"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
Mercoledì 16 maggio 2001
(mattino)
LUIGI MINARDI, Presidente Consiglio regionale delle Marche. Il convegno di
oggi, riservato ai consiglieri — sono presenti anche i dirigenti del Consiglio e della
Giunta — ha lo scopo di fare il punto sulle modifiche che sono state introdotte alla
Costituzione con la riforma del Titolo V e di fare il punto anche sulla nostra
discussione. Abbiamo tenuto due Forum durante i quali i consiglieri hanno avuto
prevalentemente un atteggiamento di ascolto ed oggi, dedicando una giornata
esclusivamente ai consiglieri, abbiamo pensato di metterli nella condizione di prendere
parte più attiva al dibattito, anche in considerazione del fatto che la fase di attesa
rispetto all'andamento delle riforme, sarà superata, ci auguriamo, e il protagonismo dei
consiglieri sarà molto superiore rispetto a questo anno, in effetti speso in attesa di
verificare l'andamento delle riforme.
La mia non sarà una vera e propria relazione. Ho già proposto, nei Forum
precedenti, alcune mie considerazioni. Farò quindi solo alcune rapide osservazioni
prima di lasciare spazio alle relazioni vere e proprie del dott. De Rita e del prof.
Cassese, il quale ieri sera ci ha comunicato di essere nell'impossibilità di partecipare,
per un impegno sopraggiunto all'università, ma ci ha fatto vere una relazione che avete
in cartella e che sarà poi letta.
Le mie considerazioni riguardano quattro punti fondamentali.
Il nostro lavoro di riscrittura dello Statuto risente, ovviamente, delle condizioni
ambientali in cui si svo lge. Prevalentemente è influenzato dal quadro normativo di
riferimento e dalla qualità del confronto politico. Il primo è ancora incerto, poiché la
riforma è sottoposta a referendum: si celebrerà in autunno e il risultato del referendum
sarà ovviamente ind ifferente per i nostri lavori. Per quel che riguarda il secondo — la
qualità del confronto politico — c'è da augurarsi che il confronto sulle riforme
istituzionali sia il più possibile costruttivo, perché la riscrittura delle regole deve essere
fatta cercando la convergenza più ampia. Mi auguro, quindi, che la legislatura sia
contrassegnata dalla più rigorosa, intransigente distinzione dei ruoli tra maggioranza e
minoranza, ma anche dalla ostinata ricerca di un patto tra le forze politiche sulle riforme
istituzionali che restano ancora un obiettivo da raggiungere in questa lunga transizione
italiana.
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La prossima scadenza referendaria è quindi un banco di prova decisivo, sia per il
quadro normativo sia per la qualità del confronto politico.
La seconda questione. I nuovi statuti regionali assumono, con la riforma del
Titolo V della Costituzione un rango primario e non sono più sottoposti alla
subordinazione della legge statale. Le Regioni, da enti di attribuzioni diventano enti a
competenza generale e vedono così esaltata la funzione legislativa e rafforzata sempre
più la loro similitudine con le assemblee legislative. Gli statuti, in virtù di ciò
potrebbero non limitarsi ad impegnare le Regioni nell'attuazione di diritti già previsti
dalla Costituzione, ma potrebbero ampliare la tutela garantita dal diritto costituzionale
nazionale. Per far corrispondere sempre più norme e funzioni, il Congresso dei Consigli
regionali ha recentemente deliberato, in seduta plenaria, l'invito a promuovere l'uso del
termine "Parlamento regionale" come segno della pienezza del ruolo legislativo che ad
essi compete. Penso che nelle Marche dovremmo accogliere tale invito e che per
svolgere autorevolmente tali nuovi compiti non sarà sufficiente questo, seppure
importante, adeguamento nominalistico; servirà anche qualificare le strutture del
Consiglio, collegarle con la ricerca scientifica, per disporre di più approfondite
conoscenze sulla società marchigiana.
Terza questione. E' chiaro che l'ambito regionale, per le sue limitate dimensioni si
presenta come ottimale per riformare progressivamente il nostro sistema politico,
ricostruendo il nuovo patto tra le istituzioni di cittadini. In questo quadro, negli anni '90
il governo locale è stato la sede della sperimentazione delle riforme istituzionali.
L'intento era quello di costruire una nuova legittimazione del sistema politicoistituzionale, un nuovo rapporto di fiducia tra cittadini ed istituzioni e di assicurare al
potere locale livelli di maggiore efficienza. Nel produrre la riforma democratica del
sistema politico dobbiamo essere consapevoli che le riforme fin qui fatte sono
importanti ma non sufficienti. E' stata sottovalutata, finora, la positività della
mediazione consiliare che invece è in grado di armonizzare i vari interessi presenti nella
società e rendere meno esposta, nei suoi confronti, l'azione del governo. Riformata la
decisione, oggi c'è quindi da aggiustare l'intero processo di partecipazione democratica
fin qui esercitata nella forma dell'audizione, delle conferenze delle autonomie locali,
della concertazione. Tali procedure sono ritenute ormai da rinnovare per decidere
meglio, per migliorare l'azione di governo, non certo per rispondere ad un astratto
principio assemblearistico.
Anche il monitoraggio può permettere di migliorare costantemente l'azione del
governo regionale attraverso la verifica dell'adeguatezza degli strumenti adottati agli
obiettivi, per valutare l'eventuale necessità del loro adeguamento.
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In un mondo complesso la decisione deve essere certa e tempestiva, ma molto
spesso anche parziale e processuale. Dobbiamo imparare ad adeguarla costantemente. Il
monitoraggio previsto dal nostro Statuto e dal regolamento interno è una funzione utile
allo scopo, ma ancora poco praticato.
Il processo democratico partecipato, dunque, deve essere in grado di garantire il
modo migliore, più efficace per governare. Serve pensare le nuove funzioni senza
confusione di ruoli tra Consiglio ed Esecutivo, garantendo equilibrio tra partecipazione
e decisione.
Queste nuove funzioni richiedono un adeguamento anche della struttura del
Consiglio, in modo da mettere i consiglieri nella condizione di svolgere meglio i nuovi
compiti.
Quarto tema. Di fronte alla formidabile moltiplicazione dei soggetti del mondo
odierno, si possono assumere atteggiamenti diversi: da una parte si può esaltare la
separatezza, scambiandola per autonomia, pensando alla propria parte al di fuori di
qualsiasi interrelazione — ciò solo per avere garantita mano libera, ovviamente —
dall'altra si può negare l' autonomia delle parti, temendo una perdita di funzioni e di
controllo sul sistema. Ciò per cercare di mantenere un impossibile centralismo.
Sono due modi diversi di evitare di ragionare sui processi in corso nella società e
sulle relazioni tra le varie parti del sistema. Il primo modo le recide le relazioni,
isolando le parti, il secondo modo cerca di impedire che il sistema si articoli. Ma il
processo di articolazione della società è inarrestabile ed entrambi i modi sono destinati a
subire, impotenti, lo stesso fenomeno: la frammentazione.
Credo che fare i conti con la complessità, cercare di interpretarla, capirla
significhi individuare i percorsi che possano permettere ai vari soggetti di esprimere la
loro personalità e i modi di produrre sintesi. Non credo che la vitalità dei soggetti possa
essere valorizzata moltiplicando le sedi istituzionali, né credo che le loro potenzialità
possano meglio esprimersi se liberi da vincoli relazionali. A mio modo di vedere è
questa la sfida più complessa che dobbiamo affrontare: dare forma adeguata a queste
vitalità, senza ingessarla ma orientandola verso obiettivi condivisi, evitando che si
disperda in un improduttivo attivismo.
Inoltre, mentre il mondo si fa più piccolo, l'integrazione europea ci pone di fronte
alla necessità di una efficace integrazione tra i livelli sub regionali, regionali, nazionali
ed europei. La Regione assumerà in futuro sempre più un'essenziale funzione di snodo
tra i vari livelli. Tutto ciò — gestione della moltiplicazione dei soggetti e della
integrazione tra i vari livelli istituzionali — ci impone di lavorare sulle relazioni. E'
questa la sfida da vincere per governare i processi. Relazioni diverse e complesse,
infraregionali, con autonomie locali, con autonomie funzionali, soggetti sociali
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organizzati, vecchi e nuovi, relazioni interregionali ed internazionali, relazioni nuove,
completamente nuove, anche con lo Stato centrale, riconosciute alle Regioni anche dalla
riforma del Titolo V della Costituzione. Richiedono al legislatore regionale soluzioni
diversificate, quindi duttilità e creatività. La Regione diventerà ciò che non è mai stata:
veramente diversa da come la conosciamo e la viviamo oggi.
Siamo chiamati ad un intenso lavoro; siamo chiamati ad elaborare, senza pigrizie,
un modello regionale veramente inedito, così come inedito è stato il modello concepito
trent'anni fa. Per questo, iniziare dal nome "Parlamento regionale" è un'operazione che
va al di là dell'aspetto nominalistico: conferirebbe un avvio simbolicamente forte al
processo costituente e credo che valga la pensa di partire così.
Invito Aldo Amati a leggere l'intervento che ci ha inviato il prof. Cassese.
ALDO AMATI. Leggo:
"1. Un nuovo statuto per una nuova regione.
La legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, all'art. 3, che sostituisce l'art. 123
della vigente Costituzione, prevede che gli statuti regionali siano approvati dal
Consiglio regionale con legge, e che questa sia deliberata a maggioranza assoluta dei
componenti del Consiglio. Dopo l'approvazione, entro trenta giorni, il governo
nazionale può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte
costituzionale e, entro tre mesi, un cinquantesimo degli elettori o un quinto dei
consiglieri regionali possono richiedere un "referendum" popolare abrogativo. Se lo
statuto non è approvato a maggioranza dei voti validi, non è promulgato.
Lo statuto regionale - dispone il nuovo art. 123 della Costituzione - determina la
forma di governo regionale e stabilisce i principi fondamentali di organizzazione e di
funzionamento della regione.
Chiamate a redigere ed approvare i nuovi statuti, a trenta anni dai primi, le regioni
si chiedono quali siano i fatti nuovi di cui tener conto.
In effetti, nei trenta anni trascorsi dalla istituzione delle regioni, sono intervenute
molte modificazioni, di cui gli statuti debbono prendere atto e che richiedono scelte
importanti e nuove. Prima vi è stato un ventennio di vita in sordina, in parte dovuto alla
necessaria fase di attecchimento della nuova pianta, in parte prodotto dalle deficienze
delle classi politiche regionali. Successivamente, nel corso di un confuso dibattito, nel
quale ha dominato un tema sostanzialmente estraneo, ma evocativo - il federalismo prima è stata disposta l'elezione diretta dei presidenti regionali, poi è stato modificato
l'intero Titolo V della seconda parte della Costituzione (con legge costituzionale ancora
sottoposta a referendum). Dunque, dopo tre tentativi falliti di riforma della intera
seconda parte della Costituzione, se ne è riformato il Titolo che riguarda il potere locale
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(inteso in senso ampio), seguendo, così, una tradizione avviata agli inizi del XX secolo,
quella di adoperare il potere locale come terreno di sperimentazione di principi e statuti
giuridici, da trasferire, poi, al potere centrale.
Nel trentennio trascorso, però, vi è stato anche un secondo mutamento, che va
registrato perché influisce direttamente sul nuovo assetto del potere locale. Ci si
riferisce alla straordinaria accelerazione subita dalla costruzione sovranazionale
(Comunità, poi Unione europea), che ha prodotto la recente Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea. Il regionalismo interno non può non tener conto di
quello che viene chiamato regionalismo esterno, e cioè l'aggregazione degli attuali 15
Stati in un potere pubblico sovranazionale (anche in questo caso sono adoperate, ma a
sproposito, le espressioni federazione e Stato federale), rispetto al quale gli Stati
divengono parti di un tutto, quasi regioni di un quasi-Stato federale.
Tutti questi cambiamenti vanno tenuti presenti per disegnare il nuovo statuto
regionale. Ci si sofferma, ora, sulle implicazioni maggiori, relative alle dichiarazioni dei
diritti, ai compiti della nuova regione, alla sua struttura interna e ai rapporti suoi con gli
altri livelli di governo.
2. Il nuovo statuto e le dichiarazioni dei diritti
I primi statuti regionali seguivano il modello delle carte costituzionali dette lunghe,
perché contenevano, da un lato, un elenco di diritti fondamentali, riconosciuti dall'ente e
nell'ente regione, dall'altro il disegno della struttura regionale.
Dal 1970, il mondo delle dichiarazioni dei diritti - si adopera, per comodità, la
denominazione settecentesca originaria, francese e inglese - si è straordinariamente
affollato. Allo Stato (che ha la Costituzione) e alla regione, si sono affiancati, a partire
dagli anni '90, comuni e province, che, ampliata la loro potestà statutaria, hanno ritenuto
opportuno esercitarla elencando e ga rantendo diritti; enti dotati di cosiddetta autonomia
funzionale, quali università e Camere di commercio, che - sia pur non sempre, e con
timidezza - hanno fatto altrettanto; enti (anche privati) erogatori di servizi pubblici, che
sono stati invitati da una disposizione del 1994 ad adottare, pubblicare e rispettare
proprie "carte dei servizi"; infine, I'Unione europea, che, nel 2000, ha proclamato
solennemente la Carta citata.
Lo sviluppo di carte, costituzioni, statuti (i nomi cambiano, ma i contenuti sono,
per I'aspetto che qui interessa, simili), che garantiscono diritti a tutti i livelli di governo,
è il riflesso di un fenomeno più vasto, quello della articolazione dei poteri pubblici,
prima raggruppati nello Stato, su più livelli (cosiddetta organizzazione multi- livello).
Occorre, dunque, riconoscerlo come un fenomeno indotto da un più generale processo
di cambiamento dei poteri pubblici, raccolti prima a piramide dentro lo Stato, poi a
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raggiera intorno ad esso, ora su più livelli. Ma si avverte che questa ultima espressione è
impropria, perché, poi, tra i diversi livelli vi sono molte intersecazioni di carattere
intergovernativo.
Ora che di costituzioni, statuti e carte sono dotati tutti i tipi di poteri pubblici,
purché siano dotati di una qualche forma di autonomia, è naturale che, da un lato, le
carte o statuti siano rimessi all'organo deliberante dell'ente; dall'altro, che in essi siano
garantiti diritti. Le garanzie dei diritti, infatti, sono la forma delle relazioni tra l'ente
autono mo e i soggetti che ne fanno parte.
Da tutto ciò consegue che, per le regioni, si pongono ora, numerosi problemi:
quali diritti vanno garantiti nei loro statuti? Come evitare le sovrapposizioni con le altre
carte o statuti? Come, in particolare, disciplinare i diritti nell'ambito regionale?
Queste scelte sono tutte aperte alle regioni, salvo che per due limiti. Il primo è
quello del rispetto della Costituzione nazionale: infatti, come già notato, il nuovo art.
123 Cost. prevede che lo statuto possa essere sottoposto al giudizio di legittimità
costituzionale.
Il secondo è quello dell'art. 3 della legge di riforma del Titolo V della seconda
parte della Costituzione (nuovo art. 117 Cost., II co., lett. m) per cui lo Stato ha
legislazione esclusiva per la "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale".
A questi limiti giuridici si affiancano quelli di opportunità, che sono, a loro volta
due. Il primo riguarda la inutilità di elencare e garantire diritti che sono già regolati in
sede sovranazionale e nazionale nei confronti di quello che era una volta definito lo
Stato ordinamento.
Il secondo riguarda, invece, l'utilità - anzi, la necessità - di elencare "promissory
rights", ovvero di disporre norme programmatiche dirette non solo a garantire, ma anche
a promuovere l'effettiva realizzazione di diritti, che, così, divengono diritti-obiettivi.
3. Le funzioni della nuova regione
La nuova formulazione degli artt. 114 e seguenti Cost. e la legge n. 59 del 1997
ridisegnano la regione, di cui cambiano due elementi. In primo luogo, viene molto
ampliata la funzione normativa. Ciò perché, grazie alla elencazione delle ma terie
riservate alla legislazione esclusiva e a quella concorrente dello Stato, alle regioni
spettano tutte le materie residue, in ordine alle quali le leggi regionali incontrano solo i
limiti del rispetto dell'ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali, della
Costituzione e del principio di competenza. Perché, poi, nelle materie di legislazione
concorrente, allo Stato spetta solo la "determinazione dei principi fondamentali".
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Perché, infine, vengono eliminati i controlli sulla legislazione regionale (rinvio e ricorso
"ex ante" alla Corte costituzionale), sostituiti dal giudizio di legittimità costituzionale
successivo.
Viene, in secondo luogo, limitata l'area amministrativa, perché "le funzioni
amministrative sono attribuite ai comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario,
siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza". Peraltro, non è riservato allo Stato il
compito di determinare i principi dell'attività amministrativa.
Questo riequilibrio
delle funzioni all'interno dell'ordinamento giuridico, e specialmente tra centro e
periferia, richiede, ora, alle regioni di svolgere una funzione normativa più ampia e
intensa, ma, insieme, minori compiti amministrativi.
Il trasferimento di compiti e la maggiore autonomia nello svolgerli, infatti,
impongono alle regioni - se queste non vogliono vivere delle norme dello Stato - di
compiere una delle più grandiose opere legislative, per innovare nei campi più diversi.
Se non faranno ciò, le regioni rimarranno tante piccole brutte copie dello Stato. E se
faranno come spesso hanno fatto finora - brutti esercizi di copia l'una sull'altra tradiranno l'esigenza dell'autonomia, che è quella di rispondere alle esigenze locali,
differenziandosi dove necessario, non uniformandosi l'una all'altra.
Ma quest'opera di differenziazione dalle norme statali richiede, poi, uno sforzo di
decentramento, nel senso di favorire la normazione secondaria, provinciale e comunale.
Quest'opera, a sua volta, mentre deve rispettare i "principi di sussidiarietà,
differenziazione e adeguatezza" (nuovo art. 118 Cost.), richiede che venga garantita una
sufficiente unità dei criteri di azione nell'ambito regionale. Non sarà facile sfuggire ai
due pericoli opposti, quello dell'accentramento regionale e quello della frammentazione
locale.
4. L 'assetto interno
La legge costituzionale n. 1 del 1999 prevede l'elezione diretta del presidente della
giunta regionale lasciando salva la possibilità per lo statuto di disporre diversamente. Il
presidente nomina e revoca i componenti della giunta. La sfiducia al presidente
comporta dimissioni della giunta e scioglimento del consiglio. Così il consiglio perde il
compito di formare l'esecutivo regionale. Inoltre, il Consiglio perde il monopolio
normativo, essendo la funzione regolamentare trasferita al presidente della giunta.
Infine, la legge citata assegna allo statuto il compito di determinare la forma di governo
e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento della regione.
Si apre qui un altro importante ambito di scelte per i consigli regionali. In primo
luogo, questi potrebbero optare per un diverso modo di scelta del presidente. In altre
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parole, potrebbero ritornare dal sistema presidenziale appena scelto, a quello
parlamentare sperimentato per trenta anni. Ma dovrebbero, così, fare i conti nuovamente
con il male endemico della instabilità dell'esecutivo, con tutti gli inconvenienti che ne
discendono. Andrebbero, cioè, contro corrente.
Una volta confermato il sistema presidenziale e, quindi, rafforzato l'esecutivo, si
pongono, però, due problemi, speculari alla prima soluzione. Da un lato, occorre
stabilire adeguati contro-poteri, per tenere sotto controllo l'esecutivo stabilizzato.
Dall'altro, bisogna dare un compito al consiglio. Infatti, questo, come tutti gli organi
elettivi dei regimi di tipo parlamentare, è impegnato principalmente nel fare (e disfare) i
governi, secondo la formula esposta per la prima volta da Bagehot rispetto al
parlamento inglese.
A questi due problemi c'è una soluzione unica, quella di sviluppare la funzione
legislativa consiliare e di cercare, invece, "ex novo" quella di controllo. La prima
richiede una strutturazione nuova, capacità di conoscere, interpretare, valutare,
scegliere; uffici attrezzati per ascoltare, documentarsi, preparare le scelte; procedure di
audizione, consultazione, inchiesta.
La funzione di controllo, invece, va creata, perché i consigli, come tutti gli organi
rappresentativi o parlamenti in sistemi non presidenziali, o non hanno avuto tale
funzione, o non l'hanno svolta. E ciò per il semplice motivo che, nei sistemi di tipo
parlamentare, l'esecutivo è figlio della maggioranza dell'organo rappresentativo, mentre
nei sistemi di tipo presidenziale, dove il presidente ha una propria investitura,
l'esecutivo ha un suo proprio e autonomo fondamento.
5. Le relazioni intergovernative
Negli ordinamenti multi- livello, le relazioni dette intergovernative diventano
estremamente complesse. Infatti, i nuovi artt. 117, 118 e 123 Cost. prevedono la
partecipazione regionale alla formazione degli atti normativi comunitari e all'attuazione
ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea; la potestà
regionale di concludere accordi e intese con enti territoriali interni ad altro Stato; forme
di coordinamento tra Stato e regioni; un Consiglio delle autonomie locali, quale organo
di consultazione tra le regioni e gli enti locali. Apposite leggi, a loro volta, regolano gli
organi nazionali di consultazione, quali la conferenza Stato-regioni, quella Stato-città e
quella unificata (la seconda e la terza con funzioni di coordinamento, studio e
informazione; la prima con funzioni più ampie, perché promuove e sancisce accordi e
intese, dà pareri obbligatori, nomina responsabili di enti ed organismi strumentali, ecc.).
A1 sistema delle autonomie territoriali bisogna aggiungere quello delle autonomie
dette funziona li (istituti scolastici, università e camere di commercio), che hanno
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anch'esse statuti o documenti assimilabili e contribuiscono ad arricchire e complicare la
rete dei poteri pubblici.
Di queste relazioni sono caratteristici due aspetti. Il primo è costituito dal legame
funzionale, che compensa la separazione strutturale. Il secondo è costituito dalla
interpenetrazione reciproca, per cui i diversi livelli non sono piani tra di loro separati,
ma sistemi "porosi", tra i quali possono, ad esempio, darsi intese come quelle tra enti
territoriali di ordinamenti statali diversi.
Anche questi mutamenti normativi richiedono una disciplina, innanzi tutto
statutaria, per istituire e rafforzare gli organismi e le procedure di negoziato
intergovernativo sia nella dimensione sovranazionale, sia in quella statale, sia in quella
sub-regionale.
Si tratta di materia che ha avuto, finora, sviluppi rudimentali. Infatti,
sono state considerate relazioni giuridiche solo quelle esterne ai poteri pubblici,
specialmente tra questi e i cittadini. Le altre erano tradizionalmente relegate nel limbo
delle cosiddette relazioni interorganiche. Lo sviluppo dei poteri pubblici fuori di
organizzazioni compatte, come l'amministrazione statale, la stessa frammentazione di
queste, la collocazione su più livelli dei corpi politici e amministrativi, hanno imposto la
crescita di relazioni interne ai poteri pubblici la cui complessità è divenuta molto
maggiore dei rapporti Stato-cittadini. Ma di questo si tarda a prendere atto, per cui non
vi sono uffici "ad hoc", il personale è mal preparato alla nuova funzione della
negoziazione interistituzionale, e mancano persino ricerche e studi su tale nuova ed
evoluta realtà amministrativa.
Le relazioni intergovernative regionali verso l'alto sono un fatto non nuovo per
quanto riguarda lo Stato, sconosciuto per ciò che riguarda l'Unione Quelle verso il
basso, cioè verso i poteri pubblici sub-regionali, hanno registrato variazioni
significative: si cominciò, negli anni '70 del XX secolo, con la mitologia della delega, a
cui sono seguiti lo sviluppo di un'amministrazione propria della regione e di forme di
collaborazione meno rispettose dell'autonomia (specialmente utilizzazione degli uffici e
uso del "potere della borsa"). Il rafforzamento di province e comuni negli anni '90 ha
contribuito ad un riequilibrio.
Un diverso assetto è ora stabilito dal nuovo art. 118 Cost., per il quale il
conferimento di funzioni amministrative a province, comuni e città metropolitane può
avvenire solo con legge, statale e regionale. Mentre - come si è notato - il nuovo art. 123
prevede un organo di consultazione fra le regioni e gli enti locali. E, infine, il nuovo art.
117 riserva alla legislazione esclusiva statale la materia "legislazione elettorale, organi
di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane".
Questo nuovo assetto comporta che, se prima la materia degli ordinamenti locali
era sottratta alla legislazione regionale, oggi lo è ancora di più, per cui i poteri sub-
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regionali sono decisamente attratti nell'orbita statale. Si tratta di una conseguenza quasi
necessaria del trasferimento di nuovi compiti alle regioni e del rafforzamento
complessivo del polo regionale, che, come contrappeso, hanno richiesto una maggiore
garanzia statale del potere locale sub-regionale.
6. Conclusioni
Tratteggiato, così, il volto futuro della regione ed elencate le scelte principali da
compiere, va aggiunto, concludendo, che, ora, i consigli regionali sono chiamati ad una
duplice difficile decisione: contemporaneamente, quella di disegnare la struttura della
nuova regione e quella di trovare un proprio ruolo, diverso da quello del passato. Nel
prendere queste decisioni sbaglierebbero se ponessero l'enfasi solo sulla funzione
rappresentativa, che consiste nell'ascoltare la domanda sociale. Le collettività hanno
bisogno anche di decisioni e di servizi. Quindi, la regione deve saper ascoltare, ma
anche saper decidere e gestire".
LUIGI MINARDI. Grazie ad Aldo Amati. Ha ora la parola il dott. De Rita.
GIUSEPPE DE RITA. Sarò un relatore un po' diverso da Cassese, in parte perché
sono presente in carne ed ossa e quindi devo esprimere anche un po' di intensità
psichica, in parte perché, rispetto a Cassese, vorrei essere più ambizioso, vorrei che i
Consigli regionali, nel momento in cui si danno uno statuto non svolgano soltanto una
redazione di un testo giuridico, attenti a una logica di ripartizione dei poteri tra
Consiglio e Giunta, all'interno del Consiglio, fra Regioni e Comuni, fra Regioni e
Province.
Perché dico questo? Perché ritengo che oggi ci sia da essere più ambiziosi di
quanto lo si sia stati in passato e di quanto lo si sia adesso. Dico questo per due ragioni.
La prima è che questa stagione degli Stati può andare a declinare lontanando, "morire a
poco a poco", come diceva Leopardi, nel senso che, rispetto a un anno fa, già oggi il
problema degli Statuti regionali sembra, certe volte, superato dalla riforma
costituzionale, sembra superato dall'attribuzione dell'amministrazione ai Comuni,
sembra superato dal ciclo politico, e non solo perché abbiamo finito una campagna
elettorale annuale e probabilmente ci avviamo a un'altra campagna biennale per riandare
a votare fra due anni, ma perché, tutto sommato, sembra che questo problema non sia
così importante e centrale come era qualche tempo fa. Probabilmente ha giocato in
questo anche una certa stanchezza verso certi protagonismi di qualche "governatore" del
nord, che a un certo punto ha portato un po' tutti a dilungare i problemi, ad acquietarli, a
non lavorarci più che tanto sopra. La devolution, che sembrava un argomento
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fondamentale, probabilmente è meno importante di una volta; la devolution della
devolution, che poi è il problema reale che abbiamo di fronte, sembra lontana e quindi
c'è una sorta di galleggiamento nella mediocrità su questi argomenti.
Cassese con molta eleganza, com'è nel suo modo di pensare, oltre che di parlare,
dice "passiamo dove l'acqua è bassa", facciamo questi Statuti, il più possibile coerenti
con una realtà legislativa in atto. Pensate anche all'ultima annotazione: le Regioni
avranno sempre meno capacità legislativa sugli enti sub-regionali perché gli enti subregionali sono attratti dalla sfera statuale, ma se la Regione non riesce a dare al mondo
l'idea di essere una struttura federata, relazionale, che vive di relazioni interne, perché
poi dovrebbe fare una campagna politica per avere un federalismo in alto? C'è una certa
stanchezza nei confronti di questa stagione degli Statuti: non è ancora cominciata e già,
in fondo, si dice "tiriamo a campare", e rischiamo di avere, dopo trent'anni, una sorta di
abbandono dell'ambizione. "Meglio passare dove l'acqua è bassa, vediamo di prenderci
o di definire alcuni poteri di legislazione-concorrenza o di rego lazione di rapporto fra
legge e regolamento, vediamo come fare monitoraggio, come fare controllo, dopodiché
viviamo felici".
Non ci si rende conto che invece la stagione degli Statuti, dopo trent'anni è una
stagione di un ciclo politico, non è un altro assolvimento legislativo- giuridico. Perché
momento di ciclo politico? Perché in fondo noi oggi abbiamo, di fronte a una
congiuntura molto confusa, un problema strutturale e un problema di ciclo molto
particolari. Non sappiamo come andrà il referendum, come sarà fatta la devolution,
come saranno fatti i decentramenti, come saranno i rapporti fra Regioni e nuovo
governo (12 Ministeri accorpati che creeranno qualche problema). Questa congiuntura
confusa, che porterebbe ad accentuare il disimpegno — ci mettiamo a discutere di uno
Statuto quando non c'è chiarezza di nessun tipo, né sulla devolution, né sui referendum,
né sulla legge costituzionale, né sull'articolazione delle controparti ministeriali che
stanno a Roma, né sulle stesse culture giuridiche che si confrontano in Cassese? — deve
essere un segnale per una presa di responsabilità civile e istituzionale da parte delle
Regioni. Perché? Perché non possiamo pensare che regga strutturalmente la dimensione
piramidale dello Stato italiano e non possiamo pensare che non si debba mettere subito
mano a una struttura, che io chiamo poliarchica, di architettura distribuita ma chiara,
delle responsabilità. Distribuire le responsabilità, sapendo che la struttura piramidale
dello Stato — dove dallo Stato alle Regioni, alle Province, ai Comuni il potere scendeva
per i lati della piramide (il famoso decentramento di cultura "bassaniniana") — non
regge più, perché se uno non riorganizza i poteri sul territorio, non riorganizza le
differenti responsabilità, non fa poliarchia, quell'acqua di decentramento lungo i lati
della piramide sfarina tutto, porta a livello periferico i conflitti sindacali fra istituzioni
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— fra Anci regionali e Upi regionali, fra Comunità montane e Comuni, fra Camere di
commercio e università, fra Asl e assessorati di diverso tipo — e il vero pericolo non è
nel rapporto di devoluzione fra Stato e Regioni, perché quel rapporto di devoluzione è
già un rapporto politico e alla fine si avrà. Il vero problema è questa specie di caduta in
basso delle responsabilità senza ordine, senza impettazione di responsabilità a livello
basso, come se lo Stato avesse detto "voi Regioni volete più poteri? Ve li diamo tutti,
anzi mandiamo pure l'amministrazione ai Comuni, la riorganizzazione delle
responsabilità sub-regionali non tocca alle Regioni, c'è un rapporto diretto, quasi diretto
di by-pass fra Stato e autonomie locali". A quel punto lo sfarinamento è sicuro. E il
giorno in cui ci sarà lo sfarinamento di responsabilità, magari su una Asl che sfora, su
una Camera di commercio che fa confusione, su una unità scolastica che non ce la fa ad
andare avanti, su un territorio non protetto, la responsabilità politica non sarà di chi fa
by-pass e corto circuito — Stato o amministrazione locale — ma sarà di chi, come la
Regione, ha battagliato per anni per avere una sua responsabilità.
Il ciclo non è più quello di continuare a far scendere le competenze dalla punta
della piramide in giù, ma quello di organizzare un'architettura distribuita del potere.
Così come quelle che chiamano "aziende piatte", sono aziende non piramidali, sono
aziende ad architettura distribuita. Così come la cultura moderna, che è cultura di
software informatico, non è più la struttura piramidale organicistica del sistema alla
Menenio Agrippa, è una responsabilità in orizzontale, è architettura distribuita, dove i
terminali hanno ognuno una loro responsabilità ma stanno in rete.
La creazione di relazioni istituzionali significa la creazione di reti di articolazioni
di responsabilità, non la redistribuzione piramidale del potere.
Questo, naturalmente, è il ciclo a cui stiamo assistendo. Il ciclo della piramide è
finito. Continuare a fare battaglia politica per avere ulteriore acque di responsabilità che
scendono in basso significa, in pratica, "ormai è stato dato quasi tutto", domani anche i
vigili urbani, la polizia di quartiere, e poi alla fine hai una confusione istituzionale totale
in cui, fra autonomia di primo grado, di secondo grado, fra organismi originari come li
chiama Cacciari e organismi di tipo funzionale ecc., non c'è nulla.
Il problema che io pongo è che chi si occupa di Statuti regionali si deve prima
scrollare di dosso questa specie di palude che si è creata in quest'ultimo anno in cui se
ne parla e non se ne parla, si rinvia, si aspetta l'esperto giuridico, si fa una riflessione sul
valore generale, si aspetta il referendum, e comunque se non ci si scrolla di dosso questa
specie di illanguidimento del problema si rischia, perché poi lo si rifarà all'ultimo
momento, quando lo si farà, come un assolvimento necessario, "non si poteva non
farlo", si prenderà un giurista più o meno di livello — noi abbiamo Cassese, per fortuna
— si scriverà uno Statuto qualsiasi e via. Quindi, scrollare l'illanguidimento che sta
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
prendendo questo discorso della realtà degli Statuti. Secondo, cogliere la stagione degli
Statuti come un cambiamento di ciclo da una logica politica di tipo piramidale —
decentramento per i lati della piramide — e passare invece a un ciclo di architettura
distribuita: poliarchia delle responsabilità. Sistema informatico e non sistema
gerarchico, direbbero altri.
Personalmente, come Minardi sa, come sanno molti presidenti di Regione, in
questi mesi mi sto spendendo per questo, perché gli Statuti siano non una cosa "seria"
— cioè, si dice e no n si fa — ma siano queste due cose: l'uscita dall'illanguidimento,
quindi un documento forte e non un documento di risulta verso metà del 2002, magari;
uno strumento che faccia affermare il ciclo nuovo, che è architettura distribuita a
software informatico e non architettura piramidale di tipo gerarchico nelle competenze
istituzionali.
Mi rendo conto che buona parte dei giuristi italiani sono ancora — tranne Previeri,
tranne Antonio Baldassarre — nel ciclo piramidale e non di tipo poliarchico, perché la
loro cultura è quella, ma stiamoci attenti. Il documento dello Statuto è un documento
anche socio-politico, non soltanto giuridico.
Se questo è vero, le Regioni e gli Statuti hanno una responsabilità enorme e non
concederei a nessuno di fare la stagione degli Statuti al ribasso. Lo Statuto deve essere
un documento forte, non illanguidito nel giuridico, non illanguidito nelle affermazioni
di principio, un documento però, che sia capace di esprimere forte volontà di cambiare
ciclo verso un sistema poliarchico del potere e non un sistema piramidale.
Per far questo lo Statuto deve avere tre caratteristiche. Primo, deve essere
processuale, non una carta che non si cambia. Deve essere un meccanismo che crea
processi di relazioni fra i poteri e che possa cambiare lentamente, possa adattarsi
costantemente; non sia una sorta di narcisismo interno per cui, una volta scritto non si
cambia più. Bisogna creare questa nuova realtà. Non sia quindi processuale ed aperto,
sia un documento in qualche modo promozionale, nel senso di promuovere vitalità e
responsabilità dei soggetti coinvolti nella rilettura distribuita dei poteri e sia uno
strumento di dipanamento più o meno contrattualistico dei problemi, e al tempo stesso
lo chiamerei di cultura federativa che permetta di fare processo, di fare promozione dei
soggetti, di fare dipanamento del groviglio istituzionale, di creare, sostanzialmente, una
dimensione aperta della Regione.
Se questo è vero, se Statuto deve essere sia una stagione seria, una stagione forte e
non una stagione di "vuoto a perdere" come può diventare.
Avete in cartella il mio testo sul "filo rosso": lo ripercorrerei dicendo quello che io
penso si debba fare su questo argomento. Lo ripercorrerei, perché in fondo ci sono, nel
testo, una paginetta per ognuno dei sei titoli di cui può essere fatto lo Statuto: i principi;
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
gli obiettivi e le competenze (nello Statuto fatto da Cacciari in Veneto venivano distinti:
un titolo sugli obiettivi e un titolo sulle competenze, io propongo di riunirli); la struttura
e l'articolazione dei poteri; le funzioni delle Regioni; la gestione delle fonti normative;
gli organi interni. Quindi, nel testo che avete in cartella c'è già, in linea di massima,
come scaletta, il modo di approcciare il discorso degli Statuti che sia coerente con la
riflessione politica che ho fatto prima. Vediamo il primo punto, i principi.
Chi di voi stenderà il Titolo I intitolato "I principi" e andrà a vedere quello che
hanno fatto gli altri, si troverà in una situazione un po' balorda, nel senso che troverà
una lista di principi spaventosa, perché ogni Regione ha messo lì dentro di tutto,
sembrano delle prime parti della Costituzione: il valore del lavoro, della famiglia, della
proprietà privata, della proprietà pubblica, delle responsabilità collettive, i diritti della
persona, i diritti delle donne, i diritti dei giovani, delle giovani generazioni, i diritti delle
famiglie, i diritti dei consumatori, i diritti degli studenti addirittura. Oltre a tutta questa
lista di diritti che una Regione deve comunque definire e mettere per iscritto — ma se
mettete per iscritto che la Regione Marche riserva valore di principio ai diritti di
cittadinanza della persona, delle donne, dei giovani, della famiglia, dei consumatori,
degli studenti e non so bene che cos'altro, qualcuno di voi o fuori di voi vi dirà "vi siete
dimenticati qualche diritto" — ci sono le difese. Nei principi di molte Regioni c'è la
difesa del territorio, la difesa dell'ambiente, la difesa della condizione sociale, la difesa
della sicurezza collettiva, la difesa della qualità della vita, la difesa di tutto. Oppure ci
sono istanze chiarissime di principi relativi a meccanismi di potere, quindi "la Regione
si ispira a principi di autonomia, di autogoverno, di concertazione, di sussidiarietà
orizzontale, di sussidiarietà verticale, di apporto del volontariato, di apporto del terzo
settore...". Me ne sono scordato quasi una metà, però già una cosa di questo genere
significa un Titolo I, "I principi", intasato di diritti, di difese e di principi di governo.
Personalmente non vi consiglierei mai di seguire queste tre strade, perché la lista dei
diritti può essere di una pagina e mezza, la lista delle difese può essere di un'altra pagina
e mezza, la lista di coloro che devono o possono partecipare in concertazione, in
sussidiarietà verticale od orizzontale all'organizzazione del potere può essere di un'altra
pagina e mezza. E siccome conosciamo tutti come lavoriamo tutti noi, nel momento in
cui ci metteremo al tavolo qualcuno che dica "vi siete scordati i diritti dei contadini di
montagna" lo troveremo sicuramente.
La proposta che faccio io è quella di condensare su quattro punti fondamentali il
discorso dei principi. In primo luogo l'identità regionale, il rispetto e la valorizzazione
dell'identità regionale. Per le Marche, addirittura, si possono mettere le parole in fila:
identità policentrica, identità di cultura che sia un mix di cultura ed economia fra
turismo, industria, artigianato, parti montane e parti costiere, policentrismo dell'identità.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
Poi, la valorizzazione delle energie vere presenti sul territorio, dall'impresa Merloni fino
ai tanti extracomunitari che ci sono nelle Marche. Terzo, la difesa della coesione
sociale, perché dalla criminalità alla qualità della vita è un problema di coesione sociale.
Ultimo, l'accettazione che c'è un problema di concertazione o di collaborazione con le
strutture e le forze sociali e le autonomie da mettere insieme in questa regione, ancora
più forte che altrove, in ragione del policentrismo e della forte articolazione di
composizione sociale che c'è nel territorio.
Voi mi direte "si dice di non mettere la difesa dei consumatori, la difesa della
famiglia, i diritti della persona?". Rispondo che uno Statuto deve avere una specificità.
La difesa della persona, della famiglia, del territorio, dell'ambiente, dei diritti della
donna possono stare in tutti gli Statuti, anche del territorio di Mombasa in Kenya. Se,
come io ritengo, i principi devono avere rapporto con l'identità regionale, se deve essere
stabilito che il primo principio dello Statuto della Regione Marche è il rispetto, la
valorizzazione, la fedeltà all'identità regionale, è importante distillare quei diritti, quelle
difese, quei soggetti, quei rapporti di potere che sono dentro l'identità marchigiana,
altrimenti si fa a ciclostile uno Statuto. Naturalmente ha ragione Minardi, i valori
semantici sono importanti. Si può dire che siamo in un "Parlamento" regionale invece
che in un "Consiglio" regionale e va benissimo, ma quando tutte le Regioni italiane
diranno che sono per la difesa della donna, dei diritti dell'infanzia, la concertazione
sociale e il valore del terzo settore che cosa significa rispetto a uno Statuto della
Regione Marche? Io consiglio di cominciare a scrivere il primo Titolo, "I principi",
basandosi su questi quattro punti: centralità dell'identità marchigiana; valorizzazione
delle energie interne alla società marchigiana, anche quando siano fuori, tipo
extracomunitari o marchigiani che ormai lavorano nel mondo; difesa della coesione
sociale, della qualità della vita, del modello di vita e della convivialità marchigiana;
valorizzazione di tutte le forze in termini concertativi, delle autonomie o che altro. Se
poi volete fare l'"elenco della serva" dei diritti, delle difese di tutto non sbagliate, perché
tutti gli altri fanno la stessa cosa, però non ha molto senso.
Secondo titolo, "Obiettivi e competenze". Il testo che ha fatto Cacciari secondo
me è il più bello di quelli che ho letto, un testo di minoranza per la Regione Veneto,
fatto in contrasto con Galan che ne aveva fatto uno un po' più avventuroso, perché ci
sono state polemiche a finire sui giornali con il ministro Loiero ecc. Ma quello che è
importante è che in tutte le realtà degli Statuti c'è una lunga lista di obiettivi, che molto
spesso ripetono i principi, e al tempo stesso, per un titolo diverso, c'è una lunga lista di
competenze. Nella lista degli obiettivi ritrovate i diritti di cittadinanza, la parità
femminile.. Mentre prima c'erano i diritti della donna, qui la parità femminile dive nta un
obiettivo; mentre prima c'era la difesa dell'ambiente, qui c'è la politica di sviluppo
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
sostenibile o la sostenibilità ambientale. Mentre prima c'erano i diritti delle persone e
degli immigrati, adesso c'è la creazione della società multietnica. Non è che in questo
testo che cito non ci sia la corrispondenza fra i principi e gli obiettivi; molto spesso si
dice: "abbiamo scritto nei principi i diritti delle donne, negli obiettivi mettiamo la
politica di parità delle donne; abbiamo scritto nei principi la difesa dell'ambiente, negli
obiettivi mettiamo la creazione di uno sviluppo sostenibile". Però si esporta la
genericità, perché alla fine quelli che erano diritti, difese generiche, diventano obiettivi
altrettanto generici e in parte, in un titolo successivo si fa il discorso sulle competenze,
si dice "ci sono le competenze di vario tipo" e c'è una lunga lista di competenze che
vanno dalla rappresentanza internazionale presso l'Unione europea, la cosa più grande
di cui la Regione Veneto si vuole impossessare, fino all'amministrazione degli interventi
di formazione professionale, cioè tutto.
La proposta che faccio io è di unire obiettivi e competenze, un titolo solo, in parte
per compattare un pochettino, in parte perché unendo obiettivi e competenze che altre
Regioni stanno facendo in due titoli diversi, mi distacco dai principi che sono sempre di
tipo generale e faccio un mix fra obiettivi e competenze, do sostanza reale al discorso
degli obiettivi. Io propongo di concentrare, anche qui su cinque punti, gli obiettivi e le
competenze. L'obiettivo di programmare economicamente e territorialmente la Regione,
garantendo complessiva coerenza con l'evoluzione della realtà, è una competenza e al
tempo stesso un obiettivo. Concentrare l'attenzione sulla conservazione della qualità del
territorio come bene universale della Regione Marche è un elemento fondamentale,
obiettivo e competenza. Sviluppare l'economia regionale, incentivare e sostenere i
soggetti dell'economia regionale è un obiettivo e una competenza. Fare politiche di
coesione sociale, dalla sanità alla formazione, alla previdenza integrativa, alle mutue di
territorio ecc., significa fare una dimensione di obiettivo e di competenze. Egualmente
fare un'articolazione di poteri sub-regionali in modo tale che le Regioni siano soggetti
federati e non solo soggetti federali è una quinta cosa che va in qualche modo
disciplinata.
Quindi concentrazione su cinque punti, che per la Regione Marche ha un proprio
senso fondamentale, poiché il policentrismo della regione impone una programmazione
economico-territoriale per sociale articolata, non si può lasciare al lassaire faire né
all'individuazione di concentrazioni di potere regionaliste.
Le politiche di conservazione e qualità del territorio (programmazione e
intervento) sono fondamentali per la Regione Marche, così come le politiche per
l'economia regionale, dove i comportamenti imprenditoriali sono tali da non poter
essere connessi solo all'intervento della programmazione ma vanno approfonditi, vanno
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
accompagnati in maniera articolata, chi va in Cina come chi fa le cappe occupa la
nicchia delle cappe per tutto il mondo.
Tutto quello che sto dicendo è relativo a un testo che personalmente ho scritto
pensando anche ad altre Regioni, leggendo testi di altre Regioni ma che nella stesura
finale ho cercato di connettere alla realtà marchigiana in senso proprio.
Titolo III, l'articolazione dei poteri. Come ho detto prima, se pensiamo a una
devolution fatta come scivolamento dell'acqua sui bordi della piramide, l'articolazione e
la struttura dei poteri non la faremo mai. Su questo sono d'accordo con Cacciari:
bisogna partire dagli organismi originari, dal basso, posto che in qualche modo si possa
tentare di fare una cosa di questo genere. Partire dal basso significa partire, come lo
Statuto della Regione Veneto proposto da Cacciari ha fatto, dal primato degli organismi
originari: Comuni in particolare, e tutte le altre realtà, anche Province e Comunità
montane, che stanno dentro una realtà di originarietà. Qui, naturalmente, si crea un
problema, nel senso che, come ha detto Cassese, questo rapporto di attenzione, di
accompagnamento e di regolazione dei Comuni in una logica di regione federata viene
in qualche modo stoppato dalla legislazione costituzionale che attribuisce poteri, anche
di amministrazione, ma autonomia rispetto alla Regione, ai Comuni. Ricordate l'ultima
frase di Cassese prima delle conclusioni, che dice, "Questo nuovo assetto comporta che
se prima la materia degli ordinamenti locali era sottratta alla legisla zione regionale oggi
lo è ancora di più, per cui i poteri sub-regionali sono decisamente attratti nell'orbita
statale. Si tratta di una conseguenza quasi necessaria del trasferimento di nuovi compiti
alle regioni e del rafforzamento complessivo del polo regionale, che, come contrappeso,
hanno richiesto una maggiore garanzia statale del potere locale sub-regionale". Questa è
una negazione. Naturalmente lo dovremo vedere nei prossimi giorni, perché purtroppo
Cassese oggi non c'è, altrimenti faremmo una discus sione proprio su questo. Se le
Regioni non sono strutture federate ma solo federali, non hanno senso, sono gruppi di
potere, non costruiscono poliarchia, lasciano a livello sub-regionale la confusione, lo
sfarinamento.
Si dice "lo prevede la Costituzione". Vediamo, ragioniamo, questo non lo so. Non
possiamo pensare che la dimensione originaria che io ho posto come base della
poliarchia, l'organismo originario, quello più vicino alla gente che è il Comune, non
possa pensarsi come atomo non coagulabile in termini di legislazione regionale, di
convergenze regionali, di competenze federate della Regione. "La Regione non mi deve
regolare perché io sono attratto nell'orbita statuale". A quel punto la confusione sta
dietro l'angolo.
Qui c'è un problema aperto. Io scritto come la penso, dando responsabilità di
amministrazione, dando responsabilità di settore, dall'edilizia abitativa alla
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
pianificazione commerciale, cose tradizionali e quasi del tutto ovvie, ma rafforzando la
capacità amministrativa e alcuni settori si può dare alla dimensione comunale quella
responsabilità di custom, cioè di rapporto con la clientela, di rapporto con la
cittadinanza, di servizi che oggi è necessario nella poliarchia. Se invece, liberati dal
dialogo e dalla dialettica con la Regione, i Comuni vanno per proprio conto insieme a
Province e Comunità montane — perché la fase finale, pericolosissima, di Cassese
riguarda tutti gli organi sub-regionali — assisteremo a una confusione infernale. Quindi,
su questo chiedo a Minardi e D'Ambrosio di mettere nell'agenda politica, insieme agli
altri presidenti di Consiglio e di Giunta questo problema. Perché gli altri punti,
nell'organizzazione dei poteri sono relativamente tranquilli. Se sulla dimensione subregionale si fa chiarezza su questo fatto se le Regioni devono essere soggetto federale o
anche federato, quindi capace di fare relazioni al proprio interno — e relazioni significa
regolazione, dialettica, distribuzione di poteri, non significa soltanto chiacchierare —
gli altri problemi di attribuzione di competenze o di poteri del Titolo III, "Struttura e
articolazione dei poteri" sono più facili. Le autonomie funzionali non possono non avere
un rapporto serio con la Regione, ma bisogna stabilirlo. Cosa significa il rapporto della
Regione con una Asl? E' un rapporto di subordinazione perché è la Regione che poi
passa i soldi? E' un rapporto funzionale in senso proprio? E' un rapporto di delega ai
Comuni? E' un rapporto di deresponsabilizzazione finanziaria? Cosa significa rapporto
della regione con l'autonomia universitaria, fregarsene totalmente "perché tanto fanno
sempre il caos per comodo loro i professori universitari" oppure tentare di avere un
minimo di collaborazione? Cosa significa il rapporto con un 'ente fiera, un ente porto,
un ente int erporto, un ente aeroportuale, con la camera di commercio? Questi vanno
definiti. Le autonomie funzionali, proprio in quanto funzionali fanno parte di quei
settori — crescita della vitalità soggettuale dell'economia, crescita della coesione
sociale (sanità, unità scolastiche o unità universitarie) — che sono fondamentali nel
rapporto obiettivi-competenze che abbiamo detto prima. Però vanno definite,
specialmente in una regione come le Marche, dove la responsabilità di queste autonomie
funzionali è notevole.
Certo, le camere di commercio dopo la riforma sono decadute, nel senso che le
forze sociali si sono distribuite le presidenze: "questa tocca all'artigiano, quella tocca al
commerciante" e poi la valutazione di qualità, dopo aver fatto la valutazione, non si fa
più, però questo è un problema vero. La Regione non può governare con camere di
commercio che se ne fregano e che poi hanno competenze e partecipazioni finanziarie
dentro i porti, gli interporti e gli enti fiera, addirittura, alcune volte, nelle autostrade.
Se c'è il problema politico dell'ultima frase di Cassese, la Regione si spreca a fare
un minimo di regolazione sub-regionale? O accetta il fatto che la sub-regionalità tocca
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
allo Stato.? La Regione si spreca a fare regolazione, o almeno modi di comportamento
con le autonomie funzionali? La Regione dove dà rappresentanza reale a questa realtà
che cresce? Fa il Consiglio delle autonomie elettive e funzionali? Fa la Camera delle
autonomie? E poi con quale funzione rispetto a un Consiglio regionale che comunque
ha già una sua rappresentanza?
Negli Statuti che ho visto finora c'è questa moltiplicazione di logiche di Consigli.
Non perché parlo a consiglieri regionali ma bisognerebbe cercare di non moltiplicarli.
Consiglio delle autonomie cosa vuole dire? Oppure un Cnel regionale? Lasciate
perdere, ve lo dice uno che ha fatto il presidente del Cnel nazionale per dieci anni.
Eppure in Toscana si pensa di fare il Consiglio delle forze sociali, il Consiglio delle
autonomie in tutte le realtà dei testi o dei tentativi di testi che ho potuto vedere in questi
mesi.
Io sono convinto — non lo dico per captatio benevolentiae — che se il Consiglio
regionale si sa organizzare, se sa organizzare appuntamenti con le forze sociali,
appuntamenti con le autonomie, questa moltiplicazione dei Consigli è meglio non farla.
Mi rendo conto che in una realtà quale quella delle Marche, dove la molteplicità
delle presenze di autonomia è fortissima, dove il numero di Comuni piccoli e medi è
enorme, dove le differenze all'interno delle stesse province, fra zone montane, Comunipolvere e Comuni grandi sulla riviera è una cosa che spacca. Sono convinto che le
Marche hanno bisogno di questo respiro della Giunta e del Consiglio regionale con le
autonomie e con le forze sociali, però non consiglierei in questo momento alcuna
moltiplicazione dei Consigli. C'è un problema del Consiglio regionale, se non si limita a
fare da controcanto alla Giunta, c'è un problema di interpretare le parole "compiti di
rappresentanza" in modo attivo ma di propria gestione e non moltiplicando nello Statuto
i consigli.
Quarto Titolo, quello relativo alle funzioni delle Regioni. Io sono, dal punto di
vista istituzionale, un "contrattualista": quelli con cui vado d'accordo sono, l'ho detto
prima, Previeri e Baldassarre, cioè persone che vedono l'amministrazione, la cultura, le
istituzioni come culture relazionali, quindi contrattualistiche, non di definizione rigida
delle competenze. Contrattazione e concertazione. Pensare oggi di fare un testo
qualsiasi, fosse anche la nuova Costituzione europea pensando di organizzare tutto una
volta per sempre non si può. Sono allora convinto che la logica debba essere binaria: da
una parte, quando si parla, di "funzioni delle Regioni", bisogna specificare che su due
livelli, in basso e in alto, c'è contrattualismo continuato, cioè con la sub-regionalità c'è
contrattualismo continuato, con competenze di statuizioni, ma contrattando sempre.
Così come a livello alto, verso lo Stato e la realtà europea, non c'è altro da fare che
contrattazione, concertazione. Non si può negare alla Regione di andare a concertare in
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
Europa meccanismi relativi a direttive o a patti di stabilità che poi arrivano nelle
aziende di queste Regioni o nel bilancio di queste Regioni. Quindi contrattualismo in
alto e in basso: verso il basso la dimensione sub-regionale, verso l'alto lo Stato e la
Regione, lo Stato e l'Europa, poi, invece, una delle definizioni di definizioni ordinarie
costanti — da quella legislativa a quella amministrativa, a quella di coordinamento, a
quella di accompagnamento dei soggetti — che in qualche modo deve essere fatta.
Nella dimensione del contrattualismo, di una continua contrattualità, specialmente
a livello sub-regionale, alcune delle carte costituzionali che ho visto in questo periodo
sono legate a ipotesi di autorità indipendente. In alcune carte che ho letto si dice "su
questo argomento si fa un'autorità indipendente che regoli le dimensioni dei diversi
meccanismi di contrattazione fra Regione e realtà sub-regionali". Io eliminerei pure le
autorità indipendenti che ci sono a livello statuale, quindi lo cito soltanto per negare la
posizione.
Ultimo punto, il Titolo V, "Riordino delle fonti legislative". Non compete a me,
perché io sono più un socio economico e forse un socio politico che istituzionale, che
giuridico, però il groviglio delle norme è totale. Ci sono testi di commentatori delle
leggi e dei rapporti fra leggi nazionali, regionali, la concorrenza, la capacità di fare
potere concorrente nella legislazione, c'è tanta confusione che serve, a mio avviso, che
almeno un Titolo sia destinato al dipanamento delle fonti normative, altrimenti,
regolamento o non regolamento, legge o non legge, legge nazionale, legge regionale,
statuto del grande Comune, 142 con la città metropolitana... Una confusione infernale.
Io che non mi occupo di questi argomenti, leggendo tutti i testi che sono stati pubblicati
in questi mesi sull'argomento mi sono reso conto che c'è un problema, quindi l'ho
segnalato.
Ultimo Titolo, quello relativo alla configurazione degli organi delle Regioni. Dirò
soltanto una cosa su questo: che lo Statuto da questo punto di vista avrebbe poco da dire
sul modo di pensare la Giunta, i poteri della Giunta, i poteri della presidenza sul piano
dei Consigli regionali. O lo Statuto reinventa i Consigli regionali, oppure non ha senso.
Il Consiglio regionale così com'era stato vissuto negli ultimi 30 anni di esperienza è un
Consiglio che va totalmente reinventato, quindi è inutile dire in uno statuto regionale
quali sono le competenze della Giunta, i regolamenti ecc. Il focus fondamentale è
reinventare i Consigli. Questo significa stabilire, per non creare conflitti successivi, i
termini di regolazione fra legge e regolamento, fra presidenza della Giunta e presidenza
del Consiglio. Secondo, per me più importante, dare forza al potere di rappresentanza. Il
potere di rappresentanza non è soltanto scrivere gli indirizzi in modo tale che si
presentino sul bilancio annuale, anno per anno, degli indirizzi politici. Gli indirizzi
politici possono essere scritti dal De Rita che viene qui in sei ore in una stanzetta a
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
scrivere una bozza che poi circola; gli indirizzi politici vengono scritti con un
meccanismo di rappresentanza che coinvolga tutto il grosso, tutto il respiro della
regione e dei suoi soggetti. Soltanto quando c'è questo rapporto fra rappresentanza e
indirizzi si può fare veramente un rapporto serio di monitoraggio e un rapporto serio di
controllo, altrimenti il monitoraggio cos'è? Un contratto? Un mandato a gara con una
società di consulenti che fanno il monitoraggio? Non fatelo mai: soldi spesi o rubati. Il
monitoraggio si fa sugli indirizzi, in nome della rappresentanza che si è espressa negli
indirizzi. Così come il controllo si fa su quello che è stato fatto in base agli indirizzi e
alla rappresentanza che si è espressa sugli indirizzi.
Quando con Minardi e Cassese abbiamo cominciato a riflettere su cosa si vuol
dare al Consiglio, il Consiglio deve dire — questa era la mia idea, Minardi lo sa, poi
non siamo riusciti a farlo — "si fa un rapporto sulla situazione della realtà marchigiana,
si discute con tutte le rappresentanze, da lì si estrae un atto di indirizzo e monitorando o
verificando ogni anno con il testo di base, si fanno i riferimenti, si crea la lunga deriva
del lavoro del Consiglio", altrimenti una volta si parla di una singola realtà locale, una
volta di una singola realtà personale e così via. Bisogna che ci sia la rappresentanza che
si condensa in un documento e la rappresentanza che si condensa negli indirizzi. Solo
così si può fare dimensione reale del Consiglio, altrimenti ciascuno di voi può fare
controllo su un singolo atto, interpellanza su una singola realtà locale che interessa o in
cui voi siete stati eletti, però non si fa indirizzo, monitoraggio e controllo senza questo
primo motore immobile di fare rappresentanza e indirizzo.
Io vi consiglierei — nel caso mi rendo disponibile — di fare un tentativo di
cominciare a scrivere su questi 5-6 Titoli, perché sicuramente cominciare a scrivere da
una parte ha un pericolo: crea la voglia di aggiungere; però dopo uno o due mesi o una o
due settimane in cui si è aggiunto tutto si può ritornare indietro e si può fare un discorso
più tagliato. Credo che i Consigli regionali abbiano oggi una responsabilità politica che
non è soltanto una responsabilità interna alla Regione, non è soltanto un problema di
responsabilità duale con la presidenza, che pure, certamente ha maggiori poteri, ma una
responsabilità di creare delle Regioni federate che possono essere soggetti di
federalismo reale. Mentre l'operazione del rapporto con la cittadinanza, nel potere come
nel custom è nella Giunta, la creazione di una poliarchia nazionale passa attraverso gli
Statuti e le responsabilità dei Consigli. Credo che sia giusto che, giorno doppio giorno,
si arrivi a fare documenti di Statuto che permettano di non restare nell'illanguidimento
tematico su cui stiamo in questo momento galleggiando
LUIGI MINARDI. Ha la parola Silvana Amati.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
SILVANA AMATI. Intanto ringrazio gli organizzatori e ringrazio, in particolare, il
prof. De Rita per essere qui con noi. Ritengo che oggi, essendo una riunione "aperta"
solo ad esperti e per il resto costituita da una presenza tutta nostra, si possa parlare
liberamente — per questo non ho neanche un intervento scritto, perché volevo ascoltare
prima di intervenire — rispetto alle questioni che abbiamo davanti, scevri da quelle
rigidità che sono proprie di altre situazioni seminariali. Voglio quindi dire alcune cose
che penso, sia come Silvana Amati consigliere regionale sia come presidente della
Commissione Statuto, anche tenendo conto del lavoro di questi mesi.
La prima cosa che voglio dire in particolare al prof. De Rita ma che si evince
anche dall'intervento scritto del prof. Cassese, è di stare assolutamente tranquilli: non c'è
nessun calo d'interesse rispetto alla volontà di scrivere gli Statuti. Tra l'altro ricordo un
incontro nazionale promosso dal prof. Lombardi del Cnr delle Regioni svoltosi il 29
marzo a Roma e che vedeva presenti, oltre ad alcuni esperti internazionali di diritto
comparato rispetto alle altre realtà europee di tipo regionale, anche molti
costituzionalisti italiani.
In quel caso i costituzionalisti presenti — ripeto, qui siamo in una sede interna,
quindi esprimo con franchezza alcune valutazioni che altrimenti sfumerei — essendo in
quel caso legati alla "questione-Cnr" e meno agli esecutivi che spesso sono stati loro
punto di riferimento materiale, erano molto più rigidi rispetto alle questioni legate alla
valenza costituzionale di alcune indicazioni. Anche lì veniva ribadito, da alcuni, il fatto
che i Consigli regionali quest'anno avessero perso tempo.
Facciamo una disamina di quello che è avvenuto negli ultimi cinque anni, pur
cercando di essere sintetica, perché non ho alcuna intenzione di trattare tutte le questioni
in campo. Tra l'altro devo dire che non sono assolutamente d'accordo rispetto alla
valutazione che mi sembra esprimesse il prof. Cassese in una frase letta dal collega
Amati, rispetto alla valutazione del passato, in riferimento al fatto che le Regioni
fossero rimaste bloccate per deficienze delle classi politiche regionali. Ci si riferiva a
prima del 1995, quindi la cosa non è che ci riguardi in modo diretto, la difesa non è
rispetto a un lavoro fatto ma rispetto a un fatto che alla fine diventa irritante. I Consigli
regionali sono quindi stati per molto tempo sicuramente succubi — e ancora lo sono —
di una concezione centralistica dello Stato molto più forte di quello che si dichiara e
molto profonda anche nei partiti maggiori, e questo è un dato evidente che in qualche
cosa ritroviamo anche oggi. Dall'altro lato, negli ultimi cinque anni sono stati presi nel
vortice di riforme nazionali non compiute.
Il punto che dobbiamo ricordare è che lo Stato attuale nasce da una situazione di
incertezza normativa o di modifiche costituzionali parziali, per cui è mancato il punto
fisso costituzionale che di solito è la base per poter lavorare. Noi ci siamo trovati di
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
fronte a una norma come l'elezione diretta dei presidenti delle Giunte che non si è
potuta modificare in fase di discussione perché comunque doveva essere compiuto il
processo, e anche le forze politiche che hanno votato contro quel processo — penso a
Rifondazione comunista — in realtà hanno votato contro senza proporre gli
emendamenti indispensabili per avere poi la non approvazione della norma. Quindi
siamo profondamente consapevoli che quell'atto è stato compiuto dal Parlamento perché
si arrivasse comunque alle elezioni regionali del 2000 con un nuovo meccanismo da
sperimentare. L'idea che si sperimentava era poi esplicitata formalmente dalla
transitorietà, mentre agiva comunque a livello politico un catenaccio tale che trasferisse
questa provvisorietà in un fatto ormai, comunque, inevitabile da vivere.
Successivamente, fino a due mesi fa abbiamo avuto concrete difficoltà, perché era
incerta l'approvazione della modifica costituzionale successiva che adesso andrà a
referendum, e non si può dire che sia irrilevante, per quello che dovremo scrivere,
valutare se c'è o no l'approvazione, anche referendaria, di quella norma, perché è chiaro
che la modifica del Titolo V è cosa fondamentale per la quale, anche rispetto alla
Bicamerale, anche rispetto al lavoro compiuto nei cinque anni passati si era discusso
profondamente con convinzioni, divisioni e con una valutazione dei poteri abbastanza
diversa. Quindi, nelle Regioni italiane, ormai quasi tutte dotate di Commissioni Statuto,
abbiamo deciso di attendere, con approfondimenti, con momenti di confronto — in
fondo anche i Forum che sono qui stati concordati con il Consiglio regionale avevano
questa logica — in attesa di mettere in opera un lavoro concreto della Commissione,
fintanto che non si completa il quadro costituzionale — e questo è ancora incerto,
perché il referendum resta incerto, tanto più dopo l'attuale svolta politica nazionale — e
fintanto che non si supera la fase politica attuale, poiché insieme con i colleghi della
minoranza, oggi non fortemente presenti ma sempre presenti in Commissione — vedo
qui il vicepresidente — abbiamo ritenuto che le regole — questo sarebbe stato un
criterio utile da applicare anche a livello nazionale — si dovessero scrivere insieme e
devono essere il più condivise possibile. Una fase politica nazionale di elezioni non
poteva infatti favorire questo percorso. Quindi, senza un punto fisso costituzionale, con
questioni molto aperte era evidente che qualunque lavoro avrebbe avuto non
l'approfondimento e la serietà che richiede la scrittura di una Carta costituzionale
regionale dopo trent'anni di immobilismo. Pertanto rifiutiamo e contestiamo che ci sia
un allentamento di tensione, una non volontà di scrivere, un fermarsi rispetto a un
lavoro che invece intendiamo compiere e che dalla prima settimana di giugno la
Commissione Statuto delle Marche assumerà come suo compito istituzionale e come
compito che svolgerà in autonomia, come reale e necessario rispetto ai lavori delle
Commissioni e ci sarà la richiesta, penso scontata rispetto a tutte le cose che abbiamo
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
fatto insieme, nei confronti del Consiglio, che i tempi della Commissione, che sono
fissati rispetto agli appuntamenti tradizionali nella stessa giornata di Consiglio del
mercoledì — perché una Commissione di 15 membri per riunirsi ha bisogno di essere
considerata come un punto d'impegno che appartiene a tutti — possano consentirci di
lavorare per iniziare ad entrare veramente nel merito. E intendiamo farlo, prof. De Rita,
quindi da questo punto di vista credo che le Marche faranno il loro lavoro, ma per
quello che mi compete rispetto al la voro di coordinamento che sto svolgendo per le altre
Commissioni Statuto d'Italia presenti nelle Regioni a Statuto ordinario, questo è il
quadro generale.
Qual è il quadro delle altre Regioni italiane? A tutt'oggi solo la Toscana ha fatto
un lavoro più avanzato rispetto ai tempi, producendo un documento d'intenti che sta
andando alla discussione nel territorio. Però dobbiamo ricordare che la Toscana, tramite
il precedente presidente della Giunta on. Chiti, sottosegretario al Governo, anche nei
cinque anni passati aveva forzato in modo significativo le scelte nazionali che si sono
compiute. E questa influenza del Governo passato ma ancora molto presente nel
Governo attuale della Toscana, ha fatto sì di mettere in piedi una Commissione Statuto
con poteri relativi e con un totale appiattimento sulle scelte del Governo prima e
dell'attuale Governo regionale, dove non viene assolutamente messa in discussione
l'elezione diretta, dove rispetto alle situazioni di rapporto con gli enti locali si sceglie un
certo tipo di percorso già avviato, dove si vanno a ricercare nicchie di potere per il
Consiglio, come se questo non fosse un problema. Chi è più avanzato nei tempi, in
realtà è più appiattito su scelte che non valorizzano, almeno non ci sembra oggi si possa
dire valorizzino, il lavoro del Consiglio, perché tutti pongono il problema di una
necessità importante di nuovi impegni, di nuove funzioni, nella ricerca di funzioni che
sono state tolte ai Consigli e che non è poi così facile ritrovare in un sistema nuovo.
Io contesto, tra l'altro, la considerazione che poneva il prof. Cassese quando,
sempre nella rapidissima lettura fatta questa mattina, parla del valore del regime
parlamentare i cui compiti sarebbero solo fare e disfare i governi. E' contro la storia del
nostro Paese ridurre il valore del regime parlamentare a una cosa di questa sorta.
Siccome le assemblee regionali rappresentano a tutt'oggi i valori dei parlamenti,
concordo con quello che diceva il presidente Minardi all'inizio: diamo il fatto simbolico
del riconoscimento della funzione di parlamento marchigiano, mi va bene l'ipotesi di
parlare di Parlamento marchigiano, ma non è solo un fatto nominalistico. Al fatto
nominalistico, che condivido, deve seguire una valorizzazione rispetto alle funzioni,
cosa che oggi, per il quadro nazionale complessivo è assolutamente difficile mettere
insieme. Se manterremo l'elezione diretta — ed era opportuno far passare la fase
politica attuale, per avere più elementi dialettici di reale applicazione rispetto a queste
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
norme e anche di valutazione dei valori compiuti — sarà da valutare come si valorizzerà
nuovamente la funzione consiliare schiacciata da cose diverse. In fondo, in tutti i testi
letti in questo periodo da diversi costituzionalisti, molto spesso consulenti delle Giunte
delle nostre Regioni, la ricerca delle nicchie ecologiche nelle quali il Consiglio
dovrebbe svolgere le sue funzioni è faticosa da verificare rispetto a un compito che in
un'assemblea legislativa dovrebbe essere valorizzato.
Tra l'altro, una domanda che facevo in quella riunione del Cnr delle Regioni
riguardava la valutazione di come oggi ci si riferisca, positivamente o negativamente,
rispetto al valore del concetto della tripartizione dei poteri — quello della magistratura e
quello separato dell'esecutivo da un lato e del legislativo dall'altro — in una confusione
che ormai è diventata talmente evidente che la questione del controllo è molto difficile
da applicare.
Gli Statuti li faremo in Italia, ma certamente lo faremo nelle Marche. Questo non
è stato un anno silente, è stato un anno di preparazione, di studio, di lavoro e anche un
anno indispensabile perché situazioni affrettate, con il quadro politico- istituzionale
odierno non sarebbero state foriere di buoni risultati, e comunque era indispensabile
almeno sperare in un punto fisso costituzionale che, ripeto, ora non c'è e non so se ci
sarà, dato il quadro politico attuale che potrebbe prevedere modificazioni sostanziali.
I lavori in autonomia della Commissione, da giugno riprenderanno, e io chiedo al
presidente del Consiglio di avere attenzione — sono sicura che ci sarà, ma lo chiedo
formalmente dato che siamo in questa sede — in modo che si riesca a svolgere il lavoro
del Consiglio e quello delle Commissioni in una maniera utile per entrambe le funzioni
senza sovrapposizioni o problemi, perché la stasi che c'è stata, obbligata, ci ha creato
delle situazioni di maggiore difficoltà. Ripropongo in questa sede la necessità di un
momento di confronto che avevamo già da tempo proposto e che è poi stato rinviato per
le questioni legate alla campagna elettorale, quindi ad altri problemi, sui sistemi
elettorali. Un momento di premessa a una questione che riguarderà comunque la
Commissione, quella del sistema elettorale, ma anche come premessa a un punto-chiave
del nuovo Statuto, quello dell'elezione diretta o meno e di che tipi di correttivi dare
rispetto a questo punto-chiave, poiché avremo mondo diversi a seconda delle scelte.
Credo che questo si potrebbe e si dovrebbe definire in tempi brevi, anche per avere una
valutazione generale.
Poi, per non dilungarmi ulteriormente, un ultimo punto sul quale posso portare un
contributo anche personale. Io non sono d'accordo sul fatto che viene esplicitato sia dal
prof. Cassese sia dal prof. De Rita, anche se con accenti diversi, ma che ho trovato
anche in altre parti — quindi è un filo di pensiero a cui riconosco molti valori positivi e
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
una grande dignità ma che non mi convince — relativo a come dovremmo scrivere
questi Statuti per quanto riguarda i principi fondamentali.
Venerdì scorso, alla chiusura della campagna elettorale mi sono trovata a Padova
con il prof. Papinska, e da questo punto di vista ci sarà la richiesta alla Conferenza dei
presidenti dei Consigli regionali, di preparare un seminario nazionale delle
Commissioni Statuto —ne avevo già parlato con il presidente Minardi — insieme
all'università di Padova (l'istituto riferito ai diritti umani) e insieme, come
collaborazione, agli enti locali per la pace. A noi sembra indispensabile che le nuove
carte costituzionali parlino di diritti. Capisco le perplessità che vengono espresse
rispetto all'elenco e le condivido: non si tratta di fare l'elenco dei diritti da mantenere,
cosa peraltro difficile, anche perché da questo punto di vista potrebbero esserci opinioni
diverse, ma ritengo che sia indispensabile, tanto più oggi, nelle nuove Regioni, che le
"Carte costituzionali regionali" diano vasto spazio anche ai riferimenti della Carta
costituzionale italiana ma anche a quella internazionale e a quella europea rispetto alla
questione della pace e dei diritti umani, che non è cosa superflua o pleonastica e che non
è superabile con la questione dell'esclusiva valorizzazione dell'identità che certo ci sarà,
perché è compito di ciascuna Regione, poi, discutere delle proprie identità e su di esse
attrezzarsi.
Diceva il prof. De Rita che anche in Kenya ci potrebbero essere queste
dichiarazioni di principi, ma le dichiarazioni, in un mondo sempre meno aperto alle
questioni che riguardano i diritti, molto aperto a parole e molto poco aperto nel
concreto, sono un punto. Quindi, noi riteniamo che nel momento in cui si scrive la Carta
costituzionale delle Marche, la parte che riguarda "diritti umani" e "diritti" non sia una
parte superflua o pleonastica. Questo è il mio punto di vista. Devo dire che credo sia un
punto di vista condiviso e credo tra l'altro che le forze sociali abbiano più volte ribadito
la necessità che ci sia questa parte all'interno delle carte statutarie, e che se un problema
noi abbiamo è quello di far sì che queste carte non siano solo di pochi eletti ma siano
condivise, quindi raccolgano anche, per essere condivise, quelle sensibilità, quei
suggerimenti, quelle questioni che nascono dal basso. Sarà difficile che, proprio per
tener conto di queste questioni, sulla parte che riguarda l'indicazione di principio, non ci
sia un'apertura più forte. Tra l'altro devo dire che trovo una visione centralistica anche
nella dichiarazione che in fondo i principi sono già nella Carta costituzionale, perché,
evidentemente, è opportuno che se scriviamo in autonomia, ogni autonomia ribadisca il
valore di alcuni principi.
Discutendo di questo con il prof. Papinska venerdì — credo che tutti lo
conoscano, perché ha l'unico master internazionale dell'Unesco sui diritti umani ed è
consulente della Regione Veneto da sempre su queste tematiche — abbiamo anche
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
pensato che poteva essere utile un approfondimento tra noi — in questo caso, coloro
delle Commissioni Statuto d'Italia che lo volevano, perché un punto di discussione
comune può servire, con la collaborazione delle presidenze dei Consigli regionali, se
sarà questo l'orientamento che anche il collega Minardi porterà al collega Louvin — da
fare a Roma o ad Assisi, a seconda di quello che riterremo anche dal punto di vista
pratico, in tempi brevi, perché all'interno di questa parte io personalmente ritengo che vi
siano questioni che vanno affrontate con la consapevolezza che il costo del tempo della
democrazia è un valore, perché è vero che ci serve la rapidità della decisione, ma alcune
decisioni prese troppo rapidamente hanno prodotto risultati non adeguati, quindi noi
vogliamo poter spendere un tempo utile per la democrazia nella scrittura delle nostre
carte, che non vuol dire un tempo infinito, che non vuol dire non arrivare a una
conclusione, che non vuol dire sottovalutare il peso perché ci siamo stancati di questa
questioni e perché, forse, l'interregno è servito a qualche Governo... Non lo dico perché
vedo il presidente D'Ambrosio e quindi vedo in lui tutti i Governi regiona li, perché non
è così: alcuni governi regionali, in particolare del nord Italia ma non solo, hanno goduto
di questo interregno, dando un ulteriore colpo all'autonomia del Consiglio, perché non è
così vero che la questione del potere normativo sia di fatto così codificata. La perdita
del potere normativo dei Consigli è da vedere fino in fondo e ci sarà la possibilità di
tornare indietro rispetto ad alcune questioni che riguardano leggi o decreti.
Per tutte queste questioni sono qui a ribadire che — state tranquilli — siamo
interessati, gli Statuti li faremo, li faremo in autonomia, secondo i nostri tempi che però
sono i tempi della democrazia, e che sulla questione dei diritti fondamentali vorremmo
poter spendere un'attenzione in più.
Rispetto a tutte le altre cose — enti locali ed altro — dovremo tener conto anche
di quello che è uscito dalla norma costituzionale. Il Consiglio delle autonomie con
potere consultivo, che ho sempre contestato fosse posto in Costituzione e che i famosi
"sindacati delle autonomie" — come il chiama il prof. De Rita di solito — hanno voluto
in quella sede, ora c'è. Sarà poi compito della Commissione valutare tutti gli aspetti
delicati di questo problema in tempi che non possono essere troppo ristretti.
LUIGI MINARDI. Ha la parola Marco Luchetti.
MARCO LUCHETTI. Secondo me, quando si parla di carte fondamentali dovrebbe
esserci un clima adatto, e io penso che, nonostante tutto, ancora siamo in una fase
politica inadatta, c'è un clima "moscio", come si dice dalle nostre parti. Il dibattito
istituzionale avrebbe bisogno di una dimensione diversa, nel senso che siamo a fare gli
Statuti regionali e in ballo ci sono tante cose che ruotano intorno agli stessi. Io non
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
credo che il prof. De Rita ci abbia voluto bacchettare sul fatto che non abbiamo scritto,
però si scriverebbe in una situazione che obiettivamente non è la migliore. Il costume
istituzionale, la tradizione istituzionale stenta ancora a prendere corpo nonostante che
stiamo parlando, abbiamo tentato più volte, a livello parlamentare, di metterci le mani e
l'abbiamo fatto, ancora una volta, in maniera rabberciata. Anche l'approvazione della
legge istituzionale a maggioranza la dice lunga su regole condivise che dovrebbero
trovare un'accoglienza diversa rispetto ad una modalità quasi contrattuale o
contrapposta. Ecco perché dico che siamo in un situazione secondo me non opportuna.
Tra l'altro, anche questi Statuti si troverebbero ulteriormente a doversi confrontare
in una situazione diversa allorché, per esempio, mettendo le mani nell'impianto
istituzionale nazionale, si dovesse dar luogo, a livello nazionale, alla Camera delle
Regioni. Istituire la Camera delle Regioni in Parlamento, trovare una diversa relazione
istituzionale tra potere periferico e potere centrale credo che rimetterà in discussione la
stessa realtà statutaria regionale. Se a questo accompagniamo quello che c'è in giro e
che si palpa, nonostante l'ultima campagna elettorale che ha risuscitato partecipazione,
vediamo che c'è un cambiamento forte anche del sentire la politica da parte della gente.
Dobbiamo recuperare una partecipazione che oggi è palesemente complicata. Molti
seguono la politica ma la militanza non c'è più, non c'è più l'adesione di una volta,
quindi bisogna tentare di dare alla politica credibilità in mezzo alla gente. Si potrà fare?
Società sviluppate, vedi quella americana, eleggono il presidente della Repubblica
con il 30% della gente. Questi sono approdi che noi dovremmo evitare, in qualche
modo. Come fare? Il lavoro sulle istituzioni è un lavo ro importante.
Ma anche con lo spettacolo che si dà in queste circostanze, come si fa a recuperare
una credibilità nelle istituzioni? Fra l'altro, ancora non è sedimentata una cultura
istituzionale neanche nell'estabishement politico addetto ai lavori. Per esempio, De Rita
accennava alla sua cultura contrattualistica, che è un ribadire concetti di carattere
liberale, a cui posso anch'io aderire, nel senso che mi piace quel tipo di società basata
sul confronto e sul contratto, poi quando viene a dire che la stessa cultura
contrattualistica la trasporta alle istituzioni non sono più d'accordo. Non si può pensare
di portare un sistema contrattuale o conflittuale all'interno delle istituzioni; le istituzioni
dovrebbero avere, in un ambito di sussidiarietà verticale, delle competenze. Ma
veramente andiamo dietro a un modello, così come stiamo sperimentando in questo
periodo, dove c'è il sindacato delle autonomie che tenta di spostare... che cosa? Questo
significa uno snaturamento anche dell'impianto istituzionale, che deve avere una sua
chiarezza, una sua certezza e non un carattere conflittuale o contrattuale.
Quindi, ripartire dalle istituzioni è dare dignità diversa a una cultura istituzionale
che può anche ridefinire quella vicinanza della gente alle proprie istituzioni, perché non
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
ci siamo da questo punto di vista. E anche questo Statuto rischia, se non ci sarà
partecipazione — abbiamo fatto il tentativo del Forum e mi pare una cosa opportuna —
di vedere alla fine i Comuni non d'accordo, perché diranno che loro hanno poco spazio.
Dovremmo quindi arrivare ad una nuova relazione anche con i poteri e con la società
tutta.
L'altro problema che secondo me dobbiamo tener presente, se l'obiettivo è una
chiarezza istituzionale per ritornare ad avvicinare la politica alla gente, è lo spazio che
la società civile deve avere nella partecipazione alla vita istituzionale. Perché dico
questo? Siccome la società non è più quella di 40-50 anni fa, credo che dobbiamo essere
originali anche in una diversa considerazione della società civile all'interno della vita
istituzionale. Capisco che quando si parla di questo si evocano criteri neo-corporativi,
però credo che da questo punto di vista, proprio per ridare ossigeno ad una
partecipazione complicata, dobbiamo farci carico di questa situazione.
Dal punto di vista istituzionale, credo che lo Statuto debba disegnare un nostro
modello marchigiano, ovviamente originale rispetto alla nostra realtà, perché non è
pensabile parlare dello Statuto delle Marche allo stesso modo dello Statuto della
Lombardia, non credo che questo sia possibile. Una modularità va rapportata anche alla
dimensione. Secondo me è astrattezza dire che il nostro Statuto potrebbe essere lo stesso
della Lombardia, perché la massa critica di certe realtà da amministrare e da governare
sono diverse e ne dobbiamo prendere atto. Questo significa definire un rapporto con gli
enti locali — perché un disegno interistituzionale ci deve pur essere — di applicazione
della sussidiarietà in maniera adeguata alle nostre realtà. Per esempio, sono d'accordo
con quanto diceva De Rita circa il fatto che bisogna riprendere un discorso diverso con
l'organismo d'area vasta, cioè le Province le quali devono diventare governi più forti
perché governano delle realtà di servizi ad area vasta che non possono governare i
Comuni. Fino ad oggi abbiamo avuto molte perplessità in questo. Magari abbiamo fatto
consorzi di 67 Comuni per fare gli ATO e potevamo dare l'incarico alla Provincia. Ci
voleva tanto? Ma ancora non abbiamo maturato questo disegno interistituzionale che
diventa essenziale, credo che sia uno dei cardini fondamentali del nuovo Statuto:
organizzare una rete istituzionale capace di dare la risposta migliore.
Così come — ecco il federalismo sempre fatto sulla base della contrattazione
piuttosto che sulla base di una cultura istituzionale — c'è il problema dei "comunipolvere" che è un problema serio. Se la Costituzione avesse chiarito questo fatto, cioè
che anche le Regioni potevano avere dei poteri reali anche sul disegno delle proprie
comunità non sarebbe stato male, pur rispettando tutte le peculiarità, dando tutte le
garanzie. Abbiamo dei tabù che vanno sfatati da questo punto di vista. Questo potrebbe
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
suscitare un interesse nelle istituzioni quando e se lo Statuto avesse questa capacità di
incidere concretamente nella realtà istituzionale marchigiana.
C'è poi il problema della partecipazione delle autonomie locali alla vita regionale.
Dobbiamo sventare questa nuova centralizzazione regionalista scimmiottando quella
che è stata l'esperienza statale. E' chiaro da questo punto di vista che dobbiamo trovare
il bandolo della matassa. Molti sostengono la Camera delle autonomie vicina al
Consiglio regionale, De Rita diceva "non fatevi fagocitare, difendete la vostra realtà",
però anche qui, con un po' d'originalità potremmo superare il problema. Io non vedrei
una diminutio del Consiglio regionale o del consigliere regionale se, invece di fare una
Camera a latere del Consiglio potessimo pensare a delle rappresentanze in Consiglio di
gente nominata in secondo grado dalle autonomie locali. Facciamoli partecipare e
facciamoli diventare consiglieri a tutti gli effetti, allarghiamo i Consigli in modo tale da
avere delle rappresentanze dirette delle autonomie locali. Sarebbe un intreccio
interessante e anche originale, perché si determinerebbe un rapporto diverso con le
autonomie locali che avrebbero una rappresentanza diversa.
E' questa una soluzione? Non lo so, però pensiamo a un qualche cosa d'originale,
che determini e superi una situazione che a livello locale, non tanto nazionale con la
Camera delle Regioni, sarebbe, con la Camera delle autonomie, una realtà poco
significativa, visto e considerato che c'è un potere legislativo attribuito al Consiglio
regionale e non c'è un potere legislativo parimenti a livello delle autonomie locali.
L'altra questione che vorrei affrontare molto brevemente riguarda il ragionamento
su come tener conto della società. Noi abbiamo una tradizione marchigiana che è più
comunitaria che da altre parti; sarebbe scio cco se uno Statuto non cogliesse questa
ricchezza, senza imbrigliarla, cioè tentando di fare più contenitore. Per carità, noi siamo
l'emblema di questa peculiarità, di questo brulicare di attività autonome ecc. Come
rapportare il Consiglio, l'attività legislativa a ciò? Penso che noi dovremmo affermare
alcuni principi su cui coraggiosamente dobbiamo avviarci, cioè suscitare nella società
marchigiana maggiore responsabilità e pertanto concedere ad essa maggiori opportunità.
Lo so che qui ci scontriamo con un concetto su cui più volte abbiamo discusso, magari
in maniera frammentaria, però tenendo conto e sgomberando il ragionamento che questa
sia la strada della privatizzazione delle istituzioni, come qualcuno dice — io credo che
questo assolutamente non sia — una maggiore responsabilità e un'applicazione vera e
reale di una sussidiarietà orizzontale, dove vi sia la capacità di portare dentro la
responsabilità della conduzione di certi pezzi anche di funzione pubblica, della società,
credo che sia inevitabile, se vogliamo quell'amministrazione che faccia il suo ruolo e
che non metta i bastoni fra le ruote ad una società che ha sempre dimostrato vitalità e
originalità.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
Questi concetti vanno inseriti nello Statuto. Sono d'accordo con De Rita, ormai
supererei questa preoccupazione di istituzionalizzare il rapporto tra istituzioni e società
organizzata, però c'è un problema che dobbiamo affrontare: quello di dare maggiori
chances alla società organizzata perché abbia spazio. Se la teniamo fuori dalle leve
decisionali e non la valorizziamo sul piano effettuale, sul piano delle capacità che può
esprimere, effettivamente la tagliamo fuori, o per lo meno facciamo un ragionamento
del tipo "sei tanto bella, però lascia fare a me, ci penso io istituzione". Questo
ragionamento, secondo me va approfondito, perché soprattutto nel campo del welfare è
una questione che vedrei in via di sperimentazione. Anche nell'applicazione della 328 è
importante la rivitalizzazione delle responsabilità, e io credo che lo Statuto da questo
punto di vista debba dare un segnale anche e soprattutto alle autonomie locali, perché
questo deve essere un modello scontato di governo. Ma questo lo potremmo fare anche
a livello di economia: la nostra economia, che da tanto lustro al "modello marchigiano",
può responsabilizzarsi in questa direzione, non nella modalità solita che abbiamo
sperimentato in altri settori come i centri servizi ecc., ma attraverso modalità di
autogoverno, sia nei distretti sia in altre realtà, dove c'è la possibilità, da parte della
società civile, di prendere in mano il bandolo della situazione e dell'autogoverno.
Questi sono i due punti nodali — quello interistituzionale e quello del rapporto
con la società civile — che dovremmo in qualche modo definire.
Se poi potessimo origina lmente intravedere altre modalità di partecipazione
diretta — io non sono per il discorso della politica dei sondaggi — attraverso le reti
civiche, utilizzando le possibilità che l'informatica oggi ci dà, credo che non sarebbe
male se, anche nello Statuto dovessimo fare delle scelte originali per una rimodulazione
della partecipazione su alcuni aspetti per sentire direttamente la gente, per avvicinare la
gente alle loro capacità di scelta, e siccome i mezzi ci mettono a disposizione queste
possibilità, se potessimo fare qualche passo in avanti anche da questo punto di vista,
non sarebbe male.
LUIGI MINARDI. Ha la parola il consigliere Favia.
DAVIDE FAVIA. Farò un intervento rapido e molto informale, anche riprendendo
quanto detto adesso da Luchetti e dalla presidente Amati.
Capisco che abbiamo lavorato quest'anno tra mille difficoltà perché c'era in
gestazione una legge nazionale per noi importante, c'erano le elezioni e siamo ancora in
difficoltà — mi scuso per il ritardo con cui sono arrivato — perché abbiamo un
problema di referendum confermativo o meno della legge sul federalismo che avverrà
dopo l'estate, e contemporaneamente — lo vediamo in questi giorni sui giornali —
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
abbiamo anche un'ipotesi di nuova legge, perché Bossi ha chiesto il rispetto dei patti
sulla devolution nei primi cento giorni, quindi è probabile che insieme al referendum ci
sia anche, poco prima o poco dopo, una nuova legge, quindi siamo un po' tutti incastrati
da queste problematiche. Ciononostante, bisogna che diamo un'accelerata ai lavori. A
mio giudizio, in questo anno abbiamo lavorato, abbiamo fissato dei criteri generali,
buoni per tutti, però non abbiamo prodotto nulla di scritto e soprattutto non è iniziato
minimamente il dibattito sulle grandi questioni. Molto fair-play, molto gentlemen
agreement tra tutti, però non ci possiamo più nascondere, dopo un anno, che ci sono
due-tre problematiche sulle quali bisogna che cominciamo a parlare dal punto di vista
politico.
Provo a dare un contributo operativo: grosso modo i capitoli fondamentali dello
Statuto li abbiamo fissati, proviamo a cominciare a far lavorare delle Commissioni su
questi argomenti per produrre qualcosa.
Confronto con le altre Regioni. Concordo pienamente con quello che ha detto
Luchetti prima: è chiaro che ogni Regione farà il suo Statuto, lo diceva anche Castelli
alla riunione di Pesaro ed è stato apprezzato dal presidente Violante, è chiaro che non si
può fare uno Statuto buono per tutti, ogni Regione alla fine della danza dovrà fare uno
Statuto attinente le proprie peculiarità. Questo confrontarci con le altre Regioni per
capire cosa fanno e cosa non fanno certo è utile, ma secondo me il confronto con le altre
Regioni deve essere più che altro un confronto per creare uno schieramento di dibattito
forte, di interlocuzione forte col Governo per avere, ad esempio, una legge — se una
nuova legge ci sarà — che stia bene a noi Regioni, che non sia imposta dal potere
centrale, ma andare a cercare di carpire dalle altre Regioni segreti o ipotesi per il nostro
Statuto credo che sia utile, per occorre che cominciamo a parlare dentro casa nostra.
Gli argomenti. Penso che uno degli argomenti fondamentali — ormai lo dico da
tempo e ringrazio la presidente Amati che lo ha ricordato — sia la legge elettorale, su
cui c'è anche l'impegno della presidenza del Consiglio di fare un convegno ad hoc. Non
possiamo sottrarci quanto meno al dibattito. Sappiamo che dentro il Consiglio, per le
cose che ci siamo detti tra noi, ci sono sensibilità diverse ed opposte, quindi il primo
discorso è: andiamo all'elezione diretta del presidente della Regione o no? Se sì o no,
con che tipo di legge? Più o meno proporzionalista o più o meno maggioritaria? Questo
è un confronto che possiamo iniziare con un convegno, ma di questa cosa bisogna
discutere. Rimaniamo affezionati al listino o meno e al premio di maggioranza? Se sì, di
che entità? Il presidente e la Giunta devono governare con questa larga maggioranza o
si devono conquistare il supporto del Consiglio volta per volta? Se andiamo ad un
presidenzialismo forte, c'è un problema di cui credo tutti siamo a conoscenza: in Italia, e
a maggior ragione nelle Regioni, non c'è un sistema di contrappesi, quindi in qualche
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
modo bisogna crearlo. Il nostro problema del presidenzialismo è che mentre negli Stati
Uniti si ha una stampa libera, una stampa forte, un Congresso libero e forte, qui più o
meno tutti i poteri classici sono asserviti al potere politico, quindi un forte potere
politico rischia di essere totalizzante. O creiamo dei contrappesi, oppure un
maggioritario puro bene non va.
Poi c'è un altro problema importantissimo, che è questo famoso principio di
sussidiarietà — e parlo soprattutto della sussidiarietà orizzontale — su cui qualche
problema c'è, perché è venuto fuori a Roma, ci sarà anche qui. Personalmente, per
quello che rappresento sono per una forte sussidiarietà orizzontale, immagino che alcuni
settori del centro-sinistra non siano poi così d'accordo: è ora che buttiamo giù la
maschera e cerchiamo di dircele in faccia e di trovare una mediazione civile in un clima
che mi auguro sia il più civile possibile.
Chiudo con l'altro argomento importante su cui cominciare a lavorare: quello della
sussidiarietà verticale, della rappresentanza delle autonomie. Sono favorevole ad una
forte rappresentanza, sia della società civile che delle autonomie in un organo ad hoc;
non sono d'accordo con quello che diceva prima Luchetti, perché secondo me è
impossibile bypassare la volontà degli elettori, cioè far entrare direttamente come
consiglieri regionali rappresentanti di questi settori nominati in secondo grado, quindi
non dall'elettorato ma dalle associazioni di appartenenza. Mi sembra molto poco
democratico, mi sembra un bypassare il potere dell'elettorato attivo che non è
concepibile. Vedo bene, invece, un organismo molto rappresentativo, parallelo al
Consiglio regionale consultivo. Nel primo convegno a Palazzo degli Anziani avevo
fatto una proposta sulla quale si può lavorare: che qualora il parere consultivo su
determinate normative attinenti alle competenze di questo organismo sia negativo, il
Consiglio debba approvare quella normativa con una maggioranza qualificata. Questo
potrebbe significare dare grande rispetto alla società civile, anche perché così ci sarebbe
un maggior ruolo del Consiglio e teniamo presente che assieme al ruolo del Consiglio
va rivalutato e considerato il ruolo dell'opposizione per i motivi che dicevo prima.
Credo di avere finito, ma l'appello che faccio è: diamoci un tempo per il dibattito
in quest'ultimo semestre 2001 che abbiamo davanti, perché contemporaneamente a un
lavoro anche convegnistico, di lavoro concreto su questi temi avremo dei chiarimenti
dal livello nazionale — referendum sì -referendum no, nuova legge sulla devoluzione sì
o no — ma cominciamo a produrre qualcosa di concreto, a confrontarci sui temi
concreti, perché rischiamo veramente di arrivare alla fine della legislatura senza aver
fatto niente.
LUIGI MINARDI. Ha la parola il consigliere Massi.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
FRANCESCO MASSI GENTILONI SILVERI. Un'osservazione sulla relazione del
prof. Cassese e due su quella del prof. De Rita.
Su quella di Cassese, continuo a non capire perché esso insista su una divisione
netta tra modello presidenziale che vedrebbe ridimensionato il ruolo dell'assemblea
legislativa e modello parlamentare assembleare che vedrebbe sfumato, o comunque
ridotto il ruolo del presidente. Non capisco perché Cassese — capisco che voglia
stimolare la riflessione — continui con questa divisione netta, alla quale non credo. Per
esempio, Favia ha parlato di "listino", di proporzionale, maggioritario ecc., però mi
permetto di dire che questi sono gi strumenti, l'obiettivo è un altro: noi vogliamo che il
Consiglio, l'Assemblea, il Parlamento regionale condivida in qualche modo la mission
del presidente o no? Consideriamo che la stabilità del Governo regionale sia anche
garantita dal fatto che una parte maggioritaria del Consiglio, che ha espresso il
presidente, possa garantire al presidente stesso anche l'attuazione, attraverso lo
strumento normativo, del suo programma? Se è questo, allora il modello dell'elezione
del sindaco è il modello migliore: lì non c'è "listino", c'è un capo del governo eletto
direttamente, trascina una maggioranza con sé, la distribuzione dei seggi avviene con un
criterio proporzionale di recupero tra i migliori quozienti perdenti. Questo è uno
strumento che garantisce al presidente una stabilità anche nella parte normativa — non
svilisce — è la legge che ha detto che le competenze sono passate alla Giunta e non
sono più del Consiglio — in alcun modo la funzione del Consiglio comunale e non la
svilirebbe a livello di Consiglio o Parlamento regionale. Quindi, questo dualismo netto
creato da Cassese non lo condivido. Per me, il modello di elezione del sindaco è il
migliore per il governo regionale.
Non credo, insomma, al sistema disgiunto del presidente dal Parlamento, però il
Parlamento deve avere tutte le sue prerogative di controllo, di proposta.
Il prof. De Rita si preoccupa, giustamente, dell'eccessiva elencazione dei principi,
del dettaglio che verrebbe fuori. Mi pare però che nella terza parte ritornano, perché
quando lui parla di obiettivi e competenze se diciamo del sostegno alla piccola impresa
quello è un principio-obiettivo e ci mettiamo vicino anche la competenza. Quindi non
mi preoccuperei di questo. Giustamente Silvana Amati ha sottolineato l'importanza del
fatto che principi e valori siano riconfermati anche nella Carta regionale, su questo sono
d'accordo senza saltare delle fasi.
Il prof. De Rita raccomanda di non ripercorrere nella distribuzione delle
competenze — immagino volesse dire "politiche" — il criterio piramidale. In
Inghilterra — ho avuto modo, fortuitamente, di esaminare quel sistema — hanno voluto
introdurre il sistema poliarchico. Hanno fatto una legge dicendo che i vigili del fuoco
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
non sono più statali ma sono degli organismi delle autonomie locali. C'è un caos
incredibile, perché i vigili del fuoco hanno una competenza nel Comune, rispondono al
presidente della Provincia — che lì è la contea — poi a un presidente di un organismo
più ampio. Hanno voluto poliarchizzare quel sistema, con un caos incredibile, con 100
carte di servizi. Il cittadino non sa a chi ricorrere.
Ammettiamo che qui vi sia una polizia regionale. La competenza politica a chi
spetta? All'Esecutivo regionale. Poi, la divisione che ci interessa è come
l'organizzazione del servizio sia affidata a organismi gestionali tecnici, che non
c'entrano niente con la politica e con i politici. Ho capito cosa voleva dire De Rita e ho
capito bene anche la motivazione ideale che sta dietro la sua proposta, pensando alle
Marche policentriche, poliedriche, eclettiche ecc. Però, sfuggire a una organizzazione di
tipo piramidale mi apre un fronte di incertezza, vorrei più chiarezza su questo.
LUIGI MINARDI. Ha la parola il cons igliere Avenali.
FERDINANDO AVENALI. Probabilmente oggi siamo ancora a riflettere sui dati
elettorali, ma al di là di questo credo che sia stata opportuna questa riunione, perché non
ritengo che possiamo fare lo Statuto, riflettere su quale Regione del futuro, su quali
esigenze dei marchigiani, come rendere efficiente e funzionale la struttura della
pubblica amministrazione nei vari modi in cui si articola con i Forum, che pure sono
stati aspetti positivi. Credo che vi sia l'esigenza di cominciare a scambiarci delle
opinioni. Non lo faccio nemmeno io questa mattina, perché mi sembra più l'avvio di un
confronto.
Concordo con quanto diceva Silvana Amati sul fatto che effettivamente ci sono
degli elementi di incertezza di cui dobbiamo tener conto — se il referendum va in un
modo o nell'altro le cose cambiano — però nel contempo concordo anche con chi dice
che dobbiamo cominciare a scrivere delle cose, perché questo significa che cominciamo
a confrontarci nel merito. Noi abbiamo anche l'esigenza di dare un'accelerata al discorso
delle regole, al discorso dello Statuto, rispetto a cosa pensiamo del nuovo ente Regione.
Secondo me il punto vero è: quali competenze della Regione rispetto al passato?
Abbiamo l'esigenza di accelerare anche per un altro elemento, que llo della
partecipazione, della democrazia. Adesso abbiamo una serie di elementi che non
funzionano più. Dico una cosa che conosciamo tutti: il discorso della partecipazioneconcertazione. In Consiglio regionale tante volte ci troviamo ad applicare norme che
non rispondono più alle esigenze degli interlocutori. Rispetto alle organizzazioni di
categoria, se non facciamo le audizioni in Commissione non applichiamo le regole
attuali previste da Statuto e regolamento. Però quando facciamo questi incontri molto
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
spesso vengono considerati perdite di tempo, perché c'è già stata una concertazione a
monte. La concertazione così com'è venuta avanti in questi anni va bene? Risponde alle
esigenze? Oppure va ripensata? Secondo me alcune cose le dobbiamo assolutamente
rivedere. O non ha senso il ruolo che esercita in questo caso il Consiglio tramite le
Commissioni, oppure bisogna ripensare a queste forme di concertazione, perché spesso
voi, presidente D'Ambrosio fate la concertazione e cercate di trovare, giustamente, le
intese perché c'è una rivendicazione, peraltro, quindi non è un problema di
responsabilità degli uni o degli altri, ma dall'altra parte ci troviamo con un pacchetto
definito, quindi il ruolo del Consiglio, della rappresentanza democratica, com'è finito?
Anche dal punto di vista delle leggi, non soltanto dal punto di vista della gestione.
Parliamo di atti amministrativi, di leggi, quindi del ruolo politico del Consiglio, della
rappresentanza, ma ci troviamo schiacciati, gli uni e gli altri, fra queste cose che sono
venute avanti ma che secondo me vanno ripensate.
Credo che abbiamo molti elementi sui quali dobbiamo cominciare a riflettere. C'è
un problema di tempi che dobbiamo definire, non lunghissimi. Non credo che possiamo
pensare di portarci dietro questa questione degli Statuti da qui alla fine della legislatura,
perché significherebbe che i prossimi mesi ci troveremmo nelle stesse difficoltà in cui ci
siamo trovati in quelli passati. Dal punto di vista politico generale non serve questa
sorta di conflittualità sotterranea tra le nuove competenze che ha la Giunta e che
giustamente vuole esercitare e il Consiglio che si sente in qualche modo sminuito.
Penso che queste questioni così forti, in qualche modo dobbiamo andare a definirle.
Secondo me è importante anche cosa pensiamo che debba fare la Regione del futuro.
Parlo anche dal punto di vista della gestione. Quanto decentriamo in termini reali?
Quanto alleggeriamo la struttura regionale? E' decisivo per dire anche quali regole,
perché un conto è che assolviamo un determinato ruolo, un conto è che ne assolviamo
un altro, anche per quanto riguarda il discorso della partecipazione degli enti territoriali.
C'è quindi un problema di partecipazione di cittadini in termini organizzati, c'è un
problema di partecipazione di altri enti istituzionali che sono sul territorio.
Dobbiamo definire bene quali sono le competenze che vogliamo esercitare come
Regione in modo che ognuno possa lavorare con serenità, con tempestività, con
appropriatezza di competenze, quindi di ruolo. Ci sono quindi dei punti che vanno
ancora chiariti. Peraltro c'è una nuova maggioranza che deciderà, discuterà, che
probabilmente avrà opinioni diverse anche dal precedente Governo e magari da questo
punto di vista ci potrà essere anche qualche ritardo in più, però tra di noi alcune scelte
credo che le dobbiamo fare. A me convince abbastanza questo discorso di una Regione
che punti meno possibile alla gestione e che punti più alla programmazione, alle regole.
Sono d'accordo che una serie di competenze che hanno una valenza di carattere
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
regionale non possano essere decentrate ai Comuni, perché li metteremmo in difficoltà.
Questi passaggi vanno guidati e questo è un altro elemento essenziale, però se non
acceleriamo i tempi rischiamo di arrivare a fine legislatura e non guidare nulla.
Pertanto, questo discorso della rappresentanza degli indirizzi e del controllo mi
sembrano i punti centrali su cui dovremmo pensare alla nuova Regione, nella
configurazione che io ho dentro la testa di una Regione molto più "leggera" ma con
competenze di alto profilo programmatorio e di controllo.
Penso che nei prossimi mesi questo discorso lo dobbiamo accelerare. Perché è
importante cominciare a scrivere qualcosa? Perché questo significa che cominciamo a
confrontarci sull'argomento specifico, altrimenti ognuno di noi affronta tanti argomenti
diversi.
A me sembra che dovremmo anche decidere di sperimentare qualcosa di diverso.
Potrebbe essere anche una decisione da prendere, dicendo "nella fase di passaggio da
adesso al nuovo Statuto sperimentiamo qualcosa di diverso anche rispetto al
funzionamento delle Commissioni". Credo che la cosa non accettabile e non più
tollerabile sia questa stasi, che porta soltanto a delle conflittualità istituzionali, interne,
che sono negative anche dal punto di vista del nostro ruolo, ma ancora più negative nel
rapporto con la gente, sia come risoluzione dei problemi che come immagine che diamo
della funzionalità delle istituzioni stesse.
PRESIDENTE. Ha la parola il Presidente della Giunta Vito D'Ambrosio.
VITO D'AMBROSIO. Non intendo fare le conclusioni, perché fare le conclusioni
significa rispecchiare fedelmente quello che si è detto, ma intendo fare un intervento
politico, che ovviamente tiene conto di quello che è stato detto, altrimenti non avrebbe
senso.
Condivido in parte la preoccupazione di De Rita e credo che la sua motivazione
sia più sottile del trascorrere del tempo. La verità è che questo è un Paese che segue le
mode nell'affrontare le questioni, nel ritenere che le questioni siano di volta in volta
centrali. Faccio un esempio per tutti, così ci capiamo: fino a un mese fa sembrava che in
Italia si potesse parlare soltanto di "mucca pazza"; da un mese non ne parla più nessuno,
e sono aumentati i casi, da 7 a 14. La verità è che la tematica degli Statuti è stata
centrale nel momento in cui si è trattato di mettere mano comunque ad una modifica
costituzionale in due tappe: l'elezione diretta del presidente, successivamente la
modifica della seconda parte del Titolo V che è stata approvata alla fine ma aveva una
lunga gestazione. Oggi le cose sono e corrono il rischio di diventare meno di moda per
una serie di ragioni. La prima, per il passare del tempo. La seconda, obiettiva, è che noi
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
dobbiamo cercare di capire anche su queste tema tiche, che sono importantissime, che
tipo di effetto ha l'esito elettorale. Anche perché vorrei sapere — questa è una curiosità
politica, vera profonda — cosa significa una legge sulla devolution. Se è quella specie
di manifesto che è il quesito referendario della Regione Lombardia, si può fare anche
domani, perché chiede: "Volete voi che la Regione si impegni a ottenere, nelle vie
istituzionali e conservando l'unità della Repubblica la devolution su...?". Sì o no, ma
come? Attraverso quali passaggi? Dando i poteri a chi? Mantenendo o meno il ruolo
dello Stato? (Interruzione del consigliere Favia). Detto così, per chi lavora e pensa alla
necessità di non fare più riferimento ad un centralismo statal- governativo potremmo
essere tutti d'accordo; il problema grosso è quando si parla di come e per fare che cosa.
Abbiamo questo altro dato che dobbiamo aspettare non solo prima di scrivere, ma
per capire dove si imposta il confronto politico: nei prossimi cinque anni,
presumibilmente avremo una fase in cui, ad un nuovo quadro politico corrisponderà,
ovviamente, una situazione di opposizione diversa, che va costruita a livello nazionale,
che non può essere senza influenza sui rapporti che, per esempio, nella Conferenza
Stato-Regioni si andranno a costruire. Posso banalmente e provocatoriamente dire che
se il nuovo Governo si comporterà con le Regioni a guida opposta come si è comportato
il vecchio Governo con la Lombardia a noi andrà bene, perché la Lombardia è stata
trattata meglio di tante altre Regioni "di centro-sinistra" pure in una fase di gioco delle
parti in cui c'era questa contrapposizione.
Ma a parte queste battute, la verità è che noi non sappiamo che cosa significhi e
come andrà avanti il discorso del referendum: quale? Quando? La legge sulla
devolution che Bossi pretende che cosa è? O è una modifica della Costituzione o è
semplicemente un proclama politico scritto sulla carta della Gazzetta Ufficiale invece
che sulla carta del BUR della regione Lombardia, ma in effetti dobbiamo capire che
cosa va a stabilire e soprattutto come va a incidere sulla distribuzione di competenze fra
governo centrale e altre istituzioni sul territorio, perché quello è un elemento
fondamentale.
Altro punto: ma noi veramente pensiamo che si possa andare a scrivere qualcosa
di specifico senza capire prima che cosa sarà, se ci sarà, una Camera delle Regioni?
Perché la Camera delle Regioni significa: chi ci va? Come ci va? Sarà il modello
tedesco dove sono gli esecutivi? Sarà il modello spagnolo? O sarà un modello altro, il
più debole e finale che era soltanto una coincidenza temporale, che può essere anche
una coincidenza di liste nel momento in cui si eleggono i consiglieri regionali e anche i
componenti di questa seconda Camera? Questi sono elementi che ci daranno e ci
dovranno dare delle indicazioni specifiche.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
Non credo, ma non penso nemmeno che De Rita dicesse questo, che sia arrivato
ancora il tempo — su questo sono d'accordo con Favia — di scrivere l'articolato dello
Statuto, sia pure come bozza, però credo che sia arrivato il tempo di individuare i nodi
problematici che sono tre-quattro, non sono mille. Tutto il discorso dell'elezione diretta
o meno si scrive in un capitolo il cui titolo è "Stabilità dell'esecutivo". Come la
vogliamo? Riteniamo che sia un valore o no? Secondo me è una necessità, non è più un
valore. Come si assicura questa cosa? Io continuo a ritenere che un Consiglio regionale
che invece di votare solo la sfiducia votasse la fiducia al Governo regionale, sarebbe un
passo avanti importante. Quello che succede se non ha la fiducia è un altro passaggio,
ma il passaggio non può non esserci, altrimenti è come il Governo della non sfiducia:
non è quello il Governo; il Governo deve avere una fiducia. Dopodiché è chiaro che in
caso di conflitto e di mancanza di fiducia vedo difficilmente superabile la cosa, se c'è
una elezione diretta, di ritornare a vedere, perché ci sono due organismi con
legittimazione diretta che sono in contrasto tra di loro.
Secondo punto importante: ma allora, per avere la stabilità dell'Esecut ivo, ci vuole
una maggioranza anche di rappresentanza nell'ambito dell'organismo che dà la fiducia o
comunque può dare anche la sfiducia? E come? A livello personale io sono
assolutamente contrario al mantenimento del "listino", perché quello è un sistema che
non va bene, perché è soltanto fonte di una conflittualità spaventosa e sostanzialmente
elude il principio-cardine, che credo sia quello che tutti noi dovremmo cercare di
mantenere fermo, di riconoscere il massimo effetto possibile alla esplicazione della
volontà popolare, cioè il voto. Ci vuole il voto. Qualcuno deve fare tutto quello che
pensa di poter fare, purché sia votato. Se non è votato non può far parte di un'assemblea
elettiva, perché non esiste, di un'assemblea elettiva si fa parte quando si viene eletti.
Cosa completamente diversa è quella della costruzione e formazione
dell'Esecutivo. Quello è un altro tema completamente diverso. Ma il "listino" era nato
nel momento in cui si pensava che l'Esecutivo non potesse essere nominato direttamente
e quindi era la predisposizione in nuce dell'Esecutivo possibile. Se l'Esecutivo viene
formato in maniera diversa, allora è chiaro che il "listino" non ci vuole più.
L'altro problema grosso è la legge elettorale. Ma la legge elettorale sta all'interno
di questo tema, altrimenti diventa soltanto un gioco di bussolotti. Qual è il discorso
della legge elettorale? Il proporzionale può non prevedere un premio di maggioranza o
lo può prevedere. La legge elettorale tedesca, che è sicuramente proporzionale, prevede
un premio di maggioranza.
Come si costruisce il premio di maggioranza, come si prevede? Questi sono tutti
meccanismi che vanno individuati, sui quali non avremo idee tutte comuni, ma non
avremo idee tutte comuni nemmeno prevedendo divisioni verticali, perché
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
probabilmente saranno trasversali, nel senso che queste tematiche sono quelle su cui ci
stiamo misurando tutti nel concreto e sono tematiche che dividono trasversalmente le
persone, i movimenti, i partiti all'interno di un dato che mi sembra ormai tutti accettino,
quello di un Esecutivo che deve poter governare con una prospettiva di stabilità.
Terzo punto importantissimo e fondamentale è come ci si rapporta con le altre
realtà sul territorio. Ci si rapporta con le istituzioni, prevedendo una seconda Camera?
Io sono molto perplesso per non dire contrario, perché una seconda Camera che sia
espressione, in altro modo, di governi istituzionali sul territorio, comporta molte più
conseguenze negative che positive. Il bilancio costi-benefici, secondo me è negativo.
Però non possiamo dire che non deve esistere un momento forte. Il momento può essere
quello che già abbiamo noi in previsione, di un organismo consultivo particolarmente
forte, con un parere obbligatorio ma non vincolante nei limiti, e qui sono d'accordo con
Favia che diceva "si può superare con una maggioranza qualificata del Consiglio". Il
parere deve essere obbligatorio e la maggioranza particolarmente qualificata quando si
discute proprio di distribuzione di competenze. Mentre su tematiche gene rali che non
riguardano specificatamente l'attribuzione di competenze si può prevedere una prova di
resistenza minore, su quello che riguarda l'attribuzione di competenze la prova deve
essere abbastanza forte, cioè ci vuole una maggioranza particolarmente qualificata,
senza arrivare a un potere di veto.
Rimane l'ultimo punto. Quando si fanno questo tipo di cose noi pensiamo che si
possa eliminare l'idea che sta alla base del Cnel o no? Io sono tendenzialmente del
parere che comunque bisogna trovare dei meccanismi che siano un po' meno ingessati
istituzionalmente ma reali di consultazione, perché non credo che noi possiamo
eliminare una struttura, un modello organizzativo che ci faccia sentire che cosa
vogliono, nella realtà, quanto meno, le organizzazioni, gli interessi organizzati del
territorio e nel territorio. Se non possiamo sentire i cittadini — quello sarebbe
l'optimum, ma non è possibile — dobbiamo cercare di capire come si possano sentire le
istanze organizzate dei cittadini, che non sono soltanto i sindacati, i datori di lavoro,
perché non sono soltanto interessi economici ma sono il non profit, lo sport, le questioni
giovanili, tutta una serie di problemi. Probabilmente — ci ho pensato, perché è un tema
di notevolissima difficoltà — bisognerebbe prevedere delle sessioni di consultazione.
Mi sono andato a rileggere il discorso che ha fatto la volta scorsa Cassese, quello del
modello francese, di una sessione istruttoria. Mi pare che sia un modello che vada
seguito, come linee generali. E allora ci vo gliono delle sessioni previste in maniera
rigorosa e non come soltanto stanchi ritualismi, in cui si ascoltino e si allarghino il più
possibile le consultazioni con gli interessi organizzati nel territorio, le esigenze
organizzate nel territorio, quindi dei cittadini.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
Questi mi pare che siano già alcuni temi di enorme rilevanza, su cui non siamo
d'accordo. Prima emerge una sana, corretta, leale esposizione di posizioni e prima
possiamo cominciare a vedere qual strada prevedere — quando si scrive la carta
fondamentale è meglio essere in accordo che in disaccordo, è meglio che la
maggioranza sia la più ampia possibile — per arrivare a una posizione la più condivisa
possibile. Là dove, invece, non ci sarà questa possibilità ci misureremo, non ci faremo
la guerra, non penso assolutamente. Però, questo tipo di lavoro dovrebbe ormai essere
affrontato, nel senso che nei prossimi mesi almeno l'individuazione dei problemi
fondamentali, con tutte le tematiche conseguenti, con le eventuali alternative — quindi
non un articolato ma una robusta bozza problematica, una specie di ordine del giorno
problematico, con le varie, possibili conseguenze e soluzioni, anche guardando ad
esperienze esterne — comincerei a farla, perché almeno arriveremo abbastanza
preparati quando ci sarà un po' più chiaro il panorama nazionale.
Da ultimo, il discorso dei principi fondamentali. Ad una elencazione di doveri e di
diritti sono fermamente contrario, perché si corre il rischio di dimenticare almeno una
cosa, e poi, soprattutto, si è sempre indietro rispetto ai tempi che sono velocissimi. Chi
pensava mai, qualche tempo fa, che ci dovessimo preoccupare di chiarire il rapporto fra
proprietà privata e proprietà degli embrioni da clonare? Con un rinvio ricettizio ai
principi fondamentali della nostra Costituzione della carta dei diritti dell'Unione
europea — quella la dobbiamo comunque richiamare con forza — penso che dobbiamo
semplicemente indicare non tanto singoli diritti quanto le linee del patto di cittadinanza.
Questo dobbiamo farlo. E' un patto di cittadinanza che noi stabiliamo con i cittadini
delle Marche. Grosso modo abbiamo tutti chiari in mente i principi di eguaglianza, di
solidarietà, di libertà ecc. Poi, il principio della effettività, perché l'art. 3 della
Costituzione dice che la Repubblica elimina gli ostacoli che impediscono la parità fra i
sessi, per esempio, e dal 1948 non mi pare che ne siano stati eliminati tanti se nella
nuova rappresentanza popolare eletta l'altro ieri abbiamo una diminuzione ulteriore del
numero delle donne. E' un bene o un male che ci siano le donne? Secondo me è un bene,
comunque diciamo francamente che o ci crediamo e mettiamo in atto strumenti concreti,
oppure è inutile che lo scriviamo e poi ce ne infischiamo. Questo per dirne una, ma ce
ne sono tante altre: il paesaggio, lo sviluppo sostenibile che ormai ha un significato
molto preciso, molto grosso. Questo è il principio-cardine, questi sono i dati
fondamentali. Così come il discorso della formazione permanente e tutte le altre cose.
Questi sono que lli che noi pensiamo debbano essere i contenuti di un patto di
cittadinanza e su questo si possono individuare delle tematiche, dei problemi e vedere se
su questi problemi, che essendo un po' più generali sono meno causa di contrasto, si può
cominciare a lavorare per costruire, quanto meno, una prima parte che sia condivisa il
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
più possibile. A me piacerebbe molto una prima parte fortemente condivisa,
tendenzialmente all'unanimità, e una seconda su cui ci possiamo dividere.
Io sono sempre fortemente preoccupato dalla tendenza di fare una Costituzione, e
quindi uno Statuto lungo e puntuale, perché più noi facciamo previsioni puntuali e più
saremo superati dalla realtà. Vediamo allora di indicare dei principi e poi dopo,
nell'ambito dei singoli principi, si vedrà volta a volta di demandare a leggi regionali,
anche perché, così facendo, la legge si può cambiare anche venti giorni dopo senza
problema, ma lo Statuto, prima di cambiarlo bisognerebbe pensarci bene. Più lo
facciamo come patto fondamentale e meno dovrebbe essere soggetto all'usura del
tempo. All'usura del tempo devono essere soggette le leggi.
Se passa il modello della modifica del Titolo V della Costituzione — non
specificamente quel testo, ma quel modello — i problemi che ci stiamo ponendo tutti,
anche chi è responsabile politico di una maggioranza e capo di un Esecutivo vengono
superati immediatamente, perché avremo una marea di cose dove dover legiferare.
Faccio un esempio su tutti, per capire: nella legislazione concorrente, quando la
Regione può cioè emanare leggi all'interno di leggi quadro emanate dal Governo
centrale, cosa succede se il Governo centrale non emana le leggi quadro? Noi siamo
bloccati o possiamo fare ricorso alla Corte costituzionale? Un enorme problema c'è là
dietro, perché nessuno ti dirà "io nn voglio che tu non fai le leggi", ma basta che non
facciano le leggi-starter e tu non puoi fare la legge di dettaglio.
Questi sono i nuovi terreni su cui ci dovremo misurare e su cui avremo tutti quanti
tanto di quel lavoro da fare, che forse verrà superata questa ormai tradizionale, vecchia,
noiosa contrapposizione che non penso verrà mai sepolta, ma è ora che almeno la
aggiorniamo, la mettiamo sui piedi del 2001 e non più sui piedi del 1970 dove tutti
facevano tutto.
Questi mi pare che siano i temi su cui dobbiamo misurarci nel concreto. Io sono
convinto che se noi facciamo una bellissima costruzione istituzionale che poi complica
la vita ai cittadini, si "arrabbiano" e hanno ragione. E uso volutamente il termine
francese, perché hanno ragione. Noi dobbiamo capire che tutto si regge e si tiene se
riusciamo comunque, qualunque sia il colore dei Governi locali, centrali, nazionali, a
semplificare la vita che è già complicata di per sé. Se gliela complichiamo ancora di più,
si imbufaliscono e ci sarà il rifiuto della politica, quindi avremo perso un'occasione,
questa sì epocale, e invece di scrivere il patto di cittadinanza, avremo scritto un'altra
volta il regolamento di condominio del Palazzo, sia pure con la "P" maiuscola. Ma a me
il regolamento di condominio del Palazzo interessa molto di meno.
LUIGI MINARDI. Concludiamo così i nostri lavori.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
Mercoledì 16 maggio 2001
(pomeriggio)
LUIGI MINARDI, Presidente Consiglio regionale delle Marche. L'invito a questi
nostri lavori riguarda le 19 associazioni che hanno sottoscritto con il Consiglio un "patto
di consultazione". E' un impegno che avevamo preso di discutere insieme i temi relativi
alla elaborazione dello Statuto, le idee forti che questo Statuto dovrà tradurre
operativamente in nuova organizzazione, a partire dall'idea di regione che si sta
configurando e che si intende strutturare e organizzare. La presenza non è ancora
completa di tutte le associazioni che hanno garantito la loro partecipazione, però visto
che sono già le 15,30 direi di cominciare, anche perché sia il presidente della Giunta
D'Ambrosio che il dott. De Rita dovranno lasciarci e non potranno restare con noi fino
alla fine. Darei quindi subito la parola al presidente della Giunta D'Ambrosio per l'avvio
dei nostri lavori.
VITO D'AMBROSIO, Presidente della Giunta regionale delle Marche. Questo
momento di incontro e di riflessione viene dopo due occasioni di appuntamenti, ma più
destinate ad un dibattito interistituzionale, mentre qui comincia un'altra parte del
dibattito, quello con gli interessi organizzati, non rappresentanti nelle istituzioni.
Ovviamente mancano ancora altri attori, le istituzioni non territoriali, non generali,
comunque la nostra intesa, la nostra linea è quella di riuscire a capire e individuare quali
sono i suggerimenti, le proposte, le linee, i percorsi e i cammini su cui andare. Poi, in
tempi che ancora sono lenti ma che man mano andranno accelerandosi, si andrà alla fase
finale della scrittura, del dibattito e dell'approvazione dello Statuto.
Non possiamo, all'inizio di questo incontro, non tener conto di due-tre elementi
che sono significativi per tutta la serietà e l'utilità della nostra riflessione. Sono elementi
di incertezza, ancora, perché non sappiamo che cosa succederà nel prossimo futuro
rispetto a questo tema in ambito nazionale. Per dirla in maniera molto chiara e molto
semplice, se rimane — e credo che sia difficile eliminarla — la previsione di un
referendum confermativo per alcuni, abrogativo per altri, della proposta di legge di
modifica costituzionale approvata dal Parlamento alla fine della legislatura — il famoso
Titolo V della Costituzione — indubbiamente quello è un elemento che ci costringerà a
misurarci su questo tema ed aspettare l'esito del referendum, che prevedibilmente sarà
non prima di settembre-ottobre. Dobbiamo anche cercare di capire quali saranno le
prime risposte della nuova maggioranza alla richiesta di una parte della maggioranza
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
stessa, di Bossi che dice "nei primi cento giorni bisogna fare la legge sulla devolution".
Dando per scontato l'approccio abbastanza rozzo e "fai da te" di Bossi, vorrei cercare di
capire cosa significa legge sulla devolution, perché se il quesito del referendum sulla
devolution è quello che la Lombardia voleva fare e non ha fatto, è di una tale banalità e
genericità che lascia tutto come stava prima. Se invece è una cosa diversa, bisognerà
capire come si va avanti su questo punto specifico.
Vedo poi altri due elementi di incertezza; Uno è: che fine farà tutto l'impianto
della "legislazio ne Bassanini"? Quelle sono tutte leggi ordinarie e possono tutte essere
modificate con una semplice maggioranza parlamentare. Non ho idea di quali possano
essere gli atteggiamenti della nuova maggioranza, dobbiamo capire su quale linea si
porranno.
L'altro elemento, tutt'altro che secondario, è come costruiremo, se costruiremo e
che tipo di modello seguiremo per un federalismo fiscale. In sostanza, parlando di cose
serie, i soldi alla fine chi ce li mette? Chi gestisce, chi governa la leva fiscale? Come si
governa? Si andrà avanti sulla strada del cauto, comunque chiaramente riconoscibile
modello che è in atto, cioè compartecipazione a grandi tributi nazionali dei governi
delle autonomie locali e tributi locali gestiti entro limiti molto stretti, oppure si torna
indietro? Tremonti quali idee ha in materia? Io penso di avere un'idea abbastanza chiara,
ma se quello che si può ad oggi ricavare dalle posizioni di Tremonti si tradurrà in realtà,
dovremo fare i conti con un federalismo che avrà scarsissimi elementi di solidarietà e
avrà invece elementi pesanti di competitività conflittuale fra Regioni e all'interno delle
Regioni stesse. Questi sono gli elementi che ancora ci lasciano perplessi su come
dovremo andare avanti anche sui tempi, oltre che sul metodo e sul merito.
Fatte queste premesse, la vostra presenza qui è uno strumento fondamentale per
rispondere o per cominciare a rispondere ad una domanda che sta alla base di tutto:
nello scrivere i nuovi Statuti, quali sono gli elementi principali da tenere presenti, e
quali sono i problemi principali da affrontare?
Anticipo qualcosa che credo dirà De Rita: il problema della rappresentanza come
intendiamo impostarlo nel nuovo Statuto? Il patto di cittadinanza, con chi si fa? La
risposta banale, immediata è "con i cittadini marchigiani," ma rappresentati come, che si
rivolgono a chi? Quale tipo di percorso per avere una effettiva rappresentazione della
rete fitta, intrecciata e complicata di rapporti, di esigenze e di interessi su questo nostro
territorio?
Per fare subito qualche esempio banale che ci fa comprendere queste cose: in un
tema apparentemente poco calabile in questo tipo di realtà e di percorso, qual è quello
della riforma sanitaria, andiamo a vedere nel concreto che vi sono dentro non solo
interessi specifici di categorie più o meno organizzate, dagli ammalati, ai medici, ai
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
lavoratori del comparto, alla popolazione come utente del servizio, ma abbiamo anche
la necessità di capire come dare cittadinanza a una rappresentanza di interessi che
vengono immediatamente coinvolti dai riflessi finanziari del "problema sanità". Non c'è
categoria in nessuna Regione d'Italia che possa tirarsi fuori da questo, visto che almeno
il modello attuale prevede necessariamente che il deficit sanitario che comunque è
frutto, in buona parte, di una sottostima del peso e del costo della sanità, se deve essere
finanziato con una manovra fiscale generale o fiscale specifica, poi incide e non può
non incidere su tutto il tessuto produttivo ed economico-finanziario di una regione.
Un altro elemento è: come noi giochiamo il rapporto con le rappresentanze di
interessi nel momento in cui dobbiamo costruire un nuovo modello di welfare o di Stato
sociale? Non basta fare le leggi, bisogna capire anche come dare rappresentanza a
questo tipo di necessità, che territori hanno e soprattutto come dare rappresentanza a
questo tipo di necessità in una regione come la nostra, dove l'invecchiamento della
popolazione è un dato ormai irreversibile, almeno nel beve, dove questo significa che
c'è necessità, c'è sempre più spazio, quindi ci saranno sempre più fenomeni di
immigrazione. Come si costruisce e si gestisce un modello di coesione sociale in questo
tipo di prospettiva? E soprattutto, quali possono essere le antenne che ci fanno capire
come intervenire in questo tipo di fenomeni?
Se questo è il quadro — e io l'ho volutamente schematizzato, sintetizzato al
massimo — è chiaro che dobbiamo avviarci insieme a costruire una serie di
interlocuzioni. Nel momento in cui costruiamo un modello di interlocuzioni dobbiamo
capire se seguiamo un modello — per rubare un termine di De Rita — contrattualistico
anche in questo tipo di rapporti, oppure se, come dice Cassese nel suo approccio, il
modello da seguire è un modello di multilivello di istituzioni, che però sono
praticamente loro a dover farsi carico della rappresentanza nel momento in cui si arriva
alla fase finale della decisione.
Tutto questo come si inserisce con un fenomeno al quale stiamo assistendo un po'
preoccupati, cioè il rischio di svuotamento di ruolo del Consiglio regionale di fronte a
un Esecutivo che comunque, dalla nuova riforma del 1999 è stato rafforzato e dove il
presidente dell'Esecutivo trae la sua legittimazione diretta da altra fonte che non è quella
del Consiglio regionale? Nel momento in cui il dualismo tradizionale Giunta-Consiglio
corre il rischio di trasferirsi su altri temi e di diventare non dico uno scontro ma uno
terreno di conflittualità dialettica, dobbiamo capire come riuscire a cogliere e a costruire
un modello di rappresentanza di interessi che non vadano ad impattare con questo
rischio di un Consiglio regionale che cerca una sua nuova, forte non dico visibilità ma
legittimazione, capacità di azione, d'intervento.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
Basterà dire che la previsione è quella del Consiglio delle autonomie previsto
dalla nuova riforma costituzionale? No, perché il Consiglio delle autonomie può
spaziare da un organismo consultivo, facoltativo e marginale ad una seconda Camera
regionale. In mezzo a questi due estremi si gioca tutta la costruzione concreta del
modello. E questo modello è un modello che dovrà essere tendenzialmente uniforme,
omogeneo sul territorio nazionale, oppure ogni Regione si costruisce il suo modello? E
nell'ambito di questo modello, come si mettono insieme i principi di rappresentanza e di
sussidiarietà?
Questi sono i grossi temi su cui vogliamo cercare di capire quale può essere la
risposta che l'insieme di interessi di associazioni e di organizzazioni qui presenti
ritengono che possa essere più utile per soddisfare e per raggiungere l'obiettivo
fondamentale di aiutare la crescita della società marchigiana non soltanto in termini
quantitativi ma in termini qualitativi: qualità della vita e tutto l'insieme di elementi di
benessere socio-economico.
Questi sono gli interrogativi che noi avevamo e abbiamo ben presenti e su cui
aspettiamo di sentire quali sono le vostre proposte, le vostre richieste, i vostri
suggerimenti.
LUIGI MINARDI. Ha la parola il dott. De Rita.
GIUSEPPE DE RITA. Come diceva il presidente D'Ambrosio, il problema, oggi, è
come, all'interno della stagione degli Statuti — della revisione, delle competenze, degli
obiettivi, dei principi, degli organi della regione — si può dare spazio a una logica di
rappresentanza. Non solo di rappresentanza delle autonomie locali a diverso titolo, ma
anche di rappresentanza degli interessi.
Io credo che oggi sia necessario che le singole Regioni si diano al più presto,
autonomamente, il proprio Statuto. Per molti anni sono stato considerato, tanti anni fa,
un "autonomo bianco", un "maoista bianco", uno dei "cento fiori". Sono ancora così,
cioè oggi non mi interessa sapere qual è il quadro generale. Il quadro generale rende
impotenti; bisogna avere il coraggio di andare avanti da soli, certe volte. Per esempio,
per gli Statuti c'è già un anno dietro le spalle. Perdiamo sicuramente anche quest'anno,
perché il referendum è a settembre-ottobre, Bossi chiede la devolution, bisognerà
stabilire che cosa sarà la devolution, se un diverso modo di fare la legge costituzionale o
qualche altra cosa, se ci sarà una legge costituzionale sarà in conflitto con l'attuale
legge, e poi via via. Per esempio, sulle "Bassanini" ci saranno ulteriori aggiustamenti.
Se uno aspetta passa non dico tutta la consiliatura regionale, ma quasi.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
Questa mattina, nel colloquio che abbiamo avuto con i consiglieri che si stanno
occupando dello Statuto, ci siamo resi conto che c'è un problema di democrazia, di
lentezza perché i tempi democratici sono lenti, però ho l'impressione che convenga fare
da soli e presto. Ma questa è una mia convinzione sull'attuale momento politico.
Addirittura io penso che, dopo ieri, l'Ulivo farà una campagna elettorale a due anni, per
tornare a votare fra due anni, quindi saremo addirittura in nuova campagna elettorale, e
allora ritorneranno i processi di denuncia, di delegittimazione ecc. L'aria è quella.
Rischiamo che un appuntamento per i nuovi Statuti, dopo trent'anni, venga vanificato
dall'attesa che a Roma si decida qualcosa. Se uno gira per la Spagna di questo periodo,
sa benissimo che c'è una tale vitalità della periferia, anche autonoma rispetto al centro,
straordinaria. Certo, ci sono anche i Paesi Baschi che ammazzano, però c'è una vitalità
reale. I "cento fiori", cioè la capacità di fare 20 Statuti piuttosto che un'uniformità che
non ci sarà mai.
Ma questa è una premessa personale. Lo dico specialmente per Minardi e
D'Ambrosio, perché questa mattina abbiamo ragionato anche su questo e io non mi ero
espresso sul problema dei tempi. Mi sembra che i tempi vadano rapidizzati, tutto
sommato.
All'interno della creazione della definizione di un nuovo Statuto, che è una realtà
complessa dove ci sono rapporti fra Consiglio e Giunta, equilibri fra presidenti, equilibri
fra periferia e centro della regione, si pone il problema della rappresentanza degli
interessi di cui voi siete portatori. E allora bisognerebbe capire cosa si rappresenta, da
chi queste cose sono rappresentate, su che cosa si fa rappresentanza, con quale modello
e dove.
Cosa si rappresenta? C'è un problema molto forte, molto grande: che la società
marchigiana va cambiando e io sono convinto che all'interno dello Statuto certe volte, o
nello spazio che si dà a coloro che fanno rappresentanza di interessi, un punto centrale
sia la valorizzazione continua dell'identità marchigiana.
Ma cosa è l'identità marchigiana? E' molto diversa da quella di trent'anni fa, ma
anche quella di dieci anni fa, quella di cinque anni fa. Se leggete l'ultimo testo di
Balloni per la Fondazione Merloni, scoprite che questa è una regione che va
pesantemente verso la media impresa, mentre la nostra cultura, la mia pure, sulle
Marche, è ancora legata all'artigianato, alla piccola impresa, alla piccolissima. Non
arrivo ai metalmezzadri. Stavo leggendo, durante l'intervallo, dei pezzi di Fuà che oggi
non sarebbero più attuali.
Chi rappresenta la media impresa, oggi? Un'identità marchigiana che si avvia
verso la media impresa non è soltanto la famiglia Merloni, i Della Valle, ormai ci sono
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
imprese consistenti che non hanno ancora preso la guida o il potere all'interno della
rappresentanza che è lasciata ancora ai livelli più micro, però ci sono.
Cosa significa identità marchigiana in termini di cultura della nicchia? Sappiamo
tutti che rispetto a produzioni di tipo generale stiamo andando verso produzioni di
nicchia anche altre, pensate alle cappe di Fabriano o pensate ai piani su tutta la realtà
delle calzature, questa specializzazione che al tempo stesso diventa
internazionalizzazione immediata, perché fai le cappe per tutto il mondo, quindi il
piccolo imprenditore, anche fosse piccolo o medio non lo è, diventa un operatore
extramarchigiano.
I vecchi distretti vanno in qualche modo allargandosi, quasi unificandosi. A me ha
colpito molto l'altro giorno, andando a Rimini, il fatto che oggi Rimini non è più un
distretto industriale ma un macrodistretto con Cesena e Pesaro. Il rapporto di Pesaro con
questo macrodistretto padano, di spalla padana è un problema che si pone. Non è più un
elemento di una dimensione policentrica delle Marche, comincia a diventare diverso.
Penso a tutte le Marche fuori delle Marche: chi sta in Cina, chi sta in Portogallo,
chi sta in Russia, chi va in Sudamerica. Ormai, come si rappresentano, dove si
rappresentano, hanno ancora interesse a rappresentarsi presso il Consiglio regionale o
presso le autorità marchigiane? Le stesse gravitazioni territoriali che una volta erano
sostanzialmente Marche e realtà vicine — magari l'Albania o l'ex Jugoslavia — oggi
sono gravitazioni molto più di ampio respiro. La stessa composizione sociale oggi è
segnata non più dal metalmezzadro, dal piccolo imprenditore, dall'artigiano, ma sempre
di più da una borghesia che in alcuni casi è più scolarizzata, in alcuni casi è più
appagata, in alcuni casi è più frustrata. La stessa convivialità della qua lità della vita
collettiva, la vita comunitaria è diversa da come l'abbiamo pensata. Pensate ad esempio
a chi visiti oggi non le zone terremotate ma le zone interne.
Possiamo dire che non è questa l'identità che va rappresentata; è ancora quella che
rappresentiamo noi coltivatori diretti o associazioni commercianti. Ma se invece
l'identità, come ritengo io, è in cambiamento, c'è il problema da chi è rappresentata, che
cosa deve essere rappresentato, chi rappresenta.
Qui entriamo in un problema molto particolare, perché come dice Sandro
Pizzorno in un suo testo molto bello, oggi la sfera pubblica non è più connotata. Per lui
sfera pubblica è società civile e realtà statuale messa insieme: non riconosce più quella
divisione fra società civile e società politica su cui abbiamo vissuto per trent'anni e che
io sono profondamente convinto non c'è più; non c'è più una società civile che aiuta,
contrasta. Ormai è un mix. Quella società, questa specie di realtà che Pizzorno chiama
sfera pubblica, non è più connotata per la negoziazione di fini e di mezzi. Qual è il fine?
Dove vogliamo andare? Con quali mezzi vogliamo andare? Con quali soldi? Con quali
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
strumenti? Questa è stata la sfera pubblica degli ultimi cinquant'anni. Pizzorno dice — e
io sono profondamente convinto che abbia ragione — che la sfera pubblica nuova è
connotata non dalla negoziazione dei mezzi e dei fini, ma dal riconoscimento, spesso
conflittuale, delle identità: dell'identità padana, dell'identità delle nuove professioni,
dell'identità dei nuovi imprenditori, dell'identità degli immigrati. Ma se fosse vero,
come dice Pizzorno, che nella negoziazione di mezzi e fini vale la rappresentanza e nel
riconoscimento dell'identità vale la rappresentazione, perché per farsi riconoscere in
termini di identità si deve fare rappresentazione di se stessi, mentre per fare
negoziazione si deve fare rappresentanza, anche il lavoro vostro, il lavoro mio non è più
quello di fare rappresentanza in senso classico, ma di mischiare la rappresentanza con la
rappresentazione. Nella sfera politica questo già è vero. Pensate all'ultima campagna
elettorale: chi non ha potuto o non ha voluto fare rappresentazione è rimasto fuori e la
rappresentazione diventa un elemento più importante della rappresentanza. Chi fa
rappresentanza, se non vuole morire deve dire "io incorporo, nella mia capacità di
rappresentanza, anche la rappresentazione", che significa rappresentazione delle nuove
identità, perché se io rappresento ancora i coldiretti o i notai non ce la faccio, poiché
rappresento un'identità che non ha più rappresentazione nella società, quindi sono uno
zoppo nella rappresentazione.
Pertanto, il cosa si rappresenta e da chi è rappresentato. Bisogna che ci sia un
cambiamento profondo nel modo di fare rappresentanza. Io ho fatto per dieci anni il
presidente del Cnel e ho visto declinare la capacità di rappresentanza, anche di grandi
forze sociali perché non riuscivano più ad esprimere l'identità di qualcuno da
rappresentare: rappresentavano ancora vecchi stereotipi ma non c'era più nulla. Siccome
la legge chiedeva che lì ci fossero sei rappresentanze di quel tipo di lavoratori, quel tipo
di lavoratori non esistono più, mentre invece i 13 milioni di lavoratori individuali nel
Cnel non ci sono. Eppure sono, di fatto, se non un po' di Confartigianato. E non
nell'attenzione di Cgil di fare il sindacato dei lavoratori individuali o della Cisl di fare il
sindacato territoriale che conglobi anche la dimensione individuale. Cosa si
rappresenta? Un'identità. Chi deve rappresentarla? Qualcuno che sappia fare
rappresentanza e rappresentazione insieme, che sappia fare identificazione delle nuove
identità e porle sul tappeto.
Io ho il record dei fischi a Pontida, cinque minuti di fila, quindi possiamo
sghignazzare su Bossi, ma Bossi dodici anni fa aveva capito che il problema della
rappresentanza passava attraverso una rappresentazione di identità diversa. Poi, essendo
uno di non enorme capacità culturale, si è messo a fare le ampolle il Po, il sacro Eridano
e ha finito per fare una rappresentazione oltranzista. Pensate all'identità sub-regionale
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
all'interno di questa realtà, pensate all'identità degli imprenditori che fanno nicchia o
che fanno media impresa oggi: quelle sono le identità da esplicare.
Terzo problema, che cosa si rappresenta, chi rappresenta cosa, su che cosa, su
quali argomenti? D'Ambrosio ha detto una cosa giustissima sollevando il problema che
probabilmente le forze sociali hanno un focus fondamentale di rappresentanza nella
coesione sociale: nella sanità, nella trattativa sulla sanità, nella trattativa sulla mutua
marchigiana, sulla previdenza integrativa, sulla trattativa sulle spese per la scuola, sulla
trattativa per la legge quadro dell'assistenza, sul rinvigorimento del terzo settore, anche
se sul terzo settore molte rappresentanze sono incerte. Sappiamo, ad esempio, che il
Cnel e tutti i rappresentanti al Cnel faranno ricorso rispetto alla legge che immette nel
Cnel dieci rappresentanti del terzo settore perché non lo considerano categoria
economica e sociale. Il valore fondamentale della regione Marche è la coesione sociale:
sulla coesione sociale, dalla sanità fino al trattamento dell'immigrazione facciamo
concertazione e rappresentanza.
Mi domando e lo domando anche a voi, se basta accontentarsi che le forze sociali
vanno a fare la trattativa sulla coesione sociale, lasciando da parte almeno altri due
problemi: l'articolazione territoriale interna delle Marche, il modo di fare equilibrio
all'interno delle Marche non solo fra province, non solo fra nord e sud, non solo fra
montagna e costa ma anche a livello dell'unificazione, delle unioni dei Comuni su cui
l'Emilia Romagna, ad esempio, è moltissimo avanti. Inoltre, possono le forze sociali
rinunciare a fare un discorso sul sistema economico, dando per perso che in fondo il
sistema economico, media impresa, macro distretti, nicchie personalizzate mondiali alla
fine non è più rappresentanza?
Io ho l'impressione che se Minardi e D'Ambrosio verranno chiamati a una
riflessione oggi, chiedono anche di sapere se vi contentereste — lo dico con i tono un
po' brutale che mi è proprio — di far soltanto rappresentanza e concertazione sulla
coesione sociale o se invece avete qualche cosa da dire sulle nuove identità economiche,
i nuovi interessi economici e gli equilibri interni istituzio nali, non all'interno del
Consiglio ma all'interno della Regione. Pensate, ad esempio, agli equilibri fra
autonomie locali elettive e autonomie funzionali. La maggior parte delle vostre forze
sociali ormai ha occupato le camere di commercio, le camere di commercio sono ormai
strumento delle forze sociali, è la maggiore autonomia funzionale che ci sia insieme alle
Asl, alle università, anche perché molto spesso le camere di commercio sono
comproprietarie di enti fiera, enti porti ed enti interporto. Questo è un problema su cui
ragionare, perché anche sulle autonomie funzionali c'è il rapporto con le autonomie e il
rapporto con il sistema economico.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
Quarto punto. Con quale modello? L'ha già detto D'Ambrosio, non ci torno.
Questa mattina mi sembrava vincente, nella discussione che abbiamo fatto, il "modello
Cassese", cioè un modello che poi è stato, con cultura molto vetero-cattolica — mi
perdoneranno quelli che questa mattina hanno parlato — infiocchettato con la
sussidiarietà: "De Rita, per favore non ci faccia una riflessione di tipo non conflittuale o
concertativo ma di tipo contrattualistico. La regione non ha bisogno di contrattualismo a
oltranza, ha bisogno di sicurezza, quindi definiamo la sussidiarietà verticale: quello che
non fa la famiglia fa il Comune, quello che non fa il Comune fa la Provincia, quello che
non fa la Provincia fa la Regione, e tappe intermedie che conoscete, definiamo le
sussidiarietà orizzontali: quello che non fa la famiglia lo fa l'associazione di categoria
ecc. Se ci lasciate anc he un po' di cultura piramidale, gerarchica, in queste cose è
meglio, perché è questo il modello che preferiamo". Detto da Cassese e detto da tre
consiglieri. Io sono convinto che oggi, se effettivamente, come io credo, si va verso una
articolazione distribuita, poliarchica del potere, è molto difficile definire le sussidiarietà
orizzontali, verticali, "questo tocca a me", "questo tocca a te". E' un'operazione a
perdere, perché significa irrigidire cose che nello spazio di pochissimi mesi saltano,
perché cambiano le realtà, quindi mettiamo in Statuto dei meccanismi. Allora preferisco
il rischio del contrattualismo, il rischio di fare continua concertazione e contrattazione
sugli interessi, sulle identità, sulle rappresentanze piuttosto che avere questa specie di
oppio dei popoli in cui la sussidiarietà sostituisce il codice napoleonico e tutto è chiaro.
Ultimo punto. Con quale modello? Dove? Dove si mette un rapporto fra Regione
e forze sociali? Si mette fuori o si mette dentro le istituzioni? Si articola per luoghi o si
articola per tempi, modi e appuntamenti? Lo stesso discorso vale per le autonomie.
D'Ambrosio diceva che avere un Consiglio delle autonomie significa avere una seconda
Camera che sarà un doppione del Consiglio, sarà eletta in forma diversa, magari come
le diete polacche che venivano elette con una testa, tipo le società cooperative, però
comunque un doppione. All'interno del rapporto fra Regione e forze sociali — in questo
caso si fa il Cnel regionale, chiamiamolo Consiglio delle forze sociali, Consiglio dello
sviluppo economico, organo consultivo — oppure si tiene fuori, lasciando a sessioni
semestrali o annuali il confronto, la contrattazione, la concertazione?
Ho detto questa mattina e lo ripeto, che sono profondamente contrario alla
internalizzazione di questo modello di Cnel regionale, Crel o comunque lo si voglia
chiamare, perché non si può dire "mica ci mettiamo soltanto la Cgil, la Cisl, la Uil, la
Confcooperative, la Confartigianato, l'albo dei notai, dei dottori commercialisti, i
consumatori, il terzo settore" e non so che altro: diventa una cosa elefantiaca,
assolutamente incapace di lavorare senza un reale sbocco operativo, perché non si può
concertare in un organo di 110 persone com'è il Cnel nazionale. Qui, forse non
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
arriveremo a 110 ma a 50 ci arriveremo facilmente, se poi vogliamo mantenere gli
equilibri proporzionali fra il numero degli iscritti. Se ci mettete due rappresentanti dei
consumatori ci dovete mettere cinque rappresentanti della Cgil, altrimenti sfasate
totalmente i numeri. A quel punto è assolutamente inadatto. Io preferisco che quando
nello Statuto bisognerà affrontare il dove si fa rapporto fra autorità regionale e forze
sociali, lo si faccia in forma distinta dalla istituzionalizzazione di questo rapporto. Lo si
faccia il Consiglio sugli indirizzi, la Giunta, sul programma, il Consiglio sul
monitoraggio e sul controllo, la Giunta su alcune grandi leggi di settore, lo si faccia con
una sessione semestrale o una sessione annuale o quadrimestrale, lo si faccia a tempo
fisso con udienze di tabella o in altra maniera senza udienze di tabella, senza
appuntamenti fissi, però meglio una capacità di stare nel contrattualismo che è tipico del
mestiere delle forze sociali, piuttosto che diventare organo di consulenza, di pareri
assolutamente depotenziati dal fatto che quando 110 o 50 persone stanno su un testo per
tre giorni a limarlo, il testo, anche se era buono all'inizio esce di una banalità
sconcertante.
Ho finito. Credo di aver sollevato più problemi di quanti ne abbia risolti, però
Minardi e D'Ambrosio non è che con oggi volessero chiudere i problemi, volevano
soltanto aprire un dialogo. Io ho l'impressione che i cinque problemi che ho indicato —
quale identità economico-sociale delle Marche si rappresenta; chi rappresenta cosa; su
che cosa si fa il dialogo della rappresentanza; con quale modello, contrattualistico o
sussidiaristico?; dove — possano consentire alla discussione di andare avanti.
LUIGI MINARDI. Apriamo il dibattito.
__________. In questi anni, dall'ultima riforma statutaria è passata tanta acqua
sotto i ponti, si rende ormai necessario rivedere lo Statuto che è la Carta fondamentale
della Regione, soprattutto in un momento in cui il dibattito si sta fortemente spostando
sul discorso del federalismo, quindi un passaggio ancora più forte dei poteri alle
Regioni. Torno alla considerazione sul Cnel regionale. Si è detto da parte del presidente
D'Ambrosio, che occorre capire come definire la rappresentanza. Rappresentanza
significa interessi generali ma anche interessi particolari, non individuali. Per interessi
particolari intendo gli interessi, ad esempio, delle categorie economiche, delle
organizzazioni sindacali. Comunque, il tutto ha comportato e comporta tuttora delle
parti necessarie e fondamentali per quanto riguarda la dialettica e lo sviluppo
economico di una regione. Se non è un Cnel regionale come le rappresentiamo queste
cose? Qual è il momento della concertazione? Se non è un Cnel regionale è una
derivazione di quello nazionale, una sezione, però ritengo opportuno che il momento
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
debba esserci, in qualche maniera. Oggi, in una formula più attenuata abbiamo il
Comitato economico e sociale che deriva da una legge regionale. E' una forma di
incontro molto labile, non certamente la figura del Cnel, comunque una forma molto
attenuata di intervento da parte delle forze sociali e sindacali in ordine ad alcune
problematiche definite dalla legge. Di norma sono solo atti di tipo programmatico.
Vorrei capire qual è il momento.
GIUSEPPE DE RITA. Il problema dell'organizzazione istituzionale del rapporto con
le forze sociali è diverso dal livello nazionale a quello regionale. A livello nazionale il
Cnel fa soltanto consulenza o luogo di concertazione con il Governo nazionale. A
livello regionale, se il Consiglio regionale, ad esempio, nello Statuto si darà compiti e
indirizzi di monitoraggio e di controllo, la presenza di un dialogo con le forze sociali
sugli indirizzi è importante. Io presidente del Cnel non potevo mica andare da Violante
a dire quali sono gli indirizzi, perché mi avrebbe risposto "tu cosa c'entri? Noi Camera
non diamo indirizzi, perché facciamo leggi". Se fossi andato da Mancino sarebbe stata
la stessa cosa. Invece qui, sugli indirizzi si può fare una sessione non indifferente, di
buon livello.
Molto spesso si fa anche indirizzo in corso d'opera, facendo monitoraggio, come
diceva questa mattina Minardi. Su alcuni problemi specifici può andar bene il
monitoraggio. Se controllo, come io sostengo e come credo sia giusto, non è il controllo
di singo li atti della Giunta di cui non importa niente a nessuno ma il controllo della
rispondenza degli interventi agli indirizzi, anche lì una sessione di partecipazione al
controllo si può fare. Molto meglio questo che avere un Comitato economico e sociale,
un Consiglio regionale dell'economia e del lavoro il quale si deve inventare, come ho
inventato io per anni, un qualche cosa per non morire, altrimenti il giorno dopo me ne
potevo pure tornare a casa perché non c'era niente da fare. Mi sono inventato una follia
di cose, dalla competizione al nord, alla questione settentrionale, ai patti territoriali, ma
perché ero io non altri: il presidente gestisce le sessioni. Penso al Comitato economico e
sociale di Bruxelles: è una delle banalità più straordinarie di questo mondo. Ma perché
vi dovete costringere in una sede che, almeno per il Cnel, dà un po' di stipendi a qualche
pensionato del sindacato o delle associazioni? Non mi sembra che sia questo il
problema.
Quindi, onestamente la risposta è questa: legare alle funzioni di indirizzo,
monitoraggio e controllo del Consiglio la rappresentanza e poi, con la Giunta fare il
contrattualismo che è necessario ogni volta che sorge un problema.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
POLACCO, Confcommercio. Mi pare che il prof. De Rita ci ha dato una serie di
elementi, delle novità che non siamo abituati ad affrontare. Conosco il prof. De Rita per
la sua capacità e per la sua conoscenza approfondita delle associazioni e ritengo che sia
una delle persone che più di tutti in Italia conosce la realtà delle singole associazioni.
Ho ascoltato con molta attenzione quando parlava della rappresentanza dell'identità
marchigiana. Noi ne parliamo spesso, però ritengo che ancora non siamo a conoscenza
di chi, come vogliamo rappresentare veramente il modello d'identità marchigiano.
In questa funzione regionale che stiamo portando avanti, ritengo che in effetti
manchi un rapporto forte con l'ente Regione e le associazioni. Il Comitato economico e
sociale ha sì questa funzione, però è una funzione che non riesce a cogliere appieno la
rappresentanza delle associazioni e quello che vogliono rappresentare.
Ritengo che questo nuovo rapporto che oggi ci ha dettato il prof. De Rita, questo
rapporto contrattuale con la Regione e più congeniale a noi, sarebbe molto interessante
portarlo avanti con l'ente Regione. Il prof. De Rita ha detto che se la Regione va avanti
con il modello dell'oppio dei popoli, certamente non riusciamo a portare avanti nulla e
tanto meno gli interessi dei nostri cittadini.
Ritengo pertanto che questa riflessione sia da portare avanti. E' un pensiero
personale che ancora non ho portato all'interno della mia associazione, però negli ultimi
sei mesi della precedente Giunta regionale noi abbiamo portato avanti diverse iniziative
con il patto di concertazione. In quella fase c'è stata molta attività contrattualistica, ci
sono stati molti incontri che hanno fatto bene alla regione, pur se a volte è stata
un'attività nervosa, comunque molto attiva, che ci ha fatto lavorare tutti, però
obiettivamente ci sono state delle conclusioni.
In quel momento avevamo chiamato quell'esperienza "patto di concertazione", ma
c'era molta contrattualistica, perché all'interno avevamo fatto delle sessioni di incontro
sulle varie problematiche e mi pare che comunque dei risultati li abbiamo portati.
Ritengo che questa novità che il prof. De Rita ha rappresentato oggi dovremmo
portarla avanti, dovremmo costruirla insieme, vedendo se veramente il nuovo Statuto
possa prevedere un'attività di questo tipo. Non dico di cancellare il Comitato economico
e sociale, perché è importante un incontro fra noi, visto che non ci incontravamo molto
spesso, ma sicuramente occorre portare avanti un'iniziativa serrata di incontro insieme
all'ente Regione — e questa parola "contrattualistica" mi piace molto — ritengo che sia
una cosa molto interessante.
FIORETTI, Uil. L'impegno che tutti abbiamo di fronte è estremamente
complesso, difficile, perché dalle analisi fatte dal prof. De Rita, sostanzialmente si
evince la necessità di rendere semplici, funzionali, trasparenti e individuabili dal
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
cittadino le istituzioni, perché di questo parliamo nel momento di cui ragioniamo di
Statuto in una società enormemente complessa. Non è una cosa semplice, sapendo che
l'obiettivo deve essere quello di costruire un intreccio tra i vari livelli istituzionali che
poi dovranno decidere, avendo un obiettivo sostanziale che sia immediatamente
leggibile dal cittadino e nello stesso tempo sia anche elemento sostanziale in cui la
rappresentanza possa esprimersi in maniera efficace.
C'è quindi un problema tra gestione e controllo, quindi tra Giunta e Consiglio,
tutta una tematica che abbiamo visto nei precedenti Forum e che si è approfondita. C'è
un problema di come questo livello istituzionale — Giunta e Consiglio — si rapporta
con le autonomie locali. Camera delle autonomie o meno? C'è un problema che a noi
preme di più: quello del luogo e del modo in cui e con cui possono essere espresse le
rappresentanze sociali. C'è il metodo della concertazione e della contrattazione, che mi
pare estremamente chiaro: il problema è il luogo di questi due aspetti sostanziali di
concertazione su temi, su programmi, su obiettivi e sulla contrattazione che rappresenta
invece elementi più specifici e più dettagliati. Questi due passaggi sono estremamente
chiari, per lo meno dal nostro punto di vista. Il problema è in quale luogo, in particolar
modo la concertazione, non tanto la contrattazione, possa avere la sua massima
espressione.
Ascoltando le considerazioni che faceva il prof. De Rita qualche dubbio mi viene
fuori, perché io ero e sono convinto del discorso del Comitato economico e sociale.
Dovremo discutere e approfondire ulteriormente queste valutazioni. Non so in che
maniera le camere di commerci possano essere rappresentanza, se non di uno spaccato
delle rappresentanze sociali, perché rappresentano sostanzialmente il mondo
imprenditoriale, neanche quello sindacale e dei lavoratori.
Occorre quindi trovare sintesi, occorre trovare forme efficaci in cui questa
concertazione possa svolgersi. Registro che in questo momento possono essere
individuate due forme: quella stabile che può essere il Comitato oppure quella periodica
su temi, con scadenze insieme al Consiglio o alla Giunta, in funzione dei ruoli che il
Consiglio e la Giunta, rispettivamente, avranno all'interno dello Statuto. Sinceramente
ho difficoltà a esprimermi in maniera definitiva, ma è un problema che dovrà essere
necessariamente approfondito, perché l'elemento della concertazione, in una società
complessa, per un sindacato come la Uil, ma per Cgil-Cisl-Uil è sostanzialmente un
esercizio fondamentale, parte importante della nostra azione, oggi e sicuramente anche
negli anni a venire, per poter portare avanti le nostre prerogative e avere incisività.
In questa fase volevo evidenziare questo dubbio, comunque la necessità di ricerca
la sintesi sul luogo in cui questo elemento della concertazione possa essere portato
avanti. Propenderei per un elemento di certezza e di continuità. Non so se il Comitato
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
economico e sociale oggi come oggi rappresenti appieno questo tipo di esigenza, ho
qualche dubbio in questa fase, vedendo gli appuntamenti tematici o periodici, perché mi
danno la sensazione di un qualcosa che rischia di diventare rituale, nel senso di "ci
dobbiamo incontrare, corrispondiamo a questo adempimento, ascoltiamo," e finisce lì.
Questo è il rischio. Come c'è il rischio, dall'altra parte, come diceva il prof. De Rita, di
costruire un organismo che nella sua vastità sia pletorico. Questi sono i due dubbi che in
questa fase mi permetto di rappresentare, poi anche come Cgil-Cisl- Uil avremo modo di
esprimere un'analisi più approfondita in successivi momenti su questa tematica.
VENTURI, Cgil. Parto dalla questione che il prof. De Rita poneva come
riflessione sullo sfondo dei tempi dell'operazione-Statuto, perché a me pare che questa
sia una variabile non indifferente nella discussione. Intanto perché ritengo
assolutamente non indifferente il quadro generale di riferimento che manca, sia per le
ragioni legate alla incertezza sulla tenuta del referendum confermativo rispetto alla
riforma del Titolo V della Costituzione, sia, più in generale, per la cornice complessiva
dentro la quale l'operazione "statuti regionali" si tiene. Lo dico perché sono
profondamente convinto delle cose che il prof. De Rita scrive in quel documento che ci
è stato distribuito, cioè che bisognerebbe evitare la tentazione di predisporre o di
predisporsi a definire delle Costituzioni regionali, con il rischio di inserire negli Statuti
un elemento di forzatura tale che potrebbe incorrere da una parte nel rischio di
raggirarsi ed avvitarsi attorno alla ripetitività anche dei principi che costituzionalmente
non vanno definiti regionalmente, e dall'altra in qualche rischio in più sul piano della
disarticolazione di alcuni di questi principi.
A me pare che ci sia una relazione diretta tra queste due cose, cioè che aumenti di
più il rischio di entrare in una logica di tipo "costituzionale" nel momento in cui viene a
mancare un riferimento di carattere generale. Lo dico anche perché credo che questa sia
una tentazione molto diffusa e anche molto trasversale. Questa cosa non è che abbia una
appartenenza dal punto di vista politico che possa essere in qualche modo definita
nettamente. Mi viene in mente il fatto che di Costituzione veneta parla Cacciari, per
capirci.
Se invece occorre fare, come credo sia utile, uno sforzo perché gli Statuti
regionali siano uno strumento attraverso il quale si possa dare rappresentanza all'identità
specifica delle singole Regioni, a me pare che partire senza un quadro di riferimento
generale attorno ai principi che debbono informare complessivamente la forma dello
Stato sia un handicap molto serio, che a mio parere non depone in termini automatici a
favore di un'ipotesi che è quella di dire "siccome non c'è il quadro generale non
facciamo niente", ma che non può essere considerata come una variabile indifferente.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
Tanto più se si pensa che tutta la questione dell'identità nel rapporto con la
rappresentanza collettiva, con la rappresentanza economico-sociale di questa regione,
non è soltanto un rapporto di rappresentanza con soggetti che hanno un compito
esclusivo di rappresentanza d'interessi. Credo che ci sia qui un problema anche di
soggetti che si pongono, quanto meno, nella loro prospettiva, anche quella di
rappresentare un sistema di diritti rispetto al quale ci deve essere chiara negli Statuti
regionali una sorta di preclusione a disarticolare un sistema di diritti che non può che
essere di tipo nazionale e valido su tutto il territorio nazionale.
Io avverto questo rischio, in una condizione dove, in particolare, viene a mancare
il quadro di riferimento. E l'avverto anche perché questi processi di cambiamento che il
prof. De Rita introduceva riguardano in maniera molto significativa una regione come la
nostra, dove io sono profondamente convinto che sarebbe sbagliato pensare all'identità
regionale come a un'identità ancora fortemente, se non esclusivamente, rappresentata
nello sviluppo dei cosiddetti distretti industriali. Non vi è dubbio che ci sono elementi di
trasformazione già sedimentati in qualche modo, che ci debbano far guardare a questi
processi in termini anche di fenomeni che tendono ad aprire queste aree. I distretti
industriali si configurano sempre meno come distretti e sempre meno come industriali.
In realtà c'è sempre più un elemento che riguarda il sistema territoriale nella sua
componente produttiva, come nella sua componente, una volta avremmo detto
riproduttiva, ma che comunque pone il problema della qualità sociale dei territori come
un fattore di competitività che modifica profondamente anche le identità sociali di quel
territorio, di quella realtà.
A me pare che da questo punto di vista sia in qualche modo assolutamente
rigoroso il ragionamento che veniva fatto su che cosa rappresentare, chi rappresentare.
A me pare che sul modello attraverso il quale rappresentare questo cambiamento,
rappresentare questa identità in trasformazione e dove collocare il sistema delle
relazioni della rappresentanza, ci siano alcuni elementi che vanno assolutamente ripresi.
Provo a ragionare da una valutazione sullo stato delle cose, cioè su come in questa
regione, proprio per rimanere allo specifico che ci veniva in qualche modo richiesto, si
sono prodotte e sviluppate queste relazioni. Noi veniamo da un sistema nel quale c'era
la legge regionale 46 che prevedeva sostanzialmente due luoghi della partecipazione,
uno legato alla partecipazione di tipo istituzionale che era la Conferenza delle categorie
e uno legato al rapporto con le rappresentanze economiche e sociali che è il Comitato
economico e sociale. Credo che la questione dalla quale partire per provare a sciogliere
questo nodo — "deve stare dentro, deve stare fuori? Come deve stare?" — almeno per
quanto riguarda la Cgil — ma su questo pur essendoci idee diverse mi pare che si
possano comporre — credo che la questione da dirimere in ingresso è decidere che è
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
diversa la natura delle relazioni tra le rappresentanze economico-sociali con il Consiglio
dalla natura delle relazioni che le rappresentanze economico-sociali debbono avere con
la Giunta. Non vi è dubbio che la natura delle relazioni con la Giunta deve essere di tipo
negoziale, mentre con il Consiglio non può che esserci un sistema di relazioni la cui
natura è partecipativa.
Noi abbiamo avuto, in passato, con la 46, da questo punto di vista, un sistema
molto ibrido, perché si è definito uno strumento di partecipazione — quello del
Comitato economico e sociale — che in realtà aveva a riferimento la Giunta e non il
Consiglio. Questa cosa, nel nuovo scenario definito dalla legge costituzionale del 1999
che ha portato alla elezione diretta del presidente della Giunta e che ha cambiato
profondamente i rapporti e le relazioni tra la Giunta e il Consiglio è una questione che
va assolutamente ripensata, e va assolutamente ripensata anche perché, pur se non
volessimo prendere in considerazione questo elemento, credo che l'esperienza di questi
anni del ruolo del Comitato economico e sociale o viene ripensata attorno alla
possibilità di uscire dall'ambito puramente consultivo e quindi sia data la possibilità a
uno strumento come questo o a uno strumento diverso, che comunque possa
ricomprendere questo tipo di rappresentanza, contare su un supporto anche logistico e
tecnico, ma in particolare su una ipotesi che preveda il superamento di una natura
meramente consultiva di queste relazioni, oppure credo che ci sia il rischio di svuotare
significativamente di ruolo questi strumenti.
Questo per quanto riguarda il Comitato economico e sociale. Poi io penso che sia
assolutamente indispensabile la riforma di alcuni strumenti di partecipazione nel
rapporto con il Consiglio. A me pare che questo strumento che oggi esiste, e che è
esclusivo, quello dell'audizione con le Commissioni consiliari, sia uno strumento che,
così com'è oggi, non serve assolutamente a nulla, anzi rischia di produrre, da questo
punto di vista, una sovrapposizione e per certi versi uno sdoppiamento di funzioni e di
ruoli, quindi di natura delle relazioni anche con il Consiglio, che va assolutamente
ripensato, anche perché — faccio sempre questo esempio che alcuni già conoscono, ma
mi permetto di riproporlo perché mi pare significativo — quando si discuterà del
bilancio della Regione Marche del 2002, e speriamo di poterlo fare sulla scorta di una
legge di revisione della contabilità, a quel punto il Consiglio non sarà chiamato a votare
i singoli capitoli di spesa ma sarà chiamato ad esprimersi su quelle che la legge
definisce "unità previsionali" e quindi, in qualche modo, dovrà esprimersi sugli indirizzi
delle unità previsionali. Io penso che non sia davvero nemmeno immaginabile che il
confronto su un atto così significativo e anche profondamente riformato come quello
che adesso stavamo definendo, possa avvenire sulla scorta delle procedure decisiona li
che oggi sono vigenti non solo per il rapporto, in questo caso, tra Consiglio e Giunta,
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
ma ovviamente per quanto riguarda il rapporto tra le rappresentanze economico-sociali,
la Giunta nel negoziarle e il Consiglio per quanto riguarda gli elementi di indirizzo.
Io esprimo qui una valutazione preferenziale, cioè penso che quella che qui è stata
definita da chi mi ha preceduto come una procedura di concertazione e contrattazione
abbia il suo valore aggiunto esattamente all'opposto del suo livello di riconoscimento e
di istituzionalizzazione, penso che il fatto di vedere riconosciuto dentro lo Statuto un
metodo che noi continuiamo a considerare assolutamente indispensabile per le ragioni
che in questi anni hanno portato a sviluppare una serie di elementi e di forme
concertative inedite, trovi la sua spiegazione e la sua natura non tanto nella capacità di
essere istituzionalizzato quanto nella capacità dei singoli soggetti di partire da fonti di
legittimazione in qualche modo vicendevolmente riconosciute e no n necessariamente
pattuite.
Ritengo che la cosa indispensabile per quanto riguarda il dove sia innanzitutto
distinguere la natura delle relazioni che ci debbono essere nel rapporto con il Consiglio
e con la Giunta. Arrivati a questa scelta credo che sia più facile decidere sul dove
collocare. Il livello di concertazione che ha funzionato in questi anni a livello nazionale
è stato questo: si fa concertazione sul DPF, si fa concertazione sulla legge finanziaria,
poi, ovviamente, si fa concertazione su scelte che in qualche modo hanno elementi di
grande rilevanza, ma fondamentalmente sono quelle le due sessioni nelle quali si
articola e si organizza la concertazione. Per il resto c'è la necessità di definire canali,
forme e strumenti che secondo me hanno bisogno di essere profondamente riformati per
quello che non hanno prodotto oggi, a partire da questa questione delle audizioni in
Consiglio che io trovo assolutamente indispensabile rivedere e ripensare.
MARTELLOTTI, Confesercenti. Intanto non è facile dare una risposta a tutti gli
interrogativi giusti e interessanti posti dal presidente D'Ambrosio e dal prof. De Rita,
che in gran parte condivido anche. Sono state tante le discussioni che si sono fatte, da
anni, su questi temi e sul fatto che non funzioni il rapporto fra Giunta e Consiglio con le
associazioni, quindi non vi ritorno. Sappiamo che l'esperienza del Comitato economico
e sociale di per sé non risolve il problema che va risolto in maniera diversa: bisogna
andare a una nuova legge sulla programmazio ne, quindi sulla partecipazione e si rinvia
continuamente allo Statuto. Non funziona il rapporto di partecipazione con il Consiglio.
Quindi, sul fatto che bisogna modificare siamo tutti d'accordo. Esprimo però una certa
preoccupazione, anche sulla base di altre esperienze, dato che vengo dalle autonomie
locali e ho fatto leggi in altre parti. Stiamo vivendo una stagione in cui è stata fatta la
legge sul federalismo, poi referendum, non referendum, vedremo come finirà. La
seconda parte della Costituzione va rivista; qualcuno vuol rivedere anche la prima parte,
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
quindi immaginiamo quale dibattito si aprirà, anche sui grandi principi. Siamo in una
stagione in cui stiamo rifacendo gli Statuti delle Regioni, i Comuni stanno quasi
terminando i loro Statuti, così le Province.
La mia impressione è che si stia facendo una grande bardatura di questa società, in
cui si pensa che tutti i problemi si possano risolvere scrivendo negli Statuti alcune
questioni di rilevante importanza.
Ho letto che alcuni Consigli comunali hanno discusso di politica estera, hanno
discusso sul fatto che la Resistenza sia stata o meno un valore. Secondo me si
ricomincia tutto da capo, si fa la storia del Paese. Il rischio che anche in sede di
redazione dello Statuto si corre, è che si faccia una cosa lunga, complessa, articolata,
dove tutti siano in qualche modo rappresentati, dove tutto sia scritto. Ripeto, siccome ho
partecipato in altre assemblee a fare leggi, alla fine si trova il compromesso, la
virgoletta, poi fra due o tre anni ci sarà l'interpretazione di coloro che diranno cosa
voleva dire il legislatore.
Credo che questo sia un rischio da evitare e credo che si debba fare uno Statuto il
più snello possibile, di facile lettura, che richiami a grandi principi, che stabilisca anche
che la partecipazione, la concertazione ecc. sono fondanti sulla base della società
regionale così come articolata ecc., senza pensare che alla fine lo Statuto ci risolva il
problema. L'Italia può anche stabilire che la concertazione non è un valore da scrivere
nello Statuto. Ma pensiamo tutti che una Regione possa governare senza fare la
concertazione? Non esiste, è un principio dal quale non si sfugge. C'è quindi un
problema di principio generale e c'è un problema di prassi. Dopodiché, le cose di cui
discutiamo che non vanno, che vanno migliorate ecc., sono un problema di volontà
politica. O c'è una volontà politica di andare nella direzione di una società che decide
facendo partecipare tutti i soggetti che a quella decisione sono interessati, oppure
possiamo scrivere tutti gli Statuti che vogliamo. Quindi non penso che dobbiamo fare
una cosa articolata che si presti a mille interpretazioni ma una cosa che sia snella, che
sia di facile lettura, in cui tutti ci si possa riconoscere. Poi, non credo che debba essere
io a trovare la soluzione di come questo si possa fare, però mi sembra questa una
preoccupazione che tutti avvertiamo.
Anch'io, come diceva all'inizio il prof. De Rita, ritengo che prima si fa e meglio è,
anche se siamo in una situazione di incertezza sul federalismo o meno, sul referendum o
meno. Si può sempre cambiare, si può sempre aggiustare, però discutiamo da tanto
tempo, credo che sulla base degli elementi, delle discussioni, dei contributi che possono
venire da più parti, credo che si possa andare più rapidamente possibile a scrivere
intanto un primo testo, sulla base del quale sarà più facile da parte di tutti intervenire.
Poi andare in tempi rapidi anche all'approvazione dello Statuto.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
Mi dispiace che il prof. De Rita non ci sia, ma sono comunque presenti i
presidenti della Giunta e del Consiglio, quindi dico che rispetto a questa cosa della
devolution, della società policentrica ecc., bisogna andare alla sostanza. Poiché vengo
dalle autonomie, credo all'autonomia e al ruolo della Regione, al federalismo, alle
autonomie locali, ai piccoli Comuni che si aggregano. Andiamo pure in questa
direzione, è inevitabile, però, anche su questo credo che dovremmo fare una riflessione:
noi siamo una regione di 1.300.000 abitanti. Se introduciamo fino al limite massimo
questa articolazione autonomistica a livello locale di cui già vediamo tutte le
conseguenze, non so se alla fine costruiamo una rete in grado di applicare e gestire bene
le cose che magari anche bene recepiamo, di Giunta regionale e di Consiglio regionale.
Già adesso vediamo che certe leggi regionali che vengono applicate sono un'iradiddio:
ogni Comune fa per conto suo. Dovremmo andare a vedere tutti gli Statuti dei Comuni,
delle Province.
Stabilito che c'è un problema delle autonomie locali, di ulteriore delega, credo che
questo sia uno dei punti sui quali bisogna riflettere in maniera molto ponderata, perché
il rischio che facciamo un massacro del territorio regionale esiste. Basta vedere che il
Governo diminuisce le tasse, la Regione mette le sue, i Comuni mettono le loro, le
Province mettono le loro... Se questo lo estendiamo sulla legislazione anche regionale, il
rischio che questo policentrismo diventi confusione totale, secondo me esiste. Tra l'altro
anche noi, come organizzazioni, abbiamo interesse non dico ad avere un'applicazione
puntuale ed esatta uguale dappertutto, ma che abbia una certa logica, una certa
coerenza, perché già oggi facciamo fatica a stare dietro a queste cose.
CARLO COLLI, Cisl. Mi spiace che De Rita sia andato via, ma volevo soltanto
dire che non abbiamo la sindrome da riserva indiana, quindi stiamo bene attenti a curare
la nostra rappresentanza, i nostri rappresentati, perché abbiamo storie di altri sindacati
che evidentemente hanno deciso di fare la riserva indiana. Mi pare che alcune questioni
che De Rita ha posto siano importanti per far riflettere poi sulla contemporaneità del
nostro fare rappresentanza. Questo non è il tema di oggi, comunque si tratta di questioni
su cui non possiamo essere disattenti, con una raccomandazione a De Rita il quale ci
dovrebbe raccontare, oltre quello che rappresentiamo noi, anche quello che
rappresentano le forze politiche in questa fase della situazione italiana, perché senza
questo non si capisce come si costruisce il rapporto fr a organizzazioni di rappresentanza
d'interessi e altre organizzazioni che hanno, invece, l'obiettivo e l'interesse della
rappresentanza generale del Paese, della Regione o del Comune.
Proprio partendo da questa considerazione credo che si debba, per un fa tto
obiettivo di storia marchigiana, rileggere attentamene gli episodi di come è andato tutto
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
il complesso, sia temporale che di contenuti, del patto per lo sviluppo firmato nel 1999
da 39 fra associazioni, università, banche e cose varie.
Se si rilegge attentamente tutta la storia del patto — non sono evidentemente
questioni polemiche quelle che voglio sollevare ma la lettura di alcuni fenomeni —
probabilmente una serie di suggestioni e notazioni importanti per fare anche lo Statuto
possono venire.
Una sola constatazione, per essere brevi. Non so come sia finito quel patto, quanto
meno cosa è successo, come è stato speso. Faccio solo un esempio, senza voler aprire
una polemica con Vito D'Ambrosio, perché non è né il luogo né lo spirito di quello che
vado dicendo. La legge di assestamento di bilancio tocca giustamente alcune voci
riguardo al patto. Non so se tutte le associazioni che hanno firmato quel patto o solo
alcune hanno saputo dopo che ci sono stati leggeri incrementi o comunque dislocazioni
diverse di alcune poste nell'assestamento rispetto a quello che era stato messo in
bilancio. Cosa giustissima. Le sedi di verifica e di monitoraggio del patto, da quanto mi
risulta sono molti giorni che non si riuniscono. Dico questo per giustificare in senso
pieno una posizione che noi abbiamo e che domani, nel congresso, sarà di nuovo
sollevata: che la istituzionalizzazione non è una scelta tecnica ma diventa una scelta
politica fondamentale. Se la storia del contrattualismo in questa regione è quella del
patto, ho seri dubbi che poi si regga una forma non istituzionalizzata che dal punto di
vista dei tempi correnti apprezzo molto di più che non quella istituzionalizzata; ma dal
punto di vista del significato politico della presenza del processo decisionale, delle
rappresentanze d'interessi non vedo altra scappatoia se non quella di chiedere
l'istituzionalizzazione e lo dico con molta brutalità, perché non sono un giurista e quindi
non so fare grandi e raffinate disquisizioni. Il Cnel lo conosco a memoria, il Ces a
Bruxelles lo conosco a memoria: sono dei musei di elefanti incredibili, quello che
producono mi tocca anche leggerlo. So benissimo tutti i limiti, però sto ponendo un
problema che è squisitamente politico. Lo sviluppo dal basso, che è l'unica cosa che ci
deve interessare e la concertazione che ho in testa non è quella nazionale, perché è il
tipico sviluppo dall'alto verso il basso. Quindi la concertazione, in qualche maniera,
devo di nuovo metterla in condizioni, dentro questa regione, di essere contemporanea e
moderna, altrimenti si continua a chiedere.
L'impressionante dato di tutti i momenti concertativi che ci sono fra la totalità di
noi, la Giunta e le istituzioni in senso più ampio, vede un atteggiamento sostanziale che
è quello del chiedere. Io vo glio rompere questo sistema, perché voglio creare le
condizioni per uno sviluppo dal basso, dove la visione, gli obiettivi e le responsabilità
dello sviluppo sono poi, alla fine — spalmati in maniera diversa, perché ognuno ha
responsabilità e modi di esercitarle diversi — concordati e le responsabilità sono
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
assunte. Questo è il salto culturale che molte volte, anche nelle forze politiche che
siedono in Consiglio regionale non trovo, dove trovo persone sensibili e intelligenti, che
capiscono perfettamente qual è il problema. Ecco perché chiediamo
l'istituzionalizzazione. Può essere una dimostrazione di tristezza interiore chiedere una
cosa che è già sperimentata nel corso dei secoli o degli anni, ma in questa fase ho
bisogno di una risposta politica forte, perché i problemi che sollevava De Rita, non
tanto sulla rappresentanza ma sulla evoluzione sociale ed economica di questa regione
mi fanno vedere urgente e necessario un modello di decisionalità politica che riporti lo
sviluppo dal basso, altrimenti si dissolve il sistema marchigiano, cioè la politica e le
organizzazioni di rappresentanza corrono il rischio di occuparsi degli sfortunati, mentre
gli altri devono trovarsi da soli il sistema per andarsene. Le maglie larghe, le reti lunghe
— la sociologia ci dà tanti termini di definizione — comunque ci occuperemmo, di
fatto, dei piccoli commercianti, di gente che sta male ma i ricchi e i potenti, quelli che
hanno idee vanno a collocarle in Messico, in Brasile, in Cina o da altre parti. Non credo
che sia questa l'ambizione di tutti noi. L'ambizione di tutti noi è avere un dialogo con
chi ha idee, con chi ha mezzi, con chi ha possibilità di collocarsi fuori perché la radice
debba rimanere di tipo anche locale. Questo è l'aspetto dialettico ed è un aspetto
squisitamente politico, per cui quando si affronta il problema istituzionale di come
rappresentare il contrattualismo "alla De Rita", non è una questione di metodi ma una
questione di scelte politiche, di dare significato e valenza politica a questo modo di
governo. L'Europa fa qualche tentativo, ma mi sembra una cosa molto retorica: le
premesse al libro bianco sulla governance mi sembrano una raccolta di citazioni di
vecchi libri anglosassoni. Ma credo che il legislatore europeo abbia intuito una
questione: che se non si pongono al centro del dibattito i problemi della governance non
si riesce neanche a governare, perché il Governo nudo e crudo in sé, oggi non ha respiro
se non ha elementi forti di governance, cioè di co-presenze responsabili di soggetti
diversi che sono fondamentali per lo sviluppo e per la coesione sociale. Speriamo che
non vengano fuori le cose che scrivono nel libretto illustrativo di che cosa faranno fra
due o tre mesi. Però è importante che tutta l'Europa si accorga di questo. Non solo, ma
non credo che il processo, qui, sia una istituzionalizzazione regionale di questi concetti,
bisogna anche trovare lo strumento perché questi arrivino nei territori.
Se tutto questo sistema, sia quello istituzionale, sia quello "alla De Rita" di neocontrattualismo, si fermano a livello regionale, si ritorna in una condizione in cui lo
sviluppo sarà poi comunque dall'alto verso il basso, quindi bisogna anche riuscire a
trovare dei sistemi che mettano in condizione i luoghi fisici — chiamiamoli distretti,
chiamiamoli aree — dove l'operazione di crescita dal basso venga negoziata a quel
livello. Il motore-Statuto — può essere non tanto lo Statuto in sé ma le indicazioni
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
anche di possibile legislazione di sostegno, di direttive — può dare un senso, un
significato diverso allo sviluppo della nostra regione.
Da qui la nostra scelta che anche domani illustreremo al nostro congresso. Si
rilancia un'idea di un fatto istituzionale, all'interno del quale la vera assunzione del tema
è di come si riesce a fare concertazione. E anche qui bisognerebbe fare un bel seminario
per capire le parole, perché se si facesse un'indagine rapida fra di noi avremmo più idee
che persone. Io non ho in testa un modello neo-corporativo anni '70, ho però chiarissimo
in mente tutto il sistema di governance di tipo anglosassone che è politicamente e
istituzionalmente forte e consolidato. Non ho in mente scambi di figurine o scambi di
favori a un tavolo, anche se il mestiere di negoziare lo sappiamo fare bene, anzi siamo
maestri in questo. Ho invece bisogno di un sistema in cui, assumendo responsabilità
riesco a consentire al Governo di poter compiere i propri atti. E questo sia centrale,
anche perché attraverso questo non c'è solo sviluppo economico ma c'è il fatto
sostanziale che consente lo sviluppo economico, che è la coesione, quell'atmosfera
necessaria perché c'è fiducia, c'è scambio reciproco e non c'è invece una prevalenza di
forme egoistiche che porterebbero alla dissoluzione dei rapporti fondamentali di tenuta
sociale.
GIACCHI, Cna. Al mio posto avrebbe dovuto esserci il segretario regionale
Cattaglia che in questo momento è a Cannes dove, in occasione del Festival del cinema,
sta partecipando a una conferenza stampa per presentare i prodotti e il sistema di
artigianato marchigiano.
Sulla storia della fase costituente della Regione Marche, dello Statuto, del
federalismo ritengo che abbia ragione il presidente D'Ambrosio quando afferma che mai
come in questo momento vi sia confusione, nel senso che non si conosce bene quale
sarà il destino della nuova legge sul federalismo solidale approvata dal Parlamento e che
dovrà essere sottoposta a referendum, non si sa che fine faranno i "decreti Bassanini" e
la "legge Bassanini" e non si comprende bene verso quale direttrice di marcia andrà il
nuovo Governo sul federalismo fiscale, se sarà un federalismo fiscale solidale o
competitivo.
Se questi sono i punti di partenza, è evidente che non è semplice fissare dei paletti
per quanto riguarda i principi generali dello Statuto. Ritengo, d'altro canto, che bisogna
comunque farlo, nel senso che i principi, i paletti ispiratori dello Statuto e del dettaglio
del documento in sé dovranno essere i paletti ed i principi di cui abbiamo sempre
discusso: la questione sociale, la concertazione, la sussidiarietà, la co-partecipazione e
la cooperazione e, in una sola parola, il federalismo solidale.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
Sono convinto che i prossimi saranno mesi difficili, anche per quanto riguarda i
rapporti, la natura dei rapporti, comunque lo scambio di contributi, la collaborazione per
la costruzione di questo nuovo sistema statale tra il Governo nazionale e le singole
Regioni. Temo che da questo punto di vista le Regioni dell'Italia centrale rischiano
come delle enclave musulmane assediate dai serbi, anche se mi auguro che non sia così,
ma è certo che bisognerà lavorare molto perché non sia così. Sarà molto difficile il
compito dei nostri rappresentanti di fronte ad un quadro politico- istituzionale e sociale
mutato per gli eventi elettorali, mutato per quello che sta avvenendo in altre parti
d'Italia, per le forti pressioni di Bossi sulla devolution, per le posizioni di Formigoni e
altro. Questo il contesto più generale, che però non dovrebbe farci derogare dalla linea
che ci siamo dati.
Per quanto riguarda la rappresentanza e la rappresentazione, De Rita parlava di
superamento della piccolissima impresa, di guardare alla grande e medio impresa,
dimenticando però che a fianco delle grandi imprese esistono anche piccole e
piccolissime imprese che fanno parte di filiere produttive che sono quelle che alla fine
consentono a questo sistema marchigiano di avere un'economia diffusa, di avere un
benessere sociale diffuso e che sono quelle che hanno più interesse ad avere un rapporto
dal basso con le istituzioni, un rapporto il più vicino possibile al territorio, una
costruzione delle politiche sociali, delle politiche economiche il più vicino possibile a
queste esigenze.
Un problema su cui si dovranno confrontare le istituzioni, ma anche noi per il
contributo che dovremo dare, è quello che porterà, in seguito alle modifiche che sono
state introdotte con l'elezione diretta del presidente della Regione, alla definizione dei
rapporti tra Giunta e Consiglio. Abbiamo visto nei Comuni che si crea comunque una
conflittualità fra Giunta e Consiglio nel momento in cui, per effetto della elezione
diretta del sindaco o del presidente della Giunta regionale, esiste un problema di ruolo,
di svuotamento delle funzioni dei Consigli che nei Comuni, a parte l'approvazione dei
bilanci, a parte gli strumenti urbanistici e poco altro, hanno una funzione di controllo, di
rappresentanza, ma non vanno molto al di là. Oggi questo problema si pone per le
Regioni, quindi occorrerà trovare un punto di riequilibrio che, secondo il punto di vista
della Cna deve tendere a valorizzare il ruolo dei Consigli, riservando ai Consigli stessi
una funzione di legislazione, di controllo politico sull'operato della Giunta. Occorre
quindi ripensare anche ai ruoli, sulla base di una distinzione netta tra consigliere e
assessore. Il consigliere dovrebbe avere il diritto-dovere di rappresentare i bisogni della
comunità dove è stato eletto, mantenendo un collegamento con l'entità territoriale dalla
quale proviene. Bisogna coniugare l'efficienza delle istituzioni con partecipazione della
politica, non trasformare la Regione in un consiglio di amministrazione di una grande
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
azienda e non trasformare il presidente della Regione in un amministratore delegato
come qualcuno tende a voler fare, ha sostenuto di voler fare, a Roma, ma bisogna
continuare a mantenere questa forte incidenza della politica, del Consiglio regionale
sulla determinazione delle scelte che andrà a fare la Giunta.
Sulla dimensione dello Statuto, su cosa dovrà essere sono d'accordo con
Martellotti, nel senso che dovrà essere uno Statuto il più possibile aperto, sintetico,
essenziale. Dovrebbe essere un modello che dovrebbe disegnare una Regione che tenda
a valorizzare le esperienze passate e a superare quelle che non vanno bene, cioè a
superare il rapporto diretto della Regione con l'impresa, con il singolo cittadino, anche
con la stessa associazione. La Regione dovrebbe programmare, regolare, coordinare,
dettare indirizzi, svolgere attività di monitoraggio.
Per il resto, ritengo che è compito delle Commissioni del Consiglio, dell'organo di
rappresentanza politica proporre modelli, avanzare proposte politiche e quant'altro.
C'è poi un altro tipo di problema che riguarda il modello dei rapporti della
Regione verso il basso con cittadini e con enti locali. Un buon esempio, secondo il mio
parere, è stato dato per quanto riguarda la gestione della ricostruzione, un modello che,
pur non facendo venir meno la capacità direttiva della Regione, ha responsabilizzato a
livello locale, ha coinvolto associazioni, i cittadini stessi ed ha portato ad una
definizione di rapporti dove il massimo decentramento ha coinciso con il massimo delle
responsabilità e con il massimo del coordinamento da parte della Regione. Ritengo che
dovrebbe essere un modello da tener presente anche per altre questioni non
emergenziali e più generali.
Un'altra riflessione riguarda la rappresentanza e come si è estesa questa
rappresentanza. Una rappresentanza istituzionale, quella dei Comuni, che secondo il
nostro parere dovrebbe andare verso dimensioni intermedie: Comunità montane,
aggregazioni di Comuni ecc. Mentre, per quanto riguarda la rappresentanza delle
associazioni di categoria, ritengo che il modello del Ces sia da non buttare, un modello
che, valorizzando lo strumento della concertazione, da approfondire, affinare e
determinare, potrebbe far compiere un vero e proprio salto statutario, nel senso di
prevedere che un soggetto del genere, che non elimina le contrapposizioni o gli scontri
— perché con il federalismo fiscale ci saranno sempre scontri anche fra noi, fra singole
associazioni — dovrebbe diventare una sorta di Cnel, un organo che consenta alla forze
sociali ed economiche di conoscere gli atti in formazione, organo tenuto ad esprimere
pareri, che non necessariamente debbano essere soltanto consultivi, quindi una sorta di
organismo parallelo, collaterale ai lavori degli organismi regionali, di sostegno e di
supporto, per consentire progetti più alti, evitando frammentazioni ai livelli più bassi
che creano difficoltà di gestione.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
Infine la questione istituzionale, che non è meno importante di quella sociale. La
questione sociale serve a garantire a tutti un decente livello di vita e consente di
garantire un tessuto sociale ed economico che ha fatto delle Marche una regione
d'avanguardia; la questione istituzionale serve a dare corpo a questi progetti, nel senso
che significa che bisogna ricercare la collaborazione, sia a livello interno della Regione
con gli altri enti locali, sia a livello sovraregionale per quanto riguarda i rapporti con lo
Stato e l'Unione europea, ponendo le Marche in rapporti di forza nei confronti di
decisioni sovraregionali, sovranazionali che, altrimenti, tenderebbero, come è successo
in un passato lontano, a penalizzarci.
Auspico che in questo processo di autonomia e di federalismo rimanga fermo un
principio che a noi sta molto a cuore: quello dell'autonomia finanziaria e dell'invarianza
della pressione fiscale, una cosa che i nostri associati temono molto, perché temono che
all'imposizione fiscale nazionale si sommi quella regionale. Visto che l'autonomia
finanziaria è imposta, questo dovrebbe essere uno dei principi base, mantenendo nel
territorio una parte di quanto entra con il fisco, costituendo un modello di società e di
Regione che tenda a non spendere più di quanto incassa e a mantenere in equilibrio i
costi.
Non aggiungo altro se non, come consuetudine della Cna in riunioni di questo
tipo, lasciare un documento scritto, ringraziando per questa iniziativa che va nel senso
da noi auspicato di una partecipazione delle associazioni di rappresentanza non solo ai
processi che riguardano l'economia, che riguardano i nostri problemi, ma ai processi più
generali di costruzione della società marchigiana.
SILVANA AMATI, Presidente Commissione straordinaria per lo Statuto della
Regione Marche. Intervengo più che altro per un dovere istituzionale rispetto
all'incontro di oggi, per dare un contributo.
Questa mattina abbiamo discusso, su invito del presidente Minardi, insieme con il
prof. De Rita, in quanto consiglieri regionali e anche in riferimento alle questioni
proprie della Commissione Statuto, partendo dalle cose che anche qui sono state
ribadite. Credo che sia utile, in questo momento di confronto proposto dalla presidenza
del Consiglio con le categorie sulla base di quel documento che si firmò qualche anno fa
di collaborazione tra il Consiglio e le forze sociali, una riflessione da parte nostra. Io e il
collega Favia rappresentiamo la Commissione Statuto, quindi siamo quelli che poi
scriveranno, insieme agli altri colleghi, dal punto di vista sostanziale, la Carta di cui
stiamo parlando, quindi è bene che ci sia anche un'espressione diretta di quelle che sono
le questioni più importanti. E' stato infatti ripetuto dal prof. De Rita quali sono le cause
— che peraltro alcuni di voi hanno riconosciuto veritiere — del ritardo attuale. Il ritardo
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
sta non in una scelta di non diretta partecipazione in quest'anno ma nella
consapevolezza dei problemi che venivano citati. Non abbiamo avuto, per cinque anni,
un punto fisso costituzionale, ci sono stati ritardi nazionali fortissimi, abbiamo avuto
semi-riforme che hanno portato problemi: penso all'elezione diretta dei Presidenti delle
Giunte che ha realizzato una modifica sostanziale nelle elezioni dell'anno scorso, senza
che ci fossero altrettanto equilibrati metodi di compensazione per verificare come
contrapporci o come compensare i problemi che si aprivano.
La fase transitoria che tutti ricordano rispetto a questa norma, è una fase
transitoria che molti considerano pleonastica, nel senso che viene dato oggettivamente
per scontato che comunque le Regioni italiane riproporranno l'elezione diretta, cosa che
forse meriterebbe una riflessione più vasta, che noi nelle Marche vorremmo riproporre,
tanto più quando i sistemi elettorali mostrano ogni giorno problemi rispetto alla
democrazia del Paese. Quindi una riflessione è tanto più opportuna. Quest'anno ci è
quindi servito per fare l'approfondimento, per capire che cosa succedeva del Titolo V
della Costituzione, se il Parlamento riusciva o no a produrre un atto fondamentale come
quello che voleva dire comunque una rivoluzione copernicana e che ancora non è
definito. Inoltre, perché si potesse a bocce ferme, dopo le elezioni, con una serenità
politica più vasta, con una collaborazione complessiva di maggioranza e minoranza,
valutare la questione dei sistemi elettorali e quindi del valore della democrazia. Si parla
sempre del valore della decisione, e parlando con operatori tanto più sappiamo che
esiste un valore della decisione in quanto rapidità della stessa, ma non può essere l'unico
valore, perché ci deve essere anche un tempo della democrazia che ci sta a cuore in
quanto fa parte della storia del nostro Paese.
Queste sono le motivazioni sostanziali che ci hanno fatto riflettere con
approfondimento, con forum insieme agli enti locali, sulla necessità di arrivare fino ad
oggi, e adesso pensiamo di entrare, fin dai primi di giugno, nel merito, di cominciare a
stendere una prima Carta, probabilmente d'intenti, in modo da poter arrivare, in tempi
ragionevolmente civili, a una conclusione che porti comunque le Marche ad avere il suo
nuovo Statuto, partendo da un'analisi forte sulla questione del sistema di governo,
quindi sulla questione dell'elezione diretta.
Un altro punto che voi trovate nei documenti sia di De Rita che di Cassese,
riguarda la questione inerente ai principi. Ho avuto la sensazione, leggendo quei
documenti e dalle parole del prof. De Rita, che ci sia una sottovalutazione
dell'importanza che nelle regioni si ripetano i principi fondamentali. Questo non vuol
dire "l'elenco della spesa" dei diritti, che potrebbe essere cosa pleonastica, ma sta a
indicare la necessità che ci sia una presa di coscienza dei principi fondamentali che ogni
Regione ritiene comunque di dover mantenere. E siccome in alcune istanze, anche
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
assembleari, di associazioni, questo problema della necessità di segnare i diritti come un
punto importante della qualità del governo e dell'istanza regionale che comunque si
gestisce è stato segnalato come un valore, io qui lo ripropongo. Riteniamo che sia una
semplificazione, sulla questione dei diritti e dei principi fondamentali dire "basta quello
che è scritto nelle altre Carte, non lo ripetiamo". In fondo è una visione centralistica.
Noi riteniamo che in ogni regione, partendo dalla Carta costituzionale e dalle altre Carte
— ad esempio quella europea — vadano riprese le questioni inerenti i diritti, perché le
regioni potranno essere anche diverse tra loro a seconda di quale concezione dei diritti e
della qualità della vita intenderanno esprimere. Su questo, anche questa mattina
abbiamo espresso questo tipo di diversificazione rispetto alla semplificazione che
ponevano sia De Rita che Cassese.
Rispetto alle questioni che più vi riguardano, valuteremo insieme nei mesi
prossimi che tipo di contatto esercitare tra la Commissione e le associazioni in modo da
poter lavorare insieme positivamente, però sulla questione-Cnel o Cner vi sono
questioni, anche singole, positive, quindi valutiamo quale sia il meccanismo più utile,
con la consapevo lezza che sarà fondamentale che non prevalga la cultura della
organizzazione degli enti locali. Esiste: perché non citare questa questione che sta nel
campo della discussione? Mentre si è sempre parlato della Camera delle autonomie,
raramente si è pensato a una istituzionalizzazione — anzi, oggi di nuovo De Rita non la
proponeva — di un momento di raccordo con le associazioni. Da questo punto di vista
studiamo insieme, proponeteci in che modo approfondire questo argomento. Sarà
opportuno farlo nei prossimi mesi, perché io penso che in quest'anno saremo in grado,
se non di produrre uno Statuto completo, di andare molto avanti in un lavoro che da
oggi in poi, dopo la fase elettorale che, ripeto, non era secondaria rispetto alle cose che
ho raccontato, abbiamo come Commissione di mettere a frutto.
LUIGI MINARDI. Ringrazio tutti per l'impegno, per essere intervenuti. Vorrei che
questo nostro incontro non fosse considerato una sorta di soddisfazione data alle
associazioni per un impegno preso al Forum di fare una giornata dedicata a una
discussione con loro sui temi dello Statuto. E' anche questo ma non solo, è l'avvio di
una fase di collaborazione, di ascolto che nel tempo si intensificherà, perché si
intensificherà il lavoro di elaborazione dello Statuto. Credo che sia importante che
questo avvenga in una fase in cui diverse associazioni stanno iniziando il loro lavoro
congressuale: domani la Cisl, a cui auguro buon lavoro, ma è in vista anche l'avvio della
stagione congressuale di altre associazioni. Il fatto che noi stiamo discutendo delle
caratteristiche della nostra regione, il modello di funzionamento, come lo vogliamo
rappresentare, qual è la vocazione della nostra regione, può essere, tutto questo, anche
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
tematica che attraversa il dibattito delle associazioni e anche da lì può venire un
contributo alla elaborazione che come Consiglio, Commissione, con una fase di ascolto
e di dialogo più prolungata cercheremo di fare.
Si tratta di una stagione interessante? Questa mattina ho colto anche una sorta di
dubbio sul fatto che questa stagione statutaria o costituente sia vissuta non con la giusta
passione, con la consapevolezza dell'importanza che la fase statutaria ha. Da un verso
anch'io sento una limitazione dell'impegno politico attorno a un tema di così grande
importanza. Spesse volte mi dico che forse non riusciamo a trasmettere la
consapevolezza che stiamo costruendo una Regione completamente nuova, che non
dobbiamo, probabilmente, emendare in alcuni suoi comportamenti o in alcuni suoi
organi, così come trent'anni fa costruirono i costituenti di allora, ma non riusciamo ad
avere la stessa tensione politica — probabilmente questo è frutto del tempo — perché
l'impegno politico, l'elaborazione politica, la lettura critica della società non mi pare che
sia comparabile con quella stagione. Scontiamo quindi l'assenza, la mancanza di
contributo di alcuni soggetti anche esterni alle istituzioni, che hanno questa vocazione
prioritaria e lo scontiamo come sintomo della loro difficoltà, della loro crisi di
rapportarsi ai processi reali che stanno avvenendo nella società.
Devo anche dire che ho un elemento ulteriore di perplessità, nel senso che se la
Regione sta diventando uno snodo come mai è stata tra i vari livelli istituzionali —
perché sta diventando un interlocutore assolutamente primario, sia nei confronti dello
Stato centrale sia nei confronti dell'Unione europea, come snodo anche con i livelli subregionali e quindi si sta caricando di nuove funzioni — non so se questo processo
sapremo gestirlo adeguatamente oppure se, tutto sommato, la stagione non possa
produrre una Regione che vede trasferite a sé una serie di funzioni ma non concepisce le
trasformazioni interne che deve produrre per poter gestire queste nuove funzioni, e
quindi non credo che il processo possa essere scontato, automatico, che andrà
sicuramente a buon fine. Fra gli scenari possibili ci può essere anche quello — mi
auguro che sapremo evitarlo — che questa stagione di trasferimento alla Regione di una
infinità di competenze nuove, possa portare anc he a un fallimento di questa esperienza.
Questo in giro si comincia a percepire, anche in considerazione del fatto che la gestione
di questa nuova fase viene lasciata un po' alla casualità, manca un quadro di riferimento
nazionale e questo quadro di riferimento nazionale è assolutamente necessario, come è
assolutamente necessario che rimanga tutta in piedi la necessità che le forze politiche
principali nazionali sottoscrivano un patto, anche in questa legislatura, finalizzato alle
riforme istituzionali, dal momento che le regole debbono essere scritte con un accordo
che riguardi tutti, indipendentemente dalla collocazione di Governo, maggioranza e
minoranza.
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
E' stato così negli altri Paesi, deve essere così anche da noi, ma ovviamente il
confronto politico ancora è da stabilire di che temperatura sarà e anche questo influirà
sul modo con il quale gestiremo questa fase completamente nuova per la nostra
Regione.
Credo quindi che il periodo autunnale sarà un periodo decisivo, al di là di tutte le
altre scadenze, perché il passaggio referendario segnerà, intanto, un momento
irreversibile sulla questione della riforma del Titolo V della Costituzione, fissando quali
sono le reciproche competenze, ma segnerà anche il modo con il quale le forze politiche
approcceranno questo tema e quindi non sarà per niente scontato quel passaggio,
tutt'altro.
Questioni che abbiamo di fronte. Questa sera, con il dott. De Rita abbiamo
affrontato la questione dell'evoluzione della nostra struttura economica, quindi della
composizione sociale e del modo di funzionare dei soggetti sociali organizzati. E'
questo il motivo per il quale il cambiamento della nostra società, della nostra struttura
economica, quindi i cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi trent'anni hanno
determinato la necessità di riscrivere lo Statuto. Riscriviamo lo Statuto non per
adeguarlo alla nostra modellistica, ma perché il cambiamento della società è stato tale e
tanto per cui abbiamo bisogno di rimettere a posto i vestiti, ci stanno stretti, la società è
cambiata tumultuosamente, quel vestito istituzionale non è più nella condizione di
contenerlo e di rappresentarlo. Questo è passato anche attraverso una crisi, la crisi degli
anni '80-'90 e una progressiva riforma del sistema politico. Un pezzo del percorso è
stato già fatto, perché i poteri locali sono stati riformati e la riforma delle istituzioni in
Italia procede dalla periferia, sperimentando dalla riforma dei poteri locali. Questa
riforma ha prodotto alcuni risultati concreti, la stabilizzazione della vita delle istituzioni:
non c'è, oggi, una continua crisi dei vertici istituzionali così come c'era negli anni '80 in
particolare, quindi credibilità maggiore delle istituzioni, possibilità di lavorare sul
medio periodo, cosa che non esisteva alla fine degli anni '80, quando il sistema politico
era in crisi e trasferiva la sua crisi all'interno delle istituzioni.
Credo che le due linee di fondo con le quali è stata portata avanti la riforma
istituzionale del nostro Paese, siano quelle di migliorare la qualità della decisione —
perché l'instabilità istituzionale era legata alla indecisione — e quella di migliorare il
rapporto tra istituzioni e cittadini.
La questione di migliorare la qualità della decisione è stata affrontata in due modi.
Anzitutto cercando di stabilizzare le istituzioni e di eleggere direttamente i vertici
istituzionali: sindaco, presidente di Provincia, presidente di Giunta regionale. E' chiaro
che questo è stato anche un modo di intervenire sulla qualità della decisione, ma è stato
un modo, se vogliamo, un po' semplificato di concepire la decisione come momento a sé
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
rispetto a un'azione di governo, nel senso che la crisi che aveva il sistema politico è
stata interpretata come necessaria depurazione dell'intervento dei partiti dentro il livello
istituzionale, direttamente sul livello istituzionale, per cui l'elezione diretta del
presidente della Giunta, del presidente della Provincia e dei sindaci li ha resi così
autorevoli da diventare un momento alto di decisione, ma alla base c'è un concetto della
decisione che tutto sommato fa a meno dell'ascolto e della consultazione, perché
l'ascolto e la consultazione, nel sistema istituzionale precedente, così come funzionava,
erano un ascolto e una consultazione prevalentemente svolti dal sistema dei partiti, il
quale sistema, con il sistema delle associazioni collegate, riusciva ad interpretare i
bisogni della società, a dare una forma a questi bisogni, a intervenire nella sede
istituzionale anche attraverso il momento assembleare e determinare la decisione. La
riforma che fin qui è stata fatta è stata parziale, e dico parziale perché stiamo andando
nella direzione di aggiungere un altro tassello, una riforma che deve riguardare la
necessità di migliorare ulteriormente la decisione, non per rispondere a un principio
assemblearistico per cui in questo momento non c'è più l'ascolto e noi dobbiamo
assolutamente far sì che si individuino in soggetti dell'ascolto: quell'ascolto è funzionale
a migliorare la qualità della decisione. Quindi siamo di fronte a un passaggio che non
significa inventare o trovare strumenti con i quali si cerca di mettere il becco su
competenze altrui, di sovrapporre le competenze di soggetti diversi, in modo che alla
fine si ritorni ad un indistinto di responsabilità, ma andiamo invece nella direzione di
distinguerle ulteriormente, le responsabilità, di dividere il processo decisionale, il
processo del governo assegnando funzioni di ascolto a soggetti che poi non hanno la
responsabilità della decisione. Il tema è che noi dobbiamo stabilire come si consulta e
chi consulta. Anche in questo incontro è stato detto che il modo con il quale avviene la
consultazione dei soggetti sociali, con le audizioni nelle Commissioni, è un modo del
tutto insoddisfacente, un modo che deve essere assolutamente ripensato, e in particolare
va ripensata la collocazione temporale della consultazione. Anche questa è una costante
di tutti gli incontri che facciamo, nel senso che un conto è consultare a posteriori di una
decisione già maturata, il che significa acquisire consenso a una decisione, un conto è
consultare nella fase preliminare, il che significa contribuire ad una decisione.
Quando discutiamo di come la struttura e l'ente Regione si rapportano ai soggetti
che sono presenti nella società, stabiliamo anc he che c'è una nuova funzione da dare
all'organo della rappresentanza, che è il Consiglio, inevitabilmente, il quale è vero che
viene svuotato di tutte le funzioni che aveva precedentemente, perché la funzioneprincipe del Consiglio, precedentemente, era quella di essere l'arena nella quale una
composizione che era avvenuta altrove veniva sancita, una mediazione che era avvenuta
altrove veniva sancita, ed era anche il mezzo con il quale la catena di comando, che
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
stava da un'altra parte, controllava l'esecutivo. Questa funzione prevalente
dell'assemblea non c'è più, perché il rapporto non è più mediato con il sistema dei partiti
esterno e con l'elettorato, c'è un rapporto diretto con l'elettorato da parte del presidente
della Giunta. E' bene che il presidente della Giunta e l'esecutivo siano gli elementi che
decidono anche separatamente, ma dopo che ci sia stata una distinzione netta tra i
momento della decisione e il momento dell'ascolto.
Nell'ultimo Forum il prof. Cassese ci ha portato l'esempio francese per dimostrare
che, nonostante la complessità del sistema di alta velocità e nonostante la complessità
della procedura francese che presuppone una consultazione separata, fatta addirittura da
un organismo terzo, in Francia il sistema dell'alta velocità l'hanno fatto, da noi che non
c'è questa distinzione tra consultazione e decisione il sistema dell'alta velocità ancora
non è stato fatto, e siamo partiti insieme. Come a dire che la consultazione non è un
momento d'intralcio, che serve a rendere opaca l'azione del decisore, tutt'altro. Il
decisore, separato dalla consultazione può decidere in modo anche del tutto autonomo,
ma dopo avere ascoltato attraverso un organo che è deputato alla consultazione.
Come Consiglio abbiamo intenzione di svolgere questa funzione, ma andrà
codificato. Così come credo che, come Consiglio, dovremmo sviluppare alcune funzioni
che sono intuite e già scritte nello Statuto e nel regolamento interno, che riguardano il
monitoraggio. Credo che sia più importante il monitoraggio del controllo, perché non
interessa il controllo puntuale sugli atti, interessa il monitoraggio delle leggi
fondamentali, anche di programmazione, delle leggi quadro, per capire se quelle leggi
hanno prodotto dei risultati adeguati agli obiettivi che erano stati fissati, se sono stati
raggiunti gli obiettivi, se la fattibilità di quelle leggi è buona, se funzionano, se si riesce
a spendere la dotazione finanziaria che si ha. E l'azione del monitoraggio è chiaro che
non è disgiunta da un'azione propositiva, perché il monitoraggio si concluderà con un
giudizio su una legge o su un sistema di leggi e quel giudizio su una legge o su un
sistema di leggi può essere, praticamente, una sorta di indirizzo per un intervento
successivo. Anche perché la decisione, in un sistema complesso, credo che debba avere
queste caratteristiche: deve essere tempestiva, ma spesse volte anche parziale e spesse
volte anche progressiva, nel senso che si reinterviene successivamente su una decisione,
perché ogni decisione sposta gli equilibri complessivi, cambia il quadro e quindi può
essere cambiata la stessa decisione. Pertanto richiede una maggiore duttilità e
flessibilità.
Altra questione credo che sia quella del miglioramento del rapporto con i cittadini.
Penso che non dovremmo assumere un atteggiamento ideologico. E' stata usata una
formula che penso sia corretta, nel senso che più decentriamo, più arriviamo vicini ai
cittadini, più è trasparente la funzione pubblica, più è facile che i cittadini controllino,
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
utilizzino l'impiego delle proprie risorse, più è facile alimentare la partecipazione, il
legame tra i cittadini e le istituzioni.
Se affrontiamo ideologicamente questa questione, possiamo correre il rischio che
vi ho detto all'inizio. Il decentramento non può essere una questione trattata
ideologicamente ala pari, tutta uguale, e in particolare, rispetto a tutto quello che deve
essere decentrato, dobbiamo essere molto attenti sul soggetto che riceve le nuove
funzioni, perché come non è scontato che le nuove funzioni che vengono trasferite dal
livello centrale alla Regione la Regione stessa le saprà gestire, con funzioni proprie e
nuove, sciogliendo quell'ibrido che oggi è un po' Comune e un po' Assemblea
legislativa, diventando Parlamento, il decentramento dalla regione verso i Comuni, in
particolare i piccolissimi Comuni della nostra regione, non è detto che possa portare a
un modo più semplice di decidere. Quindi occorre guardare con attenzione sistema per
sistema, funzione per funzione quello che è giusto e possibile decentrare, perché non
dobbiamo nel modo più assoluto ottemperare a un modello ideologico, ma dare una
risposta del decidere meglio e del migliorare il rapporto con le istituzioni e i cittadini.
Credo che dentro questo nostro lavoro e in particolare dentro il processo
decisionale, come Consiglio — che è organo di rappresentanza — e come associazioni
di interessi organizzati siamo dentro la stessa discussione di come il momento della
rappresentanza si colloca nella filiera della decisione e di come codifichiamo questo
nuovo rapporto in forme diverse dal passato, per esempio sciogliendo anche la
questione dell'importanza dell'audizione, quando si fa l'audizione, che cosa fa
l'audizione e anche come questo sistema nelle nuove funzioni del Consiglio viene
attivato.
Credo che questi primi ragionamenti tra di noi siano importanti per innescare una
discussione, per attivarla, non certo per concluderla. Mi auguro che le vostre
associazioni al loro interno, in particolare quelle che attraversano una fase importante
come quella congressuale, possano elaborare contributi utili alla nostra discussione, utili
a produrre uno Statuto che riesca ad interpretare meglio la società marchigiana, la sua
vocazione e quindi costruire meglio, insieme, il futuro di questa società marchigiana,
comprendendo che stiamo tutti dentro la riscrittura di un nuovo patto tra i cittadini e le
istituzioni. Per quello che ci riguarda, da un punto di vista di cultura politica noi
crediamo che il rapporto tra le istituzioni e i cittadini non possa scavalcare gli organi
intermedi della rappresentanza e non possa non valorizzare il ruolo dell'assemblea
elettiva, perché la mediazione tra i cittadini e il momento della decisione è un momento
di arricchimento della decisione stessa, di armonizzazione degli interessi, di copertura
del momento decisionale, in modo da favorire una decisione la più ponderata, la più
moderata, che non esponga l'Esecutivo a un rapporto diretto con i gruppi sociali
"Stato dei lavori del nuovo Statuto regionale"
(16 maggio 2001)
organizzati, il che creerebbe, tutto sommato, una sovraesposizione dell'Esecutivo e una
sua paralisi.
Tutto quello che è stato il tentativo di rimozione del momento di partecipazione,
nell'idea che semplificando il momento decisionale si rafforza la decisione, in questa
fase deve essere ricalibrato dal punto di vista politico-culturale, per far sì che quanto
acquisito — questo è un mio punto di vista — del momento decisionale, anche con
l'elezione diretta, anche con l'investitura dell'Esecutivo non sia retrocesso, mentre
invece credo che debba essere assolutamente rafforzata la funzione dell'organo di
rappresentanza, insieme a quella dei soggetti della rappresentanza stessa. Poi
discuteremo chi rappresenta chi e cosa, però intanto bisogna che noi recuperiamo del
terreno in questa direzione, consapevoli che le riforme fin qui fatte hanno avuto una loro
importanza, hanno ridato dignità alle istituzioni, stabilità, fiducia tra istituzioni e
cittadini, ma c'è da fare un passo ulteriore nella direzione di migliorare ulteriormente la
decisione e di migliorare ulteriormente il rapporto tra cittadini ed istituzioni. La
rappresentanza deve riprendere la sua funzione e con essa, ovviamente, la politica
riprenderà la sua funzione. Credo che questo sia il tema che abbiamo di fronte. Vi
ringrazio.
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Mercoledì 16 maggio 2001 (mattino) LUIGI MINARDI