Domenica La di DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 Repubblica l’inchiesta Cina, il revival di Confucio FEDERICO RAMPINI il racconto La leggenda del poker sfonda in tv VITTORIO ZUCCONI Dalle Twin Towers a Ground Zero. Quattro anni dopo, due scrittori newyorkesi ricordano e giudicano NATHAN ENGLANDER ALEXANDER STILLE ‘‘ ‘‘ Se la città ha perso qualcosa, non è l’energia ma una incrostazione luminescente e fallace che ne adulterava la sostanza e attirava chi cercava facili mode athan Englander, lo scrittore newyorkese autore di “Per alleviare insopportabili impulsi”, ricorda benissimo l’11 settembre 2001: la paura per sé e per gli amici, le comunicazioni interrotte, il bisogno di ritrovarsi, riflettere e reagire. Ma non aveva mai trovato la forza di tornare downtown e di guardare dentro il cratere di Ground Zero. Lo ha fatto con noi, quattro anni dopo. E questo è il suo racconto. nelle pagine successive il servizio di ANTONIO MONDA N Il significato della tragedia per noi stava nella civilissima risposta a un atto di estrema barbarie La città unita, dolente ma priva di desiderio di vendetta lexander Stille, giornalista e scrittore, ha tenuto su “Repubblica” un “Diario da Manhattan” nelle settimane successive all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, registrando le reazioni della metropoli e dei suoi abitanti al colpo subito. A quattro anni di distanza riprende i temi di quel diario, racconta il profondo cambiamento nell’atteggiamento dell’America e degli americani e ne analizza le ragioni. nelle pagine successive il servizio di ALEXANDER STILLE A FOTO GARY SUSON/GROUNDZEROMUSEUMWORKSHOP.COM 11 settembre i luoghi Bangalore, il giardino dell’hi-tech RAIMONDO BULTRINI e RENATA PISU cultura Penguin, i settant’anni del tascabile ENRICO FRANCESCHINI e JOHN LLOYD spettacoli Il trionfo dell’“one man show” RODOLFO DI GIAMMARCO e MICHELE SERRA l’incontro Giorgio Faletti, anatomia di un mutante SILVANA MAZZOCCHI 24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 la copertina 11 settembre Nell’anniversario dell’attacco alle torri gemelle due scrittori che vivono a New York misurano la profondità e l’effetto sulla vita della gente di quella cicatrice. Nathan Englander è tornato con noi, per la prima volta, al cratere di Ground Zero Alexander Stille racconta come la forza e l’unità degli americani dopo la tragedia siano state dissipate dalla politica “Quel dolore mi ha arricchito” «U “Una mia cara amica abitava qui, di fronte alle Twin Towers Ha visto le esplosioni, i crolli, la gente che si lanciava dalle finestre. Si è salvata ma la sua vita ne è stata segnata, Repubblica Nazionale 24 11/09/2005 come quella di ogni newyorkese” ANTONIO MONDA NEW YORK na mia cara amica abitava in questo palazzo, di fronte alle Twin Towers, ed ha visto le esplosioni, i crolli e la gente che si lanciava dalle finestre da meno di cento metri. È riuscita a salvarsi, ma la sua vita ne è stata segnata, come del resto quella di ogni newyorkese. Quando ho saputo degli attacchi terroristici nella mia casa dell’Upper West Side ho pregato che non le fosse successo nulla. Ma poi, inevitabilmente, ho cominciato a pensare a me stesso. Ero tornato a vivere a New York da pochissimi giorni dopo cinque anni in Israele, dove mi ero abituato a convivere con il terrorismo. Pensai che evidentemente era scritto che dovessi morire in maniera violenta, e mi venne anche in mente che fino all’ultimo momento avevo deciso di affittare un appartamento proprio accanto alle torri, ma che fortunatamente non avevo avuto i soldi sufficienti. La notizia dell’attacco mi arrivò dalla televisione, e dopo un momento di incredulità decisi di andare in un diner sulla Broadway che è un punto di ritrovo del mio gruppo di amici più cari. Non c’era alcun modo di comunicare con il telefono o con le e mail, ed ho pensato che anche gli altri avrebbero fatto la stessa cosa. Così è stato, ma da quel momento è iniziata l’attesa angosciante delle persone che abitavano più lontane e, soprattutto, di quelle che vivevano in prossimità del World Trade Center. Sono passate molte ore prima che arrivas- sero tutti: c’era chi aveva attraversato l’intera città a piedi, e chi portava con sé delle testimonianze terribili». * * * È la prima volta, da quattro anni, che Nathan Englander ritorna a Ground Zero, e appare disorientato e commosso. È una splendida mattinata di sole, terribilmente simile a quella dell’11 settembre 2001. Il silenzio assoluto che separa la zona dalla frenesia della vicina Wall street è rotto soltanto da un uomo con una lunga barba seduto per terra che suona con il flauto “John Brown’s body”. Englander riconosce la melodia patriottica al momento del “Glory Glory Hallelujah” e fissa l’uomo nel volto, cercando di capire se ci sia qualcosa di doloroso e sentito in quell’omaggio, o si tratti invece di un suonatore ambulante che ha individuato una buona opportunità per recuperare qualche spicciolo. * * * «Ritornando a Ground Zero in una giornata così luminosa, mi torna in mente vivissimo il contrasto tra la crudele bellezza atmosferica di quella mattina e il fumo che si è alzato dal World Trade Center. Per tutti questi anni ho pensato che l’impatto del ritorno sarebbe stato troppo forte, e forse nel mio inconscio ho avuto paura. Sono stato completamente rapito dal romanzo che ho appena completato, ma forse è stato un alibi. Mi è capitato spesso di venire downtown, ma mi sono sempre tenuto alla larga: pochi mesi fa Colum Mc Cann mi ha invitato ad una celebrazione joyciana in un pub irlandese chiamato “Ulysses”. Si trova in una delle strade più antiche e caratteristiche del- la città, a poche centinaia di metri da qui, e si era pensato di concludere la giornata facendo una visita a Ground Zero. Non so se attribuirlo al fascino delle letture pubbliche di Joyce, alla birra offerta generosamente dal pub o alla volontà inconscia di non affrontare l’assenza più immanente di New York, ma anche in quella occasione ho preferito tornarmene a casa. Oggi provo sgomento, angoscia, sconcerto: mi colpisce la vastità enorme di questo spazio, la presenza di alcune pubblicità ed il fatto che manchino perfino le fondamenta di quelle costruzioni gigantesche che c’erano fino a quattro anni fa. Non c’è nulla di più tragico di un’assenza, e da questo punto di vista il colpo che è stato inflitto a questa città è molto diverso da quello che vivono costantemente le città israeliane: un attentato terroristico in un luogo come Tel Aviv lascia infatti il segno di quello che è stato colpito, come se le rovine rappresentassero un memento. Qui invece è come se quello che c’è stato sia scomparso per sempre: è un diverso tipo di tragicità, ma anche di impatto sulla psiche degli abitanti. Non possiamo dimenticare quello che il World Trade Center ha rappresentato sin dall’edificazione per New York e per il mondo intero». * * * Nelle immediate vicinanze della grande area recintata non c’è nessuno che venda ricordi o esponga bancarelle, ma basta allontanarsi di cento metri per trovare souvenir di ogni tipo: fotografie degli attacchi terroristici, magliette dei pompieri, bocce di vetro con la neve finta che scende sulle due torri e perfino degli ologrammi con il World Trade Cen- ter che scompare da New York a seconda del punto di osservazione. * * * «Sono tanti gli avvenimenti e le tragedie degli ultimi anni che sembra passata un’eternità: a volte mi chiedo come sia cambiata New York, e chi non vive in città nota in primo luogo la mancanza della torri. Ovviamente anche per noi è impossibile non notarlo, anche se ad esempio io non ero mai salito in cima, come non sono mai stato sull’Empire State Building. Se per assurdo riuscissimo ad astrarci per un attimo dall’orrore e dall’abominio che ha rappresentato quel giorno, potremmo affermare che le torri non erano tra le cose più belle di New York. Anzi. Tuttavia questo è un atteggiamento cinico e lontano dallo spirito newyorkese. Io preferisco celebrare qualcosa che nasce proprio da quel dolore: sono profondamente orgoglioso del modo in cui la città ha saputo rimettersi in piedi e riconquistare la propria vita, non solo in termini di consumo. Credo che abbia dimostrato un carattere straordinario sin dai primissimi giorni, e sono convinto che abbia spiazzato, se non addirittura sconfitto, coloro che hanno perpetrato questa mostruosità. Chi ha pensato di mettere in ginocchio la città più vitale del mondo si trova oggi di fronte ad una metropoli che ha saputo far rimarginare la propria ferita ed ha riconquistato la propria fondamentale centralità. Molti parlano di un atteggiamento più gentile, e forse anche più umano dei newyorkesi. Io penso che lo spirito della città si sia in realtà irrobustito, perdendo un po’ di caratteristiche di superficialità ed arroganza. Se si è perso qualcosa, non è l’energia, che anzi ha Le vittime Sono più di mille le vittime di cui non è stato più possibile recuperare, tra le macerie, il corpo John Viggiano Mitties De Champlain Capitano in pensione dei pompieri di NewYork, ha perso due figli, uno poliziotto e l’altro vigile del fuoco: ha in mano la bandiera in cui hanno avvolto i loro corpi Pastore della chiesa episcopale e professoressa di teologia, ha offerto conforto spirituale ai soccorritori E ha benedetto ciò che restava dei corpi delle vittime I ricordi scippati dell’America ALEXANDER STILLE È NEW YORK impossibile scindere l’anniversario dell’11 settembre dal deteriorarsi della situazione in Iraq e dall’alluvione che ha inghiottito New Orleans — un nuovo disastro di pari magnitudine che può definire la seconda amministrazione Bush come l’11 settembre ha definito la prima. Una delle cose che più mi disturbano dell’amministrazione Bush è che ci ha scippato l’11 settembre e ne ha corrotto il significato usandolo come strumento politico a giustificazione della sua invasione dell’Iraq. Il significato originario dell’11 settembre per molti newyorkesi stava nella civilissima risposta ad un atto di estrema barbarie. La città unita al di là delle barriere di razza, classe e credo politico nella solidarietà reciproca, con grande dignità, indignata e dolente, ma priva di desiderio di vendetta. Emersero un nuovo senso di comunità e la determinazione a difendere una civiltà aperta e tollerante contro il cieco odio religioso. Sfruttando cinicamente l’11 settembre al fine di giustificare una guerra invocata dai suoi fautori già ben prima dell’attacco alle torri gemelle, l’amministrazione Bush politicizzò immediatamente la tragedia. I vertici governativi incoraggiarono gli americani a credere all’esistenza di legami tra l’Iraq di Saddam Hussein e gli attacchi dell’11 settembre, pur essendo perfettamente consapevoli della loro inconsistenza. Ci è toccato sopportare che la convenzione repubblicana si tenesse a New York a ridosso del terzo anniversario dell’11 settembre per sfruttare politicamente fino in fondo la tragedia, anche se i delegati repubblicani vennero isolati completamente dal contatto con noi cittadini, in vasta maggioranza contrari alla guerra dichiarata in nostro nome. Ora ci stiamo preparando a subire una nuova tornata di propaganda all’insegna dell’11 settembre. Lo staff di Bush comunica che il presidente ha intenzione di far ri- DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25 IL FOTOGRAFO E IL MUSEO Tre giorni fa, l’8 settembre, a poco meno di quattro anni dalla tragedia, ha aperto a Manhattan il Ground Zero Museum Workshop. È esposta qui The Ricovery, la mostra fotografica permanente di Gary Marlon Suson, fotografo ufficiale del corpo dei vigili del fuoco di New York, che ha potuto documentare per otto mesi il lavoro svolto dalle unità di recupero e soccorso tra le macerie delle Twin Towers. Un museo unico nel suo genere il cui obiettivo, spiega Suson, «è mostrare a tutti Ground Zero attraverso gli occhi dei soccorritori». Anche geograficamente ha una propria unicità: un’isola in cui non si vive il mare ma che dal mare ha visto arrivare la propria vita e la propria ricchezza. Ma anche una città su un fiume, che specie negli ultimi anni è stato rivalutato, apprezzato e reso parte vitale dell’abitato. New York ha il pregio raro e ammirevole di essere disincantata senza diventare cinica, civile senza essere ipocrita. Ricordo il giorno in cui a Los Angeles si scatenarono le ribellioni dopo il verdetto di assoluzione per i poliziotti che avevano malmenato Rodney King. I media generarono un crescendo di tensione allertando la popolazione circa possibili scoppi di violenza. Vivevo nella zona di confine con un quartiere dove abitano gli afro-americani ed i latini, e dopo un momento di panico mi resi conto che non sarebbe successo assolutamente nulla. New York rappresenta una scelta esistenziale basata su una interculturalità che la gente è disposta a difendere con il sacrificio. La zona della downtown, ed in particolare quest’area, ha simboleggiato sin dall’inizio il prometeismo, ed oggi fa impressione vedere i cespugli d’erba cresciuti sul luogo dove c’erano le fondamenta delle torri gemelle, la grande croce costruita con l’acciaio delle strutture dei palazzi, ed una strada che è stata ribattezzata “Canyon of Heroes”. I conflitti ed il dolore della città rappresentano l’altra faccia della medaglia dell’energia che nasce dalla fusione costante di culture e tradizioni. Il progetto di ricostruzione ci darà tra le altre cose un grattacielo molto più alto delle torri, ma io sono colpito in egual misura dalle polemiche, come quella delle famiglie delle vittime che non vorrebbero alcun tipo di esposizione artistica collegata ai nuovi edifici. All’interno della grande storia newyorkese, questa area rimarrà per sempre un luogo segnato dal dolore, che tuttavia in futuro vedremo sotto un’altra luce: la realtà di quanto è stato l’11 settembre è infatti differente da quello è diventato per opposte esigenze politiche». * * * L’uomo con il flauto ha iniziato a suonare “This land is my land”, ed è impossibile non notare alle sue spalle una grande bandiera americana. Englander rimane un attimo in silenzio prima di continuare. * * * «Pensa ad esempio a come l’amministrazione Bush abbia fatto dell’11 settembre il motore della propria attività politica. Io sono tra coloro che pensano che si sia trattato di una scelta più che di una necessità, e che ci sia stata una grave e pericolosa strumentalizzazione. Sono cosciente del pericolo reale e terribile del terrorismo, ma dobbiamo chiederci tutti quanto i continui allarmi non servano a rafforzare le attuali decisioni politiche. Per ritornare alla nostra riflessione sul luogo, le scelte dell’amministrazione finiscono per mettere paradossalmente in secondo piano l’esatta valutazione ed il rispetto per il dolore: quanto è successo da quel momento in poi mortifica l’umanità del momento e rischia di trasformare una data ed un evento fatale in uno strumento... C’è dell’altro: Ground Zero è anche un cimitero nel quale si sono dissolti migliaia di corpi. Coloro che hanno perso i propri cari non hanno nean- che un corpo sul quale piangere o pregare, e questo a mio avviso è l’elemento più drammatico e indelebile. Da questo stretto punto di vista l’11 settembre ha una valenza simile a quella dell’Olocausto: uomini e donne innocenti, uccisi dalla furia omicida e senza neanche una tomba. Mentre arrivavamo su questo enorme spiazzo ho pensato al piccolo cimitero dietro la chiesa di St. Paul, con tombe antiche trecento anni, e al fatto che non ci sia nulla di più grave della distruzione del passato: una scelta di violenza tipica delle dittature e di ogni regime caratterizzato dal fanatismo. Io attribuisco un’importanza fondamentale al culto dei morti: ritengo che sia un modo per celebrare la vita, e l’aspetto che mi interessa maggiormente della ricostruzione di Ground Zero è proprio il memoriale. Da un punto di vista personale ciò nasce probabilmente in reazione al fatto di essere un discendente della tribù dei Coen, e come tale non autorizzato ad entrare nei cimiteri se non in caso di lutti di persone vicinissime. Quando ho cominciato a pensare quale attività svolgere da grande, mi è sembrato saggio scartare immediatamente quella di medico». * * * Englander finalmente sorride. Mentre ci allontaniamo, gli faccio notare che sul palazzo di fronte alla chiesa con il piccolo cimitero c’è una scritta che dice «beati qui ambulant in lege Domini». Lui precede la mia domanda... * * * «Sono il primo a essere d’accordo, ma c’è da intendersi su quale sia il Signore che promulga le leggi e quale sia la loro esatta interpretazione». “Questo posto è anche un cimitero dove si sono dissolti migliaia di corpi Chi ha perso i suoi cari non ha neanche un corpo su cui piangere o pregare In ciò l’11 settembre ha una valenza simile all’Olocausto” FOTO GARY SUSON/GROUNDZEROMUSEUMWORKSHOP.COM Repubblica Nazionale 25 11/09/2005 dimostrato la propria concretezza ed autenticità, ma una incrostazione luminescente e fallace che ne adulterava la sostanza e attirava chi cercava facili mode. E questo lo vedo anche su me stesso: ritengo di aver acquisito con maggior coscienza un senso di vulnerabilità ed una curiosa e dolente collocazione nella storia. Posso dire di aver compreso finalmente quello che per la generazione dei nostri genitori significava la domanda: “Dove eri nel momento in cui hanno assassinato Kennedy”? Con la differenza che gli attentati dell’11 settembre hanno una dimensione più vasta, tragica e universale». * * * La mattinata di sole ha attirato una grande folla nella zona che affaccia sul Battery Park, e, volgendo le spalle a Ground Zero, la confusione dei turisti mescolati con gli agenti di borsa regala per un attimo l’illusione che l’11 settembre non sia mai avvenuto, ma l’area di Wall Street è separata da una tripla fila di transenne metalliche. Englander ne rimane molto colpito... * * * «La vita della città adesso è segnata da controlli continui, ma contesto chi parla di una paura dominante e incontrollata: certamente la presenza dei soldati fa impressione, ma credo che il segno caratterizzante di questo periodo esistenziale sia semmai la cautela, l’attenzione, persino il rispetto per la fragilità dell’esistenza. Questo è dovuto a quello che è stata New York nella sua essenza sin dalla fondazione: una città unica, dove ognuno porta la propria esperienza e la propria storia, e dove la storia passa e spesso si realizza. I soccorsi Più di 400 poliziotti e pompieri sono morti nelle operazioni di soccorso iniziate subito dopo il primo impatto Lee Ielpi Padre Christopher Keenan Vigile del fuoco in pensione, stringe fra le braccia l’elmetto di suo figlio Jonathan, anche lui pompiere morto nelle operazioni di soccorso l’11 settembre Ha celebrato la messa sotto una grande croce di acciaio formatasi casualmente nel crollo delle torri del World Trade Center ferimento agli attacchi in un discorso radiofonico precedente all’anniversario per rammentare all’opinione pubblica americana il motivo per cui dobbiamo mantenere ferma la nostra posizione in Iraq. Donald Rumsfeld ha in programma una Marcia per la Libertà che partirà dal Pentagono, luogo del secondo attacco dell’11 settembre, per terminare al Washington Mall con una festa al ritmo di country music, un altro modo di sfruttare la tragedia per sostenere la politica del governo sulla guerra. «E se dicessimo a Rumsfeld di lasciare il ricordo delle vittime dell’11 settembre alle famiglie?» ha detto al New York Daily News Monica Gabrielle, che ha perso il marito negli attacchi. L’alluvione di New Orleans ha colpito gli Stati Uniti proprio nel momento in cui la maggioranza degli americani era seriamente delusa dalla politica del governo in Iraq. Uno alla volta i pilastri su cui poggiava sono crollati: niente armi di distruzione di massa, nessun legame significativo con Al Qaeda. Altro che «ci accoglieranno come libe- ratori», i costi dell’occupazione saranno compensati dal petrolio iracheno, «missione compiuta». Ormai la maggioranza degli americani non crede più che valesse la pena invadere l’Iraq, hanno l’impressione che l’intervento abbia diminuito la nostra sicurezza invece di aumentarla, e che ci abbia reso più deboli nella guerra al terrorismo. La reazione iniziale del governo, lenta e apatica, alla tragedia di New Orleans ha immediatamente ricordato a molti qui gli errori compiuti in Iraq. «Bagdad sott’acqua», ecco come un ex senatore della Louisiana ha descritto New Orleans. Il presidente ha ripetuto che nessuno si aspettava che le dighe cedessero, quando una gran quantità di rapporti avevano dato l’allarme proprio contro questa evenienza. Il caos e i saccheggi di New Orleans facevano venire in mente la Bagdad post-invasione, e le radici sono le stesse: truppe insufficienti, risorse insufficienti, preparazione insufficiente. Quello che fa la differenza, enorme, tra i due eventi, è che mentre nel 2001 gli americani erano disposti, a seguito del- la tragedia, a concedere al presidente Bush il massimo del beneficio del dubbio, a quattro anni di distanza non sono più disposti a farlo. Sono lesti a individuare le colpe del governo federale perché si sentono usati e imbrogliati dall’Iraq. Persino tra i più convinti sostenitori del presidente c’è chi dice: «Il governo federale è mancato all’appello». L’uragano e l’alluvione che ha lasciato la componente più povera (e nella stragrande maggioranza nera) della popolazione di New Orleans in balìa della morte e della tragedia hanno messo a nudo una realtà più vasta dell’amministrazione Bush. Il divario tra ricchi e poveri si è drammaticamente allargato. Agli aumentati profitti delle imprese si contrappone una diminuzione dei salari. Abbiamo abolito la patrimoniale, ma il livello di povertà è cresciuto. Milioni di americani in più sono privi di assicurazione sanitaria. L’11 settembre ha unito la nazione, il presidente Bush l’ha lacerata. (Traduzione di Emilia Benghi) 26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 l’inchiesta Svolta in Cina Il filosofo vissuto cinquecento anni prima di Cristo, dopo le persecuzioni patite al tempo del maoismo e della rivoluzione culturale, è al centro di una riscoperta e di un rilancio incoraggiati dalla nomenklatura comunista Per contrapporre un “modello asiatico” all’invadenza culturale dell’Occidente ma anche per puntellare il regime FOTO CORBIS Pechino, il revival di Confucio I FEDERICO RAMPINI PECHINO Repubblica Nazionale 26 11/09/2005 l vialetto che porta alla scuola Yidan è stretto e accidentato, si cammina in fila indiana tra la biancheria appesa ad asciugare. Nel quartiere, vicino all’ingresso occidentale dell’università di Pechino, pochi ne hanno sentito parlare. Solo un poliziotto di guardia ai giardini pubblici Chengze sa indicare come arrivarci. Da fuori la scuola sembra una casupola popolare come ce ne sono tante nei vicoli della città vecchia, con davanti qualche aiuola polverosa e trascurata. Dentro lo spazio è modesto, tre stanze su un solo piano. I libri sugli scaffali sono regali di docenti della vicina università. Gli insegnanti sono tutti volontari. Questa povertà di mezzi non deve ingannare. La scuola Yidan, come indica la riproduzione di un ritratto di Confucio che accoglie il visitatore fin dall’ingresso, è uno dei centri della riscoperta del filosofo vissuto nel sesto secolo avanti Cristo, il pensatore che da oltre due millenni imprime la sua influenza sulla civiltà e la politica della Cina. Il revival del confucianesimo è un fenomeno che ha molte facce. È una reazione contro l’omologazione culturale all’Occidente, una riscoperta delle radici e dell’identità nazionale, ma anche un’operazione incoraggiata dall’alto per teorizzare un “modello asiatico” dal significato controverso. Per capirlo bisogna partire da Yidan. I precetti del Maestro Pang Fei, 33 anni, professore di filosofia, ha fondato la “scuola di studi classici Yidan” nel 2001. Con i suoi capelli ben rasati, gli occhiali dalla montatura ultraleggera di titanio e l’abbigliamento casual, potrebbe essere un giovane manager lanciato alla conquista dei mercati mondiali e verso un futuro da miliardario. Invece spiega che «quando una nazione attraversa una trasformazione sociale profonda, la gente si sente sperduta nella cosiddetta cultura moderna, i giovani non sanno chi sono e cosa vogliono dalla vita; in queste fasi difficili bisogna cercare aiuto nella saggezza degli autori antichi; ogni generazione dovrebbe farlo, ora è il nostro turno». La sua idea ha avuto un successo più vasto di quanto appaia visitando la casetta dietro i giardini pubblici Chengze. Yidan funge solo da centro di formazione iniziale per i docenti confuciani, destinati a sciamare e diffondere i precetti dell’antico maestro nelle scuole di tutta la Cina. I seminari tenuti qui hanno già sfornato diecimila volontari — studenti universitari o neolaureati — che a loro volta hanno impartito lezioni e conferenze a centomila ragazzi delle scuole medie e dei licei di Pechino. Con il beneplacito delle famiglie, delle autorità scolastiche e del governo. Seguendo l’esempio della capitale altre trenta città hanno invitato i docenti di Yidan. Uno di questi volontari è Li Tianqing: a 28 anni ha ottenuto un ambitissimo dottorato di ricerca in informatica presso la Harvard cinese, l’università Qinghua. Lavora come esperto di software in una grande impresa di Pechino. Il suo tempo libero però lo dedica a insegnare la saggezza degli antenati a scolaresche tra gli otto e i quindici anni. I ragazzi, già carichi di compiti di matematica e di mandarino (l’istruzione cinese è tra le più esigenti del mondo), dopo le ore di scuola Per rispondere al boom mondiale dello studio della lingua, il governo sta mettendo in piedi una rete di istituti culturali all’estero per insegnare il mandarino. E ha stabilito che si chiameranno Istituti Confucio dell’obbligo, sotto la guida di Li imparano a leggere poesie in calligrafia dell’èra Tang (618-907 dopo Cristo), gli Analecta di Confucio e le opere del discepolo Mencio. «I giovani cinesi di oggi — dice Li — hanno più familiarità con la cultura occidentale che con la nostra. Questa è un’anomalia, non si concilia con uno sviluppo sano del paese. Spero che le generazioni future crescano come dei cinesi autentici, non come degli stranieri in casa propria». È sulla stessa lunghezza d’onda un luminare delle scienze esatte, il professor Yang Dongping dell’Istituto di tecnologia di Pechino: «Sotto l’influenza della globalizzazione e del materialismo i giovani perdono l’identità culturale cinese, rischiano di smarrire tradizioni preziose, dalla calligrafia alla musica antica. Se non arrestiamo questo processo, l’esito sarà una crisi morale profonda». Molti indizi confermano che la classe dirigente incoraggia la riscoperta del confucianesimo. I primi licei a invitare i docenti di Yidan sono stati quelli frequentati dai figli della nomenklatura comunista. Questo 28 settembre il sindaco di Qufu, la città natale di Confucio nella regione dello Shandong, celebrerà con la massima solennità il 2.556esimo anniversario della nascita del filosofo, alla presenza di alcuni (presunti) discendenti. Il segnale più clamoroso lo ha dato il governo. Di fronte al boom dell’apprendimento della lingua cinese all’estero (in Francia Chirac ha lanciato una campagna perché i giovani lo studino), il ministero dell’Istruzione di Pechino ha deciso per la prima volta di creare una rete di istituti culturali all’estero per insegnare il mandarino. Questi centri — così come la Germania ha gli Istituti Goethe, la Spagna gli Istituti Cervantes — si chiameranno Istituti Confucio. Il primo è stato inaugurato l’anno scorso a Seul, in Corea del Sud, altri si stanno aprendo in America, Europa e Asia. La scelta del nome però era tutt’altro che scontata. Negli anni del maoismo Confucio era stato messo al bando come un pensatore reazionario, un simbolo dell’epoca imperiale. Durante la Rivoluzione culturale (1965-75) le Guardie rosse avevano cercato di cancellare ogni eredità del «pensiero di destra», distruggendo intere biblioteche di opere antiche. L’odio per Confucio non era del resto una prerogativa dei soli comunisti ma di tutte le élite progressiste nella Cina del Novecento. Il Movimento del 4 maggio 1919, di tendenze democratiche e ispirato a idee occidentali, si era scagliato contro il confucianesimo accusato di mantenere il paese nell’arretratezza e sotto il giogo dei despoti. Ma chi era davvero Kung Fu Ze, cioè il Maestro Kung che noi occidentali conosciamo sotto il nome latinizzato di Confucio? Di certo fu un fi- losofo laico e razionalista, fiducioso nella possibilità del progresso umano, poco interessato alla religione, molto più appassionato alle scienze sociali e politiche, alla ricerca di un buon governo, di una società prospera e stabile, di una pace durevole. Per due millenni la sua influenza ha dovuto misurarsi, fondersi o combattere con quelle del taoismo e del buddismo. Come tutti i pensatori più grandi, Confucio è stato riletto, interpretato, aggiornato, strumentalizzato, fino a fargli dire cose molto diverse. C’è un Confucio democratico, in nome del quale molti discepoli morirono ribellandosi ai tiranni: perché il Maestro Kung rifiutava il carattere divino dell’imperatore, insisteva sulle responsabilità del sovrano verso i cittadini, fu all’origine della prima meritocrazia nella storia dell’umanità (gli esami d’ammissione nei ranghi della burocrazia imperiale). C’è un neoconfucianesimo autoritario, codificato soprattutto durante la dinastia Song (960-1279 dopo Cristo), che impone all’uomo di vivere in armonia con la società, nel rispetto degli anziani e delle autorità. Durante il Novecento la dottrina del Maestro Kung fu spesso usata dalle forze della conservazione: dalla moribonda dinastia Qing contro i repubblicani; dai Signori della guerra; perfino dagli invasori giapponesi che tra il 1931 e il 1945 cercarono di rilanciare il culto di Confucio nei territori cinesi occupati, come terreno d’intesa fra le classi dominanti dei due paesi. In tempi più recenti, a fare un uso “di destra” del confucianesimo è stato il padre-padrone di Singapore, l’ex premier Lee Kuan Yew, ispiratore del miracolo economico dei dragoni del sud-est asiatico. Per giustificare la sua ricetta di governo, un misto di mercato capitalista, paternalismo e controllo sociale, Lee Kuan Yew sostiene che la democrazia fondata su elezioni pluraliste e libertà di stampa è adatta all’iperindividualismo delle società atomizzate in America o in Europa. In Asia le nazioni funzionano meglio se si comportano come famiglie gerarchiche e disciplinate, dove i singoli membri antepongono il senso del dovere all’interesse individuale. Autentico o abusivo che sia, il Confucio di Lee Kuan Yew è lo stesso che appare oggi in un’opera in voga tra i dirigenti del partito comunista cinese. È una mo- numentale trilogia scritta dal 35enne Yue Housheng, elogiato come uno dei massimi esperti contemporanei di “teoria strategica”. I tre saggi, recensiti con venerazione dalla stampa ufficiale di Pechino, sono raccolti sotto il titolo Strategia di uno sviluppo pacifico dello Stato. Attingendo con talento eclettico a Confucio e al taoismo, Yue esalta le «tradizioni orientali» contro un Occidente «dominato da una filosofia di lotta per la sopravvivenza, di individualismo». La riscoperta di Confucio da parte del nuovo gruppo dirigente cinese, attorno al presidente Hu Jintao, avviene sullo sfondo delle convulsioni sociali che agitano il paese. L’economia di mercato scava diseguaglianze estreme. La nomenklatura comunista ha un accesso facile alle ricchezze e si è convertita alla difesa del capitalismo. Di fronte a una società civile irrequieta non c’è più Marx né Mao per giustificare la repressione del dissenso. Solo il Maestro Kung, dall’alto dei suoi 2.556 anni, forse può riuscire a compiere il miracolo: traghettare l’oligarchia verso una nuova forma di legittimità, giustificare l’ordine e la stabilità non più in nome del socialismo, ma come il rispetto dell’autorità paterna del nuovo imperatore, cioè il partito unico. Nei discorsi ufficiali del presidente Hu ricorre l’obiettivo di «promuovere una società armoniosa». Qualcuno grida alla mistificazione, denuncia la vera natura dell’operazione ordita ai vertici del potere: il pensatore democratico Qiu Feng ha pubblicato una lettera aperta sul giornale cantonese Nanfang Dushi Bao, con un titolo che non lascia dubbi. «L’oscurantismo travestito da modernizzazione». La battaglia dei valori Ma il revival neoconfuciano avanza implacabile. Viene esteso perfino alla politica estera. Sul Quotidiano del Popolo il filosofo Tang Yijie offre questa versione, utile a Hu Jintao in viaggio proprio in questi giorni negli Stati Uniti: «Confucio disse che i veri gentiluomini sono armoniosi ma diversi. Questa visione dell’armonia nella differenza si applica oggi anche ai leader dei paesi sviluppati, in particolare l’America». È quasi superfluo precisare qual è la diversità che va armoniosamente rispettata fra i gentiluomini dei nostri tempi. Ogni predica sui diritti umani, sulle libertà politiche, sui dissidenti o sui giornalisti rinchiusi in carcere, alla luce di questa dottrina è un tentativo maldestro di imporre valori occidentali che non corrispondono all’identità profonda della Cina. Questa identità neoconfuciana, la nomenklatura cinese ritiene di condividerla con alcuni paesi vicini. Non solo con la città-Stato di Singapore, ammirata già 25 anni fa da Deng Xiaoping quando decise di avviare la Cina verso il capitalismo. Via via che Pechino insieme con la sua potenza economica accresce l’influenza politicomilitare in Asia, i dirigenti cinesi cominciano a immaginare anche un nuovo tipo di espansionismo culturale. È passata l’epoca in cui Mao voleva esportare il Libretto rosso e la rivoluzione. Ora insieme al made in China si esporta lo studio del mandarino, dalla Corea alla Cambogia. Oggi certo gli Istituti Confucio non possono competere, nella battaglia dei valori di massa sul mercato globale, con Hollywood e la Cnn. In futuro, chissà? Le vie del Maestro Kung sono infinite come le reincarnazioni del suo pensiero. DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27 IL CAMBIAMENTO Nell’altra pagina, l’antico simbolo Yi che indica il cambiamento, e tre disegni d’epoca raffiguranti Confucio Accanto, una stampa del filosofo su seta Intervista al filosofo Qian Xun “L’idea moderna dell’armonia al centro delle cose” ilosofo e vicepresidente dell’Accademia Confuciana della Cina, a 72 anni Qian Xun è il più celebre e autorevole fra i volontari che animano la scuola Yidan per far riscoprire i valori antichi della cultura nazionale alle nuove generazioni. Perché le idee di Confucio le sembrano ancora utili oggi? «Dobbiamo adottare un atteggiamento oggettivo verso il confucianesimo e la cultura tradizionale. Dobbiamo capire la sua ambivalenza. Da una parte è un pensiero che ebbe origine più di due millenni fa e fu a lungo strumentalizzato dalle classi dirigenti in Cina. Perciò ha inevitabilmente dei contenuti funzionali a una società gerarchica e autoritaria, e in questo senso è storicamente datato. D’altra parte i principi fondamentali del confucianesimo riflettono regole che la gente dovrebbe seguire nella vita collettiva a prescindere dall’epoca e dalla società in cui vive. Questo è il suo aspetto universale ed è la ragione per cui il confucianesimo è ancora utile nella Cina di oggi. Voglio sottolineare che il confucianesimo può svolgere un ruolo molto attivo non solo in Cina ma anche in altre nazioni, se la sua universalità viene amalgamata con i caratteri specifici di questi paesi». Che tipo di società pensate di costruire sulla base dell’insegnamento di Confucio nell’epoca contemporanea? «La società ideale agli occhi ACCADEMIA CONFUCIANA di un confuciano Qian Xun, vicepresidente è una società in dell’Accademia Confuciana cui l’economia è sviluppata in modo sano e i cittadini vivono e lavorano in armonia. Non si costruisce una società ideale (qualunque essa sia) soltanto insegnando una scuola di pensiero. La base di una società ideale è nello sviluppo della sua economia. A questo tuttavia il confucianesimo aggiunge l’importanza della moralità e dell’armonia. Il principio dello sviluppo armonioso è la chiave per risolvere le tante contraddizioni di oggi». Lei come spiega questo ritorno di popolarità di Confucio in Cina e anche nel resto dell’Asia? «Il revival del confucianesimo negli anni recenti affonda le sue radici più indietro. Anzitutto, già negli anni Settanta l’ascesa del Giappone e dei quattro piccoli dragoni del sud-est asiatico fece giustizia del pregiudizio secondo cui la cultura orientale sarebbe un ostacolo allo sviluppo di un’economia avanzata; tutti poterono constatare al contrario che l’impronta confuciana comune a quei paesi ebbe un ruolo attivo nel promuovere la loro modernizzazione. In secondo luogo i problemi sociali sempre più acuti che emergono insieme alla crescita economica spingono la gente a rivolgere l’attenzione verso il passato, a riscoprire la cultura orientale come fonte di saggezza e di ricchezze ancora utili. Infine c’è uno specifico retroscena cinese. Un riesame della Rivoluzione culturale lanciata negli anni Sessanta aiuta il nostro popolo a capire che fu un errore quel voler negare le nostre tradizioni culturali fino a distruggerle. Perciò la rinascita del confucianesimo in Cina e in altre nazioni asiatiche risponde a un preciso bisogno dell’epoca contemporanea. È anche il segnale di risveglio della nostra cultura popolare, perché aiuta il popolo cinese a ricongiungersi con le sue origini». È possibile immaginare un sistema politico basato sulle idee di Confucio, che voglia porsi come un’alternativa alle liberaldemocrazie occidentali? «La nostra difesa e diffusione del confucianesimo non ha come obiettivo la costruzione di un sistema politico alternativo al vostro. Se anche volessimo farlo, non sarebbe possibile. Tuttavia la Cina non è destinata a deviare dalla sua tradizione copiando le istituzioni politiche dei paesi occidentali. Ciò che cerchiamo di fare è definire un sistema che non è completamente uguale al vostro e ha delle caratteristiche cinesi ben distinte. Questo sistema politico dovrebbe assorbire valori e idee universali delle società moderne, e al tempo stesso deve essere conforme alla cultura tradizionale della Cina». (f.r.) FOTO GILARDI Repubblica Nazionale 27 11/09/2005 F 28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA il racconto Giochi pericolosi DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 Dopo il wrestling e i reality, l’ultima mania televisiva americana è la finale in diretta delle “World Series of Poker”, una specie di campionato mondiale con piatto di chiusura da sette milioni di dollari. Una moda esplosa in una fase di crisi sociale collettiva, quando la vita quotidiana si fa dura e la paura del futuro diventa più grande Poker, la leggenda va in tv S VITTORIO ZUCCONI WASHINGTON COPPIA La combinazione più debole In caso di due coppie di pari valore vince chi ha la carta più alta fra le tre rimanenti DOPPIA COPPIA È composta da due coppie Nello scontro fra due doppie coppie, prevale il giocatore che ha in mano la coppia più alta TRIS Tre carte dello stesso valore numerico. Fra due tris, prevale la combinazione più alta Non è possibile il pareggio SCALA Repubblica Nazionale 28 11/09/2005 Cinque carte in sequenza di semi differenti. Se è composta dalle cinque carte più elevate viene chiamata Scala massima teve l’americano spizzò l’angolo delle sue carte e disse senza muovere i muscoli della faccia, come fanno i ventriloqui: I’m all in, «Punto tutto quello che ho». Tre milioni e settecentomila dollari, ladies and gentlemen, annunciò il “meccanico”, come si chiama nella lingua del poker quello che fa le carte dopo aver misurato il castello di gettoni. Hachem il libanese non guardò neppure le sue carte. Tenne i suoi occhi fissi sugli occhi dell’ultimo avversario rimasto per il titolo di campione del mondo di poker 2005 e rispose calmo: Call. «Ti vedo». Il piatto, signori e signore, è sette milioni e quattrocentomila dollari, contò il meccanico. Spingendo un carrello di ferro di quelli usati negli alberghi per portare le uova fritte e il caffè in camera, ragazzoni con le spalle troppo larghe e ragazzone con le gambe troppo lunghe rovesciarono sul tavolo una frana di mattoni verdi, sette milioni e quattrocentomila dollari in banconote da cento, ben fascettate. Steve si grattò il mento. Hachem concesse alla moglie seduta tra il pubblico il sospetto di un sorriso. Due milioni e mezzo di telespettatori seduti a casa accavallarono le gambe per trattenere il bisogno di far pipì e la voglia di una birra e si prepararono a vedere chi di quei due, fra Steve Dennemann l’americano e Joe Hachem il libanese avrebbe portato a casa una somma che loro, gli zombies del cartellino timbrato e delle rate di mutuo, avrebbero impiegato 163 anni di lavoro per guadagnare. Al ritmo dei 46mila dollari l’anno di reddito medio nazionale lordo. La finale in diretta della “World Series of Poker”, l’ultima mania televisiva che sta consumando un pubblico già annoiato dalle marionette anabolizzate del wrestling e dai falsi reality show era cominciata. Due uomini soltanto erano sopravvissuti ai 45mila sognatori che si erano massacrati per un anno in partite via Internet, in serate ai circoli di pompieri, in camerate di studenti lazzaroni, per poi ripulire i 5.800 ammessi alle finali qui nel Rio Harra’s hotel and casinò di Reno. Steve l’americano e Hachem il chiropratico libanese artritico che aveva dovuto lasciare il suo mestiere per il dolore alle mani, scoprirono le loro due carte e si alzarono. Nel poker giocato al mondiale, il “Texas Hold’em”, il “Texas tienile strette”, due carte coperte sono distribuite a ciascun giocatore e altre cinque scoperte sono rovesciate al centro del tavolo, buone per tutti, da combinare con quelle in mano. I due superstiti avevano puntato tutto. Non c’era ragione per tenere le carte iniziali coperte. Steve girò le sue: un Asso e un Tre. Hachem un Sette e un Tre. La signora Hachem, nella penombra, si coprì la faccia con le mani. Suo marito non aveva niente in mano, spazzatura. L’avversario aveva un asso, lo dominava. Il telecronista e il suo sottopancia sentenziarono l’ovvio: il libanese è cotto. Il meccanico, indifferente come un budda tibetano, scoprì le prime tre carte comuni: un Quattro, un Sei e una Regina. Non cambiò nulla. Girò la quarta carta, la “carta della curva” la chiamano, la penultima. Un Tre. L’americano ora aveva una coppia, due Tre più l’Asso in mano. Il libanese si strinse nelle spalle. La sua sola speranza era che dal mazzo delle 52 carte, usato per il poker americano, il meccanico pescasse per lui come ultima carta un Cinque, per fare una scala. Il meccanico, con uno svolazzo a effetto, calò sul tavolo la quinta carta, la “river card”, si dice, la “carta del fiume”, come quel Mississipi nel quale piombavano, per disperazione o per cortese spinta, i giocatori traditi dall’ultima carta. È finita. Le ragazze applaudirono, il telecronista inneggiò, la signora Hachem scoppiò a piangere. I telespettatori poterono finalmente andare a fare la pipì. Mai, neppure quando i ragazzi partivano verso il “Wild West” armati soltanto di una Smith & Wesson e dei tre consigli del padre, «figlio mio, non mangiare da un oste che si fa chiamare mamma, non fare all’amore con una donna più matta di te, non giocare a poker con uno sconosciuto che gli altri chiamano “doc”, dottore», questo gioco di carte aveva catturato così a fondo una nazione che pure il poker moderno ha inventato, venerato e celebrato nella propria cultura. Gli storici pignoli dei vizi umani, ci diranno che “poker” è una parola che viene dal francese “poque” e ancora prima dal tedesco “pochen”, bussare, che forse addirittura furono i marinai persiani — la solita minaccia islamica —, sbarcati nella New Orleans del Settecento per vendere anche loro qualche schiavo nero ai buoni cristiani, a insegnare una versione più simile al poker giocato oggi. Ma aveva ragione Sam Clemens, più conosciuto ai lettori come Mark Twain, quando rivendicava alla sua America l’invenzione di quelle combinazioni di carte e di quelle infinite variazioni di gioco, dalle classiche cinque carte coperte, allo “stud”, la teresina a cinque o sette carte, all’“alto e basso” fino al “Texas Hold’Em” praticato al mondiale, che oggi spopolano e che i legionari dell’Impero hanno portato in ogni continente, dopo la Guerra. Mark Twain, che lamentava «l’ignoranza delle regole basilari del poker nelle classi colte», si sarebbe molto rincuorato se avesse potuto campare un altro secolo (morì nel 1910). Avrebbe visto l’esplosione che questo ignobile, diabolico e delizioso gioco ha conosciuto da quando, nel 1970, il gestore di uno scalcagnato casinò nel centro di Las Vegas, il “Ferro di Cavallo”, accettò recalcitrante di organizzare il primo mondiale di poker. Benny Binion il gestore era un purista. Lo riservò ai professionisti, agli amici e ai “rounders”, ai nomadi del mazzo che facevano appunto il “round”, il giro del West per spennare galline, sempre un passo avanti alle legge che li inseguiva. Microtelecamere piazzate sotto il tavolo verde consentono ai telespettatori di vedere anche le carte coperte Così perfino i più brocchi si possono sentire campioni ‘‘ L Il poke ou Krieger rè di tutto un microcosm ciò c o e dispre he amiamo della de z mocraz ziamo ia. Può grezz o fredd o o raffinato, c essere o, b ald o sever enevolo e altru o o i È volub e impersonale sta il ma alla e ed elusivo, fine retto e g è equo iusto ‘‘ Anthony Holden o ud Il poker mette a n o om il carattere di un u cono ri ries Se gli altri giocato quanto tu di a leggerti meglio e la colpa dar sappia fare, puoi non sei solo a te stesso: se me co capace di vederti ifetti ,d gli altri ti vedono dente n per compresi, sarai u vita nelle carte e nella DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29 I FILM CINCINNATI KID LA STANGATA REGALO DI NATALE ROUNDERS Steve Mc Queen è un giocatore di poker che in breve tempo diventa celebre. Il successo lo porta a sfidare il re del poker: la partita è un evento, memorabile la mano finale di Telesina Robert Redford e Paul Newman sono due truffatori che vogliono incastrare un gangster per vendicare un amico: l’amo che lanciano è una partita di poker sul treno La notte di Natale quattro amici organizzano una partita di poker per spennare un industriale: ma nella mano decisiva Abatantuono, il più bravo dei quattro, perde tutto Matt Damon, genio ribelle e proletario, è ossessionato dal poker che considera un lavoro. Per fare carriera si scontra in partite mozzafiato col re del gioco, John Malkovich Il primo campione fu Johnny Moss, un maestro. Intascò 31mila dollari. Una tv locale trasmise la finale, e fu un fiasco. La marmorea impassibilità dei vecchi pro, allenati a nascondere ogni “tell”, ogni tic fisico o verbale che tradisse le loro carte, rendevano quelle partite eccitanti come guardare la vernice seccarsi. La rivoluzione per i vecchi che un Sergio Leone avrebbe adorato — Johnny “il Maestro” Moss; Jimmy “il Greco”; Amarillo “lo Smilzo”; Doyle Brunson “il Dinosauro” che ancora gioca a 86 anni, dopo avere sconfitto due infarti, un ictus e due tumori; il cinese Johnny “the Dragon” Chan; Stu Ungar, il genio matematico che vinse tre milioni di dollari e morì di overdose senza una lira nel motel Oasis di Vegas in compagnia di una bottiglia vuota — arrivò in un rossetto. Non un rossetto di donna, niente di così romantico al tavolo da poker, ma una “lipstick camera”, una microtelecamera grande appunto come un tubicino di rossetto piazzata nei tavoli, sotto il bordo dei posti dei giocatori. Invisibile ma ad alta definizione, il rossetto elettronico permette al telepubblico di vedere le due carte coperte, le carte nel “buco”, secondo il gergo, mentre sono spizzate dai giocatori. Qualunque idiota a casa, qualsiasi brocco da venerdì sera con patatine, sigarette e acidità di stomaco vede le carte coperte di tutti. E dunque, come lo spettatore di telequiz che legge la risposta in sovraimpressione, si sente più bravo di quei professionisti che li lascerebbero con una mano davanti e una didietro in pochi minuti. Non c’è serata televisiva, nella galassia dei cinquecento canali vomitati dal cavo e dai satelliti, che non offra almeno qualche eliminatoria o finale o torneo di poker americano o internazionale, per puntare sulla “pokermania” esplosa, come sempre esplodono i giochi di chance nei momenti di crisi sociale collettiva, quando la vita quotidiana è dura e la paura è grande. A differenza di ogni altra competizione umana, dove il dilettante non vincerebbe un round di box o un game di tennis contro qualsiasi professionista, il poker regala una piccola, ma autentica probabilità anche al pollo. Un esordiente dilettante vinse il mondiale del 2004, infilando tutti i vecchi marpioni. Personaggi rassegnati a consumare la propria vita nella penombra verdognola di partite con qualche ricco fesso da stirare, stanno diventando idoli da album di figurine nel circuito della Wsp, la World Series of Poker, che per loro e ciò che la Fifa è per il calcio o il Tour de France per i ciclisti. La grande candeggina della tv ha lavato via quel lezzo di scantinato, di bari, di cicche, di illegalità e di sudore, che impregnava il poker dei “rounders”, come fu raccontato nel bel film di John Dahl del 1998, con Matt Damon nel ruolo dello squalo bianco. La tv ha reso asettico e garbato, come una torneo di bingo in parrocchia o una gara di curling fra pensionati svizzeri, questo gioco rovinoso, assassino e infernale. La fabbrica dei miti si è messa a al lavoro. Gli occhiali da sole a foggia di occhi da rettile preistorico indossati da Greg “il Fossile” Raymer, insieme con i cinque milioni di dollari vinti nella finale mondiale del 2004, ne hanno fatto un cocco dei bambini. La semplice coincidenza del cognome è sembrata una stella cometa quando il mondiale è stato vinto da Chris Moneymaker, il signor “Faisoldi”. Commovente e molto “american dream” la storia di Minh Ly, saldatore di Saigon fuggito davanti ai cattivoni comunisti nel 1975 su un peschereccio, “boat people” che ha fatto una barca di dollari. Molto politically correct è il successo di Annie Duke, casalinga e madre di tre bambini a casa che bastona maschietti al tavolo del poker. Le migliaia di casalinghe sfiancate che devono fare la spesa cercando saldi e offerte per i pannolini sospirano vedendo una di loro che butta con nonchalance mezzo milione di dollari su un bluff come loro buttando la biancheria sporca nella lavatrice. E non poteva mancare un Gesù, un teopoker, in questo tempo di revival evangelico. Chris Ferguson detto “Jesus”, per il volto e l’acconciatura da Nazareno sotto il cappello da cowboy, che deve sopportare a ogni torneo l’immancabile battuta: «Maestro, niente miracoli che qui giochiamo di soldi». Pregando intensamente vinse un milione e mezzo nella finale del 2000. Si lamentino pure, i vecchi, che questo non è più poker, che questo è show business, che questa è roba da masturbatori da Internet e da voyeurs col telecomando. Il figlio del vecchio Binion piange di nostalgia quando ricorda la finale del ‘71 fra Moss, “il Maestro”, e Jimmy Dandalos “il Greco”. Duellarono per trenta giorni e trenta notti, fino a quando Jimmy The Greek, pescato da Moss in un bluff colossale, si alzò e disse semplicemente: «Mister Moss, temo di doverla lasciare andare». Ma nessuno vinse mai sette milioni di dollari, nel bel tempo andato, come la sera della finale 2005, quando finalmente la “carta del fiume” volò sul tavolo. Hachem si era già alzato per congratulare il vincitore sicuro, Steve Danneman, quando sentì la moglie urlare. Lanciò un’occhiata alla quinta carta. Era un Cinque. Scala. Aveva fatto scala: Tre-Quattro-Cinque-Sei-Sette, sette, come i milioni che aveva vinto. Steve gli strinse la mano: «Good play, man», buona giocata, come avessero appena finito un torneo di briscola per la bottiglia di Amaro 18 Isolabella. I telecronisti della Espn — la rete di tuttosport posseduta dalla Disney, quella di Minni, Pippo e i tre coniglietti, che ha lanciato la mania — gli chiesero e ora Hachem? «Ora mi iscrivo al torneo mondiale prossimo. Ci vediamo a settembre, in Mississipi, allo Harrah’s di Biloxi per la prima eliminatoria». Ma era un bluff. Biloxi e il suo casinò non ci sono più, dopo il passaggio di Katrina. Anche Dio gioca a poker. La fabbrica mediatica dei miti si è messa al lavoro Repubblica Nazionale 29 11/09/2005 e questo gioco rovinoso, assassino e infernale è diventato asettico e garbato come un torneo di bingo in parrocchia ‘‘ Mark Twain o on Poche cose s mente onabil così imperd e il poker m trascurate co sciuto Ho cono ve persone, sacerdoti, bra erali, e onesti lib cuori d’oro, noscevano che non co ne ell’espressio d to a ic if n ig a il s . Abbastanz “scala reale” rgognare da farti ve pecie s della nostra FULL Un tris più una coppia. Nello scontro tra full, prevale la combinazione dal tris più elevato Non è possibile il pareggio COLORE È una combinazione non sequenziale di carte dello stesso seme. Fra due colori, vince quello dal seme più forte POKER La combinazione che dà il nome al gioco è formata da quattro carte dello stesso valore numerico Non è possibile il pareggio SCALA REALE Una sequenza di cinque carte dello stesso seme. Se formata dalle carte più alte, si chiama Scala Reale massima ‘‘ Ama Se non r rillo Slim il pollo n iesci a trova re el che pass la prima mezz’ di gioco i seduto al tav ora o , allora i l pollo s lo ei tu ** Nessun *** oès un vince nte, e ch empre iu di esserl o o è un nque dica bug o non gi oca a po iardo ker 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 i luoghi Era la città dell’eterna primavera, una guarnigione britannica dove il cadetto Winston Churchill collezionava farfalle. Oggi le quattro antiche torri che sorvegliavano la cinta urbana sono perse in una maglia di cinquecento chilometri quadrati di strade trafficate, aziende vetro-cemento, locali e negozi occidentali affollati di ingegneri e impiegati di Electronic City, la Silicon Valley indiana Nuova India Bangalore, il giardino Le commesse estere sono cresciute da 170 milioni a 2 miliardi di dollari in pochi anni naia di call center, i centri di servizio o Business processing outsourcing (Bpo) dove giovani indiani dall’inglese fluente, addestrati all’estero e in patria, rispondono a cittadini americani, inglesi o mediorientali per spiegare come si ripara un computer, una lavatrice, una macchina fotografica, come si rinnova la carta di credito, l’assicurazione dell’auto, o per controllare i conti correnti e preparare le buste paga delle grandi e medie aziende occidentali. La sola “24-7 Customers”, tra le prime imprese del settore, conta oggi oltre quattromila addetti che si alternano a turni tra cuffie, microfoni e computer attraverso i quali passano dati personali di milioni di clienti nel mondo. Le tasse americane Thomas Friedman, uno dei più popolari columnist americani, ha scritto un libro dedicato in gran parte al fenomeno Bangalore. Lo ha intitolato Il Mondo piatto. Breve storia del ventunesimo secolo, e tra i protagonisti indica uno dei tanti tecno-guru cresciuti su questa collina: Jerry Rao, inventore di MphasiS, società in grado di elaborare milioni di cartelle delle tasse americane a costi infinitamente inferiori di una qualsiasi analoga compagnia statunitense. Rao, che ereditò dal padre una vetusta ma prosperosa azienda di oli alimentari, ebbe quella che gli indiani qui chiamano una “visione” del futuro tecnologico, portando le sue imprese direttamente nella terza fase della globalizzazione di cui parla nel suo libro Fried- man: l’epopea — successiva alla diffusione dei trasporti dopo la prima guerra mondiale, e dei computer tra gli anni Ottanta e Duemila — delle applicazioni software, da Google a Microsoft Office, fino ai più sofisticati programmi che permettono l’elaborazione dei dati da un angolo del pianeta all’altro. Epopea resa possibile dall’impianto delle fibre ottiche attraverso gli oceani e tumultuosa malgrado i rischi messi in evidenza da alcune recenti truffe scoperte in Inghilterra. L’abilità ingegneristica indiana, associata all’uso corrente dell’inglese, ha permesso di battere almeno in questo campo la concorrenza cinese, spietata in quasi ogni altro settore produttivo. Assieme a Rao hanno fatto la loro fortuna e la fortuna di Bangalore personaggi ormai leggendari come Narayana Murthy, un ex marxista squattrinato che ha fondato con un gruppo di amici Infosys, uno dei tre giganti informatici indiani quotati a New York, e Azim Premji, il più ricco imprenditore indiano inventore di Wipro. Questi moschettieri cibernetici ai quali va aggiunto il titolare della Tata Consultancy Services, emanazione dell’azienda automobilistica numero uno del Paese, non avrebbero potuto smuovere la stagnante mentalità isolazionistica indiana se contemporaneamente giganti americani come la Texas Instrument e la General Electric non avessero fiutato all’inizio degli anni Novanta le grandi potenzialità dell’India e in particolare di Bangalore come vivaio di tecni- FOTO AP FOTO GIANLUCA PULCINI ela Chandy ricorda con visibile commozione la storia di suo padre Kora, l’“enciclopedia vivente” di Bangalore, morto pochi mesi fa alla veneranda età di 95 anni. Già ottantenne, accompagnato da una giovane botanica, Kora girava su Mahatma Gandhi, Jayamahal e Indiranagar Road a ripiantare alberi abbattuti e a minacciare azioni legali contro le imprese che li tagliavano per costruire nuove strade e case. La sua Città Giardino dalla perenne primavera, dove a fine Ottocento il cadetto Winston Churchill collezionava farfalle e sogni di gloria, non aveva ancora subito lo stravolgersi delle stagioni, né poteva immaginare di trasformarsi nella Silicon Valley indiana dal volto umano. Una capitale dell’information technology che impiega 250mila tecnici — un terzo di quelli dell’intera India — e tiene in piedi i servizi computerizzati delle più potenti multinazionali americane ed europee, allettate dai successi e dall’abilità delle aziende locali create da un drappello di Bill Gates made in India. Kora Chandy l’ha vista crescere sotto i suoi occhi, proprio come aveva profetizzato Jawaharlal Nehru negli anni Cinquanta, quando disse che questa ex guarnigione britannica del diciannovesimo secolo sarebbe stata il I guru del software hanno costruito qui il loro santuario E qui è stato ideato il programma che ha sconfitto il Baco del millennio I TRENTAMILA INGEGNERI FOTO GAMMA Repubblica Nazionale 30 11/09/2005 M BANGALORE «fiore all’occhiello dell’India moderna». Bangalore contava ai tempi di Nehru appena ottocentomila abitanti nei 66 chilometri quadrati della cinta urbana compresa tra le quattro torri vecchie di sei secoli, oggi poco più che ruderi persi tra 500 chilometri quadrati di strade, cemento e industrie. Il professor Kora aveva anche visto uscire a frotte sempre più folte i laureati dal prestigioso Istituto delle Scienze, fondato poco prima che lui nascesse; dall’Istituto di Management, che oggi conta 87 facoltà; dai 77 college dello Stato del Karnataka, capaci di sfornare quasi trentamila nuovi ingegneri l’anno; e dalle decine di università mediche tra le più rinomate dell’Asia. Poi ha visto nascere l’Istituto di Ricerca Spaziale, i laboratori nucleari, le industrie missilistiche, oltre ai più avanzati centri di ricerca biotecnologica. I ritmi di questa nuova e sorprendente metropoli hanno in pochi anni scosso dalle fondamenta l’attitudine pigra e rilassata dei suoi originari abitanti kannada, telugu, malayali. Specialmente da quando i guru indiani del software hanno cominciato a edificare qui il loro santuario e hanno contribuito in maniera determinante a salvare il mondo tecnologico con un programma venduto all’Ibm per sconfiggere il celebre Y2K, il Baco del millennio, moltiplicando le commesse estere da 170 milioni a due miliardi di dollari in pochi anni. A completare il ciclo di attività ventiquattro ore su ventiquattro sono sorti poi come funghi in tutta la città centi- FOTO CORBIS/CONTRASTO RAIMONDO BULTRINI In alto, donne operaie in una fabbrica di televisori. Accanto, scorci di Bangalore, la “Silicon Valley” indiana: gran parte del software dei giganti occidentali dell’informatica è prodotto qui a causa dei bassi costi del personale: un programmatore indiano viene pagato 200-300 dollari Sopra, studenti di informatica Ogni anno nelle università di Bangalore si laureano 30mila ingegneri DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 dove fiorisce l’hi-tech ci a basso costo per le loro crescenti esigenze di risparmio sulla manodopera. Personale americano con salari da cinque-diecimila dollari mensili è stato sostituito progressivamente da laureati pagati tra i duecento e i duemila dollari al mese, in una febbre da outsourcing che ha contagiato Accenture, Dell, Oracle, American Express, Hewlett Packard, Intel, Motorola e ora perfino Microsoft. Per loro è nata una nuova città che va espandendosi a nord, est, ovest e sud a partire da Electronic city: un complesso di edifici di vetro e cemento circondato da campus e collegato al centro da pochi chilometri di strade congestionate dal traffico, costeggiate da baracche, immondezzai all’aperto e nuovi edifici in costruzione. Gli stessi creatori del polo futurista cibernetico, in grado di realizzare il quattro per cento del prodotto interno lordo indiano, si sono ritrovati lentamente e inesorabilmente intrappolati in un eden professionale circondato dal deserto delle infrastrutture, privo di servizi, di strade, di fonti energetiche adeguati alla sfida. Paradossalmente cresciuti grazie al supporto del Partito ultraortodosso nazionalista del Bjp, guidato in Karnataka dall’ex premier Krishna, i giganti dell’informatica hanno subito le ripercussioni di una schiacciante vittoria del Partito progressista del Congresso, sostenuto da un elettorato rurale che non ha visto di buon occhio la concentrazione delle risorse e delle spese nelle città come Bangalore, mentre in tut- to lo Stato il 42 per cento degli abitanti vive ancora sotto la soglia della povertà. Dopo l’elezione del nuovo primo ministro sull’onda di questa rivolta contro i privilegi della nuova classe media indiana, lo sviluppo urbano ha subito un repentino arresto, proprio quando gioielli finanziari e produttivi come Infosys, Wipro e Tata hanno cominciato ad assumere mille nuovi addetti ogni mese nei verdi campus dotati di ogni comfort. Per raggiungerli, però, ogni lavoratore paga il prezzo di lunghi e interminabili ingorghi lungo le arterie strozzate da lavori mai ultimati. Solo ora, dopo anni di inattività, i nuovi governanti si sono resi conto del serio rischio di una migrazione dei partner multinazionali verso altre metropoli indiane come Hyderabad, giunta più tardi ma con sufficienti strade e risorse elettriche, verso Chennai-Madras o, ancora peggio, Hangzhou in Cina, una città con la stessa popolazione di Bangalore dotata però di un aeroporto efficiente e di una superstrada che la collega in un’ora a Shangai. «Il fatto è che nessuno, nemmeno il governo, può permettersi la prospettiva di un arresto del processo in corso, e ora finalmente partiranno i lavori del nuovo aeroporto e perfino la metro», spiega Bani Dhawan, una giovane dirigente della Infosys che ci guida nel campus con i quaranta edifici dell’avveniristica Electronic city, tra stadi di cricket, di basket e sale da ginnastica per i dodicimila dipendenti che lavorano online per conto di sedici Il benessere portato dall’outsourcing Usa viene pagato a caro prezzo da giovani professionisti presi nella trappola di una competizione spietata. E i vecchi santoni hanno aperto due grandi ashram per curare le malattie da stress paesi in tutto il mondo, producendo idee per software e anche hardware da sviluppare nel segreto di laboratori supercontrollati. I salari dei giovani Travolti da un insolito benessere, giovani tra i 20 e i 25 anni (l’età media dei lavoratori indiani è di 26 anni) si sono ritrovati a disporre di un salario inimmaginabile per i loro stessi genitori al culmine della carriera. Dal loro portafoglio hanno cominciato ad uscire i soldi per tutto l’indotto che ha trasformato la placida Bangalore nella più eccitata ed eccitante città del subcontinente dopo Bombay. Locali eccentrici dai nomi stranieri come il Nasa, a forma di nave spaziale e dove i camerieri servono in divisa dell’aeronautica, sono ogni sera strapieni e servono litri di birra Kingfisher. E il titolare del marchio è diventato tanto ricco da poter aprire una compagnia aerea. È una catena di consumi che si riversa nei nuovi grandi magazzini sorti ovunque e bilancia con l’acquisto di prodotti del mercato americano — Nike, Reebok, i telefoni cellulari, Pizza Hut — la perdita di posti di lavoro dovuta all’outsourcing dagli Usa. Ma è un benessere pagato a caro prezzo da giovani che si incollano tra le otto e le dieci ore al giorno davanti a un computer in una competizione spietata che provoca malattie da stress, finora sconosciute da queste parti. Nell’India mistica dei Veda per questi giovani con giacca e cravatta e i telefonini sempre ac- cesi l’alternativa è (per quanto tempo ancora?) la costellazione di guru e santoni hindu come Sri Sri Ravishankar e Sai Baba, che hanno aperto due grandi ashram alla periferia dove rimettono in sesto corpi e anime sfasati dal contagio tecnologico occidentale. Ben poco può fare però la religione per gli alberi tanto cari a Kora Chandy, per l’aria un tempo rinomata e oggi inquinata da seicento nuove auto e trecento moto immatricolate al giorno, per le vecchie villette inglesi coi tetti a punta, per quel che resta dei giardini odorosi di ogni genere floreale ormai parte della leggenda. Leggenda che racconta come l’antico re Veeraballa scoprì in questi boschi il sapore dei legumi cucinati da una vecchia contadina e nominò il posto Benda Kalu Ooru: fagioli lessi, poi ribattezzato Bangalore dagli inglesi. Oggi tutt’attorno alla città dell’high tech, nelle periferie-baraccopoli e nelle campagne del Karnataka prossime al nucleo abitato, la popolazione viene sospinta sempre più verso l’hinterland. E qui, pescando nel malcontento degli esclusi che non possono far studiare i figli nei college, cresce la guerriglia comunista naxalita che miete centinaia di vittime. Eppure è un fatto che l’antica oasi naturale su questa collina a mille metri di altezza è diventata oggi anche un oasi di benessere unica in tutta l’India. E se fuori fa troppo caldo per mancanza di alberi, ci sono sempre gli uffici e i nuovi alloggi con l’aria condizionata. La mente indiana, on line dalla notte dei tempi C insomma la teoria della scienza atomica, come, appunto, rileva Moravia». Illazioni di Pasolini e di Moravia, compagni di un viaggio in India? «Quanti sono da voi i fedeli di Giove?» è una domanda che un indiano potrebbe rivolgerci. È capitato. Per loro nessun dio è morto, tutti convivono. Loro, gli indiani, meditano, sono asceti, abbandonano il mondo, questo mondo. Sono “animali religiosi”, così come noi saremmo per antichissima definizione “animali politici”. Ma è proprio così? Scrive Henri Michaux in Un barbaro in Asia che «nel senso più vero della parola, l’indiano è pratico. Nell’ordine spirituale vuole un buon rendimento… Non si cura della verità in se stessa, ma dell’efficacia». E conclude: «Forse è per questo che i loro innovatori hanno tanto successo in America, a Boston, a Chicago…». Michaux scriveva queste parole nel 1930. Presagiva forse una Silicon Valley indiana? Probabilmente no. Ma sapeva che il sistema numerico decimale con i segni progressivi da uno a nove e lo zero, l’indispensabile zero, è stato pensato da una mente indiana in epoca antica, anche se ne abbiamo notizia più tardi, tramite gli arabi? Forse lo sapeva, ma questi non erano — forse ancora non sono — argomenti che interessano viaggiatori o turisti occidentali alla ricerca dell’esotismo, abbagliati da una nostra invenzione, “l’orientalismo”. Andiamo, come possono essere “scientifici” gli orientali? Eppure… C’è chi sostiene che la mente indiana, portata all’astrazione e alla negazione del mondo sensibile, risulta predestinata a intendere e sviluppare i più arditi procedimenti del calcolo. L’occidentale sente, comprende, divide spontaneamente per due, meno spesso per tre, talvolta per quattro. L’indiano, invece, per cinque o per sei, per dieci o dodici, per trentadue e perfino per sessantaquattro e se non basta, va oltre. Mai prende in considerazione un soggetto, o una situazione, suddividendola in due. Vede sempre l’insieme, il concatenamento, come se fosse on line, nel www, nella rete. Il “net” è naturalmente cosa loro. FOTO GIANLUCA PULCINI RENATA PISU i appaiono lenti, sempre solenni perché antichi nell’incedere, una lentezza dovuta alle vesti che indossano, vesti antiche, sciolte, come quelle dei greci, dei romani: ampi scialli sulle spalle per ripararsi dal freddo, che nel nord dell’India punge. E loro, gli indiani, ancora non hanno “inventato” le maniche. Non importa che oggi molti indiani portino i jeans, le t-shirt, che a Bangalore o a New Delhi si presentino spesso in giacca e cravatta, chissà perché con una preferenza per il marrone, colore smorto che non gli si addice. Accanto a loro mogli, figlie, sorelle, o sarebbe più esatto dire “colleghe” perché le donne indiane partecipano, eccome, al miracolo della new economy, sempre sono avvolte in stoffe e veli dai colori tenui o sgargianti, sempre si intravede dell’oro e ai loro polsi tintinnano braccialetti. Così, per l’atteggiarsi, forse dovuto alle posture che toga e peplo impongono, la gente di questa terra che è stata definita una «Grecia esagerata», a noi appaiono ancora votati a perpetuare un pensiero antico: o, meglio, a riproporlo con solennità. Religiosa? Ieratica? Oppure scientifica e universalmente valida? Dicono, gli indiani, che tutta la scienza europea ha avuto origine da loro, l’algebra, per esempio, e che quando ci si metteranno faranno molte ma molte più invenzioni di noi. Ma quando ci si metteranno? Ad ogni modo ha forse ragione chi pensa che ad Atene, e nella sua appendice di Roma, così come nel vasto spazio che chiamiamo India, gli uomini avevano già pensato tutto il pensabile, duemila anni fa, come si legge ne Le memorie di Adriano della Yourcenar. Naturalmente, saggiamente, contrari alla violenza del monoteismo, loro, gli indiani, ancora adesso accolgono tutti gli dei. E nessuno. «Io non so bene cosa sia la religione indiana» scrive Pasolini in L’odore dell’India. «So che in sostanza il Bramanesimo parla di una forza originaria vitale, un “soffio” che poi si manifesta e concreta nella infinita plasticità delle cose. Un po’ LA FORZA DELLA TRADIZIONE In alto, Commercial Road, la strada più frenetica della città. Sopra, gli addetti alla lavanderia di un grande albergo I panni vengono ancora lavati a mano e battuti sulla pietra, come vuole la tradizione. Il progresso tecnologico, infatti, non ha interessato le classi sociali più basse, oggi confinate alla periferia di Bangalore. Dove le famiglie più povere aderiscono alla guerriglia marxista 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 Correva il 1935, lui si chiamava Allen Lane: un giovane editore che, a detta dei malevoli, non aveva mai letto un romanzo per intero. Ma lanciò un marchio leggendario senza sbagliare un colpo: il simbolo, i dorsi colorati, il formato, il prezzo, per non parlare del design delle copertine Che ora sono state raccolte in una mostra e in un originale volume I primi settant’anni del libro L’idea del pinguino fu di una segretaria ENRICO FRANCESCHINI S LONDRA i sa che non bisognerebbe giudicare una persona dall’aspetto esteriore. Lo stesso si dice dei libri: è sbagliato, o almeno fuorviante, giudicarli dalla copertina. Ma esistono eccezioni alla regola. Una sono i Penguin: formato, design, grafica, in questo caso rappresentano una garanzia di quello che ci aspetta all’interno del volume. Da settant’anni esatti, il pinguino stilizzato racchiuso in un ovale, il dorso arancione, la sobrietà dei caratteri, l’eleganza dei disegni, equivalgono a un marchio di qualità. Con loro, nel 1935, in Inghilterra, è nato il libro tascabile, una piccola grande rivoluzione destinata a espandere cultura e conoscenza, democratizzando le buone letture, mettendole per la prima volta a disposizione di tutte le tasche. Poco per volta, hanno contagiato il mondo, trovando ovunque imitatori del formato, sebbene non sempre anche della grazia del prodotto originale e del valore del suo contenuto. Un simile fenomeno editoriale meritava una celebrazione appropriata: e il settantesimo anniversario della nascita ha offerto l’occasione. Un libro, Penguin by design, a cover story, 1935-2005, dello storico dell’arte e disegnatore grafico Phil Baines, e una mostra al Victoria&Albert Museum di Londra ripercorrono la storia delle copertine contraddistinte dal pinguino e dell’idea geniale che vi si nasconde dentro. Come molte buone idee, anche questa è sbocciata da una banale illuminazione. Di ritorno da un week-end nel Devon, dove aveva fatto visita ad Agatha Christie, un giovane editore di nome Allen Lane si soffermò sulla piattaforma di una stazioncina ferroviaria, davanti a un chiosco di giornali, per cercare qualcosa da leggere durante il viaggio verso la capitale. Scoprì che l’offerta era limitata: giornali, riviste popolari, ristampe di romanzi vittoriani. All’improvviso gli si accese una lampadina in testa: la convinzione che la buona narrativa contemporanea avrebbe dovuto UN SALTO NELLA STORIA Una carrellata di copertine storiche della casa editrice Penguin Lane ne parlò al pub, tra una birra e l’altra, e tutti scoppiarono a ridere Poi tornarono seri e un disegnatore fu subito spedito allo zoo di Regent’s Park per fare qualche schizzo del buffo animale essere disponibile a chiunque a un prezzo attraente, e venduta non solo nelle librerie tradizionali ma pure nelle stazioni, dai tabaccai, al supermercato. Era, sottolineamolo, il 1935. Fuori da Londra, le librerie scarseggiavano e dovunque fossero non somigliavano neppure lontanamente a quelle d’oggi: erano severi templi del sapere, luoghi che incutevano riverenza e soggezione. I prodotti che vi venivano venduti, per di più, costavano cari; e l’unica alternativa a spendere una cifra considerevole per acquistare un pesante volume rilegato era portarselo a casa in prestito dalla biblioteca locale, se ce n’era una nelle vicinanze. Nei giorni seguenti il giovane editore cominciò a discutere il progetto con due colleghi, in un pub vicino a Piccadilly. Per la sua nuova impresa, Lane voleva un simbolo immediatamente riconoscibile, e aveva chiesto consigli in giro. Una segretaria, in ufficio, gli suggerì un pinguino. Riferendo la cosa nel pub, tra una birra e l’altra, fece scoppiare tutti a ridere: ma poi diventarono tutti seri, domandandosi se non fosse quello che cercavano. Un dipendente fu inviato prontamente allo zoo di Regent’s Park per fare qualche schizzo del buffo animale: il simbolo, fu presto stabilito, lo avevano trovato. Il passo successivo fu scegliere un colore per il dorso, e anche quello nelle intenzioni dell’editore doveva essere una sorta di codice, in grado di segnalare subito di che cosa si trattava, e così avvenne: arancione per la narrativa, blu per le biografie, verde per le crime-story, quelle che noi in Italia — seguendo per l’appunto il colore delle copertine — avremmo più tardi imparato a chiamare “i gialli”. Quindi la decisione più rischiosa, perlomeno dal punto di vista del bilancio: il prezzo. Sei pence, lo stesso di un pacchetto di sigarette. E il formato doveva essere maneggevole, in grado di stare in una borsetta o in una tasca: tascabile, perciò. Restava da scegliere soltanto il contenuto. Occorre precisare che il signor Lane, come ha scritto recentemente il Times, era tutt’altro che un intellettuale: c’erano probabilmente pinguini tra i ghiacci dell’Antartico che avevano fatto letture migliori delle sue. Qualcuno dei suoi conoscenti dubitava che avesse mai letto un libro dall’inizio alla fine. Ma, come commentò molti anni dopo l’autore della sua biografia, «se Allen Lane non aveva letto Omero, certamente sapeva leggere lo spirito del tempo». DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 Io, scozzese figlio di proletari e l’Inferno di seconda mano JOHN LLOYD ono cresciuto in un paesino scozzese. Da un certo punto di vista era conservatore e legato alla tradizione: la gente del posto da secoli si guadagnava da vivere coltivando la terra e pescando in mare. Da un altro punto di vista era investito invece dai medesimi venti che dopo la guerra soffiarono sull’Europa: impetuosi, radicalizzanti, perturbatori di ogni tradizione e di ogni vita stabile. L’educazione e la cultura dovevano essere — al pari di ogni altra cosa — accessibili a tutti. Per le famiglie dei ceti inferiori, al rispetto tipicamente scozzese per l’educazione si aggiunse la possibilità di poterla conseguire: un governo Labour rese gratuita l’educazione. Fu questo mondo a rendere i Penguin Books qualcosa di più di una casa editrice: un’istituzione, con uno status e una connotazione emotiva che, quanto meno per la mia generazione, non potranno mai svanire. Furono lanciati settanta anni fa, nel 1935, da Allen Lane, un uomo che intendeva l’editoria come una responsabilità nei confronti della cultura del proprio paese. Lane voleva allargare il distinto mondo dell’editoria britannica, la cerchia di editori di Londra ed Edimburgo che pubblicavano libri per le classi medie e alte maggiormente dedite alla letteratura, e voleva portare i libri in un mercato che, pur provando interesse per i testi più belli, non aveva però i soldi per permettersi di mettere insieme una biblioteca. I Penguin iniziarono timidamente con una selezione di libri che comprendeva un Ernest Hemingway e un Andre Maurois, ma per il resto si trattava di libri britannici mainstream, cosiddetti “senza pretese”, secondo la descrizione snob per la quale essi erano libri con qualcosa di più rispetto alla letteratura dozzinale, ma qualcosa di meno rispetto ai classici o ai moderni, scrittori come Eric Linklater o Agatha Christie. Fu solo dopo la guerra, e soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, che le ambizioni dei Penguin crebbero: essi iniziarono a mettere a disposizione di chi non l’aveva e ne aveva bisogno un’educazione letteraria e sociale, i classici greci e quelli romani, i testi medievali, i romanzieri dell’epoca vittoriana, i nuovi scrittori degli anni Cinquanta e Sessanta di tutta Europa e degli Stati Uniti. I Penguin Book si presentavano in modo austero a quei tempi: le copertine morbide avevano bordi rossi o blu e sopra al titolo poteva esserci una piccola illustrazione. Possiedo ancora una copia del primo volume della Divina Commedia, l’Inferno, un’edizione pubblicata all’inizio degli anni Cinquanta e comperata di seconda mano per pochi penny, sulla cui copertina dentro a un cerchio spicca il piccolo profilo di un Dante pensieroso. Era stato tradotto dalla scrittrice americana di gialli Dorothy L. Sayers: l’introduzione — di oltre 50 pagine — inizia con queste parole: «Per leggere la Divina Commedia, l’ideale sarebbe iniziare a leggere dalla prima riga e proseguire fino alla fine, senza darsi pena dei riferimenti storici e delle spiegazioni teologiche». Ovviamente, però, per la maggior parte dei lettori dei Penguin, le spiegazioni erano necessarie, perché noi approdammo a questi libri da giovani, ignoranti o con un’educazione incompleta, con la vaga sensazione di doverli conoscere, oppure perché volevamo sapere qualcosa — tutto, in verità — di ciò che esisteva al di là dei confini del luogo nel quale eravamo cresciuti. I Penguin — nati negli anni Trenta, in piena epoca di depressione economica e di rafforzamento delle grandi dittature totalitarie — ottennero il loro giusto riconoscimento negli anni di sviluppo ed uguaglianza del dopoguerra. Andarono in sintonia con molte delle correnti dell’epoca — l’apertura di nuove opportunità, intellettuali tanto quanto sociali. Possedere una biblioteca di Penguin in costante allargamento equivaleva ad affermare una sorta di appartenenza al club dell’intellighenzia. Per i più sfrontati tra noi il semplice possesso dei libri con la conseguente esibizione di titoli — specialmente le nuove traduzioni Penguin di Omero, Virgilio, Voltaire, Cervantes, Turgenev, Flaubert, Dostoevsky e molti altri — bastava già di per se stessa, senza ulteriore sforzo. Non fui esente da tali espedienti: alcuni di quei libri mi divennero amici e mi condussero lungo sentieri di scoperta e di amore letterario, mentre altri mi nausearono presto e non tentai più di leggerli, e rimasero intonsi. (Devo ancora leggere la Conquista della Gallia di Giulio Cesare, e non è tutto). L’ipocrisia intellettuale non è colpa dei Penguin, ovviamente. Semplicemente, il loro basso prezzo li aveva resi più accessibili e più diffusi. I prezzi bassi, l’atmosfera dell’epoca, la diffusione della cultura alta alle classi inferiori produssero un’altra più rilevante sventura: una spaccatura tra la mia generazione, quella di chi si laureava all’università per la prima volta in famiglia, e i genitori. Quelli di noi che nel mio paese erano “intellettuali” leggevano libri, ascoltavano musica e andavano a vedere film che i nostri genitori ritenevano schifosi, deleteri o semplicemente «al di sopra delle loro possibilità». Noi, con la tipica crudeltà dei giovani, li consideravamo poco intelligenti. Loro vedevano in noi l’espressione dell’ingratitudine, ma altresì un mondo che non avevano avuto occasione alcuna di conoscere, poiché erano stati coinvolti nel lavoro sin dalla più tenera età. Mia madre ed io vivevamo nella casa dei miei nonni (non ho mai conosciuto mio padre: si erano separati dopo avermi concepito e dopo la mia nascita non si videro mai più). Soltanto mia nonna leggeva regolarmente, anzi, in effetti senza tregua, un flusso ininterrotto di romanzetti leggeri pubblicati su riviste settimanali e sulla stampa. Mia madre, un’estetista, la maggior parte delle sere era troppo stanca per leggere, anche se poi una volta in pensione si dedicò ai libri. Mio nonno leggeva i giornali locali. In casa c’erano pochi libri. I miei amici intellettuali del paese — i cui padri erano rispettivamente un falegname, un gestore di cinema, un pescatore e in un caso alquanto insolito un criminale in prigione (il figlio è diventato uno scrittore piuttosto noto) — erano, come me, motivo in parte di orgoglio e in parte di esasperazione per le loro famiglie: orgoglio perché stavamo «arricchendo noi stessi», esasperazione perché pareva che disprezzassimo il nostro background e coloro che ci amavano e ci avevano allevati. Con i Penguin nella sporta, con le loro parole in mente e le loro citazioni — comprese soltanto a metà — in bocca, partimmo da lì prendendo strade diverse, rendendoci conto, poco alla volta, di ciò che avevamo conseguito e di ciò che avevamo invece perduto. (Traduzione di Anna Bissanti) S tascabile Repubblica Nazionale 33 11/09/2005 Può anche darsi che il merito fosse dei collaboratori, fatto sta che non sbagliò un titolo. Il primo Penguin fu Ariel o la vita di Shelley di Andrè Maurois, seguito da romanzi di Hemingway e di Agatha Christie. Presa in affitto come sede della nuova società editrice, la Penguin Books, una cripta nella Holy Trinity Church a Marylebone road, nel primo anno di attività Lane vendette la cifra strabiliante di tre milioni di “pinguini” tascabili: anche al modesto prezzo di sei pence l’uno facevano una bella sommetta. Innamorato della sua rivoluzione, l’editore non si accontentò del pinguino in copertina, del dorso dal colore caratteristico, del formato tascabile, del contenuto di qualità e del prezzo modico. La grafica dei primi dieci titoli era stata fatta in casa, ma a metà degli anni Trenta stava esplodendo il design e prendendo piede una nuova figura professionale, il disegnatore grafico. Così Lane andò in Svizzera, patria della moderna tipografia, incontrò Jan Tschichold, un maestro di grafica influenzato dal movimento Bauhaus, e lo assunse alla Penguin, trasportando nell’editoria il suo gusto disciplinato, sobrio, innovatore. Con la stessa mania perfezionista, nel 1960 nominò direttore creativo l’italiano Germano Facetti, sotto la cui guida la Penguin sarebbe diventata un’accademia del design, arruolando i migliori disegnatori del momento, da Jock Kinneir, autore della segnaletica stradale britannica, a Milton Glaser, inventore dell’iconico logo “I love New York”. Intanto, i titoli e le collane si moltiplicavano. Tutto Shakespeare, una nuova traduzione dell’Odissea, il Manifesto del Partito Comunista, L’amante di Lady Chatterley, per il quale Lane venne citato in tribunale per oscenità e vinse, segnando una svolta nella lotta contro la censura: si formarono lunghe code all’ingresso delle librerie per comprare il romanzo di Lawrence, che in sei settimane vendette due milioni di copie. E poi Wodehouse, Orwell, Kafka, Shaw, Wells, Truman Capote, I versetti satanici di Salman Rushdie, Nick Hornby, Zadie Smith. Allen Lane, il fondatore, morì nel 1970, dopo essere stato nominato baronetto, ma la Penguin ha evidentemente saputo continuare a leggere «lo spirito del tempo» anche dopo di lui. L’idea di base rimane la stessa del 1935: permettere a tutti di possedere una biblioteca In dodici mesi Lane vendette tre milioni di copie Ma non era ancora contento Decise di cambiare immagine Andò in Svizzera e assoldò Jan Tschichold, maestro della grafica influenzato dalla Bauhaus di grande qualità, senza bisogno di spendere una fortuna. Libri agili, comodi, eleganti, belli di fuori e di dentro. Non c’è casa di amante delle buone letture, nel mondo anglosassone, dove non spicchino gli inconfondibili dorsi arancioni. Non c’è straniero in grado di leggere un autore inglese in lingua originale che non ne abbia qualcuno nella sua libreria. Ognuno ha i “suoi” Penguin preferiti, legati a un ricordo, a una fase della vita: i miei sono i romanzi di Graham Greene con le illustrazioni di Paul Hogarth. Perché i “pinguini” sono oggetti familiari, a cui ci si affeziona più che ad altri ben più costosi, più raffinati e magari più importanti volumi: sono vecchi amici, che ogni tanto viene voglia di estrarre dallo scaffale, stringere in mano, lisciare, carezzare. Non si può rimanere freddi, imparziali, insensibili, davanti a quel buffo animaletto planato dal Polo Sud su un pezzo di carta patinata. È maledettamente difficile, qualche volta, non giudicare un libro dalla copertina. DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 cultura SCRITTORI E FIABE Festival di Mantova ITALO CALVINO DANIEL PENNAC LUIS SEPÚLVEDA Al mondo dei più giovani guardò scrivendo le novelle di Marcovaldo, ma anche raccogliendo le Fiabe italiane e narrando le gesta de Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente Non solo le storie di casa Malaussène. Nelle opere dell’autore francese c’è spazio anche per le numerose avventure del piccolo Kamo (da Io e Kamo a Kamo. L’idea del secolo) e la fiaba L’occhio del lupo Per molti bambini, ma non solo, è soprattutto l’autore di Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, la favola di Fortunata, la gabbianella che si crede un felino, e di Zorba, il gatto che le fa da padre Doyle: il mio eroe nell’America jazz «T SIMONETTA FIORI utti conosciamo l’importanza del Mississippi nella canzone e nella poesia, ma in realtà neppure Bob Dylan sapeva come scorresse la vita lungo quel fiume o la potenza delle sue correnti. Solo oggi abbiamo compreso la forza di quell’acqua, il suo vigore creativo ma anche distruttivo». Testa rasata e una pallina d’oro all’orecchio, Roddy Doyle è a Mantova per presentare il suo nuovo romanzo, Una faccia già vista (Guanda). New Orleans è appena evocata, funge da fondale lontano a una storia bizzarra e crudele, com’è nello stile di questo scrittore dublinese: l’incontro a Chicago tra Louis Armstrong e Henry Smart, già protagonista del precedente libro di Doyle Una stella di nome Henry (il primo atto di un’ideale trilogia dedicata all’epica irlandese del Novecento). Se in quel volume Doyle raccontava la rivolta del 1916 soffocata nel sangue dagli inglesi - il rivoluzionario Henry aveva 15 anni - in Una faccia già vista l’autore spedisce il suo personaggio in un’America stregata dal jazz e lacerata dai conflitti razziali, sponda di libertà dove «si poteva sparire, si poteva morire, e poi tornare alla vita, grande e bella». È il 1924, Henry ha 23 anni e incontra Armstrong a Chicago secondo modalità inusuali: uno sputo sulla fronte, emesso dalla tromba non ancora leggendaria del musicista nero. Per il giovane emigrante è come un battesimo yankee. «Non ero più irlandese. Non avevo mai sentito niente del genere. Era musica libera, senza parole. Furiosa, felice e letale. Uccideva tutta l’altra musica. Era nuova, come me». Presto diverrà l’improbabile “braccio bianco” di Louis, lo “smoked irishman”, l’irlandese affumicato lo chiama lui. Con un epilogo imprevisto. VENERDÌ 16 ERMANNO BENCIVENGA GIULIANO BOCCALI REMO BODEI MANLIO BRUSATIN GIUSEPPE CAMBIANO CARLA CASAGRANDE UMBERTO GALIMBERTI PAOLO GALLUZZI ALDO GIORGIO GARGANI TULLIO GREGORY FRANÇOIS JULLIEN MARIO PERNIOLA MARCO VOZZA avenida.it Repubblica Nazionale 35 11/09/2005 Nel suo nuovo romanzo, Una faccia già vista, l’autore irlandese ripropone il personaggio Henry Lo scrittore irlandese Roddy Doyle Il creatore dei “Ridarelli” a confronto con i suoi piccoli lettori “Quando scrivo torno bambino” «B aciatemi i fondelli!», intima Roddy Doyle rivolto alla folla plaudente. Arrossisce un po’, la traduttrice ancor di più. Gli hanno chiesto di dire qualcosa in lingua gaelica e lui non trova di meglio che il goliardico invito. Dinanzi a una platea di specie particolare - il più vecchio ha dieci anni - lo scrittore torna bambino. E si sintonizza rapidamente con il registro surreale degli spettatori, stile largamente sperimentato nei suoi esilaranti libri per ragazzi. Chi ne conosce i racconti - l’ultimo appena uscito da Salani, Le avventure nel frattempo - sa che stiamo per inoltrarci nel terreno delle puzze e delle cacche, secondo la più nobile tradizione letteraria che vanta autori come Roald Dahl o Bianca Pitzorno. Cacche giuste e severe, queste di Doyle, distribuite dalle sue creature pelose - i Ridarelli - in segno di punizione per chi commette cattiverie contro i più piccoli. «Ho cominciato a scrivere questi libri per i miei bambini», racconta Doyle, che ha tre figli dai sette ai quattordici. «Erano loro a stabilire se la storia reggeva: i miei primi editor». SABATO 17 VITTORINO ANDREOLI FRANCO BATTIATO REMO BODEI EDOARDO BONCINELLI ADRIANA CAVARERO DERRICK DE KERCKHOVE ROBERTA DE MONTICELLI VITTORIO GALLESE PAOLO FABBRI MAURIZIO FERRARIS DIEGO MARCONI JÜRGEN MOLTMANN JEAN-LUC NANCY STEFANO RODOTÀ DETLEV SCHILD MANLIO SGALAMBRO CARLO SINI SILVANO TAGLIAGAMBE SALVATORE VECA VINCENZO VITIELLO SLAVOJ ZIZEK Il suo beniamino è il signor Mack, il miglior assaggiatore di biscotti di tutta l’Irlanda. «Quando scrivo, mi metto sempre dalla parte dei bambini. Torno indietro ai miei dieci anni. E ricordo quando sul tavolo compariva una cascata di dolciumi e cioccolato. Oppure un cestino di cracker. C’è una differenza, o no?». I più piccoli ridono. Sollecitati dallo scrittore Andrea Valente, incalzano con le loro domande. Doyle dice che sta lavorando a un nuovo racconto ambientato nello zoo di Dublino, protagonista una famiglia di scimmie dalla doppia vita. Con l’aria grave, uno spettatore lo interroga: «Sono appena stato allo zoo di Berlino. Ho visto le scimmie. Quali sono le tue?». Lui non si scompone: «Quelle a sinistra». Confessa d’aver capito sin da piccolo che sarebbe diventato uno scrittore. Andò a vedere con i compagni un film western interpretato da un celebre cowboy. «È mio zio», disse. Gli credettero. «Scoprii che potevo mentire, cavandomela. Nella mia vita, in fondo, poi non ho fatto altro». (s.fio.) FOTO REUTERS MANTOVA Quarantasette anni, figlio di un tipografo dell’Irish Independent, tra gli scrittori irlandesi più famosi nel mondo, Doyle vive il successo con grande sobrietà. Perché ha scelto Armstrong? «Leggendo l’autobiografia rimasi colpito da una frase. Quando lasciò New Orleans per New York, qualcuno gli disse “Trovati un uomo bianco che ti metta una mano sulla spalla e ti accolga: sei il mio nero”. Pensai che il mio personaggio potesse essere quell’uomo bianco». Alla fine del romanzo c’è una sterminata bibliografia sul musicista. «Sì, mi sono documentato moltissimo. Ho letto memorie, lettere, diari, saggi biografie. Devo confessare che, al di là della seduzione musicale, sono stato rapito dalla sua vita. Più interessante di Duke Ellington, e anche più tagliata per le esigenze di un narratore: Armstrong scriveva le sue canzoni, ha lasciato molti brani su carta ai quali mi sono potuto ispirare. Era anche un grande parlatore, a tratti esilarante. Un clown. Un attore. Il più grande trombettista del mondo. Insomma l’ideale per costruirci intorno un’opera di fiction». Lei descrive un paese attraversato da forti tensioni razziali. L’amante nera di Henry cita una celebre canzone: “Di dove sono? Dove i neri pestano i piedi nel fango del Mississippi”. «Gli ultimi della terra che ancora sopravvivono. La recente tragedia di New Orleans ha rivelato l’enorme divario tra privilegiati e oppressi. L’America e il mondo intero sono ancora divisi in blocchi separati». Lei insiste sulle biografie parallele di Armstrong e Henry, cresciuti sulla strada. Una fratellanza ideale tra i neri d’America e gli irlandesi, i “neri d’Europa”? «No, questo no. Mi appare esagerato: così diceva la propaganda dell’Ira. Voglio essere onesto: ho una bella casa, una Volvo, non mi sembra di fare la vita di un oppresso». La crudele storia dell’incontro tra il giovane emigrante di Dublino e il mitico Louis Armstrong DOMENICA 18 ENZO BIANCHI GEORGES DIDI-HUBERMAN UMBERTO GALIMBERTI SERGIO GIVONE ALFONSO M. IACONO CHARLES MALAMOUD JEAN-LUC MARION SALVATORE NATOLI GIANGIORGIO PASQUALOTTO CARLO SEVERI EMANUELE SEVERINO PETER SLOTERDIJK SILVIA VEGETTI FINZI SERGIO VITI main sponsor 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 In principio era il monologo da virtuosi o il siparietto da avanspettacolo. Poi sono venuti Dario Fo, Proietti e Grillo Oggi l’assolo affabulatorio sul palco ha preso molte direzioni: c’è il modulo narrativo e doloroso di Paolini, quello fantastico di Ovadia e Celestini, l’umoristico-poetico di Antonio Albanese. Artisti diversi ma tutti impegnati su un unico genere dall’irresistibile ascesa Il 4 giugno del ’44 ‘sti soldati attraversavano la città da sud verso nord, e lui andava verso sud Camminava contromano rispetto alla Storia ASCANIO CELESTINI Il boom dell’attore single Dalle caricature e dalle macchiette siamo passati alla satira sociale Repubblica Nazionale 36 11/09/2005 I VOLTI DARIO FO I suoi gramelot e fabulazzi gli hanno valso il Premio Nobel GIGI PROIETTI Un pioniere del genere “A me gli occhi, please”, 1976 BEPPE GRILLO Il più attrezzato showman della controinformazione RODOLFO DI GIAMMARCO «I l monologo è una specie di letteratura drammatica che risponde al gusto del tempo e io, signori, parlerò della sua utilità come studio, come esercizio, come aiuto pel giovane artista drammatico...» suona la prefazione/a solo di un manuale glorioso del 1888, Il Libro dei Monologhi di Luigi Rasi, attore, autore e storico del teatro. «L’Autore di questo libro preferisce evitare inutili questioni legali... La carta può causare tagli cutanei... Il volume è infiammabile... Non usatelo come contraccettivo...» suona la premessa del testo-copione Bollito misto con mostardadi Daniele Luttazzi pubblicato nel 2005. Nell’arco di 117 anni la teoria e la pratica del parlare da soli in scena o su una pagina sono radicalmente cambiate. Ora la maggiore riconoscibilità dell’artista, il meccanismo più agile della messinscena e la comunicativa più diretta del linguaggio (oltre che una sobrietà necessaria di budget) hanno decretato il trionfo dell’attore single da camera o del performer per i grandi numeri di pubblico. Nell’Ottocento e nella prima parte del Novecento il monologo era quasi sempre un lusso, un exploit reso possibile dal virtuosismo aristocratico di giudiziosi esponenti della prosa. Anche se poi da noi, fatta eccezione per il fenomeno delle serate d’onore che grandi attori e attrici hanno dedicato fino all’ultimo dopoguerra a un repertorio di poesie e “tirate” celebri, è stato sempre più naturale il cammeo, la caricatura, la macchietta, la satira iperbolica e la chiacchiera comico-sociale. Tutto un repertorio da entertainment che a seconda del periodo politico, delle condizioni economiche e del tasso di anarchia ha alimentato, oltre alla parabola di artisti solisti geniali non classificabili come il Premio Nobel Dario Fo, il fenomeno dei comici popolari, dei nuovi comici, dei comici raccontatori, dei comici civili, una razza cui spesso la risata si smorza in bocca per dar luogo a solisti della denuncia politica, a guru che aprono gli occhi contro le persuasioni occulte, a inquisitori di piaghe nazionali, a impersonatori di nuovi mostri. Dai e dai, la figura del teatrante che occupa da solo la scena è assurta a modello quasi quotidiano, ed è un boom in continua crescita tanto che l’one man (o woman) show è un tipo di spettacolo in regola che ha ormai antenati, padri, fratelli maggiori e una miriade di praticanti. Difficile, certo, che qualcuno possa vantare un pur lontano ascendente dal Viviani dei bozzetti umani tragicomici, o dal Petrolini degli irripetibili Gastone e Nerone. E forse non si può competere con l’autorevolezza del trasformismo di Fregoli. Al- trettanto è venuta meno l’improntitudine artigianale dei Totò, dei Rascel e dei Fabrizi, o di donne-personaggio come la Magnani, come la Scala. Ma alcuni dei parlatori indipendenti di oggi hanno la cattiveria etica del triestino (perseguitato) Angelo Cecchelin, la nevrosi verbale di Walter Chiari, l’acciliato timbro del Gassman dedito ad atti unici o alla poesia, l’iperbole mimica del primo Montesano, il gusto della facezia di Bramieri, il piacere per lo scandalo letterario di Paolo Poli, o l’ardore caustico di Franca Rame, o la mascalzonaggine culturale di Laura Betti. Chissà se l’incrudelimento dei solisti di casa nostra ha risentito dell’eco di un comedian statunitense, Lenny Bruce, che agli inizi degli anni Sessanta affermò il suo stile violento e osceno. Ma è un’altra storia. In Italia, se teniamo da parte il vertiginoso talento solitario di Fo, la sua fabulazione che è un torrente di suoni, e se consideriamo inaccostabile la potenza della phoné di Carmelo Bene, la maestria nell’arte del monologo è appannaggio di Gigi Proietti. È lui, nel dicembre del ’76, al Teatro Tenda di Roma, con A me gli occhi, please, con un mix di pezzi e generi che fece epoca (replicato all’infinito) a segnare uno spartiacque nel teatro: da allora la sua taglia di showman-teatrante l’ha messo in contatto anche con pubblici da stadio: al Palazzo dello Sport di Firenze ha registrato quest’anno seimila presenze, e nel 2000 in due sere alla curva sud dell’Olimpico ha avuto 27mila spettatori. Quanto agli attori-conferenzieri scatenati in argomenti anticonsumistici e di smascheramento, la citazione d’obbligo è per Beppe Grillo: al chiuso, impegna il Forum di Milano (11mila posti) o il Palalottomatica di Roma (8.800), mentre all’aperto ha “adunato” il 4 settembre 15mila persone all’Arena di Verona, e in un capodanno di tre anni fa (appuntamento gratuito) una massa di 300mila in piazza a Torino. Più ascetico, più monografico, più narrativo e più “drammatico” è Marco Paolini, che sceglie temi forti e scottanti, una mappa precisa e fabulatoria, e resta attore, si fa interprete dei malesseri e crea emozioni dividendosi tra spazi teatrali e non teatrali. E c’è l’one man show dei raccontatori, di Moni Ovadia che risale con la parola e col canto alle origini delle tradizioni ebraiche, di Alessandro Baricco, con le sue rapinose narrazioni alla Tolstoj e di Ascanio Celestini, che fruga nei travagli delle lotte partigiane, della Roma popolare e della classe lavoratrice. C’è l’a solo dell’incazzatissimo Daniele Luttazzi che impasta di crudele comicità e di paradossi le vicende della cosa pubblica non senza scomodare casi privati, morale e tabù. C’è il percorso a sé di Paolo Rossi che è veterano del genere, che da kamikaze umoristico è passato alla satira dello scenario governativo e non, fino a preferirsi fool del teatro popolare scavalcamontagne di DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 Sono andato da una donna bellissima e le ho detto: «Se mi baci divento più alto», e lei ha risposto: «Perché? Non sei basso per essere un ranocchio!» Ho tre figli, tutti già sistemati. Thomas si droga; Nicholas spaccia; Giuseppes, la pecora nera, è nella narcotici: arresta i fratelli e fa carriera PAOLO ROSSI ANTONIO ALBANESE «Ce l'abiamo noi un anticoncezionale, il migliore: Un limonata!» «E quando devo prenderla, Rabbi? Prima o dopo di…? Invece di!» MONI OVADIA La rivincita della parola nuda MICHELE SERRA ochi anni fa mi venne chiesto di leggere, in una chiesa modenese, la Lettera ai giudici di don Lorenzo Milani. Un testo importante e denso, ma lungo (cinquanta minuti) e zeppo di riferimenti tecnico-giuridici. A rischio di noia, voglio dire, specie se letto in pubblico da un non attore quale sono. La chiesa era strapiena (più di mille persone), temevo i bisbigli da distrazione, speravo — appena — in un’attenzione di cortesia. Invece fu il silenzio, un silenzio carico di rispetto, un silenzio teatrale e solenne, a sorprendermi e quasi intimidirmi. La mia voce incerta cadeva su un pubblico attentissimo e teso, e alla fine della lettura un applauso lunghissimo sancì calorosamente, solidalmente l’“ite, missa est” di quel rito improvvisato. Escluso che il successo della lettura fosse dipeso dal mio talento di lettore, e perfino dal carisma di don Milani (in quello scritto diluito nei tempi e nelle argomentazioni), mi fu chiaro che quella sera si celebrava la parola in quanto tale. Le persone presenti volevano che si restituisse senso e dignità alla parola umana. Di più: avvertivano, come noi tutti, che la parola è in pericolo, che il suo scialo, il suo abuso, la sua distruzione — specie televisiva — è qualcosa che mina le fondamenta del linguaggio e dunque della socialità. Sono convinto che questa urgenza di difendere la parola, di farle spazio attorno quasi per aiutarla a respirare nuovamente, sia alla base del fenomeno dei tanti one man show teatrali, del teatro di affabulazione, e più in generale dell’ascolto che si dedica a chi legge o racconta in pubblico, solitario e spesso senza alcun supporto scenico. Sono innumerevoli gli esempi, anche non teatrali o para-teatrali, di letture pubbliche totalmente scarne (solo una voce, un microfono e un leggio) che riempiono gli spazi più difformi, sale teatrali e biblioteche, piazze e perfino stazioni, autobus o sale d’attesa o banche (vedi la bella rassegna bolognese Ad alta voce). Libri letti, a turno, per intero, come a Mantova lo scorso anno, in una staffetta di voci che si danno il cambio, e il vero maratoneta è il racconto che si snoda nelle ore davanti a un uditorio cangiante di passanti. Romanzi letti per radio (la radio è il complice più navigato della parola) che raccolgono un’audience non piccola, decine di migliaia di persone che leggono o rileggono con le orecchie. E anche microeventi privati in case private: alcuni miei giovani amici organizzano da tempo piccole serate conviviali nelle quali ogni ospite legge, a turno, una pagina o un capitolo di un libro. E per Ad alta voce fui invitato a leggere qualche poesia, nel suo tinello silenzioso, a un unico uditore, un ragazzo paraplegico. Bella esperienza, delicata e potente al tempo stesso. Indimenticabile, sempre frugando nelle mie esperienze, una serata nella campagna ravennate, in un cascinale, dove l’attore romagnolo Gigio Dadina rinnovava la tradizione del “fuler”, il raccontatore di fole, sciorinando accanto al focolare acceso il suo repertorio di memorie contadine e industriali, per una P Repubblica Nazionale 37 11/09/2005 un tempo. C’è il monologo di un artista contemplativo ed emblematico come Antonio Albanese, ispirato da figure losche e surreali, animato da una fisicità che è un manifesto dell’arroganza sconfitta, della supponenza piena di tenerezza. C’è l’one man show di uno come Alessandro Bergonzoni che gioca col lessico e con gli idiomi elevandoli a prototipi, ricavandone trame, coniandone acrobazie di senso, in una dimensione che è “altra”. C’è l’idealismo a parte di Marco Baliani, un austero lottatore che in scena si batte sempre per la buona causa di un uomo, di un mondo, di una posizione del pensiero, con l’anti-eroismo di un personaggio di Camus. E c’è l’isolamento di uno davvero fuori dal mucchio, di un tribolato nichilista ricco di feroce mimica, di uno come Antonio Rezza, che mette paura, che non può misurarsi con gli spazi, tenuto in quarantena. Alla famiglia delle soliste pioniere appartiene (ed è un pezzo di storia del teatro) Franca Valeri, recita da sola drammaturgie altrui Anna Marchesini, impone se stessa con mille profili Sabina Guzzanti (ci sarebbe anche Corrado...), è fedele a un rigoroso e brillante impegno Lella Costa, fa da new entry Eleonora Danco. Alla genia degli attori-comici corrosivi vanno ascritti Claudio Bisio (amante della stranezza sensibile), Paolo Hendel, Gene Gnocchi, Enrico Bertolino e i sempre più interpreti Alessandro Benvenuti, Gioele Dix. Al ramo dei raccontatori etici si ricollegano Davide Enia, Mario Perrotta e Ulderico Pesce, e fa la sua parte uno scrittore come Vincenzo Cerami, e anche Valerio Mastandrea. L’erede di Noschese è l’imitatore Max Giusti. Recitano bene da soli, e da tempo, Enzo Moscato, Peppe Barra, Danio Manfredini. Insomma, solo è bello. E il pubblico che ci sta, gli spettacoli che hanno successo, la tendenza che c’è lo testimoniano. Da considerarsi uno specchio della solitudine di noi tutti nella vita? C’è anche un folto gruppo di “soliste”, la capostipite è Franca Valeri I VOLTI MARCO PAOLINI Celebre per “Vajont”, racconto minuzioso del grande misfatto ALESSANDRO BARICCO Dalla musica alla poesia, è il vero affabulatore che affascina tutti MARCO BALIANI È un veterano dell’assolo letterario-civile trentina di commensali felici di ascoltarlo con un piatto di minestra davanti al naso, e un bicchiere di vino a portata di mano. Gli esempi alti, dal Carmelo Bene tonante al Sermonti magistrale e colloquiale che recitano Dante, sono la punta dell’iceberg. Ovunque qualcuno legga qualcosa, si raduna un piccolo o grande pubblico di ascoltatori assorti, e spesso l’umiltà e la non-professionalità dell’oratore (uno scrittore, un attore fuori contesto, un chiunque) aggiungono all’evento l’emozione dell’effrazione “democratica”, come quando in certe comunità cattoliche di base si decise che non era solo del sacerdote la facoltà di dire il Verbo. Emozionante, per esempio, è vedere un giornalista come Gian Antonio Stella entrare goffamente in scena, sedersi a un tavolino e leggere, al lume di un abatjour, le sue storie di emigrazione, totalmente al di fuori di ogni ortodossia teatrale. Ed è curioso, in questo nuovo clima così favorevole alla nuda parola, che ancora non abbiano ripreso corpo, da qualche parte, le grandi kermesse poetiche dei turbolenti Settanta, magari lasciando a quel passato infocato, ma anche acido, gli eccessi sguaiati e puerili di un pubblico troppo partecipante, però ritrovando la straordinaria magia di quelle voci spesso incongrue che davano corpo ai versi, voci d’autore quasi mai efficaci nella pronuncia e nella scansione metrica, ma poetiche perché di poeti. Con memorabili eccezioni di bravura assoluta: come Allen Ginzberg a Sampierdarena, in una notte popolare e colta di venti anni fa, che intona William Blake («Tiger, tiger…») con melodiosa raucedine, con magistrale felicità, accompagnato da un minuscolo armonium, e incanta un pubblico di massaie e ragazzi che niente sanno di Blake, di Ginzberg, di poesia e nemmeno di inglese, ma colgono la musica, colgono la generosità dell’officiante, capiscono la straordinarietà di quella scena povera e precaria sotto le stelle. Ci sarebbe, a ben vedere (e a ben sentire), un rischio di inflazione e/o di modaiolismo. Ma è il genere stesso (la parola nuda) che ci tutela, è una merce secca, semplice, difficile da contraffare con condimenti fasulli, bellurie dozzinali, trucchi incanta-popolo, il peggio che può capitare è che la lettura non sia poi così avvincente, il lettore davvero troppo afono o stonato. Prevale comunque il senso di rivincita rispetto al parolicidio dei media e della tivù soprattutto, il risarcimento che si va a riscuotere sotto un leggio che promette solo quello che può dare, parole, scrittura, racconto allo stato puro. Sopra i quaranta, se si deve leggere in pubblico, è molto importante non dimenticare gli occhiali, come mi è accaduto una sera nella biblioteca comunale di un paesino appenninico. Un coetaneo mi prestò i suoi. Di quelli da farmacia e anche da autogrill, venti euro. Bastano due lenti dozzinali per salvare ciò che è stato scritto. E basta la voce per parlare, qualora si ritenga che ancora ne vale la pena. 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 i sapori Dieta mediterranea Ha valicato mari e monti, scavalcato i millenni, accomunato popoli e culture in apparenza inconciliabili Ora, dal 20 al 25 settembre a San Vito Lo Capo, torna il Festival che da qualche anno celebra questo piatto passe-partout, meticcio per storia e vocazione, nomade come le genti che lo hanno inventato Couscous Una passione senza confini LICIA GRANELLO Algeria L’ingrediente-base è la Berboucha, semola a grani grossi che viene versata nel tarbout, fatta gonfiare con acqua e cotta a vapore in due riprese. Alla fine, si assembla stufato di montone o capra, arricchito di legumi e spezie Costa d’Avorio Al posto della semola, si utilizza l’attiéké, ovvero farina derivata dal tubero della manioca grattugiata Una volta lavorata e cotta, viene servita con pollo alla brace e pesce – merluzzo o tonno fritto e ricoperto di cipolle e pomodori o preparano cristiani, ebrei, musulmani. Lo gustano mendicanti e notabili, vegetariani e carnivori irriducibili, tradizionalisti e creativi, snob e no global. Perché il couscous è meticcio per definizione, con il suo carico di storia diffusa e senza barriere. Ha valicato mari e monti, superato secoli e millenni, affratellato genti e deliziato palati figli di culture tanto diverse da essere apparentemente inconciliabili. Così, non è difficile ipotizzare per la nuova edizione del “Couscous Fest” (San Vito Lo Capo, Trapani, 20-25 settembre, www. couscousfest. it) un successo anche maggiore di quello che ha segnato l’ultima edizione. Centomila visitatori, tre tonnellate di semola utilizzate: insomma, una gigantesca piramide di couscous che ha sollazzato turisti e appassionati di otto Paesi, quante sono le brigate di cucina impegnate nella gara meno competitiva del mondo. Potete immaginare uno chef palestinese e uno israeliano che incocciano fianco a fianco, senz’altra diatriba della ricetta migliore? Succede anche questo, sotto le belle tende in stile arabo allestite lungo una delle spiagge più sensuali della Sicilia. Perché davvero, questo è un cibo senz’altri confini che la propria fantasia nell’assemblare il condimento — da povero, semplice, severo, a complesso, sontuoso, ricco — della semola sgranata. Portato alla passerella globale dagli Imazighen, i Berberi, mitico popolo delle valli e montagne nordafricane, usi a preparare una “pappa” (kskso, kuskus) a base dei cereali coltivati — frumento, orzo, miglio, sorgo — assemblati con acqua o latte, il couscous è stato inseparabile compagno di viaggio dei grandi viaggiatori europei alla scoperta del Maghreb. A cambiare, di Paese in Paese, i nomi — maftoul, kseksou, cuscusù, cascasa, sekso, kuski, burghul, tabuleho — i condimenti — dallo smen, il burro fermentato, ai meravigliosi stufati di carni, verdure e spezie — ma non l’approccio interculturale, con le sue ricette ancorate alle diverse tradizioni eppure assimilabili a una vasta porzione di mondo. In più, nessun cibo come il couscous vanta una modalità di consumo tanto democratica quanto conviviale: ci si siede intorno al grande piatto rotondo di por- L Repubblica Nazionale 38 11/09/2005 Israele Tra tante ricette salate, con l’agnello protagonista, spicca la versione dolce, della festa di Chanukkà La semola cotta è arricchita con burro, zucchero, uvette passite rinvenute in acqua e decorata con fette sottili di arancia zuccherata Italia L’immigrazione magrebina ha introdotto le ricette a base di carne, diverse da quelle che ci appartengono, con pesce e verdure, nella zona di Livorno o sulle coste siciliane, e vegetariana, nell’isola di San Pietro (CA) Marocco Palestina Le ricette sono infinite, figlie delle diverse zone del Paese Si va dal Sekkouk col latte, servito a mo’ di zuppa, al Medfoun, a piramide e ripieno di carne e frutta. Ogni ras al hanut (bottegaio) vanta il suo segreto miscuglio d’erbe Il Maftoul (in arabo, movimento rotatorio della mano) si prepara da un impasto di farina di grano integrale e frumento spezzato Burghul con acqua e sale, essiccato al sole I granuli sono grandi e scuri Condito con pollo e verdure tata, si medita per qualche momento — il rituale Bismallah, “in nome di Dio” — ci si serve, possibilmente con le mani, prendendo un pezzetto di carne (o verdura, o pesce) e formando una pallina con la semola sgranata per accompagnarlo. Sembra un rituale così distante dalla nostra cultura, eppure, il couscous è anche roba nostra, come ben racconta la scrittrice Fatema Hal, ambasciatrice marocchina della gastronomia e titolare di uno dei ristoranti più autenticamente e golosamente maghrebini, il “Mansouria” di Parigi: «I Romani fecero del frumento il motore della loro conquista, trasformando Nord Africa, Egitto, Sicilia, Medio Oriente in un enorme granaio, e battezzando la farina con il nome similia, di origine sanscrita, che divenne smida in lingua araba e semola in italiano». E infatti, malgrado in origine i nostri luoghi del couscous fossero riconducibili a zone specifiche — Livorno, Carloforte, alcune coste siciliane — il consumo si è esteso facilmente da Nord a Sud, grazie a un sapiente dosaggio dei gusti, riducendo le spezie e le salse a lunga cottura in favore di verdure croccanti e pesce, come recita la ricetta del couscous italiano in gara quest’anno. Se avete dei dubbi sul movimento dell’incocciatura o su quando aggiungere lo zafferano, chiedete al superesperto Vittorio Castellani, in arte Chef Kumalè (“com’è?” in dialetto piemontese), che animerà i minicorsi di San Vito Lo Capo. E poi assaggiate i couscous in degustazione. Rigorosamente con le mani. DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 itinerari Isola di S. Pietro (CA) Livorno GLOSSARIO Pantelleria (Tp) Colonizzata su invito di Carlo Emanuele III di Savoia dai pescatori tunisini, eredi dei mille liguri approdati 150 anni prima a Tabarka, ruota intorno al paese di Carloforte. Famosa per la tonnara e le saline, vanta un couscous vegetariano, il Caschà La città-porto ha inglobato il couscous nelle ricette di tradizione grazie agli scambi con i mercanti ebrei tunisini, rafforzati dall’insediamento di una comunità ebraica Preparato con pesce e spezie, si chiama Cuscussù, quasi come a Trapani (Cùscusu) L’isola vulcanica Bent-el-Rhia, la Figlia del Vento della tradizione araba, più vicina all’Africa (Capo Mustafà è a 70 km) che alla Sicilia, ha nel couscous di pesce e verdure un caposaldo della cucina, insieme ai capperi e al vino Passito di Zibibbo DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE HOTEL HIERACON Corso Cavour 62 Tel. 0781- 854028 Camera doppia da 98 euro, con prima colazione HOTEL GRANDUCA Piazza Giuseppe Micheli 16 Tel. 0586-891024 Camera doppia da 96 euro, colazione inclusa ZUBEBI RESORT Località Zubebi Tel.0923-913653 Camera doppia da 135 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DA NICOLÒ Corso Cavour 32 Tel. 0781-854048 Senza chiusura estiva, menù da 40 euro IL GIRO DEL CANE Borgo dei cappuccini 314 Tel. 0586-812560 Chiuso la domenica, menù da 30 euro LA NICCHIA (CON VENDITA PRODOTTI) Contrada Scauri Basso Tel. 0923-916342 Senza chiusura estiva, menù da 27 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE PASTIFICIO LUXORO Via XX Settembre 30 Tel. 0781- 856161 PASTIFICIO CHIESA Mercato Centrale, Via Bontalenti Tel. 0586-884697 FORNO BENTIFECI Via Cagliari 58 Tel. 0923-911142 3 tonnellate Couscous Coskinon (semola) in Grecia, Kuski, Kskso, Sekso nelle lingue berbere: la stessa parola definisce sia la semola che la ricetta Incocciare Lavorare la semola (le dita leggermente aperte e il palmo sollevato) con movimenti circolari per formare delle micropalline Gsa’a Il piatto largo e basso, chiamato anche diefna o kesriyya, su cui si lavora – e a volte si serve – il couscous. Di legno o terracotta Couscoussiera È una pentola doppia: nella parte inferiore si prepara il brodo, in quella superiore, forata, si cuoce al vapore il couscous Piatto delle feste musulmane e ebraiche La semola che sarà consumata al Couscous Festival Le mani italiane sul cibo sacro LILIA ZAOUALI «C Repubblica Nazionale 39 11/09/2005 la ricetta La semola cruda – più o meno fine – posata su un piatto basso e largo, va lavorata con acqua e poco sale in modo rotatorio e sempre nello stesso senso *** Si formano delle microscopiche palline, che versate in un piatto fondo, devono essere separate le une dalle altre *** Dopo un quarto d’ora di riposo e una nuova lavorazione, le palline passano attraverso setacci di diverse dimensioni: alla fine, la grandezza va dal grano di pepe alla testa di formica *** La cottura con il vapore dello stufato al piano inferiore della couscoussiera, dura circa 40’ e comporta una terza lavorazione con acqua, olio o burro chiarificato e sale *** Si serve in una grande piatto rotondo, con il condimento al centro e il brodo a parte Non accompagnato dal pane Senegal Tunisia La semola è sostituita dalla rottura di riso, ingrediente fondamentale per la preparazione della tiéboudienne, piatto nazionale a base di pesce e verdure Tra le particolarità, l’uso di zenzero, cumino, senape, menta e pasta d’arachidi Lo stufato di carni e verdure, piuttosto consistente, viene versato sui grani lungamente lavorati, cotti e disposti nel piatto. Per intensificarne il gusto, si usano abbondante pomodoro e harissa, piccantissima salsa di peperoncino ouscous! Couscous!», ripetevano in coro Elisa e Leonardo ballando intorno al tavolo. I due bambini italiani (con un quarto di sangue tedesco: nessuno è perfetto) sono abituati a mangiare il couscous, ma ogni volta è una festa. Chissà perché? Il couscous è come la pastasciutta, ha mille e una faccia, è bianco, bruno, fine, medio o grosso, può essere semplice o sofisticato, speziato oppure no, dolce o salato, alla carne, al pesce, alle verdure, alle erbe, all’olio o al burro, insomma ricco o povero ma sempre buono e conviviale. Sono ammesse tutte le versioni. Il couscous viaggia, si adatta, si fa amare, si lascia addomesticare. All’estero lo trasformano e per noi maghrebini che ne reclamiamo a gran voce la paternità diventa irriconoscibile. A Trapani e a Carloforte se ne preparano varianti con la carne di maiale. Il nostro couscous è musulmano e ebreo, è il piatto delle nostre feste religiose, delle nostre cerimonie funebri, delle offerte nelle moschee e nei mausolei. È un piatto sacro. Ci si dedica alla sua preparazione con la massima cura: si bagnano delicatamente i grani prima di versarli nella couscoussiera, si lasciano gonfiare lentamente nel vapore che si sprigiona dal brodo, poi si condisce il couscous con burro chiarificato, infine lo si innaffia col brodo e si lascia riposare Sua Maestà. Sì, i grani di couscous devono assorbire lentamente il brodo, che viene aggiunto un po’ alla volta, poi si mescolano, si coprono con un panno spesso e si lasciano riposare. Per ottenere un buon risultato bisogna che tra il couscous e chi lo manipola ci sia comunicazione. Confesso che vedere come viene attualmente ridotto il couscous fuori dal suo territorio originario mi scandalizza. I grani ammollati in acqua bollente salata: ecco che cosa chiamano couscous i produttori di alimentari secondo le “istruzioni per l’uso” stampate sulla confezione in diverse lingue, tra cui perfino l’arabo. È un vero e proprio complotto contro la couscoussiera e contro il couscous. Eppure l’Italia può vantarsi di aver fabbricato la prima couscoussiera moderna, concepita dal designer algerino Abdi e prodotta da Alessi. Se non avesse un prezzo proibitivo, con l’eccellente qualità che la contraddistingue avrebbe soppiantato tutte le altre couscoussiere, di terracotta smaltata, di rame stagnato, di alluminio (importate dalla Cina) o di acciaio inossidabile (le migliori). La storia italiana del couscous è molto antica. Malgrado sia difficile stabilirne con precisione l’inizio, si possono segnalare tre aree di riferimento: la zona di Trapani, dove il couscous ha sicuramente preceduto l’arrivo dei pescatori tunisini, la zona di Livorno, dove fu introdotto dagli ebrei che scappavano dalla Spagna alla fine del sedicesimo secolo, e la Sardegna, dove nel diciottesimo secolo la comunità dei pescatori di corallo liguri di Tabarka (Tunisia) si insediò a Carloforte. Bisogna anche segnalare gli emigrati italiani disseminati in Maghreb dal diciannovesimo secolo e che negli anni Sessanta “riemigrarono” in Italia e in Francia con una couscoussiera nei bagagli. Non bisogna dimenticare, inoltre, che la prima macchina per la produzione dei grani di couscous, creata nel 1907 nell’Algeria coloniale, è firmata da Jean Baptiste e Anaïs Ferrero. Dietro a quel cognome è facile sospettare origini piemontesi. Erano passati circa cinquant’anni dalla comparsa della ventilazione automatica dei grani appallottolati a mano (1853), introdotta da una certa casa Ricci. Ancora una mano italiana? Che il couscous abbia perso la fede, che lo facciano col cinghiale o col salmone, al limite posso anche accettarlo, ma un couscous senza couscoussiera è assolutamente inammissibile. L’autrice è antropologa e storica del mondo musulmano (Traduzione di Elda Volterrani) 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA le tendenze Vetrine in città Kilt, mini e felpe torna il bon ton ma ora è ribelle LAURA ASNAGHI bbigliamento da college inglese, ma rivisitato e corretto con l’ironia e la voglia di trasgressione dei giovani. Le scuole riaprono i battenti e davanti ai licei, ragazzi e ragazze sono già pronti a reinventare la moda. Perché “cambiare è bello” e dentro ai guardaroba dei teen ager tornano i superclassici: camicie, pantaloni in velluto, kilt, gonne a pieghe, twin-set di cachemire, pullover a V, giacche con tanto di stemma e trench. Tutti capi, molto british, che si adattano benissimo al clima settembrino, magari un po’ piovoso anche se il freddo è ancora lontano. E così i giovani riabilitano lo stile college senza però accettarne l’effetto bon ton, o peggio ancora il neocon. Basta fare un tour nei negozi preferiti dai giovani per rendersi conto che il “revival” dello stile college ha in sé un tocco di insita ribellione. Il kilt hanno dimensioni mini, da vera Lolita, e quelli di Miss Sixty , Diesel o Replay, in denim o tessuto scozzese che si fermano a metà coscia sembrano aderentissimi sui fianchi. Le camicie, targate Emporio Armani o D&G, piuttosto che Fred Perry, Etro, Coveri o Paul Smith, bianche o a righe, sono di taglie ridotte perché tutto ciò che è largo e rende goffi non interessa. Ai giovani piace esibire il corpo. E questo spiega perché persino i twin-set di marchi inglesi come Burberry, Daks e Vivienne Westwood si sono fatti più piccoli e sexy. Le maglie con i rombi, tipici di Ballantyne, imperversano in tutte le versioni e contaminano anche i calzettoni di Pierre Mantoux e Calzedonia e i boxer di Intimissimi. Da Brunello Cucinelli e Malo i pull con lo scollo a V, in tenui colori pastello, sono un inno alla nuova moda college, che non può fare a meno della classica giacca con lo stemma, oggetto di culto sia per i ragazzi che per le ragazze. Funzionano i modelli “vintage” comprati ai mercatini dell’usato, o quelli “personalizzati” con l'aggiunta di spille e gadget vari, acquistati a poco prezzo da H&M. Ma i veri cultori preferiscono fare shopping da Brooks Brothers, Ralph Lauren. Tommy Hilfiger e Fay. La giacca fa college ma guai a ricreare l’effetto divisa, troppo rigorosa e perbene. Le varianti per “sdrammatizzare” il tutto sono infinite. Dalla felpa rossa di Pirelli al pantalone cargo di Mason’s (con scritte e ricami) o di Cp Company (in tessuto con tinta ecologica), dalla scarpa stringata Church’s (meglio se rubata a papà) al berretto Borsalino o Adidas Y3 (con “spicchi” di colore o il classico tartan). Le ragazze alternano kilt inguinali Fiorucci-style, Blugirl, M+F Girbaud o Just Cavalli a romantiche gonne di Max&Co, Amuleti J., Miu Miu, Kristina Ti o Philosophy di Alberta Ferretti. Mai sazi di novità, i più acerbi acquirenti riscoprono i bomber in lana (da Iceberg sono foderati di pelliccia), i K-way di Krizia (in nylon e cachemire), i montgomery con gli alamari di antica memoria sessantottina (da Benetton ce ne sono di tutti i colori), le sciarpe chilometriche (da Stefanel si trovano i coordinati con i guanti). Tutto torna ma cambia. Così le ragazze esibiscono le perle portate in modo irriverente alla Moschino (ricoperte con il tulle stretch), mentre i maschi restano fedeli ai braccialetti estivi fatti con lo scoo-bi-doo. Ma per tutti c’è un gadget di stagione: il pon pon di lana, meglio se moltiplicato e legato in grappoli che diventano ciondoli sullo zainetto. Repubblica Nazionale 40 11/09/2005 A DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 Maglie con i rombi fosforescenti, pantaloni cargo, giacche con stemmi universitari di taglia ridotta, gonnelline avvitate e cortissime: adesso i teen-ager riscoprono il classico e ne sdrammatizzano l’effetto “perbenista”. L’ultimo gadget della stagione è il vecchio pon pon di lana, ma va appeso allo zaino NUOVO TARTAN È in tessuto tartan la borsa di Vivienne Westwood per liceali che amano il classico in chiave moderna SU LA VISIERA! In velluto, con spicchi di colore È il berretto con la classica visiera, firmato Adidas Y3 BABY TRICOT Guanti in lana con le righe, le stesse che si ritrovano sulle sciarpe chilometriche di Stefanel. Per i veri fan dello stile college anche il berretto tricot College Stile ENGLISH STYLE La gonna romantica di Kristina Ti Si può alternare a kilt in denim o tessuto scozzese È REVIVAL Torna di moda il calzettone coi rombi colorati In vendita da Calzedonia MASCHILE DI RIGORE La classica scarpa stringata di Church’s ha più fascino se è già stata usata da papà VESTIVAMO IN ZUAVA Originali i calzoni alla zuava di Incotex, pezzo forte del look da collegiale MILLETASCHE CARGO Con la giacca british, va il pantalone da lavoro di Mason’s: tasche multiuso e tante scritte DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 Merton OXFORD Uno dei primi college dell’università di Oxford, la più antica del mondo inglese, ospitava gli studenti di ritorno dalla Francia dopo l’editto del 1167 di Enrico II che proibiva di studiare all’università di Parigi LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 St Peter’s Yale CAMBRIDGE Il St Peter’s è il più antico dei 31 college dell’università nata come associazione spontanea di scolari nel 1209 nell’antica città romana di Cambridge Nel 2009 sono previste celebrazioni per gli otto secoli di attività Harvard NEW HAVEN Fondata nel 1701 come Collegiate School da Abraham Pierson, il primo rettore, cambiò nome in onore di Elihu Yale, governatore di Madras, che, nel 1718, regalò alla scuola 417 libri e un ritratto di Re Giorgio PLYMOUTH Istituita nel 1636, sedici anni dopo l’arrivo dei padri pellegrini, è l’università più antica e famosa d’America. Prende il nome dal ministro Harvard, il suo primo benefattore Gli studenti iscritti sono 18mila THE CHEERLEADERS Studio di Norman Rockwell per una serie di sette acquarelli dal titolo The Cheerleaders, 1961 La semplicità è seducente, ma non ammette errori Tutte come Audrey e Grace è l’unico modo per farsi notare LAURA LAURENZI rreprensibili, impeccabili, senza errori. Se la semplicità è la più complicata delle arti, il modo di vestire che conferisce classe ed eleganza è una formula segreta e pressoché sconosciuta. Perché mai, dopo tanti anni, continua a imperare un modello di chic considerato insuperato che fa capo sempre ai soliti tre nomi: Audrey Hepburn, Jacqueline Kennedy, Grace Kelly? Certe icone di stile non soltanto non passano di moda ma sembrano silenziosamente rimproverarci di tutti gli errori, gli scivoloni, i peccati non solo veniali di cui ci macchiamo quando ci dedichiamo a un’operazione decisamente complessa e insidiosa: vestirci. Il primo requisito è il cromosoma: essere bellissime e magrissime, e avere dunque un’eleganza innata. La signora bon ton con il filo di perle, la scarpa preferibilmente bassa, il tubino nero che cade benissimo, il twin set di ottima qualità fa ovviamente una miglior figura se la sua taglia non supera la 42. Secondo requisito fondamentale è il reddito: disporre cioè di un portafoglio abbastanza gonfio per potersi permettere dei capi di semplicità inarrivabile. È noto infatti che le cose eccentriche possono essere comprate (anche) sulle bancarelle al mercato, in super saldo, negli outlet, invece le cose classiche, quelle di charme, sono economicamente impegnative, nel senso che se valgono poco si vede: il golf fa i pallini e si slabbra, la gonna di simil vigogna prende la forma del sedere, il mocassino fa delle crepe antipatiche. Nell’era in cui gli stilisti propongono tutto e il contrario di tutto — abiti, diciamocelo, a volte decisamente rischiosi — lo stile sofisticato e distaccato e aristocratico del tipo college, o preppy, o bon ton, o classico o chiamatelo come volete è spesso sinonimo di upgrading sociale, è un salvacondotto per salire di rango. Niente fa status come un guardaroba magari tutto blu navy o tutto beige o comunque ispirato alle icone di cui sopra senza strilli, senza sorprese, senza orpelli, senza chiasso, senza cadute di gusto. Un certo modo di vestirsi, più di ogni altro, oggi marca le distanze. E mette soggezione, contraddistingue, dona, in tanto esibizionismo è persino sexy. Per accedervi bisogna resistere eroicamente al bombardamento e alla ba- I IN MANICHE DI... Repubblica Nazionale 41 11/09/2005 La camicia (Fred Perry) oggi si porta attillata, con collo e polsini bianchi Alternative? La polo a maniche lunghe PIÙ SPORTIVA IN FUCSIA Nuova silhouette per il cappotto Fay, dai colori vivaci e sempre più sottile, aderente al corpo CALDI MA CHIC Sono i pullover Ballantyne a rombi colorati che ospitano, qua e là, piccoli gufi o scritte tipo “nessuno è perfetto” PROFONDO ROSSO Calda e leggera è la felpa Pirelli da portare sotto la giacca con la camicia o una t-shirt SUONA LA CAMPANELLA L’ora è griffata Burberry perché a scuola bisogna arrivare in perfetto orario. Quest’anno i presidi sono più intransigenti del solito UN TOCCO DI ELEGANZA Mocassino in cuoio e gommini della collezione autunno-inverno della Tod’s bele di tutti gli stili, le fogge, le mode e le tendenze contraddittorie che arrivano non soltanto dalle passerelle e dalle riviste di moda, ma anche dalla strada. Essere sobrie, semplificare, è paradossalmente un modo per dare nell’occhio, per farsi notare, per restare impresse. Non ci si issa su tacchi alti dodici centimetri, non ci si strizza in un top leopardato, non ci si sigilla in una microgonna di pelle o in un paio di jeans sgargiantemente ricamati se si vuole veramente fare colpo. Chissà perché nel supermarket delle mode e degli stili si riesce invece a pescare quasi sempre il peggio. Certo se davvero si scegliesse ciò che ci sta bene o di cui abbiamo realmente bisogno le griffe e non solo le griffe andrebbero in rosso. È ancora molto attuale un volumetto dal titolo Assolutamente chic, scritto da Helen Valentine e Alice Thompson nel remoto 1931 e ristampato di recente. Dispensando consigli di eleganza, le due signore ricordavano che «Se la bellezza fa una buona prima impressione, lo charme dura tutta la vita». Certo: la classe e l’eleganza sono doti innate, lo sappiamo tutti, sono tratti dell’animo, non hanno niente a che vedere con il censo e con il conto in banca, pallini sul golf di cachemire a parte, e non sono legati neanche alla data di nascita. Ha ragione da vendere Cyrano di Bergerac: «Io sono elegante dentro, non c’è nulla in me che non risplenda». Ma siccome stiamo parlando di eleganza fuori, cioè che cosa indossare, in quali occasioni e soprattutto perché, è lecito porsi una domanda. È lecito chiedersi per quale motivo torni ciclicamente, quasi ogni autunno, questo tormentone dell’eleganza senza tempo, del genere upper class, fatta di sobrietà e semplicità e bon ton e misura, come se tutto questo si potesse magicamente sintetizzare e assorbire semplicemente acquistando un tale golfino, indossando un certo tailleur o impossessandosi proprio di quel blazer. Tornano in mente le parole che disse all’inizio della sua carriera Brigitte Bardot, bella in modo insolente ma non certo particolarmente elegante né del tipo, come si diceva una volta, “fine”. A madame Coco Chanel, che voleva insegnarle i trucchi e i segreti del vero chic, rispose: «L’eleganza è una cosa da vecchie». 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11 SETTEMBRE 2005 l’incontro Scrittori per caso È un mutante artistico, un X man dai molti talenti che non smette di assorbire tecniche e, nei suoi 55 anni, ha affinato parole e pensieri prima come comico sul palco del milanese “Derby”, poi nelle canzoni create per sé e per altri, quindi nei suoi due gialli di successo. Due milioni e 250 mila le copie vendute solo con “Io uccido”. E oggi la nuova sfida è trovare il luogo giusto per ambientare il suo terzo romanzo Giorgio Faletti n mutante, un “X man” che assorbe tecniche e arti e che si rinnova ogni volta che s’immerge in una di loro, senza tralasciare le altre. Uno scrittore dai molti talenti che viene dalle canzoni e che in passato era un comico da cabaret e, prima ancora, un pubblicitario e, andando sempre più indietro, un laureato in giurisprudenza per caso. Mentre in principio, e stavolta non per caso, solo un ragazzino con la bulimia della lettura, vorace e disordinato gustatore di storie, di trame e di intrecci fantastici. Giorgio Faletti ha da poco scelto di vivere, insieme con sua moglie Roberta, all’isola d’Elba, a Capoliveri. In una casa a due piani, l’ultima di una strada bianca, appoggiata nella campagna scoscesa verso un mare d’insenature commovente. «Un privilegio, grazie al fatto che ormai non devo più girare i teatri d’Italia con le valigie in mano come quando facevo il comico. O cantavo». Dopo l’enorme successo di Io uccido, due milioni e duecentomila copie solo in Italia, traduzioni in venti paesi nel mondo, Cina e Cile compresi; dopo l’ascesa tuttora in corso del più recente Nulla di vero tranne gli occhi, già ottocentomila copie vendute in attesa del prevedibile balzo con la prossima edizione economica, lui si gode il successo planetario alla Dan Brown, «una sorpresa che non mi ha cambiato la vita ma che, ammetto, me l’ha assai facilitata». E intanto scrive e pensa, e macina idee, progetti. Per il futuro e per il prossimo anello della sua catena di esistenze mutanti. «Sto lavorando a un musical. Lo considero un insieme di quello che sono e di quello che ho fatto e di me ci metto tutto, la parte recitata e la scrit- talmente che lavorare per me era come un’eterna vacanza». Recita al Derby club di Milano e non solo. E con molti comici oggi di successo, Teo Teocoli, Massimo Boldi, Claudio Bisio, Francesco Salvi. Debutta in tv con Raffaella Carrà e, a metà degli anni Ottanta, approda al mitico Drive in. Passa, tra l’altro, per Emilio e per Zelig e inventa personaggi esilaranti come il Vito Catozzo le cui «vita e gesta» sarebbero poi state raccontate nel libro Porco il mondo che ciò sotto i piedi. Poi un giorno si fa male a un ginocchio, sta fermo per due mesi e muta ancora. «Sentivo che quello che stavo facendo non mi bastava più. Ma, mentre ero sicuro di quello che non volevo, non sapevo ancora che cosa avrei voluto fare. Poi, grazie a quello che avevo imparato fino ad allora, percepii la differenza che c’è tra essere un musicista, e l’essere, come me, un musicale. Il primo è qualcuno che ha studiato e che ha una cultura specifica e mirata. Il secondo è solo un appassionato. Mi accorsi che la tecnica poteva Ora sto lavorando ad un musical e di me ci metto tutto: la parte recitata, l’umorismo che sta nella mia vita e ho nel Dna, la musica e la scrittura. Sarà una bella cosa FOTO FARABOLA Repubblica Nazionale 42 11/09/2005 U CAPOLIVERI tura. E soprattutto l’umorismo, che sta nella mia vita e nel mio Dna. E la musica, ovviamente. Sarà una bella cosa». Una contaminazione di un’arte con un’altra. Un prodotto a più facce, l’ennesima sfida di X man. A quando la prossima? «Ho 55 anni e penso proprio che ormai da grande farò lo scrittore. Del resto è stato il mio sogno da adolescente e il cerchio si chiude. Già allora avrei voluto scrivere, ma all’epoca non ci provai nemmeno. Ero troppo distratto dalla voglia di vita e di incontri». Il musical è relax, scrivere è lavoro. Faletti ha già in cantiere il terzo romanzo. Ancora un thriller, «una storia particolare, anche questa ambientata negli Stati Uniti. Ma non a New York. Cercavo un posto che desse l’idea degli spazi sconfinati che ci sono in America e ho scelto l’Arizona. Partirò in ottobre, per documentarmi; io non so scrivere senza guardare, verificare le sensazioni e viverle. Non mi basta leggere di un posto. E dunque andrò». Il gusto di cambiare pelle, la spinta a rinnovarsi, a rischiare. A mettere in campo desideri e inclinazioni; in testa quella creativa, la più forte, quella che c’è sempre stata, quella che ha agito da molla per trasformarsi ogni volta e che fa da filo conduttore di una vita in progress. «Non mi piaceva studiare, la laurea in giurisprudenza l’ho presa solo per non deludere mio padre che era una persona metodica e pragmatica. Papà faceva il venditore ambulante e per me avrebbe voluto una vita diversa. Sicura, ordinata, precisa, magari con il posto fisso». Ma nel frattempo il ragazzo Faletti, rocchettaro e diciottenne nel ‘68, inquieto da sempre, era già diventato anche uno scrigno di sogni. Segnato da una sorta (come dice lui) di «omniofilia letteraria». Racconta: «Avrò avuto forse dodici anni quando, in un magazzino trovai alcuni scatoloni abbandonati da mio nonno. Lui era un tipo che, nell’economia dell’Italia preboom, viveva ancora di commercio marginale: comprava, vendeva, trafficava. Da quei bauli dimenticati uscì una gran quantità di libri di ogni tipo. C’erano i romanzi di Hemingway e i gialli di Spillane, i classici e i pulp. Mi ci tuffai dentro e lessi di tutto, senza sosta. Ricordo che c’era anche il primo numero di Urania, Sabbie di mare. Mi fece innamorare della fantascienza, storie formidabili quando sono scritte bene». Finestre diverse sul mondo, terreno di coltura per quel che sarebbe venuto in seguito. Con la laurea in tasca il giovane Giorgio non ci pensa nemmeno a fare l’avvocato. Preferisce aprire, insieme con due amici, uno studio pubblicitario ad Asti, la sua città. È un’attività creativa e indipendente, ma a ventisei anni lui, che la vena comica ce l’aveva nel sangue, scopre che con l’umorismo si può anche campare. E sale sul palcoscenico. «Mi piaceva fornire aiuti preziosi a tutti e che, ormai, perfino un semplice tasto è in grado di garantire accordi già pronti». Detto e fatto, eccolo raccogliere la nuova scarica di adrenalina. Il primo album Disperato ma non serio lo produce Mario Lavezzi e vende ottantamila copie. E quando Faletti va avanti non si ferma più. Nel 1994 arriva secondo al festival di Sanremo con Signor tenente e scrive canzoni per Angelo Branduardi, Fiordaliso, Gigliola Cinquetti e per Mina. «Una volta un tizio mi disse: se hai scritto anche per lei, allora sei una persona intelligente. Il che la dice lunga su come vengono considerati i comici». «Forse non mi sarei mai messo a scrivere se nel frattempo non fosse arrivata la videoscrittura. La possibilità di poter spostare blocchi, cambiare, rifare, mi ha conquistato. Trascinato». Ed ecco i primi racconti. «Non li voleva nessuno, vennero rifiutati dal novanta per cento degli editori, da tutti quelli a cui li avevo proposti. Era un ritornello; quando (e se) si facevano vivi, mi dicevano di lasciar perdere. “Sei un comico, perché non scrivi libri umoristici che vanno tanto...”». Fu un amico giornalista a spingerlo a provare con l’editore di Porco il mondo che ciò sotto i piedi. «Ad Alessandro Dalai i racconti piacquero, ma mi sconsigliò di esordire con una raccolta. “Scrivi un romanzo” mi disse, “e io te lo pubblico subito” Qualche mese dopo gli consegnai le prime 350 pagine e, forse per scaramanzia, me ne dimenticai. Invece quasi subito Dalai mi telefonò: vai avanti, finiscilo, qui siamo pronti». È subito boom delle vendite e successo. Il libro è denso di contaminazioni personali, Faletti che saccheggia Faletti. Come sempre. Il comico aveva attinto ai suoi anni giovanili, all’esperienza di pubblicitario. Il cantante alla sua esperienza di autore. E lo scrittore prende dalla musica, dalla sua vena preferita. In Io uccido, il serial killer lascia tracce musicali; in Niente di vero tranne gli occhi, la protagonista Maureen chiede al suo compagno musicista cosa si prova a comporre una canzone. «È come essere innamorati», risponde quello, per fotografare un’emozione forte. Forse la più forte. E nel libro compaiono testi di canzoni, che sono state realmente composte e realizzate da Faletti. «E che sono rimaste intonse, per me». Un mutante artistico che si nutre delle sue vite precedenti. Lui ha una spiegazione più semplice. «Una persona è portata a scrivere ciò che conosce e che ama di più e spesso le due cose coincidono. E io amo più la mia musica che la mia comicità». La musica, anche quella vissuta con l’abituale voracità artistica: «Ascolto tutto, attingo dalla musica e da me». Per i suoi libri, invece, Faletti va a guardare, si informa. Usa le sensazio- ni come un timone. E se per Io uccido la location preferita fu Montecarlo «perché lì ho vissuto per un certo periodo da ragazzo, a causa di una fidanzata, e perché aveva sufficiente appeal internazionale», per il secondo romanzo la scelta è stata più ponderata. «New York non la conoscevo, ma l’avevo sempre considerata un po’ dark, un po’ gotica e per questo mi è sembrata giusta. Ci sono rimasto due mesi e mi sono documentato su più fronti». Quanto alle trame, «ognuno ha un approccio con lo scrivere legato a quello che si aspetta da un romanzo. A me piace raccontare storie di persone positive, quelle che vorrei essere». E la malvagità, indispensabile ed essenziale in ogni thriller, è sparsa in abbondanza, ma resta il contorno. Un nuovo libro e un musical in contemporanea. Faletti salta, assembla, cambia senza cambiare? Muta ma non lascia? «Ogni arte ha la sua tecnica; in passato ne ho imparate diverse e le ho seguite una alla volta. Prima, con la comicità e con le canzoni, scrivevo brevi testi di sintesi, con l’andare dello sprinter. Mentre adesso, con i romanzi anche corposi, devo avere un passo da mezzofondista, da maratoneta. Quanto al futuro, finora avevo sempre spinto una pecora alla volta. Ormai ho un piccolo gregge e lo voglio poter curare tutto insieme. Il successo? È faticoso conservarlo, ma mi piace. Per la carica che ti dà. Più che per il bello del denaro che per me non è mai stato determinante». Perché, Faletti, quella scritta “Nessuno” sulla manica della maglietta bianca che ha indosso? Sorride: «I soldi per me non hanno grande importanza, l’ho detto, ma migliorano la vita. Io uccido comincia con la frase “Un uomo è uno e nessuno”. “Nessuno” è il protagonista e, grazie al libro, ho potuto comprare la mia barca. L’ho chiamata “Nessuno”, come le magliette che ho fatto fare». ‘‘ SILVANA MAZZOCCHI