2016 numero 2 – Marzo Email: [email protected] Picciotti carissimi,vasamu li mani. a quella sospensione. Si sentì brancicato sopra il vestito: e non seppe mai se un momento prima o un momento dopo o nello stesso momento in cui lui cominciava a modellare il corpo di lei sopra il vestito, a brancicarla, a cercarla. Per l’intensità con cui le sue mani sentivano, ebbe in un lampo l’immagine di sé cieco: e che quel corpo limpidamente si disegnasse nella sua mente soltanto per i segni che il tatto ne trasmetteva. Lungamente si baciarono. Poi Candido sentì e vide, vide nella sua profonda e dolcissima cecità, se stesso e il mondo diventare una sfera di liquida iridescenza, di musica.” Ho dovuto aspettare che si formasse il mio, ormai autonomo e insindacabile, giudizio per ritrovare Sciascia, almeno cinque anni dopo quel consiglio. Finite le letture da antologia incrinate dalla divisione in sequenze dei brani, sorde a ogni sfumatura della voce degli autori. La voce: prima di tutto dovrebbero insegnarci a sentirla e a riconoscerla (o a non leggere proprio). Alle elementari; tantissimo alle medie, fino a intriderci di suoni sensati e giusta armonia; trionfalmente e ormai sfondando tutti gli orizzonti del piacere (nel “furore dell’esercizio”), al liceo. Perché vera lettura non c’è se non si arriva a individuare la voce che pre-scrive il libro (e lo rende, quindi, necessario), a riconoscere dalla sua assenza il testo da accantonare. “I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’è ditta dentro vo significando”: non è la sintesi della poetica dello stilnovismo, ma di ogni poetica. Sciascia, dunque. Il romanziere più perfetto, più clamorosamente pedagogico del Novecento. Quello che dovrebbe stare in cima a tutte le liste di libri da consigliare ai giovani. Per lo stile, certo, tagliente e insieme lirico; duro, grave, lapidario e insieme capace di finezza e meraviglia, di sorrisi quasi buddici. Ma soprattutto per l’indole, l’indocile sincerità, la grande passione del vero, la nostalgia di un operare sociale (politico) all’insegna dell’onestà più limpida e temeraria. Esercizi di ammirazione. Leonardo Sciascia sublime narratore della disperazione sociale Ricordo lo spaesamento della quarta ginnasio. La professoressa che consigliava libri, i classici da scuola. Li prendevi in mano e li trovavi di una noia impossibile. Nella lista c’era anche Leonardo Sciascia. Il giorno della civetta, non altro. Magari dopo Moravia. Magari dopo Simone de Beauvoir o cose peggiori e mal tradotte dell’Ottocento. Non lo prendevi neanche in mano, Sciascia, perché ti avevano già stroncato prima. E rischiavi di non leggere: “La luce dell’alba intrideva la campagna, pareva sorgere dal verde tenue dei seminati, dalle rocce e dagli alberi madidi: e impercettibilmente salire verso il cielo cieco.” O non leggere: “Ecco che un’infermiera, passandogli davanti, per uno sfaglio improvviso del treno Candido se la sentì aderire e pesare come se la parete alla quale lui si appoggiava fosse diventata pavimento. Istintivamente mosse le braccia a impedirle di cadere, a tenerla sopra di sé: e fu come se il treno fosse rimasto agganciato a quel brusco movimento, 1 Dalla prima all’ultima sua pagina, quello che Sciascia cerca è verità. Ed è perfino ridicolo pensarlo scrittore di ‘cose di mafia’. La mafia è occasione, per Sciascia, al massimo pretesto. Il crimine da condannare è la malvagità umana, che si contorce in ipocrisia, che si affila in invidia, che si organizza in risentimento, che si esalta nel negare e nel reprimere (o deprimere, che è lo stesso). Il capitano Bellodi si rompe la testa cercando di sciogliere il viluppo di interessi che la mafia siciliana amministra da decenni con serena consapevolezza, ma soffre soprattutto nel riconoscere in quale palude di ignavia sprofondino i suoi passi. I colleghi, contenti di campicchiare, dello stipendio che passa lo stato (quindi insofferenti di fronte a ogni dubbio che si levi contro quello stesso stato). La gente: gli attori che ingombrano il palcoscenico delle nostre vite, che ci sbarrano la via dell’orizzonte, che vorrebbero soffocarci, che si avventano su di noi, inevitabilmente, perché spesso ne dipendiamo, o dipendiamo da un loro tacito consenso anche per sopravvivere biologicamente. Il primo capriccio di un vicino di casa, o di un parente storto, può essere calunnia, denuncia, condanna, spoliazione, come sa bene Candido, il protagonista dell’omonimo libello sciasciano del ’77. In tutti i suoi scritti il cuore generoso di Sciascia sanguina di disperazione sociale (l’unico socialismo in cui crederà fino in fondo, in questo identico al Leopardi che parla di sé ne La ginestra). Si salvano, nel panorama, alcune eccezioni, e mai del tutto: il vecchio professor Roscio, oculista valente e capace di saggezze che arrivano alla concretezza dell’epigramma, di A ciascuno il suo, dice e non dice, alza per un istante il velo di Maya e poi preferisce approfittare anche di quello, al culmine di una vita in cui poco gli era mancato, e se lo appoggia sulle ginocchia. “Superficiale per profondità” direbbe Nietzsche, ma Laurana-Sciascia soffre di non poter avere alleata l’intelligenza del professor Roscio e un po’ della tragedia verrà anche da lì. Tragedia che, assolutizzando, è il terrore che si prova di fronte a un mondo ridotto a morta gora: estenuato dal tirare avanti minuto degli ignavi e dagli slanci abortiti delle intelligenze anche corrusche, ma non eroiche, che smuoiono nel tempo impoverendo l’umano con la loro diserzione (chi può dirsi vivo non sa tollerare la diserzione: non può, non vuole). E allora chi si salva, alla fine, per Sciascia? Solo l’eroe, come sapevano i Greci, “trafitto da un raggio di sole”. È di eroi, tra mille nobili pudori e sprezzature, che si occupa e occuperà sempre Sciascia (rispondendo alla fatalità dell’“ognuno riconosce i suoi”), fino a sigillarli tutti nel vice de Il cavaliere e la morte, così simile a sé sofferente. Perfino Aldo Moro è un eroe, di fronte ai traditori che ne permettono il macello, dopo avergli fatto corte intorno e aver dovuto a lui una catena di favori che li aveva alzati fino ai vertici della società. Eroe è il ‘monaco’, il solitario: appartato nella sua stanza di commissariato, dietro la sua cattedra di professore, nella sua prigione, o chissà dove, come Majorana. È ovvio, fisiologico, il distacco di Sciascia dal comunismo, l’aver abbondato di ghigni amari verso un’impostura così morbida e ben dissimulata, impossibile da reggere per l’intelligenza onesta. Tra i compagni che allontanano Candido dal partito e il capomafia de Il giorno della civetta, il criminale conclamato giganteggia. La disperazione, alla fine: dopo mille ironie, dopo innumerevoli sarcasmi. E’ l’amarezza sorda, straziante di chi voleva disinnescare la malvagità sociale e sente di non esserci riuscito, che quello che ha bloccato a destra è dilagato a sinistra, e viceversa. Ma le pagine di Sciascia non è alla disperazione che portano il lettore: tutt’altro. Sono un’esortazione potentissima a cercare anche lui il farmaco che guarirà il mondo dai suoi mali. E a quattordici, quindici anni è bene sapere che cosa vale la pena fare da grandi. Pubblicato il 22 gennaio 2016 da Anna K. Valerio Alcune considerazioni personalmente maturate in questi tanti anni di frequentazione col Maestro di Regalpetra: Non poteva essere, irreggimentato. né soprattutto restare, Non votato alla “politica” per quel senso di libertà, coerenza e senso critico di opposizione al potere. A riprova l’immediata consonanza col PCI e ciononostante la polemica con lo stesso partito. La Sua idea di giustizia è priva di qualsiasi accomodamento, di tentativi di mediazione, per non parlare di qualsiasi compromesso o addirittura di contaminazioni da imposture. Talvolta, a misura degli eventi, usa come cartina di tornasole il “Cui prodest?” e se nell’immediato possono evidenziarsi, seppur vaghi, elementi di utilitarismo egoistico, immediatamente innalza prepotente il muro della critica. ra 2 Dall'Almanacco Bompiani 1938. Aneddotica pirandelliana. Continua il libro del nostro Umberto Gugliotta IL ROSARIO DEL VESCOVO Capitolo terzo La sera del Premio Nobel (10-dic-1934) Allorché tutti i giornalisti furono usciti, i nipoti del Maestro fecero irruzione nello studio. Il più grandicello si avvicinò al Nonno, e con l’aria di chi ha ormai capito il motivo dell’insolito movimento nella casa, domanda: - Bisogna mettere la bandiera al balcone? - No. - E perché – domanda il bambino. - Perché mica hanno dato a tutti il premio – risponde Pirandello accarezzandolo. Qualche vicino potrebbe lamentarsi. Alla terrazza si accedeva dall’ampia sala, interamente affrescata, scelta da donna Gerardina, in quell’occasione, per la cena; si trattava di un lastrico di pietra lavica circondato da un muretto di tufo nel quale erano state fissate a mo’ di sedile, su tutti i lati e senza soluzione di continuità, alcune lastre anch’esse di pietra lavica. Situato proprio nel centro del vasto belvedere, sorgeva un piccolo gazebo o, forse meglio, un baldacchino non più grande di uno spazioso letto matrimoniale che, coperto da tre vele triangolari di tela marinara bianca, fissate ai legni da piccoli marchingegni metallici, riparava una maestosa antica poltrona di canna d’India ed un piccolo tavolino addobbato, entrambi collocati su una pedana a due gradini, ben illuminati da un prezioso lume a petrolio posato su un apposito piedistallo appena all’esterno della leggera costruzione. Inoltre, su ciascuno dei quattro angoli del parapetto che delimitava la terrazza, erano state collocate due fiaccole che, nonostante la quantità complessiva, diffondevano una luce talmente fioca da far risaltare, come un faro nella notte, l’interno del chiosco che ospitava il Vescovo, che pure era rischiarato solo dalla fiamma di un po’ di petrolio. Ogni tanto, qua e là, l’accensione di una sigaretta rischiarava brevemente il volto di qualcuno. Tuttavia, dall’intenso mormorio sparso nel buio, si poteva intuire una presenza, maschile e femminile, talmente numerosa da poter legittimamente pensare che dei posti sui sedili di pietra non ne fosse rimasto uno libero. Al di là della cinta di tufo si intuiva l’esistenza della rigogliosa vegetazione che circondava il palazzo e se ne sentiva il profumato respiro; della cittadina, alla quale i Savoia, sollecitati non si sa da chi, ma che è possibile immaginare, avevano cambiato il nome da Gardella in Altomare, le costruzioni più arroccate non potevano essere viste ma solo indovinate per il barbàglio fuggito da qualche finestra; di quelle più vicine, le piante del parco celavano la presenza. Di giorno l’occhio poteva spaziare a tutto tondo e se qualcuno avesse voluto individuare i confini della proprietà di don Gioacchino Tornabene Principe d’Altomare, avrebbe dovuto tramutarsi in falco e volare un giorno intero verso occidente. Ma donna Gerardina, anche col buio, chiudendo gli occhi, se lo avesse desiderato, sarebbe riuscita a ritrovare, strada dopo strada, sentiero dopo sentiero, ogni più piccolo anfratto e lì avrebbe sostato abbracciata al marito. Le proprietà della nobile famiglia, confinanti a La sera della consegna ufficiale, entrato nella Casa dei Concerti di Stoccolma per ricevere il Premio Nobel, Pirandello non riusciva a trovare la sala del ricevimento. Ad un tratto vide uscire da un corridoio un signore in uniforme e chiese a lui. “Basta che mi segua” disse il gentile signore che altri non era che il re Gustavo che stava appunto recandosi alla cerimonia ufficiale. (ricordataci dall’amico Renato Cesarò) In Sud America Nell’ultimo viaggio in America Latina, Pirandello fu avvicinato da un operaio. I giornalisti non riuscivano a spiegarsi chi fosse lo sconosciuto. E il Maestro spiegò poi ch’era un operaio emigrato che aveva voluto accertarsi che anch’egli fosse siciliano, conversando con lui nel dialetto della sua terra. A Parigi A Parigi ci fu un tempo che Pirandello era popolarissimo. Appena entrava in un caffè o in un teatro, tutti lo riconoscevano: Pirandellò, Pirandellò. Egli sorrideva a codesta luce di gloria col suo sorriso ironico e bonario e passava tra gli sguardi di ammirazione con quel suo passo rapido, la persona un po’ curva, il volto faunesco ombrato dal cappellaccio grigio. Modesto e schivo, come sempre. Ma gli piaceva che il direttore o il portiere d’albergo lo salutassero al suo arrivo, chiamandolo: “Mon cher maitre”. E fu felice come un bambino il giorno che il ragazzo dell’ascensore, richiesto da un cliente chi fosse quel signore dal pizzetto bianco e dalla faccia espressiva come quella di un vecchio hidalgo spagnolo, il “parigot” solennemente rispose “le plus grand ecrivain d’Italie”. 3 levante con il mare, si estendevano, nella Sicilia orientale, a sud, a nord e a ovest, talvolta sparse in piccole contrade, talaltra raggruppate in enormi tenute, su una vastissima superficie complessiva in cui si alternavano riserve di caccia, terreni da coltura e oasi di pace. Nelle decine di masserie, sparpagliate nei punti nevralgici della campagne, le bande di braccianti e mezzadri, sotto l’attenta guida dei campieri, non avevano certo una vita facile; dalla semina al raccolto, dalla cura delle piante al trasporto ed al deposito dei frutti, dalla vendemmia alle lavorazioni, tutto passava nelle loro mani ed affaticava le loro braccia: olive, mandorle, uva, foraggi, grano, carni, insaccati, cacio. Ogni ben di Dio veniva stipato, lavorato e, in buona parte, venduto. In quei giorni di fine primavera il sole terminava il suo quotidiano tragitto verso le diciannove e trenta: l’oscurità, essendo ormai ben oltre quell’ora, permetteva alle stelle di affacciarsi qua e là e alla luna, uno spicchio, di fare la sua ruffianesca apparizione. Da levante, il mare, distante non più di sette, ottocento metri, mandava, con la frescura, il battito della risacca insaporito dal sale. Il Vescovo don Ignazio Tornabene d’Altomare apparve sotto il baldacchino d’un tratto, quasi che, per magia, si fosse lì materializzato; il chiacchierio, per quanto smorzato, aveva coperto il fruscio dell’elegante tonaca di raso nero allorché aveva attraversato la fitta penombra della terrazza. Sedette sull’ampia poltrona e ne accomodò i cuscini. Poi rimase immobile per qualche minuto prima di dire, quasi vedesse oltre il buio: - Avanti! Dal lato del muretto che dava sul parco si staccò, emersa dalla semioscurità, la figura di una persona che, dal portamento, sembrò essere un uomo; percorse a lunghi passi silenziosi lo spazio che lo separava dal baldacchino e si fermò sul limite della pedana. Investito dalla luce del lume a petrolio che permetteva di vederne i lineamenti del viso, si rivelò, per l’appunto, un uomo: la barba lunga di qualche giorno, quel che si poteva vedere di ciò che indossava, le mani grosse e trascurate, rivelavano le sue origini comuni. - Avvicina! Disse don Ignazio. L’uomo salì i due gradini della piattaforma che lo separavano dal Monsignore e, senza pronunciare parola, gli baciò la mano che questo gli porgeva, quindi, indietreggiando, riprese il suo posto in piedi davanti al Prelato, che parlò per primo. Nessuno poteva udire quel che dicevano, perché parlavano fitto fitto e sottovoce. Solo dal gesticolare -molto più contenuto quello del Vescovo- e dalle espressioni del viso si poteva intuire qualcosa. In particolare era significativo l’indice con il quale don Ignazio accompagnava la veemenza di alcune sue parole, puntandolo contro l’uomo. Sicuramente non parlavano di santi né di beati, ma di cose di questo mondo. Via via che le parole si susseguivano sempre e comunque in un sussurro, il capo del povero cristo scendeva verso il petto, fino ad appoggiarsi ad esso. Quando ciò avvenne, il Monsignore offrì il bianco del suo sorriso alle luce del lume e, atteggiando il volto perfettamente ricomposto, tese il braccio e porse la mano da baciare, cosa che l’uomo fece, ricambiato con un rapido gesto di benedizione. Dopo di ciò, il questuante andò al suo posto, il sedile di pietra, mentre già una seconda ombra si era alzata e avviata, anch’essa velocemente ed in silenzio, verso la pedana. Era dunque iniziato un andirivieni continuo fra il muretto e il baldacchino e viceversa; il rituale, talvolta un po’ più accentuato, talaltra un po’ più scialbo, era tuttavia pressoché sempre lo stesso, tanto che, se il buio fosse stato ancora più fondo, si sarebbe potuto affermare che era sempre la stessa persona a compiere quel tragitto; il dialogo era sempre mormorato, ma qualche volta era possibile captare a mezz’aria una parola sfuggita alla misura delle corde vocali. Era spontaneo pensare che i presenti si fossero accordati di calzare ciabatte di pezza, ma l’idea, anche se solo per quel poco che si vedeva, non rispondeva al vero- tanto era assoluta l’assenza di qualsiasi calpestio, ticchettio o altro. Incuriosiva anche il perfetto sincronismo con cui una, e una sola, persona si alzava dal suo sedile, allorché intuiva che il colloquio di chi lo aveva preceduto era terminato; sfuggiva alla ragione come ognuno conoscesse il suo turno, considerato che, apparentemente, non vi era alcunché a determinarlo. Quest’alternarsi di individui, quasi un ping-pong silenzioso, aveva, fors’anche per l’atmosfera che lo avvolgeva, qualcosa di incomprensibile, di misterioso, per quanto fosse certo che ciascheduno, sostando davanti al Vescovo solo pochi minuti, quattro o cinque al massimo, avanzasse una richiesta, un favore; chi voleva un marito per la figlia, chi un posto di lavoro, chi un consiglio per aggiustare una lite oppure una punizione per chi l’aveva offeso, magari per non cedere alla tentazione di dargliela personalmente; qualche volta veniva rassicurato, altre volte respinto, ma i criteri non erano assolutamente conoscibili. Tutto ciò non aveva un riscontro obiettivo, era nell’aria, era un’intuizione ricavata da un gesto, dal modo con cui il questuante baciava la mano di don Ignazio, fors’anche dalla maniera adottata per 4 impartire la benedizione, se sbrigativa o solenne. La gente, tutta male in arnese, era lì da ore, prima sotto il sole e poi esposta alla frescura della sera, forse troppa; uomini e donne di ogni età, persino bambini, mogli e mariti, padri e figli, qualcuno malato, qualcuno troppo o troppo poco coperto, un altro stracciato, un altro affamato. Chi voleva pane e chi giustizia, però su questa terra e subito. Il petrolio del lume era alla fine, lo si capiva dalla dimensione della fiammella, e le torce, bruciato l’intero stoppino, si erano spente; l‘odore della cera e del petrolio, per quanto aromatizzati, smorzata la brezza, ristagnava sulla terrazza, ormai illuminata solo da un quarto di luna. Quando la riunione volse al termine, piano piano, dalla sala prospiciente, riecheggiarono i rumori, dapprima esitanti, poi, lentamente, sempre più determinati; invece nella terrazza tutti, eccezion fatta per il mormorio che veniva dal baldacchino, non emettevano più di un fiato. All’interno la servitù aveva cominciato ad accendere candele e lumi, ad apparecchiare la tavola con gran risonare d’argenti e di cristalli. - Monsignore sta per finire … tra poco tutta quella gente attraverserà questa sala … ma questa sarà l’ultima volta! D’ora in poi, se Monsignor Ignazio vorrà ricevere, dovrà accontentarsi del piano terra, al chiuso. La terrazza appartiene alla sala e la sala non è corridoio, è sala! La voce di donna Gerardina, sicuramente rivolta a qualcuno degli ospiti, era giunta all’aperto, inconfondibile. Proprio come aveva voluto. Tuttavia il destinatario non se ne diede cura, visto che le parole della cognata avevano acceso un sorriso canzonatorio sulle sue labbra. "Ma perché non volete capire che l’amore di una donna e l’amore del vino sono eccitanti con cui l’anima anela a Dio, raggiunge la visione estatica e scorge le sentinelle celesti? E.L.Masters CURNUTI A TARIFFA PUSTALI ‘Ntra la catiguria di li curnuti l’urdinari su’ in granni quantitati poi c’è l’espressi, ma li benvoluti su’ chiddi cu li corna assicurati. Chiddi ca ‘ntesta ci hannu corna ‘nfuti sunnu curnuti aerei chiamati: ma la razza chiù forti e chiù prigiata su’ li curnuti a risposta pagata. AdS IL TE’ ATI DA FORZA AI NERVI DISTESI........ Iu lu cunsigghiu ‘na jurnata ‘ntisi di dda reclami ca fa tantu scrusciu, ed accattai, nun badannu a spisi, lu gran “ TE ATI “ e mi lu vippi a frusciu. Ed ora aspettu li nervi distisi, ma un risurtatu ancora nun canusciu: Sunnu passati ormai diversi misi, ma ogni nervu addivintò cchiu musciu... ……. Continua AdS SUNETTU MURALI L’ANGOLO DELLA POESIA La vita è passaggera, e li sciaguri Dalla penna dell’autore della bella ELEGIA SICILIANA pubblicata nella rivista di inizio anno, cioè il nostro Socio prof. Gianfranco Barcella ecco: sempri s’u all’omu prisenti e vicini, e dispunennu Diu novi sciaguri, l’omu va fabbricannu li ruini. Di jornu in ghiornu, di mumenti ed uri criscinu li dilitti, e nun c’è fini, ma allura sintiremu li duluri, quannu pirdemu l’ajuti Divini. LA LIBERTA’ Godo della libertà del supremo scrutatore che fende il cielo con lo sguardo e mira cheto quel che giace sotto il ceruleo velo. M’accheto a quella dolce vista e più non voglio scrutare altrove. Il tremolio verdazzurro del mare pare la luce dei precordi e m’è caro anche se svela l’orma essiccata dei primitivi accordi. ----- Lu propriu dannu a n’autru dannu chiama, e chissu di lu primu è assaiu cchiù forti, a ammatula un rimediu poi si brama. E’ tiranna di nui la stissa sorti, leva la vita, a cui la vita ama, e a cui nun l’ama ci nega la morti. AdS 5 AMO spenni assà e nenti manci. Sparagnanu e cumparemu. Sparagna la farina quannu la cascia è china…ca quannu lu funnu pari nun vali cchiù lu risparmiari. Spenni picca e arricchirài, parla picca e ‘nzirtirài, mancia picca e campirai. Stà bbeni e lamentati. Stamu tuccannu lu funnu. Stari cù ddù pedi ‘nti ‘nnà scarpa. Statti cuetu. Stenni pedi quantu linzolu teni. Stritta nu tì veni e larga nun tì trasi. Stuppa mi dasti e stuppa ti ‘filavu’…. tu mi tincisti e ju ti mascariavu. Sugnu stancu mortu. Sulità, santità. Sunnu comu la ‘lazzata’ e ‘la tortula’. Sulità…Santità. Su sempri friddi: nasu di cani e mani di varbera. Sulu a la morti nun c’è rimediu. Sutta la nivi pani…. sutta l’acqua fami. Amo l’aria immobile che il vento scuote alla sera, amo il profumo dei gigli che perdono il polline al sole. Amo il canto nascosto del merlo alla gazza veloce, che spazia con l’ali distese nel cielo sereno. E amo il tuo viso ridente Che ombran le chiome leggiadre E gli occhi che, chairi e soavi, nascondono un mondo d’amore. Io Amo. Renato Cesarò ----------- DETTI E PROVERBI Si vò ca l’amicizia si manteni,un cannistru chinu di robba av’affari unu và e unu veni. Si ‘nparadisu nun trovu a tìa, mancu ccì trasu. Sì vò passari la vita cuntenti, statti luntanu di li parenti. Si vò stari megliu lamentati. Si a ogni cani ch’abbaia cì vò tirari ‘nà petra, nun t’abbastanu vrazza. Sì comu lu scrafagliu nnì la stuppa. Si comu ‘nnà bannera di cannavazzu. Si la ‘mmidia fussi guaddara,* tutti fussimu guaddarusi. Si li giuvini vulissiru,si li vecchi putissiru, nun cì fussi cosa chi nun si facissi. Si lu riccu nunn’è pazzu, lu poviru nun po’ campari. Si non vò spuntunati…..nun hjri a caccia di porcispini. Si sapi dunni sì nasci, nun si sapi dunni si mori. Si ti vò ‘nzignari a ‘mpuviriri…. adduva l’omini e nun ci jri. Si pì paura di li corva ‘un siminassimu linusa, nun putissimu aviri la cammisa. Siccu comu nnà carrubba. Soggira cuteddu, nora grattalora. Sorti e morti dunni và tì la porti. Sparaci, babbaluci e funci, * Il voluminoso rigonfiamento che interessa metà o tutto lo scroto, con consensuale mascheramento del pene e che al suo interno contiene per lo più intestino, altro non è che la progressiva evoluzione di un’ernia inguinoscrotale trascurata, fortemente invalidante poiché viene a limitare pesantemente l’attività lavorativa oltre che la funzione sessuale, comportando anche disturbi dell’evacuazione. Walter Morando 6 un uomo disperato che tenta di resistere alla mancanza di senso di ogni azione. Quale è il senso se Berta vuole stare con lui e invece dieci anni prima se ne è andata con un altro lasciandogli il vestito appeso alla porta, tenuto lì come il fantasma della sua presenza. Quale è il senso se lei continua a cercarlo e lui può non cercarla, quale è il senso se ogni volta che lui aspetta lei non arriva? Quale è il senso della lotta se ogni azione è destinata al fallimento, se la distruzione e l’orrore si affacciano ad ogni angolo di strada? Quale è il senso se il capitano Clemm può dare in pasto un uomo a suoi cani? Ma l’uomo che conquista e uccide è uomo ancora? Cos’altro è se non uomo? E’ lupo? No, è uomo anch’esso. Anziani piaceri Sazio di sonno, apro gli occhi e dalla socchiusa tapparella che guarda il mare si intuiscono solo i colori della notte. Lo sguardo va alla non più indispensabile sveglia e le lancette dicono 03,30. Capita agli anziani. Ma non è tempo di dormire. Nel silenzio della notte, intervallato dai leggeri sussurri di mia moglie, comincia una passeggiata in punta di piedi fra le mura domestiche alla ricerca dei piccoli amici. Le due pile di libri che sono sul comodino non soddisfano al momento questa esigenza di novità. In un angolo della libreria ritrovo in un’ altra edizione -non certo brillante- il libro portato all’esame di letteratura italiana nel lontano1971. Dovrei ricordarlo bene e invece… Ma cosa avevo studiato? Forse avevo sfogliato solo il Bignami…. Allora bisogna rileggere dal mio conterraneo il siracusano Elio Vittorini Uomini e no. Insomma sin dalle prime pagine trovo un ambito e un componimento che mi appare del tutto nuovo. In fondo è del 1945 un anno importante e la narrazione è relativa all’inverno del 1944. Siamo in pieno fascismo e in tempo di guerra. In una Milano occupata dai tedeschi, lugubre e attonita ma ancora indignata e capace di reagire, l’autore racconta le vicende di un gruppo di partigiani, impostando una riflessione sul senso profondo della dignità dell’uomo e della vita. Ed è attraverso le aspirazioni e le attività quotidiane di uomini semplici e “normali”, quasi costretti a farsi combattenti, che emerge l’atrocità della violenza. Uomini e no è il tentativo di dare voce a cose che per anni erano state soffocate ed anche, per lo stile con cui è scritto (l’autore che si presenta egli stesso in prima persona come autore di quella storia e dialoga con i suoi personaggi,) diventa una specie di laboratorio della letteratura in cui mostrare architetture nascoste. Alla fine Enne2 finirà con il cedere alla tentazione di “perdersi” ma solo in parte. Poi, in mezzo all’orrore, gli altri uomini, anch’essi causa di orrore, continueranno a battersi. Uomini contro uomini. “Chi aveva colpito non poteva colpire di più nel segno. In una bambina e in un vecchio, in due ragazzi di quindici anni, in una donna, in un’altra donna; questo era il modo migliore di colpir l’uomo. Colpirlo dove l’uomo era più debole, dove aveva l’infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove aveva la sua costola staccata e il cuore scoperto: dov’era più uomo. Chi aveva colpito voleva essere il lupo, fa paura all’uomo. Non voleva fargli paura? E questo modo di colpire era il migliore che credesse di avere il lupo per fargli paura. Però nessuno, nella folla, sembrava aver paura.” "Essi avevano, ognuno, una famiglia: un materasso su cui volevano dormire, piatti e posate in cui volevano mangiare, una donna con cui volevano stare; e i loro interessi non andavano molto più in là di questo, erano come i loro discorsi. Perché, ora, lottavano? Perché vivevano come animali inseguiti e ogni giorno esponevano la loro vita? Perché dormivano con una pistola sotto il cuscino? Perché lanciavano bombe? Perché uccidevano? (…) Perché, se non erano terribili, uccidevano? Perché, se erano semplici, se erano pacifici, lottavano? Perché, senza aver niente che li costringesse, erano entrati in quel duello a morte e lo sostenevano?" Così, quasi per caso la storia diventa Storia, attraverso le storie di ognuno e, in particolare, attraverso la storia frustrata fra Berta e il capitano Enne2, un partigiano attivo e coraggioso ma anche Il libro è finito, con qualche momento di riflessione sulla storia dei nostri genitori, della generazione precedente la nostra, dove gli aguzzini trovano irrazionalmente una loro dimensione di uomini (malvagi) mentre gli altri confermano la loro dignità del resistere e del combattere. Ormai sono le otto e, nella commozione, il calendario ci dice che è il 10 febbraio, la giornata del ricordo. Toh guarda caso. ra 7 Torna in Sicilia anche la Testa di Ade. Il Paul Getty Museum restituisce il reperto trafugato a Morgantina UNA VOLTA PER TUTTE Tutti sanno che… Il genere del nome che indica la specialità siciliana a base di riso con la salsa di pomodoro e la carne (o altro) divide in due l’isola: arancina (rotonda) nella parte occidentale e arancino (rotondo o a punta, forma che potrebbe essere ispirata dalla figura dell’Etna) nella parte orientale, con l’eccezione di alcune aree nella zona ragusana e in quella siracusana. Il gustoso timballo di riso siculo deve il suo nome all’analogia con il frutto rotondo e dorato dell’arancio, cioè l’arancia, quindi si potrebbe concludere che il genere corretto è quello femminile: arancina. Ma non è così semplice, e vediamo perché. Origini Le origini di questa pietanza si vorrebbero far risalire al tempo della dominazione araba in Sicilia, che durò dal IX all’XI secolo. Gli arabi avevano l’abitudine di appallottolare un po’ di riso allo zafferano nel palmo della mano, per poi condirlo con la carne di agnello prima di mangiarlo; da qui la denominazione metaforica: una pallina di riso con la forma di una piccola arancia (< ar. nāranj). Come si legge nel Liber de ferculis di Giambonino da Cremona (curato da Anna Martellotti, 2001), tutte le polpette tondeggianti nel mondo arabo prendevano il nome dalla frutta a cui potevano essere assimilate per forma e dimensioni (arance ma anche albicocche, datteri, nocciole); il paragone con le arance era naturale in Sicilia dato che l’isola ne è sempre stata ricca. In realtà però non ci sono tracce di questa preparazione nella letteratura, nelle cronache, nei diari, nei dizionari, nei testi etnografici, nei ricettari e così via prima della seconda metà del XIX secolo: essa dunque compare in età assai più recente di quanto si potrebbe pensare. Per di più, si dovrà osservare che nel Dizionario siciliano-italiano di Giuseppe Biundi (1857), il primo dizionario siciliano che registra la forma arancinu, la definizione descrive "una vivanda dolce di riso fatta alla forma della melarancia": dolce, non salata; ma i passaggi dolce/salato non sono infrequenti nelle varie fasi della gastronomia, se persino lapizza alla napoletana è ancora per la Scienza in cucina di Pellegrino Artusi (ediz. 1911) un dolce fatto di pastafrolla e crema (ricetta 609). Nel Nuovo vocabolario siciliano-italiano del Traina (1868), infatti, dalla voce arancinu si rinvia a crucchè: "specie di polpettine gentili fatte o di riso o di patate o altro", da confrontare con la ricetta 199 (Crocchette di riso composte) della Scienza in cucina, che indica una preparazione certamente Dopo la Venere, il Museo di Aidone (Enna) ospiterà la splendida testa policroma "riconosciuta" grazie al lavoro degli archeologi siciliani. Alessandra ZINITI Dopo quasi tre anni di tira e molla da quando il Paul Getty Museum di Malibù aveva ammesso di avere comprato sul mercato nero una delle opere d'arte trafugate nel sito archeologico di Morgantina, in provincia di Enna, sta per rientrare in Italia un altro importantissimo reperto dopo la Venere. E' la testa di Ade, un meraviglioso marmo con i ricci della barba colorati che è stato trafugato alla fine degli anni Settanta e venduto al Getty dal collezionista newyorchese Maurice Tempelsman per 500 mila dollari. La Testa di Ade ha fatto rientro in Sicilia il 29 gennaio e sarà ospitata nel museo ennese di Aidone, che già ospita la Venere. Il reperto, detto anche Barbablu, è stato consegnato dal museo californiano alla presenza del console generale d'Italia a Los Angeles Antonio Verde e dei rappresentanti della Procura della Repubblica di Enna e dei carabinieri del nucleo tutela Patrimonio artistico di Palermo diretto dal maggiore Luigi Mancuso. Raro e pregiato, un unicum nel suo genere, sia per il tipo di materiale utilizzato, assai fragile, sia per le consistenti tracce di policromia, rosso mattone nei capelli e blu nella barba - che valsero alla testa il soprannome Barbablù - il reperto è una testa in terracotta policroma, di epoca ellenistica, raffigurante molto probabilmente il dio greco Ade. Pare che la collocazione originaria della Testa di Ade fosse il santuario di Demetra, sito all'interno del parco archeologico di Morgantina. 8 salata. Nei repertori prima citati non sono tuttavia mai menzionati né la carne né il pomodoro, e in effetti è difficile dire quando questi due ingredienti siano entrati nella ricetta: del pomodoro, tra l’altro, si sa che cominciò a essere coltivato nel Sud della penisola solo all’inizio dell’Ottocento. Alla luce di questi fatti il legame tra il supplì siciliano e la tradizione araba non sembra più così certo, mentre si potrebbe pensare che si tratti di un piatto nato nella seconda metà del XIX secolo come dolce di riso, ma che sia stato trasformato quasi subito in una specialità salata. Inoltre il nome del manicaretto – secondo l’ipotesi suggerita da Salvatore C. Trovato in A proposito di arancino/arancina ("Archivio Storico della Sicilia Centro Meridionale", II, 2016) – potrebbe derivare non solo dalla forma dell’arancia, ma anche dal suo colore: in siciliano infatti le parole parole che indicano nomi di colori si formano da una base nominale più il suffisso -inu, quindi arancinu ‘di colore arancio’, come curaḍḍinu‘del colore del corallo’ o frumintinu ‘che ha il colore del frumento’). Con la -o Nel dialetto siciliano, come registrano tutti i dizionari dialettali, il frutto dell’arancio è aranciu e nell’italiano regionale diventa arancio. Del resto, alla distinzione di genere nell’italiano standard, femminile per i nomi dei frutti e maschile per quelli degli alberi, si giunge solo nella seconda metà del Novecento, e molti parlanti di varie regioni italiane – Toscana inclusa – continuano tuttora a usare arancio per dire arancia. Al dialettale aranciu per ‘arancia’ corrispondono il diminutivo arancinu per ‘piccola arancia’, arancino nell’italiano regionale: da qui il nome maschile usato per indicare il supplì di riso. La prima attestazione nella lessicografia italiana di arancino si trova nel Dizionario moderno del Panzini (edizione 1942), che registra la forma maschile, contrassegnandola come dialettale siciliana. Questa denominazione, dunque, è quella che riportano i dizionari dialettali, i dizionari italiani e che è stata adottata dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali nella lista dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali italiani (arancini di riso: Regione Siciliana, Prodotti della gastronomia, 188); è la forma che il commissario Montalbano ha portato nei libri e in televisione (Andrea Camilleri, Gli arancini di Montalbano, 1999) e di conseguenza nella competenza di tutti gli italiani. Con la -a I dizionari quindi concordano sul genere di arancino, ma le indicazioni del genere del nome che indica il frutto dell’arancio sono, come abbiamo detto, oscillanti: le due varianti arancio e arancia coesistono, con una prevalenza del femminile nell’uso scritto e una maggior diffusione del maschile nelle varietà regionali parlate di gran parte della penisola. Il femminile tuttavia è percepito come più corretto – almeno nell’impiego formale – perché l’opposizione di genere è tipica nella nostra lingua, con rare eccezioni, per differenziare l’albero dal frutto. Si può ipotizzare che il prestigio del codice linguistico standard, verso cui sono sempre state più ricettive le aree urbane, abbia portato la forma femminile arancia a prevalere su quella maschile arancio nell’uso dei parlanti palermitani: essi, avendo adottato la forma femminile per il frutto, l’hanno di conseguenza usata nella forma alterata anche per indicare la crocchetta di riso: dunque, arancina. Per la zona ragusana e siracusana potrebbe invece aver influito il fatto che la forma dialettale più diffusa per indicare il frutto non è aranciu ma partuallu/partwallu (cfr. AIS, carta 1272): la radicale diversità dell’esito locale può aver fatto sì che quando si è assunto il termine italiano per indicare il frutto lo si sia fatto nella forma codificata arancia, da cui arancina. Si potrebbe allora concludere che chi dice arancino italianizza il modello morfologico dialettale, mentre chi dice arancina non fa altro che riproporre il modello dell’italiano standard. Questa supposizione troverebbe conferma nell’unica attestazione di arancina che si trova nella letteratura di fine Ottocento: le "arancine di riso grosse ciascuna come un mellone" dei Viceré (1894) del catanese Federico De Roberto, che si atteneva a un modello di lingua di matrice toscana. Alla fine del secolo la variante femminile è stata poi registrata da Corrado Avolio nel suo Dizionario dialettale siciliano di area siracusana (un manoscritto inedito della Biblioteca Comunale di Noto, compilato tra il 1895 e il 1900 circa) e più tardi da Giacomo De Gregorio nei suoi Contributi al lessico etimologico romanzo con particolare considerazione al dialetto e ai subdialetti siciliani ("Studi Glottologici Italiani", VII, 1920, p. 398) che rappresentano l’area palermitana. Arancina è stata registrata anche dalla lessicografia italiana: dallo ZINGARELLI del 1917, che la glossa come "pasticcio di riso e carne tritata, in Sicilia", e dal Panzini nell'edizione del 1927; dopo però non se ne ha più nessuna traccia. 9 UN PARERE CATANESE Vorrei tornare, spero per l'ultima volta, sulla questione del sesso degli arancini e della loro forma. E' una questione che credevamo fosse ormai risolta da anni, tanto che a Catania il dibattito si è spostato in avanti, concentrandosi sull'annoso problema, ad oggi irrisolto, se l'arancino vada impugnato dalla base o dalla punta. I cugini di Palermo sono rimasti invece indietro e, anziché guardare in avanti, si guardano le dita dei piedi. Si sostiene con forza che la parola arancina deriverebbe dall'italiano «arancia» e, dunque, la declinazione più corretta sarebbe al femminile. Il ceppo etnico a cui appartengono i cugini di Palermo, quello che chiama arancina l'arancino, discende con molta probabilità dagli austriaci di Salisburgo. Li riconoscete facilmente per strada, perché sono tutti biondi come gli Abba e guidano il «motore». E' gente aristocratica, che mangia le arancine nei salotti e li tiene in mano con i guanti, per non insivarsi le mani, che poi le dita scivolano nell'iphone. E' gente che incontra altra gente per la strada e l'insulta con un «sei una arancina con i piedi». In realtà, la questione è semplice, la parola arancino è l'italianizzazione del siciliano arancinu, che deriva a sua volta da aranciu. In siciliano, infatti, il frutto si declina al maschile. Queste cose di solito si sanno. Nel dizionario siciliano-italiano del palermitano Giuseppe Biundi, del 1857, si legge infatti solo il lemma arancinu. Nel dizionario della lingua italiana della Treccani, ancora, non esiste la voce arancina, ma solo arancino. Persino Camilleri ha scritto Gli arancini di Montalbano. Gli arancini hanno la forma di un cono per tradizione. A Palermo, li fanno a forma di arancia solo per distinguersi. E' un complesso di inferiorità culinaria. Se noi li facessimo a forma di arancia, loro li farebbero più grandi, a forma di cantalupo e li prenderebbero in mano sentendosi tanti Dino Zoff. Tralascio, infine, la questione sulle origini, perché ci muoviamo fuori dal campo della realtà. I cugini di Palermo sostengono, infatti, che l'arancino lo hanno inventato loro. Ma sono fatti così a Palermo. Tutto passa da loro. Gli metti una matita in mano e ti dicono che la Gioconda era della Vucciria. Arancine! Al di là di alcune rivendicazioni permeate da inutili campanilismi, spesso le motivazioni di chi sostiene, contro la registrazione dei vocabolari, che l’arancina sia fimmina con la -a traboccano di un amore (con la a-!) per il cibo che altro non è se non amore per la propria terra e per le proprie tradizioni; per questo basterà citare Davide Enia, attore e scrittore palermitano: Battezzare con correttezza è gesto di umiltà di fronte all’eccezionalità del piatto, ché noi che le mangiamo le arancine, no, noi non vogliamo (soltanto) bene all’arancina, palla di sfera che si basta da sé. No. Noi CELEBRIAMO l’arancina noi la veneriamo, lei e la sua tondità solare, sfera a carne o a burro, palla, piccola arancia, fìmmina. Il resto…. non esiste il resto di fronte all’arancina. Ma non è tutto. Andrea Graziano, chef e imprenditore catanese, per unire le due metà dell’isola nel giorno di Santa Lucia (giorno in cui si festeggia mangiando panelle, cuccìa e arancine) ha proposto nella sua "bottega sicula" palermitana, gemella di quella catanese, le arancinie: «una porzione che comprende due arancini a punta preparati con sarde e finocchietto e due arancine tonde preparate "alla norma" con melanzane fritte, ricotta, pomodoro e basilico». Una terra di mezzo in cui convivono gli arancini catanesi e le arancine palermitane, e si fondono in un’unica specialità dal sapore inconfondibile, simbolo della sicilianità. Ai nostri amici possiamo quindi rispondere che il nome delle crocchette siciliane ha sia la forma femminile sia la forma maschile, determinata dall’uso diatopicamente differenziato. Che poi maschio o femmina, a punta o rotonda, è sempre la fine del mondo! A cura di Stefania Iannizzotto Redazione Consulenza Linguistica Accademia della Crusca 10 Da allora e per diversi anni, ancora in occasione delle feste di Carnevale, catanesi grandi e piccoli, giovani ed adulti, uomini e donne anche in maschera, avevano il piacere di recarsi con i vari mezzi dell’epoca a Paternò, invadendo le strade e le piazze e danzando con le musiche diffuse dagli altoparlanti. La pista da ballo erano le piazze principali, piazza Indipendenza, i Quattrocanti, piazza S.Giovanni, piazza S. Antonio Abate o Vittorio Veneto, il Corso principale ('a strata ritta), e lo scopo era di fare "quattro salti" in compagnia, per dimenticare i propri guai, coinvolti dalla spensieratezza che il Carnevale destinava a tutti nella via principale o in piazza Indipendenza, nei pressi del caffè Grasso o di fronte al bar Platania. Vi si andava con le Topolino, le prime 500 e 600 Fiat, con Vespe e Lambrette, ma principalmente con la littorina della Circumetnea, ‘a Ciccum per i catanesi (che partiva dal Corso delle Province all’incrocio del Corso Italia ancora incompleto) e con i postali della SITA. Le vie pullulavano di mascarati e per le donne era d'obbligo il dòmino, travestimento mutuato da una antica maschera veneziana del settecento (bauta), composta da un ampio mantello nero con cappuccio, completato da una mascherina sul viso per non farsi riconoscere: Le mascherine invitavano a ballare così celate chi più loro era di gradimento e finito il ballo, lo scherzo, la breve chiacchierata, era di rito che portassero il cavaliere ai bar pasticceria dirimpettai della Piazza Indipendenza, dove era d’obbligo farsi “offrire” i già allora famosi Baci Perugina o altra varietà di dolciumi! Era un giuoco, tra scherzo e tradizione, che si ripeteva e che il cavaliere in fondo accettava facendo buon viso, nella speranza di una conoscenza più approfondita. Talvolta questa tradizione spingeva qualche mascherina a eccedere, invitando alla consumazione i propri amici e facendo quindi pagare un conto salato allo sfortunato cavaliere. Quanti amori nascevano in quei giorni di autentico, genuino divertimento, ma anche di grandi emozioni! Il Carnevale di Paternò Nato pare nel 1867 e sospeso negli anni dei grandi conflitti mondiali, ad inizio del 1950 aveva ripreso l’antica tradizione di una volta. La festa andava dall'Epifania al mercoledì delle Sacre ceneri e la febbre del Carnevale cresceva il Giovedì grasso per culminare il martedì nel processo al Re Carnevale che, per espiare i peccati e i mali dell'anno vecchio, veniva condannato al rogo. L'usanza delle Mascherine di «impegnare» i cavalieri si scatenò dopo la Seconda guerra mondiale, quando migliaia di mascarati scorazzavano per la via Vittorio Emanuele, quasi a dimenticare le sofferenze e le ferite della guerra. 11 Ma quante batoste prendevano quegli imprudenti mariti che si lasciavano ammaliare dalle attenzioni di una affascinante mascherina, che altri non era…che la propria consorte! chiama la membrana che chiude il guscio delle lumache. L’elemento principale che caratterizzava le ‘ntuppateddi era il travestimento, che avveniva con delle varianti mediante l’uso degli “occhiali”, cioè un velo che ricopriva totalmente il volto lasciando solo due fori per poter vedere. Dopo il 1693, gli “occhiali” furono severamente proibiti e, quindi, sostituiti da mantelli con lunghi cappucci che mantenevano il volto “velato”. "Il costume componesi – fa dire Giovanni Verga nella novella "La coda del diavolo" - di un vestito elegante e severo, possibilmente nero, chiuso quasi per intero nel manto, il quale poi copre tutta la persona e lascia scoperto soltanto un occhio per vederci e per far perdere la tramontana, o per far dare al diavolo. (...) Dalle quattro alle otto o alle nove di sera la ’ntuppatedda è padrona di sé (cosa che da noi ha un certo valore), delle strade, dei ritrovi, di voi, se avete la fortuna di esser conosciuto da lei..". L’usanza connessa alla processione della Vara di S.Agata venne abbandonata dopo il 1868, rimanendo viva solo nell’ambito delle feste di Carnevale per altri cento anni, ma subendo poi le ineluttabili conseguenze maturate a seguito del degrado della società. Oggi sentendo la parola ‘ntuppateddi, viene ancora l’acquolina in bocca, ma solo perché si pensa alle lumache (o crastuni), che secondo una delle tante ricette siciliane, bisogna lavare parecchie volte per togliere tutto il terriccio che le ricopre, eliminare la pellicina bianca che chiude il guscio (‘a tuppa), tenerle in acqua fresca per 2 ore e sciacquarle frequentemente, farle cuocere poi in una larga padella con il sale per circa 10 minuti, mescolando continuamente e con delicatezza per non rompere i gusci; aggiungendo poi mezzo bicchiere di olio extravergine d’oliva, farle insaporire con il soffritto di aglio e cipolla tritata per alcuni minuti ed aggiungendo ancora la salsa di pomodoro ed il peperoncino, farle cuocere ancora per 20 minuti circa e poi servirle calde con il fondo di cottura … La tradizione del ballo mascherato nelle piazze è andata via via scadendo, con il dilagare della delinquenza, che approfittava spesso del mascheramento per compiere atti illeciti, finché il costume mascherato per motivi di pubblica sicurezza dopo il 1980 fu definitivamente bandito. Ma da dove era nata quella tradizione? E cosa c’entra con la Festa di S.Agata, qui durante il tradizionale giro cittadino della Vara, in una foto in Piazza Spirito Santo nel 1955? Qui si mescola il sacro ed il profano, la devozione e la burla: già nei secoli XV e XVI infatti a Catania donne di ogni classe sociale nel pomeriggio del 4 e 5 Febbraio (ma anche in occasione del Carnevale) erano libere di uscire non accompagnate e, mescolandosi alla folla che seguiva la processione Agatina, dopo aver invitato il cavaliere di turno con gesti eloquenti, chiedevano in regalo dolci o altro. Per quel giorno si sarebbero offerte alle galanterie degli uomini e non facendosi riconoscere, così nascoste, vivevano il loro unico momento di libertà femminile nel quale era loro concesso di tutto: fare scherzi, lasciarsi corteggiare, ricevere doni, uscire di casa da sole: era un gioco delle parti “onesto”, che non comprometteva nessuno! Avevano il capo coperto ma in modo da avere libero solo un occhio, cosi' da poter vedere, ma non essere viste! Erano chiamate le 'ntuppateddi, dalla voce dialettale tuppa, con la quale il siciliano segnalatoci da Manlio Guzzardi 12 Lettera sulla genesi di un romanzo In Sicilia piangi tre volte Cara amica, mi è capitato spesso che qualcuno mi abbia chiesto come nascono le storie che racconto e come i miei personaggi. Credo che per ciascuno la genesi avvenga in modo diverso ma in qualche modo simile. Lo scorso anno a chiedermelo è stata una dinamica rivista letteraria. Così ho provato a rispondere dunque nelle pagine di “Notabilis” (anno VI, n. 6, novembre-dicembre 20) Quando arrivi Quando te ne vai Quando ti pesi. Se hai una storia dentro devi farla uscire. E quando l’avrà fatto dovrai lasciarla andare e permetterle fare la sua strada a prescindere da te. Così mi disse Mario Baudino quando, fissando il primo contratto speditomi da Rizzoli, ero ancora incerta se firmare o meno e cercavo conforto nelle parole di un amico che in fatto di libri e di vita la sa lunga. Ero confusa perché quella firma avrebbe significato per me espormi, ovvero consegnare al mondo una storia che avevo maturato al mio interno (e consegnare anche me attraverso essa). Avrei dovuto farle affrontare il pericolo delle critiche mentre io, amandola, preferivo tenerla sempre con me, coccolarla e proteggerla da tutto. Non ho avuto figli ma ho sempre pensato che, con le dovute distanze, un genitore provi qualcosa di molto simile ai sentimenti che agitavano me allora e che non hanno smesso di preoccuparmi. Perché di vita si tratta e di nascita. I personaggi dei miei romanzi nascono dopo una gestazione nella mia mente. Vengono fuori con i loro visi, il loro modo di muoversi e di agire; con il carico delle loro storie ancora da dipanarsi. A volte, per dare loro un nome devo aspettare di scrutarne le espressioni e lasciare che riempiano la mia casa e la mia esistenza. Anzi quando iniziai a scrivere fu proprio per colmare lo spazio vuoto della mia stanza e vederlo saturo di loro, irreali eppure familiari e quasi tangibili. Qualcuno cioè con cui entrare in contatto, dialogare, confrontarmi e permettergli di crescere. Come una madre un po’ troppo severa non concedo mai troppa libertà ai miei personaggi e pretendo sempre di sapere dove siano, dove e con chi andranno e cosa faranno. Per questo mi sorprendo spesso quando sento scrittori dire che un tal personaggio “ha preso loro la mano” e ha cominciato a fare di testa sua. S.Agata sul fondo di un carretto siciliano . di Gaetano di Guardo Il 25 febbraio scorso alla Feltrinelli la nostra Emanuela Ersilia ABBADESSA ha presentato, dopo il successo di Capo Scirocco il suo secondo libro: FIAMMETTA. Una maestra che legge i componimenti del poeta Velastro, nella sua umile stanza a Firenze. Ha uno spasimante ma non le interessa, pensa soltanto ai suoi bambini e alla letteratura. Finché proprio lui, Mario Velastro, tiene un incontro in città e tra loro nasce un’affinità, un’attrazione…. Nell’attesa di una prossima intervista, abbiamo “rubato“ dal suo simpatico Blog “Lettere dal Convento” il seguente articolo: https://letteredalconvento.wordpress.com/ 13 Loro, le mie creature, nascono da un mio disegno e non sfuggono al mio controllo: hanno il guinzaglio corto che permette loro qualche giro in tondo ma li costringe poi a tornare sul tracciato che solo io ho stabilito. La nascita per me è soprattutto evocazione da immagini, è suggestione visiva: può nascondersi nel modo in cui una sconosciuta si mette una ciocca di capelli dietro un orecchio, dalla maniera che un uomo ha di stare assorto o di spiare il passo di una donna o anche da un paesaggio scovato per caso in rete che mi figuro come teatro di una storia. Così la storia stessa prende forma subito: la possiedo dall’inizio alla fine ed è dal possesso scaturisce l’impellenza di raccontarla. Questa lezione la imparai dalla mia amata maestra delle elementari che stimolava la fantasia di noi bambini chiedendoci di osservare il mondo, i passanti, le situazioni intorno a noi e, sulla base di ciò che vedevamo, costruire una storia. Queste esercitazioni le chiamava Osservo e scrivo. Non so e non credo le avesse inventate lei ma so che quando uscì il mio romanzo, mia madre mi disse: «se sai scrivere lo devi alla maestra De Francisci, devi ringraziarla per quello che sei oggi». Infatti, tra tutte le gioie che il mio romanzo mi ha dato, poterne dedicare una copia alla prima insegnante, resta una delle più forti. E nel prossimo, una maestra sarà la protagonista e, per quanto molto diversa dalla mia, assegnerà esattamente lo stesso tipo di compito ai suoi allievi. Con davanti a me i personaggi e lo sfondo della vicenda, giungo a quella fase della nascita che è un’epifania: la lingua. Ogni narrazione ha una sua lingua precipua, un esatto modo personale per essere espressa e non un altro. È allora che il concepimento per me diviene gestazione, labor limae sul suono delle sillabe, articolarsi dei periodi e di questi in paragrafi. E all’immagine così si aggiunge il suono: stampo una pagina e la rileggo a voce alta camminando per la stanza mentre loro, i protagonisti della storia, mi figuro se ne stiano a guardare e, forse, di sottecchi ridano un po’ di me. Credo che ciascuno abbia un modo differente di dare vita ai protagonisti di un romanzo e spesso mi piace chiedere agli altri come facciano, quante prove e quanti fogli gettino via prima di sentire di aver centrato il bersaglio. Ma è certo che le storie, come mi disse Baudino, una volta scritte ti abbandonano. Camminano sole per il mondo e smettono definitivamente di appartenerti. Più o meno con questa consapevolezza vissi l’ubriacatura di gioia delle prime presentazioni e delle prime recensioni dopo l’uscita di Capo Scirocco ma a volte, alla sera o al mattino appena alzata, Luigi e Rita, Mimì e Annuzza mi mancavano. Sentivo la loro assenza come se fossero figli partiti per chissà dove e che non avrei più rivisto. A poco valeva il fatto che mi tornassero davanti quando, presentando il romanzo, leggevo qualche passo: di fatto, loro non erano più a casa mia e non dipendevano più da me. Fu allora che in modo inatteso li riconquistai tutti. Non mi accorsi subito che stavano tornando eppure stava succedendo. Accadde e continua ad accadere nelle parole di quanti mi leggono e hanno la bontà di scrivermi: ciascuno di loro mi racconta qualcosa in più di uno di loro e me lo restituisce con addosso un pensiero, un’idea personale che lo rende inevitabilmente differente da come io stessa me l’avevo generato. È allora che comprendo pienamente cosa voglia dire “lasciare andare una storia”. Non significa soltanto consegnare una narrazione ad altri e attenderne supinamente il giudizio; vuol dire piuttosto veder ritornare la propria scrittura arricchita di parole, sensazioni, evocazioni altrui. E di ciascuna di quelle, come farei per un figlio che rincasa carico di esperienza, faccio tesoro. Peso ogni parola e la serbo per farci germogliare sopra una narrazione futura che conterrà anche un po’ della maturità della sorella maggiore ormai cresciuta e autonoma. E forse non è un caso che il mio primo romanzo abbia visto la luce in nove mesi. Devotamente EE 14 Spesso però accogliamo gli ospiti stranieri più attenti direttamente in cucina: qui infatti possono osservare, mentre vengono cucinate, le pietanze amate dal Duca Enrico di Salaparuta, il nostro antenato vegetariano, amico dello studioso Rudolf Steiner, e primo in Europa a scrivere un manuale di cucina vegetariana e naturismo crudo, quello che oggi si chiama raw vegan. Quasi sempre usiamo, reinterpretandole, le sue ricette ispirate alla tradizione siciliana Bagheria: a tavola con l'alchimia siciliana Ricette made in Sicilia e accoglienza "sartoriale", dentro la cornice di una villa storica attorniata da un parco dagli echi alchemici: ecco i segreti del ricevere di Antea e Marco a Villa Valguarnera (per saperne di più c'è il libro: Enrico di Salaparuta "Cucina Vegetariana e Naturismo Crudo", Sellerio). Come si allestisce la tavola? Ci piace sempre decorare il tavolo nella maniera più particolare possibile. A volte usiamo i centrotavola settecenteschi di famiglia che una volta venivano ulteriormente decorati con statuette di porcellana di Meissen o Capodimonte a seconda del tema del pranzo: statuette cinesi per un pranzo secondo la moda cinese, statuette di caccia per accompagnare un pasto a base di cacciagione, e così via. A volte utilizziamo le cose più stravaganti, come il prato finto con cui abbiamo ricoperto interamente il tavolo, in altri casi i tessuti disegnati appositamente da Marco, che è designer, e che richiamano un dettaglio della stanza o la fantasia delle mattonelle del pavimento. Nel ricevere ci sono delle regole del bon ton da rispettare? A nostro avviso tutte e nessuna. Senza dubbio bisogna conoscerle, e bene, per sapere quali possono essere dimenticate e non rispettate. Un esempio? Quando organizziamo dei pranzi indiani, con ricette a base di curry, butter chicken (ricetta originaria di Delhi, con pollo, spezie, panna e burro) ma anche sicilianissime mele cotogne, facciamo mangiare tutti i commensali con le mani, offrendo delle tovagliette umide e calde per pulirsi prima di iniziare. A un altro estremo: a volte mettiamo una sfilza esorbitante di posate d'argento, così tante da intimorire anche chi è esperto di regole a tavola. Ma mai e poi mai usiamo dei calici da vino particolarmente ostentati, quelli considerati da esperti, o dei piatti extra size in stile nouvelle cousine: è bene mangiare e bere bene, ma non vogliamo che il vino o i piatti rubino la scena. Ci lasciate qualche ricetta? Prima di tutto ecco la bevanda del momento a Villa Valguarnera. A base di cetriolo frullato e filtrato, succo di limone, succo di mela e menta del nostro giardino è una vera prelibatezza, fresca e dissetante, molto adatta anche per accompagnare piatti piccanti. Durante uno dei nostri viaggi in Sicilia siamo capitati in un posto incredibile, Bagheria. Vicino Palermo troviamo questa "città delle ville", dove nel Settecento sono sorte decine di residenze nobiliari, progettate secondo canoni contemporanei barocchi e con influenze esoterico-alchemiche, soprattutto nel caso di Villa Palagonia e Villa Valguarnera. E proprio in quest'ultima, diventata in questi mesi villa protagonista dell'ultimo spot Dolce & Gabbana con Sofia Loren, abbiamo alloggiato e goduto dell'ospitalità di Antea Brugnoni Alliata di Villafranca e di suo marito, l'italo-scozzese Marco Kinloch Herbertson. A loro abbiamo chiesto di svelarci la ricetta di questa accoglienza, cosmopolita e siciliana insieme. Come accogliete gli ospiti di Villa Valguarnera? Può sembrare strano ma continuiamo ad accogliere tutti allo stesso modo da trecento anni a questa parte, ovviamente con le innovazioni e i mutamenti che le varie epoche hanno comportato. Nel Settecento, ogni colazione o pranzo era una pièce teatrale, tanto che una cosiddetta stanza da pranzo non era neanche prevista nella villa. Si mangiava dove si desiderava quel giorno, spostandosi anche per i vari pasti giornalieri, accogliendo sia gli amici del luogo che i viaggiatori, provenienti da tutto il mondo, del cosiddetto Gran Tour. Tavoli e tavolini venivano trasportati ed imbanditi a secondo del numero dei commensali, scegliendo la stanza più esposta al sole e adatta al tipo di cibo offerto. Anche noi manteniamo questo spirito itinerante, anche se adesso abbiamo una camera da pranzo. 15 Poi il Gelo di Pomodoro, una variante del gelo di melone in stile continentale , perfetto per l'aperitivo. Condite la passata di pomodoro come se stesse facendo un Virgin Mary, cioè con salsa Worcester, tabasco, limone, pepe e sale. Assaggiate per controllare il sapore. Scaldate sul fuoco e aggiungete un cucchiaio di agar agar per ogni litro di liquido. Portate a ebollizione, poi versate in uno stampo e lasciate raffreddare. Capovolgete pochi minuti prima di servire e accompagnate con ricotta o scaglie di tuma fresca (formaggio fresco). Visto che le quantità indicative, dopo l'ebollizione fate una piccola prova della gelificazione su un piattino. Se dopo pochi minuti l'agar agar non ha fatto effetto riscaldate nuovamente il composto e aumentate la dose di agar agar. Infine il dolce a cucchiaio siciliano per eccellenza, secondo la ricetta del Duca di Salaparuta: il Gelo di Melone (Anguria) Tanti se vanno via portando con sé i prodotti che facciamo, come il miele delle nostre api e spesso poi ritornano con parenti e amici per una vacanza più lunga, alloggiando negli appartamenti che affittiamo. Anche se ogni appartamento ha cucina, salotto proprio e parte privata di giardino, gli ospiti che soggiornano più giorni diventano inevitabilmente parte della famiglia e ognuno trova il suo modo di vivere la villa: l'architetto ci chiede di potere ritirarsi sulla Montagnola, una collina interna al parco e parte del progetto architettonico e esoterico della dimora, lo sportivo fa jogging sul lungo viale di accesso, i bambini finiscono inevitabilmente a giocare con le nostre figlie e sul grande prato del cortile centrale, i bibliofili prendono in prestito libri dalla biblioteca di casa e spesso ne lasciano in dono altri. Da qualche mese abbiamo inaugurato il Cosmorama, un percorso museale del viale e dei giardini proiezioni multimediali di immagini e "fantasmi" che raccontano il territorio di Bagheria dal '700 a oggi. La prossima apertura Cosmorama è prevista per Pasqua. Aiutiamo anche gli ospiti ad organizzare la loro permanenza in Sicilia, suggerendo posti dove pernottare e siti turistici da visitare. La soddisfazione più grande? Veder tornare le persone di anno in anno. di Elisa Poli Prendete un'anguria matura e profumata, svuotatela e mettete tutta la polpa a macerare una notte in frigorifero con abbondanti fiori freschi di gelsomino, preferibilmente raccolti al tramonto quando sono più profumati. Il giorno dopo togliete i fiori di gelsomino, scaldate tutta la polpa su fuoco medio insieme a 70 g di amido di grano per ogni kg di polpa. Mescolate fino a ebollizione e fino a che il composto risulti cremoso e leggermente rosato. Togliete dal fuoco e versate nel piatto da portata. Una volta freddo decorate con scaglie di cioccolato, pezzettini di pistacchio e con qualche fiore di gelsomino. Che servizi offrite a Villa Valguarnera? Non abbiamo mai il tempo di sentirci soli: ogni giorno accogliamo un turista, un appassionato di cucina o un ricercatore, provenienti da qualche parte del mondo. Riceviamo anche gruppi di viaggiatori che trascorrono qualche ora con noi per visitare la casa, il parco e per mangiare insieme. Catania 5 febb 2016 – S.Agata in Via Etnea 16 *http://www.britishmuseum.org/whats_on/exhib itions/sicily.aspx La prima mostra del Regno Unito interamente dedicata all'arte siciliana. Tra queste una moneta (dalla forma curiosamente simile a quella dei 20p britannici) coniata da Ruggero II nel 1138, la prima moneta a usare i numeri arabici. “Ci siamo concentrati su periodi della storia che il pubblico non conosce molto - ha detto il curatore Dirk Booms - pochi sanno che i normanni arrivarono in Sicilia nel 1061, prima che conquistassero l' Inghilterra, e che nel 1091 l' intera isola era nelle loro mani”. Il British Museum di Londra dedica alla Sicilia e alla sua storia pluri-millenaria una nuova esibizione dal 21 Aprile al 14 Agosto 2016. L’esibizione del British Museum sulla Sicilia sarà anche l’occasione per portare a Londra la Sicilia moderna. Nell’arco dei 4 mesi di apertura della mostra sono previsti numerosi eventi a tema, come ad esempio corsi di cucina siciliana, mentre nel Great Court del British Museum si ascolterà la musica dell’isola. Gli ingressi possono essere acquistati in prevendita sul sito del museo. Il costo è di £10 La maschera ghignante di Mozia La mostra,dal titolo “Sicily:Culture and Conquest” è stata realizzata in collaborazione con la Regione Siciliana e con lo sponsor Julius Bear, ed è la prima mostra di sempre in UK interamente dedicata alla Sicilia. Ad attrarre i curatori del British Museum è stata la straordinaria qualità e varietà della produzione artistica siciliana. Nell’arco di oltre 4,000 anni Fenici, Greci, Romani, Bizantini, Arabi e Normanni si sono alternati nell’isola, creando, come scrive il British nel presentare la mostra “un’identità culturale diversa da qualsiasi altra“. L’esibizione coprirà l’intero arco di storia della Sicilia, con un focus particolare su due periodi: quello Greco e quello Normanno (11-13mo secolo). Lo farà presentando oltre 200 oggetti e opere d’arte. Tra questi vi sono oggetti della collezione permanente del British Museum insieme a opere in prestito da musei di tutto il mondo, dal Metropolitan di New York al Bodleain di Oxford, insieme ad altre provenienti dalla Sicilia. L’annuncio della mostra è stato dato dal British Museum su Twitter (con l’hashtag #SicilyExhibition) e su Periscope,* con una diretta video nel quale i curatori della mostra hanno presentato alcune delle opere incluse nella mostra. Foto gentilmente concesse dal British Museum 17 La fava larga di Leonforte UN DRAMMA IN QUATTRO DI’ In passato la fava veniva usata come pianta migliorativa attraverso un metodo efficace e naturale: il sovescio. In sostanza si coltiva un vegetale non per ottenerne cibo o altri prodotti derivati ma per interrarlo e concimare così la terra per la coltura successiva. La fava, in particolare, arricchisce il terreno di azoto. Come cibo è un'importante fonte di sali minerali e proteine. Veniva definita "la carne dei poveri" ed ha realmente sostituito la carne nelle tavole di moltissime persone che non potevano permettersi di acquistarla o quando non vi era possibilità di reperirla. Inoltre nelle fave fresche è presente un aminoacido chiamato L-dopa che pare abbia la proprietà di alzare la concentrazione di dopamina nel cervello. Il che la renderebbe anche un antidepressivo naturale. La fava larga di Leonforte (località in provincia di Enna) viene utilizzata sia fresca che essiccata ed ha un seme dalle grandi dimensioni. Il seme più grande tra le varietà italiane, a quanto pare. La sua coltivazione è ancora completamente manuale. Sono poco farinose, si cuociono facilmente (a Leonforte dicono che sono cucivuli) e non necessitano di un lungo ammollo pre-cottura. La fava larga di Leonforte è un presidio Slow Food. Ho avuto il piacere di assistere nella Sala dei Cattivi Maestri al divertimento teatrale di Antonio Salieri “ Prima la musica, poi le parole”, su libretto di G. B. Casti. L’opera fu commissionata dall’Imperatore Giuseppe II e rappresentata per la prima volta il 7 febbraio 1786 nel giardino d'inverno del castello di Schönbrunn di Vienna, al fine di raffrontare l’Opera buffa italiana con il Singspiel tedesco, rappresentato dal “Der Schauspieldirektor” di Mozart. Tipico esempio del filone settecentesco del “teatro nel teatro”, “Prima la musica, poi le parole” mette in scena i preparativi per l’allestimento di un’opera in soli quattro giorni, fondando la propria comicità sugli elementi tipici del genere: litigi tra librettista e compositore, capricci delle primedonne e strapotere della musica a discapito della coerenza drammaturgica, resi ancora più vivaci dalle taglienti allusioni alla società dell’epoca e dalla briosa musica del compositore italiano. Ricordiamo che il genere musicale nasce a Napoli nella prima metà del XVIII secolo come opera comica e da lì migrò a Roma e nel nord Italia. Compositori famosi, compreso Mozart, Rossini ed altri ancora, diedero un largo contributo allo sviluppo di questo genere operistico. La scelta dei recitativi in forma parlata rende lo spettacolo particolarmente fruibile da chiunque grazie a scambi dialettici intellegibili. 18 ( riportiamo il testo del gran finale cantato ) L'accompagnamento strumentale è realizzato dal vivo sotto la direzione del M° Angelo Mulé, che è anche regista coreografo e scenografo dello spettacolo. ELEONORA E pur quell'orgoglio diverte, mi piace; quell'estro vivace diletto mi dà . TONINA (facendo un gran respiro) Ho vinto l'impegno; or altro non voglio: depongo lo sdegno, son tutta bontà . POETA E MAESTRO Se il riso, se il gioco successe a quel foco, si stringa costante sincera amistà . ELEONORA E TONINA Il vate, il maestro risveglino l'estro. Grande spettacolo ad opera di tutti gli attori/cantanti, con particolare rilievo alle graziose figure femminili e abili cantanti Eleonora e Tonina. L'opera Buffa viene resa godibile, attraverso la regia superba, che, alleggerisce la parte cantabile favorendo il recitativo. L’allestimento di una scenografia leggera ma di ampio colore, ha dato spazio agli interpreti tutti che hanno manifestato un impegno concreto, spendendosi con entusiasmo. Tale impegno è stato immediatamente percepito e compreso dalla platea studentesca, che ha partecipato con attenzione. Abbiamo raccolto alcuni pareri fra gli studenti del Liceo “G.Chiabrera” che hanno partecipato, in un tutto esaurito, con rara attenzione e tutti hanno espresso il loro apprezzamento, confermando non solo di essersi divertiti, ma riconoscendo la bella opportunità di approccio ad un genere musicale/teatrale, per loro, abbastanza insolito. POETA E MAESTRO La seria, la buffa non faccian baruffa. TUTTI Si stringa costante sincera amistà . POETA Or se tutti son d'accordo, se nessuno è muto o sordo, se la musica è già pronta, se il libretto non si conta, se il vestiario, se scenario, se gli attori, i sonatori, se ogni cosa in somma è lesta, se chi paga e dà la festa vuole ed ordina così, sarà cosa facilissima di far l'opra in quattro dì. Esperimento riuscito quindi caro Maestro. Prosequitur..... MAESTRO Grazie al ciel, che la ragione alla fin l'ostinazione d'un poeta convertì TUTTI Lieto intanto applauda il canto allo stuolo spettator. Astro in ciel propizio splenda di contenti annunziator, ch'efficaci i voti renda e il desio del nostro cor. 19 APPUNTAMENTI DA NON PERDERE Martedi 8 marzo 2016 ore 18,30 Giornata Internazione della Donna presso il CASINO di Lettura Via Paleocapa 4-4 L’amica scrittrice Monica CASTELLO leggerà il suo monologo teatrale “DIARIO SENTIMENTALE DI UN STR..” Sabato 12 marzo 2016,ore 16,30-Sala VASE’ Società Operaia Cattolica N.S.di Misericordia-Via Famagosta,4-Savona Anna e Giuse CERVETTO presentano il video amatoriale-diario di viaggio INDIA e NEPAL Le immagini televisive del terremoto nel NEPAL ci hanno sconvolto in modo particolare in primis per il tragico tributo di migliaia di vite umane e poi per la distruzione degli straordinari centri storici di KATMANDU e delle altre città del Paese che abbiamo ammirato nel lontano viaggio del 2000. Dell’immenso subcontinente indiano in quell’occasione abbiamo visitato DELHI, AGRA con il TAJ MAHAL e alcuni siti della Regione del RAJASTAN. Santuzzo 20