DepliantGiovani-4ante:Depliant Giovani 4 ante
L’opera in breve
2-12-2015
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Il soggetto
Emilio Sala
Cartellone del Teatro alla Scala per la stagione
di Carnevale-Quaresima 1857-58;
il primo spettacolo in programma è
«Giovanna d’Arco del Maestro Cav. Verdi».
Nei mesi che precedettero la prima rappresentazione della
Giovanna d’Arco (Teatro alla Scala, 15 febbraio 1845) crebbero a Milano le aspettative per la nuova opera di Verdi. Dopo
lo straordinario successo del Nabucco (1842) e dei Lombardi
(1843), il compositore cercò infatti di allargare la sua sfera
d’azione scrivendo per altre piazze (Venezia, Roma, Napoli).
La Giovanna d’Arco segna dunque un primo ritorno di Verdi
al teatro che l’aveva lanciato: il Teatro alla Scala. Da qui l’auspicio quasi obbligato di Emanuele Muzio, allievo e segretario
di Verdi, il quale scrisse ad Antonio Barezzi in data 9 dicembre
1844: “Nessuna Giovanna ha mai avuto musica più filosofica
e più bella”. Poche settimane dopo (il 12 gennaio 1845) Muzio ribadì allo stesso destinatario che quello di Verdi è un
“operone che sbalordirà tutti i Milanesi”. In realtà le cose andarono alquanto diversamente, e il relativo insuccesso dell’opera contribuì non poco a guastare i rapporti tra Verdi e
Milano. Eppure il compositore ebbe parole di sincero apprezzamento per il libretto di Temistocle Solera, che dà un notevole spazio all’aspetto sovrannaturale del dramma, ovvero a
un aspetto che suscitò parecchie perplessità in sede ricettiva.
Ancor oggi il coro demoniaco del Prologo (“un valzer graziosissimo” e di carattere popolare, lo definisce Muzio) viene
spesso considerato, nonostante il suo evidente ascendente
meyerbeeriano (Julian Budden ha scritto giustamente che
“sulla Giovanna d’Arco aleggia l’ombra di Robert le Diable”),
come un esempio di “volgarità” nazional-popolare tipica del
giovane Verdi.
(…)
La drammaturgia musicale di Verdi è un
fenomeno europeo e come tale andrebbe letto. Il mélodrame francese
sdoganato da Hugo, il grand-opéra, Schiller, Byron, il romanticismo
spagnolo, Shakespeare: l’orizzonte culturale di Verdi è amplissimo.
Come ha sottolineato Gabriele
Scaramuzza, il 1853 “vide insieme la pubblicazione dell’Estetica
Ritratto di Temistocle Solera.
A destra: Giuseppe Bertoja,
“Una foresta”, per Giovanna d’Arco
di Verdi a Venezia, Teatro La Fenice,
dicembre 1845, Atto I, quadro II.
del brutto di Rosenkranz e le prime del Trovatore a Roma e della Traviata a Venezia”. Verdi
si dimostra partecipe di quel progetto di emancipazione del “brutto” dalla sua negatività che
era in atto nella cultura europea del suo tempo. In questo quadro, alcune opere “brutte”
del Verdi giovane (Giovanna d’Arco, Alzira, Attila, I masnadieri, Il corsaro e La battaglia di Legnano, secondo Mila) sembrano, ed è proprio
questo il punto, voler usare il “brutto”. Così,
anche a livello musicale, quante volte abbiamo
provato un certo imbarazzo di fronte a gesti
musicali apparentemente rozzi, ma che poi si
sono rivelati né più né meno che perfetti per il
raggiungimento dell’effetto drammatico! Questo è avvenuto,
tra l’altro, con la marcetta in 6/8 che accompagna l’entrata di
re Duncano nel Macbeth. Giudicato a lungo un brano “brutto”, volgare e bandistico, è stato ora compreso per quello
che è: ironico e straniante. Fabrizio Della Seta ne ha fatta
un’analisi da questo punto di vista esemplare. Credo che lo
stesso potrà avvenire presto con lo “sciocco valzerino” (così
Mila) in 3/8 che accompagna il coro demoniaco nel Primo atto della Giovanna d’Arco. D’altronde, già il critico della rivista
milanese “Il Pirata”, Francesco Regli, espresse alcune considerazioni in proposito che mi sembra interessante riportare qui.
Rispondendo a chi “avrebbe desiderato un vero suono infernale nel Coro di Spiriti malvagi: Che? […] esclaman costoro
[…] Un coro di demoni in tempo di voluttuoso valzer?”, egli
disse che se Verdi aveva introdotto quel contrasto c’era un
suo perché. Il compositore era ricorso infatti alla tinta infernale nel coro demoniaco della fine del secondo Atto (“Vittoria,
vittoria!”), con l’effetto sulfureo della quarta eccedente inserita nella melodia, ma nel coro-valzer dell'Atto primo la situazione drammatica è completamente diversa: “Qui sono gli
angeli decaduti che abbelliscon la colpa per sedurre la fragile
creatura, qui rappresentano il molle serpente che dice parole
di mele a Eva nella Genesi, il Lucifero che innamora del male
Caino nel Byron, il peccato tutto fragrante di fiori nel Milton”
(recensione del 18 febbraio 1845). Che lo “sciocco valzerino”
non sia poi così sciocco?
Atto I
Il popolo francese, in preda alla disperazione, maledice gli invasori inglesi. La città di Orléans sta per cadere. Il re Carlo VII
annuncia che intende deporre le armi. In sogno, una voce gli
dice di lasciare elmo e spada ai piedi di un’immagine della Vergine Maria, in mezzo a una foresta. Il popolo lo avverte che
quel luogo è infestato da demoni, ma il re, per il quale portare
la corona è un martirio, decide di recarvisi. Giacomo, il padre
di Giovanna, spia la figlia, sospettandola di aver concesso la
sua anima alle forze del Male. Come fa tutti i giorni, Giovanna
domanda alla Madonna di procurarle elmo e spada, perché
possa combattere per la Francia. Ed ecco che Carlo depone le
proprie armi ai piedi della Vergine. Divisa tra la sua missione di
liberatrice e l’attrazione che prova per il re, Giovanna “ode” i
demoni che la spingono al piacere e gli angeli che le ricordano
il suo divino compito. La fanciulla indossa le armi di Carlo, e,
piena di entusiasmo guerresco, esorta il re al combattimento,
mentre il padre deplora la sua condotta.
Atto II
Gli inglesi sono stati sconfitti da Giovanna, che ha condotto
l’esercito francese alla vittoria. Giacomo, convinto che Giovanna sia una strega, promette agli inglesi che consegnerà loro la
figlia. Con l’intenzione di metterla al rogo, essi partono nuovamente per la battaglia.
Dopo la vittoria, Giovanna non ha più alcun motivo di restare
presso il re, se non l’amore che prova per lui. Poiché gli angeli
le hanno vietato i piaceri terreni, essa decide di lasciare la corte
per ridiventare la fanciulla che era; ma Carlo è innamorato di
lei e glielo dichiara. Nonostante le proprie resistenze, anche
Giovanna ammette di amarlo. I demoni cantano vittoria e Giovanna, sentendosi maledetta, grida la propria disperazione.
Atto III
La folla si accalca per assistere alla cerimonia dell’incoronazione. Mentre una marcia trionfale accompagna il passaggio del
corteo regale, Giacomo manifesta la sua intenzione di denunciare Giovanna davanti a tutti. Dalla cattedrale risuona un inno
che annuncia la fine della cerimonia. Il re cerca di calmare
l’agitazione di Giovanna e invita la folla a rendere omaggio alla giovane redentrice della Francia. A questo punto Giacomo
scaglia la sua terribile accusa: Giovanna è empia e impura.
Nella perplessità generale, Carlo invita Giacomo a fornire le
Immaginario eroico ed estasi isterica
(Dall’intervista ai registi Moshe Leiser e Patrice Caurier)
In questa pagina e nelle successive, alcuni bozzetti di Christian
Fenouillat e alcuni figurini di Agostino Cavalca realizzati
per l’allestimento firmato da Moshe Leiser e Patrice Caurier.
Teatro alla Scala, dicembre 2015.
prove di quanto afferma. Per tre volte, allora, il padre invita la
figlia a respingere, se può, tale accusa: è essa pura? Giovanna
tace e il suo silenzio è preso per un’ammissione di colpa.
Atto IV
Giovanna, che è stata consegnata agli inglesi, ode il fragore
della battaglia che si svolge al di fuori e supplica Iddio di permetterle di accorrere un’ultima volta in aiuto dei francesi. Giacomo ascolta non visto la preghiera di Giovanna e comprende
di averla accusata a torto. Il padre si riconcilia con la figlia, che
sogna la battaglia. È il padre a raccontarla: Carlo ne esce vittorioso grazie a Giovanna, ma ben presto giunge la notizia della
morte dell’eroina, accompagnata dalle note di una marcia funebre. Giovanna immagina allora che il cielo si apra e che la
Vergine l’attenda.
(Traduzione dal francese di Arianna Ghilardotti)
(…)
Siamo nella mente di una persona che sogna di diventare
Giovanna d’Arco. Lo spettacolo è ambientato all’inizio del
XIX secolo, perché pensavo fosse interessante partire
dall’epoca della creazione dell’opera, in un Ottocento relativamente semplice, si vede una camera con un letto... Ci
sono comunque anche delle armature, perché il suo delirio è medievale, è la voglia di essere Giovanna d’Arco.
L’epoca è quella in cui il dott. Jean-Martin Charcot, un
neurologo francese, inizia i suoi studi sull’isteria all’ospedale della Salpetrière a Parigi; sono rimasto colpito dalle
foto delle pazienti di Charcot, sono immagini di donne
isteriche, con problemi mentali, ed è impressionante fino a
che punto rappresentino i diversi stati d’animo di Giovanna d’Arco. C’è una foto in cui la donna ritratta è proprio
in uno stato di estasi, di incontro con Dio. Bisogna ispirarsi
a questo, perché, anche se Verdi e Solera non lo fanno
consapevolmente, quello che viene elaborato qui è una
cosa che ha ossessionato Verdi nel corso dell’intera sua
produzione, ossia il rapporto padre/figlia, ben presente
anche nella Giovanna d’Arco. I due veri personaggi sono il
padre e la figlia, il re è accessorio, in un certo modo, benché molto importante; il nodo fondamentale è tra il padre
e la figlia, ed è inutile dire quanto questo sia importante
nell’opera di Verdi. Lavorando alle scene ci siamo detti che
dovevano essere più vicine a Strindberg che a una minia-
tura medievale, con la presenza di una padre e di una figlia; è un’opera intima, con soltanto tre solisti. Certo ci sono delle grandi scene, come quella in cui Giovanna dice
che è pronta a battersi e vede la sua camera trasformarsi
in un campo di battaglia e cavalli che arrivano attraverso
le pareti, frecce, sangue, morti, fuoco, e all’interno di questo sconvolgimento – tutto rinchiuso nella sua testa – essa
si rende conto di quello che sta facendo, ovvero un massacro; e poi quella in cui gli inglesi si lamentano con Talbot
e dicono di non avere più forza, di essere annientati davanti a quella donna sovrumana; e Giovanna stessa, dopo
quel momento, è coperta di sangue ed è questo che suo
padre condanna, per questo la vende agli inglesi, per fermare quella follia; così come oggi un padre potrebbe decidere di denunciare un figlio alle autorità, preferendo che
venga rinchiuso in prigione, piuttosto che debba perdere
la sua anima per l’eternità…
(…)
Tutti e tre i protagonisti hanno grandi problemi esistenziali.
Quello di Giovanna è sicuramente il personaggio più sviluppato perché è in scena dall’inizio alla fine, gli altri invece
non sono sempre presenti. I conflitti di Giovanna e quelli di
Giacomo sono molto violenti. La figura di Carlo VII non è
comunque quella di un re debole. Penso che all’inizio della
vicenda sia un re consapevole che non può più essere re
poiché ha perso la guerra. È un re disperato, ma non debole. Diventa poi un uomo innamorato di Giovanna, apportando così all’opera vitalità e positività. Giovanna si trova
così ad essere divisa tra il padre molto religioso e molto severo e Carlo che rappresenta invece il desiderio terreno.
(…)
Ci sono diversi cori: gli Inglesi e i Francesi, i demoni e gli
angeli… In tutta l’opera questa giovinetta sogna di essere
Giovanna d’Arco, ha questa meravigliosa idea di diventare
qualcosa di glorioso. Il coro in questa situazione la aiuta a
diventare Giovanna d’Arco, diventa protagonista a sua
volta più che semplice figura di contorno, aiutando Giovanna ad alimentare la sua fantasia di essere Giovanna
d’Arco. È di fatto un insieme di personaggi che prendono
parte alla vicenda.
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Giovanna e il giovane Verdi
(Dall’intervista a Riccardo Chailly)
Nel libretto di Temistocle Solera, la vicenda della vergine
guerriera ispirata da voci divine è stata utilizzata per un
intreccio diverso dalla storia, che è stata romanzata per
farne un melodramma italiano. A questo fine, il poeta si è
pure allontanato da Shakespeare e dalla fonte drammaturgica primaria della Jungfrau von Orléans di Friedrich
Schiller, da cui in parte deriva, che ha prosciugato per
creare qualcosa di diverso.
(…)
Giovanna d’Arco è un’opera soprattutto metafisica, irreale.
E questo allestimento metterà in luce tale aspetto. Giovanna è un personaggio sprofondato in una dimensione non
terrena. Non è pertanto opportuno riprendere l’iconografia
classica dell’eroina. Anche Solera non voleva il rogo in scena, ma una semplice fiamma che si agita. Però qui il rogo
ci sarà per nostra decisione, come c’era nell’allestimento di
Bologna con la regia di Werner Herzog.
(…)
L’aura della mitica eroina della Patria ha suggestionato ogni
arte. C’è in effetti da chiedersi come mai il tema di Giovanna D’Arco sia stato toccato così di frequente, per esempio
da almeno otto musicisti, per citare solo i più importanti. Oltre ai già nominati, Pacini, Liszt, Gianfrancesco Malipiero,
Gounod e naturalmente Čajkovskij, autore di una Pulzella
d’Orléans, rispetto alla quale l’opera di Verdi è d’abitudine
meno considerata. Ritengo ingiusta questa posizione critica
e vorrei poter ristabilire il valore dell’opera che rappresentiamo oggi nel Teatro in cui nacque, e nell’ambito di un’idea di
teatro che non vuole dimenticare il proprio passato.
(…)
Anche se non eseguita da molto tempo, si tratta di un titolo imprescindibile per la conoscenza dell’opera di Giuseppe
Verdi nel suo insieme, anche
rispetto ad altri lavori degli
anni giovanili. Giovanna
d’Arco è una miniera di modi
espressivi del suo stile futuro.
Anticipa Macbeth, Rigoletto,
Traviata, Don Carlo, Aida, per
le formule melodiche utilizzate, per l’ispirazione musicale. È un passaggio obbligato per una precisa visione del
catalogo di Verdi, di questa
meravigliosa costellazione di
figure umane, dotata di
un’evoluzione stilistica e psicologica unica nella storia del
teatro musicale.
(…)
La considerazione che ho di quest’opera non è legata a
una personale passione per le opere giovanili rispetto alle
altre. Anzi, per il mio gusto, se dovessi scegliere fra la trilogia popolare romantica Rigoletto-Trovatore-Traviata e i capolavori tardi Aida-Otello-Falstaff, la mia pur tormentata
predilezione andrebbe a questi ultimi. Ma la forza anticipatrice di Giovanna d’Arco mi ha sempre attratto, perché
contiene una moltitudine di elementi che ritroviamo in
opere più mature e conosciute. Al di là delle convenzioni,
che indubbiamente contiene, vi riconosciamo il genio di
Verdi nella sua entusiasmante manifestazione iniziale.
(…)
L’opera aveva avuto successo, pur con quei distinguo che
quasi sempre accompagnano ogni novità. Verdi non era
contento della qualità musicale dell’esecuzione del 1845,
né dell’allestimento scenico, non realizzato coi necessari
mezzi economici. In aggiunta c’è stata la scorrettezza dell’impresario Bartolomeo Merelli di trattare senza interpellarlo la cessione dello spartito all’editore Ricordi. Questi
sono probabilmente alcuni dei motivi dell’allontanamento
spontaneo e polemico di Verdi dalla Scala per un quarto
di secolo, prima del progressivo riavvicinamento al “suo”
Teatro, fino alla prima assoluta alla Scala di Otello. Giovanna d’Arco era nell’Ottocento un’opera eseguita più di
altre giovanili, e fu messa poi da parte con l’arrivo dei
successivi capolavori assoluti. Nel 1865, vent’anni dopo la
prima rappresentazione, quando aveva già composto Un
ballo in maschera e La forza del destino, spinse a interpretarla alla Scala Teresa Stolz, la voce straordinaria per la
quale scriverà la Messa da Requeim e Aida.
(…)
Il passato deve essere sempre un momento di riflessione.
Verdi non è nato con la precocità di Mozart o di Rossini.
Si è evoluto col tempo, con un approfondimento poetico e umanistico che si è offerto agli
ascoltatori progressivamente
perfezionato. Il suo percorso,
come quello di Puccini, è stato lungo e travagliato. Però,
al di là del patriottismo, la
sua è una grandezza artistica
che sconfina nell’etica. Anche per questo dobbiamo accostarci alla sua opera con
grande rispetto, osservare la
sua prospettiva evolutiva di
titolo in titolo e ammirare i
singoli progressi in cui ritroviamo le emozioni che ci portano verso la grandezza assoluta della maturità.
Giuseppe Verdi, 1867.
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