poema non venne preso in considerazione come opera spirituale. Egli però non è solo un immenso poeta ma anche un uomo di pensiero, che quindi ha saputo pensare il Purgatorio, rappresentandolo in maniera completa e introducendo perfino alcuni elementi originali, come ad esempio l’antipurgatorio51 . La grandezza del suo impianto intellettuale per questo luogo era tale che riuscì non solo con l’indifferenza di Roma ma, qualche volta, anche contro una certa opposizione di fondo che mantenne l’indifferenza come maschera. 50 Fabio Gambero, Intervista a Jacques Le Goff. L’invenzione del Purgatorio in “Corriere della Sera”, Milano 27 settembre 2005. 51 Fabio Gambero, Intervista a Jacques Le Goff. L’invenzione del Purgatorio in “Corriere della Sera”, Milano 27 settembre 2005. 286 6.6. Vero. La verità del Classico Questa accettata pretesa di verità non solo è una caratteristica dei Classici, sembra addirittura fondarne lo stesso statuto; in qualche modo la gradazione di credibilità definisce anche una gradazione di classicità come vedremo meglio nel capitolo 6.14. Su un piano più basso ogni testo che assurge alla condizione di Classico, seppur nazionale o di genere, viene creduto; quanto più a lungo questa condizione sussiste tanto più un’opera si avvicina alla nozione di Classico Universale. A volte queste opere perdono lentamente parte della loro importanza e, a cagione del valore storico e di ricezione, restano a far parte del canone, così per esempio dice Auerbach in riferimento ad un intero genere. Per gli ascoltatori dei secoli XI, XII e XIII l’epopea eroica era storia; in essa viveva la tradizione d’un’epoca remota; non ne esisteva un’altra accessibile agli ascoltatori52 . In tempi più recenti anche Calvino, motivando la necessità di leggere i Classici, evidenzia quella forma di riconoscimento che deriva dalla sensazione di verità nell’esempio degli accoliti di un testo che sia riconosciuto come Classico. Gli appassionati di Dickens in Italia sono una ristretta élite di persone che quando s’incontrano si mettono subito a ricordare personaggi e episodi come di gente di loro conoscenza53 . Nella seconda accezione verità può essere letta come onestà. Si tratta in primo luogo di quella che oggi correntemente viene chiamata onestà intellettuale e risulta legata al concetto più lato di coerenza; per il resto si sovrappone sinonimicamente alla prima accezione. La terza accezione di verità che possiamo prendere in considerazione riguarda la verosimiglianza. Proprio come verosimiglianza la letteratura ha l’intenzione di rappresentare il reale, anche a costo di prescindere da categorie già affermate come la “legge aristotelica” delle tre unità, di tempo, di luogo, di azione di cui abbiamo già detto nel capitolo 6.4. 52 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000, I, p. 135. 53 Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 2002, p. 6. 287 6. Ipotesi teoriche per una definizione Le unità aristoteliche infatti volevano salvare la verosimiglianza dell’azione scenica con l’unità di tempo e di luogo; solo l’unità d’azione mirava a proteggere l’unitarietà d’argomento. Stabilizzate dalla tradizione, quando il genere letterario iniziò a proporsi non più di rappresentare una azione reale bensì il reale in tutta la sua ampiezza, le tre unità divennero un limite piuttosto che un modello utile. Questo accade dunque, più che nella tragedia nel romanzo, e proprio nella discussione sul romanzo viene portato in luce, si veda ad esempio il discorso Del romanzo storico con cui Manzoni arrivava nel 1850 ad un punto fermo. La questione era già stata posta nella citata lettera del 1820 a Victor Chauvet nelle cui mani rimase fino al 1823, data dell’edizione francese a stampa delle tragedie manzoniane curata dallo stesso Chauvet. Non voglio per questo asserire che i componimenti che appartengono al genere romanzesco siano sostanzialmente falsi. Certo ci sono dei romanzi che meritano di essere considerati modelli di verità poetica; e sono quelli i cui autori, dopo aver preso atto, in modo preciso e sicuro, dei caratteri e dei costumi, hanno inventato, per poter rappresentare tali caratteri e tali costumi, azioni e situazioni conformi a quelle che si verificano nella vita reale: dico solo che, come ogni genere letterario ha il suo scoglio particolare, così lo scoglio del genere romanzesco è rappresentato dal falso54 . La quarta accezione di verità riguarda la pretesa di realtà, il realismo. Seguendo lo splendido lavoro di Auerbach, che abbiamo già citato per la pretesa di verità, il realismo, o meglio la sua ricerca, è un tratto stabile della storia letteraria occidentale. Si tratta in verità di una costante che viene sempre rideclinata secondo le caratteristiche precipue di ogni tempo; le mutazioni portate dal tempo possono a volte nascondere il tratto del realismo ai nostri occhi, ma il valore di una rappresentazione realistica resta invariato fin dalla fondazione della cultura occidentale. Questo è il caso che porta ad esempio Auerbach parlando di Racine. 54 288 Traduzione italiana di A. Sozzi 6.7. Vero. L’originalità del Classico Soltanto con la prospettiva del tempo si spiega che nel secolo XVII l’arte di Racine fosse sentita non solamente come affascinante, ma anche ragionevole, sensata, naturale e verosimile; quel secolo aveva altre unità di misura per giudicare ciò che è naturale e ragionevole55 . Nei venti capitoli di cui è formato Mimesis, Auerbach passa in rassegna altrettante declinazioni culturali che applicano diversamente lo stesso concetto, il realismo, a partire dalla Bibbia ed Omero fino ad arrivare al 1927 e Virginia Woolf. Questo filo rosso che percorre epoche e terre si costituisce come elemento fondamentale della cultura occidentale nella sua ricerca di una più accessibile forma di verità. 6.7 Vero. L’originalità del Classico Deh, vogli / la via segnarmi, onde toccar la cima / io possa, o far, che s’io cadrò su l’erta, / dicasi almen: su l’orma propria ei giace. Alessandro Manzoni, In morte di Carlo Imbonati Abbiamo visto come verità possa essere meglio espressa come veridicità, onestà, verosimiglianza e realismo; in altri casi il concetto di verità si lega invece a quello di originalità, singolarità, alterità e inimitabilità. Si tratta in realtà di tre concetti quasi sovrapponibili che stanno inversamente tra loro in rapporto di successiva inclusione. Partiamo dunque dall’originalità. Da ultimo bisogna osservare che la verità si configura anche come originalità e quindi storicismo; così Bertinetti quando giustifica nella sua prefazione la scelta di scrivere l’ennesima storia 55 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000, vol. II p. 147. 289 6. Ipotesi teoriche per una definizione della letteratura quando «Le storie della letteratura hanno fatto il loro tempo, ci è stato autorevolmente spiegato nella seconda metà del secolo scorso; e legittimi anatemi sono stati ripetutamente scagliati contro coloro che annegavano l’identità degli autori e delle opere in un più o meno attendibile “contesto storico”. [...] Recentemente, il cosiddetto “nuovo storicismo” ha trovato accenti assai convincenti nel sostenere la necessità del ritorno a una prospettiva storica, lontanissima da quella teleologica del passato, e propensa a una concezione relativistica, consapevole del condizionamento storico sia dell’opera letteraria sia del suo fruitore 56 . Questo stesso spirito fornisce l’autorizzazione implicita alla ricerca qui proposta. Anche Harold Bloom tiene in grande conto l’originalità tanto che la considera il tratto distintivo principale della grandezza e lo pone a metro e misura della canonicità. Un particolare tipo di originalità, da lui definita singolarità, sta al vertice di questa così come gli autori che la raggiunsero stanno al vertice di quelli definiti come originali. In questa gradazione di canonicità possiamo ravvisare quello che noi qui chiamiamo Classico. Ho tentato di istituire un diretto confronto fra gran parte di questi ventisei scrittori e la grandezza, chiedendomi che cosa renda canonici l’autore e le opere. Per lo più, la risposta è risultata essere la singolarità, un tipo di originalità che non può essere assimilata o alla quale ci abituiamo tanto da cessare di considerarla singolare57 . Si tratta di una singolarità che ci stupisce anche quando il Classico ci è già noto attraverso le ricadute culturali di secoli come dice Calvino per essere considerato tale «la lettura di un classico deve darci qualche sorpresa, in rapporto all’immagine che ne avevamo58 ». Si tratta quindi, a suo parere, di un testo che 56 Prefazione di Paolo Bertinetti a Storia della letteratura inglese I, Einaudi Torino, 2000, p. 57 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, IX. p. 2. 58 290 Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 2002, p. 9. 6.7. Vero. L’originalità del Classico più degli altri non può essere compreso attraverso la sola lente della letteratura secondaria, della critica, della storia o della teoria letteraria. Nella nona delle quattordici definizioni che dà del Classico in Perché leggere i classici, Calvino mette al centro della questione proprio lo stupore. 9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti59 . Questo stupore è sostanziale al Classico tanto da non esaurirsi alla prima fruizione di questo; si tratta di un tratto fondamentale per Calvino tanto che occupa da solo quattro delle sue definizioni. 4. D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima. 5. D’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura. La definizione 4 può essere considerata corollario di questa. 6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Mentre la definizione 5 rimanda a una formulazione più esplicativa, come: 7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume)60 . Si tratta di un fenomeno di persistenza che rende permeabile la membrana tra arte e vita, tra letteratura e realtà; come la letteratura attinge dalla realtà, questa a sua volta attinge, usandola come modello o riferimento, dalla letteratura. Non da tutta in realtà, bensì solo da quella che riconosce come eccellenza, cioè dai Classici. Questa originalità costituisce il metro di giudizio, una volta che se ne conosca un solo esito sarà possibile riconoscerla anche in nuove opere, così la dodicesima definizione. 59 60 Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 2002, p. 9. Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 2002, pp. 7-8. 291 6. Ipotesi teoriche per una definizione 12. Un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia61 . Esiste dunque un filo rosso che lega i Classici tra loro grazie alla comune originalità riconosciuto anche da Bloom che lo definisce così: Il ciclo di produzione va dalla Divina Commedia a Finale di partita, da singolarità a singolarità62 . Questa singolarità può concretizzarsi in due modi opposti; da una parte una inaspettata estraneità, dall’altra un’altrettanta inaspettata familiarità. A questi due modi corrispondono due autori che meglio di chiunque altro li incarnano. Un segno di originalità capace di assicurare status canonico a un’opera letteraria è una singolarità che mai assimiliamo del tutto o che diviene un dato tale che restiamo abbagliati dalle sue idiosincrasie. Dante rappresenta il massimo esempio della prima possibilità e Shakespeare l’esempio insuperabile della seconda63 . Tra i due, a parere di Bloom, esiste comunque una differenza che gli fa asserire, moltissime volte durante il testo la supremazia di «Shakespeare, il massimo scrittore che mai conosceremo64 ». Torniamo adesso all’originalità, da cui eravamo partiti, con Bertinetti: Non è soltanto questione di orientamento: nella cultura occidentale, a differenza di quanto avviene ad esempio nelle arti figurative orientali, valore decisivo è quello dell’originalità. Non possiamo lodare un poeta a noi contemporaneo se scrive che piove nel suo cuore come piove sulla città: perché sappiamo che l’ha già 61 62 Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 2002, p. 10. Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 2. 63 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, pp. 2-3. 64 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 3. 292 6.7. Vero. L’originalità del Classico scritto un poeta di più di cent’anni fa. Quello dell’originalità è un valore65 . L’originalità è legata al concetto tramite i suoi opposti; il plagio insomma è visto come una forma di menzogna ed è quindi avverso all’idea di verità che l’occidente ha costruito nei secoli. Il Classico, come ogni opera che meriti comunque rispetto è originale, altrimenti non viene neppure preso in considerazione, è insomma conditio sine qua non. A questo punto non resta che fare un’ultima considerazione: l’originalità, quando è massima diventa anche inimitabilità; la sua unicità la rende fondamentalmente altra rispetto a tutto il resto. Da questo punto di vista Dante, come ci spiega Boitani, è l’esempio più evidente. D’altro canto la conoscenza di Dante, che in Italia non viene mai meno ed è anzi approfondita per mezzo di innumerevoli commenti dal Trecento al Cinquecento, non penetra mai a fondo nella stessa poesia italiana (con l’eccezione del Tasso), e rimane ai margini della coscienza poetica negli altri paesi fino alla riscoperta del Romanticismo. Sono due i fattori più importanti che producono questo stato di cose: l’inimitabilità e l’alterità dantesche. Nel primo campo, quanto accade nella seconda metà del Trecento e ai primi del Quattrocento è già sufficientemente indicativo. Quattro grandi scrittori europei si trovano in questo periodo a fare i conti con Dante: Petrarca e Boccaccio in Italia, Chaucer in Inghilterra, e Christine de Pisan in Francia. Le loro relazioni sono diverse l’una dall’altra, ma tutte riconducibili all’impossibilità di seguire il fiorentino sul terreno da lui esplorato66 . L’inimitabilità è un tratto distintivo che emerge con più chiarezza ancora dal confronto con gli altri autori; negli autori successivi si dà sempre la sensazione 65 Prefazione di Paolo Bertinetti a Storia della letteratura inglese I, Einaudi, Torino 2000, p. 66 Piero Boitani, Letteratura europea e Medioevo volgare, Il Mulino, Bologna 2007, p. 240. X. 293 6. Ipotesi teoriche per una definizione che abbiano lasciato indietro qualcosa come se in un qualche certo modo non avessero ben appreso la lezione, così ad esempio in Bloom Shakespeare e Dante sono invariabilmente le eccezioni alle trasmissioni ereditarie della canonicità; mai ci convinceremo che siano stati letti troppo profondamente in Joyce e in Beckett o in chiunque altro. È questo un altro modo di ripetere ciò che sono stato indotto ad affermare in tutto questo libro: il Canone Occidentale è Shakespeare e Dante67 . Questo concetto è espresso in modo ancora più chiaro in riferimento al solo Shakespeare che Bloom considera eccellenza suprema di tutta la civiltà occidentale; facendo il taccio da questo resta valida la categoria riferibile al Classico. Qui si trovano di fronte alle insuperabili difficoltà della più idiosincratica forza di Shakespeare: chiunque tu sia e ovunque ti trovi, egli è sempre davanti a te, concettualmente quanto a immaginario. Ti rende anacronistico perché ti contiene; non puoi sussumerlo68 . 6.8 Tempo. La collocazione del Classico Le origini non sono mai belle. La vera bellezza è alla fine delle cose. Charles Maurras, Anthinea. Esistono due categorie di Classico che potremmo chiamare Classico di fondazione e Classico di consolidamento. Il primo compare all’inizio dell’espressione letteraria di una cultura, il secondo quando questa è ormai matura e quindi potremmo dire alla fine della stessa, poco prima che essa muti in una cultura nuova. 67 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 462. 68 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 21. 294 6.8. Tempo. La collocazione del Classico Il Classico di fondazione pur mantenendo i valori di uno, bello e buono, è fortemente caratterizzata dall’ipotesi di verità al suo più alto grado; si tratta insomma di un’opera che sia creduta e che sia quindi contemporaneamente vera, con tutte le sue possibili sfaccetature, e originale in pari modo, con tutte le sue specificazioni. La cultura occidentale ha ereditato due Classici di fondazione dal mondo antico, Omero e la Bibbia, ha poi aggiunto i suoi personali Classici a questa. Come Virgilio costituisca l’unico esempio di trasformazione da Classico di consolidamento in Classico di fondazione vedremo alla fine di questo paragrafo, l’ultimo Classico di fondazione della cultura occidentale è invece Dante. Abbiamo già visto, nel capitolo 6.6 come anche l’opera di Dante ottenne che la sua pretesa di verità fosse accettata dalla cultura del suo tempo. Altrettanto importante per la categoria di Classico di fondazione è il suo carattere di estrema inclusività, il suo essere “opera mondo”. Abbiamo già detto di come Omero sia stato prima che un libro, “il libro”, una sorta di opera e insieme intera biblioteca di una fase culturale, lo stesso abbiamo fatto per la Bibbia che da sola non solo è un’intera biblioteca ma anche un intero repertorio di generi letterari; la Divina Commedia partecipa di questa stessa caratteristica. La Commedia è, fra l’altro, un poema enciclopedico didascalico, in cui è presentato nel suo insieme tutto l’ordine universale fisicocosmologico, etico e storico-politico; essa è inoltre un’opera d’arte imitatrice della realtà, in cui s’affacciano tutte le possibili ragioni della realtà: passato e presente, sublime grandezza e spregevole bassezza, storia e leggenda, tragedia e commedia, uomini e paesi; ed è finalmente la storia dell’evoluzione e della salvezza di un uomo singolo, di Dante, e come tale una figurazione della salvezza dell’umanità69 . Dante include tutta la tradizione occidentale nella sua opera, dai mostri dell’antica mitologia alla Bibbia, dai personaggi della storia antica all’angelogia medievale; tutte le diversità che un uomo medievale poteva conoscere sono incluse armonicamente in un’unità che appare portatrice di senso. 69 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000, I, p. 205. 295 6. Ipotesi teoriche per una definizione Passiamo quindi a far riferimento al Classico di consolidamento. Per questo possiamo fare nostre le caratteristiche che Eliot assegna al Classico Tout court; l’unico autore che a suo parere meriti il nome di Classico è infatti Virgilio, come abbiamo visto, e Virgilio è a nostro parere, unico nella sua essenza di Classico di consolidamento della cultura occidentale. Le caratteristiche che possiamo imputare al Classico di consolidamento sono dunque la maturità (di mente e di costumi, maturità di lingua e perfezione dello stile comune), la comprensività (e completezza) e l’universalità. Abbiamo già parlato di comprensività e universalità nel capitolo 6.4 e in parte riprenderemo l’argomento nel capitolo 6.14; della maturità abbiamo esplorato gli aspetti nel capitolo 5.3 in riferimento a Sainte-Beuve e 5.4 in riferimento a Eliot. L’importanza della maturità è confermata anche da Calvino. Eliot si riferiva a una maturità intrinseca all’epoca che genera il Classico, Sainte-Beuve invece la nominava in riferimento alla fruizione del Classico; Calvino riprende quest’ultimo e ricorda il valore che assume la lettura di un Classico quando è fatta in età matura, come se la maturità del Classico potesse essere interamente fruita solo quando si raggiunga la propria personale maturità e fosse da quest’ultima così provata. Questo per dire che il leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a quello d’averlo letto in gioventù70 . Ci si riferisce a una particolare caratteristica del Classico che consiste nel suo essere esaustivo di un’epoca e ancor di più dell’intera cultura occidentale; leggerlo in gioventù ci modella secondo la cultura occidentale, leggerlo in età matura ci consente di ravvisare in esso tutta la cultura occidentale. Da questa considerazione Calvino fa emergere due delle sue definizioni di Classico: 2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per 70 296 Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 2002, p. 6. 6.8. Tempo. La collocazione del Classico chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli. [...] 3. I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale71 . Queste caratteristiche che abbiamo assegnato al Classico di consolidamento - maturità, comprensività e universalità - portano con sé delle conseguenze non aggirabili, tanto che Eliot arriva a definire come una benedizione il fatto che la letteratura inglese, o francese non ne abbia ancora prodotti. Questo tipo di Classico segna la conclusione di una letteratura, della sua ricerca di un progresso che la porti a maturità, così, come per il corpo umano, dopo la maturità resta solo lo spazio per la decadenza. It is true that every supreme poet, classic or not, tends to exhaust the ground he cultivates, so that it musk, after yelding a diminishing crop, finally be left in fallow for some generations72 . In effetti tutti i poeti riducono il margine di miglioramento, proporzionalmente alla loro grandezza dal momento che la grandezza sta proprio nella capacità di saturare certe valenze, di esaurire il campo. Not only every great poet, but every genuine, though lesser poet, fulfils once for all some possibility of the language, and so leaves one possibility less for his successors. The vein that he has axhausted may be a very small one; or may represent some major form of poetry, the epic or dramatic. But what the great poet is also a great classic poet, he exhausts, not a form only, but the language of his time; anf the language in which he writes: it is not merely 71 Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 2002, pp. 6-7. T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 64, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 487. Il fatto è che ogni grandissimo - classico o no - tende ad esaurire il terreno che coltiva, sicché quello, dopo aver prodotto messi sempre più esigue, dev’essere lasciato incolto per qualche generazione. 72 297 6. Ipotesi teoriche per una definizione that a classic poet exhausts the language, but that the exhaustible language is the kind which may produce a classic poet73 . Ed è così che è una benedizione per i poeti futuri inglesi che i grandi poeti della sua letteratura abbiano coltivato, ed esaurito, solo piccoli campi chiusi del suo territorio, lasciando così spazio ad un nuovo margine di miglioramento, ad altri poeti. Così sono stati Shakespeare e Racine che hanno esaurito il dramma poetico, e Milton che fece lo stesso con il poema epico. Al contrario Virgilio, un autentico Classico, di consolidamento diremmo noi, ha esaurito la sua intera letteratura. After Virgil, it is truer to say that no great development was possible, until the Latin language became something different74 . Quando la società e la cultura d’Europa cambiarono, e la lingua latina con essa, evolvendo nelle lingue romanze, Virgilio, complice anche la quarta egloga, si trasformò; da Classico di consolidamento della cultura antica divenne uno dei Classici di fondazione della nuova era, e come tale venne creduto. 73 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, pp. 64-65, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 488. Non soltanto ogni grande poeta, ma ogni poeta genuino, anche se minore, realizza per sempre qualche possibilità della lingua; e lascia quindi ai suoi successori una possibilità di meno. La vena da lui esaurita può essere tenuissima, oppure rappresentare una forma più vasta di poesia, l’epica o la drammatica. Ma il grande poeta esaurisce sempre e soltanto una forma, non mai l’intera lingua. Il grande poeta classico, per contro, esaurisce non soltanto una forma, ma l’intera lingua del suo tempo; la quale, se è vero che egli è un classico, sarà una lingua che ha raggiunto la propria perfezione. Dunque dobbiamo tener conto e del poeta e della lingua in cui scrive: perché, se è vero che un poeta classico esaurisce la lingua, è vero anche che una lingua capace di esaurirsi è quella che produce un poeta classico. 74 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, pp. 63-64, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 486. Bisogna dire che dopo Virgilio nessun grande sviluppo era più possibile, fintanto che la lingua latina non fosse divenuta un’altra cosa. 298 6.9. Tempo. La sedimentazione del Classico 6.9 Tempo. La sedimentazione del Classico Il tempo dirà tutto alla posterità. È un chiacchierone, e per parlare non ha bisogno di essere interrogato. Euripide, frammento. In questo paragrafo cercheremo di rispondere al quesito sulla nascita del Classico; è evidente che il Classico può appartenere a diversi periodi storici, la questione è quando viene riconosciuto come tale, quale sia l’importanza della categoria di distanza per la valutazione di un’opera. L’opinione per cui nella valutazione di un’opera spetti «ai posteri l’ardua sentenza75 » è largamente condivisa a partire da Gellio che, come abbiamo visto nel capitolo 1.3, definisce uno scrittore classicus come adsiduus e antiquior76 . Noi qui potremo portare alcune citazioni come riprova, così, ad esempio Bloom cita Burckardt in riferimento alla classicità di Dante, che costituisce un’eccezione alla regola. Jakob Burckardt, in un capitolo sulla fama letteraria (ndr Fama in letteratura), citato da Curtius, nota che Dante, il poeta-filologo dell’Umanesimo italiano, aveva “la più profonda consapevolezza di essere un distributore di fama e anzi di immortalità”, una consapevolezza che Curtius colloca tra i poeti in latino di Francia già nel 110077 . Si tratta qui della consapevolezza del poeta rispetto al mezzo utilizzato, dunque la consapevolezza che la poesia può, come la stessa storia, portare all’immortalità. Così continua Bloom: Ma a un certo punto codesta consapevolezza venne collegata all’idea di una canonicità secolare, con la conseguenza che a essere 75 Così in Manzoni, in riferimento al riconoscimento della Gloria di Napoleone, ne Il cinque Maggio 31-32 76 Noctes Atticae 19.8.15; 16.2-15 77 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 17. 299 6. Ipotesi teoriche per una definizione salutata come immortale fu, non già che l’eroe venisse celebrato, bensì la celebrazione stessa78 . Dunque non solo essere cantato in poesia a cagione dei propri atti porta alla gloria, ma anche lo stesso atto del cantare in poesia può far raggiungere la stessa meta. Della capacità eternatrice della poesia erano già stati consapevoli nell’antichità Omero e, come abbiamo già visto nel capitolo 2.2, Orazio. Curtius, sempre attento alle fortune delle metafore canoniche, ha una dissertazione su “poesia quale perpetuazione” che fa risalire l’origine dell’eternità della fama poetica all’Iliade (6.359) e, al di là, alle Odi di Orazio (4.8,28), assicurandoci che è l’eloquenza e l’affetto della Musa che permettono all’eroe di mai morire79 . L’Iliade e le Odi fanno però riferimento allo stesso tipo di gloria, vediamo il passo in oggetto che è l’incipit del nono excursus dedicato a “Poesia e Immortalità” dove compare anche un’altra forma di gloria poetica Già gli eroi di Omero sanno che la poesia dà fama immortale a coloro che essa celebra (Il., VI 359). La poesia rende immortali; volentieri i poeti ribadiscono questo concetto: così Teognide (v. 237 e ss.) a Cirno, Teocrito (XVI) a Gerone, Properzio alla sua Cinzia (III, 2, 17), Orazio, pur senza rivolgersi a personaggi determinati (Carm., IV 8, 28). Anche Ovidio si serve di questo motivo (Am., I 10,62), dal quale sarà da distinguere l’assicurazione che il poeta per mezzo del suo canto guadagni a se stesso fama immortale, l’oraziano [Carm., III 30, 1] Exegi monumentum aere perennius80 . 78 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 17. 79 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 17. 80 Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006, p. 529. 300 6.9. Tempo. La sedimentazione del Classico In Orazio sono in realtà presenti entrambi i tipi di gloria; nelle Odi ritorna la funzione glorificatrice della poesia nella prima delle due accezioni che abbiamo visto dignum laude virum Musa vetat mori: caelo Musa beat81 . Quello che, in riferimento alla nostra ricerca, ci sembra più importante è la possibilità per il poeta stesso di raggiungere la gloria ; questo amplia le possibilità della poesia, le spalanca le porte dell’eternità. Sebbene si possa riconoscere a Dante anche una qualche forma di consapevolezza della grandezza della propria stessa opera (abbiamo già trattato questo caso particolarissimo nel cap. 6.5), normalmente il secolo riconosce le grandi opere solo a posteriori. Anche Eliot affronta l’argomento, in riferimento alla determinazione d’appartenenza, per ogni poeta, alla poesia minore o meno And with our contemporaries, we oughtn’t to be so busy enquiring wheter they are great or not; we ought to stick to the question: ’Are they genuine?’ and leave the question whether they are great to the only tribunal which can decide: time82 . Meglio ancora si esprime a questo proposito Bloom che pur nutriva per Eliot una «virulenta antipatia83 ». Bloom ritiene che la prematura inclusione di un autore nel canone non possa che essere considerata quale una profezia che attende il tempo per essere confermata o sbugiardata. La profezia canonica ha bisogno di essere messa alla prova per circa due generazioni dopo la morte di uno scrittore84 . 81 Odi IV 8, 28 La Musa impedisce all’uomo degno di lode di morire: la Musa lo bea in cielo T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 51, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, pp. 416-417. Con i nostri contemporanei, questo è il punto, non dovremmo darci tanto da fare a indagare se sono grandi o meno, ma piuttosto attenerci alla domanda: “sono genuini?” e lasciare l’altro interrogativo all’unico tribunale in grado di decidere: il tempo. 83 Francesco Rognoni, Di libro in libro. Percorsi nella letteratura inglese e americana di Otto e Novecento, Vita e Pensiero, Milano 2006, p. 6. 84 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 463. 82 301 6. Ipotesi teoriche per una definizione Si tratta di una differenza fondamentale; tra i molti che vengono acclamati come grandi al loro apparire solo pochi resistono al vaglio del tempo. Altri invece che furono ignorati in vita ottengono credito dai posteri, spesso a cagione della loro stessa originalità di cui abbiamo già detto al capitolo 6.7. L’originalità non è infatti un’alterità sostanziale, si tratta al massimo di un altro modo, di un diverso sguardo su una stessa realtà. Non si può essere tra i più grandi tradendo proprio la propria stessa età, così ci dice, ad esempio Augé Perché sta qui il paradosso: bisogna appartenere pienamente al proprio tempo per avere la possibilità di sopravvivergli85 . 6.10 Tempo. La durata del Classico Solo attraverso il tempo si vince il tempo. T.S.Eliot. Quattro quartetti. Il Classico possiede, infine, un’ultima caratteristica che lo ricollega alla dimensione temporale ed è la sua resistenza al tempo di cui abbiamo già accennato alla fine del capitolo 6.9. Abbiamo visto come ogni cultura produce un ideale di perfezione in ordine ai principi di eccellenza che produce, dovremmo anche dedurne che con il passare del tempo e con lo sbiadirsi e il mutare delle priorità attraverso le diverse epoche anche il Classico perda il suo valore. Il tempo, la storia, invece non dimentica nulla; ogni ramo che la tradizione ha prodotto continua a generare degli effetti che per quanto ridotti continuano a mantenere il proprio influsso sulla cultura. Lewis lo ricorda efficacemente quando, in riferimento all’allegoria d’amore (si veda il capitolo 3.5) dice questo proprio come premessa al suo intero studio sull’argomento: L’umanità non attraversa fasi come un treno attraversa stazioni: essendo viva, ha invece il privilegio di muoversi costantemente senza tuttavia lasciarsi nulla alle spalle. Quel che siamo stati, Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al nontempo, Elèuthera, Milano 2009, p. 46. 85 302 6.10. Tempo. La durata del Classico per qualche verso lo siamo ancora e né la forma né il sentimento di questa antica poesia si sono esauriti senza lasciare tracce nella nostra mente indelebili86 . Sebbene gli amanti di oggi non si sentano più, ad esempio, servi della donna amata, l’amor cortese, segno distintivo di un passato ormai lontano, ancora stende come rami i suoi influssi su di noi. Alcuni elementi del passato culturale riescono a influenzarci più di altri, le opere che hanno saputo scegliere proprio questi elementi rimangono ai nostri occhi ancora vitali; questa è dunque la forma di permanenza che un Classico possiede. Bisogna a questo punto fare una precisazione. Il Classico non ha bisogno dello scorrere del tempo per diventare tale, lo è fin dal suo primo apparire, dal primo giorno; lo scorrere del tempo di questo ci da solo la prova - la prova del tempo - non il fondamento. Il Classico infatti non si astrae dal suo tempo per diventare eterno, anzi, è proprio la sua aderenza al suo tempo, unita all’universalità di cui è latore, a renderlo eterno; così ad esempio per Lewis è il Troilus di Chaucer. In ogni età i conseguimenti hanno meno dei tentativi il sapore della propria epoca e parlano un linguaggio universale. Anzi è proprio da questo che li riconosciamo per opere riuscite. Le cose migliori si trovano a casa loro in ogni epoca e vi rimangono per sempre, nel proprio distretto di spazio e di tempo. Il Troilus è un’opera «moderna», se si vuole - ma la definizione di eterna sarebbe più saggia e meno presuntuosa - perché è perfettamente e schiettamente medievale87 . Dobbiamo infine aggiungere un’ultima nota. Dal momento che il Classico è l’espressione di una civiltà e della sua intera cultura possiamo dire che il Classico rimane tale finché dura la civiltà che l’ha generato; può cadere solo quando questa civiltà crolli e si trasformi in modo tanto radicale da non vedere più 86 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. 3. 87 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, pp. 171-172. 303 6. Ipotesi teoriche per una definizione alcun legame con la cultura che l’ha preceduta. Si tratta ovviamente di pure supposizioni, direttamente dedotte dalle premesse che ci siamo dati; un tale crollo di civiltà, per quanto ne sappiamo oggi, non si è mai prodotto nel mondo occidentale e non esistono quindi casi di Classici che siano stati privati del loro titolo. 6.11 La medietà del Classico Medius tutissimus ibis. Ovidio, Metamorfosi. Abbiamo fin qui visto come l’idea di Classico si leghi sempre a caratteristiche di per se stesse eccezionali; esiste però anche una tradizione che ha radici quantomeno nel pensiero oraziano e che riconosce l’eccellenza alla medietà quanto meno in riferimento alla forma. Non soltanto nella letteratura italiana ma anche in quella latina e nelle letterature moderne più strettamente collegate con la lingua e la produzione letteraria di Roma antica, come per esempio la francese, sembra che la lingua e lo stile di alcuni scrittori possano diventare la base del canone solo se abbiano in sé i caratteri della medietà, solo cioè se siano ugualmente lontani dalla colloquialità e dal sublime più elevato, da certa primitiva rudezza come dalla raffinatezza estrema88 . Curi prosegue indicando gli illustri predecessori di questa teoria, il nome più antico che porta ad esempio è quello di Quintiliano. Per Quintiliano, infatti - il quale, occorre non dimenticarlo, giudica assai più spesso da retore che da critico letterario o da teorico della lingua -, i due modelli supremi sono Virgilio e Cicerone. Virgilio è per lui avvicinabile a Omero89 . 88 89 304 Fausto Curi, Canone e anticanone. Studi di letteratura, Pendragon, Bologna 1997, p. 11. Fausto Curi, Canone e anticanone. Studi di letteratura, Pendragon, Bologna 1997, p. 11. 6.12. Il genere del Classico Il secondo nome portato ad esempio è Bembo, di cui ci vengono di nuovo presentati gli ideali di eccellenza Ma, per tornare all’equidistanza, giova osservare che essa viene stabilita anche dal Bembo, per il quale, infatti, né prima né dopo Petrarca e Boccaccio “il grande crescere della lingua” è pervenuto al livello cui è giunto con quei due sommi90 . Segue poi l’analisi dell’idea di Boileau e di Sainte-Beuve di cui abbiamo ampliamente detto nei capitoli 4.3 e 5.3; infine viene presentata l’opinione di Contini che ravvisa questa medietà di nuovo in Petrarca A offrirci una prima conferma è Gianfranco Contini quando osserva che, nella lingua del Petrarca, “l’unità di tono e di lessico” si realizza “lungi dagli estremi, ma lontano anche dalla base, sopra la base, naturale, strumentale, meramente funzionale e comunicativa e pratica91 . È anche vero che le caratteristiche modellizzanti che pertengono al Classico potrebbero aver generato il processo inverso; si potrebbe insomma dire che la medietà di una lingua si conforma sulla lingua adottata da alcuni autori canonici o più in generale dal canone. A tutto questo possiamo aggiungere infine che il carattere di medietà può essere ravvisato anche nella trattazione di Eliot, in quello stile comune che è la marca più alta del concetto di maturità; di questo però abbiamo già detto nel capitolo 5.4. 6.12 Il genere del Classico L’arte non deve temere la forma. Viktor Sklovsky, Viaggio sentimentale. 90 91 Fausto Curi, Canone e anticanone. Studi di letteratura, Pendragon, Bologna 1997, p. 13. Fausto Curi, Canone e anticanone. Studi di letteratura, Pendragon, Bologna 1997, p. 11. 305 6. Ipotesi teoriche per una definizione La vetta dell’eccellenza letteraria è spesso stata occupata da opere di genere poetico, tanto che può sembrare che la stessa forma della poesia sia in qualche modo superiore alla prosa. È possibile trovare una prova di questo nelle parole di Dante, all’inizio del secondo libro del De vulgari eloquentia. Sed quia ipsum prosaycantes ab avientibus magis accipiunt et quia quod avietum est prosaycantibus permanere videtur exemplar, et non e converso - que quendam videtur prebere primatum -, primo secundum quod metricum est ipsum carminemus, ordine pertractantes illo quem in fine primi libri polluximus92 . Se la categoria del Classico appartiene alle opere sommamente eccellenti e se la poesia supera in questo la prosa, si potrebbe inferire che il Classico è sempre un’opera poetica. D’altra parte altri, tra cui Goethe, ritengono che il genere non impedisca ad un’opera di raggiungere l’eccellenza ed essere quindi considerato un Classico: « Alles vortreffliche ist klassisch, zu welcher Gattung es immer gehőre93 ». In Dante, oltre al credito assegnato alla poesia, non sussiste comunque una preferenza assoluta di genere, l’elemento fondamentale sta piuttosto nell’unità tra genere e stile che ci riporta piuttosto alla categoria dell’uno di cui abbiamo già detto94 . Resta da dire che fatte salve le categorie di poesia e di prosa non tutte le epoche storiche hanno prodotto testi che è possibile far risalire a tutta la gamma di genere che oggi conosciamo; di questo erano ben consapevoli Alastair Fowler e Harold Bloom che ci cita il primo proprio in riferimento a questo. Dobbiamo arrenderci all’evidenza che la gamma completa dei generi non è mai ugualmente, e tanto meno pienamente, disponi92 De vulgari eloquentia, II, I - 1. Ma perché i prosatori, per lo più, lo ricevono dai poeti; e perchè si vede che il volgare legato in versi resta di modello ai prosatori, e non accade l’inverso - il che evidentemente comporta una certa supremazia, - dapprima sbroglieremo le questioni relative al volgare illustre in quanto usato poeticamente, trattandone secondo l’ordine che ho prospettato alla fine del primo libro. Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di P. V. Mengaldo, Padova 1968, p. 128. 93 Citato in Wladislaw Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 2006, p. 188. Tutto ciò che è eccellente è classico, a qualsiasi genere appartenga 94 Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di P. V. Mengaldo, Padova 1968, p. 148. 306 6.12. Il genere del Classico bile in ogni periodo. Ciascuna età ha un repertorio relativamente ridotto di generi ai quali i suoi lettori e critici possono rispondere con entusiasmo, e ancora più ristretto è il repertorio disponibile ai suoi scrittori: il canone temporaneo viene a essere fissato per tutti tranne gli scrittori massimi o di maggior possanza o più arcani. Ogni età procede a nuove cancellazioni dal repertorio. In un certo senso, tutti i generi forse esistono in tutte le età, oscuramente incarnati in eccezioni bizzarre e capricciose. [...] Ma il repertorio dei generi attivi è sempre stato ridotto e soggetto a cancellazioni e addizioni proporzionalmente significative95 . La momentanea assenza di un genere non arriva quindi a condizionare «gli scrittori massimi», non perché a loro sia stata concessa tale licenza, tanto più che stiamo lavorando su un giudizio sulla grandezza che è possibile solo a posteriori. Si tratta insomma di una considerazione più descrittiva che prescrittiva; è possibile notare che generi nuovi o dimenticati sono riportati in auge solo da autori che meriteranno, proprio con questa operazione riuscita, il titolo di grandi. I lettori di ogni epoca sembrano, in qualche modo, maggiormente disposti ad accettare un’opera che si discosti dai generi consueti solo se la ritengono di grande valore; per questo è possibile confermare che questa limitazione di genere non trova applicazione qualora si tratti di opere di grande valore e ancor più quando arrivano a meritare il titolo di Classico. Le opere che più di tutte sembrano, per unanime valutazione, meritare il blasone di Classico sono sempre state, nel corso dei secoli, appartenenti a generi di ampio respiro. Nel mondo antico l’epica e poi in quello moderno il romanzo, a iniziare dalla sua forma medievale. A proposito del romanzo medievale Segre ebbe a dire infatti che: Il romanzo, non appena affermatosi come genere autonomo, rivela chiare tendenze egemoniche, e aspira a inglobare in qualche modo gli altri generi, diventando, più che genere guida, genere «totale»96 . 95 Alastair Fowler citato in Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 18. 96 Cesare Segre, Teatro e romanzo, Einaudi, Torino 2000, p. 72. 307 6. Ipotesi teoriche per una definizione I generi ampi possono conservare in sé la radice di tutti gli altri generi, la narrativa ampia si concede ampi spazi per descrivere, esporre, argomentare e persino regolamentare un’intera civiltà. Tra epica, il racconto degli dei eterni e immutabili, e romanzo, il racconto dell’individuo e del suo personale viaggio, infine troviamo una specie di genere ibrido, con un solo esemplare disponibile per l’esempio, si tratta ancora una volta della Divina Commedia. Hegel, la cui influenza sul modo stesso di pensare della cultura continentale è stata determinante proclama che la Commedia, l’unica opera mai composta in cui l’individualità si presenta fissata sotto le spoglie dell’eterno, costituisce l’epos vero e proprio del Medioevo cattolico97 . Il legame con l’epica costituisce il ponte che lega quest’opera al passato, il rapporto con il romanzo invece sembra costituire un ponte con il futuro, in una prima grande esplosione di varietà di materia e di punti di vista che sarà la marca distintiva propria del romanzo. Per prima cosa, il romanzo è per noi un grande fatto culturale, che ha ridefinito il senso della realtà, il fluire del tempo e dell’esistenza individuale, il linguaggio e le emozioni e i comportamenti. Romanzo come cultura, dunque; ma certo anche come forma, e anzi forme, plurale, perché nella sua lunga storia si incontrano le creature più sorprendenti, e l’alto e il basso si scambiano volentieri di posto, e i confini stessi dell’universo letterario diventano incerti. A volte viene da pensare a Babele. Ma è proprio questa flessibilità che ha fatto del romanzo la prima forma simbolica davvero mondiale: una fenice che ovunque si trova sa riprendere il volo, e ha l’astuzia di azzeccare sempre il linguaggio giusto per i suoi nuovi lettori98 . 97 Piero Boitani, Letteratura europea e Medioevo volgare, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 244- 245. 98 Introduzione di Franco Moretti a Il romanzo vol.1 La cultura del romanzo, Einaudi, Torino 2001, p XVII. 308 6.13. Lo stile del Classico A questo punto si potrebbe contestare l’assenza in queste pagine di qualsiasi accenno al teatro; il teatro fa sicuramente parte della letteratura per l’uso che fa della parola, a questa si aggiungono però anche molti altri elementi come abbiamo già visto attraverso le stesse parole di Aristotele nel capitolo 2.1. Montale ebbe modo di spiegare il problema durante una serie di interviste radiofoniche per la Radio della Svizzera italiana che la Rete 1 mandò in onda nel marzo del 1972. Non si sa se il teatro appartenga alla letteratura. Questo è il fatto. Quasi tutte le storie letterarie lo ignorano. Bisogna fare una storia a parte del teatro, perché nessuno sa dove collocarlo. Se il teatro è tante cose, se è una summa di tutte le altre arti, se si deve giudicare la pièce come un prodotto eseguito non più a quattro mani, a sei, a dieci, a venti mani, in cui si inseriscono il regista, il parrucchiere, il costumista, il suggeritore e il pubblico, che alcuni identificano con l’opera stessa sostenendo che è il vero personaggio della commedia... Con tutte queste complicazioni, non so dove si va a finire e qualunque capolavoro può venir fuori a modo suo, diciamo così99 . Il teatro risulta quindi la somma di molte arti e la sua analisi richiede quindi conoscenze diverse. Nulla sembra però vietare al teatro di raggiungere le più alte vette letterarie, sempre che rispetti tutte le categorie di cui il Classico partecipa. 6.13 Lo stile del Classico Le style est l’homme même. Georges-Louis Buffon, Discorso sullo stile 99 Eugenio Montale, L’arte di leggere. Una conversazione svizzera, Interlinea, Novara 1998, p. 19. 309 6. Ipotesi teoriche per una definizione Abbiamo parlato del genere del Classico, resta ora da vedere se esita uno stile di questo. Dal momento che il Classico è lo specchio della cultura che lo genera anche lo stile in cui è scritto deve essere aderente, secondo la categoria della bellezza e della verità, al giudizio che l’epoca dà dello stile. Ci siamo chiesti, nel capitolo 2.3, se potrà essere classica un’opera che, ad esempio, partecipi della categoria del sublime; non esiste motivo che lo escluda. In un periodo che consideri il sublime come la vetta delle idee coeve di bello buono, vero, uno, questa opera potrà assurgere alla categoria del Classico di genere prima e se poi il tempo mostrerà più alto ancora il suo valore salirà fino alla vetta del Classico della cultura occidentale. Abbiamo appena citato il Classico di genere, vediamo ora di cosa si tratta. 6.14 I gradi del Classico Est modus in rebus. Orazio, Satire. Resta a questo punto un’ultima domanda sulla questione del Classico e cioè se esiste una gradazione nel concetto, se esitono cioè opere che sono meno classiche di altre pur restando classiche. La scienza letteraria occidentale ha da sempre individuato una gradualità nel valore che può accordare a diverse opere; si tratta di vedere se il Classico costituisce la vetta più alta o più ampiamente le numerose cime di una vasta catena montuosa. L’esistenza di una poesia minore è accettata comunemente, così Eliot, ad esempio, negando l’assegnazione di confini certi ne certifica l’esistenza. I do not propose to offer, either at the beginning or at the end, a definition of ’minor poetry’. The danger of such a definition would 310 6.14. I gradi del Classico be, that it might lead us to expect that we could settle, once for all, who are the ’major’ and who are the ’minor’ poets100 . La poesia, così come anche gli altri generi letterari conosce quindi una forma minore, questa costituisce, per così dire, la base della letteratura; costituisce l’ampia pianura che sarà la base del nostro schema di valutazione101 . Alcune opere, in riferimento alle prime considerate maggiori, costituiscono un vasto, seppur minore per estensione, altopiano; si tratta di quelle opere che per la la loro abituale presenza nelle antologie potrebbero prendere da queste il nome. Al di sopra di queste “opere d’antologia” ci sono alcune opere che è bene leggere intere, alcune sono fondamentali per una letteratura nazionale e spesso non superano di molto questo ambito regionale; altre lo superano ma al contrario restano legate al genere a cui appartengono. Altre ancora sono significative solo in riferimento ad entrambi i parametri, sia regionale che di genere. Continuando la metafora potremmo dire che al centro dell’altopiano si leva una catena montuosa; in essa ogni monte raggiunge la sua vetta, l’insieme di queste vette costituisce quello che comunemente chiamiamo canone anche se spesso le opere che ci si trovano vengono definite come Classici di genere o Classici nazionali oppure ancora, più in basso, come Classici nazionali di genere. Quasi tutte queste vette, divise nei loro gruppi, arrivano, all’incirca, alla stessa quota tranne pochissime che svettano sulle prime tanto e più di quanto queste si alzino dall’estesa pianura. Queste ultime vette costituiscono i Classici. La distinzione tra canone e Classico è ben spiegata da Eliot We may for instance speak justly enough of the poetry of Goethe as constituting a classic, because of the place which it occupies in its own language and literature. Yet, because of its partiality, of the impermanence of some of its content, and the germanism of 100 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 39, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 401. Non mi propongo di offrire, né al principio né alla fine del presente saggio, una definizione di “poesia minore”. Infatti una definizione ci farebbe presumere di poter stabilire una volta per sempre quali poeti sono “maggiori” e quali “minori”. 101 La metafora “altimetrica” è già stata usata da Sainte-Beuve, come abbiamo visto nel capitolo 5.3. 311 6. Ipotesi teoriche per una definizione the sensibility; because Goethe appears, to a foreign eye, limited by his age, by his language, and by his culture, so that he is unrepresentative of the whole European tradition, and, like our own nineteenth-century authors, a little provincial, we cannot call him a universal classic. He is an universal author, in the sense that he is an author with whose works every European ought to be acquainted: but that is a different thing 102 . Il canone, seppur in misura minore partecipa dalle stesse categorie del Classico, così ad esempio Curi. Diversamente da ciò che pensa Harold Bloom, un canone letterario non è un florilegio o una crestomanzia, e non è neppure la Biblioteca dei Classici. Un canone letterario è una struttura legislativa, un insieme di norme stilistiche incarnato in alcuni autori, e solo in quelli, ossia è un codice. Giova aggiungere che il codice, ossia il canone, si costituisce quando una civiltà letteraria, arrivata a un certo punto del suo sviluppo, sente il bisogno, per usare un termine di Habermas, non solo di un’“autocomprensione”, ma anche di rendere certa e permanente questa “autocomprensione” mediante l’elaborazione di alcune inflessibili regole103 . Questa vicinanza di metodo nella categorizzazione di Classico e canone ha spesso fatto sì che questi due concetti venissero quasi sovrapposti, tanto che la ricerca degli autori più grandi è portata avanti anche da indagini che si proponevano di indagare il canone. Così ad esempio Harold Bloom che inizia il suo The Western Canon. The books of the Ages definendo il canone e i suoi propositi 102 T.S. Eliot, On Poetry and Poets, Faber & Faber, London 1957, p. 67, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 491. Potremo dire per esempio, abbastanza giustamente, che quella di Goethe è la poesia di un classico, tenendo conto del posto che occupa nella lingua e letteratura tedesca; ma considerandone l’ambito parziale, la caducità di certi temi, la sensibilità tipicamente germanica; e osservando che Goethe, a un occhio straniero, appare limitato dall’epoca, dalla lingua, dalla cultura, e dunque non rappresenta l’intera cultura europea, ma è – come i nostri autori dell’Ottocento – un poco provinciale, allora non potremo più chiamare questo poeta un classico universale. È autore universale nel senso che ogni europeo dovrebbe conoscerne le opere: ma la cosa è diversa. 103 Fausto Curi, Canone e anticanone. Studi di letteratura, Pendragon, Bologna 1997, p. 7. 312 6.14. I gradi del Classico Il presente libro prende in considerazione ventisei scrittori, inevitabilmente con una certa nostalgia, dal momento che cerco di identificare le qualità che hanno reso tali autori canonici, vale a dire autorevoli nella nostra cultura. [...] La mia sequenza storica inizia con Dante e si conclude con Samuel Beckett104 . L’operazione compiuta da Bloom, interessante e significativa, può essere contestata nei suoi limiti cronologici. Come abbiamo visto all’inizio di questo capitolo, nelle nostre ipotesi teoriche, togliere dal novero l’intera civiltà classica significa implicitamente negare alla nostra età e alla nostra cultura la sostanziale continuità con il mondo antico greco e romano. D’altra parte prendere in considerazione Beckett a soli cinque anni dalla morte, come fece Bloom nel 1994 all’uscita del suo libro, può apparire quanto meno prematuro come già visto nel capitolo 6.8 e dallo stesso Bloom confermato: «La profezia canonica ha bisogno di essere messa alla prova per circa due generazioni dopo la morte di uno scrittore105 ». A questo bisogna aggiungere che ventisei autori sono davvero molti, se non per costituire un canone, per essere definiti Classici di una cultura, di una cultura unitaria. Bloom ha dunque davvero indagato il canone piuttosto che il Classico come invece fece T. S. Eliot. Da una parte lo avrà spinto la diffidenza verso questo autore ben espressa nella sua Conclusione elegiaca Ho cominciato la mia carriera didattica quasi cinquant’anni fa in un contesto accademico in cui predominavano le idee di T.S. Eliot, ed erano idee che mi mandavano su tutte le furie, e contro le quali ho lottato con tutte le mie forze106 . Un’altra prova può essere ritrovata nel suo stesso rammarico di non aver potuto trattare, invece che ventisei, quattrocento autori. La scelta degli autori in questo libro non è arbitraria come può sembrare. Essi sono stati selezionati sia per la loro sublimi104 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 1. 105 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 463. 106 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 459. 313 6. Ipotesi teoriche per una definizione tà sia per il loro carattere rappresentativo: se è possibile un libro su ventisei autori, non lo è un libro su quattrocento. Certo, sono qui rappresentati i maggiori scrittori occidentali dopo Dante Chaucer, Cervantes, Montaigne, Shakespeare, Goethe, Wordsworth, Dickens, Tolstoj, Joice e Proust. Ma dove sono rimasti Petrarca, Rabelais, Ariosto, Spenser, Ben Jonson, Racine, Swift, Rousseau, Blake, Puskin, Melville, Giacomo Leopardi, Henry James, Dostoevskij, Hugo, Balzac, Nietzsche, Flaubert, Baudelaire, Browning, Cechov, Yeats, D.H. Lawrence e tanti altri? Ho tentato di rappresentare canoni nazionali mediante le loro figure fondamentali: Chaucer, Shakespeare, Milton, Wordsworth, Dickens per l’Inghilterra; Montaigne e Molière per la Francia; Dante per l’Italia; Cervantes per la Spagna; Tolstoj per la Russia; Goethe per la Germania; Borges e Neruda per l’America Latina; Whitman e la Dickinson per gli Stati Uniti. Qui è presente la sequenza dei maggiori drammaturghi: Shakespeare, Molière, Ibsen e Beckett; e dei romazieri: Austen, Dickens, George Eliot, Tolstoj, Proust, joyce e la Woolf. I Dottor Johnson è presente quale massimo critico letterario dell’Occidente: sarebbe difficile trovargli un rivale107 . In Bloom è dunque presente sia la nozione di canone nazionale che di canone di genere che abbiamo fatto nostra come Classico nazionale e Classico di genere. A questo punto potremmo anche dedurre che lo stesso Bloom riconosca nel suo canone almeno tre gradazioni, prima i ventisei, poi quegli autori di cui fa qui il nome con rammarico e infine i quattrocento. A queste tre gradazioni infine dovremo aggiungere una vetta, un’ipotesi di Classico; nel corso dell’intero libro infatti tra i ventisei emergono solo due autori considerati superiori a tutti gli altri, nell’ordine Shakespeare e Dante; autori alla cui originalità si aggiunge anche l’inimitabilità di cui abbiamo già detto nel capitolo 6.7. È questo un altro modo di ripetere ciò che sono stato indotto ad affermare in tutto questo libro: il Canone Occidentale è Shake107 p. 2. 314 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, 6.15. Questioni speare e Dante108 . Purtroppo su questo sistema di gradazione adottato da Bloom non possiamo dire altro dal momento che ne manca una trattazione definita. Da ultimo bisogna aggiungere un’ultima considerazione; la costituzione stessa di un canone, così come anche l’identificazione del Classico, non è immune da possibili critiche. Non solo si levano lamentele per la costituzione di un detrminato canone ma anche per l’atto in se stesso. Coloro che contestano il Canone, insistono ad affermare che nella formazione di canoni è sempre implicita un’ideologia; si spingono anzi più in là, e parlano dell’ideologia della formazione dei canoni, suggerendo che costruire un canone (o perpetuarne uno) è in sé per sé un atto ideologico109 . Questa resistenza al canone e al Classico non colpisce tutte le categorie di cui partecipa; il timore dell’ideologia punta il dito sulla categoria del buono. Proprio perchè un Classico porta avanti una tradizione non solo di bellezza, unità e verità ma anche di bontà, la contestazione dell’etica di una cultura porta a contestarne i Classici. Quando l’etica dominante di un particolare clima culturale contesta la stessa trasmissione dell’etica, lo stesso atto di fondare un canone e definire il Classico può essere ugualmente contestato. 6.15 Questioni «Altra risposta,» disse, «non ti rendo / se non lo far; ché la dimanda onesta / si de’ seguir con l’opera tacendo». Dante, Inferno, XXIV, 76-78 108 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 462. 109 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 19. 315 6. Ipotesi teoriche per una definizione A questo punto dobbiamo porci una domanda fondamentale che stiamo rimandando almeno dall’inizio di questa terza parte dell’indagine; se il Classico è lo specchio più alto e limpido di una cultura e della civiltà che l’ha generata; se il Classico occidentale partecipa necessariamente delle categorie definite come uno, vero, bello e buono; allora la cultura Occidentale, dopo ventisei secoli di sviluppo, è ancora ancorata al pensiero di Platone, uno dei suoi stessi fondatori? Tutta l’evoluzione del mondo occidentale è stata solo un lieve accidente per la civiltà europea? Infine, sono proprio queste le caratteristiche che cambiando porteranno la prova dell’avvento di una civiltà nuova? La risposta a questa domanda, in tutte le sue varianti appare come l’anello che chiude la catena. La nostra prima premessa, l’unitarietà della cultura occidentale sia in termini di tempo che in termini di spazio diventa adesso l’ultimo corollario, un’ideale verifica, delle nostre conclusioni. 6.16 Il futuro del Classico Non penso mai al futuro. Arriva così presto. Albert Einstein, 1930. Quando, tre anni orsono, iniziai questa ricerca, il campo di indagine mi sembrava così vasto, sia in termini temporali (ventisei secoli di storia) che spaziali (l’intero mondo occidentale) da rendere l’impresa cui mi stavo accingendo un eccesso non solo in termini di impegno ma soprattutto in termini intellettuali. Forte era il timore di tentare vanamente di unire tempi e spazi troppo distanti perché la ricerca fosse valida. Oggi, dopo molti sforzi, il timore predominante si pone quasi agli antipodi rispetto ad allora. Nella ricerca forsennata di definire luoghi e tempi ho incontrato invece i nonluoghi e il nontempo, sintomo ed esito di una globalizzazione che da economica e finanziaria diventa soprattutto, ogni giorno con più evidenza, culturale. Ho iniziato a pensare che, pur senza rendermene conto, ho indagato un campo, il mondo occidentale, proprio alla vigilia del suo tramonto. 316 6.16. Il futuro del Classico Nessuna epoca è mai stata esente da duri giudizi su se stessa, di laudatores temporis actis non si è mai sentita la mancanza; eppure mi sembra di cogliere qualcosa di diverso, più profondo e motivato, nelle lamentele dei mostri giorni. Il processo stava evidentemente maturando da tempo, goccia dopo goccia il vaso ha preso a riempirsi e le due guerre mondiali sembrano aver segnato il punto di non ritorno. Proprio nel periodo tra le due guerre, quando più chiaramente si vedeva che l’esperienza della prima guerra non era bastata a deviare il corso che gli eventi stavano prendendo, da più parti si iniziarono a levare i lamenti per la fine della civiltà. Gli esempi che si potrebbero addurre sono moltissimi, si pensi solo a Der Undergang des Abendlands di Spengler che è del 1917, Der Historismus und seine Probleme di Ernst Troeltsch del 1922 o a Deutscher Geist in Gefahr110 che Curtius scrisse nel 1932 e a cui fece seguire, complementare nelle finalità, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter nel 1948111 . Con più lucidità, la lucidità concessa dal tempo e dalla distanza, ci sembra di poter dire che stiamo assistendo alla fine di questa civiltà. Secondo alcuni la crisi riguarda solo il mondo culturale e letterario come ad esempio Bloom. Non credo che gli studi letterari abbiano un futuro, ma ciò non significa che la critica letteraria sia destinata a morire. La critica quale ramo della letteratura sopravviverà, ma probabilmente non nelle nostre istituzioni didattiche. E continuerà anche lo studio della letteratura occidentale, ma sulla scala assai più modesta dei nostri attuali dipartimenti di studi classici112 . Secondo altri questo stesso declino culturale e letterario non può essere spiegato se non come un declino di civiltà, la nostra civiltà; oppure il declino culturale piuttosto che essere un effetto del declino della civiltà può esserne, al contrario la causa. Certo è che se il declino della civiltà è causato dalla caduta degli 110 Ernst Robert Curtius, Deutscher Geist in Gefahr, Deutsche Verlags-Anstalt 1932. Ernst Robert Curtius, Europäische Literatur und Lateinisches Mittelalter, Bern 1948, tradotto in Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 2006. 112 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1994, p. 460. 111 317 6. Ipotesi teoriche per una definizione studi umanistici rimane almeno la speranza di un’inversione di tendenza di cui possiamo essere fautori, la speranza insomma di non essere completamente impotenti si fronte a questo declino generalizzato. È questa la posizione assunta da Martha C. Nussbaum in un libro datato solo 2010, forse l’ultimo contributo in ordine di tempo sull’argomento113 . D’altra parte il compito è tale da scoraggiare ogni intervento personale, la posta in gioco non è la sopravvivenza di una oscura civiltà minore nascosta nella foresta, l’estinzione questa volta ci tocca troppo da vicino, e forse è stato proprio questo a spaventarci tanto da definire questo processo inarrestabile quanto fisiologico di cambiamento come la fine della civiltà tout court. T.S. Eliot, al termine dei suoi Appunti per una definizione della cultura ricorda infatti che «Every change we make is tending to bring about a new civilization of the nature of which we are ignorant, and in which we should all of us be unhappy114 ». Le considerazioni di Eliot su questo crollo di civiltà è lontano da ogni allarmismo, sembra infatti semplicemente prendere atto di un inarrestabile cambiamento che a un certo punto ci avrà portato così lontano da renderci conto di colpo di essere in un mondo diverso, non necessariamente peggiore; per lui infatti non stiamo perdendo una cultura perfetta, che in effetti non è mai esistita. We have to admit, in comparing one civilization with another, and in comparing the different stages of our own, that no one society and no one age of it realises all the values of civilization 115 . Il che sembra indicare che anche una civiltà idealmente perfetta non necessariemante esprime la sua perfezione attraverso la sua cultura, ciò nonostante 113 Martha Nussbaum, Not for profit. Why democracy needs the humanities, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2010. 114 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 18, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 527. Ogni mutamento che noi compiamo, tende a realizzare una civiltà nuova, della cui natura siamo ignari, ed in cui noi tutti saremmo infelici. 115 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 18, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 527. Dobbiamo ammettere, confrontando una civiltà con un’altra, che nessuna società, e nessuna età di essa, realizza tutti i valori della civiltà. 318 6.16. Il futuro del Classico continua We can assert with some confidence that our own period is one of decline; that the standards of culture are lower than they wewre fifty years ago; and that the evidences of this decline are visible in every department of human activity116 . Eliot si rende perfettamente conto che il declino di una civiltà, seppur preluda ad un lungo periodo di imbarbarimento, porta infine ad una civiltà nuova. Dopo aver trattato per più di cinquanta pagine della cultura europea, e della necessità del regionalismo come positiva divisione interna, inizia ad interrogarsi sul senso di una cultura mondiale. For it must follow from what I have already pleaded about the value of local cultures, that a world culture which was simply a uniforme culture would be not a culture at all. We should have a humanity de-humanised. It would be a nightmare. But on the other hand, we cannot resign the idea of world-culture altogether. For if we content ourselves with the ideal of ’European culture’ we shall still be unable to fix any definite frontiers. European culture has an area, but no definite frontiers: and you cannot build Chinese walls. The notion of a purely self contained European culture would be as fatal as the notion of a self-contained national culture: in the end as absurd as the notion of preserving a local uncontaminated culture in a single country or village of England. We are therefore pressed to maintain the ideal of a world culture, while admitting that it is something we cannot imagine. We cannot only conceive it, as the logical term of relations between cultures 117 . 116 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 19, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, pp. 527-528. Possiamo asserire con una certa sicurezza che il nostro è un periodo di declino; che la media della cultura è più bassa che non cinquanta anni or sono; e che le prove di questo declino sono evidenti in ogni settore dell’attività umana. 117 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 62, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 574. Poiché deve seguire da quanto ho già addotto sul valore delle culture locali, che una cultura mondiale, qualora 319 6. Ipotesi teoriche per una definizione Da quando Eliot scrisse queste parole, ad oggi molte altre voci si sono unire al coro registrando, di volta in volta, un progressivo rafforzamento di questo processo di declino ravvisabile proprio nell’omologazione di culture anche tra luoghi immensamente distanti. Si tratta almeno in parte di quella chiusura definita in egoismo sociale e relativismo assoluto trattato nel 1987 da Allan Bloom in The Closing of the American Mind118 . Dopo venticinque anni dall’uscita di questo libro si è portati a credere che quanto era apparso in America si sia poi trasmesso anche all’Europa prima e poi verso ogni direzione raggiungibile come ebbe modo di osservare B. R. Hardman119 . Nel mondo contemporaneo, nel quale la maggioranza è educata a metà e molti neppure per un quarto, e nel quale rilevanti fortune ed enorme potere possono ottenersi con lo sfruttamento dell’ignoranza e del capriccio, vi è stato un vasto crollo culturale che dall’America si estese all’Europa e dall’Europa all’Oriente120 . Eliot invece, pur essendo consapevole dello stato delle cose, si pone in disaccordo con questa tesi e sembra negare che la responsabilità Americana superi quanto è avvenuto entro i suoi confini; altro non fosse se non una cultura uniforme, non sarebbe affatto una cultura. Avremmo una umanità disumanizzata. Sarebbe un incubo. Ma d’altro canto non possiamo rinunciare del tutto all’idea di una cultura mondiale. Se ci accontenteremo infatti dell’ideale della “cultura europea” saremo pur sempre incapaci di darle esatti confini. La cultura europea ha un’area ma non frontiere definite, né si possono costruire muraglie cinesi. L’idea di una cultura europea interamente contenuta in se stessa sarebbe fatale, come l’idea di un’analoga cultura nazionale: sarebbe in conclusione assurda quanto l’idea di preservare una cultura locale incontaminata in una singola contea o villaggio d’Inghilterra. Siamo dunque costretti a non rinunciare all’ideale di una cultura mondiale, pur ammettendo che è qualcosa che non riusciamo ad immaginare. Possiamo soltanto concepirla come un logico termine delle relazioni tra le culture. 118 Allan Bloom, The Closing of the America Mind, Simon & Schuster, New York 1987, edizione italiana: Allan Bloom, La chiusura della mente americana. I misfatti dell’istruzione contemporanea, Lindau, Torino 2009. 119 «Come Segretario Parlamentare del Ministero dell’Educazione parlando il 12 gennaio ’46 all’adunata generale dell’associazione dei capi di istituto del Middlesex» T.S. Eliot, Opere 19391962, Bompiani, Milano 2001, p. 621. 120 Citato inT.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 621. 320 6.16. Il futuro del Classico The cultural breakdown is not a kind of infection which began in America, spread to Europe, and from Europe has contaminated the East 121 . La responsabilità maggiore è a suo parere ravvisabile a monte nel fatto che la mezza educazione è un fenomeno moderno. Il mondo occidentale, così come il mondo orientale e ogni altra classificazione geografico-culturale sta svanendo, inglobato nella surmodernité, la surmodernità: un concetto fin troppo vicino all’«umanità disumanizzata», l’incubo di Eliot. La surmodernità è il risultato delle tre forme attuali dell’eccesso; eccesso di tempo, perché la storia sembra accelerare e avvicinarsi; eccesso di spazio, perché l’intero pianeta sembra restringersi e permette a molti di sentirsi coinvolti da eventi anche molto lontani geograficamente; eccesso di individualismo, perché ciascun individuo è preso direttamente in causa dai mezzi di comunicazione122 . Marc Augé identifica, come marca della globalizzazione, della surmodernità, i nonluoghi, La surmodernità - che risulta simultaneamente dalle tre figure dell’eccesso, ovvero la sovrabbondanza di avvenimenti, la sovrabbondanza spaziale e l’individualizzazione dei riferimenti - trova naturalmente la sua espressione più completa nei non luoghi123 . Per definire questi non-luoghi è necessario iniziare definendo il luogo che, beninteso, non è solo fisico, geografico, ma che include anche il rapporto che gli uomini hanno con esso e con gli altri uomini che con loro lo condividono124 . 121 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 105, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 621. Il crollo culturale non è una sorta di infezione cominciata in America, diffusasi in Europa, e che dall’Europa ha contaminato l’Oriente. 122 Marc Augé, Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, Elèuthera, Milano 2009, pp. 53-54. 123 Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2009, p. 97. 124 La nozione sociologica di luogo è associata da una certa tradizione etnologica con in testa Mauss a quella di cultura localizzata nel tempo e nello spazio si veda Marcel Mauss, Sociologie et anthropologie, PUF, Paris 1966 e la traduzione italiana Marcel Mauss, Teoria generale della magia e altri scritti, Einaudi, Torino 1965. 321 6. Ipotesi teoriche per una definizione Il luogo antropologico si definisce innanzitutto come il luogo del chez soi, “a casa propria”, il luogo dell’identità condivisa, il luogo comune a coloro i quali, abitandolo insieme, sono identificati come tali da chi non lo abita125 . Il carattere identitario non è l’unico che contraddistingue il luogo, il luogo ha infatti almeno tre caratteri comuni: è identitario, relazionale e storico. Ho definito «luogo antropologico» ogni spazio in cui possono essere lette le iscrizioni del legame sociale e della storia collettiva. Tali inscrizioni sono chiaramente più rare negli spazi marchiati dal sigilli dell’effimero e del passaggio126 . Si crea quindi una situazione in cui l’etichetta di luogo non è perfettamente determinata e a volte sfuma, per così dire verso il suo opposto, in alcuni casi quasi a raggiungerlo. Non bisogna quindi pensare questa opposizione tra luogo e nonluogo come irriducibile. A questo punto sono necessarie alcune precisazioni. Prima di tutto le nozioni di luogo e di non-luogo sono evidentemente delle nozioni limite. C’è del non-luogo in ogni luogo e in tutti i nonluoghi possono ricomporsi dei luoghi. Detto altrimenti: luoghi e non luoghi corrispondono a spazi molto concreti, ma anche ad atteggiamenti, a posture, al rapporto che degli individui hanno con gli spazi in cui vivono o che percorrono127 . Ma sono forse questi nonluoghi, nelle loro assenze, così diversi da come i grandi luoghi di passaggio del mondo greco dovevano apparire per il viaggiatore? Questa categoria di luoghi, anzi di nonluoghi, non è forse sempre esistita nel porto prima, nella stazione ferroviaria dopo, nell’aereoporto oggi? Ė vero che oggi i non-luoghi si moltiplicano ma è anche vero che il mondo a cui appartengono e che oggi addirittura identificano è immensamente più vasto di quanto 125 Marc Augé, Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, Elèuthera, Milano 2009, p. 42. Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2009, p. 8. 127 Marc Augé, Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, Elèuthera, Milano 2009, p. 57. 126 322 6.16. Il futuro del Classico non sia stato prima, e quasi generalizzato, sul pianeta. Un ipotetico viaggiatore che ventisei secoli fa avesse avuto modo di vedere tutti i grandi porti di tre continenti avrebbe notato molte più differenze che visitando oggi gli aereoporti di tutto il pianeta, eppure la categoria di porto come luogo di passaggio sarebbe comunque emersa anche allora. Del resto non è possibile prescindere dal luogo, spaziale e storico, dove si situa l’occhio che guarda, è il «vantaggio fondamentale di cui godono gli storici: essi conoscono il seguito128 ». L’antropologia storica cerca di osservare il passato come un presente e ne prende in considerazione, in una visione olistica, la totalità degli aspetti e l’insieme della determinazioni. In senso inverso, la nuova storia delle idee pone al presente interrogativi per i quali pensa di trovare elementi di risposta nel passato, ma in certo modo è ciò che scopre nel presente che orienta e sostiene la sua riscoperta del passato129 . Anche la visione del futuro, sia quando è vista con entusiastico ottimismo che quando è vista con orrore e pessimismo ripresenta la possibilità di questi nonluoghi. Forse Jean-François Lyotard si sbagliava quando si riferiva alla fine delle «grandi narrazioni130 », quei grandi miti, nati nel xviii secolo che raccontavano un domani migliore, perfetto nella sua organizzazione del mondo. Basti a questo proposito pensare alla ricca letteratura e cinematografia fantascientifica che immagina un futuro quasi sempre esaltante, con nuovi, innumerevoli e immensi non-luoghi; questi sono le stazioni spaziali che già oggi, nell’immaginazione e nella fantasia, sono luoghi di passaggio per le nuove specie extraterrestre che alternativamente si spera o si teme di incontrare nella nuovo frontiera interstellare. Se «il non luogo è il contrario dell’utopia: esso esiste e non accoglie alcuna società organica131 », questi nonluoghi del futuro coincidono proprio con l’utopia più sfrenata che immagina e sogna un luogo 128 Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2009, p. 34. 129 Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al nontempo, Elèuthera, Milano 2009, p. 75. 130 Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 2001. 131 Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2009, p. 99. 323 6. Ipotesi teoriche per una definizione (un non-luogo in realtà) in cui possano, più o meno pacificamente, arrivare a convivere razze extraterrestri diverse, davvero diverse. Un altro punto da prendere in considerazione è la consapevolezza dell’uomo. Quando diciamo «uomo», di chi parliamo? Di tre uomini, in realtà: dell’uomo singolo nella sua diversità (voi, io, miliardi di altri); dell’uomo culturale (che ha connivenze storiche, geografiche o sociali con un certo numero di altri); infine dell’uomo generico (quello che è andato sulla luna, quello che ci ha portati a essere ciò che siamo nel bene e nel male, quello la cui immagine sentiamo ferita quando si attenta alla dignità di un singolo essere umano). E sono questi tre che ne fanno uno: l’individuo concreto e mortale132 . Questi tre uomini di cui parla Augé ricordano molto da vicino la categorizzazione secondo gli attori della cultura fatta da Eliot proprio quando ne registra il declino inarrestabile The term culture has different associations according to whether we have in mind the development of an individual, of a group or class, or of a whole society. It is a part of my thesis that the culture of the individual is dependent upon the culture of a group or class, anf that the culture of the group or class is dependent upon the culture of the whole society to which that group or class belongs 133 . L’unica differenza tra i due gruppi è data dal terzo termine che per Augé è l’uomo generico e per Eliot è più riduttivamente una società. In realtà la differenza non sussiste se solo si prende in considerazione il fatto che proprio con Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al nontempo, Elèuthera, Milano 2009, p. 71. 133 T.S. Eliot, Notes toward the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948, p. 21, tradotto in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, Bompiani, Milano 2001, p. 530. Al termine cultura si connettono differenti associazioni di idee, a seconda che ci si riferisca allo sviluppo d’un individuo, o di un gruppo o di una classe, o della società intera. Fa parte della mia tesi che la cultura dell’individuo è fondata su quella del gruppo o della classe e questa su quella di una società intera, cui appartiene quel gruppo, o quella classe. 132 324 6.16. Il futuro del Classico la globalizzazione dei nostri giorni la società sta lentamente allargandosi a coprire l’intero pianeta e che quindi società, o civiltà, e umanità sono termini che tendono sempre più a sovrapporsi. L’indagine sul Classico che abbiamo condotto, pur riferendosi a uomini nella loro interezza, poneva al centro l’uomo culturale che già era al centro della cultura occidentale da, appunto, ventisei secoli; cosa succede, però, se l’uomo singolo, dopo aver inseguito e raggiunto l’uomo culturale va oggi sempre più pensando se stesso in termini di uomo generico? Cosa succede se per studiare gli autori più recenti sempre più si è costretti ad analizzare le influenze sulla sua produzione, sul suo mondo, di culture altre da quelle occidentali? Abbiamo definito, alla fine del capitolo 1.1, la cultura occidentale in riferimento al suo rapporto con la storia, e con il progresso, come elemento costitutivo fondante; se questo dovesse venir meno anche la cultura lascerebbe il passo a qualcosa di diverso con una propria scala di valori e priorità e quindi con una propria nuova idea di eccellenza e di Classico. Secondo alcuni intellettuali, oggi il tempo non è più un principio di intelligibilità. L’idea di progresso che implicava, l’idea che il dopo potesse spiegarsi in funzione del prima, si è in qualche modo arenato sugli scogli del xx secolo, con la speranza delle speranze o delle illusioni che avevano accompagnato la grande traversata del xix secolo134 . Pur avendo iniziato questa ricerca pensando, in fondo, di aver fatto un passo più lungo della gamba, temo ora con una certa forza di essere invece arrivata in ritardo sul tempo che, da più di un secolo ormai, accelera più di quanto siamo in grado di comprendere e di accettare. Il prossimo Classico, quindi, non sarà forse solo un Classico della cultura occidentale, il Classico di consolidamento della cultura e civiltà occidentale, bensì sarà anche un Classico della cultura umana, un Classico di fondazione della cultura e della civiltà umana, e potrebbe arrivare da un luogo, e da un 134 Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2009, p. 40. 325 6. Ipotesi teoriche per una definizione tempo, insospettabili135 . Viene da chiedersi se questo testo, il prossimo Classico, sarà un libro, un fumetto o meglio ancora un film, o qualcosa d’altro ancora a venire136 . 135 La possibilità di un classico mondiale è suffragata tra l’altro dall’opportunità di compiere studi di letteratura mondiale che era già nel discorso La letteratura mondiale in Luigi Foscolo Benedetto, Uomini e tempi, Milano-Napoli 1953. 136 Sembra essere questa l’ipotesi in Aldo Grasso, Buona Maestra, Mondadori, Milano 2007. 326 Capitolo 7 Ipotesi pratiche per la stesura dell’elenco Un grande classico è uno scrittore che si può lodare senza averlo letto. Gilbert Keith Chesterton, All thing Considered. Un classico è qualcosa che tutti vorrebbero aver letto e nessuno vuol leggere. Mark Twain, The Disappearance of Literature. A questo punto, al termine della nostra analisi, possiamo azzardare un’ipotesi di selezione. Sarà necessario considerare che, dopo il primo, ogni Classico si situa su uno spartiacque e può quindi essere Classico di consolidamento per l’età che lo precede e contemporaneamente Classico di fondazione per l’età che segue. Allo stesso modo bisogna tener conto della permanenza culturale, anche se a volte è quasi dormiente, dei Classici che si sono accumulati, come se il 327 7. Ipotesi pratiche per la stesura dell’elenco rispetto per il genitore si rispecchiasse anche nel dovuto rispetto per i “nonni culturali”, i padri dei padri. Infine dobbiamo ricordare che sebbene la storia della letteratura proceda fluidamente nel corso dei secoli i Classici si presentano a noi molto raramente, esplodendo, per così dire, quasi inaspettatamente, così già diceva Lewis a proposito di Spenser. Esiste una storia della grande letteratura che ha un ritmo più lento di quella della letteratura in generale e che si muove in regioni più alte. Le cose più grandi non operano in fretta1 . Dal momento poi che la cultura occidentale è figlia sia dell’antichità classica che di quella scritturale, la nostra linea non si svolge unica nel tempo. Ha due principi almeno e poi, dopo un periodo di effettiva e quasi totale unità culturale europea, torna a dividersi nelle linee che costituiscono le diverse letterature nazionali. Sebbene l’Europa abbia sempre conosciuto un unico centro, la capitale delle lettere che nei secoli si è spostata in lungo e in largo sul continente. Le due radici antiche sono Omero e, dormiente (o quantomeno chiusa all’interno del mondo ebraico) fino alla nascita del cristianesimo, la Bibbia; quest’ultima, per la sua composizione multipla e diversa per lingua, genere e autore, si configura da sola come intero canone di una cultura. Dopo Omero seguono solo due autentici Classici della cultura occidentale: Virgilio, l’unico classico che sia anche definibile come Classico di consolidamento e Dante. Di qui in poi possiamo ravvisare la categoria del Classico solo in riferimento alle letterature nazionali o ai generi letterari. Così Petrarca, ad esempio, è un Classico per quello che riguarda la lirica, Shakespeare per il teatro. Chrétien è il Classico fondativo della letteratura francese così come Chaucer lo è per la letteratura inglese. Nella letteratura italiana, quella che conosco meglio, possiamo scorgere all’interno del canone Dante, Petrarca e Boccaccio (le tre corone), poi Tasso e Leopardi - che restano un po’ isolati come furono anche nella loro vita terre1 357. 328 C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969, p. na - Manzoni, e poi Carducci, Pascoli e D’annunzio; i più recenti sono ancora troppo recenti. Oltre agli autori appena citati, ma al di sotto, ci sono tutti i Classici di genere e relativi alle letterature nazionali, che, come abbiamo visto nel capitolo 6.13, fanno parte del canone della letteratura occidentale. Il Classico è un’altra cosa. 329 Bibliografia – AA.VV., Storia Ecclesiastica 1, Eusebio di Cesarea, Città Nuova, Roma 2001. – Aelius Donatus, Ars grammatica, H. Holtz, Paris 1981. – Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di P. V. Mengaldo, Padova 1968. – Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Le Monnier, Milano 1998. – Roberto Andreotti, Classici elettrici, BUR, Milano 2006. – Anonimo, Il Sublime, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano 2009. – Gian Mario Anselmi, La saggezza della letteratura, Bruno Mondadori, Milano 2000. – Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008. – Erich Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Feltrinelli, Milano 2007. – Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000. – Erich Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, A. 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