Giovanni Battista Montini (1897-1978), Arcivescovo e Papa.
Quando in gennaio del 1957 sono tornato alle Acli
di Milano, la nomea di Montini “Arcivescovo dei
lavoratori” si era di molto appannata. A quel
tempo lui aveva frequenti incontri con banchieri e
industriati da mettere nel “Comitato per le Nuove
Chiese”, fatto presiedere da Enrico Mattei,
Presidente dell’Eni, passato per il più grande
corruttore della prima Repubblica (a fin di bene,
s’intende). E devo dire che un “incontro”, un mio
colloquio con Montini non c’è mai stato: soltanto
brevi incontri, e sempre un parlaci a distanza.
Don Don Ezio Orsini, assistente delle ACLI milanesi, poi mons. Cesare Pagani,
chiamo da Montini e reggere la “Pastorale sociale”, o del lavoro, presso la Curia
ambrosiana, mi dicevano che era interessato dei miei scritti su “La Guida”.
Sapeva che redigevo le relazioni congressuali e per i convegni annuali, le
dispense per gli incontri serali e i corsi di formazione dei giovani lavorati.
Quanto in agosto veniva a Monguzzo (in quel di Erba), in visita ai corsi
residenziali, non mancava di dirmi: io e lei ci dobbiamo parlare. E io: va bene
Eminenza, basta che mi chiami. Questo per anni, ma non mi ha mai ricevuto.
Eppure avevamo tante cose da dirci…I monsignori di Curia lo chiamavano “el
nostrer cagadubi”: tanto carico di dubbi da defecarli. Papa Giovanni aveva fatto
osservare: non ride mai. Durante il suo pontificato è stato qualificato come
Paolo mesto, invece di sesto.
E come avrebbe potuto ridere? Questo l’ho capito da poco, quando nel 2007 ho
potuto leggere il libro di Emma Fattorini “Pio XI, Hitler e Mussolini”, a pag. 214:
“lo stesso Tardini alle ore 12,40 del 15 febbraio scrive: Mi telefona Montini. Gli
ha telefonato il cardinale Pacelli per dare i seguenti ordini: che Monsignore
Confalonieri consegni tutto quel materiale che ha, circa il discorso che il
Santissimo Padre Pio XI aveva preparato per la adunanza dell’11 febbraio (che
Montini verrà incaricato di bruciare); che la tipografia distrugga tutto il
materiale che ha (bozze, piombi) sullo stesso discorso”.
L’anno è il 1939, il discorso l’aveva scritto di sua mano Papa Ratti, un’aperta
denuncia del pericolo fascista, forse anche del nazismo, l’adunanza era la
celebrazione decennale del 11 febbraio 1929, data della firma dei Patti del
Laterano: del Trattato, Concordato e Convenzione finanziaria. Anche una sua
enciclica contro il razzismo e l’antisemitismo, fatta predisporre dal gesuita John
La Farge nel 1938 non gli è stata mai consegnata, quindi non mai visto la luce.
Montini nel 1937, a 40 anni era già sostituto alla Segreteria di Stato in Vaticano,
suo padre era stato deputato del Partito Popolare, suo fratello Ludovico
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diventerà pure deputato e senatore della Repubblica, tutta una famiglia di
antifascisti bresciani. Ma era toccato proprio a lui di distruggere quel discorso,
finalmente “antifascista” di Pio XI°, che se almeno fosse stato reso pubblico
postumo, dopo la morte del Papa – avvenuta il 10 febbraio 1939 - avrebbe di
sicuro provocato un ripensamento in tanta gente, in tutti i Paesi dell’Europa.
Pochi mesi dopo, in settembre del 1939 scoppierà la 2^ guerra mondiale, che
farà oltre 50 milioni di morti tra militari e civili. Quegli anni tremendi lui deve
averli vissuti in uno stato di un’angoscia senza fine. Al suo posto io mi sarei
ridotto allo stato laicale e ritirato in silenzio.
Se non vado errato, in un fugace nostro incontro mi aveva confidato che nel
1936 aveva letto “Umanesimo integrale” di Jacques Maritain in edizione
francese, e raccomandato la pubblicazione anche in Italia, nel 1946. In ogni caso
era stato lui a convincere Pio XII di consentire a Achille Grandi di sottoscrivere
il “patto di unità sindacale” del giugno 1944, a seguito del quale lui stesso aveva
patrocinato il sorgere in agosto delle ACLI (alla “Minerva” in Roma), intese
come giuda della corrente sindacale cristiana in seno alla CGIL unitaria. Poi
però, pochi anni dopo, aveva accettato la rottura dell’unità sindacale nel luglio
del 1948 ad opera di Giulio Pastore, senza alcuna consultazione, manco per
telefono con la presidenza centrale delle ACLI. Vero è che il nostro Paese, a far
tempo dal secondo dopo-guerra, è sempre stato sotto tutela vaticana e
americana.
A Milano ha mostrato quanto poco fosse favorevole alla così detta “apertura a
sinistra”, osteggiando del 1958 l’elezione del demo-cristiano Luigi Granelli a
deputato, per il solo fatto che faceva parte della “sinistra di base”. Poi, come
ossessionato, anche dopo il governo Tambroni sostenuto da monarchi e missini,
con i morti di Reggio Emilia del luglio 1960, per fare da diga al centro-sinistra
aveva escogitato un assembramento diocesano di tutti i movimenti cattolici o
d’ispirazione cristiana, ponendo a capo l’amico Filippo Hazon, e formulato un
documento da far sottoscrivere a tutti i responsabili (deve stare tra le carte di
Franco Sala). Il Presidente delle ACLI milanesi del tempo era Luigi Clerici, un
“Milites Christi”, con voto di obbedienza al Vescovo. Cosi è toccato a me di
opporre il nostro rifiuto a sottoscrivere quel documento, di dire un no-non
possiamo a mons. Cesare Pagani, perchè lo riferisse all’Arcivescovo Montini, noi
fieri della nostra autonomia. Quando è diventato Papa ha nominato Assistente
ecclesiastico delle ACLI nazionali mons. Pagani, e questi di tanto in tanto era
inviato a cena in Vaticano. Da lui ho saputo che Montini ricordava ancora, quasi
ammirato quel sonoro “no” ricevuto da quei laici delle ACLI milanesi.
Poi d’improvviso, nel marzo 1967 la “Populorum progressio”, con quel “nefasto
sistema” detto del capitalismo liberista, con quella sua drammatica costatazione,
siamo “chiusi in un vicolo cieco”, con quel suo angoscioso “il mondo è malato”.
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Quante volte mi è toccato di commentarla in pubblico, oltre che nei Circoli delle
ACLI anche in alcune sezioni del PSI-UP, poi in teatro a Vercelli, alla presenza
dell’Arcivescovo Albino Mensa, e il 1° maggio pure alla scuola quadri del PCI,
che stava sulle pendici di san Luca in quel di Bologna. Questa enciclica è stata
una delle leve del sommovimento del 1967-68, l’ultimo sussulto di un mondo in
agonia.
Adesso state a sentire questa sua umanità: era la notte di Natale del 1968, lui
stava al centro siderurgico di Taranto, un evento impensabile in tutta la storia
della Chiesa, e parlava a operai, impiegati e dirigenti. “Vi parliamo col cuore. Vi
diremo una cosa semplicissima, ma piena di significato. Ed è questa: noi
facciamo fatica a parlarvi. Noi avvertiamo la difficoltà a farci capire da
voi…Vi dicevo, salutandovi, che siamo fratelli e amici: ma è poi vero in realtà?
Perché noi tutti avvertiamo questo fatto evidente: il lavoro e la religione, nel
mondo moderno, sono due cose separate, staccate, tante volte anche opposte”.
Lui aveva di queste sue sortite improvvise, ma non tanto. Forse deve essergli
rimasto impresso il canto dei nostri giovani delle ACLI: “Gesù, se un giorno tu
ritorni, vieni a nascere nell’officina”. E anche questo suo modo di dire, davvero
a cuore aperto, confessando con molto candore tutta la sua difficoltà di parlare
con i lavoratori. Ma benedetto uomo, proprio di questo avremmo dovuto parlare
nei nostri incontri a Milano!
Mi sarei permesso si spiegarli che il lavoro e il lavorare è una cosa seria, vitale,
che costa fatica, ma che alla fine poco e tanto ripaga. La religione no, è una
nostra pensata, molto umana, per darci una qualche consolazione, per farci
sperare nell’aldilà (ma a quel tempo questo non mi era chiaro). E però, giusto a
metà del 1800, contro il socialismo umanitario, quello del mutuo soccorso, delle
prime leghe contadine e operaie, delle prime cooperative si era levata la
condanna della chiesa di Cristo, soltanto per difendere il suo avere e potere.
Allora sono stati divisi e contrapposti al loro interno i lavatori e i ceti popolari,
allora aveva iniziato a consumarsi l’apostasia - rifiuto di credere - il grande
scisma del mondo moderno, quello della classe operaia e dei ceti popolari dalla
religione cristiana. Anche di questo, e del disastro provocato da quella divisione
e contrapposizione tra i lavoratori e la povera gente, lui ormai si era reso conto, e
penso che fosse proprio questo il motivo dei nostri sempre fugaci incontri
milanesi: lui conosceva le mie vicende ferraresi, e quanto ancora mi davo da fare
per la riunificazione dei lavoratori. Penso che il tormento di questo uomo sta
tutto il quel suo caparbio credere contro ogni credere, in quel suo “credo”, nella
solenne professione di fede del 30 giugno 1968: “Noi crediamo che in Adamo
tutti hanno peccato…che ciascun uomo nasce nel peccato”. Tutta la disumanità
del cristianesimo tornava a farla sua.
Sul finire della sua vita sta quella lettera del 21 aprile 1978: “Io scrivo a voi,
uomini delle Brigate Rosse”, per perorare la liberazione dell’amico Aldo Moro.
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Con quel “Io non vi conosco”, che richiamava troppo quel “non conosco quel
uomo” di Pietro, quando nel cortile del Sinedrio aveva rinnegato Gesù di Nazaret
(Mt. 26, 72). Forse non di persona li aveva conosciuti, ma alcuni di loro erano
passati dalla recita di “Compieta” (la conclusione della liturgia delle Ore), alle 5
della sera nella chiesa di Santo Stefano a Milano, con “gioventù operaia”,
filiazione di “gioventù studentesca” (tutte creature di don Giussani), al libretto
rosso di Mao, prima di darsi alla lotta armata. Dopo il ‘68 alcuni di questi sono
venuti da me per chiedere dei consigli, inascoltati: quindi io gli avevo conosciuti.
Poi, il 13 maggio 1978 quel lugubre rito funebre in San Giovanni in Laterano a
Roma, alla presenza di tutte le autorità dello Stato, ma senza le spoglie del caro
amico. Un “De profundis” tragico, recitato al capezzale della prima Repubblica.
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Giovanni Battista Montini (1897