“CHE COSA CERCATE?”
«“Dov’è il tuo tesoro là sarà anche il tuo cuore” (Mt. 6,21). Si
apre qui la distanza tra l’intenzione che Cristo sia l’essenziale
della vita e la sorpresa che tante volte nell’esperienza non è così.
[…] È decisivo cogliere quanto stiamo dicendo per non ridurre
subito tutto al problema dei nostri errori o delle nostre fragilità
quotidiane, delle nostre incoerenze morali. Quando si sottolinea
la distanza tra intenzione ed esperienza, a tema non è prima di
tutto la coerenza, quante volte sbagliamo, ma che cosa ci definisce
anche quando sbagliamo; cioè a tema è il contenuto dell’autocoscienza, quale sia il reale punto di consistenza, che cosa effettivamente perseguiamo e amiamo nell’azione, che cos’è per noi
l’essenziale».
(Nella corsa per afferrarLo, Esercizi della Fraternità - pag. 8).
CHE COSA CERCATE?
È un periodo strano, quello che s’affaccia tra luglio e agosto. Sono settimane in
cui, in un modo o nell’altro, gli schemi saltano, le abitudini pure. E le cose ci si fanno
avanti con un volto insolito, diverso da
quello che mostrano in corso d’anno. Non
è solo una questione di tempi più distesi e
impegni che mollano la presa. Sono proprio le circostanze ad essere diverse. Altri
incontri. Altri luoghi. Basterebbe questo a
farne un’occasione grande, se le prendiamo
sul serio. Il tempo libero è «tempo della libertà», ci ha sempre ricordato don Gius-
sani. Ma per farne cosa?
Domanda che si intreccia con un’altra, scelta dal movimento di CL
come tema di lavoro proprio per le vacanze di quest’anno: «Che cosa
cercate?». Non è una questione da poco. E non solo perché sono le prime
parole che Gesù rivolge ai primi discepoli, a Giovanni e Andrea che si
staccano dal Battista sul Giordano, per seguirLo. È che, in fondo, tutto
il Vangelo può essere letto così, come un continuo ripetersi - in mille
modi e gesti e parole - della stessa domanda posta al cuore di chiunque
Lo incontrasse, da Zaccheo alla Samaritana, dal lebbroso al giovane
ricco, agli apostoli, ai nemici... Che cosa cerchi? Che cosa desideri davvero?
Ecco, l’estate può essere un momento privilegiato per stare di fronte
a questa domanda. Per usarla come chiave di lettura dei fatti che accadono davanti ai nostri occhi, e che d’estate non si fermano, anzi (che
cosa cercano i milioni di profughi che lasciano l’Iraq o la Siria per arrivare qui?). Ma soprattutto per rilanciarla di continuo, a se stessi e a chi
ci sta accanto, nelle tante occasioni che la realtà ci offre: le vacanze, ap2
punto. Il lavoro, per chi continua. Le amicizie. O il Meeting di Rimini,
che quest’anno avrà a tema proprio la compagnia che il Destino fa all’uomo ovunque, in ogni angolo «delle periferie del mondo e dell’esistenza». Che cosa cerchiamo? Cosa riempie il cuore?
Sarà bello e grande aiutarsi a scoprire la risposta nella vita. Non
saperla e recitarla prima, a tavolino. Ma scoprirla in quello che accade.
Perché è quella la prima compagnia che ci fa il Destino: la realtà. È lì
«che il Mistero ci risveglia, ci chiama, ci viene incontro per non farci
decadere nel nulla», come ricordava Julián Carrón a un gruppo di amici
qualche tempo fa. È «attraverso questa cosa assolutamente banale, a
volte cupa, a volte non trasparente, che sono le circostanze: la vita, la
vita ci chiama, chiama ciascuno a viverla». Ci rivediamo a settembre,
per raccontarci cosa succede quando si decide di rispondere a questa
chiamata. Buona estate!
(Tracce, Luglio 2014, pag. 1)
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PROGRAMMA
GIOVEDI’ 24 LUGLIO
Ore 16,00 -19,30
Ore 20,30
Ore 21,45
Arrivi, sistemazioni e saldo quota.
Cena
Introduzione e Santa Messa
VENERDI’ 25 LUGLIO
Ore 7,00 - 8,00
Ore 8,30
Ore 9,00
Ore 12,00
Ore 13,00
Ore 13,30
Ore 14,30
Ore 15,30 - 17,00
Ore 17,00 - 18,30
Ore 18,30
Ore 19,00
Ore 20,00
Colazione
Lodi
Partenza in auto per Racalmuto e visita Fonda
zione Sciascia
Santa Messa nella chiesa Madre di Racalmuto
Partenza per area attrezzata Firrio nel Comune
di Grotte
Consumazione pranzo a sacco
Giochi
Ritorno in albergo e riposo
Tempo libero
Introduzione alla visita alla Valle dei Templi
Cena
Visita in notturna alla Valle dei Templi
SABATO 26 LUGLIO
Ore 7,00 - 8,30
Ore 9,00
Ore 9,30
Ore 12,00
Ore 13,30
Ore 14,30 - 16,30
Ore 17,00
Colazione
Recita delle lodi
Partenza in auto per Museo Archeologico
Santa Messa nella Chiesa di San Nicola
Pranzo in albergo
Riposo
Incontro su Luigi Pirandello
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Ore 19,30
Ore 21,30
Cena
Testimonianza di Pino Ortolano
DOMENICA 27 LUGLIO
Ore 7,00 - 8,30
Ore 9,00
Ore 9,30
Ore 10,00
Ore 11,00 - 12,30
Ore 13,00
Ore 14,30 -15,30
Colazione
Recita delle lodi
Partenza per Agrigento
Santa Messa al Santuario di San Calogero
Tempo libero per visita del Centro storico di
Agrigento
Pranzo
Frizzi e lazzi
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AGRIGENTO
(Foto Roberto Meli)
Akràgas fu una delle più importanti colonie greche della Sicilia, fondata intorno al 582 a.C. da coloni provenienti dalla vicina Gela e da
Rodi. Il sito prescelto fu un altopiano delimitato ai lati dai fiumi Akragas
e Hypsas confluenti a Sud in un unico corso alla cui foce era l’antico
porto (emporion).
Fin dall’inizio - sotto la tirannide di Falaride (570-554 a.C.) - la città
fu caratterizzata da un impianto urbanistico regolare. La Rupe Atenea
era sede dell’acropoli con funzione sacra e difensiva; la Collina dei Templi ospitava i santuari monumentali; nella zona centrale si trovava l’abitato (asty) e gli edifici pubblici, mentre
i defunti venivano sepolti nelle necropoli fuori della città. Negli ultimi decenni del VI sec. a.C., Akragas fu
circondata da una poderosa cinta muraria lunga 12 chilometri e dotata di nove
porte. La colonia raggiunse fama e potenza sotto il tiranno Terone (488-471
a.C.), vincitore sui Cartaginesi a Himera nel 480 a.C.
Agrigento fu, tra le poleis siciliane, il centro della cultura più elevata.
Alla storia della città sono legati diversi poeti e filosofi greci.
Il poeta lirico Simonide, dopo le guerre persiane, si spostò in Sicilia,
dove la presenza dei governi tirannici di Gerone I di Siracusa e di Terone
di Agrigento favoriva la pratica del mecenatismo. In occasione della
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guerra tra Agrigento e Siracusa, la leggenda narra che la pace fra i due
contendenti fu raggiunta grazie solo all’intervento del poeta Simonide.
Secondo la tradizione, fu sepolto proprio ad Agrigento.
Oltre a Simonide è legato ad Agrigento Pindaro, per i rapporti d’amicizia che lo legavano alla famiglia del tiranno Terone. Pindaro trascorse
diversi anni in Sicilia, in particolare a Siracusa ed Agrigento, dove incontrò Simonide e Bacchilide. Pindaro - di spirito religioso e profondamente devoto alle tradizioni aristocratiche - compose alcune delle sue
odi più celebri in onore degli agrigentini;
innalzandoli a livello del mito, li rese praticamente immortali. Nella dodicesima ode
pitica, che celebra la vittoria nelle gare musicali del flautista agrigentino Mida, inizia
apostrofando così la città: «Te invoco, città
di Persefone, città la più bella fra quante
albergo son di uomini, o amica del fasto
che stai sopra l’altura bene edificata sulle rive dell’Acràgas che nutre
le tue greggi, accogli benigna, o sovrana, col favore dei numi e degli
uomini questa corona da Pito per Mida illustre...».
Con la morte del tiranno Terone nel 473 a.C., grazie all’azione del
filosofo Empedocle si instaurò un regime democratico. Empedocle fu
filosofo, scienziato, poeta, medico e taumaturgo, stimatissimo dai suoi
concittadini, quasi come un dio.
“O amici, che la grande città lungo il biondo Akragas/ abitate nell’alto della polis, occupati in opere buone,/ venerabili porti di stranieri,
inesperti di cattiveria,/ salve! Io tra voi come un dio imperituro, non più
mortale,/ cammino onorato da tutti, come pare,/ cinto di nastri e di corone fiorite./ E da quelli cui giungo in fiorenti città,/ uomini o donne,
sono riverito: essi mi seguono/ a miriadi, cercando qual è la via verso
il vantaggio,/ gli uni consultando la divinazione, gli altri per malattie
d’ogni genere chiedono di udire la voce guaritrice,/ trafitti da tempo da
aspri dolori”. (Empedocle di Akragas)
Il V secolo a. C. fu per la città di Agrigento l’età della ricchezza e
del benessere. Tale era in Agrigento la vita, che Empedocle stesso scrisse
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che i suoi concittadini «mangiavano
come se avessero dovuto morire il
giorno dopo e costruivano come se
non avessero dovuto morire mai». Si
viveva, scrive Diodoro Siculo, nella
raffinatezza e nel lusso, indossando
vesti morbide, e monili d’oro. Nelle
palestre venivano utilizzati strigili e
unguentari d’oro e d’argento. La grandezza e lo spreco era tale che
l’agrigentino Esseneto, vincitore alle Olimpiadi, fece rientro in città scortato da trecento bighe con cavalli bianchi.
Un secondo conflitto contro i Cartaginesi segnò nel 406 a.C. la fine
della prosperità della città. Assediata dai Cartaginesi la città fu evacuata
dai suoi abitanti, abbandonata al saccheggio nemico e infine rasa al
suolo.
Successivamente la città visse una nuova fase di sviluppo con l’arrivo
tra il 338 e il 334 a.C. di coloni greci guidati dal condottiero Timoleonte,
ma non raggiunse più la potenza di un tempo. Il suo destino fu legato
all’esito della lotta tra Roma e Cartagine per il possesso del Mediterraneo. Durante le guerre puniche Akragas fu base dei Cartaginesi contro i
Romani, i quali nel 210 a.C. la conquistarono e ne mutarono il nome in
Agrigentum. Sotto la dominazione romana la città visse una ulteriore
fase di prosperità legata anche al commercio dello zolfo (II-IV sec. d.C.).
Quando nell’829 la città fu conquistata dagli Arabi i quartieri abitativi
si erano già arroccati sul Colle di Girgenti, così chiamato dal nome medievale della città (dall’arabo Gergent o Kerkent), dove si estende
l’odierno abitato di Agrigento.
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LA VALLE DEI TEMPLI
(Foto Roberto Meli)
Guida alla visita alla Valle dei Templi
Il tempio nel mondo greco
Nelle antiche civiltà mediterranee il tempio è la casa del dio, il luogo
sacro per eccellenza, e in quanto tale rappresenta lo spazio dell’inconoscibile. Alla parte più sacra, la cella (naos) che ospita la statua della
divinità, possono accedere solo il sacerdote e il re; i fedeli assistono ai
riti in altri ambienti o all’esterno dell’edificio. Questo è un elemento
comune a tutte le culture pagane e alla religione giudaica, che sarà superato solo con l’avvento del cristianesimo, quando per la prima volta
la celebrazione liturgica vedrà insieme in uno stesso ambiente i fedeli e
il sacerdote.
Greci, etruschi e romani innalzano i loro templi sempre a partire da
una base, che separa e distingue il luogo sacro da quello profano, e che
indica la natura qualitativamente diversa di quel luogo rispetto agli
altri. Anche l’acropoli, spazio dedicato agli dei, in cui sorgono i luoghi
di culto, è separata dalla città e dai luoghi della vita quotidiana. La posizione elevata contribuisce a fare dei suoi templi gli emblemi politici e
religiosi della città.
La relazione fra il luogo di culto e il territorio si carica di valenze
simboliche che esprimono la qualità stessa del rapporto tra l’uomo e il
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dio. Il tempio greco infatti è concepito in armonia con la natura. L’equilibrio tra umanità e natura è l’elemento fondante della società greca:
Aristotele spiega che la politica e le stesse leggi dello stato, così come
la logica, la scienza, la morale e la religione hanno il loro fondamento
nelle leggi della natura. Tuttavia la vita non è equilibrio immobile, ma
aspirazione a una condizione ideale di perfetta “libertà naturale”.
Le forme del tempio, oltre a rispecchiare il rapporto col divino proprio della civiltà greca, possono caricarsi anche di significati culturali
e politici, come nel caso del tempio di Zeus.
Gli dei nel mondo greco sono concepiti come i custodi dell’ordine
del mondo. Dalla fiducia in un kosmos inteso come armonia numerica,
razionalmente comprensibile, discende la ricerca di un perfetto ordine
proporzionale (kosmos significa appunto “ordine”).
Il tempio è costruito su rapporti modulari e con proporzioni perfette;
in esso domina il proporzionato equilibrio di elementi verticali e orizzontali, di pieni e vuoti, che manifesta visibilmente la legge di misura e
di equilibrio di forze che regge la natura. Il tempio diviene così la visualizzazione del rapporto che l’uomo instaura con il mistero della propria origine.
Il fulcro dell’edificio è il porticato o peristasi; la struttura e la decorazione sono studiate in rapporto con l’incidenza della luce e lo spazio
atmosferico. Lo dimostrano la forma e le scanalature delle colonne, gli
spazi tra una colonna e l’altra, le proporzioni generali dell’edificio.
(Rita Tusa Martorana)
Cosa emerge dalle testimonianze dell’arte greca?
Cosa è “l’essenziale”?
L’arte è concepita dai greci come strumento di conoscenza: ha infatti
la capacità di rivelare, nella purezza delle sue manifestazioni, la forma
ideale della natura privata di ciò che è caduco e contingente. L’arte
greca è essenzialmente un’arte sacra: i suoi protagonisti non sono i mortali, ma gli dei – concepiti in maniera antropomorfa - e gli eroi, esseri
perfetti e incorruttibili, che hanno ricevuto il dono più grande negato
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agli uomini: l’immortalità. L’artista raffigura esseri perfetti, e perciò
immutabili, non soggetti allo scorrere del tempo; essi - in particolare
nella scultura – sono raffigurati sempre nel pieno fulgore della bellezza
e della gioventù, né mostrano sentimenti e passioni. Questa perfezione,
che si esprime come armonia e equilibrio – cioè le due parole chiave
per comprendere l’arte greca – è il mezzo per raggiungere il “bello
ideale”. L’arte greca, infatti, è la prima forma artistica che si pone come
prioritario il problema del bello, che significa in parole povere rappresentare l’uomo non come è, ma come dovrebbe essere. Bellezza e perfezione, peraltro, non sono concepite come caratteri puramente esteriori,
ma come un’armonia tra corpo e spirito per cui la bellezza fisica rispecchia la bellezza morale (kalokagathìa: la bellezza e la virtù). Così,
attraverso l’arte, l’uomo è reso puro dalle passioni e sottratto in qualche
modo al suo destino di corruzione e morte. Se il divino non è che un
“umano” perfetto, la vita senza la morte, l’arte manifesta il divino nella
perfezione della forma umana: la legge dell’armonia e della proporzione. L’arte greca, con il suo anelito alla perfezione in ogni sua manifestazione, ci dice della sproporzione dell’uomo che si percepisce finito
e imperfetto rispetto alla perfezione degli dei, alla quale egli cerca di
avvicinarsi con i suoi mezzi espressivi. Ciò che emerge da tutte le manifestazioni della civiltà greca è il desiderio di vivere in una condizione
di armonia tra il singolo e il tutto, secondo le leggi degli dei, ciò che, in
definitiva, corrisponde al desiderio ultimo di felicità.
(Rita Tusa Martorana)
La religione presso i Greci
Parlando di “religione” greca, non dobbiamo riferirci al senso che il
termine assume nelle tradizioni monoteistiche. Manca persino in greco
una parola il cui campo semantico equivalga propriamente al termine
religione. Quella che più le si avvicina è eusebeia, “la cura che gli uomini hanno degli dèi”.
Le religioni pagane, infatti, erano caratterizzate da una componente
fondamentale di formalismo, per la quale l’essenziale della vita religiosa
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consisteva appunto nell’adempimento di certe cerimonie, consistenti in
primo luogo nelle offerte sacrificali e votive. Questo non significa però
che nell’esperienza religiosa greca non esistesse, da una parte un profondo e radicato timore della divinità e della sua capacità di punire le
colpe degli uomini colpendoli nell’arco della loro esistenza e anche
della loro discendenza (la nemesi), dall’altra un rapporto di familiarità
con gli dèi: la divinità non è del tutto lontana e inaccessibile, e la sua
frequentazione caratterizza ogni momento significativo dell’esperienza
privata e sociale.
Le divinità olimpiche sono chiamate innanzitutto ad assicurare protezione e prosperità alla polis, e poi ad assisterne e garantirne l’attività.
Non c’è guerra o fondazione di colonie, promulgazione di leggi o trattati, stipulazione di matrimoni o contratti, che non venga messa sotto la
protezione di una divinità, la cui attenzione è richiamata con gli opportuni gesti di culto e le necessarie pratiche sacrificali.
“Sacro” è dunque anche l’ordine della natura, l’ordine immutabile della
vita sociale, la successione regolare delle generazioni garantita dai matrimoni, dalle nascite, dai riti di sepoltura e di venerazione dei defunti.
Dove è allora il confine tra gli uomini e gli dèi? Da una parte vi sono
esseri effimeri, soggetti alle malattie, all’invecchiamento, alla morte;
nulla in essi di quanto conferisce all’esistenza valore e luce (giovinezza,
bellezza, forza) che non si deteriori per poi sparire per sempre: non vi
è vita senza morte, gioventù senza vecchiaia, energia senza fatica, piacere senza sofferenza. Il contrario avviene tra coloro che vengono chiamati immortali (athànatoi), felici (màkares), possenti (kreittous): le
divinità.
Tra le due razze, la divina e l’umana, vi è quindi un divario di cui il
greco, in epoca classica, è perfettamente conscio, e da cui ha origine il
senso profondamente tragico, o comunque la malinconia che emerge
dall’arte e dalla letteratura. L’uomo greco non può sperare – né richiedere – che gli dèi gli concedano quell’immortalità di cui essi godono;
la speranza nella sopravvivenza dell’individuo dopo la morte, altrimenti
che come ombra evanescente e priva di coscienza nelle tenebre dell’Ade,
non entra nel rapporto di scambio istituito con le divinità attraverso il
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culto. Ma per quanto insuperabile, la distanza tra gli dèi e gli uomini
non esclude tra loro una forma di somiglianza; sono abitanti di uno
stesso mondo, ma rigorosamente gerarchizzato, e le perfezioni di cui gli
dèi sono dotati si manifestano nell’ordine e nella bellezza del mondo.
San Paolo nel discorso agli ateniesi sull’Areopago riconosce il profondo
valore della creatività religiosa greca e ne riprende i temi fondamentali
in un discorso che – anche retoricamente – è costruito per corrispondere
alla cultura e alla mentalità del suo uditorio.
«Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato
anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate
senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto
ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in
templi costruiti dalle mani dell’ uomo, né dalle mani dell’uomo si lascia
servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a
tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni
degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi
ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché
non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo
ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di
lui stirpe noi siamo. Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo
pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che
porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana. Dopo essere
passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini
di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale
dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha
designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti».
Paolo è capace di interpretare quello che è lo spirito più profondo dell’uomo greco; egli comprende il loro anelito di perfezione e coglie, da
un lato l’essenza del loro rapporto con gli dei, dall’altro l’esigenza che
questo rapporto si faccia più vicino e stringente.. Alla luce dell’esperienza cristiana valorizza e riconduce in un’unità la cultura classica e
quella cristiana.
(Rita Tusa Martorana)
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Descrizione dei monumenti più significativi
presenti nella Valle dei templi
Il Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi comprende l’area dell’antica Akragas e il territorio circostante, attraversato
dai fiumi Akragas ed Hypsas, con le necropoli e i santuari. In esso le valenze ambientali e naturali si fondono con i monumenti archeologici,
ora solenni come i templi, ora discreti e suggestivi come le necropoli e
i complessi ipogeici. Gran parte della città classica e romana è tuttavia
ancora nascosta sotto la distesa di mandorli ed ulivi secolari.
La città antica si estendeva sulla collina di Girgenti - ora occupata a
nord dal nucleo arabo e a sud dall’espansione moderna – e sulla collina
dei templi.
I monumenti rimasti appartengono quasi tutti al V sec. a.C., il periodo
di maggior splendore per la città. I templi, tutti di ordine dorico, sono
interamente costruiti con la pietra calcarea locale, in origine rivestita da
un intonaco di polvere di marmo dipinto a colori vivaci.
Il Parco si articola in diverse aree. Sulla collina dei Templi, nel settore
orientale, si succedono i templi di Hera, della Concordia, di Eracle e le
necropoli ipogeiche e, nel settore occidentale, i Templi di Zeus e dei
Dioscuri, il gymnasium, l’area dei santuari Ctonii, la Kolimbetra, e il
Tempio di Vulcano.
A nord est della collina, sulle pendici della Rupe Atenea, si trova
un’altra vasta aerea monumentale caratterizzata dalla presenza del santuario ctonio e del tempio di Demetra, sul quale in età normanna venne
edificata la chiesa di San Biagio.
Altra area monumentale del Parco, a nord della collina, è il quartiere
ellenistico-romano e il poggio di San Nicola, sul quale sorge il Museo
Archeologico ricavato nei resti di un convento medioevale cistercense,
e il complesso degli edifici pubblici della città antica, tra i quali emergono l’Ecclesiasterion, il Bouleterion, e l’Oratorio di Falaride.
L’opera di monumentalizzazione della collina nel corso del V secolo,
particolarmente tra il 450 e il 430 a.C., trova la sua più alta definizione
con la costruzione dei Templi di Hera e della Concordia.
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Il tempio di Hera (Giunone Lacinia per i romani) è un tempio periptero esastilo formato da 6 colonne sui
lati corti e 13 sui lati lunghi, secondo
un canone derivato dai modelli della
madrepatria. Distrutto dai cartaginesi
nel 406 fu poi restaurato dai romani.
Il peristilio di 34 colonne alte m. 6,44 e costituite da 4 rocchi sovrapposti, poggia su un crepidoma di quattro gradini. L’interno è costituito dalla
cella (naos) preceduta da un atrio di ingresso (pronao) e seguita da un
vano posteriore (opistodomo). Attualmente si conserva il colonnato settentrionale con l’architrave e parte del fregio, mentre i colonnati sugli
altri tre lati sono conservati solo parzialmente. Della cella rimane solo
la parte bassa della muratura che la delimitava.
Il tempio della Concordia è uno
tra i più armoniosi e meglio conservati esempi dello stile architettonico
dorico. Sorge su un basamento (crepidoma) di quattro gradini e presenta
una peristasi di 6x13 colonne, alte m.
6,72 e solcate da 20 scanalature a spigolo vivo. Al di sopra delle colonne
si imposta la trabeazione, formata dall’architrave, dal fregio – a sua volta
scandito dall’alternanza delle metope e dei triglifi – e dalla cornice. Si
sono conservati anche i due frontoni triangolari che chiudevano le facciate del tempio. Si ignora a quale divinità fosse consacrato; il nome attuale gli fu attribuito nel XVI secolo dallo studioso Tommaso Fazello a
causa di un iscrizione latina trovata nelle vicinanze che faceva riferimento alla “Concordia degli Agrigentini”.
Deve l’eccezionale stato di conservazione alla trasformazione in basilica cristiana dedicata agli apostoli Pietro e Paolo, operata nel VI secolo
d.C. dal vescovo Gregorio. Le principali modifiche apportate all’edificio
riguardarono innanzitutto la chiusura del colonnato e l’apertura di dodici
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arcate a tutto sesto nei muri della cella del tempio, così da consentire la
realizzazione di una basilica a tre navate con ingresso ad ovest, invertito
rispetto a quello del tempio greco. La basilica rimase a lungo in uso
come luogo di culto fuori dalla città e fu dedicata in età normanna a San
Gregorio. A partire dal 1788, ad opera del Principe di Torremuzza, furono rimosse tutte le strutture relative alla chiesa cristiana e iniziarono
i primi restauri mirati al recupero e al ripristino del tempio greco, che
cancellarono quasi del tutto ogni traccia della trasformazione cristiana.
Il tempio di Eracle è anch’esso
un periptero esastilo, ma formato da
una peristasi di 6x15 colonne. Alcuni
caratteri arcaici, come la forma allungata e le poco slanciate strutture
verticali, lo fanno ritenere il più antico fra i templi agrigentini.
L’aspetto attuale del tempio è dovuto agli scavi realizzati a partire
dal 1921 dal capitano inglese Alexander Hardcastle, che fece rialzare le
otto colonne del lato sud.
Il Tempio di Zeus Olimpio (o di
Giove Olimpico) fu eretto dopo la vittoria di Himera (480 a.C.) impiegando i
prigionieri cartaginesi, ma mai terminato. Nei progetti del tiranno Terone doveva essere uno dei più grandi del
mondo greco: misura infatti m.
45x56,30, e le colonne, nelle cui scanalature trova posto un uomo, erano
alte 17 m e avevano un diametro di 4,42 m.
Il tempio presenta singolarità costruttive uniche nell’architettura
greca. Il grandioso edificio era collocato su una imponente piattaforma
rettangolare su cui si ergeva un basamento (crepidoma) di cinque gradini, di cui quello superiore, alto il doppio dei restanti, formava una specie di podio che separava nettamente l’altezza del tempio dall’ambiente
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circostante. Al posto del consueto colonnato aperto (peristasi) vi era un
muro di recinzione rafforzato da semicolonne doriche, sette sui lati brevi
e quattordici su quelli lunghi. Si veniva così a creare un tempio definito
pseudo-periptero. La particolarità del tempio sono i cosiddetti Telamoni,
gigantesche figure maschili alte circa 8 m., che erano poste ad una certa
altezza sul muro di chiusura della cella negli spazi intercorrenti tra ogni
semicolonna. I Telamoni sono interpretati come simbolo dei “barbari”
Cartaginesi sconfitti ad Himera. Di queste gigantesche figure una è stata
ricomposta al Museo Archeologico di Agrigento.
Nella parte occidentale della collina si accede all’area del complesso
di edifici sacri dedicati al culto delle divinità ctonie (Demetra e Kore).
Si tratta di un vasto santuario costituito da recinti a cielo aperto con
uno o più altari all’interno. Lo studio dei resti archeologici e degli oggetti
rinvenuti ha permesso di ricostruire i diversi momenti del rituale religioso che era celebrato soprattutto da donne, e che prevedeva l’offerta
di piccoli oggetti - vasi, lucerne o statuette in terracotta – presso le statue
dedicate alle dee (donari).
Al V sec. a.C. risalgono i resti del tempio dei
Dioscuri. Anch’esso di ordine dorico, doveva presentare una pianta simile a quella degli altri templi
agrigentini con sei colonne sui lati brevi e tredici
sui lati lunghi. Venne gravemente danneggiato dal
sacco cartaginese; restaurato in età ellenistica, rovinò definitivamente a causa di un terremoto. La
ricostruzione dell’angolo nord-ovest con le quattro
colonne superstiti è stata eseguita nel 1836 dalla
Commissione delle Antichità della Sicilia mettendo insieme elementi architettonici appartenenti
a fasi cronologiche diverse. È stato così creato un modello di “rovina”
che ha suggestionato viaggiatori, letterati e artisti, diventando l’emblema
di un sentimento romantico del pittoresco ispirato dalla veduta delle rovine classiche.
Nella valle posta tra il tempio dei Dioscuri e quello di Vulcano si
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estende il giardino della Kolymbetra, che ricopre quella che un tempo
era l’area di una vasta piscina. Lo storico greco Diodoro Siculo la descrive
come una magnifica piscina in cui si
riversavano le canalizzazioni sotterranee che dalla parte alta della città scendevano a valle. Secondo la tradizione
questa complessa rete di acquedotti era stata progettata dall’architetto
Feace per garantire l’approvvigionamento idrico o forse anche a scopi
difensivo-militari e realizzata con la mano d’opera dei prigionieri cartaginesi sconfitti a Himera nel 480 a.C. Già all’epoca di Diodoro, nel I
sec. a.C., il luogo era in stato di abbandono e soltanto nel XII secolo
d.C. fu ripresa nell’area la coltivazione della canna da zucchero alla
quale si aggiunse, nel tempo, la coltivazione di agrumi.
Dal 1999 la Kolymbethra è stata affidata in concessione al FAI e costituisce un grandioso giardino di cinque ettari nel quale si condensa
tutto il paesaggio agrario e naturale della Valle dei Templi con piante
appartenenti alla macchia mediterranea (mirto, lentisco, terebinto, euforbia, ginestra) e un ampio agrumeto con limoni, mandarini e aranci.
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MUSEO ARCHEOLOGICO “PIETRO GRIFFO”
Guida alla visita al Museo archeologico
Il museo archeologico di Agrigento offre una vastissima raccolta di
reperti che consentono non solo di ricostruire la storia di Akragas e del
suo territorio, ma soprattutto di osservare e interpretare il modo di vivere e di concepire la vita e la morte dell’uomo greco.
In particolare, è possibile individuare alcuni temi che ci condurranno
attraverso la visita, consentendoci di riconoscere, attraverso la
molteplicità delle testimonianze, l’unità del significato.
Il mito
Il mito, strumento per eccellenza della conoscenza del mistero, per
il popolo greco si identifica con la propria storia ed è il tema fondamentale dell’arte classica; forma sensibile del senso del sacro e del divino,
e specchio dell’ordine del cosmo custodito dagli dei. Dagli antichissimo
miti ctonii, che esprimevano il timore reverenziale degli umani davanti
alle incontrollabili forze del cosmo, si passa gradualmente ai miti
olimpici, i cui protagonisti sono le divinità come Zeus, Apollo, Atena,
che esprimono la raggiunta armonia tra l’uomo e la natura.
I nuovi dei, che spesso vediamo raffigurati in lotta contro una precedente generazione divina fatta di giganti e mostri (la Gorgone, i Titani,
etc.) sono le immagini ideali di attività e virtù umane. Inoltre, la contrapposizione tra gli dei, simbolo dell’ordine e della razionalità, e i giganti o i mostri, simbolo della forza bruta e della hybris - la tracotanza
che porta a sfidare gli stessi dei -, simboleggia la vittoria della civiltà
greca contro la barbarie e il disordine. Così gli eventi storici, sollevati
dal piano della realtà e trasfigurati sul piano del mito, sono resi eterni
e perfetti, modello ideale della vittoria del Bene sul Male.
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La ceramica greca
Grande spazio ha nelle raccolte
museali la ceramica, proveniente sia
da corredi funerari che da scavi nelle
antiche zone abitate.
La grande varietà di forme che
possiamo osservare non deve farci
pensare che esse fossero casuali o lasciate solo all’estro dell’artigiano:
ogni tipologia di vaso corrisponde a un preciso uso e ha un nome che
la contraddistingue; in ogni vaso la proporzione tra le parti (piede,
corpo, collo, anse etc.) e l’insieme è basata su precisi rapporti matematici, così come il rapporto tra la forma e la decorazione. Anche in un
oggetto di uso quotidiano come un cratere per miscelare il vino o una
coppa per berlo viene impresso così il suggello dell’armonia.
Nella ceramografia i soggetti mitologici sono i più frequenti, e solo
nel tardo periodo arcaico e nel periodo classico si trova un numero maggiore di soggetti che si riferiscono alla quotidianità. La ceramica decorata era un mezzo di espressione comprensibile a chiunque; i vasi
restituiscono l’immagine che le persone comuni avevano del proprio
mondo essendo stati il veicolo abituale attraverso il quale si usava commentare il presente, ad un livello più semplice rispetto a quello espresso
da poeti, sacerdoti e uomini politici. Esistevano ovviamente oggetti semplici e di uso quotidiano come le lucerne, o i vasi da cucina, i vasetti
per unguenti, ma i reperti più spettacolari sono i grandi vasi dipinti realizzati dai ceramisti più abili e decorati dai pittori più celebri.
Gran parte delle forme del vasellame arcaico e classico di buona
fattura è pensata appositamente per il simposio: il cratere per mescolare
acqua e vino, lo psyktèr per far raffreddare la miscela, passini e brocche
per distribuirlo e una immensa varietà di coppe per berlo, diverse nella
forma e nella nomenclatura, ognuna con una sua funzione speciale. Le
immagini che ornano il vasellame descrivono le attività e la cultura
della classe sociale che partecipava al simposio; scene eroiche, scene
di guerra, scene tratte dal repertorio poetico, immagini tratte dalla vita
aristocratica: le gare ginniche, la caccia. Ovviamente viene dato parti20
colare risalto alla rappresentazione dei vari momenti dei simposi degli
dèi, degli eroi e dei contemporanei, dalle scene più decorose a quelle
erotiche e di ebbrezza violenta, e grande spazio hanno sempre le scene
dionisiache. Proprio il mito dionisiaco indica la profondità quasi sconvolgente del desiderio umano di rivelazione. L’ebbrezza dionisiaca, con
la sua componente di terrore e di fascinazione, infatti, ha origine da un
elemento assolutamente originale: la presenza del dio, di cui anche
l’uomo greco, così lontano dalla speranza di un rapporto col divino, ha
assoluto bisogno.
La scultura greca
L’arte greca costituisce una assoluta
novità nel mondo antico, in quanto per la
prima volta nella storia dell’umanità si
pone il problema della bellezza, alla quale
devono tendere tutte le opere realizzate
dalla mano dell’uomo: dall’impianto urbanistico della città alla forma e alla struttura del tempio, dalla rappresentazione
dell’uomo nella statuaria monumentale
alla piccola statuetta votiva e alla decorazione di un vaso di ceramica.
L’arte greca perciò pone come suo oggetto quasi unico la figura
umana, considerata – tra tutte le forme naturali – la più vicina all’ideale. L’osservazione dell’evoluzione della rappresentazione della figura
umana dall’età arcaica all’età classica offre il modo di riconoscere nello
sviluppo di quest’arte non solo il tentativo di riprodurre le regole naturali presenti nella struttura fisica del corpo umano, ma anche la ricerca
di una bellezza superiore e perfetta.
Lo studioso tedesco Johann Joachim Winckelmann, nella sua Storia
dell’arte nell’antichità (1764), sostiene infatti che “l’arte greca si era
creata una sua propria natura”, tanto da mostrare “più bellezza, nobiltà
e grandezza” della natura stessa. Il concetto fondamentale è quello di
mimesi: l’artista imita la natura confrontandone le parti, selezionandole,
scegliendo quelle “belle” per giungere a ricomporre un insieme “bello”
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in cui la natura è rappresentata non più in forme empiriche ma ideali.
Non rappresenta una figura reale, ma un ideale umano; l’uomo non
come è nella realtà, con i suoi pregi e i suoi difetti, ma come dovrebbe
essere. Per questo le figure sono sempre giovani e rese eternamente belle
nella loro perfezione. La bellezza, peraltro, non è semplicemente concepita come una bellezza esteriore, ma come un’armonia tra corpo e
spirito per cui la bellezza fisica rispecchia la bellezza morale (kalokagathìa: la bellezza e la virtù). Questi elementi li possiamo ritrovare nei
grandi esempi della grande scultura greca, tra cui il Torso di guerriero
ferito, e il cosiddetto Efebo di Agrigento.
Sorge spontaneo il confronto con ciò che accadrà nell’arte cristiana
già a partire dal medioevo: l’artista osserva e riproduce con eguale
amore e uguale cura sia ciò che è bello che ciò che è grottesco e deforme, perché tutto che esiste è frutto dell’atto creatore di Dio.
Gli oggetti votivi provenienti dai
santuari
Altra interessante categoria di
opere sono i materiali votivi – principalmente statuette arcaiche di divinità ed offerenti – provenienti dai
santuari agrigentini, fra cui grande
importanza rivestiva il santuario di
Demetra e Kore. Demetra e Persefone, detta anche Kore, madre e figlia,
protettrici della fecondità della natura e dell’uomo, erano chiamate dai
Greci divinità ctonie, ovvero divinità della terra. Il loro culto era così
diffuso in tutta la Sicilia che gli autori antichi definivano l’Isola “dono
di nozze a Persefone da parte di Zeus” e la stessa Akragas era detta “la
terra di Persefone”. I devoti che giungevano al santuario acquistavano
le statuette votive presso le botteghe dei ceramisti addossate alle mura,
e iniziavano il percorso rituale con le offerte e la visita ai tempietti e
alle sale di accoglienza e riunione del portico. Il culto continuava con
la celebrazione dei sacrifici di animali che si svolgevano tra canti e profumi d’incenso; dopo il sacrificio la carne dell’animale veniva cucinata
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e mangiata sul posto da tutti i devoti. Infine si giungeva alle statue dedicate alle dee (donari), dove si concludeva l’itinerario cultuale con
canti, danze e l’offerta di deposizioni di piccoli oggetti - vasi, lucerne o
statuette in terracotta - entro buche scavate nel terreno e protette da
pietrame.
Anche i riti misterici sono espressione del desiderio di entrare in rapporto con la presenza del dio ma, come dice G. Bardy, “le stesse religioni misteriche non esigono una pietà interiore; i riti di iniziazione
assicurano a coloro che si sottomettono il possesso della salvezza […]
I misteri come i sacrifici o gli altri atti del culto pagano, non sono destinati a rinnovare gli spiriti e i cuori.” (G. Bardy, La conversione al
cristianesimo nei primi secoli, Jaca Book, Milano 2002)
Il tempio di Zeus
Infine il Museo ci ripropone la ricostruzione e
la decorazione del grande tempio di Zeus
Olimpico, simbolo del potere del tiranno Terone,
che voleva farne uno dei più grandi del mondo
greco, e della vittoria dei Greci sui Cartaginesi
che contendevano loro il dominio sull’isola.
La particolarità del tempio sono i cosiddetti
Telamoni, gigantesche figure maschili alte circa
8 m., che erano poste ad una certa altezza sul
muro di chiusura della cella negli spazi intercorrenti tra ogni semicolonna. I Telamoni sono interpretati come simbolo dei “barbari” Cartaginesi
sconfitti ad Himera e quindi si ricollegherebbero all’idea della lotta tra
la civiltà e la barbarie già espressa nel torso di guerriero. Di queste gigantesche figure una è stata ricomposta al Museo Archeologico di Agrigento.
(Rita Tusa Martorana)
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Descrizione delle opere più significative
presenti al Museo archeologico
Il Museo archeologico sorge in contrada S. Nicola, in un’area che è
stata recentemente identificata come il sito dell’agorà superiore dell’antica città, spazio adibito a funzioni pubbliche, tra il bouleuterion (che
ospitava il consiglio - boulè - della polis) e l’ekklesiasterion (una struttura simile a un teatro per le adunanze popolari) di età ellenistica. Accanto si trova il cosiddetto Oratorio di Falaride, un tempietto del I sec.
a.C. trasformato in oratorio nel medioevo.
La sede museale, realizzata nel 1960 dall’architetto Franco Minissi
e inaugurata nel 1967, nasce da una equilibrata fusione fra i nuovi corpi
di fabbrica progettati per il museo e le strutture restaurate e riattate del
trecentesco Convento di S. Nicola, dove hanno trovato sede la biblioteca,
la sala congressi e l’auditorium.
L’edificio del museo è stato definito una delle espressioni più valide
della moderna museografia europea: ciò non solo per le valenze architettoniche del risolto accostamento al complesso monumentale
preesistente, classico e medievale, ma anche per la sua organizzazione
scientifica nella sistemazione dei materiali e nell’apparato illustrativo e
didattico a commento delle collezioni.
Il museo illustra la storia di Agrigento antica e del territorio storicamente ad essa connesso, dalla preistoria alla fase di ellenizzazione.
Le collezioni.
La prima raccolta dei reperti delle necropoli agrigentine si deve a
Giuseppe Picone, che le custodì prima nella cappella di Santo Spirito e
poi presso il Municipio. L’attività del museo tuttavia prende forte vigore
24
a partire dal 1924 con le ricerche condotte da Pirro Marconi e Alexander
Hardcastle, e ancor di più con l’istituzione della Soprintendenza alle Antichità per le province di Agrigento e Caltanissetta. La parte più rilevante
delle collezioni è costituita dai materiali rinvenuti nelle campagne di
scavo condotte, fin dagli anni Quaranta, dalla Soprintendenza di Agrigento.
Le collezioni sono distribuite secondo un criterio storico-cronologico
e topografico e con un percorso di visita continuo che riconduce il visitatore, alla fine, nello stesso punto di ingresso.
Sezione I: La città antica di Agrigento ed il suo territorio extraurbano.
Sala I – La topografia della città
Sala con documentazione cartografica e il repertorio delle fonti antiche. Vi è collocata la pianta archeologica dell’antica Akragas, utile per
la comprensione dello sviluppo urbanistico della città.
Sala II - La fase preistorica ed indigena
Materiale preistorico e protostorico del II e I millennio a.C., relativo
a importanti culture precedenti all’arrivo dei Greci. Si tratta di vasi dell’età del rame che provengono dal sito di Serraferlicchio, caratterizzati
da una ceramica dipinta in nero con motivi geometrici su fondo rosso
violaceo, ceramiche dell’età del bronzo di Monserrato e Cannatello, e
dell’età del ferro di Sant’Angelo Muxaro; materiali arcaici provenienti
da Gela consentono di seguire il processo di penetrazione della cultura
greca tra le culture indigene, tra l’epoca della fondazione di Gela e quella
d’Agrigento. Nella vetrina 7 si segnala il dinos o bacino di produzione
locale geloa della fine del VII secolo a.C. con la rappresentazione della
triquetra, simbolo religioso-astronomico indicante in ambiente
mesopotamico la rotazione del sole e che in ambiente coloniale greco
assume valenza geografica sino ad indicare la rappresentazione della Sicilia come isola a tre punte (Trinacria). Infine, materiali dalla necropoli
di Montelusa, con le tombe più antiche sinora note d’Agrigento.
25
Sala III – Le collezioni vascolari
Ospita una ricca collezione di ceramica a figure
nere e a figure rosse, con vasi dalle necropoli saccheggiate nell’ottocento, oltre a materiali di recente rinvenimento. Le collezioni sono presentate
in serie cronologica, a partire dalla metà del VI secolo a.C. sino al III secolo a.C. Nell’ultima parte
della sala sono esposti caratteristici esemplari da
fabbriche italiote operanti nel IV secolo a.C.
(apule, lucane, campane) e siceliote. I vasi principali della sezione sono: il cratere a fondo bianco con Perseo e Andromeda (450 a.C.); il cratere a calice con Deposizione di guerriero, attribuito
al Pittore di Pezzino (500 a.C.); il cratere con Sacrificio ad Apollo
(gruppo di Polignoto, 440-430 a.C.); uno splendido piatto apulo (IV secolo a.C.).
Nella medesima sala si trova anche un frammento marmoreo a tutto tondo di Guerriero, unico
pezzo rimasto della grandiosa decorazione scultorea del tempio di Zeus (pertinente con tutta
verosimiglianza alla decorazione frontonale). La
statua segue il modello del guerriero ferito, caduto
in ginocchio con la gamba divaricata a sostenere
il peso del corpo e col braccio sinistro spinto in
alto a coprire le spalle con lo scudo saldamente impugnato in un gesto di estrema difesa, quale si
trova ad esempio nel frontone del Tempio di Atena Aphaia a Egina.
Della decorazione del frontone del tempio di Zeus rimangono solo
pochi frammenti, e possiamo formulare solo delle ipotesi sui soggetti
raffigurati. Diodoro Siculo menziona scene di Gigantomachia ad est e
della Presa di Troia ad ovest, a cui probabilmente apparteneva il guerriero superstite. La scelta di tali soggetti va inquadrata nel contesto
storico della Grecia e delle colonie alla fine del V secolo. Contemporaneamente, infatti, nel 480 a.C., i Greci sconfiggono l’impero persiano
nella battaglia di Salamina e le città greche di Sicilia sconfiggono i
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Cartaginesi a Himera. I soggetti citati si ritrovano – uno solo o entrambi,
talvolta nelle metope, talvolta nei frontoni – oltre che nel tempio agrigentino, in numerosi templi costruiti nel corso del V secolo: ricordiamo
il tempio di Atena Aphaia ad Egina, il tempio F di Selinunte, il Tesoro
dei Megaresi a Olimpia, le metope del Partenone. La contrapposizione
tra gli dei, simbolo dell’ordine e della razionalità, e i giganti, simbolo
della forza bruta e della hybris - la tracotanza che porta a sfidare gli stessi
dei -, come anche la lotta tra i Greci e i Troiani, simboleggia la vittoria
della civiltà incarnata dal mondo greco contro la barbarie incarnata dai
popoli che alla cultura greca sono estranei. Così gli eventi storici, sollevati dal piano della realtà e trasfigurati sul piano del mito, sono resi
eterni e perfetti, modello ideale della vittoria del Bene sul Male.
Accanto si può ammirare una testa marmorea
di divinità femminile velata databile alla fine del
V secolo a.C., probabilmente raffigurante la dea
Demetra, rinvenuta nel 1954 in una cisterna all’interno del santuario delle divinità ctonie. Per i suoi
caratteri stilistici, caratterizzati dalla struttura larga
e piena del volto, dal collo massiccio riccamente
modellato e dalla forte espressività dello sguardo la testa si può attribuire
ad un artista fortemente influenzato dalla scultura di Fidia.
Sala IV – La scultura architettonica
Ospita il materiale architettonico proveniente dai diversi santuari:
documenta la transizione dalla moda arcaica dei rivestimenti fittili (in
terracotta) a quella in pietra d’età classica, e consente di apprezzare, confrontando le gronde con teste leonine, le differenze stilistiche e cronologiche fra i templi di cui sono state recuperate le trabeazioni. Le
grondaie avevano la funzione non solo di scaricare il flusso delle acque
piovane dal tetto dell’edificio ma anche quello apotropaico di difesa da
qualsiasi calamità potesse abbattersi sul tempio.
Sala V - I santuari delle aree sacre agrigentine
Raccoglie i materiali votivi – principalmente statuette arcaiche di
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divinità ed offerenti – provenienti dai santuari agrigentini, fra cui grande importanza rivestiva il santuario di Demetra e Kore. Demetra e Persefone,
detta anche Kore, madre e figlia, protettrici della
fecondità della natura e dell’uomo, erano chiamate
dai Greci divinità ctonie, ovvero divinità della
terra. Il loro culto era così diffuso in tutta la Sicilia
che gli autori antichi definivano l’Isola “dono di
nozze a Persefone da parte di Zeus” e la stessa Akragas era detta “la
terra di Persefone”.
I devoti che giungevano al santuario acquistavano le statuette votive
presso le botteghe dei ceramisti addossate alle mura, e iniziavano il percorso rituale con le offerte e la visita ai tempietti e alle sale di accoglienza e riunione del portico. Il culto continuava con la celebrazione
dei sacrifici di animali che si svolgevano tra canti e profumi d’incenso;
dopo il sacrificio la carne dell’animale veniva cucinata e mangiata sul
posto da tutti i devoti. Infine si giungeva alle statue dedicate alle dee
(donari), dove si concludeva l’itinerario cultuale con canti, danze e l’offerta di deposizioni di piccoli oggetti - vasi, lucerne o statuette in terracotta - entro buche scavate nel terreno e protette da pietrame.
Da quest’area proviene una testina in terracotta, databile al VII sec.
a.C., che costituisce la testimonianza più antica del culto per le due divinità. Un tipico oggetto votivo dai santuari delle divinità ctonie agrigentine è il busto fittile con polos (una particolare acconciatura)
raffigurante Kore, di cui è presente nel museo una ricca tipologia che
dalla prima età classica raggiunge l’ellenismo.
Oltre alle statuette e ai busti, altri prodotti
vascolari caratteristici d’Agrigento sono i
bracieri con l’orlo decorato a stampiglia con
scene figurate e motivi decorativi, mentre
tipici dei culti demetriaci sono i vasi multipli
composti da anello per recare il vaso sulla
testa con vasetti sovrapposti (kernoi).
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Troviamo inoltre diversi tipi di terracotte votive: maschere con diadema e velo che scende
lungo tutto il contorno del volto; statuette di divinità sedute dal corpo appiattito, che recano un
copricapo (polos o kalathos) ed una serie di collane sul petto; statuette femminili di offerenti che
recano doni (un fiore, un vaso, una fiaccola, ma
più spesso un porcellino) Un singolare reperto è il
tubo fittile databile alla seconda metà del VI secolo
a.C. con orecchie e capigliatura femminile applicate, forse rappresentazione aniconica della divinità attraverso il quale, una volta infisso nel
terreno, si poteva comunicare con il mondo sotterraneo.
Sala VI - Documentazione del tempio di
Zeus Olimpio e ricomposizione della figura
del Telamone
Vi sono conservati materiali dell’Olympeion,
con il colossale Telamone, alto m 7.75, ricostruito nella parete di fondo, e tre altre teste di Telamone, oltre al plastico del tempio.
Il telamòne è una scultura maschile a tutto
tondo o ad altorilievo, impiegata come sostegno, strutturale o decorativo,
in sostituzione delle colonne. Il nome è sinonimo di Atlante (il titano
che nella mitologia greca sostiene i pilastri del cielo) ed è il corrispondente maschile della cariatide. La radice “tel-” (in greco il verbo τλάω)
infatti significa “(sop)portare”. Tutti i telamoni hanno le braccia alzate
al disopra del capo o le mani appoggiate ai fianchi, e si nota in essi lo
sforzo di sopportare un peso.
Secondo Vitruvio la loro origine risale alla guerra contro i Persiani.
Gli Spartani, dopo aver sconfitto i Persiani nella battaglia di Platea (479
a.C.), costruirono a ricordo della vittoria un portico la cui copertura era
sostenuta da statue rappresentanti i prigionieri nelle loro vesti barbariche.
Anche nel tempio di Zeus, costruito dopo la vittoria delle colonie greche
della Sicilia sui Cartaginesi a Himera, l’utilizzo dei telamoni ri29
corderebbe la supremazia dei Greci sui “barbari” Cartaginesi sconfitti e
ridotti in schiavitù, e quindi si ricollegherebbe all’idea della lotta tra la
civiltà e la barbarie già espressa nel torso di guerriero.
La questione più dibattuta per questo Tempio è quella della posizione
e della struttura delle colossali figure portanti che, qui usate per la prima
volta in un tempio, non trovano riscontro in nessun altro simile edificio
del mondo antico. Le ipotesi proposte sulla loro collocazione erano le
più diverse. In questa sala, attraverso fotografie tratte da antiche pubblicazioni o a mezzo di plastici che riproducono più recenti ipotesi, si
evidenziano soprattutto le vecchie ipotesi ricostruttive del secolo XIX,
quasi tutte proponenti telamoni erroneamente all’interno del Tempio,
sino a quelle dei primi decenni del XX secolo che immaginavano una
grande sala interna, coronata all’interno da “atlanti e cariatidi”. I Telamoni si trovavano invece all’esterno, collocati a partire da una altezza
di m 13 dallo stilobate a riempire i vasti spazi intercolonnari; le gambe
divaricate ai lati di un plinto costituivano puntello al peso della trabeazione sporgente, in alternanza figurativa e statica con le colonne.
La gigantesca figura del Telamone è stata ricomposta supina nel 1825
da Raffaello Politi sulla platea del Tempio di Zeus utilizzando vari conci
e frammenti. La figura lì rimase fino a quando fu trasferita da Pietro
Griffo nel Museo, e sul luogo fu lasciato un perfetto calco in cemento
intonacato. La figura così esposta ha riacquistato tutto il significato degli
originari valori plastici, architettonici e di equilibrio espositivo.
Sala VII - La città dall’età ellenistica
all’età imperiale romana
Materiali del quartiere ellenistico-romano.
Oltre a sezioni stratigrafiche e materiali d’uso
e decorativi recuperati nello scavo delle case,
vi si conservano gli emblemata distaccati dalle
pavimentazioni musive, realizzati da maestranze nord-africane nel II secolo d.C. con l’utilizzo di minute tessere policrome (cosiddetto
mosaico in opus vermiculatum) tra cui un bellissimo mosaico con
gazzella che beve alla fonte (I sec. d.C.).
30
Di particolare interesse sono alcune tegole
fittili (tegulae sulfuris) con iscrizioni latine in
rilievo la cui funzione era quella di stampigliare
il marchio di fabbrica sui pani di zolfo destinati
al commercio.
Sala VIII – Le epigrafi
Contiene il materiale epigrafico: fra questo vanno ricordate le poche
epigrafi monumentali d’Agrigento greca, pertinenti perlopiù a sepolture.
Sala IX – Il medagliere
Riunisce monete greche, romane,
bizantine e normanne in argento, bronzo e
oro. Contiene il medagliere con le monete
argentee d’Agrigento del V secolo a.C.
con il tipo dell’aquila al diritto e del granchio, simbolo del fiume Akragas, al rovescio, oltre a monete più tarde
della città e di altri centri sicelioti, e monete medievali, provenienti da
scavi o da ritrovamenti fortuiti di singoli esemplari o di tesoretti.
Galleria nord della sala V
Ospita l’Efebo di Agrigento, piccolo capolavoro
dello stile severo nella variante locale (470 a.C.).
La statuetta è stata rinvenuta nel 1897 in una cisterna presso località San Biagio nella zona del
Tempio di Demetra. Efèbo era detto il giovane che
apparteneva alla classe di età detta “efebìa”. L’efebìa (ephebéia) era la condizione legale dei giovani
al primo gradino dell’arruolamento di leva. L’efebia era quindi il primo gradino per l’età adulta e
sanciva l’uscita dall’infanzia. Si tratta di un kouros
(giovane) in posizione ponderata con la gamba destra leggermente portata in avanti e un braccio sollevato. La figura è caratterizzata dal trattamento delle superfici morbide e lisce, dalla muscolatura plasticamente
31
rilevata, dalla tridimensionalità della testa caratterizzata dall’acconciatura a treccia avvolta intorno al capo, dal morbido modellato del
volto.
Più avanti è collocata una statuetta in marmo bianco di Afrodite al
bagno mancante della testa, nell’atto di strizzare le chiome, replica di
ambiente rodio di epoca tardo-ellenistica (II-I secolo a.C.) che richiama
l’Afrodite accoccolata dello scultore Doidalsas.
L’altra opera è un torso maschile in marmo di figura giovanile stante
con braccio destro alzato, forse un satiretto nell’atto di versare. Lo
schema del corpo gravitante lateralmente, il delicatissimo modellato ed
il trattamento chiaroscurato delle superfici fanno di questo torso un
pregevole esempio di opera scultorea di derivazione prassitelica del periodo ellenistico (II secolo a.C).
Sala X – I reperti da edifici pubblici civili di età greca e romana
Vi sono esposti materiali significativi degli edifici pubblici civili agrigentini (agorai, bouleuterion ed ekklesiasterion).
Sala XI - Le necropoli greche di
Agrigento
Dedicata alle necropoli agrigentine di recente esplorazione, dalla fase
arcaica a quella tardo-antica; vi sono
anche esposti sarcofagi a vasca (VI
secolo a.C.) e ad altare (V secolo a.C.) d’epoca greca, e sarcofagi romani
del II e III secolo. Dalla necropoli di età romana proviene il sarcofago
marmoreo di bambino con scene figurate a rilievo su tre lati proveniente
da un mausoleo di età adrianeo-antonina del II secolo d.C. Sul lato lungo
frontale vi è la raffigurazione del bambino a scuola con tre personaggi
maschili tra cui il pedagogo; segue la dolorosa scena della morte del
bambino disteso sul letto funerario tra il cordoglio dei genitori velati e
seduti in atteggiamento di profonda mestizia e di altre sette personaggi
tra cui la nutrice che gli accarezza dolcemente il viso ed il pedagogo che
solleva le braccia in gesto sconsolato. Sui lati brevi da una parte il bagno
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dell’infante e dall’altra il viaggio ultraterreno del bambino morto rappresentato alla guida di un piccolo carro trainato da un ariete.
Sezione II.
Sale XII e XIII - I siti del territorio delle provincie di Agrigento
e Caltanissetta, dalla preistoria alla fase di ellenizzazione
Il viaggio inizia con la preistoria dell’agrigentino. Si tratta di vasellame dipinto, di corni fittili, di fusaiole e di oggetti votivi tra cui un modello di capanna-tempietto in terracotta databili nella prima metà del II
millennio a.C. ma anche di strumenti di lavoro che erano utilizzati per
cavare dai banchi rocciosi il materiale solfifero che veniva successivamente fuso nelle fornaci. Le ceramiche di importazione egea documentano antichi rapporti mercantili tra la Sicilia ed il mondo greco prima
dell’avvento dei micenei.
Sala XIV – La topografia dell’agrigentino
E’ la sala dei centri del territorio che furono interessati dalla espansione acragantina da est ad ovest, dalla foce del fiume Platani (l’antico
Halykos) sino alle vallate interne e al fiume Belice (l’antico Hypsas).
Una buona parte di questa sala è dedicata ad Eraclea Minoa, colonia di
Selinunte fondata alla metà circa del VI secolo a.C.
Sala XV – Gela
Non poteva mancare la Sala dedicata
a Gela, madrepatria di Akragas. Oltre a
20 pannelli murali che danno l’idea
dell’eccezionale patrimonio archeologico-monumentale della colonia rodiocretese, al centro della Sala si trova il magnifico cratere attico a figure
rosse con Amazzonomachia databile al 460 a.C., proveniente dalle
necropoli di Gela. Sul corpo la scena centrale è costituita dalla lotta tra
un guerriero, elmato ed armato di grande scudo, corazza e lancia, e un’amazzone che viene atterrata. Con ogni probabilità si tratta dello
struggente episodio dell’uccisione da parte di Achille di Pentesilea, gio33
vane regina delle Amazzoni, della quale l’eroe si innamora nello stesso
istante nel quale ne provoca la morte.
XVI – La cultura di S. Angelo Muxaro
In questa Sala sono esposti i materiali della cultura indigena protostorica di S. Angelo Muxaro-Polizzello con le tipiche ceramiche lustrate
in rosso. La componente egea della cultura sicana di S. Angelo Muxaro
emerge dalle monumentali tombe a tholos scavate nella roccia di cui si
ha una visione dalle ricostruzioni plastiche presenti in questa Sala.
Sala XVII - La topografia del nisseno
Contiene materiali dalle necropoli indigene coeve a quelle greche
delle provincia di Agrigento e di quella di Caltanissetta.
34
LA CHIESA DI SAN NICOLA
La fondazione del monastero di San Nicola risale probabilmente all’XI
secolo, in quanto ne viene menzionata l’esistenza in un documento del
1181. Nel 1219 il monastero fu donato dal vescovo Urso ai monaci cistercensi di Santa Maria di Adrano, i quali iniziarono i lavori di costruzione della chiesa. Questa sarebbe sorta sulle rovine di edifici precedenti,
motivo che giustificherebbe l’orientamento ovest-est, inusuale per gli
edifici dell’Ordine. Nel 1322 il
complesso monastico passò ai
Benedettini e quindi nel 1426 ai
Francescani. Secondo alcuni studiosi la chiesa sarebbe stata ricostruita in forme romaniche alla
metà del XVI secolo, quindi
quella oggi esistente sarebbe solo
un’imitazione cinquecentesca
che avrebbe sostituito in gran parte il monumento originario.
L’architettura della chiesa è estremamente interessante. I conci utilizzati
per la costruzione provengono dalla Cava dei giganti, come veniva comunemente chiamato il Tempio di Zeus in rovina. La facciata è scandita
da due alti ed imponenti contrafforti cinquecenteschi che racchiudono
un bel portale ad arco acuto.
Presenta una pianta assai originale ad un’unica navata composta da quattro campate, con quattro profonde cappelle sul lato destro che configurano quasi una seconda navata laterale. Alcuni studiosi ipotizzano la
presenza di una navata sinistra, poi scomparsa. La navata termina con
una parete (jubè) che si eleva fino alla copertura e che la separa dalla
zona absidale. Questa parete ha, in basso, una ampia apertura centrale
ad arco su massicce colonnette e, sopra ad essa, cinque arcate cieche separate da pilastrini poligonali impostati su mensole in aggetto e una nicchia a sesto acuto contenente un altare.
Per la particolare struttura della navata laterale e per la presenza dello
jubé la chiesa di San Nicola di Girgenti rappresenterebbe un interessante
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caso di architettura borgognona, ma influenzata da caratteri artistici locali, soprattutto derivati dagli esempi classici di cui la zona è ricca.
Nella terza cappella è custodito un bel sarcofago romano del III secolo
d.C., detto Sarcofago di Ippolito e Fedra, particolarmente amato da Goethe. Ispirato a modelli greci, è scolpito su tutti i quattro lati ad altorilievi
e vi è raffigurato il mito di Fedra e Ippolito. In senso antiorario si vedono: l’eroe in procinto di partire per una battuta di caccia ed il momento
in cui rifiuta il messaggio di Fedra portato dalla nutrice; il dolore ed il
delirio di Fedra circondata da nove ancelle; la caccia al cinghiale con
Ippolito a cavallo; infine la morte dell’eroe. Il sarcofago è interessante
anche perché al suo ritrovamento nel XVIII secolo fu trasformato in altare.
Nella seconda si trova il Crocifisso ligneo del ‘400, detto comunemente
“Signore della Nave”, che ha ispirato la novella omonima di Pirandello.
“… il Signore della Nave si festeggia nell’antica chiesetta normanna di
San Nicola, che sorge un buon tratto fuori del paese, a una svolta dello
stradone, tra i campi.
Ci dov’essere, se si chiama così questo Signore, qualche storia o leggenda ch’io non so. Ma certo è un Cristo che, chi lo fece, piú Cristo di
così non lo poteva fare, ci si mise addosso con una tale ferocia di farlo
Cristo, che nei duri stinchi inchiodati su la rozza croce nera, nelle costole
che gli si possono contare tutte a una a una, tra i guidaleschi e le lividure,
non un’oncia di carne gli lasciò che non apparisse atrocemente martoriata. Saranno stati i giudei su la carne viva di Cristo; ma qui fu lui, lo
scultore. Quando però si dice, esser Cristo e amare l’umanità! Pur trattato così, fa miracoli senza fine questo Signore della Nave, come si può
vedere dalle cento e cento offerte di cera e d’argento e dalle tabelle votive che riempiono tutta una parete della chiesetta; ogni tabella col suo
mare blu in tempesta, che non potrebbe essere più blu di così, e il naufragio della barchetta col nome scritto bello grosso a poppa che ciascuno
possa leggerlo bene, e insomma ogni cosa, tra nuvole squarciate, e questo Cristo che appare alle supplicazioni dei naufraghi e fa il miracolo.”
(L. Pirandello, Il Signore della Nave)
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IL SANTUARIO DI SAN CALOGERO
La chiesa di San Calogero fu
edificata tra il XIII e il XIV secolo
fuori dallle mura dell’antica città
medievale. La tradizione vuole che
in una grotta nella medesima zona
dove sorge la chiesa abbia soggiornato, nel V secolo, il veneratissimo
Santo.
Nel 1573 fu costituita una confraternita dedicata a San Calogero
con l’intenzione di ampliare e di
riedificare la chiesa affinché potesse diventare un oratorio per i devoti stessi. Il 3 febbraio del 1573 il
vicario generale Giacomo di Sanfilippo rilasciò la concessione per procedere ai lavori. Nel 1598 papa Clemente VII approvò le celebrazioni
della festa di san Calogero in tutta la Sicilia. Nei primi anni del Novecento, la chiesa era caduta in uno stato di completo abbandono; solo
nel 1938 iniziarono i lavori di restauro. Nel 1977 la Chiesa venne elevata
a santuario con un decreto del Vescovo Mons Giuseppe Petralia.
Nel complesso la chiesa appare piuttosto sobria. La parte più rilevante è costituita dall’abside dalla conformazione rettangolare, con tre
cappelle incavate quasi nello stesso piano, che conferiscono, nell’insieme, l’idea di una iconostasi bizantina. La cappella al centro, contenente la nicchia dove è riposto il simulacro di San Calogero, è ornata di
pregevoli stucchi, che riproducono i simboli identificativi del santo, ovvero il bastone e la cerva: il bastone rappresenta il sostegno che il Santo
usava nel suo peregrinare; la cerva allude all’animale del cui latte il santo
si nutriva e che un giorno venne uccisa da un cacciatore, un certo Arcario. Quest’ultimo, perdonato dal santo, divenne suo devoto discepolo.
Calogero (dal greco “buon vecchio”, appellativo che indicava gli anacoreti, che vivevano appartati in luoghi solitari e in grotte), nacque a
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Cartagine da genitori cristiani tra il V e il Vi secolo e, sin da piccolo,
abbracciò gli insegnamenti del Cristianesimo.
Fuggito dalla Tracia a causa delle persecuzioni scatenate dai monofisiti, si recò in Sicilia, dove si trattenne per qualche tempo predicando
e prestando cure agli ammalati con le acque sulfuree dell’isola, convertendo molti abitanti e proseguendo nella sua vita di eremita e taumaturgo, nascondendosi in antiche necropoli e nelle numerose grotte di
origine vulcanica sparse per la Sicilia. Partendo da queste peregrinava
per i paesi ove predicava la fede, amministrava i sacramenti e assisteva
gli ammalati. La tradizione ricorda come il Santo, durante la peste che
imperversava in città, con l’aiuto dei suoi monaci allestì un lazzaretto
dove curavano e accudivano i malati. Quando venivano a mancare gli
alimenti il Santo andava in città a mendicare per sfamare i bisognosi e
mentre girava per le strade supplicava i sani d’avere pietà per gli ammalati e così le imposte si aprivano e, sul mantello aperto del Santo, piovevano pane e generi di conforto.
Ultima sua tappa furono le grotte poste sul monte Kronos
(Kronio) presso Sciacca, dove visse operando molti miracoli e guarigioni
e convertendo molti abitanti alla fede cristiana, e dove morì
nella notte tra il 17 e il 18 giugno del 561. Aveva 95 anni.
Nel santuario sono presenti sei statue di san Calogero.
La più antica, in legno, è collocata nella nicchia dell’altare maggiore
e risale al XVI secolo. si ritiene che sia opera di un artista agrigentino,
realizzata negli ultimi decenni del Cinquecento. La statua raffigura il
Santo in età avanzata, col volto scuro, la barba bianca, il bastone e il
megaloschima, o abito angelico, dei monaci eremiti italo-greci. San Calogero viene raffigurato
con un libro, aperto tra le
mani, in cui è scritto un
passo del profeta Osea
che allude alla vita eremitica condotta dal
santo.
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RACALMUTO
Il paese di Racalmuto, terra natale di Leonardo Sciascia, incarna per
molti versi il carattere di quella Sicilia interna, terra dello zolfo e del
grano, che ispirò tante pagine dei suoi
romanzi.
Il nome di derivazione araba (Rahalmut – casale distrutto, perché
quando gli arabi vi giunsero trovarono la popolazione quasi sterminata
dalla peste.) indica chiaramente l’origine dell’insediamento.
Nel 1038, Racalmuto fu conquistata dai Bizantini e, nel 1087,
dai Normanni. Dopo la guerra del Vespro, gli Aragonesi la concessero
alla famiglia Chiaramonte che fece erigere il Castello attuale. A seguito
del matrimonio di Costanza Chiaramonte con il marchese Antonio Del
Carretto, nel 1307 Racalmuto passò a questa famiglia. Il Castello venne
restaurato e tornò ad essere abitato. Sino al 1576, Racalmuto fu dominio
baronale, ma, dall’anno successivo, divenne Contea e alla fine del XVI
secolo, contava oltre 4.000 abitanti. Nel XVI secolo vi nasce il pittore
Pietro D’Asaro, detto “il monocolo di
Racalmuto”. Nel 1700 Racalmuto
passò alla nobile famiglia Gaetani
(1739), e un secolo dopo, a quella
dei Requesens.
Nel secolo scorso divenne un importante centro minerario ed ebbe un
certo incremento anche l’industria del
sale.
Il paese conserva l’originario impianto urbano medievale, sviluppatosi
attorno al castello costruito nel XIV secolo da Federico Chiaramonte.
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CHIESA MADRE DI RACALMUTO
Dedicata all’Annunziata, la Chiesa Madre, in
origine era dedicata a Sant’Antonio Abate; mutò
il nome in chiesa di Maria SS. Annunziata intorno al 1620 quando il sacerdote Santo Agrò
fece costruire a sue spese l’attuale Cattedrale,
proprio nei pressi della piccola chiesa di Sant’Antonio.
E lo stesso sacerdote Agrò fece dipingere il
quadro con soggetto Maria Maddalena, firmato
appunto da Pietro D’Asaro detto il “Monocolo di Racalmuto”. Del
D’Asaro la chiesa conserva, oltre all’autoritratto, due tele: La Madonna della catena e L’Immacolata con i Santi Francesco e Chiara.
Tre navate che vennero abbellite nel corso dei decenni e che
ora presentano un barocco settecentesco. Nella volta, infatti, è riprodotto in bassorilievo l’immagine di Dio che incorona la Madonna, Madre della Chiesa. Grande importanza i lavori di restauro
degli anni Trenta per volontà dell’arciprete Mons. Giovanni Casuccio.
Tra gli altari lignei conservati, di estrema importanza
quello dedicato a Santa Rosalia,
la patrona di Racalmuto.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso la Matrice viene
chiusa per via di numerosi interventi strutturali. Grazie all’interessamento dell’arciprete Mons.
Alfonso Puma nel 2006 la Regione Siciliana finanzia la ristrutturazione della Chiesa che riapre al culto il 31 agosto 2008, dopo un
proficuo lavoro di volontariato di decine di racalmutesi che hanno
riportato il luogo sacro, con la guida dell’arciprete Mons. Diego
Martorana, al suo antico splendore.
(Tratto da http://www.ecclesieracalmuto.it)
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LEONARDO SCIASCIA
‘Tutti amiamo il luogo in cui
siamo nati, e siamo portati ad
esaltarlo. Ma Racalmuto è davvero un paese straordinario.
Oltre al circolo e al teatro, che
richiamava un tempo le compagnie più in voga, di Racalmuto
amo la vita quotidiana, che ha
una dimensione un po’ folle. La gente è molto intelligente, tutti sono
come personaggi in cerca d’autore.’
Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto, l’8 gennaio 1921, primo di tre
fratelli. La madre viene da una famiglia di artigiani, il padre è impiegato
in una delle miniere di zolfo della zona. Sciascia trascorre con il nonno
e le zie la maggior parte dell’infanzia e il loro ricordo ricorrerà spesso
nelle numerose interviste successivamente rilasciate dall’autore, nelle
quali spiegherà anche il profondo legame con la Sicilia delle zolfare, a
cui lo avvicinano il nonno e il padre.
A sei anni Sciascia inizia la scuola. Da subito affiora la sua forte passione per la storia, unita all’amore per la scrittura e gli strumenti dello
scrivere. A partire dagli otto anni si dedica intensamente alla lettura di
tutti i libri che gli è possibile
reperire a Racalmuto fra la
cerchia dei parenti, un centinaio di pubblicazioni che riescono per un poco a placare la
sua bulimia di lettura. Nel
1935 l’autore si trasferisce a
Caltanissetta con la famiglia e
si iscrive all’Istituto Magistrale IX Maggio, nel quale insegna lo scrittore Vitaliano
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Brancati, che diventerà per Sciascia un punto di riferimento della sua
vita poetica.
Nel 1941 supera l’esame per diventare maestro elementare. Nello
stesso anno lo scrittore è assunto all’ammasso del grano di Racalmuto
dove resterà fino al 1948: un’esperienza che gli permette di conoscere
il mondo contadino siciliano.
Nel 1944 sposa Maria Andronico, maestra nella scuola elementare
di Racalmuto. Da lei Sciascia avrà le sue due figlie, Laura e Anna Maria.
Pochi anni dopo, nel 1948, il suicidio del fratello Giuseppe lascia un
segno profondo nell’animo dell’autore. Nel 1949 inizia ad insegnare
nella scuola elementare nel suo paese.
È del 1952 la pubblicazione del «primo lemma di Leonardo Sciascia»: si tratta di Favole della dittatura, ventisette testi brevi di prosa
assai studiata. Sempre nel 1952, esce la raccolta di poesie La Sicilia, il
suo cuore.
Nel 1953 vince il Premio Pirandello per un suo
importante intervento critico sull’autore di Girgenti
(Pirandello e il pirandellismo).
Nell’anno scolastico ‘57-’58 viene distaccato a
Roma, al ministero della pubblica istruzione. Al suo
ritorno si ristabilisce con la famiglia a Caltanissetta,
ma interrompe l’attività di insegnamento per lavorare
in un ufficio del Patronato scolastico
Nel 1956 esce il primo libro di rilievo Le parrocchie di Ragalpetra, a cui seguono nell’autunno del ’58 i tre racconti
della raccolta Gli zii di Sicilia: La zia d’America, Il quarantotto e La
morte di Stalin. Nel 1960 è pubblicata la seconda edizione de Gli Zii di
Sicilia, a cui s’è aggiunto un quarto racconto, L’antimonio.
Del 1961 è invece Il giorno della civetta, il romanzo sulla mafia che
porterà a Sciascia la maggior parte della sua celebrità: e proprio l’impegno civile e la denuncia sociale dei mali di Sicilia saranno uno dei tratti
più pertinenti per la definizione della fisionomia dello scrittore e intellettuale Leonardo Sciascia.
Negli anni successivi Sciascia scrive altri romanzi quali Il consiglio
d’Egitto (1963), A ciascuno il suo (1966) e Morte dell’Inquisitore
(1967).
Il 1970 è l’anno del pensionamento e dell’uscita de La corda pazza,
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una raccolta di saggi su cose siciliane nella quale l’autore chiarisce la
propria idea di “sicilitudine” e dimostra una rara sensibilità artistica
espressa per mezzo di sottili capacità saggistiche.
Il 1971 è l’anno de Il contesto, libro destinato a destare una serie di
polemiche, più politiche che estetiche, alle quali Sciascia si rifiuta di
partecipare ritirando la candidatura del romanzo al premio Campiello.
Tuttavia si fa sempre più forte la propensione ad includere la denuncia
sociale nella narrazione di episodi veri di cronaca nera: gli Atti relativi
alla morte di Raymond Roussel (1971), I pugnalatori (1976) e L’affaire Moro (1978) ne sono un esempio
Alle elezioni comunali di Palermo nel giugno ’75 lo scrittore è candidato come indipendente nelle liste del partito comunista: eletto con un
forte numero di preferenze Sciascia si dimette da consigliere già all’inizio del 1977.
La sua contrarietà al compromesso storico e il rifiuto per certe forme
di estremismo lo portarono infatti a scontri molto duri con la dirigenza
del partito comunista. Significativamente, quell’anno pubblicherà Candido. Ovvero, un sogno fatto in Sicilia.
In questi anni aumenta la frequenza dei suoi viaggi a Parigi e si intensificano i contatti con la cultura francese, da lui sempre tenuta come
essenziale punto di riferimento.
Nel 1979 accetta la proposta dei radicali e si candida sia al Parlamento europeo sia alla Camera. Eletto in entrambe le sedi istituzionali
opta per Montecitorio, dove rimarrà fino al 1983 occupandosi quasi
esclusivamente dei lavori della commissione d’inchiesta sul rapimento
Moro. In seguito a nuovi contrasti con il PCI di Berlinguer Sciascia abbandona l’attività politica, ma non rinuncia all’osservazione delle vicende politico-giudiziarie dell’Italia, in particolare per quanto riguarda
la mafia. In un articolo sul «Corriere della sera» dal titolo I professionisti dell’ antimafia, nel 1987 Leonardo Sciascia afferma che in Sicilia,
per far carriera nella magistratura, nulla vale più del prender parte a processi di stampo mafioso.
La memoria, privata e collettiva, restano però al centro della produzione letteraria sciasciana. Infatti l’autore pubblica una collana chiamata
appunto “La memoria”, che si apre con un suo libro, Dalle parte degli
infedeli (1979), e che con le sue Cronachette festeggia nel 1985 la centesima pubblicazione.
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Gli ultimi anni di vita dello scrittore sono segnati dalla malattia che
lo costringe a frequenti trasferimenti a Milano per curarsi. Sia pure a fatica prosegue la sua attività di scrittore, mentre i continui attacchi di una
sinistra opportunista e ideologizzata lo impegnano in sempre più taglienti e ironiche reazioni. Carichi di dolenti riflessioni autobiografiche
sono i brevi racconti gialli Porte aperte (1987), Il cavaliere e la morte
(1988) e Una storia semplice (in libreria il giorno stesso della sua
morte), in cui si scorgono tracce di una ricerca narrativa all’altezza della
difficile e confusa situazione italiana di quegli anni.
Sciascia muore a Palermo il 20 novembre 1989, salutato da numerose parole di stima. Il suo corpo riposa all’ingresso del cimitero di Racalmuto.
L’AREA ATTREZZATA FIRRIO A GROTTE
Circondato da terreni impiantati da
ricche colture e da floridi pascoli, il
bosco fa parte del gruppo di sette aree
attrezzate della provincia di Agrigento.
La sua superficie è caratterizzata da impianti forestali a conifere che preparano
il terreno alle specie di Quercie che costituiranno il bosco definitivo.
L'origine del bosco di Firrio è stata prodotta da una dura lotta dell'uomo contro la natura per recuperare dei terreni non idonei alla coltivazione forestale: il risultato si può apprezzare andando a visitare questo
splendido paradiso. L'area è stata attrezzata con tavoli, panche, punti
cottura e servizi in genere.
Il bosco consente di godere dei
colori e delle forme del paesaggio,
permette di respirare aria incredibilmente pura, ma si può anche conoscere l'attività, determinante dei
forestali, tendente alla protezione
del territorio e all'instaurarsi della
cosiddetta cultura del bosco.
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LUIGI PIRANDELLO
«Io… sono figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché sono nato in
una nostra campagna, che trovasi presso a un
intricato bosco denominato Cavusu… corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo
greco Kaos (...). Io penso che sarà cosa certa per
gli altri che dovevo nascere là e non altrove e
che non potevo nascere né dopo né prima; ma
confesso che di tutte queste cose non mi son
fatta ancora né certo saprò farmi mai un’idea».
È il 28 giugno 1867 e la nascita del grande drammaturgo e scrittore italiano giunge lieta agli abitanti della piccola contrada di Girgenti (Agrigento), laddove imperversa il colera.
Eppure a noi pare molto facile presagire la parte che tante piccole circostanze ebbero nel portare questo siciliano a divenire, eccezion fatta
per William Shakespeare, l’autore più rappresentato nel mondo e questa è la sua storia.
Atto primo: don Stefano e donna Caterina, ossia la tradizione laica garibaldina e antiborbonica a unire i genitori dell’autore; spirito imprenditoriale e osteggiatore dei furori letterari lui, comprensiva e addolorata
dalla “vivacità” del marito lei.
A cornice, due sorelle, un fratello e un’infinità di cugini.
Atto secondo: Pirandello abbandona l’Istituto tecnico di Agrigento, consegue il diploma al liceo di Palermo; dunque si iscrive sia alla facoltà di
Legge, sia a quella di Lettere dell’università di Roma; espulso a causa
un diverbio col latinista Occioni, ripara a Bonn, con tanto di lettera di
presentazione del suo estimatore, professor Monaci, a seguire i corsi di
Foerster in Filologia romanza, per poi laurearsi, nel 1891 con una tesi
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su “Suoni e sviluppi della parlata di
Girgenti”.
Atto terzo: tracollo finanziario del
padre e successi; per Pirandello
all’iniziale barcamenarsi in più occasioni di reddito si sostituisce il favore sempre maggiore riscosso
dalle sue pubblicazioni. Si parte
dall’insegnamento presso l’Istituto Superiore di Magistero femminile di
Roma, alla collaborazione con più riviste e giornali, tra i quali il Corriere
della Sera, alla fondazione, con Ugo Fleres, del settimanale letterario
Arie! e, col figlio, Vergani e Bontempelli, del Teatro d’arte di Roma.
Atto quarto: le donne. Invaghito della cugina Lina, non corrisposto
dalla bella tedesca Jenny Schulz-Lander, sposato, infine, ad Antonietta
Portolano; col matrimonio (combinato tra padre e socio, come la “sicilitudine” impone) arrivano tre figli e tanti anni difficili (muore la madre
e il figlio prediletto è ferito e prigioniero al fronte) che culmineranno
nel ricovero della moglie per insanità mentale.
Ultimo atto: è il 1924, nel pieno della
bufera politica scatenata dall’assassinio di Giacomo Matteotti, con un
breve telegramma indirizzato a Mussolini Pirandello dichiara di voler aderire come «umile e obbediente
gregario» al partito fascista, da cui ottiene finanziamenti per il Teatro
d’arte, nel quale debutterà la giovanissima Marta Abba, prima attrice dei
suoi drammi e musa ispiratrice. La fama dell’autore sfonda i confini italiani e nel 1934 a Stoccolma, arriva il Nobel per la letteratura. Rilevata
freddezza alla consegna del premio, comincia ad allontanarsi dal regime,
fino all’ultimo dispetto: il rifiuto della celebrazione delle solenni esequie
di Stato. Ed è l’epilogo: Pirandello muore nel 1936 a Roma, e viene tu46
mulato in una roccia della tenuta del Caos, là dov’era nato 68 anni prima.
Nelle sue ultime volontà lascia disposizioni per il suo funerale:
«Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta». E
così fu fatto.»
Opere
Tra le oltre cento opere di Pirandello ricordiamo alcuni romanzi:
L’Esclusa (1901), Il turno (1902), Il fu Mattia Pascal (1904), Giustino
Rondella nato Boggiòlo (1941), I vecchi e i giovani (1913) e Uno, nessuno, centomila (1926); tra le opere teatrali: Così è (se vi pare) (1918),
Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Enrico IV (1922), Come tu mi
vuoi (1930), La favola del figlio cambiato (1933); tra le raccolte di novelle: Mal giocondo (1889), Pasqua di Gea (1891), Elegie renane
(1895); tra i saggi L’umorismo (1908).(di caterina giojelli)
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LETTURE PER L’ESTATE
Alberto Savorana
Vita di don Giussani
Editore: Rizzoli - Anno: 2013
«Tutto per me si è svolto nella più assoluta normalità, e solo le cose che accadevano, mentre accadevano, suscitavano
stupore, tanto era Dio a operarle facendo
di esse la trama di una storia che mi accadeva e mi accade davanti agli occhi.» Luigi
Giussani
«La storia di don Giussani è così significativa, perché ha vissuto le nostre stesse
circostanze, e ha dovuto affrontare le stesse
sfide e gli stessi rischi, ha dovuto fare lui stesso il cammino che descrive
in tanti brani delle sue opere» (Julián Carrón). Le circostanze che ha attraversato e le persone incontrate sono state decisive per il delinearsi
della vocazione di don Luigi Giussani: i suoi genitori, i professori e i
compagni del Seminario, le sue letture, il sacerdozio, i primi giovani conosciuti in confessionale o in treno, l’insegnamento, le incomprensioni
e i riconoscimenti, la malattia. Don Giussani ha sempre considerato il
cristianesimo come un fatto, un evento reale nella vita dell’uomo, che
ha la forma di un incontro, invitando chiunque a verificarne la pertinenza
alle esigenze della vita. Così è stato per i tanti ragazzi e adulti di tutto il
mondo che hanno riconosciuto in quel prete dalla voce roca e attraente
non solo un maestro dal quale imparare, ma soprattutto un uomo col
quale paragonarsi, un compagno di cammino affidabile per rispondere
alla domanda: come si fa a vivere? Oggi uno di quei “ragazzi”, che con
lui hanno percorso un tratto importante della loro vita e continuano a seguire ciò che egli stesso seguiva, prova a raccontare chi era e come ha
vissuto don Giussani attraverso molti documenti inediti. Nasce così questa biografia che, oltre a ricostruire per la prima volta la cronaca dei
giorni del fondatore di Comunione e Liberazione, offre ai lettori il segno
della sua eredità per la vita delle persone e della Chiesa.
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Documenti
Europa 2014. È possibile un nuovo inizio?
02/05/2014 - La Pagina Uno di “Tracce”
di maggio, gli appunti dall’intervento di Julián Carrón all’incontro di presentazione
del documento di CL. Milano, 9 aprile 2014
Luigi Giussani
Conversazioni con Robi Ronza
Il Movimento di Comunione e Liberazione (1954-1986)
I primi trent’anni di Comunione e Liberazione rivissuti attraverso le parole di Luigi
Giussani: questo libro ripropone una serie
di conversazioni tra il fondatore del movimento e il giornalista Robi Ronza e permette ai lettori di cogliere le ragioni che
guidarono don Giussani nelle sue scelte,
dagli inizi al liceo Berchet alla crisi del ’68,
fino alla crescita di CL negli anni ’70 e ’80.
Fonte preziosa per comprendere il percorso umano e spirituale del sacerdote di Desio, questa testimonianza rappresenta un’opportunità per
ripercorrere dal punto di vista dello stesso Giussani la nascita e lo sviluppo di un movimento che ha saputo accompagnare migliaia di persone
alla riscoperta del legame inscindibile tra la fede e le esigenze fondamentali dell’animo umano.
49
Thomas Stearns Eliot
Cori da “La Rocca” Introduzione di P.
Bigongiari.
Traduzione di R. Sanesi. Commento di
D. Rondoni
Editore: BUR - Anno: 2010
Scritto su commissione, “La Rocca” fu rappresentato nel 1934 allo scopo di raccogliere fondi per la costruzione di una
parrocchia nei sobborghi di Londra. T.S.
Eliot, già consacrato dalla critica come uno
dei nuovi maestri del ’900, per questo testo
insolito rischiò la reputazione. In questi
Cori da “La Rocca”, la più “snobbata” ma soprattutto la più profetica
opera di un grande della poesia di tutti i tempi, Eliot propone, con la sua
tipica mescolanza di ironia e di alta drammaticità, pagine di straordinario
impatto emotivo, in cui la desolazione della vita senza significato e il
destino della Chiesa nel mondo sono scrutati con la sensibilità e l’intelligenza del poeta e del fedele che non risparmia alla sua epoca e a se
stesso interrogativi e “smitizzazioni”.
Presentata da uno dei maggiori poeti italiani, l’opera è accompagnata
da una pratica guida alla lettura che la rende accessibile a tutti e ne evidenzia le provocazioni. Questa edizione mantiene il testo inglese a
fronte.
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Gilbert Cesbron
È mezzanotte dottor Schweitzer
Introduzione di Davide Rondoni
Editore: BUR Anno: 2013
“... e poi bisogna, anzitutto, amare l’inaspettato. Un giorno, un viso si affaccerà
a una porta, un libro cadrà sotto la sua
mano, ascolterà la parola di uno sconosciuto... e la sua vita troverà d’un tratto
la sua ragione.
Ogni grande esistenza nasce dall’incontro di un gran caso...” Albert Schweitzer,
teologo protestante e musicista, nel
1913 partì per il Congo come chirurgo missionario, e in un appassionato sforzo di imitazione di Cristo si dedicò alla cura della popolazione africana fondando un ospedale a Lambaréné.
Per la sua scelta divenne simbolo della generosa dedizione ai malati di lebbra e il grande romanziere di formazione cattolica Gilbert
Cesbron gli dedicò questo dramma teatrale - ambientato nel 1914
all’alba della Grande Guerra - in cui, attraverso tre personaggi (il
dottore, il costruttore, il missionario) l’autore esprime i diversi
modi di intendere la promozione umana e la carità; ma le pagine
più intense sono soprattutto quelle dove descrive l’amicizia e le
differenze tra padre Carlo (figura che adombra padre de Foucauld)
e Schweitzer; Cesbron coglie il momento in cui lo sforzo umano
verso il bene conosce la propria fragilità, a fa così emergere la
forza insostituibile della fede nel rivelare la profonda corrispondenza tra le esigenze dell’uomo e la presenza di Cristo.
51
Luois De Wohl
La gloriosa follia Un romanzo del
tempo di San Paolo
Editore BUR classici moderni Anno:
2014
Dalla gioventù, trascorsa come devoto
e severo studioso ebreo e feroce persecutore dei cristiani, alla miracolosa conversione sulla via di Damasco, fino
all’instancabile impegno missionario e
al martirio a Roma, Paolo di Tarso rappresenta una delle figure fondamentali
della cristianità. Personaggio combattivo e affascinante, san Paolo emerge da questo portentoso romanzo in tutta la sua complessità: attraverso la sua storia e quella
del suo tempo, de Wohl ripercorre le tappe decisive del percorso
che portò Paolo a diventare uno dei più ispirati apostoli del messaggio cristiano, e ci restituisce l’umanità e la grandezza di un
uomo che, guidato dall’amore per Cristo e per il prossimo, seppe
regalare a un mondo in declino la fiamma viva e travolgente di
una nuova fede.
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NUMERI UTILI
ALBERGO 0922 606733
FRANCESCO INGUANTI 338.9991137
MEDICI REPERIBILI
TOMMASO AZZARELLO 339.5452166
GIACOMO RONDELLO 338.5625882
53
INDICE
Che cosa cercate
Editoriale di TRACCE
Programma
Agrigento
La Valle dei Templi
Il museo archeologico
La Chiesa di san Nicola
Il santuario di san Calogero
Racalmuto
Chiesa Madre di Racalmuto
Leonardo Sciascia
Area Attrezzata Firrio
Luigi Pirandello
Letture per l’estate
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SCRIVI RIFLESSIONI, COMMENTI
E SUGGERIMENTI SULLE VACANZE
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francesco inguanti