Domenica
La
di
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
Repubblica
l’inchiesta
Cina, il revival di Confucio
FEDERICO RAMPINI
il racconto
La leggenda del poker sfonda in tv
VITTORIO ZUCCONI
Dalle Twin Towers
a Ground Zero.
Quattro anni dopo,
due scrittori newyorkesi
ricordano e giudicano
NATHAN ENGLANDER
ALEXANDER STILLE
‘‘
‘‘
Se la città ha perso qualcosa,
non è l’energia ma una incrostazione
luminescente e fallace
che ne adulterava la sostanza
e attirava chi cercava facili mode
athan Englander, lo scrittore newyorkese
autore di “Per alleviare insopportabili impulsi”, ricorda benissimo l’11 settembre
2001: la paura per sé e per gli amici, le comunicazioni interrotte, il bisogno di ritrovarsi,
riflettere e reagire. Ma non aveva mai trovato la forza di tornare downtown e di guardare dentro il cratere di Ground Zero. Lo ha fatto con noi, quattro anni dopo. E questo è il suo racconto.
nelle pagine successive il servizio di ANTONIO MONDA
N
Il significato della tragedia per noi
stava nella civilissima risposta
a un atto di estrema barbarie
La città unita, dolente ma priva
di desiderio di vendetta
lexander Stille, giornalista e scrittore, ha tenuto su “Repubblica” un “Diario da Manhattan” nelle settimane successive all’attacco
terroristico dell’11 settembre 2001, registrando le reazioni della metropoli e dei suoi abitanti al colpo subito. A quattro anni di distanza riprende i temi di quel diario, racconta il profondo cambiamento nell’atteggiamento dell’America e degli americani e ne analizza le ragioni.
nelle pagine successive il servizio di ALEXANDER STILLE
A
FOTO GARY SUSON/GROUNDZEROMUSEUMWORKSHOP.COM
11 settembre
i luoghi
Bangalore, il giardino dell’hi-tech
RAIMONDO BULTRINI e RENATA PISU
cultura
Penguin, i settant’anni del tascabile
ENRICO FRANCESCHINI e JOHN LLOYD
spettacoli
Il trionfo dell’“one man show”
RODOLFO DI GIAMMARCO e MICHELE SERRA
l’incontro
Giorgio Faletti, anatomia di un mutante
SILVANA MAZZOCCHI
24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
la copertina
11 settembre
Nell’anniversario dell’attacco alle torri gemelle due scrittori
che vivono a New York misurano la profondità e l’effetto
sulla vita della gente di quella cicatrice. Nathan Englander
è tornato con noi, per la prima volta, al cratere di Ground Zero
Alexander Stille racconta come la forza e l’unità degli americani
dopo la tragedia siano state dissipate dalla politica
“Quel dolore mi ha arricchito”
«U
“Una mia cara amica
abitava qui, di fronte
alle Twin Towers
Ha visto le esplosioni,
i crolli, la gente
che si lanciava
dalle finestre. Si è
salvata ma la sua vita
ne è stata segnata,
Repubblica Nazionale 24 11/09/2005
come quella
di ogni newyorkese”
ANTONIO MONDA
NEW YORK
na mia cara amica
abitava in questo
palazzo, di fronte
alle Twin Towers,
ed ha visto le esplosioni, i crolli e la gente che si lanciava dalle finestre da meno
di cento metri. È riuscita a salvarsi, ma
la sua vita ne è stata segnata, come del
resto quella di ogni newyorkese. Quando ho saputo degli attacchi terroristici
nella mia casa dell’Upper West Side ho
pregato che non le fosse successo nulla.
Ma poi, inevitabilmente, ho cominciato a pensare a me stesso. Ero tornato a
vivere a New York da pochissimi giorni
dopo cinque anni in Israele, dove mi ero
abituato a convivere con il terrorismo.
Pensai che evidentemente era scritto
che dovessi morire in maniera violenta,
e mi venne anche in mente che fino all’ultimo momento avevo deciso di affittare un appartamento proprio accanto
alle torri, ma che fortunatamente non
avevo avuto i soldi sufficienti. La notizia
dell’attacco mi arrivò dalla televisione,
e dopo un momento di incredulità decisi di andare in un diner sulla
Broadway che è un punto di ritrovo del
mio gruppo di amici più cari. Non c’era
alcun modo di comunicare con il telefono o con le e mail, ed ho pensato che
anche gli altri avrebbero fatto la stessa
cosa. Così è stato, ma da quel momento
è iniziata l’attesa angosciante delle persone che abitavano più lontane e, soprattutto, di quelle che vivevano in
prossimità del World Trade Center. Sono passate molte ore prima che arrivas-
sero tutti: c’era chi aveva attraversato
l’intera città a piedi, e chi portava con sé
delle testimonianze terribili».
* * *
È la prima volta, da quattro anni, che
Nathan Englander ritorna a Ground
Zero, e appare disorientato e commosso. È una splendida mattinata di sole,
terribilmente simile a quella dell’11
settembre 2001. Il silenzio assoluto che
separa la zona dalla frenesia della vicina Wall street è rotto soltanto da un uomo con una lunga barba seduto per terra che suona con il flauto “John
Brown’s body”. Englander riconosce la
melodia patriottica al momento del
“Glory Glory Hallelujah” e fissa l’uomo
nel volto, cercando di capire se ci sia
qualcosa di doloroso e sentito in quell’omaggio, o si tratti invece di un suonatore ambulante che ha individuato
una buona opportunità per recuperare qualche spicciolo.
* * *
«Ritornando a Ground Zero in una
giornata così luminosa, mi torna in
mente vivissimo il contrasto tra la crudele bellezza atmosferica di quella mattina e il fumo che si è alzato dal World
Trade Center. Per tutti questi anni ho
pensato che l’impatto del ritorno sarebbe stato troppo forte, e forse nel mio inconscio ho avuto paura. Sono stato
completamente rapito dal romanzo
che ho appena completato, ma forse è
stato un alibi. Mi è capitato spesso di venire downtown, ma mi sono sempre tenuto alla larga: pochi mesi fa Colum Mc
Cann mi ha invitato ad una celebrazione joyciana in un pub irlandese chiamato “Ulysses”. Si trova in una delle
strade più antiche e caratteristiche del-
la città, a poche centinaia di metri da
qui, e si era pensato di concludere la
giornata facendo una visita a Ground
Zero. Non so se attribuirlo al fascino
delle letture pubbliche di Joyce, alla birra offerta generosamente dal pub o alla
volontà inconscia di non affrontare
l’assenza più immanente di New York,
ma anche in quella occasione ho preferito tornarmene a casa. Oggi provo sgomento, angoscia, sconcerto: mi colpisce la vastità enorme di questo spazio,
la presenza di alcune pubblicità ed il fatto che manchino perfino le fondamenta di quelle costruzioni gigantesche che
c’erano fino a quattro anni fa. Non c’è
nulla di più tragico di un’assenza, e da
questo punto di vista il colpo che è stato inflitto a questa città è molto diverso
da quello che vivono costantemente le
città israeliane: un attentato terroristico in un luogo come Tel Aviv lascia infatti il segno di quello che è stato colpito, come se le rovine rappresentassero
un memento. Qui invece è come se
quello che c’è stato sia scomparso per
sempre: è un diverso tipo di tragicità,
ma anche di impatto sulla psiche degli
abitanti. Non possiamo dimenticare
quello che il World Trade Center ha
rappresentato sin dall’edificazione per
New York e per il mondo intero».
* * *
Nelle immediate vicinanze della
grande area recintata non c’è nessuno
che venda ricordi o esponga bancarelle,
ma basta allontanarsi di cento metri per
trovare souvenir di ogni tipo: fotografie
degli attacchi terroristici, magliette dei
pompieri, bocce di vetro con la neve finta che scende sulle due torri e perfino degli ologrammi con il World Trade Cen-
ter che scompare da New York a seconda del punto di osservazione.
* * *
«Sono tanti gli avvenimenti e le tragedie degli ultimi anni che sembra passata un’eternità: a volte mi chiedo come
sia cambiata New York, e chi non vive in
città nota in primo luogo la mancanza
della torri. Ovviamente anche per noi è
impossibile non notarlo, anche se ad
esempio io non ero mai salito in cima,
come non sono mai stato sull’Empire
State Building. Se per assurdo riuscissimo ad astrarci per un attimo dall’orrore
e dall’abominio che ha rappresentato
quel giorno, potremmo affermare che le
torri non erano tra le cose più belle di
New York. Anzi. Tuttavia questo è un atteggiamento cinico e lontano dallo spirito newyorkese. Io preferisco celebrare
qualcosa che nasce proprio da quel dolore: sono profondamente orgoglioso
del modo in cui la città ha saputo rimettersi in piedi e riconquistare la propria
vita, non solo in termini di consumo.
Credo che abbia dimostrato un carattere straordinario sin dai primissimi giorni, e sono convinto che abbia spiazzato,
se non addirittura sconfitto, coloro che
hanno perpetrato questa mostruosità.
Chi ha pensato di mettere in ginocchio
la città più vitale del mondo si trova oggi
di fronte ad una metropoli che ha saputo far rimarginare la propria ferita ed ha
riconquistato la propria fondamentale
centralità. Molti parlano di un atteggiamento più gentile, e forse anche più
umano dei newyorkesi. Io penso che lo
spirito della città si sia in realtà irrobustito, perdendo un po’ di caratteristiche
di superficialità ed arroganza. Se si è perso qualcosa, non è l’energia, che anzi ha
Le vittime
Sono più di mille le vittime
di cui non è stato
più possibile recuperare,
tra le macerie, il corpo
John Viggiano
Mitties De Champlain
Capitano in pensione dei pompieri di NewYork,
ha perso due figli, uno poliziotto e l’altro vigile del fuoco:
ha in mano la bandiera in cui hanno avvolto i loro corpi
Pastore della chiesa episcopale e professoressa
di teologia, ha offerto conforto spirituale ai soccorritori
E ha benedetto ciò che restava dei corpi delle vittime
I ricordi scippati
dell’America
ALEXANDER STILLE
È
NEW YORK
impossibile scindere l’anniversario dell’11 settembre dal deteriorarsi della situazione in Iraq e dall’alluvione che ha inghiottito New Orleans — un nuovo disastro
di pari magnitudine che può definire la seconda amministrazione Bush come l’11 settembre ha definito la prima. Una delle cose che più mi disturbano dell’amministrazione Bush è che ci ha scippato l’11 settembre e ne ha
corrotto il significato usandolo come strumento politico
a giustificazione della sua invasione dell’Iraq.
Il significato originario dell’11 settembre per molti
newyorkesi stava nella civilissima risposta ad un atto di
estrema barbarie. La città unita al di là delle barriere di
razza, classe e credo politico nella solidarietà reciproca,
con grande dignità, indignata e dolente, ma priva di desiderio di vendetta. Emersero un nuovo senso di comunità e la determinazione a difendere una civiltà aperta e
tollerante contro il cieco odio religioso.
Sfruttando cinicamente l’11 settembre al fine di giustificare una guerra invocata dai suoi fautori già ben prima
dell’attacco alle torri gemelle, l’amministrazione Bush
politicizzò immediatamente la tragedia. I vertici governativi incoraggiarono gli americani a credere all’esistenza di legami tra l’Iraq di Saddam Hussein e gli attacchi
dell’11 settembre, pur essendo perfettamente consapevoli della loro inconsistenza.
Ci è toccato sopportare che la convenzione repubblicana
si tenesse a New York a ridosso del terzo anniversario dell’11
settembre per sfruttare politicamente fino in fondo la tragedia, anche se i delegati repubblicani vennero isolati completamente dal contatto con noi cittadini, in vasta maggioranza contrari alla guerra dichiarata in nostro nome.
Ora ci stiamo preparando a subire una nuova tornata
di propaganda all’insegna dell’11 settembre. Lo staff di
Bush comunica che il presidente ha intenzione di far ri-
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25
IL FOTOGRAFO E IL MUSEO
Tre giorni fa, l’8 settembre, a poco meno di quattro anni
dalla tragedia, ha aperto a Manhattan il Ground Zero
Museum Workshop. È esposta qui The Ricovery,
la mostra fotografica permanente di Gary Marlon Suson,
fotografo ufficiale del corpo dei vigili del fuoco di New York,
che ha potuto documentare per otto mesi il lavoro svolto
dalle unità di recupero e soccorso tra le macerie delle Twin
Towers. Un museo unico nel suo genere il cui obiettivo,
spiega Suson, «è mostrare a tutti Ground Zero attraverso
gli occhi dei soccorritori».
Anche geograficamente ha una propria
unicità: un’isola in cui non si vive il mare ma che dal mare ha visto arrivare la
propria vita e la propria ricchezza. Ma
anche una città su un fiume, che specie
negli ultimi anni è stato rivalutato, apprezzato e reso parte vitale dell’abitato.
New York ha il pregio raro e ammirevole di essere disincantata senza diventare cinica, civile senza essere ipocrita.
Ricordo il giorno in cui a Los Angeles si
scatenarono le ribellioni dopo il verdetto di assoluzione per i poliziotti che
avevano malmenato Rodney King. I
media generarono un crescendo di
tensione allertando la popolazione circa possibili scoppi di violenza. Vivevo
nella zona di confine con un quartiere
dove abitano gli afro-americani ed i latini, e dopo un momento di panico mi
resi conto che non sarebbe successo
assolutamente nulla. New York rappresenta una scelta esistenziale basata
su una interculturalità che la gente è disposta a difendere con il sacrificio. La
zona della downtown, ed in particolare
quest’area, ha simboleggiato sin dall’inizio il prometeismo, ed oggi fa impressione vedere i cespugli d’erba cresciuti sul luogo dove c’erano le fondamenta delle torri gemelle, la grande
croce costruita con l’acciaio delle strutture dei palazzi, ed una strada che è stata ribattezzata “Canyon of Heroes”. I
conflitti ed il dolore della città rappresentano l’altra faccia della medaglia
dell’energia che nasce dalla fusione costante di culture e tradizioni. Il progetto di ricostruzione ci darà tra le altre cose un grattacielo molto più alto delle
torri, ma io sono colpito in egual misura dalle polemiche, come quella delle
famiglie delle vittime che non vorrebbero alcun tipo di esposizione artistica
collegata ai nuovi edifici. All’interno
della grande storia newyorkese, questa
area rimarrà per sempre un luogo segnato dal dolore, che tuttavia in futuro
vedremo sotto un’altra luce: la realtà di
quanto è stato l’11 settembre è infatti
differente da quello è diventato per opposte esigenze politiche».
* * *
L’uomo con il flauto ha iniziato a suonare “This land is my land”, ed è impossibile non notare alle sue spalle una
grande bandiera americana. Englander rimane un attimo in silenzio prima
di continuare.
* * *
«Pensa ad esempio a come l’amministrazione Bush abbia fatto dell’11 settembre il motore della propria attività
politica. Io sono tra coloro che pensano
che si sia trattato di una scelta più che di
una necessità, e che ci sia stata una grave e pericolosa strumentalizzazione.
Sono cosciente del pericolo reale e terribile del terrorismo, ma dobbiamo
chiederci tutti quanto i continui allarmi
non servano a rafforzare le attuali decisioni politiche. Per ritornare alla nostra
riflessione sul luogo, le scelte dell’amministrazione finiscono per mettere
paradossalmente in secondo piano l’esatta valutazione ed il rispetto per il dolore: quanto è successo da quel momento in poi mortifica l’umanità del
momento e rischia di trasformare una
data ed un evento fatale in uno strumento... C’è dell’altro: Ground Zero è
anche un cimitero nel quale si sono dissolti migliaia di corpi. Coloro che hanno perso i propri cari non hanno nean-
che un corpo sul quale piangere o pregare, e questo a mio avviso è l’elemento
più drammatico e indelebile. Da questo
stretto punto di vista l’11 settembre ha
una valenza simile a quella dell’Olocausto: uomini e donne innocenti, uccisi
dalla furia omicida e senza neanche una
tomba. Mentre arrivavamo su questo
enorme spiazzo ho pensato al piccolo
cimitero dietro la chiesa di St. Paul, con
tombe antiche trecento anni, e al fatto
che non ci sia nulla di più grave della distruzione del passato: una scelta di violenza tipica delle dittature e di ogni regime caratterizzato dal fanatismo. Io
attribuisco un’importanza fondamentale al culto dei morti: ritengo che sia un
modo per celebrare la vita, e l’aspetto
che mi interessa maggiormente della ricostruzione di Ground Zero è proprio il
memoriale. Da un punto di vista personale ciò nasce probabilmente in reazione al fatto di essere un discendente della tribù dei Coen, e come tale non autorizzato ad entrare nei cimiteri se non in
caso di lutti di persone vicinissime.
Quando ho cominciato a pensare quale attività svolgere da grande, mi è sembrato saggio scartare immediatamente
quella di medico».
* * *
Englander finalmente sorride. Mentre
ci allontaniamo, gli faccio notare che sul
palazzo di fronte alla chiesa con il piccolo cimitero c’è una scritta che dice «beati
qui ambulant in lege Domini». Lui precede la mia domanda...
* * *
«Sono il primo a essere d’accordo, ma
c’è da intendersi su quale sia il Signore
che promulga le leggi e quale sia la loro
esatta interpretazione».
“Questo posto
è anche un cimitero
dove si sono dissolti
migliaia di corpi
Chi ha perso i suoi
cari non ha neanche
un corpo su cui
piangere o pregare
In ciò l’11 settembre
ha una valenza
simile all’Olocausto”
FOTO GARY SUSON/GROUNDZEROMUSEUMWORKSHOP.COM
Repubblica Nazionale 25 11/09/2005
dimostrato la propria concretezza ed
autenticità, ma una incrostazione luminescente e fallace che ne adulterava la
sostanza e attirava chi cercava facili mode. E questo lo vedo anche su me stesso:
ritengo di aver acquisito con maggior
coscienza un senso di vulnerabilità ed
una curiosa e dolente collocazione nella storia. Posso dire di aver compreso finalmente quello che per la generazione
dei nostri genitori significava la domanda: “Dove eri nel momento in cui hanno
assassinato Kennedy”? Con la differenza che gli attentati dell’11 settembre
hanno una dimensione più vasta, tragica e universale».
* * *
La mattinata di sole ha attirato una
grande folla nella zona che affaccia sul
Battery Park, e, volgendo le spalle a
Ground Zero, la confusione dei turisti
mescolati con gli agenti di borsa regala
per un attimo l’illusione che l’11 settembre non sia mai avvenuto, ma l’area
di Wall Street è separata da una tripla
fila di transenne metalliche. Englander
ne rimane molto colpito...
* * *
«La vita della città adesso è segnata
da controlli continui, ma contesto chi
parla di una paura dominante e incontrollata: certamente la presenza dei
soldati fa impressione, ma credo che il
segno caratterizzante di questo periodo esistenziale sia semmai la cautela,
l’attenzione, persino il rispetto per la
fragilità dell’esistenza. Questo è dovuto a quello che è stata New York nella
sua essenza sin dalla fondazione: una
città unica, dove ognuno porta la propria esperienza e la propria storia, e dove la storia passa e spesso si realizza.
I soccorsi
Più di 400 poliziotti e pompieri
sono morti nelle operazioni
di soccorso iniziate
subito dopo il primo impatto
Lee Ielpi
Padre Christopher Keenan
Vigile del fuoco in pensione, stringe fra le braccia
l’elmetto di suo figlio Jonathan, anche lui pompiere
morto nelle operazioni di soccorso l’11 settembre
Ha celebrato la messa sotto una grande croce
di acciaio formatasi casualmente nel crollo
delle torri del World Trade Center
ferimento agli attacchi in un discorso radiofonico precedente all’anniversario per rammentare all’opinione pubblica americana il motivo per cui dobbiamo mantenere
ferma la nostra posizione in Iraq. Donald Rumsfeld ha in
programma una Marcia per la Libertà che partirà dal Pentagono, luogo del secondo attacco dell’11 settembre, per
terminare al Washington Mall con una festa al ritmo di
country music, un altro modo di sfruttare la tragedia per
sostenere la politica del governo sulla guerra.
«E se dicessimo a Rumsfeld di lasciare il ricordo delle vittime dell’11 settembre alle famiglie?» ha detto al New York Daily
News Monica Gabrielle, che ha perso il marito negli attacchi.
L’alluvione di New Orleans ha colpito gli Stati Uniti proprio nel momento in cui la maggioranza degli americani
era seriamente delusa dalla politica del governo in Iraq.
Uno alla volta i pilastri su cui poggiava sono crollati: niente armi di distruzione di massa, nessun legame significativo con Al Qaeda. Altro che «ci accoglieranno come libe-
ratori», i costi dell’occupazione saranno compensati dal
petrolio iracheno, «missione compiuta». Ormai la maggioranza degli americani non crede più che valesse la pena invadere l’Iraq, hanno l’impressione che l’intervento
abbia diminuito la nostra sicurezza invece di aumentarla,
e che ci abbia reso più deboli nella guerra al terrorismo.
La reazione iniziale del governo, lenta e apatica, alla tragedia di New Orleans ha immediatamente ricordato a molti qui
gli errori compiuti in Iraq. «Bagdad sott’acqua», ecco come
un ex senatore della Louisiana ha descritto New Orleans. Il
presidente ha ripetuto che nessuno si aspettava che le dighe
cedessero, quando una gran quantità di rapporti avevano dato l’allarme proprio contro questa evenienza. Il caos e i saccheggi di New Orleans facevano venire in mente la Bagdad
post-invasione, e le radici sono le stesse: truppe insufficienti, risorse insufficienti, preparazione insufficiente.
Quello che fa la differenza, enorme, tra i due eventi, è che
mentre nel 2001 gli americani erano disposti, a seguito del-
la tragedia, a concedere al presidente Bush il massimo del
beneficio del dubbio, a quattro anni di distanza non sono
più disposti a farlo. Sono lesti a individuare le colpe del governo federale perché si sentono usati e imbrogliati dall’Iraq. Persino tra i più convinti sostenitori del presidente c’è
chi dice: «Il governo federale è mancato all’appello».
L’uragano e l’alluvione che ha lasciato la componente più
povera (e nella stragrande maggioranza nera) della popolazione di New Orleans in balìa della morte e della tragedia
hanno messo a nudo una realtà più vasta dell’amministrazione Bush. Il divario tra ricchi e poveri si è drammaticamente allargato. Agli aumentati profitti delle imprese si contrappone una diminuzione dei salari. Abbiamo abolito la patrimoniale, ma il livello di povertà è cresciuto. Milioni di
americani in più sono privi di assicurazione sanitaria.
L’11 settembre ha unito la nazione, il presidente Bush
l’ha lacerata.
(Traduzione di Emilia Benghi)
26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
l’inchiesta
Svolta in Cina
Il filosofo vissuto cinquecento anni prima di Cristo,
dopo le persecuzioni patite al tempo del maoismo
e della rivoluzione culturale, è al centro di una riscoperta
e di un rilancio incoraggiati dalla nomenklatura comunista
Per contrapporre un “modello asiatico” all’invadenza
culturale dell’Occidente ma anche per puntellare il regime
FOTO CORBIS
Pechino, il revival di Confucio
I
FEDERICO RAMPINI
PECHINO
Repubblica Nazionale 26 11/09/2005
l vialetto che porta alla scuola Yidan è
stretto e accidentato, si cammina in fila indiana tra la biancheria appesa ad asciugare. Nel quartiere, vicino all’ingresso occidentale dell’università di Pechino, pochi ne hanno sentito parlare. Solo un poliziotto di guardia
ai giardini pubblici Chengze sa indicare come arrivarci. Da fuori la scuola sembra una casupola
popolare come ce ne sono tante nei vicoli della
città vecchia, con davanti qualche aiuola polverosa e trascurata. Dentro lo spazio è modesto, tre
stanze su un solo piano. I libri sugli scaffali sono
regali di docenti della vicina università. Gli insegnanti sono tutti volontari. Questa povertà di
mezzi non deve ingannare. La scuola Yidan, come indica la riproduzione di un ritratto di Confucio che accoglie il visitatore fin dall’ingresso, è
uno dei centri della riscoperta del filosofo vissuto nel sesto secolo avanti Cristo, il pensatore che
da oltre due millenni imprime la sua influenza
sulla civiltà e la politica della Cina. Il revival del
confucianesimo è un fenomeno che ha molte
facce. È una reazione contro l’omologazione culturale all’Occidente, una riscoperta delle radici e
dell’identità nazionale, ma anche un’operazione incoraggiata dall’alto per teorizzare un “modello asiatico” dal significato controverso. Per
capirlo bisogna partire da Yidan.
I precetti del Maestro
Pang Fei, 33 anni, professore di filosofia, ha fondato la “scuola di studi classici Yidan” nel 2001.
Con i suoi capelli ben rasati, gli occhiali dalla
montatura ultraleggera di titanio e l’abbigliamento casual, potrebbe essere un giovane manager lanciato alla conquista dei mercati mondiali e verso un futuro da miliardario. Invece
spiega che «quando una nazione attraversa una
trasformazione sociale profonda, la gente si sente sperduta nella cosiddetta cultura moderna, i
giovani non sanno chi sono e cosa vogliono dalla vita; in queste fasi difficili bisogna cercare aiuto nella saggezza degli autori antichi; ogni generazione dovrebbe farlo, ora è il nostro turno». La
sua idea ha avuto un successo più vasto di quanto appaia visitando la casetta dietro i giardini
pubblici Chengze. Yidan funge solo da centro di
formazione iniziale per i docenti confuciani, destinati a sciamare e diffondere i precetti dell’antico maestro nelle scuole di tutta la Cina. I seminari tenuti qui hanno già sfornato diecimila volontari — studenti universitari o neolaureati —
che a loro volta hanno impartito lezioni e conferenze a centomila ragazzi delle scuole medie e
dei licei di Pechino. Con il beneplacito delle famiglie, delle autorità scolastiche e del governo.
Seguendo l’esempio della capitale altre trenta
città hanno invitato i docenti di Yidan.
Uno di questi volontari è Li Tianqing: a 28 anni ha ottenuto un ambitissimo dottorato di ricerca in informatica presso la Harvard cinese, l’università Qinghua. Lavora come esperto di software in una grande impresa di Pechino. Il suo tempo libero però lo dedica a insegnare la saggezza
degli antenati a scolaresche tra gli otto e i quindici anni. I ragazzi, già carichi di compiti di matematica e di mandarino (l’istruzione cinese è tra le
più esigenti del mondo), dopo le ore di scuola
Per rispondere al boom mondiale dello studio
della lingua, il governo sta mettendo in piedi
una rete di istituti culturali all’estero
per insegnare il mandarino. E ha stabilito
che si chiameranno Istituti Confucio
dell’obbligo, sotto la guida di Li imparano a leggere poesie in calligrafia dell’èra Tang (618-907
dopo Cristo), gli Analecta di Confucio e le opere
del discepolo Mencio. «I giovani cinesi di oggi —
dice Li — hanno più familiarità con la cultura occidentale che con la nostra. Questa è un’anomalia, non si concilia con uno sviluppo sano del paese. Spero che le generazioni future crescano come dei cinesi autentici, non come degli stranieri
in casa propria». È sulla stessa lunghezza d’onda
un luminare delle scienze esatte, il professor
Yang Dongping dell’Istituto di tecnologia di Pechino: «Sotto l’influenza della globalizzazione e
del materialismo i giovani perdono l’identità
culturale cinese, rischiano di smarrire tradizioni
preziose, dalla calligrafia alla musica antica. Se
non arrestiamo questo processo, l’esito sarà
una crisi morale profonda».
Molti indizi confermano che la classe
dirigente incoraggia la riscoperta del
confucianesimo. I primi licei a invitare i docenti di Yidan sono stati quelli
frequentati dai figli della nomenklatura comunista. Questo 28 settembre
il sindaco di Qufu, la città natale di
Confucio nella regione dello Shandong, celebrerà con la massima solennità il 2.556esimo anniversario
della nascita del filosofo, alla presenza
di alcuni (presunti) discendenti. Il segnale più clamoroso lo ha dato il governo.
Di fronte al boom dell’apprendimento della lingua cinese all’estero (in Francia Chirac
ha lanciato una campagna perché i
giovani lo studino), il ministero
dell’Istruzione di Pechino ha deciso per la prima volta di creare
una rete di istituti culturali all’estero per insegnare il mandarino. Questi centri — così come la
Germania ha gli Istituti Goethe, la
Spagna gli Istituti Cervantes — si
chiameranno Istituti Confucio. Il
primo è stato inaugurato l’anno scorso a Seul, in Corea del Sud, altri si stanno aprendo in America, Europa e Asia.
La scelta del nome però era tutt’altro
che scontata. Negli anni del maoismo
Confucio era stato messo al bando come
un pensatore reazionario, un simbolo dell’epoca imperiale. Durante la Rivoluzione culturale (1965-75) le Guardie rosse
avevano cercato di cancellare ogni
eredità del «pensiero di destra», distruggendo intere biblioteche di
opere antiche. L’odio per Confucio
non era del resto una prerogativa
dei soli comunisti ma di tutte le élite progressiste nella Cina del Novecento. Il Movimento del 4 maggio
1919, di tendenze democratiche e
ispirato a idee occidentali, si era scagliato contro
il confucianesimo accusato di mantenere il paese nell’arretratezza e sotto il giogo dei despoti.
Ma chi era davvero Kung Fu Ze, cioè il Maestro
Kung che noi occidentali conosciamo sotto il
nome latinizzato di Confucio? Di certo fu un fi-
losofo laico e razionalista, fiducioso nella possibilità del progresso umano, poco interessato alla religione, molto più appassionato alle scienze
sociali e politiche, alla ricerca di un buon governo, di una società prospera e stabile, di una pace durevole. Per due millenni la sua influenza ha
dovuto misurarsi, fondersi o combattere con
quelle del taoismo e del buddismo. Come tutti i
pensatori più grandi, Confucio è stato riletto, interpretato, aggiornato, strumentalizzato, fino a
fargli dire cose molto diverse. C’è un Confucio
democratico, in nome del quale molti discepoli
morirono ribellandosi ai tiranni: perché il Maestro Kung rifiutava il carattere divino dell’imperatore, insisteva sulle responsabilità del sovrano verso i cittadini, fu all’origine
della prima meritocrazia
nella storia dell’umanità
(gli esami d’ammissione nei ranghi della burocrazia imperiale).
C’è un neoconfucianesimo autoritario,
codificato soprattutto durante la dinastia
Song (960-1279 dopo
Cristo), che impone
all’uomo di vivere in
armonia con la società,
nel rispetto degli anziani e delle autorità. Durante il Novecento la dottrina del Maestro Kung
fu spesso usata dalle
forze della conservazione: dalla moribonda dinastia
Qing contro i repubblicani; dai Signori della guerra;
perfino dagli invasori giapponesi che
tra il 1931 e il 1945
cercarono di rilanciare il culto di Confucio nei territori cinesi occupati, come terreno d’intesa fra le classi dominanti dei due paesi.
In tempi più recenti, a fare un
uso “di destra” del confucianesimo
è stato il padre-padrone di Singapore,
l’ex premier Lee Kuan Yew, ispiratore del
miracolo economico dei dragoni del sud-est
asiatico. Per giustificare la sua ricetta di governo,
un misto di mercato capitalista, paternalismo e
controllo sociale, Lee Kuan Yew sostiene che la
democrazia fondata su elezioni pluraliste e libertà di stampa è adatta all’iperindividualismo
delle società atomizzate in America o in Europa.
In Asia le nazioni funzionano meglio se si comportano come famiglie gerarchiche e disciplinate, dove i singoli membri antepongono il senso
del dovere all’interesse individuale. Autentico o
abusivo che sia, il Confucio di Lee Kuan Yew è lo
stesso che appare oggi in un’opera in voga tra i dirigenti del partito comunista cinese. È una mo-
numentale trilogia scritta dal 35enne Yue Housheng, elogiato come uno dei massimi esperti
contemporanei di “teoria strategica”. I tre saggi,
recensiti con venerazione dalla stampa ufficiale
di Pechino, sono raccolti sotto il titolo Strategia
di uno sviluppo pacifico dello Stato. Attingendo
con talento eclettico a Confucio e al taoismo, Yue
esalta le «tradizioni orientali» contro un Occidente «dominato da una filosofia di lotta per la
sopravvivenza, di individualismo».
La riscoperta di Confucio da parte del nuovo
gruppo dirigente cinese, attorno al presidente
Hu Jintao, avviene sullo sfondo delle convulsioni sociali che agitano il paese. L’economia di
mercato scava diseguaglianze estreme. La nomenklatura comunista ha un accesso facile alle
ricchezze e si è convertita alla difesa del capitalismo. Di fronte a una società civile irrequieta
non c’è più Marx né Mao per giustificare la repressione del dissenso. Solo il Maestro Kung,
dall’alto dei suoi 2.556 anni, forse può riuscire a
compiere il miracolo: traghettare l’oligarchia
verso una nuova forma di legittimità, giustificare l’ordine e la stabilità non più in nome del socialismo, ma come il rispetto dell’autorità paterna del nuovo imperatore, cioè il partito unico. Nei discorsi ufficiali del presidente Hu ricorre l’obiettivo di «promuovere una società armoniosa». Qualcuno grida alla mistificazione, denuncia la vera natura dell’operazione ordita ai
vertici del potere: il pensatore democratico Qiu
Feng ha pubblicato una lettera aperta sul giornale cantonese Nanfang Dushi Bao, con un titolo che non lascia dubbi. «L’oscurantismo travestito da modernizzazione».
La battaglia dei valori
Ma il revival neoconfuciano avanza implacabile. Viene esteso perfino alla politica estera. Sul
Quotidiano del Popolo il filosofo Tang Yijie offre
questa versione, utile a Hu Jintao in viaggio proprio in questi giorni negli Stati Uniti: «Confucio
disse che i veri gentiluomini sono armoniosi ma
diversi. Questa visione dell’armonia nella differenza si applica oggi anche ai leader dei paesi
sviluppati, in particolare l’America». È quasi superfluo precisare qual è la diversità che va armoniosamente rispettata fra i gentiluomini dei
nostri tempi. Ogni predica sui diritti umani, sulle libertà politiche, sui dissidenti o sui giornalisti rinchiusi in carcere, alla luce di questa dottrina è un tentativo maldestro di imporre valori occidentali che non corrispondono all’identità
profonda della Cina.
Questa identità neoconfuciana, la nomenklatura cinese ritiene di condividerla con alcuni
paesi vicini. Non solo con la città-Stato di Singapore, ammirata già 25 anni fa da Deng Xiaoping
quando decise di avviare la Cina verso il capitalismo. Via via che Pechino insieme con la sua potenza economica accresce l’influenza politicomilitare in Asia, i dirigenti cinesi cominciano a
immaginare anche un nuovo tipo di espansionismo culturale. È passata l’epoca in cui Mao voleva esportare il Libretto rosso e la rivoluzione. Ora
insieme al made in China si esporta lo studio del
mandarino, dalla Corea alla Cambogia. Oggi certo gli Istituti Confucio non possono competere,
nella battaglia dei valori di massa sul mercato
globale, con Hollywood e la Cnn. In futuro, chissà? Le vie del Maestro Kung sono infinite come le
reincarnazioni del suo pensiero.
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27
IL CAMBIAMENTO
Nell’altra pagina,
l’antico simbolo Yi che indica
il cambiamento, e tre disegni
d’epoca raffiguranti Confucio
Accanto, una stampa
del filosofo su seta
Intervista al filosofo Qian Xun
“L’idea moderna
dell’armonia
al centro delle cose”
ilosofo e vicepresidente dell’Accademia Confuciana della Cina, a 72 anni
Qian Xun è il più celebre e autorevole
fra i volontari che animano la scuola Yidan
per far riscoprire i valori antichi della cultura nazionale alle nuove generazioni.
Perché le idee di Confucio le sembrano
ancora utili oggi?
«Dobbiamo adottare un atteggiamento
oggettivo verso il confucianesimo e la
cultura tradizionale. Dobbiamo capire la
sua ambivalenza. Da una parte è un pensiero che ebbe origine più di due millenni
fa e fu a lungo strumentalizzato dalle classi dirigenti in Cina. Perciò ha inevitabilmente dei contenuti funzionali a una società gerarchica e autoritaria, e in questo
senso è storicamente datato. D’altra parte i principi fondamentali del confucianesimo riflettono regole che la gente dovrebbe seguire nella vita collettiva a prescindere dall’epoca e dalla società in cui
vive. Questo è il suo aspetto universale ed
è la ragione per cui il confucianesimo è
ancora utile nella Cina di oggi. Voglio sottolineare che il confucianesimo può svolgere un ruolo molto attivo non solo in Cina ma anche in altre nazioni, se la sua universalità viene amalgamata con i caratteri specifici di
questi paesi».
Che tipo di società pensate di
costruire sulla
base dell’insegnamento di
Confucio nell’epoca contemporanea?
«La società
ideale agli occhi ACCADEMIA CONFUCIANA
di un confuciano Qian Xun, vicepresidente
è una società in dell’Accademia Confuciana
cui l’economia è
sviluppata in modo sano e i cittadini vivono e lavorano in armonia. Non si costruisce una società ideale (qualunque essa sia)
soltanto insegnando una scuola di pensiero. La base di una società ideale è nello sviluppo della sua economia. A questo tuttavia il confucianesimo aggiunge l’importanza della moralità e dell’armonia. Il
principio dello sviluppo armonioso è la
chiave per risolvere le tante contraddizioni di oggi».
Lei come spiega questo ritorno di popolarità di Confucio in Cina e anche nel resto dell’Asia?
«Il revival del confucianesimo negli anni recenti affonda le sue radici più indietro. Anzitutto, già negli anni Settanta l’ascesa del Giappone e dei quattro piccoli
dragoni del sud-est asiatico fece giustizia
del pregiudizio secondo cui la cultura
orientale sarebbe un ostacolo allo sviluppo di un’economia avanzata; tutti poterono constatare al contrario che l’impronta confuciana comune a quei paesi
ebbe un ruolo attivo nel promuovere la
loro modernizzazione. In secondo luogo
i problemi sociali sempre più acuti che
emergono insieme alla crescita economica spingono la gente a rivolgere l’attenzione verso il passato, a riscoprire la cultura orientale come fonte di saggezza e di
ricchezze ancora utili. Infine c’è uno specifico retroscena cinese. Un riesame della Rivoluzione culturale lanciata negli anni Sessanta aiuta il nostro popolo a capire che fu un errore quel voler negare le nostre tradizioni culturali fino a distruggerle. Perciò la rinascita del confucianesimo
in Cina e in altre nazioni asiatiche risponde a un preciso bisogno dell’epoca contemporanea. È anche il segnale di risveglio della nostra cultura popolare, perché
aiuta il popolo cinese a ricongiungersi
con le sue origini».
È possibile immaginare un sistema politico basato sulle idee di Confucio, che
voglia porsi come un’alternativa alle liberaldemocrazie occidentali?
«La nostra difesa e diffusione del confucianesimo non ha come obiettivo la costruzione di un sistema politico alternativo al vostro. Se anche volessimo farlo, non
sarebbe possibile. Tuttavia la Cina non è
destinata a deviare dalla sua tradizione copiando le istituzioni politiche dei paesi occidentali. Ciò che cerchiamo di fare è definire un sistema che non è completamente
uguale al vostro e ha delle caratteristiche
cinesi ben distinte. Questo sistema politico dovrebbe assorbire valori e idee universali delle società moderne, e al tempo stesso deve essere conforme alla cultura tradizionale della Cina».
(f.r.)
FOTO GILARDI
Repubblica Nazionale 27 11/09/2005
F
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il racconto
Giochi pericolosi
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
Dopo il wrestling e i reality, l’ultima mania televisiva
americana è la finale in diretta delle “World Series of Poker”,
una specie di campionato mondiale con piatto
di chiusura da sette milioni di dollari. Una moda esplosa
in una fase di crisi sociale collettiva, quando la vita
quotidiana si fa dura e la paura del futuro diventa più grande
Poker, la leggenda va in tv
S
VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON
COPPIA
La combinazione più debole
In caso di due coppie di pari valore
vince chi ha la carta più alta
fra le tre rimanenti
DOPPIA COPPIA
È composta da due coppie
Nello scontro fra due doppie coppie,
prevale il giocatore che ha in mano
la coppia più alta
TRIS
Tre carte dello stesso valore
numerico. Fra due tris, prevale
la combinazione più alta
Non è possibile il pareggio
SCALA
Repubblica Nazionale 28 11/09/2005
Cinque carte in sequenza di semi
differenti. Se è composta
dalle cinque carte più elevate
viene chiamata Scala massima
teve l’americano spizzò l’angolo delle sue
carte e disse senza muovere i muscoli della
faccia, come fanno i ventriloqui: I’m all in,
«Punto tutto quello che ho». Tre milioni e
settecentomila dollari, ladies and gentlemen, annunciò il “meccanico”, come si chiama nella lingua del
poker quello che fa le carte dopo aver misurato il castello di gettoni. Hachem il libanese non guardò neppure le sue carte. Tenne i suoi occhi fissi sugli occhi dell’ultimo avversario rimasto per il titolo di campione del
mondo di poker 2005 e rispose calmo: Call. «Ti vedo».
Il piatto, signori e signore, è sette milioni e quattrocentomila dollari, contò il meccanico.
Spingendo un carrello di ferro di
quelli usati negli alberghi per portare le
uova fritte e il caffè in camera, ragazzoni con le spalle troppo larghe e ragazzone con le gambe troppo lunghe rovesciarono sul tavolo una frana di mattoni verdi, sette milioni e quattrocentomila dollari in banconote da cento,
ben fascettate. Steve si grattò il mento.
Hachem concesse alla moglie seduta
tra il pubblico il sospetto di un sorriso.
Due milioni e mezzo di telespettatori
seduti a casa accavallarono le gambe
per trattenere il bisogno di far pipì e la
voglia di una birra e si prepararono a
vedere chi di quei due, fra Steve Dennemann l’americano e Joe Hachem il
libanese avrebbe portato a casa una
somma che loro, gli zombies del cartellino timbrato e delle rate di mutuo,
avrebbero impiegato 163 anni di lavoro per guadagnare. Al ritmo dei 46mila
dollari l’anno di reddito medio nazionale lordo.
La finale in diretta della “World Series of Poker”, l’ultima mania televisiva che sta consumando un pubblico
già annoiato dalle marionette anabolizzate del wrestling
e dai falsi reality show era cominciata. Due uomini soltanto erano sopravvissuti ai 45mila sognatori che si erano massacrati per un anno in partite via Internet, in serate ai circoli di pompieri, in camerate di studenti lazzaroni, per poi ripulire i 5.800 ammessi alle finali qui nel Rio
Harra’s hotel and casinò di Reno. Steve l’americano e
Hachem il chiropratico libanese artritico che aveva dovuto lasciare il suo mestiere per il dolore alle mani, scoprirono le loro due carte e si alzarono. Nel poker giocato
al mondiale, il “Texas Hold’em”, il “Texas tienile strette”,
due carte coperte sono distribuite a ciascun giocatore e
altre cinque scoperte sono rovesciate al centro del tavolo, buone per tutti, da combinare con quelle in mano. I
due superstiti avevano puntato tutto. Non c’era ragione
per tenere le carte iniziali coperte. Steve girò le sue: un
Asso e un Tre. Hachem un Sette e un Tre. La signora Hachem, nella penombra, si coprì la faccia con le mani. Suo
marito non aveva niente in mano, spazzatura. L’avversario aveva un asso, lo dominava. Il telecronista e il suo
sottopancia sentenziarono l’ovvio: il libanese è cotto.
Il meccanico, indifferente come un budda tibetano,
scoprì le prime tre carte comuni: un Quattro, un Sei e una
Regina. Non cambiò nulla. Girò la quarta carta, la “carta
della curva” la chiamano, la penultima. Un Tre. L’americano ora aveva una coppia, due Tre più l’Asso in mano. Il
libanese si strinse nelle spalle. La sua sola speranza era
che dal mazzo delle 52 carte, usato per il poker americano, il meccanico pescasse per lui come ultima carta un
Cinque, per fare una scala. Il meccanico, con uno svolazzo a effetto, calò sul tavolo la quinta carta, la “river
card”, si dice, la “carta del fiume”, come quel Mississipi
nel quale piombavano, per disperazione o per cortese
spinta, i giocatori traditi dall’ultima carta. È finita. Le ragazze applaudirono, il telecronista inneggiò, la signora
Hachem scoppiò a piangere. I telespettatori poterono finalmente andare a fare la pipì.
Mai, neppure quando i ragazzi partivano verso il “Wild
West” armati soltanto di una Smith & Wesson e dei tre
consigli del padre, «figlio mio, non mangiare da un oste
che si fa chiamare mamma, non fare all’amore con una
donna più matta di te, non giocare a
poker con uno sconosciuto che gli altri
chiamano “doc”, dottore», questo gioco di carte aveva catturato così a fondo
una nazione che pure il poker moderno ha inventato, venerato e celebrato
nella propria cultura.
Gli storici pignoli dei vizi umani, ci
diranno che “poker” è una parola che
viene dal francese “poque” e ancora
prima dal tedesco “pochen”, bussare,
che forse addirittura furono i marinai
persiani — la solita minaccia islamica
—, sbarcati nella New Orleans del Settecento per vendere anche loro qualche schiavo nero ai buoni cristiani, a
insegnare una versione più simile al
poker giocato oggi. Ma aveva ragione
Sam Clemens, più conosciuto ai lettori come Mark Twain, quando rivendicava alla sua America l’invenzione di
quelle combinazioni di carte e di quelle infinite variazioni di gioco, dalle classiche cinque carte coperte, allo “stud”, la teresina a cinque o sette carte,
all’“alto e basso” fino al “Texas Hold’Em” praticato al
mondiale, che oggi spopolano e che i legionari dell’Impero hanno portato in ogni continente, dopo la Guerra.
Mark Twain, che lamentava «l’ignoranza delle regole
basilari del poker nelle classi colte», si sarebbe molto rincuorato se avesse potuto campare un altro secolo (morì
nel 1910). Avrebbe visto l’esplosione che questo ignobile, diabolico e delizioso gioco ha conosciuto da quando,
nel 1970, il gestore di uno scalcagnato casinò nel centro
di Las Vegas, il “Ferro di Cavallo”, accettò recalcitrante
di organizzare il primo mondiale di poker. Benny Binion
il gestore era un purista. Lo riservò ai professionisti, agli
amici e ai “rounders”, ai nomadi del mazzo che facevano appunto il “round”, il giro del West per spennare galline, sempre un passo avanti alle legge che li inseguiva.
Microtelecamere
piazzate sotto
il tavolo verde
consentono
ai telespettatori
di vedere anche
le carte coperte
Così perfino i più
brocchi si possono
sentire campioni
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DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29
I FILM
CINCINNATI KID
LA STANGATA
REGALO DI NATALE
ROUNDERS
Steve Mc Queen
è un giocatore
di poker che in breve
tempo diventa
celebre. Il successo
lo porta a sfidare il re
del poker: la partita
è un evento,
memorabile la mano
finale di Telesina
Robert Redford
e Paul Newman sono
due truffatori
che vogliono
incastrare
un gangster
per vendicare
un amico: l’amo che
lanciano è una partita
di poker sul treno
La notte di Natale
quattro amici
organizzano
una partita di poker
per spennare
un industriale: ma
nella mano decisiva
Abatantuono, il più
bravo dei quattro,
perde tutto
Matt Damon, genio
ribelle e proletario,
è ossessionato
dal poker
che considera
un lavoro. Per fare
carriera si scontra
in partite mozzafiato
col re del gioco,
John Malkovich
Il primo campione fu
Johnny Moss, un maestro.
Intascò 31mila dollari. Una
tv locale trasmise la finale, e
fu un fiasco. La marmorea
impassibilità dei vecchi pro,
allenati a nascondere ogni
“tell”, ogni tic fisico o verbale che
tradisse le loro carte, rendevano quelle partite eccitanti
come guardare la vernice seccarsi.
La rivoluzione per i vecchi che un Sergio Leone avrebbe adorato — Johnny “il Maestro” Moss; Jimmy “il Greco”; Amarillo “lo Smilzo”; Doyle Brunson “il Dinosauro”
che ancora gioca a 86 anni, dopo avere sconfitto due infarti, un ictus e due tumori; il cinese Johnny “the Dragon”
Chan; Stu Ungar, il genio matematico che vinse tre milioni di dollari e morì di overdose senza una lira nel motel Oasis di Vegas in compagnia di una bottiglia vuota —
arrivò in un rossetto. Non un rossetto di
donna, niente di così romantico al tavolo da poker, ma una “lipstick camera”, una microtelecamera grande appunto come un tubicino di rossetto
piazzata nei tavoli, sotto il bordo dei posti dei giocatori. Invisibile ma ad alta
definizione, il rossetto elettronico permette al telepubblico di vedere le due
carte coperte, le carte nel “buco”, secondo il gergo, mentre sono spizzate
dai giocatori. Qualunque idiota a casa,
qualsiasi brocco da venerdì sera con
patatine, sigarette e acidità di stomaco
vede le carte coperte di tutti. E dunque,
come lo spettatore di telequiz che legge
la risposta in sovraimpressione, si sente più bravo di quei professionisti che li
lascerebbero con una mano davanti e
una didietro in pochi minuti.
Non c’è serata televisiva, nella galassia dei cinquecento canali vomitati dal cavo e dai satelliti, che non offra almeno qualche
eliminatoria o finale o torneo di poker americano o internazionale, per puntare sulla “pokermania” esplosa,
come sempre esplodono i giochi di chance nei momenti di crisi sociale collettiva, quando la vita quotidiana è dura e la paura è grande. A differenza di ogni altra competizione umana, dove il dilettante non vincerebbe un round di box o un game di tennis contro qualsiasi professionista, il poker regala una piccola, ma autentica probabilità anche al pollo. Un esordiente dilettante vinse il mondiale del 2004, infilando tutti i vecchi
marpioni. Personaggi rassegnati a consumare la propria vita nella penombra verdognola di partite con
qualche ricco fesso da stirare, stanno diventando idoli
da album di figurine nel circuito della Wsp, la World Series of Poker, che per loro e ciò che la Fifa è per il calcio
o il Tour de France per i ciclisti.
La grande candeggina della tv ha lavato via quel lezzo
di scantinato, di bari, di cicche, di illegalità e di sudore,
che impregnava il poker dei “rounders”, come fu raccontato nel bel film di John Dahl del 1998, con Matt Damon nel ruolo dello squalo bianco. La tv ha reso asettico e garbato, come una torneo di bingo in parrocchia o
una gara di curling fra pensionati svizzeri, questo gioco
rovinoso, assassino e infernale. La fabbrica dei miti si è
messa a al lavoro. Gli occhiali da sole a foggia di occhi
da rettile preistorico indossati da Greg “il Fossile” Raymer, insieme con i cinque milioni di dollari vinti nella
finale mondiale del 2004, ne hanno fatto un cocco dei
bambini. La semplice coincidenza del cognome è sembrata una stella cometa quando il mondiale è stato vinto da Chris Moneymaker, il signor “Faisoldi”. Commovente e molto “american dream” la storia di Minh Ly,
saldatore di Saigon fuggito davanti ai cattivoni comunisti nel 1975 su un peschereccio, “boat people” che ha
fatto una barca di dollari.
Molto politically correct è il successo
di Annie Duke, casalinga e madre di tre
bambini a casa che bastona maschietti
al tavolo del poker. Le migliaia di casalinghe sfiancate che devono fare la spesa cercando saldi e offerte per i pannolini sospirano vedendo una di loro che
butta con nonchalance mezzo milione
di dollari su un bluff come loro buttando la biancheria sporca nella lavatrice.
E non poteva mancare un Gesù, un teopoker, in questo tempo di revival evangelico. Chris Ferguson detto “Jesus”,
per il volto e l’acconciatura da Nazareno sotto il cappello da cowboy, che deve sopportare a ogni torneo l’immancabile battuta: «Maestro, niente miracoli che qui giochiamo di soldi». Pregando intensamente vinse un milione
e mezzo nella finale del 2000.
Si lamentino pure, i vecchi, che questo non è più poker, che questo è show business, che questa è roba da masturbatori da Internet e da voyeurs col telecomando. Il figlio del vecchio Binion piange di nostalgia quando ricorda la finale del ‘71 fra Moss, “il Maestro”,
e Jimmy Dandalos “il Greco”. Duellarono per trenta giorni e trenta notti, fino a quando Jimmy The Greek, pescato da Moss in un bluff colossale, si alzò e disse semplicemente: «Mister Moss, temo di doverla lasciare andare».
Ma nessuno vinse mai sette milioni di dollari, nel bel
tempo andato, come la sera della finale 2005, quando finalmente la “carta del fiume” volò sul tavolo.
Hachem si era già alzato per congratulare il vincitore
sicuro, Steve Danneman, quando sentì la moglie urlare.
Lanciò un’occhiata alla quinta carta. Era un Cinque. Scala. Aveva fatto scala: Tre-Quattro-Cinque-Sei-Sette, sette, come i milioni che aveva vinto. Steve gli strinse la mano: «Good play, man», buona giocata, come avessero appena finito un torneo di briscola per la bottiglia di Amaro 18 Isolabella. I telecronisti della Espn — la rete di tuttosport posseduta dalla Disney, quella di Minni, Pippo e
i tre coniglietti, che ha lanciato la mania — gli chiesero e
ora Hachem? «Ora mi iscrivo al torneo mondiale prossimo. Ci vediamo a settembre, in Mississipi, allo Harrah’s
di Biloxi per la prima eliminatoria». Ma era un bluff. Biloxi e il suo casinò non ci sono più, dopo il passaggio di
Katrina. Anche Dio gioca a poker.
La fabbrica
mediatica dei miti
si è messa al lavoro
Repubblica Nazionale 29 11/09/2005
e questo gioco
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Un tris più una coppia. Nello scontro
tra full, prevale la combinazione
dal tris più elevato
Non è possibile il pareggio
COLORE
È una combinazione
non sequenziale di carte dello stesso
seme. Fra due colori, vince
quello dal seme più forte
POKER
La combinazione che dà il nome
al gioco è formata da quattro carte
dello stesso valore numerico
Non è possibile il pareggio
SCALA REALE
Una sequenza di cinque carte
dello stesso seme. Se formata
dalle carte più alte, si chiama
Scala Reale massima
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30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
i luoghi
Era la città dell’eterna primavera, una guarnigione britannica
dove il cadetto Winston Churchill collezionava farfalle. Oggi
le quattro antiche torri che sorvegliavano la cinta urbana sono perse
in una maglia di cinquecento chilometri quadrati di strade trafficate,
aziende vetro-cemento, locali e negozi occidentali affollati
di ingegneri e impiegati di Electronic City, la Silicon Valley indiana
Nuova India
Bangalore, il giardino
Le commesse estere
sono cresciute
da 170 milioni
a 2 miliardi di dollari
in pochi anni
naia di call center, i centri di servizio o
Business processing outsourcing
(Bpo) dove giovani indiani dall’inglese
fluente, addestrati all’estero e in patria,
rispondono a cittadini americani, inglesi o mediorientali per spiegare come
si ripara un computer, una lavatrice,
una macchina fotografica, come si rinnova la carta di credito, l’assicurazione
dell’auto, o per controllare i conti correnti e preparare le buste paga delle
grandi e medie aziende occidentali. La
sola “24-7 Customers”, tra le prime imprese del settore, conta oggi oltre quattromila addetti che si alternano a turni
tra cuffie, microfoni e computer attraverso i quali passano dati personali di
milioni di clienti nel mondo.
Le tasse americane
Thomas Friedman, uno dei più popolari columnist americani, ha scritto un
libro dedicato in gran parte al fenomeno Bangalore. Lo ha intitolato Il Mondo
piatto. Breve storia del ventunesimo secolo, e tra i protagonisti indica uno dei
tanti tecno-guru cresciuti su questa
collina: Jerry Rao, inventore di MphasiS, società in grado di elaborare milioni di cartelle delle tasse americane a costi infinitamente inferiori di una qualsiasi analoga compagnia statunitense.
Rao, che ereditò dal padre una vetusta
ma prosperosa azienda di oli alimentari, ebbe quella che gli indiani qui chiamano una “visione” del futuro tecnologico, portando le sue imprese direttamente nella terza fase della globalizzazione di cui parla nel suo libro Fried-
man: l’epopea — successiva alla diffusione dei trasporti dopo la prima guerra mondiale, e dei computer tra gli anni Ottanta e Duemila — delle applicazioni software, da Google a Microsoft
Office, fino ai più sofisticati programmi che permettono l’elaborazione dei
dati da un angolo del pianeta all’altro.
Epopea resa possibile dall’impianto
delle fibre ottiche attraverso gli oceani
e tumultuosa malgrado i rischi messi in
evidenza da alcune recenti truffe scoperte in Inghilterra.
L’abilità ingegneristica indiana, associata all’uso corrente dell’inglese, ha
permesso di battere almeno in questo
campo la concorrenza cinese, spietata
in quasi ogni altro settore produttivo.
Assieme a Rao hanno fatto la loro fortuna e la fortuna di Bangalore personaggi ormai leggendari come Narayana Murthy, un ex marxista squattrinato che ha fondato con un gruppo di
amici Infosys, uno dei tre giganti informatici indiani quotati a New York, e
Azim Premji, il più ricco imprenditore
indiano inventore di Wipro.
Questi moschettieri cibernetici ai
quali va aggiunto il titolare della Tata
Consultancy Services, emanazione dell’azienda automobilistica numero uno
del Paese, non avrebbero potuto smuovere la stagnante mentalità isolazionistica indiana se contemporaneamente
giganti americani come la Texas Instrument e la General Electric non avessero
fiutato all’inizio degli anni Novanta le
grandi potenzialità dell’India e in particolare di Bangalore come vivaio di tecni-
FOTO AP
FOTO GIANLUCA PULCINI
ela Chandy ricorda
con visibile commozione la storia di suo
padre Kora, l’“enciclopedia vivente” di Bangalore, morto
pochi mesi fa alla veneranda età di 95
anni. Già ottantenne, accompagnato
da una giovane botanica, Kora girava
su Mahatma Gandhi, Jayamahal e Indiranagar Road a ripiantare alberi abbattuti e a minacciare azioni legali contro
le imprese che li tagliavano per costruire nuove strade e case.
La sua Città Giardino dalla perenne
primavera, dove a fine Ottocento il cadetto Winston Churchill collezionava
farfalle e sogni di gloria, non aveva ancora subito lo stravolgersi delle stagioni, né poteva immaginare di trasformarsi nella Silicon Valley indiana dal
volto umano. Una capitale dell’information technology che impiega
250mila tecnici — un terzo di quelli
dell’intera India — e tiene in piedi i servizi computerizzati delle più potenti
multinazionali americane ed europee,
allettate dai successi e dall’abilità delle aziende locali create da un drappello di Bill Gates made in India.
Kora Chandy l’ha vista crescere sotto i suoi occhi, proprio come aveva
profetizzato Jawaharlal Nehru negli
anni Cinquanta, quando disse che
questa ex guarnigione britannica del
diciannovesimo secolo sarebbe stata il
I guru del software
hanno costruito
qui il loro santuario
E qui è stato ideato
il programma
che ha sconfitto
il Baco del millennio
I TRENTAMILA INGEGNERI
FOTO GAMMA
Repubblica Nazionale 30 11/09/2005
M
BANGALORE
«fiore all’occhiello dell’India moderna». Bangalore contava ai tempi di
Nehru appena ottocentomila abitanti
nei 66 chilometri quadrati della cinta
urbana compresa tra le quattro torri
vecchie di sei secoli, oggi poco più che
ruderi persi tra 500 chilometri quadrati di strade, cemento e industrie. Il professor Kora aveva anche visto uscire a
frotte sempre più folte i laureati dal
prestigioso Istituto delle Scienze, fondato poco prima che lui nascesse; dall’Istituto di Management, che oggi
conta 87 facoltà; dai 77 college dello
Stato del Karnataka, capaci di sfornare
quasi trentamila nuovi ingegneri l’anno; e dalle decine di università mediche tra le più rinomate dell’Asia. Poi ha
visto nascere l’Istituto di Ricerca Spaziale, i laboratori nucleari, le industrie
missilistiche, oltre ai più avanzati centri di ricerca biotecnologica.
I ritmi di questa nuova e sorprendente metropoli hanno in pochi anni scosso dalle fondamenta l’attitudine pigra e
rilassata dei suoi originari abitanti kannada, telugu, malayali. Specialmente da
quando i guru indiani del software hanno cominciato a edificare qui il loro santuario e hanno contribuito in maniera
determinante a salvare il mondo tecnologico con un programma venduto all’Ibm per sconfiggere il celebre Y2K, il
Baco del millennio, moltiplicando le
commesse estere da 170 milioni a due
miliardi di dollari in pochi anni.
A completare il ciclo di attività ventiquattro ore su ventiquattro sono sorti
poi come funghi in tutta la città centi-
FOTO CORBIS/CONTRASTO
RAIMONDO BULTRINI
In alto, donne operaie in una fabbrica
di televisori. Accanto, scorci
di Bangalore, la “Silicon Valley”
indiana: gran parte del software
dei giganti occidentali dell’informatica
è prodotto qui a causa dei bassi costi
del personale: un programmatore
indiano viene pagato 200-300 dollari
Sopra, studenti di informatica
Ogni anno nelle università di Bangalore
si laureano 30mila ingegneri
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
dove fiorisce l’hi-tech
ci a basso costo per le loro crescenti esigenze di risparmio sulla manodopera.
Personale americano con salari da
cinque-diecimila dollari mensili è stato sostituito progressivamente da laureati pagati tra i duecento e i duemila
dollari al mese, in una febbre da outsourcing che ha contagiato Accenture,
Dell, Oracle, American Express, Hewlett Packard, Intel, Motorola e ora perfino Microsoft. Per loro è nata una nuova città che va espandendosi a nord,
est, ovest e sud a partire da Electronic
city: un complesso di edifici di vetro e
cemento circondato da campus e collegato al centro da pochi chilometri di
strade congestionate dal traffico, costeggiate da baracche, immondezzai
all’aperto e nuovi edifici in costruzione. Gli stessi creatori del polo futurista
cibernetico, in grado di realizzare il
quattro per cento del prodotto interno
lordo indiano, si sono ritrovati lentamente e inesorabilmente intrappolati
in un eden professionale circondato
dal deserto delle infrastrutture, privo di
servizi, di strade, di fonti energetiche
adeguati alla sfida.
Paradossalmente cresciuti grazie al
supporto del Partito ultraortodosso
nazionalista del Bjp, guidato in Karnataka dall’ex premier Krishna, i giganti
dell’informatica hanno subito le ripercussioni di una schiacciante vittoria
del Partito progressista del Congresso,
sostenuto da un elettorato rurale che
non ha visto di buon occhio la concentrazione delle risorse e delle spese nelle città come Bangalore, mentre in tut-
to lo Stato il 42 per cento degli abitanti
vive ancora sotto la soglia della povertà.
Dopo l’elezione del nuovo primo ministro sull’onda di questa rivolta contro i
privilegi della nuova classe media indiana, lo sviluppo urbano ha subito un
repentino arresto, proprio quando
gioielli finanziari e produttivi come
Infosys, Wipro e Tata hanno cominciato ad assumere mille nuovi addetti ogni
mese nei verdi campus dotati di ogni
comfort. Per raggiungerli, però, ogni
lavoratore paga il prezzo di lunghi e interminabili ingorghi lungo le arterie
strozzate da lavori mai ultimati. Solo
ora, dopo anni di inattività, i nuovi governanti si sono resi conto del serio rischio di una migrazione dei partner
multinazionali verso altre metropoli
indiane come Hyderabad, giunta più
tardi ma con sufficienti strade e risorse
elettriche, verso Chennai-Madras o,
ancora peggio, Hangzhou in Cina, una
città con la stessa popolazione di Bangalore dotata però di un aeroporto efficiente e di una superstrada che la collega in un’ora a Shangai.
«Il fatto è che nessuno, nemmeno il
governo, può permettersi la prospettiva di un arresto del processo in corso, e ora finalmente partiranno i lavori del nuovo aeroporto e perfino la metro», spiega Bani Dhawan, una giovane dirigente della Infosys che ci guida
nel campus con i quaranta edifici dell’avveniristica Electronic city, tra stadi di cricket, di basket e sale da ginnastica per i dodicimila dipendenti che
lavorano online per conto di sedici
Il benessere portato
dall’outsourcing Usa
viene pagato a caro
prezzo da giovani
professionisti
presi nella trappola
di una competizione
spietata. E i vecchi
santoni hanno aperto
due grandi ashram
per curare
le malattie da stress
paesi in tutto il mondo, producendo
idee per software e anche hardware da
sviluppare nel segreto di laboratori
supercontrollati.
I salari dei giovani
Travolti da un insolito benessere, giovani tra i 20 e i 25 anni (l’età media dei
lavoratori indiani è di 26 anni) si sono
ritrovati a disporre di un salario inimmaginabile per i loro stessi genitori al
culmine della carriera. Dal loro portafoglio hanno cominciato ad uscire i
soldi per tutto l’indotto che ha trasformato la placida Bangalore nella più eccitata ed eccitante città del subcontinente dopo Bombay. Locali eccentrici
dai nomi stranieri come il Nasa, a forma
di nave spaziale e dove i camerieri servono in divisa dell’aeronautica, sono
ogni sera strapieni e servono litri di birra Kingfisher. E il titolare del marchio è
diventato tanto ricco da poter aprire
una compagnia aerea.
È una catena di consumi che si riversa nei nuovi grandi magazzini sorti
ovunque e bilancia con l’acquisto di
prodotti del mercato americano —
Nike, Reebok, i telefoni cellulari, Pizza
Hut — la perdita di posti di lavoro dovuta all’outsourcing dagli Usa. Ma è un
benessere pagato a caro prezzo da giovani che si incollano tra le otto e le dieci ore al giorno davanti a un computer
in una competizione spietata che provoca malattie da stress, finora sconosciute da queste parti. Nell’India mistica dei Veda per questi giovani con giacca e cravatta e i telefonini sempre ac-
cesi l’alternativa è (per quanto tempo
ancora?) la costellazione di guru e santoni hindu come Sri Sri Ravishankar e
Sai Baba, che hanno aperto due grandi
ashram alla periferia dove rimettono
in sesto corpi e anime sfasati dal contagio tecnologico occidentale.
Ben poco può fare però la religione
per gli alberi tanto cari a Kora Chandy,
per l’aria un tempo rinomata e oggi inquinata da seicento nuove auto e trecento moto immatricolate al giorno,
per le vecchie villette inglesi coi tetti a
punta, per quel che resta dei giardini
odorosi di ogni genere floreale ormai
parte della leggenda. Leggenda che
racconta come l’antico re Veeraballa
scoprì in questi boschi il sapore dei legumi cucinati da una vecchia contadina e nominò il posto Benda Kalu Ooru: fagioli lessi, poi ribattezzato Bangalore dagli inglesi.
Oggi tutt’attorno alla città dell’high
tech, nelle periferie-baraccopoli e
nelle campagne del Karnataka prossime al nucleo abitato, la popolazione
viene sospinta sempre più verso l’hinterland. E qui, pescando nel malcontento degli esclusi che non possono
far studiare i figli nei college, cresce la
guerriglia comunista naxalita che
miete centinaia di vittime.
Eppure è un fatto che l’antica oasi naturale su questa collina a mille metri di
altezza è diventata oggi anche un oasi
di benessere unica in tutta l’India. E se
fuori fa troppo caldo per mancanza di
alberi, ci sono sempre gli uffici e i nuovi alloggi con l’aria condizionata.
La mente indiana, on line dalla notte dei tempi
C
insomma la teoria della scienza atomica, come, appunto, rileva Moravia». Illazioni di Pasolini e di Moravia, compagni di un viaggio in India?
«Quanti sono da voi i fedeli di Giove?» è una domanda che un indiano
potrebbe rivolgerci. È capitato. Per loro nessun dio è morto, tutti convivono. Loro, gli indiani, meditano, sono asceti, abbandonano il mondo,
questo mondo. Sono “animali religiosi”, così come noi saremmo per antichissima definizione “animali politici”. Ma è proprio così? Scrive Henri Michaux in Un barbaro in Asia che «nel senso più vero della parola,
l’indiano è pratico. Nell’ordine spirituale vuole un buon rendimento…
Non si cura della verità in se stessa, ma dell’efficacia». E conclude: «Forse è per questo che i loro innovatori hanno tanto successo in America, a
Boston, a Chicago…». Michaux scriveva queste parole nel 1930. Presagiva forse una Silicon Valley indiana? Probabilmente no. Ma sapeva che
il sistema numerico decimale con i segni progressivi da uno a nove e lo
zero, l’indispensabile zero, è stato pensato da una mente indiana in epoca antica, anche se ne abbiamo notizia più tardi, tramite gli arabi? Forse
lo sapeva, ma questi non erano — forse ancora non sono — argomenti
che interessano viaggiatori o turisti occidentali alla ricerca dell’esotismo, abbagliati da una nostra invenzione, “l’orientalismo”.
Andiamo, come possono essere “scientifici” gli orientali? Eppure…
C’è chi sostiene che la mente indiana, portata all’astrazione e alla negazione del mondo sensibile, risulta predestinata a intendere e sviluppare i più arditi procedimenti del calcolo. L’occidentale sente, comprende, divide spontaneamente per due, meno spesso per tre, talvolta
per quattro. L’indiano, invece, per cinque o per sei, per dieci o dodici,
per trentadue e perfino per sessantaquattro e se non basta, va oltre. Mai
prende in considerazione un soggetto, o una situazione, suddividendola in due. Vede sempre l’insieme, il concatenamento, come se fosse
on line, nel www, nella rete. Il “net” è naturalmente cosa loro.
FOTO GIANLUCA PULCINI
RENATA PISU
i appaiono lenti, sempre solenni perché antichi nell’incedere,
una lentezza dovuta alle vesti che indossano, vesti antiche,
sciolte, come quelle dei greci, dei romani: ampi scialli sulle
spalle per ripararsi dal freddo, che nel nord dell’India punge. E loro,
gli indiani, ancora non hanno “inventato” le maniche. Non importa
che oggi molti indiani portino i jeans, le t-shirt, che a Bangalore o a
New Delhi si presentino spesso in giacca e cravatta, chissà perché con
una preferenza per il marrone, colore smorto che non gli si addice.
Accanto a loro mogli, figlie, sorelle, o sarebbe più esatto dire “colleghe” perché le donne indiane partecipano, eccome, al miracolo della new economy, sempre sono avvolte in stoffe e veli dai colori tenui
o sgargianti, sempre si intravede dell’oro e ai loro polsi tintinnano
braccialetti. Così, per l’atteggiarsi, forse dovuto alle posture che toga
e peplo impongono, la gente di questa terra che è stata definita una
«Grecia esagerata», a noi appaiono ancora votati a perpetuare un
pensiero antico: o, meglio, a riproporlo con solennità. Religiosa? Ieratica? Oppure scientifica e universalmente valida? Dicono, gli indiani, che tutta la scienza europea ha avuto origine da loro, l’algebra,
per esempio, e che quando ci si metteranno faranno molte ma molte
più invenzioni di noi. Ma quando ci si metteranno?
Ad ogni modo ha forse ragione chi pensa che ad Atene, e nella sua appendice di Roma, così come nel vasto spazio che chiamiamo India, gli
uomini avevano già pensato tutto il pensabile, duemila anni fa, come
si legge ne Le memorie di Adriano della Yourcenar. Naturalmente, saggiamente, contrari alla violenza del monoteismo, loro, gli indiani, ancora adesso accolgono tutti gli dei. E nessuno. «Io non so bene cosa sia
la religione indiana» scrive Pasolini in L’odore dell’India. «So che in sostanza il Bramanesimo parla di una forza originaria vitale, un “soffio”
che poi si manifesta e concreta nella infinita plasticità delle cose. Un po’
LA FORZA DELLA TRADIZIONE
In alto, Commercial Road, la strada
più frenetica della città. Sopra, gli addetti
alla lavanderia di un grande albergo
I panni vengono ancora lavati a mano
e battuti sulla pietra, come vuole
la tradizione. Il progresso tecnologico,
infatti, non ha interessato
le classi sociali più basse, oggi confinate
alla periferia di Bangalore. Dove le famiglie
più povere aderiscono alla guerriglia
marxista
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
Correva il 1935, lui si chiamava Allen Lane:
un giovane editore che, a detta dei malevoli,
non aveva mai letto un romanzo per intero. Ma lanciò
un marchio leggendario senza sbagliare un colpo: il simbolo, i dorsi
colorati, il formato, il prezzo, per non parlare del design delle copertine
Che ora sono state raccolte in una mostra e in un originale volume
I primi settant’anni del libro
L’idea del pinguino fu di una segretaria
ENRICO FRANCESCHINI
S
LONDRA
i sa che non bisognerebbe
giudicare una persona dall’aspetto esteriore. Lo stesso
si dice dei libri: è sbagliato, o
almeno fuorviante, giudicarli dalla copertina. Ma esistono eccezioni alla regola. Una sono i Penguin: formato, design, grafica, in questo caso rappresentano una garanzia di quello che ci aspetta all’interno del volume. Da settant’anni esatti, il pinguino stilizzato
racchiuso in un ovale, il dorso arancione, la sobrietà dei caratteri, l’eleganza
dei disegni, equivalgono a un marchio
di qualità. Con loro, nel 1935, in Inghilterra, è nato il libro tascabile, una piccola grande rivoluzione destinata a
espandere cultura e conoscenza, democratizzando le buone letture, mettendole per la prima volta a disposizione di tutte le tasche. Poco per volta, hanno contagiato il mondo, trovando
ovunque imitatori del formato, sebbene non sempre anche della grazia del
prodotto originale e del valore del suo
contenuto. Un simile fenomeno editoriale meritava una celebrazione appropriata: e il settantesimo anniversario
della nascita ha offerto l’occasione. Un
libro, Penguin by design, a cover story,
1935-2005, dello storico dell’arte e disegnatore grafico Phil Baines, e una mostra al Victoria&Albert Museum di Londra ripercorrono la storia delle copertine contraddistinte dal pinguino e dell’idea geniale che vi si nasconde dentro.
Come molte buone idee, anche questa è sbocciata da una banale illuminazione. Di ritorno da un week-end nel
Devon, dove aveva fatto visita ad
Agatha Christie, un giovane editore di
nome Allen Lane si soffermò sulla piattaforma di una stazioncina ferroviaria,
davanti a un chiosco di giornali, per cercare qualcosa da leggere durante il viaggio verso la capitale. Scoprì che l’offerta
era limitata: giornali, riviste popolari,
ristampe di romanzi vittoriani. All’improvviso gli si accese una lampadina in
testa: la convinzione che la buona narrativa contemporanea avrebbe dovuto
UN SALTO NELLA STORIA
Una carrellata di copertine
storiche della casa
editrice Penguin
Lane ne parlò al pub, tra una birra
e l’altra, e tutti scoppiarono a ridere
Poi tornarono seri e un disegnatore
fu subito spedito allo zoo di Regent’s Park
per fare qualche schizzo del buffo animale
essere disponibile a chiunque a un
prezzo attraente, e venduta non solo
nelle librerie tradizionali ma pure nelle
stazioni, dai tabaccai, al supermercato.
Era, sottolineamolo, il 1935. Fuori da
Londra, le librerie scarseggiavano e dovunque fossero non somigliavano neppure lontanamente a quelle d’oggi: erano severi templi del sapere, luoghi che
incutevano riverenza e soggezione. I
prodotti che vi venivano venduti, per di
più, costavano cari; e l’unica alternativa a spendere una cifra considerevole
per acquistare un pesante volume rilegato era portarselo a casa in prestito
dalla biblioteca locale, se ce n’era una
nelle vicinanze.
Nei giorni seguenti il giovane editore
cominciò a discutere il progetto con
due colleghi, in un pub vicino a Piccadilly. Per la sua nuova impresa, Lane voleva un simbolo immediatamente riconoscibile, e aveva chiesto consigli in giro. Una segretaria, in ufficio, gli suggerì
un pinguino. Riferendo la cosa nel pub,
tra una birra e l’altra, fece scoppiare tutti a ridere: ma poi diventarono tutti seri,
domandandosi se non fosse quello che
cercavano. Un dipendente fu inviato
prontamente allo zoo di Regent’s Park
per fare qualche schizzo del buffo animale: il simbolo, fu presto stabilito, lo
avevano trovato. Il passo successivo fu
scegliere un colore per il dorso, e anche
quello nelle intenzioni dell’editore doveva essere una sorta di codice, in grado
di segnalare subito di che cosa si trattava, e così avvenne: arancione per la narrativa, blu per le biografie, verde per le
crime-story, quelle che noi in Italia —
seguendo per l’appunto il colore delle
copertine — avremmo più tardi imparato a chiamare “i gialli”. Quindi la decisione più rischiosa, perlomeno dal
punto di vista del bilancio: il prezzo. Sei
pence, lo stesso di un pacchetto di sigarette. E il formato doveva essere maneggevole, in grado di stare in una borsetta o in una tasca: tascabile, perciò.
Restava da scegliere soltanto il contenuto. Occorre precisare che il signor Lane, come ha scritto recentemente il Times, era tutt’altro che un intellettuale:
c’erano probabilmente pinguini tra i
ghiacci dell’Antartico che avevano fatto
letture migliori delle sue. Qualcuno dei
suoi conoscenti dubitava che avesse
mai letto un libro dall’inizio alla fine.
Ma, come commentò molti anni dopo
l’autore della sua biografia, «se Allen Lane non aveva letto Omero, certamente
sapeva leggere lo spirito del tempo».
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
Io, scozzese figlio di proletari
e l’Inferno di seconda mano
JOHN LLOYD
ono cresciuto in un paesino scozzese. Da un certo punto di vista
era conservatore e legato alla tradizione: la gente del posto da secoli si guadagnava da vivere coltivando la terra e pescando in mare. Da un altro punto di vista era investito invece dai medesimi venti che
dopo la guerra soffiarono sull’Europa: impetuosi, radicalizzanti, perturbatori di ogni tradizione e di ogni vita stabile. L’educazione e la cultura dovevano essere — al pari di ogni altra cosa — accessibili a tutti. Per
le famiglie dei ceti inferiori, al rispetto tipicamente scozzese per l’educazione si aggiunse la possibilità di poterla conseguire: un governo Labour rese gratuita l’educazione.
Fu questo mondo a rendere i Penguin Books qualcosa di più di una casa editrice: un’istituzione, con uno status e una connotazione emotiva
che, quanto meno per la mia generazione, non potranno mai svanire. Furono lanciati settanta anni fa, nel 1935, da Allen Lane, un uomo che intendeva l’editoria come una responsabilità nei confronti della cultura del proprio paese. Lane voleva allargare il distinto mondo dell’editoria britannica, la cerchia di editori di Londra ed Edimburgo che pubblicavano libri per
le classi medie e alte maggiormente dedite alla letteratura, e voleva portare i libri in un mercato che, pur provando interesse per i testi più belli, non
aveva però i soldi per permettersi di mettere insieme una biblioteca.
I Penguin iniziarono timidamente con una selezione di libri che comprendeva un Ernest Hemingway e un Andre Maurois, ma per il resto si
trattava di libri britannici mainstream, cosiddetti “senza pretese”, secondo la descrizione snob per la quale essi erano libri con qualcosa di
più rispetto alla letteratura dozzinale, ma qualcosa di meno rispetto ai
classici o ai moderni, scrittori come Eric Linklater o Agatha Christie. Fu
solo dopo la guerra, e soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, che
le ambizioni dei Penguin crebbero: essi iniziarono a mettere a disposizione di chi non l’aveva e ne aveva bisogno un’educazione letteraria e
sociale, i classici greci e quelli romani, i testi medievali, i romanzieri dell’epoca vittoriana, i nuovi scrittori degli anni Cinquanta e Sessanta di
tutta Europa e degli Stati Uniti.
I Penguin Book si presentavano in modo austero a quei tempi: le copertine morbide avevano bordi rossi o blu e sopra al titolo poteva esserci una piccola illustrazione. Possiedo ancora una copia del primo volume della Divina Commedia, l’Inferno, un’edizione pubblicata all’inizio
degli anni Cinquanta e comperata di seconda mano per pochi penny,
sulla cui copertina dentro a un cerchio spicca il piccolo profilo di un Dante pensieroso. Era stato tradotto dalla scrittrice americana di gialli Dorothy L. Sayers: l’introduzione — di oltre 50 pagine — inizia con queste
parole: «Per leggere la Divina Commedia, l’ideale sarebbe iniziare a leggere dalla prima riga e proseguire fino alla fine, senza darsi pena dei riferimenti storici e delle spiegazioni teologiche». Ovviamente, però, per la
maggior parte dei lettori dei Penguin, le spiegazioni erano necessarie,
perché noi approdammo a questi libri da giovani, ignoranti o con un’educazione incompleta, con la vaga sensazione di doverli conoscere, oppure perché volevamo sapere qualcosa — tutto, in verità — di ciò che esisteva al di là dei confini del luogo nel quale eravamo cresciuti. I Penguin
— nati negli anni Trenta, in piena epoca di depressione economica e di
rafforzamento delle grandi dittature totalitarie — ottennero il loro giusto riconoscimento negli anni di sviluppo ed uguaglianza del dopoguerra. Andarono in sintonia con molte delle correnti dell’epoca — l’apertura di nuove opportunità, intellettuali tanto quanto sociali.
Possedere una biblioteca di Penguin in costante allargamento equivaleva ad affermare una sorta di appartenenza al club dell’intellighenzia.
Per i più sfrontati tra noi il semplice possesso dei libri con la conseguente
esibizione di titoli — specialmente le nuove traduzioni Penguin di Omero, Virgilio, Voltaire, Cervantes, Turgenev, Flaubert, Dostoevsky e molti
altri — bastava già di per se stessa, senza ulteriore sforzo. Non fui esente
da tali espedienti: alcuni di quei libri mi divennero amici e mi condussero lungo sentieri di scoperta e di amore letterario, mentre altri mi nausearono presto e non tentai più di leggerli, e rimasero intonsi. (Devo ancora leggere la Conquista della Gallia di Giulio Cesare, e non è tutto).
L’ipocrisia intellettuale non è colpa dei Penguin, ovviamente. Semplicemente, il loro basso prezzo li aveva resi più accessibili e più diffusi. I prezzi bassi, l’atmosfera dell’epoca, la diffusione della cultura alta alle classi inferiori produssero un’altra più rilevante sventura: una spaccatura tra la
mia generazione, quella di chi si laureava all’università per la prima volta
in famiglia, e i genitori. Quelli di noi che nel mio paese erano “intellettuali” leggevano libri, ascoltavano musica e andavano a vedere film che i nostri genitori ritenevano schifosi, deleteri o semplicemente «al di sopra delle loro possibilità». Noi, con la tipica crudeltà dei giovani, li consideravamo poco intelligenti. Loro vedevano in noi l’espressione dell’ingratitudine, ma altresì un mondo che non avevano avuto occasione alcuna di conoscere, poiché erano stati coinvolti nel lavoro sin dalla più tenera età.
Mia madre ed io vivevamo nella casa dei miei nonni (non ho mai conosciuto mio padre: si erano separati dopo avermi concepito e dopo la
mia nascita non si videro mai più). Soltanto mia nonna leggeva regolarmente, anzi, in effetti senza tregua, un flusso ininterrotto di romanzetti leggeri pubblicati su riviste settimanali e sulla stampa. Mia madre,
un’estetista, la maggior parte delle sere era troppo stanca per leggere,
anche se poi una volta in pensione si dedicò ai libri. Mio nonno leggeva
i giornali locali. In casa c’erano pochi libri. I miei amici intellettuali del
paese — i cui padri erano rispettivamente un falegname, un gestore di
cinema, un pescatore e in un caso alquanto insolito un criminale in prigione (il figlio è diventato uno scrittore piuttosto noto) — erano, come
me, motivo in parte di orgoglio e in parte di esasperazione per le loro famiglie: orgoglio perché stavamo «arricchendo noi stessi», esasperazione perché pareva che disprezzassimo il nostro background e coloro che
ci amavano e ci avevano allevati.
Con i Penguin nella sporta, con le loro parole in mente e le loro citazioni — comprese soltanto a metà — in bocca, partimmo da lì prendendo
strade diverse, rendendoci conto, poco alla volta, di ciò che avevamo conseguito e di ciò che avevamo invece perduto.
(Traduzione di Anna Bissanti)
S
tascabile
Repubblica Nazionale 33 11/09/2005
Può anche darsi che il merito fosse dei
collaboratori, fatto sta che non sbagliò
un titolo. Il primo Penguin fu Ariel o la
vita di Shelley di Andrè Maurois, seguito da romanzi di Hemingway e di
Agatha Christie. Presa in affitto come
sede della nuova società editrice, la
Penguin Books, una cripta nella Holy
Trinity Church a Marylebone road, nel
primo anno di attività Lane vendette la
cifra strabiliante di tre milioni di “pinguini” tascabili: anche al modesto prezzo di sei pence l’uno facevano una bella
sommetta.
Innamorato della sua rivoluzione,
l’editore non si accontentò del pinguino in copertina, del dorso dal colore caratteristico, del formato tascabile, del
contenuto di qualità e del prezzo modico. La grafica dei primi dieci titoli era
stata fatta in casa, ma a metà degli anni
Trenta stava esplodendo il design e
prendendo piede una nuova figura professionale, il disegnatore grafico. Così
Lane andò in Svizzera, patria della moderna tipografia, incontrò Jan Tschichold, un maestro di grafica influenzato dal movimento Bauhaus, e lo assunse alla Penguin, trasportando nell’editoria il suo gusto disciplinato, sobrio,
innovatore. Con la stessa mania perfezionista, nel 1960 nominò direttore
creativo l’italiano Germano Facetti,
sotto la cui guida la Penguin sarebbe diventata un’accademia del design, arruolando i migliori disegnatori del momento, da Jock Kinneir, autore della segnaletica stradale britannica, a Milton
Glaser, inventore dell’iconico logo “I love New York”.
Intanto, i titoli e le collane si moltiplicavano. Tutto Shakespeare, una nuova
traduzione dell’Odissea, il Manifesto
del Partito Comunista, L’amante di
Lady Chatterley, per il quale Lane venne
citato in tribunale per oscenità e vinse,
segnando una svolta nella lotta contro
la censura: si formarono lunghe code
all’ingresso delle librerie per comprare
il romanzo di Lawrence, che in sei settimane vendette due milioni di copie. E
poi Wodehouse, Orwell, Kafka, Shaw,
Wells, Truman Capote, I versetti satanici di Salman Rushdie, Nick Hornby, Zadie Smith.
Allen Lane, il fondatore, morì nel
1970, dopo essere stato nominato baronetto, ma la Penguin ha evidentemente
saputo continuare a leggere «lo spirito
del tempo» anche dopo di lui. L’idea di
base rimane la stessa del 1935: permettere a tutti di possedere una biblioteca
In dodici mesi
Lane vendette
tre milioni di copie
Ma non era
ancora contento
Decise di cambiare
immagine
Andò in Svizzera
e assoldò
Jan Tschichold,
maestro della grafica
influenzato
dalla Bauhaus
di grande qualità, senza bisogno di
spendere una fortuna. Libri agili, comodi, eleganti, belli di fuori e di dentro.
Non c’è casa di amante delle buone letture, nel mondo anglosassone, dove
non spicchino gli inconfondibili dorsi
arancioni. Non c’è straniero in grado di
leggere un autore inglese in lingua originale che non ne abbia qualcuno nella
sua libreria. Ognuno ha i “suoi” Penguin preferiti, legati a un ricordo, a una
fase della vita: i miei sono i romanzi di
Graham Greene con le illustrazioni di
Paul Hogarth. Perché i “pinguini” sono
oggetti familiari, a cui ci si affeziona più
che ad altri ben più costosi, più raffinati e magari più importanti volumi: sono
vecchi amici, che ogni tanto viene voglia di estrarre dallo scaffale, stringere
in mano, lisciare, carezzare. Non si può
rimanere freddi, imparziali, insensibili,
davanti a quel buffo animaletto planato dal Polo Sud su un pezzo di carta patinata. È maledettamente difficile,
qualche volta, non giudicare un libro
dalla copertina.
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
cultura
SCRITTORI E FIABE
Festival di Mantova
ITALO CALVINO
DANIEL PENNAC
LUIS SEPÚLVEDA
Al mondo dei più giovani
guardò scrivendo le
novelle di Marcovaldo,
ma anche raccogliendo
le Fiabe italiane e narrando
le gesta de Il visconte
dimezzato, Il barone
rampante e Il cavaliere
inesistente
Non solo le storie di casa
Malaussène. Nelle opere
dell’autore francese
c’è spazio anche
per le numerose avventure
del piccolo Kamo (da Io
e Kamo a Kamo. L’idea
del secolo) e la fiaba
L’occhio del lupo
Per molti bambini, ma non
solo, è soprattutto l’autore
di Storia di una gabbianella
e del gatto che le insegnò
a volare, la favola
di Fortunata,
la gabbianella che si crede
un felino, e di Zorba,
il gatto che le fa da padre
Doyle: il mio eroe nell’America jazz
«T
SIMONETTA FIORI
utti conosciamo
l’importanza del
Mississippi nella
canzone e nella
poesia, ma in realtà neppure Bob Dylan sapeva come scorresse la vita lungo quel fiume o la potenza delle sue
correnti. Solo oggi abbiamo compreso
la forza di quell’acqua, il suo vigore
creativo ma anche distruttivo». Testa
rasata e una pallina d’oro all’orecchio,
Roddy Doyle è a Mantova per presentare il suo nuovo romanzo, Una faccia
già vista (Guanda). New Orleans è appena evocata, funge da fondale lontano a una storia bizzarra e crudele,
com’è nello stile di questo scrittore dublinese: l’incontro a Chicago tra Louis
Armstrong e Henry Smart, già protagonista del precedente libro di Doyle Una
stella di nome Henry (il primo atto di
un’ideale trilogia dedicata all’epica irlandese del Novecento). Se in quel volume Doyle raccontava la rivolta del
1916 soffocata nel sangue dagli inglesi
- il rivoluzionario Henry aveva 15 anni
- in Una faccia già vista l’autore spedisce il suo personaggio in un’America
stregata dal jazz e lacerata dai conflitti
razziali, sponda di libertà dove «si poteva sparire, si poteva morire, e poi tornare alla vita, grande e bella». È il 1924,
Henry ha 23 anni e incontra Armstrong
a Chicago secondo modalità inusuali:
uno sputo sulla fronte, emesso dalla
tromba non ancora leggendaria del
musicista nero. Per il giovane emigrante è come un battesimo yankee.
«Non ero più irlandese. Non avevo mai
sentito niente del genere. Era musica
libera, senza parole. Furiosa, felice e letale. Uccideva tutta l’altra musica. Era
nuova, come me». Presto diverrà l’improbabile “braccio bianco” di Louis, lo
“smoked irishman”, l’irlandese affumicato lo chiama lui. Con un epilogo
imprevisto.
VENERDÌ 16
ERMANNO BENCIVENGA
GIULIANO BOCCALI
REMO BODEI
MANLIO BRUSATIN
GIUSEPPE CAMBIANO
CARLA CASAGRANDE
UMBERTO GALIMBERTI
PAOLO GALLUZZI
ALDO GIORGIO GARGANI
TULLIO GREGORY
FRANÇOIS JULLIEN
MARIO PERNIOLA
MARCO VOZZA
avenida.it
Repubblica Nazionale 35 11/09/2005
Nel suo nuovo
romanzo, Una faccia
già vista, l’autore
irlandese ripropone
il personaggio Henry
Lo scrittore irlandese Roddy Doyle
Il creatore dei “Ridarelli” a confronto con i suoi piccoli lettori
“Quando scrivo torno bambino”
«B
aciatemi i fondelli!», intima Roddy Doyle
rivolto alla folla plaudente. Arrossisce un
po’, la traduttrice ancor di più. Gli hanno
chiesto di dire qualcosa in lingua gaelica e lui non
trova di meglio che il goliardico invito. Dinanzi a una
platea di specie particolare - il più vecchio ha dieci
anni - lo scrittore torna bambino. E si sintonizza rapidamente con il registro surreale degli spettatori,
stile largamente sperimentato nei suoi esilaranti libri per ragazzi. Chi ne conosce i racconti - l’ultimo
appena uscito da Salani, Le avventure nel frattempo
- sa che stiamo per inoltrarci nel terreno delle puzze
e delle cacche, secondo la più nobile tradizione letteraria che vanta autori come Roald Dahl o Bianca
Pitzorno. Cacche giuste e severe, queste di Doyle, distribuite dalle sue creature pelose - i Ridarelli - in segno di punizione per chi commette cattiverie contro
i più piccoli. «Ho cominciato a scrivere questi libri
per i miei bambini», racconta Doyle, che ha tre figli
dai sette ai quattordici. «Erano loro a stabilire se la
storia reggeva: i miei primi editor».
SABATO 17
VITTORINO ANDREOLI
FRANCO BATTIATO
REMO BODEI
EDOARDO BONCINELLI
ADRIANA CAVARERO
DERRICK DE KERCKHOVE
ROBERTA DE MONTICELLI
VITTORIO GALLESE
PAOLO FABBRI
MAURIZIO FERRARIS
DIEGO MARCONI
JÜRGEN MOLTMANN
JEAN-LUC NANCY
STEFANO RODOTÀ
DETLEV SCHILD
MANLIO SGALAMBRO
CARLO SINI
SILVANO TAGLIAGAMBE
SALVATORE VECA
VINCENZO VITIELLO
SLAVOJ ZIZEK
Il suo beniamino è il signor Mack, il miglior assaggiatore di biscotti di tutta l’Irlanda. «Quando
scrivo, mi metto sempre dalla parte dei bambini.
Torno indietro ai miei dieci anni. E ricordo quando
sul tavolo compariva una cascata di dolciumi e cioccolato. Oppure un cestino di cracker. C’è una differenza, o no?». I più piccoli ridono. Sollecitati dallo
scrittore Andrea Valente, incalzano con le loro domande. Doyle dice che sta lavorando a un nuovo
racconto ambientato nello zoo di Dublino, protagonista una famiglia di scimmie dalla doppia vita.
Con l’aria grave, uno spettatore lo interroga: «Sono
appena stato allo zoo di Berlino. Ho visto le scimmie. Quali sono le tue?». Lui non si scompone:
«Quelle a sinistra». Confessa d’aver capito sin da
piccolo che sarebbe diventato uno scrittore. Andò a
vedere con i compagni un film western interpretato da un celebre cowboy. «È mio zio», disse. Gli credettero. «Scoprii che potevo mentire, cavandomela. Nella mia vita, in fondo, poi non ho fatto altro».
(s.fio.)
FOTO REUTERS
MANTOVA
Quarantasette anni, figlio di un tipografo dell’Irish Independent, tra gli
scrittori irlandesi più famosi nel mondo, Doyle vive il successo con grande
sobrietà.
Perché ha scelto Armstrong?
«Leggendo l’autobiografia rimasi
colpito da una frase. Quando lasciò
New Orleans per New York, qualcuno
gli disse “Trovati un uomo bianco che ti
metta una mano sulla spalla e ti accolga: sei il mio nero”. Pensai che il mio
personaggio potesse essere quell’uomo bianco».
Alla fine del romanzo c’è una sterminata bibliografia sul musicista.
«Sì, mi sono documentato moltissimo. Ho letto memorie, lettere, diari,
saggi biografie. Devo confessare che, al
di là della seduzione musicale, sono
stato rapito dalla sua vita. Più interessante di Duke Ellington, e anche più tagliata per le esigenze di un narratore:
Armstrong scriveva le sue canzoni, ha
lasciato molti brani su carta ai quali mi
sono potuto ispirare. Era anche un
grande parlatore, a tratti esilarante. Un
clown. Un attore. Il più grande trombettista del mondo. Insomma l’ideale
per costruirci intorno un’opera di fiction».
Lei descrive un paese attraversato
da forti tensioni razziali. L’amante nera di Henry cita una celebre canzone:
“Di dove sono? Dove i neri pestano i
piedi nel fango del Mississippi”.
«Gli ultimi della terra che ancora sopravvivono. La recente tragedia di New
Orleans ha rivelato l’enorme divario tra
privilegiati e oppressi. L’America e il
mondo intero sono ancora divisi in
blocchi separati».
Lei insiste sulle biografie parallele di
Armstrong e Henry, cresciuti sulla
strada. Una fratellanza ideale tra i neri d’America e gli irlandesi, i “neri
d’Europa”?
«No, questo no. Mi appare esagerato:
così diceva la propaganda dell’Ira. Voglio essere onesto: ho una bella casa,
una Volvo, non mi sembra di fare la vita di un oppresso».
La crudele storia
dell’incontro tra
il giovane emigrante
di Dublino e il mitico
Louis Armstrong
DOMENICA 18
ENZO BIANCHI
GEORGES DIDI-HUBERMAN
UMBERTO GALIMBERTI
SERGIO GIVONE
ALFONSO M. IACONO
CHARLES MALAMOUD
JEAN-LUC MARION
SALVATORE NATOLI
GIANGIORGIO PASQUALOTTO
CARLO SEVERI
EMANUELE SEVERINO
PETER SLOTERDIJK
SILVIA VEGETTI FINZI
SERGIO VITI
main sponsor
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
In principio era il monologo da virtuosi o il siparietto
da avanspettacolo. Poi sono venuti Dario Fo, Proietti e Grillo
Oggi l’assolo affabulatorio sul palco ha preso molte direzioni:
c’è il modulo narrativo e doloroso di Paolini, quello fantastico di Ovadia
e Celestini, l’umoristico-poetico di Antonio Albanese. Artisti diversi
ma tutti impegnati su un unico genere dall’irresistibile ascesa
Il 4 giugno del ’44 ‘sti soldati attraversavano
la città da sud verso nord, e lui andava verso sud
Camminava contromano rispetto alla Storia
ASCANIO CELESTINI
Il boom dell’attore single
Dalle caricature
e dalle macchiette
siamo passati
alla satira sociale
Repubblica Nazionale 36 11/09/2005
I VOLTI
DARIO FO
I suoi gramelot e fabulazzi
gli hanno valso il Premio Nobel
GIGI PROIETTI
Un pioniere del genere
“A me gli occhi, please”, 1976
BEPPE GRILLO
Il più attrezzato showman
della controinformazione
RODOLFO DI GIAMMARCO
«I
l monologo è una specie
di letteratura drammatica che risponde al gusto
del tempo e io, signori,
parlerò della sua utilità
come studio, come esercizio, come aiuto pel giovane artista
drammatico...» suona la prefazione/a
solo di un manuale glorioso del 1888, Il
Libro dei Monologhi di Luigi Rasi, attore, autore e storico del teatro. «L’Autore
di questo libro preferisce evitare inutili
questioni legali... La carta può causare
tagli cutanei... Il volume è infiammabile... Non usatelo come contraccettivo...» suona la premessa del testo-copione Bollito misto con mostardadi Daniele Luttazzi pubblicato nel 2005. Nell’arco di 117 anni la teoria e la pratica del
parlare da soli in scena o su una pagina
sono radicalmente cambiate. Ora la
maggiore riconoscibilità dell’artista, il
meccanismo più agile della messinscena e la comunicativa più diretta del linguaggio (oltre che una sobrietà necessaria di budget) hanno decretato il
trionfo dell’attore single da camera o
del performer per i grandi numeri di
pubblico.
Nell’Ottocento e nella prima parte
del Novecento il monologo era quasi
sempre un lusso, un exploit reso possibile dal virtuosismo aristocratico di
giudiziosi esponenti della prosa. Anche
se poi da noi, fatta eccezione per il fenomeno delle serate d’onore che grandi attori e attrici hanno dedicato fino all’ultimo dopoguerra a un repertorio di
poesie e “tirate” celebri, è stato sempre
più naturale il cammeo, la caricatura, la
macchietta, la satira iperbolica e la
chiacchiera comico-sociale. Tutto un
repertorio da entertainment che a seconda del periodo politico, delle condizioni economiche e del tasso di anarchia ha alimentato, oltre alla parabola
di artisti solisti geniali non classificabili come il Premio Nobel Dario Fo, il fenomeno dei comici popolari, dei nuovi
comici, dei comici raccontatori, dei comici civili, una razza cui spesso la risata si smorza in bocca per dar luogo a solisti della denuncia politica, a guru che
aprono gli occhi contro le persuasioni
occulte, a inquisitori di piaghe nazionali, a impersonatori di nuovi mostri.
Dai e dai, la figura del teatrante che
occupa da solo la scena è assurta a modello quasi quotidiano, ed è un boom in
continua crescita tanto che l’one man
(o woman) show è un tipo di spettacolo in regola che ha ormai antenati, padri, fratelli maggiori e una miriade di
praticanti. Difficile, certo, che qualcuno possa vantare un pur lontano
ascendente dal Viviani dei bozzetti
umani tragicomici, o dal Petrolini degli
irripetibili Gastone e Nerone. E forse
non si può competere con l’autorevolezza del trasformismo di Fregoli. Al-
trettanto è venuta meno l’improntitudine artigianale dei Totò, dei Rascel e
dei Fabrizi, o di donne-personaggio come la Magnani, come la Scala. Ma alcuni dei parlatori indipendenti di oggi
hanno la cattiveria etica del triestino
(perseguitato) Angelo Cecchelin, la nevrosi verbale di Walter Chiari, l’acciliato timbro del Gassman dedito ad atti
unici o alla poesia, l’iperbole mimica
del primo Montesano, il gusto della facezia di Bramieri, il piacere per lo scandalo letterario di Paolo Poli, o l’ardore
caustico di Franca Rame, o la mascalzonaggine culturale di Laura Betti.
Chissà se l’incrudelimento dei solisti di
casa nostra ha risentito dell’eco di un
comedian statunitense, Lenny Bruce,
che agli inizi degli anni Sessanta affermò il suo stile violento e osceno. Ma
è un’altra storia.
In Italia, se teniamo da parte il vertiginoso talento solitario di Fo, la sua fabulazione che è un torrente di suoni, e
se consideriamo inaccostabile la potenza della phoné di Carmelo Bene, la
maestria nell’arte del monologo è appannaggio di Gigi Proietti. È lui, nel dicembre del ’76, al Teatro Tenda di Roma, con A me gli occhi, please, con un
mix di pezzi e generi che fece epoca (replicato all’infinito) a segnare uno spartiacque nel teatro: da allora la sua taglia
di showman-teatrante l’ha messo in
contatto anche con pubblici da stadio:
al Palazzo dello Sport di Firenze ha registrato quest’anno seimila presenze, e
nel 2000 in due sere alla curva sud dell’Olimpico ha avuto 27mila spettatori.
Quanto agli attori-conferenzieri scatenati in argomenti anticonsumistici e di
smascheramento, la citazione d’obbligo è per Beppe Grillo: al chiuso, impegna il Forum di Milano (11mila posti) o
il Palalottomatica di Roma (8.800),
mentre all’aperto ha “adunato” il 4 settembre 15mila persone all’Arena di Verona, e in un capodanno di tre anni fa
(appuntamento gratuito) una massa di
300mila in piazza a Torino. Più ascetico, più monografico, più narrativo e più
“drammatico” è Marco Paolini, che
sceglie temi forti e scottanti, una mappa precisa e fabulatoria, e resta attore,
si fa interprete dei malesseri e crea
emozioni dividendosi tra spazi teatrali
e non teatrali.
E c’è l’one man show dei raccontatori, di Moni Ovadia che risale con la parola e col canto alle origini delle tradizioni ebraiche, di Alessandro Baricco,
con le sue rapinose narrazioni alla Tolstoj e di Ascanio Celestini, che fruga nei
travagli delle lotte partigiane, della Roma popolare e della classe lavoratrice.
C’è l’a solo dell’incazzatissimo Daniele
Luttazzi che impasta di crudele comicità e di paradossi le vicende della cosa
pubblica non senza scomodare casi
privati, morale e tabù. C’è il percorso a
sé di Paolo Rossi che è veterano del genere, che da kamikaze umoristico è
passato alla satira dello scenario governativo e non, fino a preferirsi fool del
teatro popolare scavalcamontagne di
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
Sono andato da una donna bellissima e le ho
detto: «Se mi baci divento più alto», e lei ha risposto:
«Perché? Non sei basso per essere un ranocchio!»
Ho tre figli, tutti già sistemati. Thomas
si droga; Nicholas spaccia; Giuseppes, la pecora
nera, è nella narcotici: arresta i fratelli e fa carriera
PAOLO ROSSI
ANTONIO ALBANESE
«Ce l'abiamo noi un anticoncezionale,
il migliore: Un limonata!» «E quando devo
prenderla, Rabbi? Prima o dopo di…? Invece di!»
MONI OVADIA
La rivincita della parola nuda
MICHELE SERRA
ochi anni fa mi venne chiesto di leggere, in una
chiesa modenese, la Lettera ai giudici di don Lorenzo Milani. Un testo importante e denso, ma
lungo (cinquanta minuti) e zeppo di riferimenti tecnico-giuridici. A rischio di noia, voglio dire, specie se
letto in pubblico da un non attore quale sono. La chiesa era strapiena (più di mille persone), temevo i bisbigli da distrazione, speravo — appena — in un’attenzione di cortesia. Invece fu il silenzio, un silenzio
carico di rispetto, un silenzio teatrale e solenne, a sorprendermi e quasi intimidirmi. La mia voce incerta
cadeva su un pubblico attentissimo e teso, e alla fine
della lettura un applauso lunghissimo sancì calorosamente, solidalmente l’“ite, missa est” di quel rito
improvvisato.
Escluso che il successo della lettura fosse dipeso dal
mio talento di lettore, e perfino dal carisma di don Milani (in quello scritto diluito nei tempi e nelle argomentazioni), mi fu chiaro che quella sera si celebrava
la parola in quanto tale. Le persone presenti volevano
che si restituisse senso e dignità alla parola umana. Di
più: avvertivano, come noi tutti, che la parola è in pericolo, che il suo scialo, il suo abuso, la sua distruzione — specie televisiva — è qualcosa che mina le fondamenta del linguaggio e dunque della socialità.
Sono convinto che questa urgenza di difendere la
parola, di farle spazio attorno quasi per aiutarla a respirare nuovamente, sia alla base del fenomeno dei
tanti one man show teatrali, del teatro di affabulazione, e più in generale dell’ascolto che si dedica a chi legge o racconta in pubblico, solitario e spesso senza alcun supporto scenico. Sono innumerevoli gli esempi,
anche non teatrali o para-teatrali, di letture pubbliche
totalmente scarne (solo una voce, un microfono e un
leggio) che riempiono gli spazi più difformi, sale teatrali e biblioteche, piazze e perfino stazioni, autobus o
sale d’attesa o banche (vedi la bella rassegna bolognese Ad alta voce). Libri letti, a turno, per intero, come a
Mantova lo scorso anno, in una staffetta di voci che si
danno il cambio, e il vero maratoneta è il racconto che
si snoda nelle ore davanti a un uditorio cangiante di
passanti. Romanzi letti per radio (la radio è il complice più navigato della parola) che raccolgono un’audience non piccola, decine di migliaia di persone che
leggono o rileggono con le orecchie. E anche microeventi privati in case private: alcuni miei giovani amici organizzano da tempo piccole serate conviviali nelle quali ogni ospite legge, a turno, una pagina o un capitolo di un libro. E per Ad alta voce fui invitato a leggere qualche poesia, nel suo tinello silenzioso, a un
unico uditore, un ragazzo paraplegico. Bella esperienza, delicata e potente al tempo stesso.
Indimenticabile, sempre frugando nelle mie esperienze, una serata nella campagna ravennate, in un
cascinale, dove l’attore romagnolo Gigio Dadina rinnovava la tradizione del “fuler”, il raccontatore di fole, sciorinando accanto al focolare acceso il suo repertorio di memorie contadine e industriali, per una
P
Repubblica Nazionale 37 11/09/2005
un tempo. C’è il monologo di un artista
contemplativo ed emblematico come
Antonio Albanese, ispirato da figure losche e surreali, animato da una fisicità
che è un manifesto dell’arroganza
sconfitta, della supponenza piena di tenerezza. C’è l’one man show di uno come Alessandro Bergonzoni che gioca
col lessico e con gli idiomi elevandoli a
prototipi, ricavandone trame, coniandone acrobazie di senso, in una dimensione che è “altra”. C’è l’idealismo a
parte di Marco Baliani, un austero lottatore che in scena si batte sempre per
la buona causa di un uomo, di un mondo, di una posizione del pensiero, con
l’anti-eroismo di un personaggio di Camus. E c’è l’isolamento di uno davvero
fuori dal mucchio, di un tribolato nichilista ricco di feroce mimica, di uno come Antonio Rezza, che mette paura,
che non può misurarsi con gli spazi, tenuto in quarantena.
Alla famiglia delle soliste pioniere
appartiene (ed è un pezzo di storia del
teatro) Franca Valeri, recita da sola
drammaturgie altrui Anna Marchesini, impone se stessa con mille profili
Sabina Guzzanti (ci sarebbe anche
Corrado...), è fedele a un rigoroso e
brillante impegno Lella Costa, fa da
new entry Eleonora Danco. Alla genia
degli attori-comici corrosivi vanno
ascritti Claudio Bisio (amante della
stranezza sensibile), Paolo Hendel,
Gene Gnocchi, Enrico Bertolino e i
sempre più interpreti Alessandro
Benvenuti, Gioele Dix. Al ramo dei
raccontatori etici si ricollegano Davide Enia, Mario Perrotta e Ulderico Pesce, e fa la sua parte uno scrittore come Vincenzo Cerami, e anche Valerio
Mastandrea. L’erede di Noschese è l’imitatore Max Giusti. Recitano bene
da soli, e da tempo, Enzo Moscato,
Peppe Barra, Danio Manfredini.
Insomma, solo è bello. E il pubblico
che ci sta, gli spettacoli che hanno successo, la tendenza che c’è lo testimoniano. Da considerarsi uno specchio
della solitudine di noi tutti nella vita?
C’è anche un folto
gruppo di “soliste”,
la capostipite
è Franca Valeri
I VOLTI
MARCO PAOLINI
Celebre per “Vajont”, racconto
minuzioso del grande misfatto
ALESSANDRO BARICCO
Dalla musica alla poesia, è il vero
affabulatore che affascina tutti
MARCO BALIANI
È un veterano
dell’assolo letterario-civile
trentina di commensali felici di ascoltarlo con un
piatto di minestra davanti al naso, e un bicchiere di vino a portata di mano.
Gli esempi alti, dal Carmelo Bene tonante al Sermonti magistrale e colloquiale che recitano Dante,
sono la punta dell’iceberg. Ovunque qualcuno legga
qualcosa, si raduna un piccolo o grande pubblico di
ascoltatori assorti, e spesso l’umiltà e la non-professionalità dell’oratore (uno scrittore, un attore fuori
contesto, un chiunque) aggiungono all’evento l’emozione dell’effrazione “democratica”, come quando in certe comunità cattoliche di base si decise che
non era solo del sacerdote la facoltà di dire il Verbo.
Emozionante, per esempio, è vedere un giornalista
come Gian Antonio Stella entrare goffamente in scena, sedersi a un tavolino e leggere, al lume di un abatjour, le sue storie di emigrazione, totalmente al di fuori di ogni ortodossia teatrale. Ed è curioso, in questo
nuovo clima così favorevole alla nuda parola, che ancora non abbiano ripreso corpo, da qualche parte, le
grandi kermesse poetiche dei turbolenti Settanta,
magari lasciando a quel passato infocato, ma anche
acido, gli eccessi sguaiati e puerili di un pubblico
troppo partecipante, però ritrovando la straordinaria
magia di quelle voci spesso incongrue che davano
corpo ai versi, voci d’autore quasi mai efficaci nella
pronuncia e nella scansione metrica, ma poetiche
perché di poeti.
Con memorabili eccezioni di bravura assoluta: come Allen Ginzberg a Sampierdarena, in una notte popolare e colta di venti anni fa, che intona William
Blake («Tiger, tiger…») con melodiosa raucedine, con
magistrale felicità, accompagnato da un minuscolo
armonium, e incanta un pubblico di massaie e ragazzi che niente sanno di Blake, di Ginzberg, di poesia e
nemmeno di inglese, ma colgono la musica, colgono
la generosità dell’officiante, capiscono la straordinarietà di quella scena povera e precaria sotto le stelle.
Ci sarebbe, a ben vedere (e a ben sentire), un rischio
di inflazione e/o di modaiolismo. Ma è il genere stesso (la parola nuda) che ci tutela, è una merce secca,
semplice, difficile da contraffare con condimenti fasulli, bellurie dozzinali, trucchi incanta-popolo, il
peggio che può capitare è che la lettura non sia poi così avvincente, il lettore davvero troppo afono o stonato. Prevale comunque il senso di rivincita rispetto al
parolicidio dei media e della tivù soprattutto, il risarcimento che si va a riscuotere sotto un leggio che promette solo quello che può dare, parole, scrittura, racconto allo stato puro.
Sopra i quaranta, se si deve leggere in pubblico, è
molto importante non dimenticare gli occhiali, come
mi è accaduto una sera nella biblioteca comunale di
un paesino appenninico. Un coetaneo mi prestò i
suoi. Di quelli da farmacia e anche da autogrill, venti
euro. Bastano due lenti dozzinali per salvare ciò che è
stato scritto. E basta la voce per parlare, qualora si ritenga che ancora ne vale la pena.
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
i sapori
Dieta mediterranea
Ha valicato mari e monti, scavalcato i millenni,
accomunato popoli e culture in apparenza inconciliabili
Ora, dal 20 al 25 settembre a San Vito Lo Capo,
torna il Festival che da qualche anno celebra questo
piatto passe-partout, meticcio per storia e vocazione,
nomade come le genti che lo hanno inventato
Couscous
Una passione senza confini
LICIA GRANELLO
Algeria
L’ingrediente-base
è la Berboucha, semola
a grani grossi che viene
versata nel tarbout, fatta
gonfiare con acqua e cotta
a vapore in due riprese.
Alla fine, si assembla
stufato di montone o capra,
arricchito di legumi e spezie
Costa d’Avorio
Al posto della semola,
si utilizza l’attiéké, ovvero
farina derivata dal tubero
della manioca grattugiata
Una volta lavorata e cotta,
viene servita con pollo
alla brace e pesce – merluzzo
o tonno fritto e ricoperto
di cipolle e pomodori
o preparano cristiani, ebrei, musulmani. Lo gustano mendicanti e notabili, vegetariani e carnivori irriducibili, tradizionalisti e creativi, snob e no global.
Perché il couscous è meticcio per definizione, con il suo carico di storia diffusa e
senza barriere. Ha valicato mari e monti, superato
secoli e millenni, affratellato genti e deliziato palati
figli di culture tanto diverse da essere apparentemente inconciliabili.
Così, non è difficile ipotizzare per la nuova edizione del “Couscous Fest” (San Vito Lo Capo, Trapani,
20-25 settembre, www. couscousfest. it) un successo anche maggiore di quello che ha segnato l’ultima
edizione. Centomila visitatori, tre tonnellate di semola utilizzate: insomma, una gigantesca piramide
di couscous che ha sollazzato turisti e appassionati
di otto Paesi, quante sono le brigate di cucina impegnate nella gara meno competitiva del mondo. Potete immaginare uno chef palestinese e uno israeliano che incocciano fianco a fianco, senz’altra diatriba
della ricetta migliore? Succede anche questo, sotto le
belle tende in stile arabo allestite lungo una delle
spiagge più sensuali della Sicilia.
Perché davvero, questo è un cibo senz’altri confini che la propria fantasia nell’assemblare il condimento — da povero, semplice, severo, a complesso, sontuoso, ricco — della semola sgranata. Portato alla passerella globale dagli Imazighen, i Berberi, mitico popolo delle valli e montagne nordafricane, usi a preparare una “pappa” (kskso, kuskus) a
base dei cereali coltivati — frumento, orzo, miglio,
sorgo — assemblati con acqua o latte, il couscous è
stato inseparabile compagno di viaggio dei grandi
viaggiatori europei alla scoperta del Maghreb.
A cambiare, di Paese in Paese, i nomi — maftoul,
kseksou, cuscusù, cascasa, sekso, kuski, burghul,
tabuleho — i condimenti — dallo smen, il burro fermentato, ai meravigliosi stufati di carni, verdure e
spezie — ma non l’approccio interculturale, con le
sue ricette ancorate alle diverse tradizioni eppure
assimilabili a una vasta porzione di mondo. In più,
nessun cibo come il couscous vanta una modalità
di consumo tanto democratica quanto conviviale:
ci si siede intorno al grande piatto rotondo di por-
L
Repubblica Nazionale 38 11/09/2005
Israele
Tra tante ricette salate,
con l’agnello protagonista,
spicca la versione dolce,
della festa di Chanukkà
La semola cotta è arricchita
con burro, zucchero, uvette
passite rinvenute in acqua
e decorata con fette sottili
di arancia zuccherata
Italia
L’immigrazione magrebina
ha introdotto le ricette
a base di carne, diverse
da quelle che ci
appartengono, con pesce
e verdure, nella zona
di Livorno o sulle coste
siciliane, e vegetariana,
nell’isola di San Pietro (CA)
Marocco
Palestina
Le ricette sono infinite, figlie
delle diverse zone del Paese
Si va dal Sekkouk
col latte, servito a mo’
di zuppa, al Medfoun,
a piramide e ripieno di carne
e frutta. Ogni ras al hanut
(bottegaio) vanta il suo
segreto miscuglio d’erbe
Il Maftoul (in arabo,
movimento rotatorio
della mano) si prepara
da un impasto di farina
di grano integrale e frumento
spezzato Burghul con acqua
e sale, essiccato al sole
I granuli sono grandi e scuri
Condito con pollo e verdure
tata, si medita per qualche momento — il rituale Bismallah, “in nome di Dio” — ci si serve, possibilmente con le mani, prendendo un pezzetto di carne (o verdura, o pesce) e formando una pallina con
la semola sgranata per accompagnarlo.
Sembra un rituale così distante dalla nostra cultura, eppure, il couscous è anche roba nostra, come ben racconta la scrittrice Fatema Hal, ambasciatrice marocchina della gastronomia e titolare
di uno dei ristoranti più autenticamente e golosamente maghrebini, il “Mansouria” di Parigi: «I Romani fecero del frumento il motore della loro conquista, trasformando Nord Africa, Egitto, Sicilia,
Medio Oriente in un enorme granaio, e battezzando la farina con il nome similia, di origine sanscrita, che divenne smida in lingua araba e semola in
italiano».
E infatti, malgrado in origine i nostri luoghi del couscous fossero riconducibili a zone specifiche — Livorno, Carloforte, alcune coste siciliane — il consumo si è esteso facilmente da Nord a Sud, grazie a un
sapiente dosaggio dei gusti, riducendo le
spezie e le salse a lunga cottura in favore di verdure croccanti e pesce,
come recita la ricetta del couscous italiano in gara quest’anno. Se avete dei dubbi sul movimento dell’incocciatura o su quando
aggiungere lo zafferano,
chiedete al superesperto Vittorio Castellani, in
arte Chef Kumalè
(“com’è?” in dialetto piemontese), che animerà i
minicorsi di San Vito Lo
Capo. E poi assaggiate i
couscous in degustazione. Rigorosamente
con
le
mani.
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
itinerari
Isola di S. Pietro (CA)
Livorno
GLOSSARIO
Pantelleria (Tp)
Colonizzata
su invito di Carlo
Emanuele III
di Savoia
dai pescatori
tunisini, eredi
dei mille liguri
approdati 150 anni
prima a Tabarka,
ruota intorno al paese di Carloforte. Famosa
per la tonnara e le saline, vanta un couscous
vegetariano, il Caschà
La città-porto
ha inglobato
il couscous
nelle ricette
di tradizione grazie
agli scambi
con i mercanti ebrei
tunisini, rafforzati
dall’insediamento
di una comunità ebraica Preparato con pesce
e spezie, si chiama Cuscussù, quasi come a
Trapani (Cùscusu)
L’isola vulcanica
Bent-el-Rhia,
la Figlia del Vento
della tradizione
araba, più vicina
all’Africa (Capo
Mustafà è a 70 km)
che alla Sicilia,
ha nel couscous
di pesce e verdure un caposaldo
della cucina, insieme ai capperi e al vino
Passito di Zibibbo
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
HOTEL HIERACON
Corso Cavour 62
Tel. 0781- 854028
Camera doppia da 98 euro,
con prima colazione
HOTEL GRANDUCA
Piazza Giuseppe Micheli 16
Tel. 0586-891024
Camera doppia da 96 euro,
colazione inclusa
ZUBEBI RESORT
Località Zubebi
Tel.0923-913653
Camera doppia da 135 euro,
colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DA NICOLÒ
Corso Cavour 32
Tel. 0781-854048
Senza chiusura estiva, menù da 40 euro
IL GIRO DEL CANE
Borgo dei cappuccini 314
Tel. 0586-812560
Chiuso la domenica, menù da 30 euro
LA NICCHIA (CON VENDITA PRODOTTI)
Contrada Scauri Basso
Tel. 0923-916342
Senza chiusura estiva, menù da 27 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
PASTIFICIO LUXORO
Via XX Settembre 30
Tel. 0781- 856161
PASTIFICIO CHIESA
Mercato Centrale, Via Bontalenti
Tel. 0586-884697
FORNO BENTIFECI
Via Cagliari 58
Tel. 0923-911142
3 tonnellate
Couscous
Coskinon (semola) in Grecia, Kuski, Kskso,
Sekso nelle lingue berbere: la stessa parola
definisce sia la semola che la ricetta
Incocciare
Lavorare la semola (le dita leggermente
aperte e il palmo sollevato) con movimenti
circolari per formare delle micropalline
Gsa’a
Il piatto largo e basso, chiamato anche
diefna o kesriyya, su cui si lavora – e a volte
si serve – il couscous. Di legno o terracotta
Couscoussiera
È una pentola doppia: nella parte inferiore
si prepara il brodo, in quella superiore,
forata, si cuoce al vapore il couscous
Piatto delle feste musulmane e ebraiche
La semola che sarà consumata
al Couscous Festival
Le mani italiane
sul cibo sacro
LILIA ZAOUALI
«C
Repubblica Nazionale 39 11/09/2005
la ricetta
La semola cruda
– più o meno fine –
posata su un piatto
basso e largo,
va lavorata con acqua
e poco sale in modo
rotatorio
e sempre nello stesso
senso
***
Si formano
delle microscopiche
palline, che versate
in un piatto fondo,
devono essere
separate
le une dalle altre
***
Dopo un quarto d’ora
di riposo e una nuova
lavorazione,
le palline passano
attraverso setacci
di diverse dimensioni:
alla fine, la grandezza
va dal grano di pepe
alla testa di formica
***
La cottura
con il vapore
dello stufato al piano
inferiore
della couscoussiera,
dura circa 40’
e comporta una terza
lavorazione
con acqua, olio
o burro chiarificato
e sale
***
Si serve in una grande
piatto rotondo,
con il condimento
al centro e il brodo
a parte
Non accompagnato
dal pane
Senegal
Tunisia
La semola è sostituita
dalla rottura di riso,
ingrediente fondamentale
per la preparazione della tiéboudienne, piatto nazionale
a base di pesce e verdure
Tra le particolarità, l’uso
di zenzero, cumino, senape,
menta e pasta d’arachidi
Lo stufato di carni e verdure,
piuttosto consistente, viene
versato sui grani lungamente
lavorati, cotti e disposti
nel piatto. Per intensificarne
il gusto, si usano
abbondante pomodoro
e harissa, piccantissima
salsa di peperoncino
ouscous! Couscous!», ripetevano in
coro Elisa e Leonardo ballando intorno al tavolo. I due bambini italiani
(con un quarto di sangue tedesco: nessuno è
perfetto) sono abituati a mangiare il couscous,
ma ogni volta è una festa. Chissà perché?
Il couscous è come la pastasciutta, ha mille e
una faccia, è bianco, bruno, fine, medio o grosso, può essere semplice o sofisticato, speziato
oppure no, dolce o salato, alla carne, al pesce,
alle verdure, alle erbe, all’olio o al burro, insomma ricco o povero ma sempre buono e conviviale. Sono ammesse tutte le versioni. Il couscous viaggia, si adatta, si fa amare, si lascia addomesticare. All’estero lo trasformano e per noi
maghrebini che ne reclamiamo a gran voce la
paternità diventa irriconoscibile. A Trapani e a
Carloforte se ne preparano varianti con la carne
di maiale. Il nostro couscous è musulmano e
ebreo, è il piatto delle nostre feste religiose, delle nostre cerimonie funebri, delle offerte nelle
moschee e nei mausolei. È un piatto sacro.
Ci si dedica alla sua preparazione con la massima cura: si bagnano delicatamente i grani prima di versarli nella couscoussiera, si lasciano
gonfiare lentamente nel vapore che si sprigiona
dal brodo, poi si condisce il couscous con burro
chiarificato, infine lo si innaffia col brodo e si lascia riposare Sua Maestà. Sì, i grani di couscous
devono assorbire lentamente il brodo, che viene aggiunto un po’ alla volta, poi si mescolano,
si coprono con un panno spesso e si lasciano riposare. Per ottenere un buon risultato bisogna
che tra il couscous e chi lo manipola ci sia comunicazione.
Confesso che vedere come viene attualmente
ridotto il couscous fuori dal suo territorio originario mi scandalizza. I grani ammollati in acqua
bollente salata: ecco che cosa chiamano couscous i produttori di alimentari secondo le
“istruzioni per l’uso” stampate sulla confezione
in diverse lingue, tra cui perfino l’arabo. È un vero e proprio complotto contro la couscoussiera
e contro il couscous. Eppure l’Italia può vantarsi di aver fabbricato la prima couscoussiera moderna, concepita dal designer algerino Abdi e
prodotta da Alessi. Se non avesse un prezzo
proibitivo, con l’eccellente qualità che la contraddistingue avrebbe soppiantato tutte le altre
couscoussiere, di terracotta smaltata, di rame
stagnato, di alluminio (importate dalla Cina) o
di acciaio inossidabile (le migliori).
La storia italiana del couscous è molto antica.
Malgrado sia difficile stabilirne con precisione
l’inizio, si possono segnalare tre aree di riferimento: la zona di Trapani, dove il couscous ha
sicuramente preceduto l’arrivo dei pescatori
tunisini, la zona di Livorno, dove fu introdotto
dagli ebrei che scappavano dalla Spagna alla fine del sedicesimo secolo, e la Sardegna, dove
nel diciottesimo secolo la comunità dei pescatori di corallo liguri di Tabarka (Tunisia) si insediò a Carloforte. Bisogna anche segnalare gli
emigrati italiani disseminati in Maghreb dal diciannovesimo secolo e che negli anni Sessanta
“riemigrarono” in Italia e in Francia con una
couscoussiera nei bagagli.
Non bisogna dimenticare, inoltre, che la prima macchina per la produzione dei grani di
couscous, creata nel 1907 nell’Algeria coloniale, è firmata da Jean Baptiste e Anaïs Ferrero.
Dietro a quel cognome è facile sospettare origini piemontesi. Erano passati circa cinquant’anni dalla comparsa della ventilazione
automatica dei grani appallottolati a mano
(1853), introdotta da una certa casa Ricci. Ancora una mano italiana?
Che il couscous abbia perso la fede, che lo facciano col cinghiale o col salmone, al limite posso anche accettarlo, ma un couscous senza couscoussiera è assolutamente inammissibile.
L’autrice è antropologa e storica
del mondo musulmano
(Traduzione di Elda Volterrani)
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
le tendenze
Vetrine in città
Kilt, mini e felpe
torna il bon ton
ma ora è ribelle
LAURA ASNAGHI
bbigliamento da college inglese, ma rivisitato e
corretto con l’ironia e la voglia di trasgressione dei
giovani. Le scuole riaprono i battenti e davanti ai
licei, ragazzi e ragazze sono già pronti a reinventare la moda. Perché “cambiare è bello” e dentro
ai guardaroba dei teen ager tornano i superclassici: camicie, pantaloni in velluto, kilt, gonne a pieghe, twin-set di
cachemire, pullover a V, giacche con tanto di stemma e trench.
Tutti capi, molto british, che si adattano benissimo al clima settembrino, magari un po’ piovoso anche se il freddo è ancora lontano. E così i giovani riabilitano lo stile college senza però accettarne l’effetto bon ton, o peggio ancora il neocon.
Basta fare un tour nei negozi preferiti dai giovani per rendersi conto che il “revival” dello stile college ha in sé un tocco
di insita ribellione. Il kilt hanno dimensioni mini, da vera Lolita, e quelli di Miss Sixty , Diesel o Replay, in denim o tessuto
scozzese che si fermano a metà coscia sembrano aderentissimi sui fianchi. Le camicie, targate Emporio Armani o D&G,
piuttosto che Fred Perry, Etro, Coveri o Paul Smith, bianche o
a righe, sono di taglie ridotte perché tutto ciò che è largo e rende goffi non interessa. Ai giovani piace esibire il corpo. E questo spiega perché persino i twin-set di marchi inglesi come
Burberry, Daks e Vivienne Westwood si sono fatti più piccoli e
sexy. Le maglie con i rombi, tipici di Ballantyne, imperversano
in tutte le versioni e contaminano anche i calzettoni di Pierre
Mantoux e Calzedonia e i boxer di Intimissimi. Da Brunello Cucinelli e Malo i pull con lo scollo a V, in tenui colori pastello, sono un inno alla nuova moda college, che non può fare a meno
della classica giacca con lo stemma, oggetto di culto sia per i ragazzi che per le ragazze. Funzionano i modelli “vintage” comprati ai mercatini dell’usato, o quelli “personalizzati” con l'aggiunta di spille e gadget vari, acquistati a poco prezzo da H&M.
Ma i veri cultori preferiscono fare shopping da Brooks
Brothers, Ralph Lauren. Tommy Hilfiger e Fay.
La giacca fa college ma guai a ricreare l’effetto divisa, troppo
rigorosa e perbene. Le varianti per “sdrammatizzare” il tutto sono infinite. Dalla felpa rossa di Pirelli al pantalone cargo di Mason’s (con scritte e ricami) o di Cp Company (in tessuto con tinta ecologica), dalla scarpa stringata Church’s (meglio se rubata
a papà) al berretto Borsalino o Adidas Y3 (con “spicchi” di colore o il classico tartan). Le ragazze alternano kilt inguinali Fiorucci-style, Blugirl, M+F Girbaud o Just Cavalli a romantiche
gonne di Max&Co, Amuleti J., Miu Miu, Kristina Ti o Philosophy
di Alberta Ferretti. Mai sazi di novità, i più acerbi acquirenti riscoprono i bomber in lana (da Iceberg sono foderati di pelliccia),
i K-way di Krizia (in nylon e cachemire), i montgomery con gli
alamari di antica memoria sessantottina (da Benetton ce ne sono di tutti i colori), le sciarpe chilometriche (da Stefanel si trovano i coordinati con i guanti).
Tutto torna ma cambia. Così le ragazze esibiscono le perle
portate in modo irriverente alla Moschino (ricoperte con il tulle stretch), mentre i maschi restano fedeli ai braccialetti estivi
fatti con lo scoo-bi-doo. Ma per tutti c’è un gadget di stagione:
il pon pon di lana, meglio se moltiplicato e legato in grappoli che
diventano ciondoli sullo zainetto.
Repubblica Nazionale 40 11/09/2005
A
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
Maglie con i rombi fosforescenti, pantaloni cargo,
giacche con stemmi universitari di taglia ridotta,
gonnelline avvitate e cortissime: adesso i teen-ager
riscoprono il classico e ne sdrammatizzano l’effetto
“perbenista”. L’ultimo gadget della stagione
è il vecchio pon pon di lana, ma va appeso allo zaino
NUOVO TARTAN
È in tessuto tartan
la borsa di Vivienne
Westwood per liceali
che amano il classico
in chiave moderna
SU LA VISIERA!
In velluto, con spicchi di colore
È il berretto con la classica visiera,
firmato Adidas Y3
BABY TRICOT
Guanti in lana con le righe, le stesse
che si ritrovano sulle sciarpe
chilometriche di Stefanel. Per i veri fan
dello stile college anche il berretto tricot
College
Stile
ENGLISH STYLE
La gonna romantica
di Kristina Ti
Si può alternare
a kilt in denim
o tessuto scozzese
È REVIVAL
Torna di moda
il calzettone
coi rombi colorati
In vendita
da Calzedonia
MASCHILE
DI RIGORE
La classica
scarpa
stringata
di Church’s
ha più fascino
se è già stata
usata da papà
VESTIVAMO
IN ZUAVA
Originali
i calzoni
alla zuava
di Incotex,
pezzo forte
del look
da collegiale
MILLETASCHE CARGO
Con la giacca british,
va il pantalone da lavoro
di Mason’s: tasche multiuso
e tante scritte
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
Merton
OXFORD
Uno dei primi college
dell’università
di Oxford, la più antica
del mondo inglese,
ospitava gli studenti di ritorno
dalla Francia dopo l’editto del 1167
di Enrico II che proibiva di studiare
all’università di Parigi
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
St Peter’s
Yale
CAMBRIDGE
Il St Peter’s è il più
antico dei 31 college
dell’università nata
come associazione
spontanea di scolari nel 1209
nell’antica città romana di Cambridge
Nel 2009 sono previste celebrazioni
per gli otto secoli di attività
Harvard
NEW HAVEN
Fondata nel 1701
come Collegiate
School da Abraham
Pierson, il primo
rettore, cambiò nome in onore
di Elihu Yale, governatore di Madras,
che, nel 1718, regalò alla scuola
417 libri e un ritratto di Re Giorgio
PLYMOUTH
Istituita nel 1636,
sedici anni
dopo l’arrivo
dei padri pellegrini,
è l’università più antica e famosa
d’America. Prende il nome dal ministro
Harvard, il suo primo benefattore
Gli studenti iscritti sono 18mila
THE CHEERLEADERS
Studio di Norman Rockwell
per una serie di sette acquarelli
dal titolo The Cheerleaders, 1961
La semplicità è seducente, ma non ammette errori
Tutte come Audrey e Grace
è l’unico modo per farsi notare
LAURA LAURENZI
rreprensibili, impeccabili, senza errori. Se la semplicità è la più complicata delle arti, il modo di vestire che
conferisce classe ed eleganza è una formula segreta e pressoché sconosciuta.
Perché mai, dopo tanti anni, continua a
imperare un modello di chic considerato insuperato che fa capo sempre ai soliti tre nomi: Audrey Hepburn, Jacqueline Kennedy, Grace Kelly? Certe icone
di stile non soltanto non passano di moda ma sembrano silenziosamente rimproverarci di tutti gli errori, gli scivoloni, i peccati non solo veniali di cui ci
macchiamo quando ci dedichiamo a
un’operazione decisamente complessa e insidiosa: vestirci.
Il primo requisito è il cromosoma: essere bellissime e magrissime, e avere
dunque un’eleganza innata. La signora
bon ton con il filo di perle, la scarpa preferibilmente bassa, il tubino nero che cade benissimo, il twin set di ottima qualità
fa ovviamente una miglior figura se la
sua taglia non supera la 42. Secondo requisito fondamentale è il reddito: disporre cioè di un portafoglio abbastanza
gonfio per potersi permettere dei capi di
semplicità inarrivabile. È noto infatti
che le cose eccentriche possono essere
comprate (anche) sulle bancarelle al
mercato, in super saldo, negli outlet, invece le cose classiche, quelle di charme,
sono economicamente impegnative,
nel senso che se valgono poco si vede: il
golf fa i pallini e si slabbra, la gonna di simil vigogna prende la forma del sedere,
il mocassino fa delle crepe antipatiche.
Nell’era in cui gli stilisti propongono
tutto e il contrario di tutto — abiti, diciamocelo, a volte decisamente rischiosi —
lo stile sofisticato e distaccato e aristocratico del tipo college, o preppy, o bon
ton, o classico o chiamatelo come volete è spesso sinonimo di upgrading sociale, è un salvacondotto per salire di
rango. Niente fa status come un guardaroba magari tutto blu navy o tutto beige
o comunque ispirato alle icone di cui sopra senza strilli, senza sorprese, senza
orpelli, senza chiasso, senza cadute di
gusto. Un certo modo di vestirsi, più di
ogni altro, oggi marca le distanze. E mette soggezione, contraddistingue, dona,
in tanto esibizionismo è persino sexy.
Per accedervi bisogna resistere eroicamente al bombardamento e alla ba-
I
IN MANICHE DI...
Repubblica Nazionale 41 11/09/2005
La camicia (Fred Perry) oggi si porta
attillata, con collo e polsini bianchi
Alternative? La polo a maniche lunghe
PIÙ SPORTIVA IN FUCSIA
Nuova silhouette per il cappotto
Fay, dai colori vivaci e sempre
più sottile, aderente al corpo
CALDI
MA CHIC
Sono
i pullover
Ballantyne
a rombi
colorati
che
ospitano,
qua e là,
piccoli gufi
o scritte tipo
“nessuno
è perfetto”
PROFONDO ROSSO
Calda e leggera
è la felpa Pirelli
da portare
sotto la giacca
con la camicia
o una t-shirt
SUONA LA CAMPANELLA
L’ora è griffata Burberry
perché a scuola
bisogna arrivare in perfetto
orario. Quest’anno i presidi
sono più intransigenti del solito
UN TOCCO DI ELEGANZA
Mocassino in cuoio e gommini
della collezione autunno-inverno
della Tod’s
bele di tutti gli stili, le fogge, le mode e le
tendenze contraddittorie che arrivano
non soltanto dalle passerelle e dalle riviste di moda, ma anche dalla strada.
Essere sobrie, semplificare, è paradossalmente un modo per dare nell’occhio,
per farsi notare, per restare impresse.
Non ci si issa su tacchi alti dodici centimetri, non ci si strizza in un top leopardato, non ci si sigilla in una microgonna
di pelle o in un paio di jeans sgargiantemente ricamati se si vuole veramente fare colpo. Chissà perché nel supermarket
delle mode e degli stili si riesce invece a
pescare quasi sempre il peggio. Certo se
davvero si scegliesse ciò che ci sta bene o
di cui abbiamo realmente bisogno le griffe e non solo le griffe andrebbero in rosso. È ancora molto attuale un volumetto
dal titolo Assolutamente chic, scritto da
Helen Valentine e Alice Thompson nel
remoto 1931 e ristampato di recente. Dispensando consigli di eleganza, le due signore ricordavano che «Se la bellezza fa
una buona prima impressione, lo charme dura tutta la vita».
Certo: la classe e l’eleganza sono doti
innate, lo sappiamo tutti, sono tratti
dell’animo, non hanno niente a che vedere con il censo e con il conto in banca,
pallini sul golf di cachemire a parte, e
non sono legati neanche alla data di nascita. Ha ragione da vendere Cyrano di
Bergerac: «Io sono elegante dentro, non
c’è nulla in me che non risplenda». Ma
siccome stiamo parlando di eleganza
fuori, cioè che cosa indossare, in quali
occasioni e soprattutto perché, è lecito
porsi una domanda. È lecito chiedersi
per quale motivo torni ciclicamente,
quasi ogni autunno, questo tormentone dell’eleganza senza tempo, del genere upper class, fatta di sobrietà e semplicità e bon ton e misura, come se tutto
questo si potesse magicamente sintetizzare e assorbire semplicemente acquistando un tale golfino, indossando
un certo tailleur o impossessandosi
proprio di quel blazer. Tornano in mente le parole che disse all’inizio della sua
carriera Brigitte Bardot, bella in modo
insolente ma non certo particolarmente elegante né del tipo, come si diceva
una volta, “fine”. A madame Coco Chanel, che voleva insegnarle i trucchi e i segreti del vero chic, rispose: «L’eleganza
è una cosa da vecchie».
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005
l’incontro
Scrittori per caso
È un mutante artistico, un X man
dai molti talenti che non smette
di assorbire tecniche e, nei suoi 55
anni, ha affinato parole e pensieri
prima come comico
sul palco del milanese
“Derby”, poi nelle
canzoni create per sé
e per altri, quindi nei suoi
due gialli di successo.
Due milioni e 250 mila
le copie vendute solo
con “Io uccido”. E oggi
la nuova sfida è trovare il luogo giusto
per ambientare il suo terzo romanzo
Giorgio Faletti
n mutante, un “X man”
che assorbe tecniche e
arti e che si rinnova ogni
volta che s’immerge in
una di loro, senza tralasciare le altre.
Uno scrittore dai molti talenti che viene dalle canzoni e che in passato era
un comico da cabaret e, prima ancora,
un pubblicitario e, andando sempre
più indietro, un laureato in giurisprudenza per caso. Mentre in principio, e
stavolta non per caso, solo un ragazzino con la bulimia della lettura, vorace
e disordinato gustatore di storie, di
trame e di intrecci fantastici. Giorgio
Faletti ha da poco scelto di vivere, insieme con sua moglie Roberta, all’isola d’Elba, a Capoliveri. In una casa a
due piani, l’ultima di una strada bianca, appoggiata nella campagna scoscesa verso un mare d’insenature
commovente.
«Un privilegio, grazie al fatto che ormai non devo più girare i teatri d’Italia con le valigie in mano come quando facevo il comico. O cantavo». Dopo
l’enorme successo di Io uccido, due
milioni e duecentomila copie solo in
Italia, traduzioni in venti paesi nel
mondo, Cina e Cile compresi; dopo
l’ascesa tuttora in corso del più recente Nulla di vero tranne gli occhi, già ottocentomila copie vendute in attesa
del prevedibile balzo con la prossima
edizione economica, lui si gode il successo planetario alla Dan Brown, «una
sorpresa che non mi ha cambiato la vita ma che, ammetto, me l’ha assai facilitata». E intanto scrive e pensa, e
macina idee, progetti. Per il futuro e
per il prossimo anello della sua catena
di esistenze mutanti.
«Sto lavorando a un musical. Lo
considero un insieme di quello che
sono e di quello che ho fatto e di me ci
metto tutto, la parte recitata e la scrit-
talmente che lavorare per me era come un’eterna vacanza».
Recita al Derby club di Milano e non
solo. E con molti comici oggi di successo, Teo Teocoli, Massimo Boldi,
Claudio Bisio, Francesco Salvi. Debutta in tv con Raffaella Carrà e, a metà degli anni Ottanta, approda al mitico
Drive in. Passa, tra l’altro, per Emilio e
per Zelig e inventa personaggi esilaranti come il Vito Catozzo le cui «vita e
gesta» sarebbero poi state raccontate
nel libro Porco il mondo che ciò sotto i
piedi. Poi un giorno si fa male a un ginocchio, sta fermo per due mesi e muta ancora. «Sentivo che quello che stavo facendo non mi bastava più. Ma,
mentre ero sicuro di quello che non
volevo, non sapevo ancora che cosa
avrei voluto fare. Poi, grazie a quello
che avevo imparato fino ad allora, percepii la differenza che c’è tra essere un
musicista, e l’essere, come me, un musicale. Il primo è qualcuno che ha studiato e che ha una cultura specifica e
mirata. Il secondo è solo un appassionato. Mi accorsi che la tecnica poteva
Ora sto lavorando
ad un musical
e di me ci metto
tutto: la parte
recitata,
l’umorismo che sta
nella mia vita e ho
nel Dna, la musica
e la scrittura. Sarà
una bella cosa
FOTO FARABOLA
Repubblica Nazionale 42 11/09/2005
U
CAPOLIVERI
tura. E soprattutto l’umorismo, che
sta nella mia vita e nel mio Dna. E la
musica, ovviamente. Sarà una bella
cosa». Una contaminazione di un’arte con un’altra. Un prodotto a più facce, l’ennesima sfida di X man. A quando la prossima? «Ho 55 anni e penso
proprio che ormai da grande farò lo
scrittore. Del resto è stato il mio sogno
da adolescente e il cerchio si chiude.
Già allora avrei voluto scrivere, ma all’epoca non ci provai nemmeno. Ero
troppo distratto dalla voglia di vita e
di incontri».
Il musical è relax, scrivere è lavoro.
Faletti ha già in cantiere il terzo romanzo. Ancora un thriller, «una storia
particolare, anche questa ambientata
negli Stati Uniti. Ma non a New York.
Cercavo un posto che desse l’idea degli spazi sconfinati che ci sono in America e ho scelto l’Arizona. Partirò in ottobre, per documentarmi; io non so
scrivere senza guardare, verificare le
sensazioni e viverle. Non mi basta leggere di un posto. E dunque andrò».
Il gusto di cambiare pelle, la spinta a
rinnovarsi, a rischiare. A mettere in
campo desideri e inclinazioni; in testa
quella creativa, la più forte, quella che
c’è sempre stata, quella che ha agito da
molla per trasformarsi ogni volta e che
fa da filo conduttore di una vita in progress. «Non mi piaceva studiare, la laurea in giurisprudenza l’ho presa solo
per non deludere mio padre che era
una persona metodica e pragmatica.
Papà faceva il venditore ambulante e
per me avrebbe voluto una vita diversa. Sicura, ordinata, precisa, magari
con il posto fisso». Ma nel frattempo il
ragazzo Faletti, rocchettaro e diciottenne nel ‘68, inquieto da sempre, era
già diventato anche uno scrigno di sogni. Segnato da una sorta (come dice
lui) di «omniofilia letteraria». Racconta: «Avrò avuto forse dodici anni quando, in un magazzino trovai alcuni scatoloni abbandonati da mio nonno. Lui
era un tipo che, nell’economia dell’Italia preboom, viveva ancora di commercio marginale: comprava, vendeva, trafficava. Da quei bauli dimenticati uscì una gran quantità di libri di
ogni tipo. C’erano i romanzi di Hemingway e i gialli di Spillane, i classici
e i pulp. Mi ci tuffai dentro e lessi di tutto, senza sosta. Ricordo che c’era anche il primo numero di Urania, Sabbie
di mare. Mi fece innamorare della fantascienza, storie formidabili quando
sono scritte bene».
Finestre diverse sul mondo, terreno
di coltura per quel che sarebbe venuto
in seguito. Con la laurea in tasca il giovane Giorgio non ci pensa nemmeno a
fare l’avvocato. Preferisce aprire, insieme con due amici, uno studio pubblicitario ad Asti, la sua città. È un’attività creativa e indipendente, ma a ventisei anni lui, che la vena comica ce l’aveva nel sangue, scopre che con l’umorismo si può anche campare. E sale sul palcoscenico. «Mi piaceva
fornire aiuti preziosi a tutti e che, ormai, perfino un semplice tasto è in grado di garantire accordi già pronti».
Detto e fatto, eccolo raccogliere la
nuova scarica di adrenalina. Il primo
album Disperato ma non serio lo produce Mario Lavezzi e vende ottantamila copie. E quando Faletti va avanti
non si ferma più. Nel 1994 arriva secondo al festival di Sanremo con Signor tenente e scrive canzoni per Angelo Branduardi, Fiordaliso, Gigliola
Cinquetti e per Mina. «Una volta un tizio mi disse: se hai scritto anche per lei,
allora sei una persona intelligente. Il
che la dice lunga su come vengono
considerati i comici».
«Forse non mi sarei mai messo a
scrivere se nel frattempo non fosse arrivata la videoscrittura. La possibilità
di poter spostare blocchi, cambiare,
rifare, mi ha conquistato. Trascinato».
Ed ecco i primi racconti. «Non li voleva nessuno, vennero rifiutati dal novanta per cento degli editori, da tutti
quelli a cui li avevo proposti. Era un ritornello; quando (e se) si facevano vivi, mi dicevano di lasciar perdere. “Sei
un comico, perché non scrivi libri
umoristici che vanno tanto...”».
Fu un amico giornalista a spingerlo
a provare con l’editore di Porco il
mondo che ciò sotto i piedi. «Ad Alessandro Dalai i racconti piacquero, ma
mi sconsigliò di esordire con una raccolta. “Scrivi un romanzo” mi disse,
“e io te lo pubblico subito” Qualche
mese dopo gli consegnai le prime 350
pagine e, forse per scaramanzia, me
ne dimenticai. Invece quasi subito
Dalai mi telefonò: vai avanti, finiscilo,
qui siamo pronti».
È subito boom delle vendite e successo. Il libro è denso di contaminazioni personali, Faletti che saccheggia
Faletti. Come sempre. Il comico aveva
attinto ai suoi anni giovanili, all’esperienza di pubblicitario. Il cantante alla sua esperienza di autore. E lo scrittore prende dalla musica, dalla sua vena preferita. In Io uccido, il serial killer
lascia tracce musicali; in Niente di vero tranne gli occhi, la protagonista
Maureen chiede al suo compagno
musicista cosa si prova a comporre
una canzone. «È come essere innamorati», risponde quello, per fotografare
un’emozione forte. Forse la più forte.
E nel libro compaiono testi di canzoni, che sono state realmente composte e realizzate da Faletti. «E che sono
rimaste intonse, per me».
Un mutante artistico che si nutre
delle sue vite precedenti. Lui ha una
spiegazione più semplice. «Una persona è portata a scrivere ciò che conosce e che ama di più e spesso le due cose coincidono. E io amo più la mia
musica che la mia comicità». La musica, anche quella vissuta con l’abituale voracità artistica: «Ascolto tutto, attingo dalla musica e da me».
Per i suoi libri, invece, Faletti va a
guardare, si informa. Usa le sensazio-
ni come un timone. E se per Io uccido
la location preferita fu Montecarlo
«perché lì ho vissuto per un certo periodo da ragazzo, a causa di una fidanzata, e perché aveva sufficiente
appeal internazionale», per il secondo romanzo la scelta è stata più ponderata. «New York non la conoscevo,
ma l’avevo sempre considerata un po’
dark, un po’ gotica e per questo mi è
sembrata giusta. Ci sono rimasto due
mesi e mi sono documentato su più
fronti». Quanto alle trame, «ognuno
ha un approccio con lo scrivere legato
a quello che si aspetta da un romanzo.
A me piace raccontare storie di persone positive, quelle che vorrei essere».
E la malvagità, indispensabile ed essenziale in ogni thriller, è sparsa in abbondanza, ma resta il contorno.
Un nuovo libro e un musical in contemporanea. Faletti salta, assembla,
cambia senza cambiare? Muta ma
non lascia? «Ogni arte ha la sua tecnica; in passato ne ho imparate diverse
e le ho seguite una alla volta. Prima,
con la comicità e con le canzoni, scrivevo brevi testi di sintesi, con l’andare dello sprinter. Mentre adesso, con i
romanzi anche corposi, devo avere un
passo da mezzofondista, da maratoneta. Quanto al futuro, finora avevo
sempre spinto una pecora alla volta.
Ormai ho un piccolo gregge e lo voglio
poter curare tutto insieme. Il successo? È faticoso conservarlo, ma mi piace. Per la carica che ti dà. Più che per il
bello del denaro che per me non è mai
stato determinante».
Perché, Faletti, quella scritta “Nessuno” sulla manica della maglietta
bianca che ha indosso? Sorride: «I soldi per me non hanno grande importanza, l’ho detto, ma migliorano la vita. Io uccido comincia con la frase “Un
uomo è uno e nessuno”. “Nessuno” è
il protagonista e, grazie al libro, ho potuto comprare la mia barca. L’ho chiamata “Nessuno”, come le magliette
che ho fatto fare».
‘‘
SILVANA MAZZOCCHI
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