Registrazione al Tribunale di Velletri n. 9/2004 del 23.04.2004 - Redazione: C.so della Repubblica 343 - 00049 VELLETRI RM - 06.9630051 - fax 0696100596 - [email protected] Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti della Curia e pastorale per la vita della Diocesi di Velletri -Segni Anno 9 - numero 8(89) - Settembre 2012 Settembre 2012 2 Ecclesia in cammino - ...seminare, rendere possibile all’Evangelo di entrare nella nostra esistenza, + Vincenzo Apicella p. 3 - Colletta nazionale per Terremoto Nord Italia - Anche in estate, guerra e disoccupati nel pensiero del Papa,S. Fioramonti p. 4 - Analfabetismo religioso. I primi da rimandare a scuola sono gli adulti: - Il Caso dell’Italia, Sandro Magister p. 22 - Formare anzitutto gli adulti con contenuti da adulti, Pietro De Marco -“Tutto quello che so, è che al momento di entrare in chiesa ignoravo tutto, uscendone, vedevo chiaro”, Sara Gilotta p. 5 - Se il vuoto della politica si riempe con i “dirittucci”, Pier Giorgio Liverani p. 6 - Le vacanze degli italiani al tempo delle Olimpiadi di Londra, Angelo Bottaro p. 7 - L’emorroissa e la Misericordia, Claudio Capretti - Shalom alla luce dell’Antico Testamento, Antonio Giglio - Il Matrimonio /1: riflessione biblica, don Antonio Galati p. 24 - Come vivere l’Anno della Fede, Stanislao Fioramonti p. 26 - Evangelizzazione: Nuovi programmi ?, Antonio Giglio p. 27 - Salvaguardia del creato occasione di crescita spirituale e lavorativa, Rigel Langella p. 20 Collaboratori - Testimoni della Fede dei nostri giorni: Fratel Antonio Bargigga, S. Fioramonti p. 28 - L’insegnamento di don Tonino Bello, Antonio Giglio p. 29 Tonino Parmeggiani Proprietà Diocesi di Velletri-Segni Registrazione del Tribunale di Velletri n. 9/2004 del 23.04.2004 Stampa: Tipolitografia Graphicplate Sr.l. - Tu seguimi. Educare i giovani alla sequela di Cristo nella vita sacerdotale e consacrata mons. Franco Risi p. 30 - Per scegliere.... i laici consacrati, Sr. Apostoline p. 31 - Lo Spirito Santo fonte del discernimento delle Vocazioni, Fabricio Cellucci p. 32 - Diaconato: ...Vi racconto la mia vocazione, Giuseppe e Letizia Baroni p. 34 - Nel pensiero di San Bruno: La sorgente di ogni dono è la misericordia, don Daniele Valenzi p. 35 Redazione Corso della Repubblica 343 00049 VELLETRI RM 06.9630051 fax 96100596 [email protected] A questo numero hanno collaborato inoltre: S.E. mons. Vincenzo Apicella, mons. Luigi Vari, mons. Franco Risi,don Dario Vitali, mons. Franco Fagiolo, don Antonio Galati, Suore Apostoline Velletri,don Ubaldo Montisci, don Silvestro Mazzer, don Marco Nemesi, don Daniele Valenzi, p. Vincenzo Molinaro, Claudio Capretti, Fabricio Cellucci, Rigel Langella, Pier Giorgio Liverani, Antonio Venditti, Sara Gilotta, Sandro Magister, Pietro De Marco, Giuseppe e Letizia Barone, Antonio Giglio, Mara Della Vecchia, Sara Bianchini, Angelo Bottaro,Katiuscia Ciprì, Giuseppe Caliceti, Fabio Pontecorvi. Consultabile online in formato pdf sul sito: www.diocesi.velletri-segni.it DISTRIBUZIONE GRATUITA p. 36 p. 17 p. 18 Mons. Angelo Mancini Mihaela Lupu p. 9 p. 10 Direttore Responsabile Stanislao Fioramonti - Simbolo della Fede / 3: Io Credo o Noi Crediamo?, don Dario Vitali - La catechesi d’iniziazione in Italia: tra memoria e profezia, don Ubaldo Montisci - Famiglia: dalla eclissi di Dio a nuova evangelizzazione, p. Vincenzo Molinaro p. 23 p. 8 - Si legge il vangelo per imparare la vita, mons. Luigi Vari p. 11 - I relatori al Convegno Diocesano: Enzo Bianchi, priore di Bose, e don Erio Castellucci p. 12 - Educare alla vita buona del Vangelo nella fragilità, Sara Bianchini p.13 - Pensavo di essere italiano..., Katiuscia Ciprì p.14 - La breve lettera di Lamiaa Zilaf, Giuseppe Caliceti p. 15 - Evangelizzazione e trasmissione della fede, don Daniele Valenzi p. 16 - Nella Liturgia ... l’importante è partecipare, mons. Franco Fagiolo p. 21 Bollettino Ufficiale per gli atti di Curia Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti della Curia e pastorale per la vita della Diocesi di Velletri-Segni - Il valore del merito, Antonio Venditti p. 38 - Una lapide alla Stazione ferroviaria di Colleferro per ricordare Maria Goretti e tutti gli emigranti, don Silvestro Mazzer p. 39 - Laboratorio didattico Museo diocesano: Corso Base di Iconografia, Fabio Pontecorvi p. 39 In copertina: La parabola del seminatore Opera di Alida Massari Il contenuto di articoli, servizi foto e loghi nonché quello voluto da chi vi compare rispecchia esclusivamente il pensiero degli artefici e non vincola mai in nessun modo Ecclesìa in Cammino, la direzione e la redazione Queste, insieme alla proprietà, si riservano inoltre il pieno ed esclusivo diritto di pubblicazione, modifica e stampa a propria insindacabile discrezione senza alcun preavviso o autorizzazioni. Articoli, fotografie ed altro materiale, anche se non pubblicati, non si restituiscono. E’ vietata ogni tipo di riproduzione di testi, fotografie, disegni, marchi, ecc. senza esplicita autorizzazione del direttore. Settembre 2012 3 Vincenzo Apicella, vescovo I l nostro anno pastorale inizia, come di consueto, con il Convegno diocesano, il cui tema, già annunciato nello scorso numero, è: Vangelo: seme di vita buona. L’immagine scelta per rappresentarlo e, in un certo modo, sintetizzarlo è quanto mai suggestiva: un piccolo germoglio, sostenuto da una mano di adulto e da quella di un bambino, che, allo stesso tempo, accompagna e sostiene l’altra, mentre da lei impara a prendersi cura della fragile piantina. Si accenna così all’impegno educativo, in cui le diverse generazioni si trasmettono il compito di accogliere, custodire e far crescere quanto di nuovo e di bello il Signore è capace di far germogliare in mezzo a noi, nella nostra vita e nella nostra terra. Ma occorre “alzare gli occhi e guardare” (Is.40,26), poiché, come viene annunciato dal profeta: “Ecco, io faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa” (Is.43,19). Se sfogliamo il Vangelo, ci accorgiamo subito di quanto spesso Gesù faccia riferimento all’immagine del seme e della pianta, specialmente nelle parabole, per descrivere due realtà fondamentali, tra di loro strettamente connesse e quasi sovrapponibili, in quanto ambedue coincidono e si attuano nella sua Persona: la Parola e il Regno di Dio. Non per nulla i primi tre Evangeli fanno iniziare l’insegnamento in parabole proprio da quella del seminatore, con l’osservazione conclusiva e perentoria nel testo di Marco: “Se non comprendete questa parabola, come potrete capire tutte le altre parabole?” (Mc.4,13). Il primo compito, allora, è proprio quello di seminare, di rendere possibile all’Evangelo di entrare nella nostra esistenza in modo sempre più profondo, continuo ed efficace, di creare le condizioni e le occasioni perché a tutti possa giungere la Parola della salvezza, seminando senza risparmio e senza calcolo, cercando di essere, noi per primi, la “terra buona”, in cui il seme possa attecchire e portare frutto, mettendo in conto che terra battuta, spine e sassi li possiamo trovare dappertutto, anche dentro di noi, ma questo non impedisce al seminatore di fare il suo mestiere. Nella conclusione della mia prima Lettera pastorale alla Diocesi, sei anni fa, ricordavo la piccola parabola riportata solo nel più breve degli Evangeli, quello di Marco: “Diceva: il Regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra, dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura” (Mc.4,26-29); per cui non importa chi semina, chi irriga o chi miete, l’essenziale è che la Parola ha in se stessa la capacità di crescere e di portare frutto, perché è la presenza del Dio vivente, che opera sempre per la nostra salvezza e perché noi diventiamo, a nostra volta, viventi a lode della sua Gloria (cf.Ef.1,12). In tante altre occasioni e in tanti altri modi Gesù sottolinea la piccolezza iniziale e l’umiltà del seme e della pianta del Regno: il granellino di senape,il lievito, il sale, la lucerna, il tesoro nascosto…tutte immagini che tornano a invitarci ad aprire bene gli occhi, a non cercare il risultato facile e immediato, a ripartire sempre dagli ultimi e dal piccolo, ad essere pazienti e perseveranti, ad abituarci al lavoro di lungo periodo e di largo respiro, a saper scorgere i segni, a volte minuscoli, delle cose nuove operate dal Signore. D’altra parte, questo è il metodo e lo stile di Gesù stesso, il Verbo eterno e onnipotente del Padre, la Luce che illumina ogni uomo, il Re dei re e il Signore dei signori: egli nasce in una stalla, si rivela a poveri pastori e pescatori, va in cerca di ogni pecora perduta portandola sulle sue spalle, si china su ogni ferita e ogni piaga, ripugnante per tutti ma non per lui, non ha dove posare il capo e deve farsi prestare un sepolcro per il suo corpo martoriato e crocefisso, in una lontana provincia di un “grande” impero e ignorato dai riflettori e dalle cronache della “grande” storia. Per questo egli potrà dire, verso la fine del suo ministero: “Il Regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: ‘Eccolo qui’, oppure ‘Eccolo là’. Perché, ecco, il Regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc.17,20s). Ciò non toglie che il seme, cioè la Parola e il Regno, si riconosce dai frutti, anzi: “Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto, viene tagliato e gettato nel fuoco” (Mt.3,10), anche se il divino vignaiolo del fico sterile continua a mostrarci la sua infinita pazienza: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai” (Lc.13,8s). E i frutti, che il Padrone della vigna attende da noi, sono ben noti: ce ne dà un elenco sommario l’apostolo Paolo, contrapponendolo a quello dei frutti cattivi: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal.5,22) e, in un altro passo più conciso: “Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef.5,9). La piantina, che portiamo nelle nostre mani e che dovremo consegnare alle mani dei più piccoli, ha bisogno delle nostre cure, anche se è il Signore che l’ha piantata e la fa crescere, pur permettendo che accanto al grano buono spunti pure la zizzania dell’egoismo, del menefreghismo, della divisione e delle contese. Questo non può spaventarci, se vivremo nella comunione e nella sequela di Cristo, il Chicco di grano deposto nella terra per morire e portare molto frutto, la Vite vera in cui siamo innestati, in forza dei sacramenti dell’Iniziazione, per produrre la stessa uva buona della giustizia e della carità. Ecco l’impegno che ci attende, buon anno pastorale! Settembre 2012 4 Stanislao Fioramonti opo l’Angelus da Castel Gandolfo di domenica 29 luglio - nel quale il papa ha commentato l’episodio della moltiplicazione dei pani (capitolo 6° del Vangelo di Giovanni), e sottolineato che il miracolo non si produce senza la collaborazione dell’uomo (nella fattispecie, i pochi pani che un ragazzo ha messo a disposizione di Gesù) - Benedetto XVI non ha pensato di fare gli auguri di buone vacanze ai fedeli presenti, ma ha creduto bene di ricordare ad essi e a tutti alcune situazioni di crisi e di dolore del nostro mondo contemporaneo. D Ha iniziato con il Medio Oriente, con la guerra civile in Siria e gli attentati in Iraq, dicendo: “Continuo a seguire con apprensione i tragici e crescenti episodi di violenza in Siria con la triste sequenza di morti e feriti, anche tra i civili, e un ingente numero di sfollati interni e di rifugiati nei Paesi limitrofi. Per questi chiedo che sia garantita la necessaria assistenza umanitaria e l’aiuto solidale. Nel rinnovare la mia vicinanza alla popolazione sofferente ed il ricordo nella preghiera, rinnovo un pressante appello, perché si ponga fine ad ogni violenza e spargimento di sangue. go e la riconciliazione, in vista di un’adeguata soluzione politica del conflitto. Il mio pensiero si rivolge anche alla cara Nazione irachena, colpita in questi ultimi giorni da numerosi e gravi attentati che hanno provocato molti morti e feriti. Possa questo grande Paese trovare la via della stabilità, della riconciliazione e della pace”. Il papa ha poi ricordato che tra un anno si svolgerà in Brasile, a Rio de Janeiro, la 28 a Giornata Mondiale della Gioventù, alla quale egli guarda con speranza – e vuole ringraziare gli organizzatori – perché è “una preziosa occasione per tanti giovani di sperimentare la gioia e la bellezza di appartenere alla Chiesa e di vivere la fede”. festare la mia vicinanza agli operai e alle loro famiglie, che vivono con apprensione questi difficili momenti. Mentre assicuro la mia preghiera e il sostegno della Chiesa, esorto tutti al senso di responsabilità e incoraggio le Istituzioni nazionali e locali a compiere ogni sforzo per giungere ad una equa soluzione della questione, che tuteli sia il diritto alla salute, sia il diritto al lavoro, soprattutto in questi tempi di crisi economica”. Una crisi economica non solo italiana, come si sa, ma di portata continentale, alla quale papa Benedetto ha accennato anche nel saluto ai pellegrini di lingua spagnola (in lingua spagnola, che traduciamo): “Vorrei ricordare con affetto particolare tutti coloro che stanno godendo di qualche giorno di meritato riposo, e anche coloro che stanno attraversando momenti difficili o dolorosi, soggetti a dure prove. Invito tutti ad accogliere in questa domenica la Parola di Dio che la Chiesa ci propone nella liturgia. Meditiamola con cuore umile e mettiamola in pratica con semplicità. Che la Maria, la Vergine Santissima, ci mostri sempre il suo amore di Madre. Buona domenica”. Chiedo a Dio la sapienza del cuore, in particolare per quanti hanno maggiori responsabilità, perché non venga risparmiato alcuno sforzo nella ricerca della pace, anche da parte della comunità internazionale, attraverso il dialo- Terzo riferimento, la situazione dell’Ilva di Taranto e le disoccupazioni che la sua chiusura per danni ecologici ha provocato: “Seguo con preoccupazione le notizie relative allo stabilimento ILVA di Taranto e desidero mani- La vicinanza di papa Ratzinger alle persone in difficoltà è una conferma che la Chiesa vuole essere sempre vicina a chi “ha fame”, come lo fu Gesù con quelle circa 5000 persone che lo avevano seguito per ascoltarlo, senza pensare a quello che avrebbero mangiato. Settembre 2012 5 Sara Gilotta T utto quel che so, è che al momento di entrare in chiesa ignoravo tutto, uscendone vedevo chiaro”. Sono parole, queste, tratte dal libro di Andrè Frossard intitolato “C’è un altro mondo” scritto dal giornalista francese nel lontano 1975, ma che a me è accaduto di leggere per caso, pur trovandosi esso nella mia biblioteca non so da quanto tempo. Si tratta di un’opera particolarmente interessante, perché narra la conversione dell’autore al cristianesimo,anzi al cattolicesimo, lui che di esso non conosceva assolutamente nulla essendo cresciuto in una famiglia in parte fortemente laica ed in parte ebrea e protestante. Di sé, infatti, Frossard dice che nessuna istituzione gli era più estranea della Chiesa cattolica, anzi essa da lui era considerata come la Luna o Marte, eppure, entrando per caso in una cappella di Parigi ne uscì, alcuni minuti più tardi, cattolico “dalla testa ai piedi, cattolico senza alcun dubbio”. Dunque una conversione improvvisa ed inspiegabile anche per il protagonista, che, lo dice lui stesso, da ateo pacifico e senza problemi, uscì avendo scoperto Dio ,” per caso” in una cappella, dove notò sull’altare maggiore una grande croce che portava al centro un disco d’un bianco smorto, mentre tre altri dischi erano fissati alle estremità della croce stessa. Frossard non sapeva di trovarsi di fronte al Santo Sacramento, anzi non riusciva nemmeno a comprendere il significato di quello che gli sembrò”un sole lontano”. Si sentiva frastornato, quando all’improvviso con inesorabile violenza si scatenò una serie di prodigi, attraverso i quali, gli vennero suggerite le parole “vita spirituale”, che egli percepì come sussurrate sottovoce da una persona che tuttavia non vedeva ancora e poi , mentre il tutto raggiungeva la sua coscienza, “il cielo si aprì, si slanciò, s’innalzò all’improvviso, in una folgorazione insospettabile”, che sul momento egli non avrebbe nemmeno potuto descrivere. Non solo, ma il miracolo, aggiunge Frossard, durò un mese, durante il quale ogni mattina ritrovava quella luce e quella dolcezza che non lo avrebbero più abbandonato. Una esperienza straordinaria, che lo indusse a chiedersi se avesse sognato o se avesse semplicemente immaginato quanto aveva visto e provato e che lo indusse anche a cercare risposte adeguate, confrontandosi con chi poteva aiutarlo a comprendere, tra cui un padre domenicano assai dotto e, soprattutto, dalla vita spirituale tanto intensa e profonda come solo i santi sanno avere. Fin qui il miracolo (e non il sogno) di una conversione eccezionale tanto più se si considera che Frossard , quando fu “illuminato” aveva solo venti anni. Ed è per questo che è assolutamente importante conoscere e comprendere come nel resto della vita egli abbia vissuto la sua conversione, che, come gli fu fatto notare , egli non ave- va potuto scegliere, né aveva potuto giovarsi di quello che viene considerato il dono più grande concesso all’uomo, il libero arbitrio, anzi la libertà vera e propria. Ma è qui che, secondo me, Frossard rivela il senso vero del suo cattolicesimo, giacché comprese che in fondo quella che viene definita libertà, è solo una pseudo-libertà per cui l’essere umano si sente un piccolo dio “ruotante attorno a se stesso come ad un sole”. Ma questa, egli afferma convinto, non è che una menzogna, che finisce per indebolire l’uomo conducendolo alle forme più diverse di schiavitù morale o politica. Al contrario la salvezza che Dio dona a tutti gli uomini è fatta di umiltà e prudenza, perché Dio è il maestro per eccellenza e se non si ha paura di credere, allora si può avvertire la sua generosità assoluta, il mettersi accanto a noi, per farci sentire la sua tenerezza anche attraverso la preghiera, che per Frossard, divenne una dolce occupazione capace di metterlo in condizione di ricevere la grazia infinita che offre la possibilità di conoscere e riconoscere Dio. Dio definito e sentito come Persona che, senza aver mai visto possiamo incontrare con la certezza assoluta, che “è lei che si indica in noi”. Un testo affascinante, dunque, che non può non coinvolgere il lettore e toccarlo fin nelle fibre più intime del suo essere, perché gli dà la certezza assoluta dell’esistenza di un mondo ultraterreno fatto di luce e di felicità, cui, tuttavia è necessario imparare, vivendo su questa terra, a giungere, senza respingere le sofferenze e i dolori che il modo riserva a tutti senza eccezione alcuna. Come del resto accadde anche all’autore che fu messo alla prova dalla guerra ed ancor di più dalla malattia e dalla morte del suo bambino di nove anni, senza che mai dubitasse della dolcezza che gli fu rivelata da Dio e senza mai dimenticare la propria scarsa importanza, per sentirsi solo testimone di lode nei confronti di Chi si volle rivelare a lui, per costruire insieme a lui una nuova vita. Una lezione di fede, questa, non certamente facile da imitare, ma che, e lo dico consapevole della mia debolezza, è la sola fede possibile, quella, cioè, di lasciare che Dio guidi la nostra vita, segnando il sentiero da seguire per quanto difficile esso ci appaia e per quanto denso di ostacoli sia. Non è un caso, del resto, che lo stesso Frossard spesso si sia sentito un novello Giobbe, per il semplice fatto che in tutti noi c’è una parte di Giobbe che ci induce a chiedere a Dio la possibilità di vivere senza troppo soffrire. Settembre 2012 6 Pier Giorgio Liverani U n quotidiano italiano tra i più importanti aveva scritto, il mese scorso, che nel programma, da poco pubblicato, di un partito politico “le due uniche proposte chiare sono la patrimoniale e le unioni gay” e che della tassa sul patrimonio si preoccupano “i ceti medi proprietari” mentre le unioni e il matrimonio gay sono ”l’incubo degli elettori cattolici”. In questa ultima materia, riportata d’attualità dalla decisione del Comune di Milano di aprire anche alle coppie omosessuali i registri anagrafici, non c’è questione di destra, di centro o di sinistra. C’è solo da considerare che, mentre delle preoccupazioni per una probabile - e, per molti, augurabile - imposta patrimoniale qualsiasi atteggiamento contrario o favorevole è accettabile, la legalizzazione delle coppie gay costituisce non solo per i cattolici, ma per ogni persona che creda nel bene comune e soprattutto nel sostegno della famiglia, una preoccupazione più che legittima, giusta e doverosa, anche se può costare il rischio della solita facile ed errata accusa di “omofobia”. Questa parola -omofobia - non significa per nulla odio, disprezzo e persecuzione contro le persone e l’orientamento omosessuali. “Fobia”, infatti, proviene dal greco e vuol dire, invece, “paura”, in questo caso dell’“uguale” (dal greco “omo”). La parola nacque nella prima metà del secolo scorso negli ambienti omosessuali per indicare la paura che, quando si scoprivano gay, invadeva molte persone per i loro “uguali”, vale a dire per una condizione sconosciuta e opposta alla normalità sessuale. Per cominciare questa riflessione è utile, come si vede, anche un pizzico di etimologia. “Patrimonio”, per esempio, deriva da due parole latine: pater e munus, vale a dire che era compito del padre di famiglia di aver cura degli aspetti economici (il patrimonio) della vita dei suoi cari, cosa che nella famiglia assumeva giustamente un valore etico. Invece il munus della donna era quello, essenziale, di diventare e di fare la mater: in altri termini di dare alla luce, allevare e curare la prole, dando così essenza al matrimonio. In parole diverse: il matrimonio (come, del resto, dice anche oggi la Costituzione della nostra Repubblica) è da sempre ed essenzialmente orientato alla procreazione e per questo è un evento e una condizione di pubblico interesse. Uso deliberatamente i due termini orientato e procreazione per restare negli ambiti linguistici della questione omosessuale: i cosiddetti - ma inesistenti come abbiamo visto in un’altra precedente occasione sul medesimo tema - i diritti asseriti “civili” delle persone gay. Negli ipotetici matrimoni di costoro o anche solo nelle unioni registrate c’è sicuramente molto “patrimonio”, ma nessun “matrimonio” (neanche nel caso delle coppie femminili) per evidenti e intuitivi motivi. Si pensi alle rivendicazioni della successione ereditaria, della pensione di reversibilità (quanto costerebbe allo Stato?), del subentro nei contratti di locazione, dell’accesso all’assegnazione di alloggi pubblici a basso costo, delle deduzioni e detrazioni previste per le famiglie nelle denunce dei redditi, della possibilità di adottare eccetera… A proposito di quest’ultima richiesta ricorderò che l’adozione ha per fine non la soddisfazione del desiderio di un figlio, ma quello di dare al figlio una famiglia, purché sia vera e non una presa in giro (due padri o due madri: che famiglia sarebbe?). L’adozione di un bambino, nel caso di una coppia gay, non è da considerare altrimenti che un desiderio non certo disinteressato di abusiva assimilazione alla famiglia. Esclusa, dunque, per mancanza assoluta di “matrimonio” nel senso etimologico poco fa ricordato, ogni possibilità che per una coppia, anche se legalizzata, di persone omosessuali si possa parlare di famiglia, non resta che domandarsi a che cosa si debba attribuire questa specie di ossessione di omofilia che pervade la politica attuale, la letteratura, il cinema, la televisione, i media del nostro Paese: i partiti sono valutati sulla base del loro “orientamento” in materia sessuale. In realtà la questione è morale o antropologica assai più che politica. Abbiamo già visto, in un numero precedente di Ecclesìa, come le persone omosessuali godano, come chiunque altro, di tutti i diritti dei cittadini maschi e femmine; come e perché gli “orientamenti sessuali” non possano avere alcun valore giuridico (risultano unicamente da una dichiarazione non sostenuta da elementi tangibili, concreti e documentabili); come quasi tutto ciò che esse rivendicano possa già essere soddisfatto in base all’ordinamento giuridico esistente. D’altronde ciò che il mondo gay rivendica è qualificabile soltanto come desiderio, ma la legge riconosce o promuove i diritti e non i desideri: se soddisfacesse questi ultimi, <<il diritto diventerebbe “liquido”>>, come ha scritto un moralista noto e autorevole qual è Mauro Cozzoli1. Non solo: i diritti hanno, in quanto tali, quella che in campo medico si direbbe una sana e robusta costituzione fisica: in questo caso, invece, le coppie che pretendono di essere riconosciute come <<unioni civili>> o addirittura come famiglia in tutto parificata a quella costituzionale, godrebbero di speciali diritti validi solo per loro, temporanei e anzi provvisori: tanto che l’<<unione>> potrebbe essere sciolta anche soltanto da uno dei due componenti all’insaputa dell’altro. Involontariamente, la deputata Anna Paola Concia, reduce da un “matrimonio” lesbico celebrato legalmente in Germania e in una polemica con la presidente del suo partito Rosy Bindi ha dato ai “diritti” degli omosessuali un nome che li definisce per quello che sono: i <<dirittucci>>. Tanto “ucci” anche perché minoritari nei sondaggi di opinione. Secondo il più televisivo dei sondaggisti, Renato Mannheimer, li approva solo il 40 per cento degli italiani. Ma contro questo dato - in ogni caso preoccupante - stanno i numeri certi della inutilità dei registri comunali delle coppie di fatto: secondo un’inchiesta di Klaus Davi diffusa su YouTube nel continua a pag. 7 Settembre 2012 7 sta estate è e a quel che sembra resterà “low-cost”, cioè risparmio fino all’osso, raschiando tutto il raschiabiondaggi, statistiche, interviste: le, soprattutto i viveri. Via cappuccidifficile verificare quanto ni, cornetti, aperitivi e spuntini fuori pasto rispecchino fino in fondo la e off limits pizzerie, gelaterie e ristorealtà, ma certo è che mentre ranti. Come ridurre al minimo anche Valentina Vezzali vince a Londra la i costi della vacanza? sua nona medaglia olimpica in carI più si sono affidati al web per cerriera noi qui in Italia non ce la pascare l’offerta imperdibile, last minute, siamo tanto bene. E non si tratta solo mentre una buona percentuale ha pundel caldo insopportabile di agosto, tato più pragmaticamente sull’ospitama della situazione generale e lità di amici e parenti. della crisi che forse non ha neppuIl boom lo hanno registrato gli agriture raggiunto il suo apice. rismo, che a quanto sembra hanno offerSecondo il recente rapporto del più to la migliore combinazione per duraautorevole istituto di ricerche socio ta, prezzo e qualità. economiche, il Censis, il quadro del Tirando le conclusioni, nel complesnostro Paese e delle famiglie italiane so non è detto che una riduzione, speè a dir poco preoccupante e per molIl mangiatore di fagioli, A. Caracci , 1580-90, Roma riamo non irreversibile, del potere d’acti versi inquietante. C’è un generale clima di sfiducia, sono crollate le capacità di rispar- quisto comporti solo effetti negativi. Essa può originare anche qualche mio, il costo della vita è in costante aumento, una ripresa dei consumi dinamica virtuosa, ad esempio condizionando e stimolando nella definel breve termine è impensabile. Quasi l’80% delle famiglie dichiara di nizione dei nostri bisogni e dei nostri modelli di consumo il recupero di andare in pari fra le entrate e le spese necessarie per vivere, mentre valori quali responsabilità, moderazione, buon senso, frugalità, semplicità. oltre l’11% non ce la fa più. In altre parole si spende tutto ciò che si Si tratta di parole che oggi sono fuori moda e che appaiono retoriche, guadagna e non ci sono margini per qualche extra o per gli imprevisti. soprattutto ai più giovani. Eppure i nostri nonni hanno basato la loro Il risultato è inevitabile, quanto rovinoso: c’è una caduta in picchiata dei condotta di vita essenzialmente su questi valori, lasciandoci un mondo certamente migliore di quello che noi lasceremo ai nostri nipoti . consumi e non solo di quelli superflui. Di conseguenza bisogna stringere la cinghia e gli italiani stanno gio- Il richiamo alla frugalità e ad un più equilibrato utilizzo delle risorse non coforza adottando comportamenti volti alla riorganizzazione e alla con- scaturisce soltanto da principi e da precetti religiosi, ma anche da ideatrazione delle spese, soprattutto con la ricerca dello sconto e del rispar- li classici, dalla frugalitas degli Stoici e dalle riflessioni di Cicerone e di mio ad ogni costo, con la rinuncia a tutto ciò che viene percepito come Seneca. non indispensabile : l’87% delle famiglie contattate ha riorganizzato le Il filosofo Epicuro, ad esempio, sosteneva che il modo migliore per ragspese alimentari optando sempre più frequentemente per le offerte spe- giungere la felicità fosse quello di semplificare al massimo i bisogni e ciali o per i prodotti meno costosi, il 78% ha ridotto le spese al bar e le aspirazioni e a chi voleva entrare nel suo «giardino dei piaceri» egli per pranzi e cene fuori casa, il 63% ha diminuito gli spostamenti in auto imponeva innanzitutto una prova di frugalità: restare fuori dal cancello e in moto per risparmiare benzina, il 40% ha congelato le spese per per alcuni giorni, con una dieta di pane ed acqua. Anche il 2013 si preannuncia come un anno di sacrifici e di austerità e l’abbigliamento e per le scarpe. Il quadro che emerge, tuttavia, secondo il Censis “non è quello di un quindi la lezione di Epicuro può forse aiutarci ad affrontarlo con il piePaese impoverito, ma più oculato nelle spese, il che ovviamente non de giusto, cercando di fare «di necessità virtù», curando la febbre del aiuta ad uscire dalla spirale di bassa crescita in cui l’Italia si trova da superfluo con il monito di Orazio: “est modus in rebus”. lungo tempo”. Ed in effetti, malgrado tutto e nonostante tutto, stando a La lezione degli antichi l’hanno già messa in pratica per tutta l’estate i quel che hanno rilevato altri istituti di ricerca , almeno per quest’anno miei vicini di casa, piazzando una piccola piscina gonfiabile nel loro pezuna buona fetta di italiani non ha rinunciato alle vacanze : si trattereb- zetto di giardino : a giudicare dalla felicità, dalla allegria e dal frastuono dei tantissimi bambini che ci hanno sguazzato dalla mattina alla sera, be del 78% del campione di indagine. Come è possibile? Come si concilia questo dato con la crisi e con i dati crisi o non crisi, è stata la migliore e la più lunga vacanza estiva che rilevati dal Censis? La filosofia è la stessa : la parola d’ordine di que- si potesse immaginare e per giunta ad un costo davvero imbattibile! Angelo Bottaro S segue da pag. 6 giugno scorso, nei registri degli 82 Comuni che in tutta l’Italia li hanno istituiti, si sono iscritte, nel 2011 solo 298 coppie, pari a una media di 3,6 per ciascun registro. Bisogna, però, tenere conto del fatto che, a distanza di 19 anni dalla prima istituzione (a Empoli), se Bari ha il primato in materia con 729 iscritti (media annua di iscrizioni 37,4), Torino è secondo con un totale di ben 48 iscrizioni, seguito da Firenze con 10 e via diminuendo fino a quelli aperti da anni e ancora vuoti. La diffusa frenesia di tanta parte della classe politica per lo pseudo-matrimonio delle coppie che rifiutano quello vero non ha dunque motivazioni reali, ma è soltanto la dimostrazione di una affannosa e generale ricerca di riempire in qualche modo artificioso i vuoti di una politica che dimentica i bisogni della famiglia autentica, che trascura le urgenti necessità del Paese, che scende a gravi compromessi etici nella speranza che le offerte banalmente sessuali producano consensi elettorali. Come è possibile che, con la crisi che abbatte i redditi, fa crescere le tasse, manda i lavoratori in pensione, in cassa integrazione e in disoccupazione, fa scendere il PIL e crescere lo spread, rende difficile arrivare alla fine del mese e ren- de ancora più critica la vita delle famiglie non ci siano altri programmi da proporre che un quaderno da riempire con un po’ di nomi? Mal volentieri, ma debbo dare ragione a Il Foglio di Giuliano Ferrara, che2 ha scritto: <<Piantatela di rifilare ai gay e al mondo la storiella del matrimonio omosessuale come questioni di diritti. È soltanto una critica ideologica devastatrice del matrimonio in sé>>. Nell’immagine del titolo: Gli amanti, di Renè Magritte, 1928 1 2 Cfr Avvenire del 25 luglio u.s., pag. 2. 17 luglio scorso. Settembre 2012 8 Claudio Capretti D odici, come il numero delle tribù d’Israele, come il numero della pienezza, della totalità. Dodici, come la somma delle dieci Parole di vita e dei due comandamenti dell’amore. Dodici, come gli anni che soffro di inarrestabili perdite di sangue. Molte volte per avere un po’ di sollievo, mi sono imposta di immaginare una vita diversa da questa, di fuggire dalla mia storia, di immergermi in un sogno di normalità. Breve illusorio attimo che non sono mai riuscita a trattenere, pagato a caro prezzo da una realtà che mai si dissolve, che, con sfrontata ostentazione mai indietreggia. Malata e costretta all’anonimato perché, come dice la Legge, impura come una lebbrosa che nulla può toccare perché a sua volta ogni cosa toccata diviene impura. Guardo coloro che amo, i pochi che sanno, li interrogo non con le parole che oramai non posseggo più, ma con gli occhi, alla ricerca di risposte che nessuno di loro sa darmi. Spesso mi capita di intuire i loro pensieri e ho l’impressione che facciano più male dei loro silenzi. Vorrei una mano che mi accarezzasse un sorriso che mi incoraggiasse e non ho che sguardi che si posano a terra quando li incrocio. Guardo le donne del mio paese, le osservo quando ritornano dalla vasca della purificazione, la mikveh, una volta adempiuto il rito che segna la fine delle loro perdite mensili. Osservo i loro figli e i loro mariti corrergli incontro, riabbracciarle di nuovo, le vedo avvolte dalla tenerezza, dall’amore, pronte di nuovo a riaprirsi alla vita. Sono felice per loro e nessuna invidia mi ha mai posseduta, ma l’amarezza di ciò che sono non mi ha mai abbandonata. Per quale ragione io vengo privata di quello che tutte le donne hanno? Perché nessun medico ha potuto guarirmi e tutti i miei averi sono fuggiti inseguendo speranze divenute poi in illusioni? Dodici anni di una vita che non è vita, come dodici sono gli uomini che hai radunato accanto a Te e che ti seguono apertamente, come da un po’ di tempo faccio anch’io. Appartata ti ascolto, mi incantano le tue parabole che parlano del seminatore che getta la sua semente fra rovi, sassi e strade, di servi che vedono solo la zizzania e del padrone del campo che vede soprattutto il buon grano,di vignaioli crudeli, di piante potate affinché portino più frutti e di operai chiamati chi alla prima chi all’ultima ora. Avessi un solo pizzico di ardire o mio Signore, quel frammento di coraggio che mi consentisse di pormi dinnanzi a Te e di domandarti: “Perché mio Signore parli di contadini e hai chiamato a Te dei pescatori?” ; e chiederti ancora: “Perché, più che ad un contadino o un pescatore, Tu o mio Signore, assomigli ad un pastore?”. Si lo so, sarebbe solo un pretesto per avvicinarmi a Te, per parlarti, per poi dirti di aiutarmi… E’ vero mio Signore, molte cose non le capisco, sono solo una donna e per giunta impura, eppure questo non mi impedisce di rico- lo e rimanendo Dio, sei divenuto uno di noi, affinché noi divenissimo come Te. Deve essere questa la fede, credere in Te, nell’Inviato del Padre, nel medico celeste che cura ogni infermità. Che cos’altro può essere la fede se non credere in questo, se non sperare contro ogni speranza, se non abbandonarsi nelle mani dell’Onnipotente come fece il nostro padre Abramo quando il Signore gli chiese di sacrificare il suo figlio Isacco. Tutti questi pensieri affollano non poco la mia mente e confluiscono in un’unica convinzione, quella di dire a me stessa: “Se riuscirò a toccare le sue vesti, sarò salvata”. Toccare di nascosto il lembo del Tuo mantello, sfiorarlo appena con la certezza di venirne sanata e L’Emorroissa tocca da dietro il mantello di Gesù, James Tissot liberata da una noscere nella Tua voce, mio bel pastore, la voce schiavitù che dura da troppo tempo. Stamane della Vita, la voce di Colui che conosce il suo sono in molti a stringerti da ogni parte, ma gregge e che non teme della sua puzza. quanti sono coloro che realmente toccano la Scopro continuamente in Te la presenza di Dio tua divinità o mio Signore? Chi tra questa genpur essendo uomo di carne come ognuno di te ti sta toccando con vera fede? Subisci tutnoi, e vorrei poter dare una spiegazione logi- to questo senza nessuna protesta e di certo ca, razionale a ciò che provo per Te, ma alla non ti accorgerai di me. La mano si posa legfine devo rinunciarvi, perché ho l’impressione gera sul lembo del tuo mantello, sfiora appeche Tu sia come l’aria, non puoi comprenderla, na la sua frangia; è attraverso la mia mano che puoi solo respirarla. Dodici anni di malattia, come le viscere del mio cuore gridano a Te dicendodici sono gli anni della fanciulla morente da doti:”Salvami, mio Signore, te ne prego! Non cui stai andando per guarirla. Strana coinci- sono forse anch’io sono tua figlia?”. denza, la sua nascita segnò l’inizio della mia Tutto avviene in un istante le perdite di sanmalattia... Suo padre, Giairo capo della sina- gue si fermano, la vita torna di nuovo a scorgoga, si è prostrato dinnanzi a Te, ti ha sup- rere in me. Osservo la mia mano, la rivedo quanplicato chiedendoti l’insperato. Lui maestro in do piena di monete la svuotavo nelle mani di Israele, chiede aiuto al Maestro sceso sulla ter- chi non mi ha mai potuto guarire. Oggi, ho stera per rinnovare ogni cosa. Deve aver visto in so su di Te una mano vuota delle cose di queTe, quello che anch’io vedo e che appare evi- sto mondo, ma piena del mio confidare in Te. dente in tutta la sua pienezza, o meglio, la rispo- La forza che ti ho sottratto ha colpito violensta che Dio ha dato al peccato dei nostri pro- temente il mio male, ed è rimasta impressa nelgenitori. Se loro ingannati dal serpente anti- la mia mano. Come una ladra che ha raggiunto co, nel voler essere come Dio hanno messo il suo scopo, mi appresto a tenere ben da parte la loro umanità, Tu sei sceso dal cie- nascosto il mio bottino, o meglio la mia guacontinua a pag. 9 Settembre 2012 senta ulteriori sfumature, accentuando fortemente l’idea che lo shalom è un dono di Dio; la diciannovesima benedizione della “Amidà” recita infatti: “Benedetto Tu, o Dio, che benedici il popolo Tuo Israele con lo “shalom”, ove, accanto al significato di benedizione, si affianca il significato di rapporto tra l’uomo e Dio. Da quanto sopra detto discendono molteplici conclusioni. Anzitutto lo shalom viene da Dio, e non solo ciò risulta dal versetto di Luca 2,14, ma anche dal brano del Levitico 26, 6-13; in secondo luogo, se lo shalom viene da Dio, gli uomini, da soli, non possono fare shalom, ma soltanto pregare per esso e predisporsi al suo avveramento; poi, lo shalom fa di due uno, sia a livello umano sia divino, come risulta dal brano della lettera di Paolo agli Efesini (2,14 -17 ) e dalle parole di Zaccaria ( 14,9 ); ancora, lo shalom, capovolge la situazione che si era venuta a determinare con la torre di Babele, riuscendo a ricom- porre quella comunione umana negata dal simbolo di Babele; inoltre, nessuno è padrone dello shalom, ma esso un giorno sarà dato ad ognuno, quale dono irrevocabile, in quanto l’uomo, imitatore di Dio, potrà essere colui che riesce a fare pace intorno a sé, restituendo a Dio il dono prima ricevuto ed accolto. E’ significativo che nelle celebrazioni eucaristiche di rito ambrosiano l’invito ai fedeli di scambiarsi il segno della pace avvenga prima della proclamazione del Vangelo, mentre nell’Ordinario Romano ciò si ha tra la preghiera del Padrenostro e la distribuzione dell’Eucaristia. Tutti, nessuno escluso, è bisognoso di pace, che va infusa nel cuore di ciascuno in un mondo che è avaro di pace o che la considera segno di debolezza o, addirittura, di mancanza di forza o di personalità. Di ciò mi rendo profondamente conto ogni giorno, specialmente quando mi reco alla Casa Circondariale di Velletri per i miei incontri di catechesi con i detenuti e percepisco l’importanza della mia attività nei loro riguardi, ove non importa tanto l’aiuto sporadico materiale, quanto il dono della solidarietà e del senso di fratellanza che si può offrire loro, specialmente se – a motivo della loro precaria condizione di stranieri, soli, senza la possibilità di usufruire di colloqui con i familiari lontani, avvertono maggiormente la carenza di affetto e l’attesa di una pace loro negata. affinché da questa manifesta guarigione possa essere resa nota la mia fede nascosta. Dodici, come il numero delle ceste avanzate dalla condivisione dei pani e dei pesci, come un’infinità di tante altre cose che ignoro, per me è solo il numero degli anni trascorsi a soffrire e mentire, ma oggi è giunto il tempo della verità. Fatico non poco ad uscire allo scoperto, tutta tremante mi getto ai tuoi piedi e dico dinnanzi alla folla, tutto quello che Tu già sai. Nello stupore o scandalo generale di chi ci guarda, avverto che nel darti testimonianza la mia fede aumenta e la mia gratitudine per Te allontana da me ogni paura. Potevi tacere mio Signore, far finta di nulla, sapevi che ti sarei stata eternamente grata, solo io e Te avremmo saputo. Eppure, mi hai spronato a fare ciò che è giusto, forse per dare coraggio a qualcuno, non so….., e se Tu per primo non hai temuto di far sapere di essere stato toccato da un’impura, come potevo io tacere? Ho lasciato a terra tutte le mie paure, come cose morte, vecchie, passate come lacci disciolti che oramai non mi trattengono più. Testimoniare la mia fede in Te, l’ha resa ancor più bella, più viva, più forte, rendendo me più libera. Sento il Tuo sguardo su di me che mi avvolge di infinita tenerezza, ascolto le Tue vive parole che come un balsamo si riversano ora sul mio cuore: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Và in pace e sii guarita dal tuo male”. Antonio Giglio N on studio di esegesi, ma presentazione dell’uso del termine nell’ambito veterotestamentario, rabbinico e cristiano, la parola “shalom” presenta molteplici significati che dicono “benessere”, “salute”, “fortuna” e “pace interiore”; a volte, come in Gen.15,15, significa “essere sepolto in pace“; in Es 34,25 troviamo l’espressione “berith shalom” che significa ”trattato di pace“ quando vuole indicare il risarcimento di un danno o di un diritto disatteso. Isaia ( 54,10 ) mette in bocca a Dio l’espressione “ berith shlomì“ per indicare il “patto di alleanza fatto con me“, mentre Giobbe (25,2) dice: ”Colui che fa la pace nelle sue altezze“. Nel Deuteronomio si usa il diverso vocabolo “ menuchà” che rimanda all’idea del “riposo“, mentre nel Salmo 122 troviamo l’espressione : ”sha’alu shalom I-Irushalaim“ che si traduce : ”chiedete pace su Gerusalemme“. Ulteriori sono le forme della medesima radice sul verbo e sull’aggettivo, con i significati di “pagare“, “risarcire“, “soddisfare“, “adempiere un voto“ e “vendicare“; così, l’aggettivo “shalem“ indica sia il potente che paga sia l’uomo sottoposto che deve soddisfare il proprio debito. All’epoca dei profeti esistono alcuni che cercavano successo e popolarità annunciando la pace, ma Geremia ( 6,15 ) li bolla di leggerezza affermando che Dio ha tolto il suo shalom dal popolo; in questi tempi si usa anche la parola “zedaqà“ che significa “giustizia“ e si afferma che se l’uomo non fa zedaqà, Dio non fa shalom. Nella letteratura rabbinica la parola shalom pre- segue da pag. 8 rigione, e non per ingratitudine mio Signore, ma solo per timore di far sapere che sono stata un’impura... “Chi ha toccato le mie vesti?”, ascoltandoti istintivamente alzo il mio velo sul mio viso, come a volermi nascondere da Te, mi impongo di non fuggire immediatamente per non destar sospetti. Interroghi i tuoi, i quali altro non possono risponderti che:“Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: Chi mi ha toccato”. La loro risposta non ti basta, il tuo sguardo, uno sguardo che scruta nelle profondità di ogni cuore, cerca, e so che sta cercando me. Non mi fissi direttamente, forse per non costringermi con la forza ad uscire fuori, ma capisco che mi stai aspettando 9 Settembre 2012 10 opo aver riflettuto per un anno intero sui tre sacramenti dell’iniziazione cristiana, il nostro percorso continua ora accostando i due sacramenti “al servizio della comunione”, perché ordinati alla salvezza altrui, contribuendo anche alla salvezza personale. Questi sono il sacramento del Matrimonio e quello dell’Ordine. Per ora ci soffermeremo sul Matrimonio, accostandolo dal punto di vista biblico e lasciando per il mese prossimo una riflessione più accurata sul senso del matrimonio cristiano nella vita quotidiana. essere destinataria dell’amore gratuito. Ogni marito è chiamato ad amare la propria moglie solo perché ella esiste, senza chiedere nulla in cambio, e ogni moglie è chiamata a ricevere quest’amore. Se il rapporto si basa sull’amore allora naturalmente i mariti amano le proprie mogli gratuitamente, cioè sono disposti a dare tutto loro stessi, anche la vita se è necessario, per le proprie mogli, senza chiedere nulla in cambio. Così come ha fatto Gesù che solo per amore è morto per noi, senza che noi glielo chiedessimo e senza chiedere a noi nulla in cambio. In sintesi il primo tassello che possiamo mettere per comporre il mosaico che esprime la bellezza del matrimonio e della famiglia cristiana Cosa ci dice la Bibbia riguardo al matrimonio? Per rispondere a questa domanda possiamo riferirci a due brani biblici e che sono proposte come letture per la messa in cui si celebra il matrimonio. Il primo brano è tratto dalla lettera di Paolo agli Efesini (cfr. Ef 5, 1-2a.21-33). La chiave di lettura di questo passo biblico è contenuta nel primo capoverso: «fatevi imitatori di Dio […] e camminate nella carità […]. Siate sottomessi gli uni agli altri». Ciò che caratterizza le nuove relazioni tra i cristiani è il fatto che queste sono fondate sull’amore. Sull’amore che Dio ha per ognuno di noi e su quello che ogni cristiano è chiamato a provare per gli altri. Quindi, se la chiave di lettura delle relazioni tra gli uomini è quella dell’amore, lo stesso sentimento è quello che caratterizza i rapporti nella coppia cristiana e che permette “naturalmente” di vivere le relazioni così come Paolo le descrive nel resto del passo biblico che abbiamo letto. Se il rapporto si basa sull’amore allora naturalmente le mogli si sottomettono ai mariti. Una sottomissione, però, che non significa annullamento dell’identità e della volontà. La sottomissione di cui parla qui san Paolo è la sottomissione che la Chiesa è chiamata a vivere nei confronti di Dio. Quella sottomissione che permette alla Chiesa, e quindi alla moglie nei confronti del marito, di è questo: il matrimonio è il sacramento che santifica l’amore tra l’uomo e la donna e intesse relazioni basate unicamente sull’amore gratuito. L’altro passo biblico è tratto dal Vangelo secondo Marco (cfr. Mc 10, 1-10). In questo passo evangelico Gesù chiarisce una volta per tutte il fatto che il matrimonio è indissolubile. Per mostrare quest’idea utilizza l’immagine dei due che diventano una sola carne, che possiamo tradurre anche come i due diventano un solo corpo. L’immagine permette di illustrare gli effetti del sacramento del matrimonio almeno a due livelli. Ad un primo livello l’unione dei due in una sola carne porta subito l’attenzione all’atto sessuale tra gli sposi che, proprio fisicamente, permette questa “fusione” dei due in uno. Andando più nel profondo dell’immagine utilizzata da Gesù si scopre che l’unione sessuale è anche l’espressione “visiva” del secondo livello di lettura dell’immagine utilizzata da Gesù. Infatti l’immagine di una sola carne, di un solo corpo, permette di affermare che gli sposi formano un’unità per tutta la loro vita futura. Lo sposo e la sposa, con il matrimonio, diventano due membra dell’unico corpo che è la famiglia, così come la mano destra e la sinistra non sono due corpi, ma due membra dell’unico corpo umano. E come le membra del corpo, anche D don Antonio Galati gli sposi possono avere “movimenti” indipendenti l’uno dall’altra, ma ciò solo in apparenza, perché come le mani sono comunque vincolate all’essere attaccate al resto del corpo e più di tanto non possono fare indipendentemente l’una dall’altra, così i due sposi: anche la vita privata di uno dei due, in realtà, è la vita di tutta la famiglia, perché non si è più due persone indipendenti ma l’unico corpo che è la famiglia. Il secondo tassello del mosaico allora può essere proprio questa espressione: con il matrimonio non si è più due persone indipendenti ma l’unico corpo che è la famiglia. Si è detto all’inizio della riflessione su questo brano evangelico che Gesù mette una parola definitiva sulla possibilità o meno del divorzio. Ma questa idea, però, non è originale di Gesù, nel senso che anche già la Genesi aveva espresso l’idea dell’indissolubilità dell’unione sponsale di uomo e donna e, anzi, le espressioni che Gesù utilizza, nel brano evangelico preso in esame, sono proprio espressioni tratte dalla Genesi (cfr. Gen 2, 7.15.18-25). Del brano della Genesi possiamo mettere in risalto tre elementi fondamentali che ci permettono di illuminare meglio cosa significhi creare una famiglia attraverso il matrimonio: il primo elemento che appare è che l’unione uomo-donna è risposta alla solitudine («non è bene che l’uomo sia solo» Gen 2, 18). In questo caso la donna si configura come l’aiuto dell’uomo, ma non solo dal punto di vista materiale, bensì e principalmente dal punto di vista esistenziale: è grazie all’esistenza della donna che l’uomo si riconosce come tale. In altre parole, quando l’uomo viveva a contatto con gli animali non riusciva a riconoscere la propria dignità umana, solo quando si trova di fronte un altro essere che è ossa delle sua ossa e carne della sua carne (cfr. Gen 2, 23) riesce a capire pienamente chi è; il secondo elemento è quello dell’unità («saranno una sola carne» Gen 2, 24), che è già stato messo in evidenza nell’analisi del brano evangelico fatta sopra; il terzo elemento è quello della nudità originaria («tutti e due erano nudi, ma non ne provavano vergogna» Gen 2, 25). L’uomo nudo è colui che non ha difese e che è totalmente in balìa degli altri. Il fatto che la prima coppia umana viveva nuda e non ne provava vergogna significa che all’interno della vita matrimoniale deve esistere una libertà di espressione e di accoglienza reciproca che non tende a offendere e sottomettere l’altro, ma che anzi sollecita l’altro a essere quello che è veramente, senza bisogno di maschere e di vestiti, perché viene comunque accolto per quello che è. Nell’immagine: La predicazione di Paolo e Barnaba a Listra, 1650, N. Berchem, Museo Saint-Etienne Settembre 2012 11 mons. Luigi Vari* orna l’appuntamento del convegno di Settembre, che, per questo anno pastorale mette al centro della sua riflessione, il Vangelo. Chi abbia seguito l’evoluzione dei convegni, avrà notato che essi hanno l’obiettivo di porre al centro dell’attenzione, parola per parola, la tematica, che i vescovi italiani hanno proposto per questo decennio 2010-2020: educare alla vita buona del Vangelo. Si è riflettuto così, sulla missione dell’educazione e la sua importanza, ispirati dalle parole di san Giovanni Bosco, che parla dell’educazione come di una vocazione di amore. Il convegno successivo è ruotato attorno al concetto di vita buona. Finalmente ci si ferma sulla fonte della vita buona, che è il Vangelo. Non si tratta di fare un convegno sull’importanza del Vangelo; sarebbe un’impresa, che molti giudicherebbero fuori luogo se non ridicola, tanto è evidente la necessità del Vangelo per una vita cristiana. Pure, anche se non di questo si tratta, sarebbe meglio non dare per scontato il Vangelo come fonte della vita delle nostre comunità e nostra personale. Non si sbaglia chi pone la questione se all’origine di esperienze cristiane affaticate, se non stremate, non ci sia proprio la mancanza del Vangelo. Alla fine dei conti uno diventa discepolo di Cristo e si mette a seguirlo perché è convinto che Lui lo conduce alla Vita, che gli insegna come vivere le relazioni semplici di tutti i giorni e quelle più difficili, persino con i nemici. Il Vangelo è la risposta alla domanda della persona, che chiede: che cosa debba fare per avere la vita; evidentemente questa domanda non è espressa quasi mai in maniera così diretta, ma è fra le righe dell’esperienza, che , spesso precaria, si domanda come fare per dare solidità , fondamento, base solida alle cose, che rendono bella una vita. Da questo punto di vista non v’è nessuna vita, che non ponga domande e non desideri risposte, nessuna vicenda, che non senta il desiderio del Vangelo, perché ognuno, desidera di incontrare qualcuno, che renda solide le proprie promesse, lo sostenga nelle difficoltà, lo incoraggi, si rallegri con lui nel successo e non drammatizzi le sconfitte: que- T sto è il Vangelo, questo è Gesù, che, per l’evangelista Marco, si identifica con esso. Si legge il Vangelo per imparare la vita, per scoprire, che le strade dell’esistenza sono infinite e che non è necessario comportarsi tutti alla stessa maniere o pensare tutti allo stesso modo. Chiedersi qualcosa sulla posizione del Vangelo nelle nostre catechesi e liturgie, è lo stesso che domandarci se nelle nostre comunità si impari a vivere, e, tornando al titolo del documento dei vescovi, è lo stesso che domandarsi se nelle nostre comunità ci si educhi a vivere. Questa domanda è centrale, a essa si arriva per un cammino, che, man mano porta alla questione essenziale, se cioè a scuola nella comunità cristiana, oltre a nozioni di breve durata nella mente dei destinatari, oltre a sensibilità dettate dalla moda, meglio acquisite in ambienti più attrezzati e con più mezzi, si impari, invece a vivere. Ci si chiede se si trasformino i cuori, se si impari a esse meno superficiali e distratti nei confronti degli altri, se si impari a togliersi dal centro della scena, a gioire della gioia di un’altra persona, a decidere di non far sentire nessuno inutile o di peso. Vivere con il Vangelo, che fa da guida, è avventurarsi per strade niente affatto scontate e spesso opposte a quello che appare più logico o comodo. Non so, allora, se ci sia da sorridere di fronte all’idea di fare un Convegno per parlare del Vangelo e del posto, che ha nelle nostre comunità. Controllare la posizione del Vangelo è il modo migliore per essere discepoli di Cristo, ed è un controllo, che ogni giorno un cristiano deve imparare a fare, prima di ogni decisione, di ogni scelta importante, come base di ogni relazione e collaborazione, rispondendo alla domanda se, nel suo modo di agire, c’entri il Vangelo. Questo controllo, prezioso per la vita di ognuno, è vitale per quello di una comunità, che desidera educare alla vita, e richiede un grande cambiamento, indicato più volte sia da Giovanni Paolo II che da papa Benedetto; la trasformazione delle nostre comunità in luoghi di evangelizzazione. Questo significa, che, prendendo atto che tanta ricchezza di Tradizione è, come nascosta, bisogna umilmente ricominciare come gli apostoli, che, rispondendo alle domande, che nascevano dalla vita della gente, cominciarono a tessere il Vangelo; nella speranza di recuperare tutto, e attenti a non perdere l’essenziale. Dunque una liturgia, una catechesi, un modo di vivere le relazioni, una maniera di affrontare le questioni più o meno importanti, di risolvere i conflitti, di dare risposta alle moltissime sollecitazioni del tempo di oggi, e tutto ciò che riguarda l’esperienza umana; che educhino a vivere secondo la notizia buona del Vangelo. Una bellissima opportunità, che pone la Chiesa di oggi non come chi guarda il tramonto, ma come chi scruta il cielo per vedere la stella del mattino; la posizione, suggerita dalle scritture, l’unica, quella che nasce dalla pasqua, che valga la pena di occupare. *Vic. Episcopale per la Pastorale Settembre 2012 12 Enzo Bianchi (Castel Boglione, 3 marzo 1943) è un religioso e scrittore italiano, fondatore e attuale priore della Comunità monastica di Bose. Durante gli anni universitari, anima con i suoi amici, di diversa confessione cristiana, uno dei primi gruppi biblici che, sulla scorta del Concilio Vaticano II, nascevano come riscoperta di una vita cristiana radicale fondata sull’ascolto del Vangelo. Questa esperienza, tra le altre, fa maturare in lui il desiderio della vita monastica. È particolarmente attivo negli ambienti della FUCI, che in quegli anni formava parte significativa della futura classe dirigente cattolica. Dopo la laurea in economia all’università di Torino si ritira in solitudine in una cascina, nella piccola frazione di Bose (Magnano, Biella), sistemata con alcuni degli amici con cui aveva condiviso gli anni di studio. Resterà solo per i primi tre anni, a partire dall’8 dicembre 1965, data da lui scelta per segnare l’inizio della sua esperienza, nel giorno in cui ha termine la celebrazione del Concilio. Arrivano poi i primi fratelli e sorelle, cattolici e protestanti, che con lui iniziano la vita in comune, nel celibato, nella preghiera e nel lavoro. Il 17 novembre 1967 il vescovo di Biella Carlo Rossi dispose l’interdetto per la presenza di non cattolici nella comunità, ma per intercessione del cardinale Michele Pellegrino, amico personale di Enzo Bianchi, l’interdetto viene rimosso l’anno successivo. Dopo il consolidamento della comunità, nel corso degli anni il laico Enzo Bianchi dedica il suo ministero soprattutto alla predicazione, in comunità, ma anche nelle Chiese loca- li, cattoliche, protestanti e ortodosse. Molto feconda è anche la sua attività come pubblicista di tematiche religiose e di attualità contemporanea, sui giornali La Stampa, Avvenire, La Repubblica, Famiglia Cristiana e, in Francia, La Croix, Panorama e La Vie. Ha inoltre diretto per 15 anni, fino al 2005, la rivista Parola, Spirito e Vita, è membro della redazione della rivista internazionale di teologia Concilium e fa parte del comitato scientifico di Biennale Democrazia. Nel 2000 l’Università di Torino gli ha conferito la laurea honoris causa in storia della Chiesa. Nel 2009 ha vinto il Premio Pavese con il libro Il pane di ieri, pubblicato da Einaudi. presso i principali editori italiani e stranieri. Tra i libri più importanti: Pregare la parola, Gribaudi, 1974 Il radicalismo cristiano, Gribaudi, 1980 Adamo, dove sei? Commento a Genesi 1-11, Qiqajon, 1994 Altrimenti. Credere e narrare il Dio dei cristiani, Piemme, 1998 L’Apocalisse di Giovanni, Qiqajon, 1999 Non siamo migliori. La vita religiosa nella Chiesa, tra gli uomini, Qiqajon, 2002 Dare senso al tempo. Le feste cristiane, Qiqajon, 2003 Nuove apocalissi. La guerra in Iraq, l’Islam, l’Europa e la Barbarie, Rizzoli, 2003 Cristiani nella società, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, 2003 Lessico della vita interiore, BUR, Biblioteca Universale Rizzoli, 2004 Vivere è Cristo. Esercizi spirituali, San Paolo, 2006 Ero straniero e mi avete ospitato, Rizzoli, 2006 La differenza cristiana, Einaudi, 2006 Ascoltare la parola, Qiqajon, 2008 Il pane di ieri, Einaudi, 2008 Per un’etica condivisa”, Einaudi, 2009 Perché pregare, come pregare, San Paolo, 2009 Ogni cosa alla sua stagione, Einaudi, 2010 Una lotta per la vita. Conoscere e combattere i peccati capitali (Dimensioni dello spirito), San Paolo, 2011 Enzo Bianchi è autore di numerose opere, pubblicate presso l’editrice della comunità Qiqajon o Don Erio Castellucci Al prossimo Convegno Diocesano don Erio tratterà il tema: “L’Eucarestia: Liturgia della domenica luogo dove la comunità incontra Dio e il mondo”. Ne diamo di seguito un breve profilo biografico e bibliografico. Nato nel 1960, è stato ordinato presbitero nella diocesi di Forlì-Bertinoro nel 1984. Ha svolto gli studi teologici istituzionali allo Studio teologico accademico di Bologna; ha poi conseguito la licenza e successivamente il dottorato in teologia dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana, con una tesi su Dimensione cristologica ed ecclesiologica del presbiterato nel Concilio Vaticano II. Dopo il dottorato ha insegnato teologia per oltre vent’anni allo Studio teologico accademico bolognese e, dal 2004, alla Facoltà teologica dell’Emilia Romagna, della quale è stato preside dal 2005 al 2009. Attualmente, nella sua diocesi, è parroco e vicario episcopale per la pastorale giovanile, scolastica e universitaria e insegna all’Istituto superiore di Scienze religiose della Romagna. Ha pubblicato diversi saggi su riviste teologiche e pastorali e i seguenti volumi: Nella pienezza della gioia pasquale. La centralità dell’ermeneutica nell’escatologia cristiana, Ed. Studio Domenicano, 1998 Il ministero ordinato, Queriniana, 2002 Davvero il Signore è risorto. Indagine teologico-fondamentale sulla risurrezione di Gesù, Cittadella, 2005 La spiritualità diocesana, San Paolo Edizioni, 2007 Annunciare Cristo alle genti, Ed. Dehoniane Bologna, 2008 La famiglia di Dio nel mondo. Manuale di ecclesiologia, Cittadella, 2008 (con Rinaldo Fabris), Chiesa domestica, Ed. San Paolo, 2009 La vita trasformata. Saggio di escatologica, Cittadella, 2010 Settembre 2012 13 Sara Bianchini* R icordo molto bene la sorpresa per non dire il fastidio, quando sentii dire al Convegno Ecclesiale di Verona, che la fragilità era da considerarsi innanzitutto un dono di Dio. Si chiama “giustificazionismo”, nelle sue diverse varianti come per esempio il “dolorismo”, etc. Sarebbe come dire “Meno male che ho sofferto, perché…”, “Meno male che ci sono i poveri, perché…”. Come se il dolore, la sofferenza, la povertà fossero giustificati (cioè come se fosse giusto che essi ci siano) per un misterioso fine di cui sono portatori. E allora perché eliminare le cause della povertà, del dolore, della sofferenza? Del resto però, senza volere entrare in questioni teologiche, che la croce salvi è una verità centrale del Cristianesimo. Gesù non l’ha rifuggita, l’ha assunta. E ha chiesto ai suoi fedeli di fare altrettanto. Come non cadere allora nella tentazione di un romanticismo giustificazionista (che poi – caso strano – riguarda sempre la povertà degli altri, la sofferenza degli altri, la fragilità degli altri, perché quando si tratta di quella mia personale, vissuta nella mia vita e sulla mia pelle, emerge forse un senso di ribellione e di disperazione maggiore) e ben comprendere il senso salvifico della fragilità? Credo che in questo senso, il Vangelo possa essere un seme di vita buona verso la fragilità laddove ci insegna a comprenderla ed a viverla secondo un’ottica che porti alla resurrezione. Cosa possa volere dire ciò “concretamente”, proverò a descrivere ruotando attorno a tre parole: limite, essenza, scelta. Il limite – la fragilità è una “situazione-limite” come l’avrebbe definita il filosofo Karl Jaspers, cioè una di quelle situazioni in cui l’uomo si scontra con la verità essenziale della propria esistenza. Che è anche una verità di limite, di morte, di sofferenza, di povertà morale e spirituale. La fragilità ci mette di fronte alla nostra condizione che non è e non può essere di efficienza perfetta, di onnipotenza, come invece la cultura – soprattutto – quella occidentale moderna passa quotidianamente. Motivo per cui il malato, il povero, il diverso non trovano posto e vanno anche identificati nella loro colpevolezza: sono cioè essi stessi i responsabili della loro situazione. Cosa su cui potremmo aggiungere due ulteriori considerazioni: 1) e anche se fosse vero? Vuol dire che si aiutano solo i giusti? La prospettiva non sembra del tutto evangelica, anche se ovviamente la responsabilità che ognuno di noi può avere nei confronti delle fragilità della propria vita, è un altro ambito delle fragilità su cui intervenire; 2) perché questa necessità così forte di identificare il fragile con il col- pevole? Forse perché così siamo più sicuri che noi non finiremo mai come lui? L’essenza – essere vicini alla persona fragile diviene allora una questione di essenza: non solo la fragilità fa parte intimamente della nostra natura, ma Gesù stesso inoltre si identifica con il povero, l’escluso, l’assetato, l’affamato, il prigioniero, il malato (anche se magari noi lo immaginiamo un povero nobile, un prigioniero innocente, un malato sereno e cordiale). Accettare il povero è accettare anche la nostra povertà e dunque cambiare il nostro sguardo giudicante con uno sguardo comprensivo e di misericordia. Significa anche però focalizzarsi su ciò che è veramente essenziale, decidendo di tralasciare molti aspetti “sociali”, molti desideri – anche inconsci di perfezione, di onnipotenza, di accettazione – che animano nel profondo la nostra vita. E allora subentra la dimensione della scelta: se l’incontro con la fragilità richiede tanta conversione, quali sono le buone prassi che possono facilitarci verso tale incontro? E quali sono le buone prassi che aiutano ad abbandonare i romanticismi sulla povertà spingendoci a conoscerla fino in fondo, tanto da potere mettere in atto poi dei percorsi di accompagnamento che siano radicali, che tengano cioè veramente in conto tutte le necessità del povero, i tempi, i modi della fragilità e non siano invece un imporre al povero, al detenuto, allo straniero un imporre una scaletta di passi da compiere per “uscire” dalla fragilità, come se lui avesse le nostre risorse, i nostri pensieri, etc? Credo sia questo un punto di riflessione e di azione indispensabile per la Caritas nel comprendere la sua funzione pedagogica e le sue opere-segno. La scelta – educare alla vita buona del Vangelo può essere allora un modo di porsi fino in fondo le domande sopra esposte che sono tanto tecniche quanto motivazionali, cioè interiori e profonde. Se il gruppo Caritas non ha soldi per aiutare una persona, se la parrocchia non li ha, che si farà? La si lascerà andare via con un filo di rammarico? O si metterà mano al proprio portafogli? Capiamo bene che è una questione di scelta: fino a quando sono disposto alla condivisione, a rimetterci del mio, a rimetterci me stesso? Possono i nostri gruppi Caritas, possiamo noi cristiani delle parrocchie ma non solo, arrivare così in fondo? E se questi tempi più difficili, in cui le risorse sono veramente poche, ce lo chiedessero, saremmo disposti a dare loro noi stessi da mangiare? *Caritas Diocesana Nell’immagine: foto concettuale di Aaron Gordin Settembre 2012 14 N Katiuscia Cipri* on lo sapevo, lo confesso! In cuor mio pensavo che un bambino nato in Italia fosse automaticamente Italiano, per una sorta di diritto di territorialità o qualcosa del genere. E mi raccontavo quelle storie dei parti in volo, in cui la cittadinanza del nascituro era data a seconda della Nazione che in quel dolce momento si stava sorvolando. Mi accorgo che non è così, o almeno non lo è per l’Italia. Informandomi sul diritto di cittadinanza vengo a conoscenza della ius sanguinis, la legge secondo la quale l’acquisto della cittadinanza italiana avviene per trasmissione dai genitori (almeno uno dei due) e nessun riconoscimento è invece presente alla facoltà di acquisto basata sulla nascita o l’integrazione scolastica e sociale, possibilità queste incentrate invece rispettivamente sullo ius soli e sullo ius domicili. Insomma se nasci in Italia da genitori italiani (o che abbiano ottenuto la cittadinanza), sei italiano. Ma se nasci in Italia da genitori non italiani, anche se parli italiano, hai assorbito la cultura italiana, hai vissuto tutta la tua esistenza in Italia, sei straniero. Ed ora chi glielo dice a quell’oltre mezzo milione di minori nati in Italia da genitori stranieri? Siete sicuri che ne siano informati? Sono circa il 71 % dei circa 993.238 minori stranieri residenti nel Paese e il 7% dell’intera popolazione scolastica; sono definiti stranieri di seconda generazione 1. Io, al posto loro, cadrei dalle nuvole! Che differenza c’è tra me e il mio compagno di banco? …trovato, la cittadinanza dei miei genitori. Quella cittadinanza che non è più la mia. Mi vengono in mente tutti i figli dei meridionali immigrati al settentrione. Lo sono anche io. Nati in settentrione da genitori meridionali. Questa dicitura all’epoca era tanto in voga, come se questo incidesse sull’essere cittadino della città in cui si abitava. Ma almeno si era italiani. Perché essere considerato straniero causa qualche problema in più: - il minore nato in Italia da genitori stranieri è titolare di un permesso di soggiorno temporaneo che viene rinnovato dai famigliari; - l’obbligo del rinnovo del permesso di soggiorno con le sue lungaggini burocratiche e amministrative, determina problemi per l’inserimento scolastico; - il permesso di soggiorno consente la libera circolazione di breve durata in Area Schengen, ma non permette di viaggiare all’estero durante la fase di rilascio e rinnovo. Questa limitazione danneggia il minore ad esempio in occasione di gite scolastiche o visite a parenti che si trovano in altri paesi europei; - il soggiorno del minore può essere interrotto in qualunque momento per perdita del lavoro dei genitori, diminuzione del reddito, o risoluzione di contratti di affitto. Nonostante viga il principio di inespellibilità del minore, il bambino con genitori irregolari non ha alcuna garanzia di poter continuare a soggiornare in Italia qualora i genitori si trovino nelle condizioni di dover rientrare nel proprio paese; - il minore non può iscriversi a sport agonistici in quanto cittadino non italiano. Per non parlare della sofferenza e dello smarrimento vissuto dai minori e che vi invito a comprendere leggendo la breve lettera di Lamiaa Zilaf! Ma c’è una soluzione! Dopo aver trascorso 18 anni da straniero, può far richiesta di cittadinanza. Deve però dimostrare di aver vissuto ininterrottamente sul territorio italiano (attraverso certificati di vaccinazione, frequenza scolastica, ecc). Attenzione però, un periodo di vacanza trascorso nel paese d’origine o una dimenticanza nel notificare un cambio di residenza possono compromettere il rilascio della cittadinanza. Nel corso della XVI legislatura sono stati presentati complessivamente 19 progetti di legge alla Camera dei Deputati e 9 al Senato della Repubblica, diretti a modificare la disciplina sulla cittadinanza prevista dalla Legge 5 febbraio 1992, n. 91.In risposta ad una legge mai arrivata è nata una campagna nazionale promossa da 19 organizzazioni della società civile, tra cui Caritas Italiana e Migrantes: l’Italia sono anch’io. Con il manifesto della campagna si chiede una riforma del diritto di cittadinanza che preveda che anche i bambini nati in Italia da genitori stranieri regolari possano essere cittadini italiani e una nuova norma che permetta il diritto elettorale amministrativo ai lavoratori regolarmente presenti in Italia da cinque anni. Di cittadinanza si parlerà durante la terza giornata del prossimo Convegno Pastorale Diocesano in programma dal 19 al 21 settembre. *Direttore Uff. Missionario diocesano 1 “Da residenti a cittadini. Il diritto di cittadinanza alla prova delle seconde generazioni”, Monia Giovannetti, Veronica Nicotra. Settembre 2012 a cura di Giuseppe Caliceti, Italiani per esempio ggi vi racconto la mia piccola storia: mi chiamo Lamiaa ho 11 anni, sono nata a Reggio Emilia e faccio la prima media. A scuola va tutto bene, stavo benissimo, vivevo felice e serena fino a due anni fa circa, quando un giorno ricevo un 10 in grammatica, ero cosi felice perché non succedeva tutti i giorni, ma il commento della maestra mi lasciò un po’ perplessa; le sue parole mi fecero riflettere sulla mia identità. Lei mi disse : “Lamiaa le mie origini, ma casa mia è in Italia e mi sento italiana. Il Marocco lo adoro, sì, però lo sento più il paese dei miei genitori che mio, non so se mi capisci.... Non lo so, io non ci ho mai pensato prima e davo per scontato che io sono italiana!” E la discussione finì, almeno in quel giorno, con un silenzio che diceva tanto. Passa un anno, e vado alle medie, emozionata e un po’ spaventata dalle novità. Siccome mia mamma durante l’estate mi aveva insegnato un po’ di francese sei stata bravissima hai superato gli italiani!” “Che cosa?”, dicevo fra me e me. “Ma io sono italiana!” Quando tornai a casa, mia mamma notò la mia rabbia: era arrivato il momento della discussione di un argomento che non avevo mai aperto prima d’ora con i miei genitori. Mia mamma in quel giorno mi disse: “Ma non c’è niente di male se ti chiamano straniera.” Perché secondo lei non è affatto un insulto. Ma il problema non era questione di insulto, ma era da verificare se io sono straniera o meno. E io replicai: “Mamma, ma io non mi sento straniera, sono nata e cresciuta in Italia, io non nego con la pronuncia giusta, la mia insegnante fin dalla prima lezione aveva notato questo e mi disse: ”Brava, hai una bella pronuncia, da dove vieni?” E io pensai in quel momento: “Ancora? Ma cosa vuol dire da dove vengo? Da Reggio Emilia, no? Ah, forse voleva dire da dove vengono i miei genitori?”. Allora ho detto:“Cara prof, i miei genitori vengono dal Marocco, e io sono nata a Reggio Emilia”. Adesso, per favore, chiariamo la faccenda: non chiamatemi mai straniera o immigrata, a voi la scelta potete chiamarmi italo-araba, oppure italo-marocchina, ma non sono affatto straniera; i miei genitori tanti anni fa hanno scelto di immi- O 15 grare e sono venuti in Italia. Ma io non ho mai immigrato, sono nata in Italia, per cui mi sento italiana, non so con quale percentuale, però lo sono, perché lo sento dentro e lo credo. Sento come se il Marocco fosse mio papà e l’Italia mia mamma e nessuno potrebbe mai togliermi dal cuore uno dei due. Questa non è solo la mia storia, ma è la storia di tutti i bambini e i ragazzi, figli di immigrati, che sono nati in Italia e, purtroppo, riscontrano, oltre a questi stessi miei problemi, altri problemi… Da qua, vorrei lanciare un messaggio: concedete la cittadinanza italiana a tutti i nativi, risparmiateci tutti i problemi inutili che non finiscono mai, e smettetela di farci vivere situazioni, che ci fanno sentire quello che non siamo. Lasciateci studiare e costruire il nostro futuro con serenità, e ricordatevi che italiani lo sentiamo dentro davvero. Settembre 2012 16 P Don Daniele Valenzi* apa Benedetto XVI parlando ai giovani universitari nel marzo del 2008 invitava in particolare i giovani europei ed americani a cooperare, insieme a tutti gli altri loro coetanei del mondo intero, perché la linfa del Vangelo rinnovasse la civiltà di questi due continenti e di tutta l’umanità. Il santo padre metteva in evidenza come le grandi città europee e americane sono sempre più cosmopolite, ma spesso mancanti di questa linfa, “capace di far sì che le differenze non siano motivo di divisione o di conflitto, bensì di arricchimento reciproco”. Concludendo questo discorso il papa invitava i giovani ad essere “discepoli e testimoni del Vangelo, perché il Vangelo è il buon seme del Regno di Dio, cioè della civiltà dell’amore!” La missione evangelizzatrice della Chiesa è chiamata oggi a misurarsi con trasformazioni sociali e culturali che stanno profondamente modificando la percezione che l’uomo ha di sé e del mondo, generando ripercussioni anche sul suo modo di credere in Dio. Nella situazione di grande disorientamento la Chiesa sente come un suo dovere riuscire a immaginare nuovi strumenti e nuove parole per rendere udibile e comprensibile anche nei nuovi deserti del mondo la parola della fede che ci ha rigenerato alla vita, quella vera, in Dio e questa parola viva è il Vangelo. Se la fede è la porta su Dio, la Parola di Dio è la porta sulla fede. L’annuncio del Vangelo così non è solo il punto d’accesso alla fede, ma è anche il permanente canale della trasmissione attraverso i tempi nella Chiesa e nel mondo. È questo il tesoro prezioso che ci è stato affidato, è questo quel seme buono che il padrone affida a suoi operai per- ché vadano a seminare con abbondanza. Penso allora che sia giusto domandarsi come custodiamo questo seme e se ne facciamo quello che ci è stato chiesto di fare. È vero che perché possa portare frutto sono necessarie anche quelle buone condizioni di predisposizione interiore di cui parla il Signore attraverso le immagini dei diversi terreni dove il buon seme cade, ma la nostra preoccupazione deve essere innanzitutto quella relativa al nostro servizio. La nuova evangelizzazione e la trasmissione della fede, così si legge nei documenti dei nostri vescovi che si preparano a riflettere proprio su questo tema, vanno collocate “dentro questa volontà di rilancio del fervore della fede e della testimonianza dei cristiani e delle loro comunità”. Dalla celebrazione a ottobre del Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana ci si attende che «la Chiesa moltiplichi il coraggio e le energie a favore di una nuova evangelizzazione che porti a riscoprire la gioia di credere, e aiuti a ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede». Il Vangelo è la bellezza di Dio personificata. Il Vangelo è bellezza e potenza, è bello come è bello Dio, e la sua potenza è grande quanto è grande la potenza che vince ogni forza. L’incontro con Gesù Cristo, Vangelo di Dio Padre per l’uomo, che ci trasforma, ci raduna e ci immette, grazie al dono dello Spirito, in una vita nuova, della quale facciamo già esperienza nel presente, proprio nel sentirci radunati nella Chiesa, e dalla quale ci sentiamo spinti con gioia per le strade del mondo, nell’attesa del compimento del Regno di Dio, testimoni e annunciatori gioiosi del dono ricevuto, è il cuore del mistero dell’evangelizzazione che va poi tradotta nelle singole realtà nella vita delle singole comunità. Anche la nostra comunità diocesana si fermerà nel convegno di settembre a riflettere su queste tematiche e di come specialmente nell’ambito dell’azione pastorale vadano incarnati l’annuncio del Vangelo e la trasmissione della fede. *Dir. Uff. Catechistico Diocesano Mara Della Vecchia L a musica, in tutte le religioni, occupa un posto fondamentale nei rituali, nelle preghiere, perché consente una partecipazione collettiva alle cerimonie, perché facilita la memorizzazione delle preghiere, perché rende il rito più bello, più solenne, perché unisce i fedeli nell’impegno comune del raccoglimento, del ricordare i testi, nel seguire il ritmo e la melodia senza sbagliare. La musica, però, svolge anche un altro ruolo non meno importante che è quello di stabilire un contatto diretto e forte con la propria spiritualità. Per quanto riguarda la fede cristiana, tale legame si percepisce in modo chiaro e netto, soprattutto nella pratica del canto gregoriano, grazie alla semplicità ed essenzialità dei mezzi musicali impiegati, che permettono un attitudine mistica. Nel canto gregoriano non è previsto il movimento e anzi il ritmo libero, senza accenti e senza una scansione facilmente percepibile, porta il cor- Settembre 2012 A 17 mons. Franco Fagiolo bbiamo vissuto in questi giorni l’esaltante esperienza delle Olimpiadi di Londra 2012 e sicuramente ci è tornato in mente lo slogan del barone De Coubertin, per indicare lo spirito con cui si dovrebbe prendere parte ai giochi olimpici, anche se in questi ultimi tempi, gli atleti sono attratti da altri ideali …... E partecipare non significa solo essere presenti, ma si richiede qualcosa in più di una pura presenza fisica. Partecipare significa essere partecipe, dividere con altri una condizione, sentirsi parte viva e attiva. Partecipare non è importante solo nelle competizioni sportive. Questo verbo è fondamentale anche per capire la liturgia nello spirito del Concilio Vaticano II. Nella Sacrosanctum Concilium, nei Princìpi e norme per l’uso del Messale Romano e in molti altri documenti della Chiesa riguardanti la liturgia, troviamo, quasi ad ogni pagina, il termine partecipazione o i suoi derivati. Possiamo tranquillamente affermare che si tratta di uno dei princìpi di base per comprendere e vivere bene la liturgia. Peccato che da tanti secoli, sicuramente da più di mille anni, si sia pensata la partecipazione alla liturgia come una semplice presenza fisica! E purtroppo questa mentalità è presente ancora oggi… Ancora si sente dire “prendo almeno un pezzo di Messa”, oppure “vado a sentire la Messa” … ma dov’è la partecipazione? A fatica, la riforma liturgica sta cercando di tradurre in consapevolezza e in pratica la grande riscoperta che l’azione liturgica, oltre che di Cristo, è della Chiesa, del Popolo di Dio, non del solo clero o di qualche privilegiato! La Chiesa ci ha restituito una liturgia viva, non un museo di cose antiche, per lo più incomprensibile e tutte da … guardare e non toccare! Questa liturgia richiede però delle persone vive che sappiano entrarci e viverci dentro. Se vogliamo prendere sul serio il Concilio, dobbiamo dire che non è più possibile, non ha più senso essere presenti a una celebrazione liturgica senza lasciarsi coinvolgere profondamente. “La madre Chiesa desidera ardentemente che tutti i fedeli vengano guidati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione delle celebrazioni liturgiche che è richiesta dalla natura della stessa liturgia e alla quale il popolo cristiano, stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato (cfr 1Pt 2,4-5.9) ha diritto e dovere in forza del battesimo” (Sacrosanctum Concilium, 14). Partecipare attivamente non significa però che tutti devono fare tutto! Oltre che a rendere pesante, “pachidermica” una celebrazione, se tutti pretendessero di fare tutto si stravolgerebbero altre dimensioni importanti quali l’aspetto dialogico, simbolo del dialogo tra Dio e il suo Popolo, senza rispettare i ruoli e le competenze. E poi non dimentichiamo che la partecipazione può essere anche interiore, che si attua vivendo con atten- po alla quiete e all’immobilità. Esiste una musica rituale anche nell’ambito dell’Islam, che pur essendo diversa dal gregoriano, comporta ugualmente il contatto profondo con la parte spirituale dell’essere umano, sebbene, al contrario del canto gregoriano prevede il movimento del corpo. Si tratta del rituale della danza mistica dei dervisci rotanti: la musica ipnotica è suonata dal flauto di canna, il ney, e i tamburi scandiscono il ritmo della danza, i danzatori ruotano su se stessi nelle loro ampie gonne bianche, che nella rotazione si aprono a corolla, tengono la mano sinistra puntata verso la terra e la mano destra verso il cielo, in questo modo, i danzatori ristabiliscono il tramite tra la terra e il cielo e la grazia divina proveniente dall’alto, torna a irrorare la terra degli uomini. La musica è eseguita da un gruppo di dodici elementi, come dodici sono i danzatori; dapprima la musica è dolce e leggera, per diventare poi travolgente per accompagnare la rotazione vorticosa e costante dei ballerini. È la musica il tramite tra Dio e l’essere umano, perché i dervisci zione e profondo coinvolgimento quanto si svolge durante il rito. Anche gli spazi di silenzio hanno lo scopo di favorire e suscitare la partecipazione interiore. Insomma, importante è partecipare! In modo pieno, attivo e consapevole, interiormente ed esteriormente. E che cosa più del canto e della musica può aiutare a mettere in pratica questa esigenza fondamentale che il Concilio, da quasi cinquant’anni, richiede necessariamente e doverosamente a tutta la comunità cristiana? Ecco lo spirito che devono avere tutti gli operatori liturgico-musicali delle nostre assemblee quando svolgono il loro puntuale e insostituibile servizio. È questa la prima competenza che si richiede a chi generosamente, con professionalità e sacrificio mette il suo tempo e le proprie capacità a servizio delle nostre celebrazioni. *Responsabile Diocesano del Canto per la Liturgia [email protected] con il loro incessante girare e la ripetizione della parola “hû” (lui, ovvero Allah) ricercano e realizzano la propria crescita spirituale. Questo rituale non è così semplice e immediato come potrebbe sembrare, infatti richiede mesi di preparazione per una riuscita perfetta, anche la disposizione dei danzatori non è casuale, ma rispetta un preciso ordine: i danzatori ruotano attorno al capo spirituale, come fossero corpi celesti che girano attorno al sole. Il rituale dei dervisci rotanti è oggi eseguito e conosciuto in tutto il mondo, ma inizialmente era diffuso soprattutto in Turchia ed è nato in seno alla confraternita del Sufi Mevlevi, fondata nel XIII e che interpretava l’Islam come il diretto rapporto tra Dio e l’individuo. Proprio in Turchia il rituale dei dervisci rotati fu interdetto dal 1922 al 1946, e relegato a cerimonia privata. Ora viene praticato legalmente e appartengono alla confraternita alcuni tra i migliori compositori di musica tradizionale turca. Settembre 2012 18 p. Vincenzo Molinaro* L a Pastorale Familiare in Diocesi, guarda con intensa speranza al prossimo anno pastorale 2012-2013. Intanto abbiamo tre punti di partenza straordinari: 1. la celebrazione della prima giornata diocesana dedicata alla pastorale familiare, il primo di maggio 2012, all’Acero. Occasione stupenda, questa, preparata e vissuta con attesa e partecipazione. Essa ha visto accolte tutte le aspettative. Dalla riflessione sul tempo per la famiglia, alla Eucaristia, con il presbiterio e le famiglie riuniti intorno al vescovo per marcare l’unità della chiesa diocesana. 2. Altro momento è stato il 7° Incontro mondiale delle famiglie di Milano. Per quanto pochi siano stati coloro che vi hanno preso parte di persona, tanti ne hanno seguito tramite i mezzi di comunicazione sia la preparazione che lo svolgimento e ne hanno raccolto il messaggio. 3. Infine, nello stesso giorno, 3 giugno, il Consiglio Pastorale Diocesano ascoltava e approvava un indirizzo unitario di pastorale familiare che qui si acclude in un riquadro e che ci auguriamo venga recepito, motivato e possa entrare quanto prima nella prassi pastorale. Nel riquadro troverete le considerazioni presentate al Consiglio Pastorale Diocesano. Sono un punto di partenza, in cui sono individuati elementi comuni e costanti. Non sarà difficile condurre tutto a unità e proporlo alle varie comunità per un primo utilizzo. E’ quanto ci auguriamo. In uno degli incontri preparatori di Milano 2012, il Santo Padre Benedetto XVI diceva parole davvero autorevoli accostando due termini in maniera originale: famiglia e nuova evangelizzazione. Durante questa calda estate, qualche pensiero sul prossimo anno pastorale gira nella mente. Ecco quindi delle riflessioni e delle idee, che ispi- randosi alla parola del Papa e operando una lettura attenta della nostra realtà, possono costituire stimoli e propositi pastorali significativi. In effetti, non si tratta di risuscitare i morti. Della famiglia non solo se ne parla, nella nostra Diocesi è certamente accesa la spia su di essa, non per dire pericolo, ma per dire opportunità. Sono tutti quei segnali che abbiamo sviluppato nell’anno scorso. Gli incontri mensili per operatori, i percorsi di preparazione al matrimonio, la festa del primo maggio all’Acero. Accanto al tema famiglia, quello della nuova evangelizzazione è altrettanto brillante e si innerva in tante espressioni pastorali, a cominciare da quella giovanile, alla catechesi, dalla Caritas alla pastorale del lavoro. Senza dimenticare il cammino lento ma sicuro del Consiglio Pastorale Diocesano, chiamato a diventare elemento propulsore di una coscienza di evangelizzazione portata in ogni ambiente, gruppo e aggregazione. Ascoltiamo il Papa. “La nuova evangelizzazione dipende in gran parte dalla Chiesa domestica. Nel nostro tempo, come già in epoche passate, l’eclissi di Dio, la diffusione di ideologie contrarie alla famiglia e il degrado dell’etica sessuale appaiono collegati tra loro. E come sono in relazione l’eclissi di Dio e la crisi della famiglia, così la nuova evangelizzazione è inseparabile dalla famiglia cristiana. La famiglia è infatti la via della Chiesa perché è “spazio umano” dell’incontro con Cristo. I coniugi, “non solo ricevono l’amore di Cristo, diventando comunità salvata, ma sono anche chiamati a trasmettere ai fratelli il medesimo amore di Cristo, diventando comunità salvante”. La famiglia fondata sul sacramento del Matrimonio è attuazione particolare della Chiesa, comunità salvata e salvante, evangelizzata ed evangelizzante”. Sarà difficile sottrarsi alla bellezza e alla potenza di queste parole. Verrebbe da credere che la famiglia è l’unico soggetto evangelizzatore, dopo averle lette. Il Papa lega l’impegno della famiglia nella nuova evangelizzazione al suo essere naturale spazio umano dell’incontro con Cristo. In effetti non è questo che diciamo nella celebrazione del matrimonio, ossia che gli sposi realizzano il loro essere segno sacramentale, segno quindi uno per l’altro della presenza di Dio, attraverso i loro gesti quotidiani di comunione? Mi pare una riscoperta del sacramento: non si tratta infatti solo di un rapporto privato, ma aperto, come ogni gesto sacramentale, alla comunità, quindi all’evangelizzazione. Ecco la comunità salvata che diventa salvante. La presenza della famiglia cristiana che porta in sé tale ricchezza non Settembre 2012 potrà essere sminuita dalle difficoltà attuali. Queste se pure innegabili, hanno bisogno di essere sciolte nel dialogo orante della famiglia stessa con Dio. Dice più sotto il Papa riportando una espressione di S. Agostino: Tu vedi la Trinità, se vedi la carità. Le nostre famiglie sappiano cosa devono mostrare e cosa possono mostrare al mondo. Il loro amore diventa lo specchio dove si vede la Trinità. Ma qualcuno dirà che è facile dire queste cose, ma esse rimangono astratte, lontane da una realtà che schiaccia sotto il peso di un lavoro asfissiante e di una falsa tensione verso consumi irraggiungibili per i quali siamo disposti a sacrificare tutto. Qui dovrebbe intervenire la forza di un gruppo di famiglie. Aperte agli altri, aperte alla preghiera, pronte alla carità e alla condivisione. Si vede certamente in molte famiglie quell’amore generoso e assoluto che fa pensare alla Trinità. In genere, però, quel che si nota sono le difficoltà, soprattutto le incomprensioni. Esse si manifestano come le crepe in una parete, all’inizio piccole, quasi invisibili. Poi in pochi mesi, si dilatano e diventano vistose fenditure che non si possono più nascondere e a quel punto difficilmente ricomporre. Sono varie le forze di attrazione, accanto a quella della grazia, spesso discreta, impercettibile, nascosta, c’è quella dell’apparenza, del mostrarsi, del possedere, della vanagloria, del tutto e subito. Queste si mescolano fra di loro per dare vita a una miscela esplosiva che provoca una micidiale intemperanza, incapacità di ascolto, vanificazione di quanto finora costruito. Quale argine? Quale proposta, quale prevenzione? E’ su questa che gioca il suo ruolo la pastorale familiare. Se in mezzo a una lava accecante di notizie, proposte, viaggi, acquisti, foto… se si riesce a porre la diga del silenzio, della riflessione, soprattutto quella dell’amicizia fra le coppie, la cartina di tornasole potrebbe dare sorprese. Non ci interessi più un risultato stentato, tenuto in piedi dalle convenienze. Se le famiglie fanno rete, se quelle più adulte si pongono come teste di serie di una nuova generazione di famiglie: ecco le novità. Questo è possibile. Unire le forze, ma soprattutto unire i cuori, mettere a disposizione di tutti i doni ricevuti, offrire a tutti quello che si è sperimentato origine di ogni dono, l’amore coniugale, nato dal costato di Cristo morente, insieme all’Eucaristia e al Battesimo. Considerazioni sugli incontri nelle parrocchie in preparazione al Matrimonio: Dal materiale raccolto possiamo fare alcune considerazioni. Da questo materiale emerge una proposta di circa 7/8 incontri nella quasi totalità delle esperienze una volta a settimana che, dentro alcune non sostanziali differenze, privilegiano l’aspetto catechistico e biblico della visione della vita cristiana nel matrimonio. Gli incontri tipo: la riscoperta della fede; i sacramenti dell’iniziazione cristiana; il matrimonio nella bibbia, il rito del matrimonio, ecc hanno l’aspetto prevalente. C’è una evidente preoccupazione nel dire quello che dovrebbe essere il matrimonio cristiano e nel ricordare quello che sta al fondamento di una scelta del genere (es. di Segni e di Artena). Nella quasi totalità degli incontri proposti c’è una attenzione alla dimensione testimoniale (es. testimonianza di vita di una coppia). Essa è sempre sul <dover essere> e nella linea della concretezza: in una coppia ti facciamo vedere che è possibile concretizzare le cose che andiamo dicendo! Qui ci si potrebbe chiedere che tipo di famiglia si propone come elemento testimoniale. Le attenzioni sugli aspetti legali della famiglia, sulla paternità / maternità responsabile, sulla sessualità e vita morale, ecc. sono presenti ma non in tutti i percorsi, non hanno certamente un ruolo prevalente. In alcuni percorsi c’è una attenzione al fatto della comunicazione nella coppia. In altri è più marcata (Montelanico e Gavignano, parroci più giovani) la presenza della preghiera (esempio: monastero della clarisse di Carpineto, ecc). Gli incontri sono tenuti nella maggioranza dei percorsi dai parroci o presbiteri, da qui si capisce la prospettiva privilegiata degli incontri. Il ruolo dei laici è inserito o nella competenza/specificità della temati- 19 ca o nella sfera della testimonianza. Qui ci potremmo chiedere quale è il ruolo dei laici nell’accompagnamento alla vocazione matrimoniale … gli incontri avvengono a mo’ di conferenza, solo in quello di Valmontone c’è una attenzione al risonanza e un lavoro di gruppo che mirano anche a favorire l’approfondimento di quanto detto durante l’itinerario. Quello del sacramento del matrimonio è uno dei pochi aspetti della vita ecclesiale in cui c’è una proposta unitaria da parte delle parrocchie della città. Detto questo c’è da fare una correzione: il compito di animare e gestire viene lasciato alla parrocchia della città che ospita il percorso (Velletri va un po’ a parte!!); la parrocchia dell’Immacolata di Colleferro propone un percorso da ottobre a maggio 1 volta settimana tenuto su un testo di G. Venturi, <Celebrare le nozze cristiane> riflettere-progettare-celebrare, LDC € 26,00. Tutti gli incontri sono tenuti dal parroco. I punti di discussione penso che si potrebbero concretizzare su alcuni ambiti: - Quali gli aspetti che non devono mancare nella proposta del matrimonio cristiano (ne dicono la specificità ed è ciò che la Chiesa non può far mancare) e la modalità della conduzione dell’incontro. - Si può pensare ad un gruppo di persone (esempio: ufficio della pastorale familiare) che sostiene le parrocchie della città nel proporre il percorso assicurando l’unitarietà e la sostanza della proposta oppure si può chiedere all’ufficio di PF di essere presente nelle città attraverso una o più coppie animatrici della città? - Si può pensare ad un incontro diocesano delle coppie che durante l’anno faranno o hanno fatto il percorso? Altre proposte di padre Vincenzo: - nel prossimo autunno offrire a tutti gli operatori interessati, sia sacerdoti che coppie di sposi, un breve ma stimolante corso per animatori (3-4 incontri nei mesi di ottobre, novembre e dicembre con verifica nel giugno 2013); - preparare almeno un seminarista a seguire la specializzazione in PF; - attivare in maniera sistematica incontri, conferenze, esperienze, viaggi-studio sulle problematiche più frequenti: ruolo educativo della famiglia, situazioni di disagio e di separazione, mancanza di lavoro.... *Delegato vesc.le per la pastorale familiare diocesana Settembre 2012 20 Rigel Langella L e stesse mani dell’uomo, sostenute e guidate dalla forza dello Spirito, potranno così guarire e risanare, in piena riconciliazione, il creato ferito, a noi affidato dalle mani paterne di Dio, guardando con responsabilità educativa alle generazioni future, verso cui siamo debitori di parole di verità e opere di pace. Lode e riconciliazione. Sarà celebrata in tutte le Diocesi italiane, sabato 1 settembre la VII Giornata per la salvaguardia del creato, sul tema: lode e riconciliazione. I termini dell’attuale problema ecologico sono noti, benché poi raramente ne conseguano comportamenti coerenti. L’aumento delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni tecnologiche, nel secolo XX, ha prodotto conseguenze talora devastanti sul sistema-mondo, come dimostrano le recenti catastrofi che puntualmente colpiscono il nostro Paese, con incendi devastanti che poi determinano alluvioni rovinose alle prime normali, intense piogge d’autunno, perché non ci si occupa mai di prevenire, preferendo sempre spendere per l’emergenza. La Chiesa italiana si interroga sul problema ecologico, a partire dalle sue radici culturali e ogni anno sceglie un tema di attualità su cui focalizzare l’attenzione non solo dei credenti, ma di tutti gli uomini e donne di “buona volontà”. La molteplicità delle questioni coinvolte nel problema ecologico contemporaneo, del resto, non può lasciare indifferenti i credenti. Lo scorso anno fu scelto il tema: “In una terra ospitale, educhiamo all’accoglienza”, mentre quest’anno con “lode e riconciliazione “si insiste sul dono di vivere su una terra feconda e meravigliosa, ma fragile. Nel messaggio dei vescovi, pubblicato il 24 giugno scorso, non vengono taciute le ferite della terra, che possono essere guarite solo da coscienze animate dalla giustizia e da mani solidali. La riflessione proposta per il 2012 evidenzia, in particolare, le tante sofferenze sperimentate, in questo ultimo anno, da numerose comunità, segnate da eventi luttuosi per catastrofi naturali e non solo. I vescovi hanno voluto ricordare in particolare i danni immensi causati dal terremoto nella Pianura Padana: “Mentre riconosciamo la nostra fragilità, cogliamo anche la forza della nostra gente, nel voler ad ogni costo rinascere dalle macerie e ricostruire con nuovi criteri di sicurezza. Pensiamo alle alluvioni che hanno recato lutti e distruzioni a Genova, nelle Cinque Terre, in Lunigiana e in vaste zone del Messinese. Nel pianto di tutti questi fratelli e sorelle sentiamo il lutto della terra, cui la stessa Sacra Scrittura fa riferimento, e che coinvolge tristemente anche gli animali selvatici, gli uccelli del cielo e i pesci del mare (cfr Os 4,3)”. La comunità cristiana offre, dunque, il suo contributo e sollecita quello di tutti perché la società diventi terreno favorevole all’educazione. Favorendo condizioni e stili di vita sani e rispettosi dei valori, è possibile promuovere lo sviluppo integrale della persona e contestualmente far crescere la sensibilità ambientale e prevenire le “ribellioni” della natura. Nel messaggio viene ricordato anche il caso-eternit di Casale Monferrato con la luttuosa catena di malattie. Non a caso il 9 ottobre è stato dichiarato dallo Stato italiano “Giornata in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’incuria dell’uomo”. Una storia di guarigione e responsabilità. Nel secondo punto del Messaggio i vescovi mettono in luce come la guarigione nasca da un cuore che ama: “che si fa vicino all’altro per essere insieme liberati nella verità e condividere la vita. È la logica dell’educazione alla “vita buona del Vangelo” che le nostre Chiese stanno percorrendo in questo decennio”. L’emblematica storia di Giuseppe (cfr Gen 37-49) è l’itinerario biblico proposto come faro di luce e di speranza. 21 Nel giugno scorso a seguito del terremoto che colpì l’Emilia e altre regioni del nord Italia la Caritas Italiana indisse una colletta per venire incontro a quelle popolazioni trovatesi in un attimo in forte disagio e bisogno di ogni cosa. Anche la nostra Diocesi ha raccolto l’invito e di seguito ne diamo il resoconto: Artena Parr. S. Maria di Gesù Artena Parr. S. Croce Artena Parr. S. Stefano pm Artena Santuario Madonna delle Letizie 770,00 150,00 non pervenuta non pervenuta Colleferro Parr S. Barbara Colleferro Parr. S. Bruno Colleferro Parr. Maria Ss.ma Immacolata Colleferro Parr. Gioacchino Colleferro Capp. Ospedale 1.000,00 820,00 800,00 100,00 non pervenuta Gavignano Parr. S. Maria Assunta non pervenuta Genzano loc Landi Parr. SS.mo Nome di Maria non pervenuta Lariano Parr. S. Maria Intemerata Lariano Rett. Madonna l Buon Consiglio 1.110,00 non pervenuta Montelanico Parr. S. Pietro ap. 500,00 Segni rettoria Ss. Giuseppe e Vitaliano Segni Parr. S. Maria Assunta Segni Parr. S. Maria degli Angeli Segni Rettorie centro storico 1.000,00 910,00 602,00 non pervenute Valmontone Parr. S. Maria Maggiore Valmontone Parr. S. Sebastiano Valmontone Parr. S. Anna 1.970,00 1.000,00 non pervenuta Velletri Parr. S. Clemente I p,.m. Velletri Parr. Regina Pacis Velletri Parr. S. Martino ep. Velletri Parr. S. Maria in Trivio Velletri Parr. SS.mo Salvatore Velletri Parr. S. Giovanni Battista Velletri Parr. Madonna del Rosario Velletri Parr. S. Paolo ap. Velletri Parr. S. Lucia v.m. Velletri Cappella Cimitero Velletri Rettoria Ss. Pietro e Bartolomeo Velletri Suore Apostoline (Acero) Velletri Parr. S. Maria del Carmine Velletri Parr. S. Michele arc. Velletri Rettoria S. Apollonia Velletri Rettoria S. Francesco Velletri Rettoria S. Giuseppe Velletri Capp. Ospedale 880,00 800,00 500,00 500,00 350,00 335,00 250,00 90,00 50,00 50,00 non pervenuta non pervenuta non pervenuta non pervenuta non pervenuta non pervenuta Totale: 16837,00 euro Inoltre non sono pervenute le offerte di tutte quelle cappelle di case religiose maschili e femminili dove si celebra la Santa messa festiva e domenicale. (n.d.r.) 1.200,00 1.100,00 segue da pag. accanto Giuseppe, fu venduto dai fratelli per rivalità e gelosia. La sua vicenda contiene un concreto itinerario di guarigione da parte di Dio delle ferite, sia quelle del cuore che quelle della terra. Giuseppe è gettato nel pozzo, gridando la sua innocenza, ma non è ascoltato dai fratelli. A prestare ascolto al suo grido è Dio stesso, che ha cuore di padre. Giuseppe diventerà il viceré d’Egitto, attuando una intelligente politica agraria. Nella precarietà della crisi che si abbatte sul paese, resa visibile dalle vacche magre e dalle spighe vuote, immagini di forte suggestione anche per il momento attuale, la relazione del popolo con la terra sarà sanata grazie alla lungimiranza e alla responsabilità per il bene comune dimostrata da Giuseppe, ricolmo della Sapienza donata da Dio. Educare all’alleanza tra l’uomo e la terra. Il terzo punto evidenzia il compito della Chiesa: riportare il cuore della nostra gente dentro il cuore stesso di Dio, Padre di tutti, che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). Sulla coscienza di una fraternità universale, si può edificare un mondo in cui condividere le risorse e tutelare le ricchezze della terra: se la creazione ci è donata da Dio, essa stessa si fa via verso Dio, da percorrere come fratelli che han- no riconosciuto la paternità gratuita di Dio. Significativo il richiamo al recente Forum Europeo Cattolico-Ortodosso, tenutosi a Lisbona nello scorso giugno: «Non è più possibile dilapidare le risorse del creato, inquinare l’ambiente in cui viviamo come stiamo facendo. La vocazione dell’uomo è di essere il custode e non il predatore del creato. Oggi si deve essere consapevoli del debito che abbiamo verso le generazioni future alle quali non dobbiamo trasmettere un ambiente degradato e invivibile» (n. 11). Se nella Bibbia viene sempre sottolineata l’alleanza tra Dio e la sua creazione, è compito degli educatori proclamare la parola di Dio. In questo senso forte è l’appello ai responsabili delle comunità per stimolare la loro sollecitudine educativa. La cura del creato deve essere l’occasione per catechesi bibliche, momenti di preghiera, attività di pastorale giovanile, incontri culturali, soprattutto nei seminari e nelle diocesi, ma questa responsabilità grava anche sui docenti, in particolare gli insegnanti di religione: essa potrà essere intensivamente richiamata nel mese di settembre, dedicato in modo speciale al creato e tempo di ripresa della scuola, formando a stili di vita intessuti di sobrietà e condivisione, informazione corretta, educazione al gusto del bello. Per una Chiesa custode della terra. Infine un richiamo alla cura del territorio, habitat della comunità, per rinsaldare il legame necessario con la terra: “con una pastorale che ci faccia recuperare il senso del “noi” nella sua relazione alla terra, in una saggia azione educativa, secondo le prospettive degli Orientamenti pastorali Educare alla vita buona del Vangelo”. Prendersi cura del territorio, significa anche sviluppare capacità concrete, operative, perché il territorio è sì una realtà naturale, con una dimensione biologica ed ecologica, ma è anche inscindibilmente cultura, bellezza, radicamento comunitario, luogo di incontro: insomma, una densa realtà antropologica, in cui prende corpo anche il vissuto di fede. L’esempio scelto è quello di san Bernardino da Siena che, oltre alla intensa predicazione, si adoperava per rafforzare i Monti di pietà e i Monti frumentari, segni di una rinascita che dà al denaro il giusto valore, diventando precursore di quella “economia di fiducia” che sola può guarire le ferite della nostra crisi, causata da avidità e insipienza. La custodia del creato può diventare, dunque, luogo privilegiato per creare occasioni nuove di occupazione, come dimostra il sano contagio del Progetto Policoro. 22 Settembre 2012 Proponiamo ai lettori di Ecclesia in C@mmino un’interessante articolo apparso sul sito di argomenti ecclesiali di Sandro Magister utile per un’analisi quale base per una nuova evangelizzazione. (ndr) cattolicesimo italiano si caratterizza per le modalità molto varie in cui si esplica, anche di osservanza bassa e intermittente, e comprende proprio un gran numero di coloro che i due autori escludono come “lontani”. Un’analisi del cattolicesimo italiano per molti aspetti opposta a quella di Introvigne e Zoccatelli è, ad esempio, IL CASO DELL’ITALIA quella che ha fatto Pietro De Marco, dell’Università di Firenze, anche lui sociologo della religione, di Sandro Magister in questo servizio di www.chiesa. da www.chiesa.espressonline.it Poco praticanti e poco virtuosi. Ma sono loro che fanno “Chiesa di popolo” i avvicina l’Anno della Fede ideato e indetAnche il professor Paolo Segatti, dell’Università to da Benedetto XVI. Avrà inizio il prosdi Milano, concorda nel riconoscere la perdusimo 11 ottobre. Cinquant’anni dopo l’arante impronta cattolica di larga parte della popopertura del Concilio Vaticano II e vent’anni dopo lazione italiana. Ma nello stesso tempo, con una la pubblicazione del Catechismo della Chiesa indagine pubblicata su “Il Regno” del 15 magcattolica, che per Benedetto XVI è il documento gio 2010, Segatti ha messo in guardia, per pripiù importante successivamente prodotto per mo, da un rischio che attuare il primo obietincombe sul futuro tivo del Concilio: queldella fede cattolica in lo di ravvivare la fede. Italia. La sua indagiPer papa Joseph ne ha messo in luce, Ratzinger, infatti, è lo infatti, una frattura spegnersi della fede drammatica tra i nati anche in tanti paesi di dopo il 1970, e più ancoantica cristianità la difra dopo il 1981, e le ficoltà maggiore che precedenti generala Chiesa oggi attrazioni: “Sembra veraversa. mente di osservare un Nella sua Germania, altro mondo. nelle regioni orientaI giovanissimi sono tra li, quelli che non cregli italiani quelli più estradono in nessuna relinei a un’esperienza religione sono ormai giosa. Vanno decisamaggioranza. E così mente meno in chienella Repubblica Ceca. sa, credono di meno Mentre in Irlanda è in in Dio, pregano di atto un crollo repenmeno, hanno meno fidutino paragonabile solo cia nella Chiesa, si defia quello già speriniscono meno come mentato dal Quebec, cattolici e ritengono che passato in pochissimi essere italiani non anni da regione catequivalga a essere tolicissima ad area larNell’immagine: “Figure recto e verso” di Daniele Paolin, 2000 cattolici”. gamente scristianizzata. Il crollo è così netto da Ma anche in quella “eccezione” che è considerata l’Italia, dove per- tani’ sono persone – scrivono i due autori del- far sparire anche le differenze che nelle genedura un cattolicesimo di popolo con una la ricerca – che nella grande maggioranza non razioni adulte intercorrono tra uomini e donne, Chiesa fortemente presente e radicata, i rischi si dicono atee ma hanno perso ogni contatto queste ultime di solito molto più praticanti. di un vicino ed esteso affievolimento della fede con la religione: vanno in chiesa solo per i matri- Tra i giovanissimi anche le donne vanno pochismoni e i funerali, e se pure si dicono religiose simo in chiesa, al pari dei maschi. E se si pensono reali. È uscito in questi giorni un libro scritto da due o spirituali, mettono insieme credenze disparate. sa che la fede è generalmente trasmessa ai bamsociologi della religione, Massimo Introvigne e Si tratta ormai di una solida maggioranza degli bini dalle madri o comunque prevalentemente PierLuigi Zoccatelli, che quantifica e analizza italiani”. La tesi di Introvigne e Zoccatelli si pre- da donne, è facile intuire che tale trasmissiola presenza di atei in un’area della Sicilia cen- sta a critiche. Essi tendono a far coincidere i ne rischia di interrompersi, quando gli attuali trale i cui indicatori coincidono spesso con quel- cattolici soltanto con coloro che vanno a mes- giovanissimi saranno divenuti padri e madri. È sa ogni domenica o quasi. Quando in realtà il questo l’aspetto più drammatico di ciò che i vescoli della media nazionale. Molti vescovi e preti pensano di risolvere il declino della fede scommettendo sui giovanissimi. È un grave errore, obietta il professor Pietro De Marco: saranno gli adulti a decidere la riuscita o no del prossimo Anno della Fede. S Il libro ha per titolo “Gentili senza cortile” ed è stampato dalle Edizioni Lussografica di Caltanissetta. Gli autori hanno rilevato una presenza di atei “forti”, che cioè motivano il loro ateismo con ragioni ideologiche, nella misura del 2,4 per cento della popolazione. Sono per lo più anziani e di antica militanza comunista. Accanto a loro vi sono degli atei “deboli”, che cioè considerano Dio e la religione irrilevanti per la loro vita, dove contano solo il lavoro, il denaro e le relazioni affettive. Sono il 5 per cento e sono prevalentemente giovani e istruiti. Ma gli autori si spingono oltre. Alle due cerchie degli atei “forti” e degli atei “deboli” aggiungono la cerchia dei “lontani” dalla Chiesa cattolica e da qualsiasi altra religione. Una cerchia a loro giudizio molto vasta, superiore al 60 per cento della popolazione. “I ‘lon- Settembre 2012 vi italiani e lo stesso Benedetto XVI chiamano “emergenza educativa”. A questa emergenza – che non è solo italiana ma di molti paesi – la Chiesa cattolica tende spesso a rispondere scommettendo su una pastorale che mette al centro, appunto, i giovanissimi. Se sono essi il punto dolente, si pensa, è su di loro che si deve agire. A loro misura. Nella speranza che da adulti anche la loro fede si faccia adulta. Ma è giusto fare così? Per il professor De Marco no, è un errore grave. E qui di seguito spiega perché. FORMARE ANZITUTTO GLI ADULTI CON CONTENUTI DA ADULTI1 L di Pietro De Marco eggiamo che dei vescovi del Veneto – ultimo caso di una serie, non solo in Italia – intendono rivoluzionare tempi e ordine dei sacramenti dell’iniziazione cristiana per bambini ed adolescenti, moltiplicando “pedagogicamente” eventi, gesti rituali e simboli. Ma il problema critico della “emergenza educativa”, generale e cristiana, come pure la preoccupazione dell’Anno della Fede, non sono dati anzitutto dagli adolescenti. E comunque non sarebbero da affrontare con pedagogie da “scuola attiva” che a questa emergenza hanno contribuito. Il problema è dato piuttosto dagli adulti, che sono poi i fedeli laici adulti nella massima estensione sociologica del termine 2. Consideriamo il primo generatore di “emergenza”, ossia la “tradizione”, la trasmissione della fede e della cultura tra generazioni. La formazione è la cultura stessa di una civiltà consapevole di sé. L’adulto vi conferma e vi mette alla prova la propria costituzione, l’avvenuta socializzazione. Se esiste qualcosa come una “formazione degli adulti” essa è, anzitutto, l’esistenza adulta messa alla prova. Ma l’adulto è contemporaneamente in costitutiva relazione con le generazioni più giovani. Con queste egli è sempre in una relazione sociale asimmetrica, nell’età e nel ruolo. Una società è cultura e pratica dell’asimmetria generazionale. In più, l’adulto è la controparte dei processi e dei traumi di identificazione che accompagnano la costruzione dell’identità personale. Insomma, è l’ambiente prevalente dell’essere in formazione, anche quando gli adolescenti si rifugiano in comunità di pari, naturali o elettroniche. L’ambizione pedagogistica contemporanea immagina l’adulto come un perenne “sé” da formare, quindi come un perenne allievo dell’educatore illuminato. Ma non è così. L’adulto resta, in ogni momento, l’attore dominante e libero della scena sociale. Senza dimenticare che questo “altro” rispetto all’adolescente è, in effetti, una organizzata costellazione di differenze e conflitti. Così la socializzazione familiare è sfidata ed erosa dalla concorrenza di tutte le altre pratiche formative. Così la scuola, rispetto ad altre “agencies”. La condizione adolescenziale è, insomma, capil- larmente influenzata da reti di adulti in competizione tra loro ed esse stesse instabili nel tempo. Se, dunque, l’adulto è l’ambiente della persona in formazione e se questo ambiente è, per di più, fluido e conflittuale – da “emergenza educativa”, appunto – dobbiamo ricondurre proprio lui, l’adulto, al centro della preoccupazione educativa cristiana. Contro il sentire prevalente, propongo le tesi seguenti. A. La fiduciosa scelta di dare agli adolescenti la priorità e talora l’esclusiva nella strategia pastorale è un errore. La pastorale ordinaria ha fatto la scommessa di fondare sugli adolescenti, sui “giovani” in accezione generica ed emotiva, la formazione cristiana, che è divenuta così l’unica formazione esistente nelle chiese 3. Ma questa formazione è per definizione inadeguata agli adulti. E di conseguenza sarà inadeguata agli stessi soggetti che ora si formano, una volta che siano divenuti adulti. L’evidenza di questo errore è di ogni giorno. Cosa resta al giovane divenuto adulto? Restano delle “narrazioni” su Gesù e dei buoni sentimenti o ideali, cioè tutta la debolezza della catechesi contemporanea. Dico debolezza, poiché la trasmissione di un “credendum” necessario, di un insieme di verità di fede, già per chi abbia oltrepassato l’infanzia e sia entrato nell’adolescenza, non può essere “narrativa”. Le tracce cristiane infantilistiche, così, si rivelano improvvisamente marginali rispetto a ciò che nel mondo adulto conta, anche quando l’adulto chiede a sé e agli altri di “dare ragione della speranza” (1 Pt 3, 15). Per parte sua il mondo vitale degli adulti, se non contrasta, neppure conferma, né alimenta, né, tantomeno, aggiorna la “paideia” cristiana ricevuta dall’adolescente. Non lo può, non lo vuole. B. La diffusa strategia pastorale a favore di adolescenti si caratterizza inoltre, a mio avviso, per tre pericolose convinzioni. 1. La convinzione inconfessata che si tratti di un impegno più facile – data la presunta plasticità del “sé” adolescenziale – e in quanto “basico” destinato a risultati permanenti. 2. La convinzione anti-adultistica che nasconde un atteggiamento di sufficienza difensiva nei confronti dell’uomo comune, come pure del credente senza particolari qualifiche, magari del devoto; una convinzione nella quale clero e laicati “impegnati” spesso convergono. La “scelta prioritaria per il povero” è accompagnata spesso da questo dispregio nei confronti del credente di “classe media”. 3. La convinzione anti-intellettualistica e fideista di potere, attraverso i giovani, fare opposizione al “logos” cattolico, alla coerenza razionale e alla formulazione di contenuti e di argomenti, che sono invece necessarie alla “fides” del cristiano adulto. Contro queste convinzioni e pratiche teologico-pastorali, largamente condivise e diffuse, ritengo che nella formazione cristiana la “edificazione” dell’adulto non possa restare un capitolo facoltativo, rimandato al domani, sospeso sul presunto successo della formazione dell’adolescente, oggi. 23 È invece proprio la “edificazione” dell’adulto che deve costituire, oggi, una pratica diretta e primaria della pastorale cattolica. Non è vero che giovani “ben formati” saranno per ciò stesso dei buoni adulti. Nel corso degli anni il giovane è “socializzato” potentemente da processi di identificazione ed emulazione, da nuovi saperi e comunità comunicative, da impreviste possibilità di realizzazione di sé, tutto mediato dagli adulti; chi lo aiuterà a incrementare parallelamente il suo intelletto di fede? Se gli adulti di riferimento non sono, oggi, coerentemente guidati 4 a confermare la formazione cristiana anzitutto in se stessi, come adulti, quindi nella comunicazione intergenerazionale, la formazione alla visione cattolica del mondo 5, offerta oggi agli adolescenti nella pastorale, è già a rischio di fallimento. Chi insegna alle giovani generazioni cristiane deve contrastare sul suo terreno un insidioso teorema del Novecento pedagogico, in parte ereditato da Rousseau. È il teorema che vuole favorire l’autoformazione degli adolescenti, perché si “deculturino”. E nello stesso tempo vuole riportare gli adulti a scuola, perché l’intelligencija possa “rieducarli”. A che cosa? Al nulla. È quello che resta della Rivoluzione. Non è poco e non deve essere vincente. 1 Intendo “adulto” nell’accezione antropologica: l’individuo costituito ormai nella sua autonomia dalla cura parentale e comunitaria. L’analisi non guadagna granché dall’uso valutativo etico o psicologico di “adulto” inteso in opposizione a “immaturo”; tanto meno dalla evocazione della formula occasionale e abusata di Dietrich Bonhoeffer sul “mondo adulto”. Per questo adotto l’espressione “contenuti [di fede] da adulti” e non “contenuti adulti”, che esistono solo nella mente dell’intelligencija. 2 A cominciare dai laici adulti che si qualificano come “adulti” perché emancipati dal passato cattolico, che pesano nelle parrocchie, fino ai credenti marginali con pratica saltuaria o ai credenti “a modo mio”. 3 Non parlo di movimenti e istituti di perfezione nelle diverse accezioni e sviluppi. Qui intendo solo ambienti e prassi della pastorale ordinaria. 4 Dico “guidati” non attraverso corsi o conferenze occasionali, per pochi, ma nel discorso “erga omnes”. L’aula degli adulti è, infatti, lo spazio pubblico, a cominciare da quello ove avviene la predicazione. Sembra accadere il contrario: i parroci evitano gli adulti, forse perché non sanno cosa dire loro, né come direttori spirituali né come guide intellettuali. E come si potrebbe pretenderlo, ormai? La cultura d’élite del postconcilio ha deprezzato o distrutto, assieme alla direzione spirituale, l’apologetica, disarmando così, attraverso i media cattolici e i seminari, l’intelligenza e la spiritualità di generazioni di laici e di preti. Oggi ci restano i cascami di tutto ciò. 5 Dico “visione cattolica del mondo” a ragion veduta, perché circola tra gli educatori e i pastoralisti l’idea insidiosa che l’educazione cristiana necessaria e sufficiente sia l’educazione dell’uomo, nella memoria di un Gesù “uomo [e credente] perfetto”. Da ciò il pedagogismo attivistico, nella catechesi e nella stessa liturgia, non solo per i “ragazzi”. Se questa dovesse essere l’alfabetizzazione religiosa cui nella stampa cattolica di punta si invita la Chiesa, meglio sarebbe proteggere quel tanto di fede cattolica che resta negli adulti legato alla memoria del vecchio catechismo, vista anche l’ignoranza che si ha del nuovo. Settembre 2012 24 I Don Dario Vitali* l simbolo di fede che ogni domenica ripetiamo esprime, in forma di articoli ordinati, la fede della Chiesa. Si tratta del contenuto del Credo, descritto in termini tecnici come l’oggetto della fede, perché l’assemblea cristiana afferma la sua adesione a Dio Padre, Figlio e Spirito santo. Ma prima di spiegare il contenuto del Credo, è necessario chiarire chi ne sia il soggetto. A ben vedere, tutta la fede nella Trinità, tutta la rappresentazione della storia della salvezza che scorre nell’elencazione degli articoli di fede, dalla creazione fino alla gloria finale, passando per l’incarnazione del Verbo, il mistero pasquale, il dono dello Spirito e quindi la vita della Chiesa in cammino verso il Regno di Dio, dipende da una “parolina” che apre la professione di fede: credo. A parte qualche rara eccezione, tutte le professioni di fede giunti a noi dai primi secoli, quando ogni Chiesa scriveva il suo simbolo di fede, inizia con questo verbo, alla prima persona sin- Nell’immagine: Il cieco nato (fa il suo atto di fede), si lava alla piscina di Siloe, opera di James Tissot. Subito dopo Gesù incontra ancora colui che era cieco e gli chiede: «Tu credi nel Figlio dell'uomo?». Cfr. Gv 9,1-35 Settembre 2012 golare – credo in latino, pisteuo in greco – o alla prima persona plurale: credimus in latino, pisteuomen in greco. L’oscillazione del vocabolario apre a una domanda: chi è che crede? Una prima interpretazione, molto diffusa oggi, tende a dire che è il singolo, la persona: la fede, infatti, è un atto personale, che non può essere obbligato da nessuno. Perciò, dire «io credo» starebbe a significare un atto pieno e responsabile che un uomo pone come espressione di una sua libera scelta. Si spiega in questa logica la tendenza di oggi ad affermare la necessità del battesimo in età adulta, quando la persona è in grado di assumere in proprio una scelta, di esprimere una fede matura. In questa prospettiva il plurale altro non sarebbe che l’espressione pubblica di un gruppo di persone che, riconoscendosi in una medesima fede, esprimono la loro convinzione attraverso un atto in certo qual modo convenzionale. In realtà, per quanto grammaticalmente sia possibile, questa comprensione individualistica non corrisponde al senso originario della formula. Per le Chiese che esprimevano la loro fede nel simbolo che in qualche modo era anche la loro carta d’identità, il soggetto che pone l’azione di credere era la comunità stessa, la Chiesa. Questo significato è nella natura stessa delle cose: la fede che la Chiesa professa preesiste alla scelta del battezzato, non solo quando è un bambino portato al fonte battesimale dai genitori, ma anche quando ad essere battezzato è un adulto che esprime una scelta matura e consapevole. In altre parole, si viene battezzati, in ogni caso, nella fede della Chiesa: il catecumeno, prima di ricevere il battesimo, professa la fede della Chiesa in cui entra a far parte. Che le cose stiano così, lo si capisce con facilità: la Chiesa non è la somma delle persone che credono, ma la communio sanctorum, l’unità di quanti sono stati «battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo» (1Cor 12,13). Il «corpo di Cristo» non è una figura che si compone e scompone a piacimento, una specie di «lego» che permette tutte le combinazioni immaginabili ma, infondo, lascia ogni «pezzo» a se stante: il battesimo, nel momento stesso in cui innesta l’uomo in Cristo, lo innesta anche nella Chiesa, come sua parte, una delle membra del corpo. Questo spiega anche perché si possa usare indifferentemente credo o credimus: l’atto di fede è sempre ecclesiale, perché chi lo pone è un membro della Chiesa. Quando il singolo professa la sua fede, lo fa in quanto appartiene alla Chiesa e ne esprime la fede. Questo aspetto, d’altronde, vale per tutte le dimensioni della vita cristiana: per fare l’esempio più alto, il santo esprime nella sua vita la fecondità della vita cristiana, che è insieme configurazione a Cristo nell’appartenenza alla Chiesa, per cui nella sua santità egli manifesta la santità della Chiesa e la alimenta, mentre questa è il “luogo” e la condizione in cui può svilupparsi la santità del singolo suo membro. Questo significa che l’aspetto personale ed ecclesiale sono strettamente vincolati. Senza l’appartenenza ecclesiale non è possibile una professione individuale della fede: sarebbe come pen- 25 sare che possa avere vita propria un arto staccato dal corpo, o che una pietra isolata, fuori dalla trama delle pietre con cui è costruito il tempio vivo che è la Chiesa, possa essere il tempio stesso (cfr 1Pt 2,32-4). Nell’antichità, i gruppi che si separavano dalla Chiesa venivano chiamati “sette”: si trattava di un tralcio tagliato da Cristo, e perciò destinato a morire; come avrebbe potuto professare la vera fede chi si era separato dall’albero della Chiesa, radicata in Cristo e continuamente resa feconda dal dono dello Spirito? A voler essere ancora più precisi, la priorità spetta alla dimensione ecclesiale: è questa che rende possibile la dimensione personale, e non viceversa: ciò che sono, la mia vocazione, il mio servizio alla Chiesa e ai fratelli, scaturisce dal mio essere membro della Chiesa. Senza questa appartenenza, che non è di carattere sociologico ma teologale, vale a dire nell’ordine della grazia, a quale titolo uno potrebbe rivendicare un posto e un ruolo nella comunità di salvezza? In altre parole, non sono io a decidere quello che voglio fare nella Chiesa, ma accolgo la volontà di Dio su di me, che si attua sempre nella logica della diversità delle membra nell’unità del corpo. Anche qui, la Chiesa ha sempre manifestato la coscienza del primato dell’appartenenza ecclesiale che rende possibile l’impegno personale, quando, nei riti di ordinazione, chiama i candidati al ministero ordinato nella Chiesa e li assume in un ordo mediante l’imposizione delle mani. Dunque, il verbo credo/credimus è l’espressione della fede della Chiesa, partecipata da ogni suo membro. Solo la Chiesa possiede l’interezza della fede, il simbolo da riconsegnare a Dio che si rivela: la risposta della fede alla Rivelazione di Dio è quella della Chiesa. D’altronde, come potrebbe un singolo presumere di possedere tutta la fede? Unicamente la Chiesa può dire di poter trasmettere ciò che ha ricevuto, sulla base della promessa di Cristo! Solo la Chiesa può garantire che la fede professata non sia un’opinione personale, in forza dell’azione dell’unico Spirito! La professione di fede dell’assemblea dopo la liturgia della Parola è il segno evidente di questa risposta della Chiesa a Dio che ha parlato nelle letture della Messa. Né basta dire che ogni battezzato che professa la sua fede nell’assemblea si unisce alla voce della Chiesa: in quanto suo membro, egli è la voce della Chiesa. Naturalmente non da solo, e non in modo esclusivo. Ma la natura ecclesiale della fede rende possibile che egli sia, qui e ora, nel contesto di vita in cui è chiamato a portare la sua testimonianza, voce della Chiesa che continua ad affermare il primato di Dio e della sua grazia e a professare che la storia degli uomini, nonostante le molte apparenze contrarie, è guidata da Dio verso la pienezza della pace e della giustizia. *Teologo Ordinario alla P.U.G. di Roma Settembre 2012 26 sintesi a cura di Stanislao Fioramonti N ella seconda parte della lettera che indice l’Anno della Fede (paragrafi 10-15) papa Ratzinger vuole “delineare un percorso che aiuti a comprendere in modo più profondo non solo i contenuti della fede, ma anche l’atto” di fede; tra l’atto e i contenuti della fede esiste infatti un’unità profonda (cf. Rm 10,10 e At 16,14), e conoscere i contenuti non è sufficiente se il cuore non è aperto a comprendere che quanto è annunciato è la Parola di Dio. Credere poi non è mai un fatto privato, ma implica una testimonianza e un impegno pubblici, una responsabilità sociale di ciò che si crede e che si annuncia. “La stessa professione di fede è un atto personale e insieme comunitario”. Il primo soggetto della fede è infatti una comunità, la Chiesa, nella cui fede si riceve il Battesimo: si può entrare allora nel popolo dei credenti per ottenere la salvezza. Ma per aderire a quanto proposto dalla Chiesa, cioè per conoscere i contenuti della fede, è necessario il proprio assenso; si accetta così liberamente tutto il mistero della fede, la cui verità è garantita da Dio. Il fatto poi che nel nostro mondo vi siano persone che non riconoscono il dono della fede ma sono in sincera ricerca della verità ultima della vita e del mondo, significa che tale ricerca è un autentico preambolo alla fede, perché nella ragione dell’uomo è insita l’esigenza di infinito: un’esigenza che è un invito a camminare sulla strada che conduce al mistero di Dio. Per la conoscenza sistematica dei contenuti della fede uno strumento indispensabile è il Catechismo della Chiesa Cattolica, frutto importante del Concilio Vaticano II, voluto per rinnovare la vita ecclesiale e per l’insegnamento della fede. Nell’Anno della Fede sarà allora fondamentale riprenderlo e studiarlo, perché il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa nei secoli ha meditato sulla fede, per dare certezza ai credenti. La sua stessa struttura infatti (spiegazione del Credo, della vita sacramentale e liturgica, insegnamento sulla vita morale) presenta lo sviluppo della fede fino a toccare i grandi temi della vita quotidiana. Perché il Catechismo sia lo strumento privilegiato per quanti operano per la formazione dei cristiani, il Papa ha sollecitato la Congregazione per la Dottrina della Fede a redigere una Nota esplicativa sui modi più efficaci per vivere l’Anno della Fede. In un’epoca in cui la mutata mentalità, considerando certezze razionali solo le conquiste scientifiche e tecnologiche, sottopone la fede a interrogativi e dubbi, occorre ribadire che non c’è conflitto tra fede e autentica scienza, perché entrambe tendono – per vie diverse - alla verità. Si dovrà poi ripercorrere in quest’Anno la storia della nostra fede, intreccio tra santità e peccato e quindi esaltazione di chi ha testimoniato coerentemente e necessità di conversione per chi ha mancato. Si dovrà insomma tenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, origine e compimento della fede, cercando in Lui risposta alle gioie, alle sofferenze, alle speranze; tutto infatti trova compimento nel mistero della sua Incarnazione e della sua Resurrezione. La fede dei santi che hanno segnato i duemila anni della storia della nostra salvezza è la stessa di Maria, di Giuseppe, degli Apostoli, dei discepoli della prima comunità, dei martiri, degli uomini e donne che hanno consacrato la loro vita a Cristo, dei cristiani che hanno agito a favore della giustizia per concretizzare la parola del Signore, degli uomini e donne di tutte le età che hanno seguito Gesù lì dove venivano chiamati: nella famiglia, nella professione, nella vita pubblica. Anche la nostra fede è riconoscere Gesù vivo e presente nella nostra storia. Nell’anno della Fede dovremo ancora intensificare la testimonianza della nostra carità perché, come affermano senza ambiguità gli apostoli Paolo e Giacomo (1Cor 13, 13; Gc 2, 14-18), la fede non seguita dalle opere in sé stessa è morta. Fede e carità si esigono a vicenda, l’una permette all’altra di attuare il suo cammino, perché “grazie alla fede possiamo riconoscere in quanti chiedono il nostro amore il volto del Signore risorto”. E’ la fede che ci fa riconoscere Cristo ed è l’amore di Cristo che ci spinge a soccorrerlo quando si fa nostro prossimo nel cammino della vita. Avviandosi alla conclusione, Benedetto XVI esorta che nessuno diventi pigro nella fede che, “intenta a cogliere i segni dei tempi nell’oggi della storia, impegna ognuno di noi a diventare segno vivo della presenza del Risorto nel mondo”. E il nostro mondo ha tanto bisogno della testimonianza credibile di chi sappia aprire il cuore e la mente degli altri al desiderio di Dio e della vita che non ha fine. Possa l’Anno della fede rendere più saldo il rapporto con Cristo Signore, che dà la certezza del futuro. La vita dei cristiani infatti sperimenta la gioia e la sofferenza. Le prove della vita consentono di comprendere il mistero della Croce e di partecipare alle sofferenze di Cristo, ma sono anche il preludio alla gioia e alla speranza cui la fede conduce. Noi crediamo che Gesù ha sconfitto il male e la morte; Egli, presente in mezzo a noi, vince il potere del maligno e la Chiesa, comunità visibile della sua misericordia, permane in Lui come segno di riconciliazione con il Padre. Nell’immagine del titilo: La donna samaritana al pozzo, James Tissot Settembre 2012 Antonio Giglio S e, nel 1947, il cardinale della città di Lione, Pierre-Marie Gerlier, concludendo un congresso sul tema dell’evangelizzazione, rilevava che il mondo aveva subìto una pesante scristianizzazione, dopo oltre sessanta anni la situazione non è affatto migliorata. Grandi sfide segnano profondamente i comportamenti di intere generazioni, e se la scienza ed il progresso hanno compiuto significativi progressi, assistiamo oggi a segni preoccupanti di distacco dalla fede, quale conseguenza di quella diffusa forma di indifferenza religiosa e di un secolarismo, da leggere come preludi ad un vero ateismo di fatto. Nel corso dei secoli precedenti si è sostenuto che nessuna forma di evangelizzazione sarebbe stata efficace se la Parola di Dio non fosse seriamente entrata nella vita delle persone; per raggiungere tale scopo si richiedeva non solo la frequentazione con la Parola di Dio, ma anche la “ credibilità “ di una coerente testimonianza di vita. E’ stata sottolineata l’urgenza di una analisi del carattere culturale di un popolo, al fine di capire lo spazio in cui inserire una valida evangelizzazione, proprio perché è chiaro che un linguaggio di fede non può essere compreso ed accolto nella misura propria e peculiare del passato. Oggi la Chiesa, per continuare ad obbedire al comando del Signore che le chiede di portare in ogni tempo il Vangelo ad ogni persona, dovunque si trovi, non deve escogitare “ nuovi contenuti” perché la precedente azione pastorale è stata fallimentare, ma deve provocare l’uomo di oggi a prendere sul serio la vita, al fine di orientarla verso quel senso compiuto e definitivo che trova unico riscontro nella persona di Gesù, che ha rivelato il Padre. Connessa ad una evangelizzazione seria e nuova è la problematica della catechesi che, oltre a privilegiare l’amore per la verità ed il senso profondo dell’appartenenza alla comunità e dell’identità personale, induce ad adattare il linguaggio e l’insegnamento a ogni cultura ed a ogni persona a cui si rivolge; è infatti importante e necessario che a tutti ed in ogni luogo venga offerta la possibilità di credere. Oggi purtroppo assistiamo al grave problema della profonda ignoranza dei contenuti fondamentali della fede, quasi esclusivamente relegata alla sola esperienza dei fanciulli e degli adolescenti; gli adulti spesso ritengono che la catechesi non ha più nulla a che fare con loro e conseguentemente tralasciano anche il valore di una fattiva testimonianza. Dal 1985 abbiamo il Catechismo della Chiesa Cattolica che costituisce un formidabile strumento per la nuova evangelizzazione, proprio perché pone nel giusto rilievo l’unità che intercorre tra l’atto con cui si crede ed i contenuti della fede ed aiuta a superare le difficoltà delle Chiese che ritengono di limitare la catechesi ai soli sacramenti ( limitati, come osservavamo, esclusivamente ai giovani ed agli adolescenti ). La Chiesa infatti non può abbandonare l’uomo, in quanto egli è indissolubilmente unito al Cristo dalla vocazione e nascita alla morte, salvezza o perdizione; perciò, di gene- razione in generazione, trasmette il Vangelo quale annuncio di un nuovo modo di vivere che regala all’uomo il superamento della grandissima paura della morte come annientamento di sé. Per poter fare quanto detto sopra è comunque necessario ed urgente avere nuovi evangelizzatori, giusto quanto leggiamo nell’Epistola di Paolo ai Romani (10, 13-15): invocare il Signore, avere fede in Lui ed essere inviati per annunciarLo, così che tutti possano credere. Dopo il Battesimo ed in forza di esso, ogni credente in Cristo si farà credibile portatore della bella notizia insita nell’insegnamento del Vangelo, ognuno a seconda della vocazione propria e del differente ministero all’interno della Chiesa. Il primo evangelizzatore è certamente il Vescovo, quale successore degli apostoli e destinatario di un mandato di rappresentare nel mondo l’icona vivente di un annuncio coraggioso e forte; ricordiamo infatti quanto si legge in Atti 4,20, dove all’indomani della Pasqua Pietro afferma : ”Noi non possiamo tacere “. Aiutato dalla preghiera del suo popolo, il Vescovo ricorderà la propria promessa e dichiarazione nel momento della sua consacrazione, cioè di “predicare, con fedeltà e perseveranza, il Vangelo di Cristo, nonché di custodire puro ed integro il deposito della fede, secondo la Tradizione conservata sempre e dovunque nella Chiesa fin dai tempi deglio Apostoli “. Tale missione è compartecipata e condivisa dai sacerdoti che con lui formano il solo corpo sacerdotale posto a servizio del popolo di Dio per annunciare e mantenere sempre viva la sua Parola, unitamente alla celebrazione dell’azione liturgica. Sacerdoti buoni, santi, ben preparati, completamente sottomessi a Cristo e dediti a diffondere il regno di Dio. Il vero sacerdote è il “ dono “ che Dio compie per quanti ha voluto chiamare per farli restare con Lui nel servizio alla sua Chiesa e che svolge il ministero non come un impiegato ma nel segno della piena gratuità, relazionato all’eucaristia perché rivestito di Cristo che lo rende icona dell’audacia di Dio, in quanto considerato capace di portare la Sua presenza nella storia degli uomini e che ha scelto di fare della propria vita una imitazione di Cristo. Anche le persone consacrate svolgono un servizio fondamentale nella nuova evangelizzazione, vivendo nello stile della santità che si esprime nei “ consigli evangelici “ per attuare radicalmente la sequela del Signore. Esse seguono l’esempio dei primi cristiani di Gerusalemme che, come leggiamo in Atti ( 2, 4247 ), erano assidui nell’ascolto dell’insegnamento degli Apostoli, nella preghiera comune, nella partecipazione all’Eucaristia, nella condivisione dei beni di natura e di grazia. Un ruolo del tutto peculiare è infine svolto dai laici, di cui si sono interessati sia il Concilio Ecumenico 27 Vaticano 2° con la costituzione Lumen Gentium al capitolo 33, sia il documento Christifideles laici del 1988; essi sono chiamati ad agire in un mondo in cui il benessere economico ed il consumismo, anche se frammisti a paurose situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita “ come se Dio non esistesse “ con la loro indifferenza religiosa e la totale insignificanza pratica di Dio. E’ chiaro che soltanto una nuova evangelizzazione può garantire la crescita di una fede che sia limpida e profonda, nonché capace di trasformare le tradizioni che si trascinano stancamente nella forza di autentica libertà, superando la frattura tra Vangelo e vita, ricomponendo ovunque l’unità di una vita che nel Vangelo trova ispirazione e forza per realizzarsi in pienezza e raggiungendo ogni persona. Con metodi anche diversi, ma con lo stesso identico scopo di annunciare Gesù Cristo vero Dio e vero uomo, ultima e definitiva risposta alla domanda dell’uomo di poter incontrare Dio, proprio perché è Dio che va incontro all’uomo una volta per sempre e gli offre la possibilità di un amore senza confronto. Quanto detto succintamente sopra è un tentativo di spiegare quanto è avvenuto il 29 marzo 2010, quando il Papa Benedetto XVI° incontrò Mons. Rino Fisichella e gli disse:” Ho pensato molto in questi mesi. Desidero istituire un dicastero per la nuova evangelizzazione e le chiedo di esserne il presidente. Le farò avere dei miei appunti. Cosa ne pensa? “ ed il menzionato Vescovo, moltosorpreso, rispose :” Santo Padre, è una grande sfida”. Nell’ottobre del 2012 il Sinodo dei Vescovi rifletterà sul tema “ Nuova evangelizzazione e testimonianza della fede cristiana “ per delineare il cammino che la Chiesa sarà chiamata a percorrere nei prossimi decenni. Settembre 2012 28 N Stanislao Fioramonti ato a Milano il 21 giugno 1958, all’età di 21 anni parte per il Burundi come volontario di una o.d.g. milanese, il Vispe (Volontari italiani solidarietà Paesi emergenti). L’esperienza africana lo prende totalmente: presto torna in Italia, entra in una comunità di laici consacrati dal titolo molto chiaro, “Amici dei poveri”, nella quale emette i voti di povertà, castità e obbedienza e all’inizio degli anni ‘80 riprende il suo posto in Burundi, nella bidonville di Buterere, estrema periferia della capitale Bujumbura. “Il carisma della nostra comunità – ha detto - è vivere il Vangelo in mezzo alle persone più povere e abbandonate, cercando di vivere la vita di Gesù nella semplicità di Nazaret. Ecco perché abbiamo scelto il quartiere di Buterere e abitiamo in una casa come quella della gente comune“. Nel 1993 inizia nel piccolo stato africano una lunga e sanguinosa guerra civile a sfondo etnico, che vede contrapposti gli hutu e i tutsi e che provoca migliaia di vittime non solo tra le milizie governative e antigovernative o tra bande armate rivali, ma anche (soprattutto) tra le popolazioni civili più indifese, che hanno vissuto per anni in un clima di terrore. E’ questo lo sfondo nel quale il 3 ottobre 2000, dopo venti anni di condivisione della vita dei burundesi più emarginati, si compie il sacrificio di fratel Antonio, a soli 43 anni. Stava tornando nella sua baracca da Kimba, 70 chilometri dalla capitale, insieme a un giovane del luogo; incontra sulla strada un posto di blocco improvvisato ed è costretto a fermarsi. Si avvicinano alla sua camionetta quattro militari sbandati e uno gli punta subito il fucile in faccia e spara. Mentre l’altro viaggiatore riesce a fuggire, il corpo di fratel Antonio è gettato fuori e derubato dell’orologio e dei sandali. I banditi fuggono con l’auto della vittima. Fratel Antonio aveva fatto della povertà, della semplicità e della disponibilità i cardini della sua opera in Africa, vivendo in mezzo ai poveri come i poveri, in una baracca dal tetto di lamiera, senza pavimento e con solo una branda, regalando i regali che gli facevano, indossando abiti usati e dimessi, zappando la terra con i contadini, medicando i lebbrosi o i malati di AIDS, assistendo i carcerati. “Abbiamo molti vicini - ha detto ancora - quasi tutti musulmani; andiamo d’accordo e ci aiutiamo gli uni con gli altri”. Mai ricevette minacce o aggressioni dalla gente del posto, ma sempre segnali di amicizia. Il cardinale Carlo Maria Martini, all’epoca arcivescovo di Milano (quindi suo vescovo), manifestando ai familiari del martire il suo dolore, scrisse che la sua “morte si aggiunge a quella di tanti altri uomini e donne generosi che hanno voluto offrire la propria vita a servizio dei più poveri del mondo. Sono sacrifici che fanno pensare, e per tutti noi sono una testimonianza di eroismo e forte coraggio. La loro morte è anche un monito per noi, perché non lasciamo soli questi Paesi poveri e così spesso dimenticati”. Maria Grazia Cutuli, la giornalista del Corriere della Sera uccisa in Afghanistan il 19 novembre 2001, iniziando il “pezzo” per il suo giornale nel quale raccontava la storia di fratel Antonio ha scritto: “San Francesco viveva in Burundi da oltre vent’anni, in una bidonville di Boujumbura, in una casa di fango e mattoni, senz’acqua e senza luce. Si chiamava Antonio Bargiggia, era un missionario laico, un italiano smilzo e bassino, nato a Milano 43 anni fa”. E’ sorprendente che l’imboscata fatale sia avvenuta la sera di un 3 ottobre, giorno della morte di S. Francesco d’Assisi, il cui carattere e il cui stile di vita erano così simili a quelli di fratel Antonio; è certo un segnale significativo del fatto che spesso le circostanze della vita e della morte di una persona “ricalcano” quelle del modello cui ha fatto riferimento la sua vita. Il 7 ottobre 2000 la salma di fratel Antonio è stata riportata in patria e sepolta a Dervio, sul lago di Como, dove risiedono la madre e la sorella. Nel 2001 la Regione Lombardia gli ha conferito il premio annuale per la Pace. Dei suoi aggressori, subito catturati, l’autista è stato condannato a 20 anni di carcere, i due complici dell’omicida hanno avuto l’ergastolo; l’assassino invece, condannato a morte, prima dell’esecuzione ha avuto modo di pentirsi, convertirsi e ricevere il battesimo, accettando con ras- Settembre 2012 D 29 Antonio Giglio esidero profondamente ringraziare il buon Dio perché nelle mie letture mi è stata concessa la opportunità di avere tra le mani un libretto che parla di un grandissimo Vescovo, Don Tonino Bello, il quale ci ha lasciato tanti testi, lettere ed appunti dedicati a coloro che, seriamente e sinceramente, hanno deciso di compromettersi con Cristo. Secondo il suo intelligente insegnamento, ho capito che a nessuno è lecito rimanere in ozio, considerato che il Signore, dopo averci individuati, ci ha responsabilmente invitati alla evangelizzazione, sempre e comunque. E’ infatti vero che il mondo è la vigna del Signore, dove Egli ci manda tutti a lavorare, a qualsiasi ora del giorno. Da parte nostra, non è lecita alcuna preoccupazione; non è affatto straordinario quanto ci chiede. Apprendiamolo dalle sue parole : ” Si chiede da te soltanto che, ovunque tu vada, in qualsiasi angolo tu consumi l’esistenza, possa diffondere attorno a te il buon profumo di Cristo. Che ti lasci scavare l’anima dalle lacrime della gente. Che ti impegni a vivere la vita come un dono, e non come un peso. Che ti decida finalmente a camminare sulle vie del Vangelo, missionario di giustizia e di pace. E il mondo, anche quello più distante da te, avvertirà che il “rosso di sera” non si è ancora scolorito!”. Dopo aver fatto il pieno di luce davanti al Signore, potremo essere affascinati dal compito della testimonianza e comprendere che Egli bussa sempre alla nostra porta con le mani dei poveri e degli ultimi, diventando, ogni giorno di più, “chiesa nuova”aperta ai lontani, dove la preghiera dei poveri diventa la formula consacratoria di tante ostie umane poggiate sugli altari doloranti delle chiese domestiche e consumate nel silenzio. Soprattutto, non diamoci tregua, che non segnazione la sua sorte. Segnale, anche questo, della forza rivoluzionaria dell’amore cristiano, di chi perdona nel nome di Cristo. Come conclusione e riflessione ecco un brano di una lettera di fratel Antonio, scritta nel luglio 2000 (due mesi prima della morte) dopo una visita ai carcerati. E’ tratta dal libro di Giuseppe Caffulli, Povero tra i poveri (EMI): “Per me è stata una giornata estremamente ricca di emozioni e tanto “vera”, tanto vicina a Dio grazie a questi nostri fratelli carcerati. Ero nudo, ero affamato, “ero in carcere e mi avete visitato”. Non avevo mai pensato profondamente a questa frase di Matteo. Non ho mai neanche pensato più di tanto ad un carcere. E adesso sono qui tra loro, e questi miei sia quella del giusto riposo. Entriamo nella mentalità del “servizio a tempo pieno”, perché il part-time è un assurdo inconcepibile, sapendo che ci viene richiesta la vita intera e non i suoi frammenti, il dono integrale e non la prestazione a ore. Nostro compito è mettere la gente a parte del fuoco che ci brucia dentro, seminare scrupoli, moltiplicare inquietudini, proporre istanze, coscientizzare le persone su ciò che si fa o ci si propone di attuare, facendo capire a tutti che c’è una Chiesa che vuole spendersi con audacia per il bene di tutti, in particolare per i maggiormente bisognosi di materiale e spirituale, procurando in tutti quell’innamoramento del Regno di Dio e degli uomini a cui il Regno deve essere annunciato, in modo tale che il Signore ci renda poveri,liberi,esultanti, nonché “viscere di misericordia” per chi, nella vita, rimane sempre sconfitto. Ed ora permettetemi di concludere queste poche righe con ciò che ho trovato nel suo libro “Servi inutili a tempo pieno”. Vocazione. E’ la parola che dovresti amare di più. Perché è il segno di quanto sei importante agli occhi di Dio. E’ l’indice di gradimento presso di lui, della tua fragile vita. Sì, perché,se ti chiama, vuol dire che ti ama. Gli stai a cuore, non c’è dubbio. In una tur- ba sterminata di gente, risuona un nome : il tuo. Stupore generale. A te, non aveva pensato nessuno. Lui sì. Più che vocazione, sembra una evocazione. Evocazione dal nulla. Puoi dire a tutti : si è ricordato di me!. E davanti ai microfoni della storia ( a te sembra solo nel segreto del cuore )ti affida un compito che solo tu puoi svolgere. Tu e non altri. Un compito su misura… per lui. Sì, per lui, non per te. Più che una missione, sembra una scommessa. Una scommessa sulla tua povertà. Ha scritto “T’amo”, sulla roccia! Sulla roccia, non sulla sabbia come nelle vecchie canzoni. E accanto ci ha messo il tuo nome. Forse l’ha segnato di notte. Nella tua notte. Alleluia! Puoi dire a tutti: non si è vergognato di me! fratelli si sono impossessati del mio cuore.Voglio loro bene, sono dei carissimi figli di Dio. Mi commuovo quando mi portano una lettera per la loro famiglia che non vedono da anni; mi fanno tenerezza quando vedo i condannati a morte sferruzzare per fare i golfini per i bambini che poi porto nei dispensari. Mi si stringe il cuore quando li vedo stracciati che chiedono un vestito. Forse Gesù ha messo apposta in fondo al brano di Matteo la frase “ero in carcere”, perché in carcere c’è chi è nudo, affamato, straniero, solo e malato; ci sono proprio tutti. La conclusione non può essere se non quella di ringraziare il Signore di questo ennesimo dono che mi fa, nonostante tutti i miei handicap”. Settembre 2012 30 mons. Franco Risi L a presidenza nazionale della CEI, vista la crisi delle vocazioni per il Regno di Dio, il 27 dicembre 1999, ha pubblicato il seguente documento: “La vocazione al ministero ordinato e alla vita consacrata nella comunità cristiana”. Il documento guarda al passato per illuminare la vita cristiana attuale, allo scopo di provocare nei giovani un rinnovamento quotidiano, per il raggiungimento della propria meta desiderata. E’ interessante notare come la Chiesa, ha reagito alla carenza delle vocazioni; in controtendenza furono impegnati molti educatori e formatori per dare una soluzione alla crisi della pastorale vocazionale. Ma i risultati non sempre furono positivi. La diminuzione dei sacerdoti e dei religiosi/e, ha portato da un lato a dover andare incontro ai tanti impegni richiesti dalle proprie comunità parrocchiali; dall’altro, con il crescere dell’età, diminuiva la possibilità di andare incontro a tutte le richieste dei giovani. Tuttavia il documento stesso esorta tutti gli educatori a non scoraggiarsi, ma incominciare a fare affidamento prima di tutto alla grazia divina. Per questo motivo, i vescovi, presentano la preghiera rivolta a Dio Padre come: “L’unico strumento capace di agire nello stesso tempo sul versante della grazia e su quello della libertà. E’ la preghiera che mette a confronto la nostra libertà con quella di Dio. Nutrita dalla Parola, essa apre il cuore del credente a scoprire verità più profonde di sé. Inserita in un cammino di fede, essa permette di arrendersi alle esigenze di Dio e di dare loro risposta con un preciso progetto di vita” (VeC 10). In questo contesto, non dobbiamo intendere pregare solo riducendosi alla giornata per le vocazioni, ma insegnare a pregare, farlo costantemente affinché diventi uno stile di vita. Difatti senza questa preghiera è impossibile far rimanere dentro ciascuno la Parola del Signore a seguirlo. Sant’Ignazio di Loyola fondatore della compagnia di Gesù (gesuiti), mediante la preghiera, ha ritrovato se stesso che l’ha portato a donare tutta la sua vita per dare solo gloria a Dio, a vantaggio dell’intera umanità. Per questo motivo l’educatore deve far comprendere ai giovani che la chiamata al ministero ordinato e alla vita consacrata, prima di tutto è dono di Dio. La preghiera, fatta nel silenzio e nel raccoglimento, guidati dallo Spirito Santo, diventa un cammino di esperienza spirituale, potremo far crescere il dono divino e così saperlo attuare con l’offerta totale della propria vita. Certamente dobbiamo fondare questo cammino sulla fede in Gesù figlio di Dio. Ne segue che i giovani devono essere accompagnati alla scoperta personale di Cristo, come vera ricchezza dell’uomo, che non viene mai meno con il cambiare delle mode. Gli educatori devono, quindi, invitarli con forza ad uscire da quel torpore che li avvolge, e aiutarli a sentire la propria chiamata per il proprio bene e quello degli altri. In questa prospettiva, oggi, dobbiamo affermare che c’è una ripresa di una vita di preghiera, sufficiente ad aprire strade nuove, capace di orientare i giovani verso i valori che danno senso e significato alla loro vita. Il documento ci invita a riflettere che: “la vita non è un caso o un cieco destino, ma è vocazione, cioè disegno di Dio pieno di amore proposto alla libertà umana. […] La vita non è un’avventura solitaria, ma dialogo, dono che diventa compito. Creato ad immagine di Dio l’uomo è chiamato a dialogare con Lui, a conoscerlo, amarlo, incontrarlo, per condividere infine la sua vita nell’eternità” (VeC 6). Queste affermazioni, attualmente, non sono più scontate, se non in un’ottica di maturità cristiana, raggiunta, conquistata e posseduta; debbono essere quindi necessariamente riscoperte con adeguate catechesi, con l’esempio stesso della preghiera nelle famiglie, nella comunità cristiana tutta, a tutti i livelli e in tutti i luoghi. La preghiera, trova maggior frutto se è legata ad una testimonianza di vita fedele e credibile: se cristiani non si nasce, si diventa grazie al germe posto dallo Spirito Santo e impegnandosi durante tutta la propria vita. Perciò bisogna far del tutto per far incontrare e riconoscere Gesù come vero Maestro e Signore. “La grazia di Dio va riconosciuta come la prima risorsa per le vocazioni di oggi e di domani, questi testimoni sono grazia di Dio in veste umana” (VeC 12). Se facciamo riferimento alla storia avvertiamo che la Chiesa, per realizzare la sua missione, ha avuto sempre costante bisogno di persone che dedicassero tutta la propria vita al Signore e al servizio dei fratelli. A queste persone va proposto il valore del ministero ordinato: “che non solo esprime la vitalità della Chiesa e contribuisce alla sua crescita, come tutte le altre vocazioni, ma costituisce la permanente garanzia della presenza sacramentale, nei diversi tempi e luoghi, di Cristo Redentore, pertanto pone il fondamento oggettivo della Chiesa, soprattutto attraverso l’Eucarestia” (VeC 9). Da qui scaturisce che la Chiesa, portando i giovani all’amore eucaristico, li aiuta maggiormente a rispondere liberamente alla chiamata divina. In realtà nessuno è veramente in grado di accettare un compito che già in partenza richiede di dare in dono la propria vita per il bene degli altri. Dio, questa forza, la dona sempre, ma occorre chiedergliela. Lo stesso papa Benedetto XVI, in occasione del convegno ecclesiale della diocesi di Roma,nel giugno 2007, dichiara con forza che Gesù è il Signore, e che occorre educare alla fede, alla sequela, alla testimonianza; ha affermato che l’impegno della Chiesa e della comunità cristiana è una sfida decisiva per il futuro della fede e del cristianesimo e che, quindi, deve essere una priorità per avvicinare a Cristo le nuove generazioni, che vivono in un mondo dove Dio sembra non interessare più. Nell’immagine: “La vocazione di san Matteo”, Caravaggio, 1599-1600, San Luigi dei Francesi Roma. Settembre 2012 31 Suore Apostoline Velletri Vuoi farci l’identikit del laico consacrato? È un laico come tutti gli altri, in apparenza, senza distintivi o divise, che si impegna a vivere e a restare nel mondo, dove realizzare la sua vocazione, come tutti gli altri uomini e donne, e in mezzo agli altri, svolgendo i suoi compiti e la sua professione, sforzandosi di inserire, vivendolo, il messaggio del Vangelo e per scoprire i segni della presenza di Dio già presenti e operanti in mezzo a noi e così comunicarlo agli altri. Che c’è di diverso dal laico comune? Ogni vocazione è via alla santità. La vocazione realizza in pienezza la vita della persona, nella fedeltà quotidiana alla chiamata del Signore. Poi, ogni vocazione ha la sua particolarità, e la nostra vocazione si esprime nella donazione totale della nostra vita al Signore, rimanendo nel mondo, rinunciando a tutto, anche ad una famiglia propria per rendersi disponibili in tutto nel servizio agli altri, cominciando da chi ci è accanto nella vita di ogni giorno o chi è in difficoltà. L’amore a Dio e ai fratelli è il cuore e il senso di questa vocazione per la quale doniamo tutto noi stessi. Cosa lo accomuna o distingue dal religioso? In comune con la vita religiosa c’è la totale donazione al Signore e l’assunzione degli impegni – promesse – voti di povertà, castità e obbedienza, vissuti nella condizione di celibato o verginità. Ci distingue l’ambito di vita che per noi è il mondo, nei luoghi e situazioni più disparate, immersi e appassionati per ogni ambito dove gli uomini e le donne vivono la loro quotidianità senza sentirci estranei nei diversi contesti: culturale, politico, professionale e familiare, di volontariato, ecclesiale, perché è lì dove la nostra vocazione si realizza e la nostra vita deve consumarsi, come ci ha ricordato anche Benedetto XVI incontrando i Responsabili degli Istituti Secolari: “Siate seme di santità gettato a piene mani nei solchi della storia”. Perché alcuni di loro non dicono di essere consacrati? La vocazione non è un titolo di studio da esibire per avere una collocazione sociale, professionale, religiosa. Si consiglia discrezione e riserbo prima di tutto perché la si deve testimoniare con le scelte nella propria vita, è questa che principalmente deve parlare e far nascere interrogativi negli altri, perché è lì che verifichiamo la fedeltà e la coerenza a questa chiamata. Si invita anche ad essere prudenti e responsabili per sé e per gli altri membri che condividono la stessa vocazione, questo per conservare una grande libertà nel nostro operare e agire in ogni ambiente. Anche perché l’ignoranza di questa vocazione, sia nella comunità ecclesiale e ancora di più nella società civile e politica, verrebbe facilmente strumentalizzata o fraintesa, compromettendo la stessa presenza e originalità di questa scelta. I 30 anni di Gesù a Nazareth sono stati inutili, visto che non se ne parla quasi mai? La normalità e umiltà della sua famiglia a cominciare da sua Madre sono da imitare o da cancellare dalla storia? Sicuramente la nostra non è una vocazione da esibire o di cui pubblicamente vantarsi, e questo fa parte del carisma degli Istituti Secolari. Chi fatica a capire questo aspetto forse è più adatto per un’altra scelta e in un’altra strada. Oscar Luigi Scalfaro, recentemente scomparso, tra i padri Costituenti della nostra Repubblica, impegnato in politica da sempre fino a diventare Capo dello Stato dal 1992 al 1999, e che da più di 60 anni era consacrato nel nostro Istituto (dopo essere rimasto vedovo giovanissimo) pensate che sarebbe arrivato fin lì se tutti avessero conosciuto la sua scelta? La vocazione non diventa vera nel momento che la si proclama. E per farla conoscere ci sono diversi modi. Quali modalità per vivere questa vocazione? È importante la relazione quotidiana con il Signore, autore di ogni vocazione. La preghiera, la riflessione sulla Parola di Dio, l’Eucarestia possibilmente quotidiana, la Riconciliazione, la Liturgia delle Ore sono il fondamento della vocazione e il sostegno per una vita equilibrata spiritualmente e umanamente. Questo ci conduce ad un amore vero, intenso e concreto verso Gesù che sentiamo come unico riferimento della nostra vita e la sua Parola quale guida sicura per i nostri passi. La missione degli Istituti Secolari è quella di “rimanere nel mondo”, vivendo in pienezza la condizione laicale. Ogni consacrato secolare svolge la sua attività lavorativa come luogo privilegiato della sua testimonianza. Inoltre considera ogni realtà umana lo spazio dove poter “lavorare” per inserire il fermento del Vangelo, tanto da poter dire che ”tutta la vita del consacrato secolare diventa missione”. Ogni Istituto Secolare si ispira a una tradizione spirituale o a una figura di Santo o Fondatore. Ciò vuol dire che normalmente si ha un legame con una famiglia spirituale, anche se, come forma di vita riconosciuta dalla Chiesa, gli Istituti Secolari mantengono la loro autonomia rispetto alle famiglie religiose o ad altre esperienze di vita consacrata. da SE VUOI 3/2012 Per approfondimenti: www.ciisitalia.it (la Conferenza Ital. Ist. Secolari pubblica la Rivista “INCONTRO”) www.laiciconsacrati-regalita.org Settembre 2012 32 Fabricio Cellucci* L a pastorale vocazionale non è un’attività collaterale, secondaria, della più vasta e complessa pastorale della comunità cristiana, ma ne costituisce l’anima stessa e la finalità ultima. A partire dal Concilio Vaticano II ogni comunità cristiana è ritenuta responsabile della promozione delle vocazioni, della formazione degli educatori e della guida dei cammini di fede dei suoi membri attraverso un attento ascolto della Parola di Dio, una liturgia autenticamente interpretata e vissuta nella carità verso Dio ed il prossimo. Due elementi della pastorale vocazionale emergono su tutti: Il discernimento vocazionale era relegato ad ambiti strettamente personali, mentre ora è inteso come un costante impegno, da parte della comunità dei credenti, a porre attenzione alle decisioni importanti che ogni suo membro assume sia in funzione della vita spirituale di più ampio respiro, sia nell’ottica di una precisa scelta vocazionale1. È la Chiesa stessa, nella sua qualità di Corpo mistico di Cristo, che acquisisce piena consapevolezza della sua missione nel mondo attraverso le scelte particolari dei suoi figli. Il verbo “discernere” è reso, nel linguaggio biblico, dal greco dokimàzein2, che significa “provare”, “riconoscere”. Grazie all’azione dello Spirito Santo, il credente è abilitato a riconoscere la volontà di Dio (Rm 12,2), verificando ciò che a lui piace (Fil 1,10) e quale sia la cosa migliore da perseguire e realizzare (1Ts 5,21). Nel Nuovo Testamento ricorre un paio di volte il vocabolo diakrìsis, che significa “distinguere rettamente” (1Cor 12,10; Eb 5,14) e che rafforza il concetto del discernimento della volontà di Dio a vantaggio dell’uomo, il quale è da Lui chiamato alla salvezza. Nell’esperienza dell’uomo biblico, il discernimento si esprime attraverso atteggiamenti del tutto peculiari, come fare memoria dei gesti di Dio nei momenti difficili della vita personale e comunitaria; riconoscere la persona ed il mistero di Gesù; porsi in ascolto della Parola di Dio (Lc 8,21), di cui Cristo è la personificazione incarnata; attuare il processo di interiorizzazione di tale Parola da parte di colui che ascolta (Lc 8,15); credere (Gv 3,16-18); leggere in modo attento e perspicace i segni dei tempi (Mt 16,1-3); disporsi ad un’intelligenza nuova delle cose che riguardano il modo dello spirito (Col 1,9); orientare la propria vita concreta verso Gesù, principio e fine di tutte le cose (1Cor 12,3); operare in maniera degna del Signore (Col 1,10); distinguere gli spiriti (1Cor 12,10); costruire l’unità della Chiesa (Ef 4,13). Il discernimento vocazionale ha una fonte, una dinamica ed un fine suoi propri. Lo Spirito Santo è la fonte del discernimento delle vocazioni, poiché Egli è presente in modo straordinario in alcuni uomini di grande spessore spirituale ed anche, in modo comune, in tutte quelle persone che svolgono un ministero di guida per la realizzazione piena della vita di fede. La dinamica del discernimento è strettamente connessa con la sapienza e col giudizio, che lo Spirito dona agli uomini per poter spingere lo sguardo “dentro” le cose di Dio sino a “scorgere”, nelle sue linee essenziali, i contorni futuri del progetto di Dio sugli uomini. In altre parole, la dinamica del discernimento prende l’avvio da uno sguardo di fede, si alimenta con la speranza e la certezza che Dio non viene mai meno alle sue promesse, si fortifica con la carità che perennemente scaturisce da Dio stesso orientando verso di Lui ogni creatura. Il fine ultimo del discernimento è la volontà di Dio, che è inscritta nella storia di ogni uomo e della comunità di cui egli fa parte. Per quanto sinora asserito, si può affermare che il discernimento delle vocazioni assume un significato di sintesi e di profezia, essendo al contempo concentrazione dentro un momento della vita ed uno sguardo comprensivo-profetico di tutta la vita di una singola persona e di un’intera comunità. Nella svolta di una scelta vocazionale, la sapienza del discernimento è particolarmente necessaria; la definitività di una vocazione, infatti, si gioca sulla prudente valutazione dei segni, attraverso i quali Dio agisce, sia da parte della persona in ricerca della volontà di Dio, da realizzare nella propria vita personale e sia da parte di chi funge da guida delle coscienze. La sensibilità soggettiva, l’intuizione spirituale, le risposte concrete offerte dalla vita quotidiana, le esperienze e gli incontri vissuti in modo positivo o negativo nell’ambito della comune vita di relazione sono elementi concreti che aiutano ad interiorizzare le varie esigenze di affettività, di intimità, di preghiera o di servizio orientando la scelta definitiva del singolo individuo. Esperienze di per sé reversibili e correggibili diventa- Settembre 2012 no, ad un certo punto, definitive quando sono percepite dalla singola persona come consone alle proprie esigenze e caratteristiche psicologiche. Il momento della sintesi, della scelta definitiva, si caratterizza con una sorta di “pace interiore” che scaturisce dall’intima convinzione di aver operato la scelta giusta. La scelta vocazionale comporta, necessariamente, una fiducia piena nell’aiuto di Dio soprattutto in vista dei momenti di crisi, che si presentano come verifiche necessarie per rafforzare la propria volontà e per rinnovare l’impegno nel vivere con fedeltà la chiamata di Dio. La tentazione, per molti versi considerata un evento negativo nell’esperienza psicologica e spirituale di una persona, è in realtà un’opportunità di crescita e di scelta libera e responsabile, che l’uomo deve mettere in atto per dare un senso pieno alla propria esistenza ed alla personale vocazione. Le scelte facili e scontate non sono nemmeno delle vere opzioni e la vocazione non si sottrae alla logica della sofferenza, implicita in ogni tipo di valutazione e di decisione di ciò che si vuole essere per sé e per gli altri. In tal senso, il discernimento vocazionale è “profezia”, vale a dire disponibilità alla novità evangelica, fiducia nella fedeltà di Dio quale fondamento di ogni fedeltà umana, capacità di rischiare la propria stessa esistenza sulla base delle promesse di Dio ed in vista delle realtà future, entusiasmo per una vita fondata esclusivamente su Dio e non su mere certezze umane. Una domanda sorge spontanea in chi è in ricerca della propria vocazione: come discernere la volontà di Dio ed il suo disegno dentro la propria esistenza personale? “La voce del Signore che chiama non va affatto attesa come se dovesse giungere all’orecchio del futuro presbitero in un qualche modo straordinario. Essa va piuttosto riconosciuta ed esaminata attraverso quei segni di cui si serve ogni giorno il Signore per far capire la sua volontà ai cristiani prudenti” (PO 11). Così per chi è chiamato al sacerdozio, così per qualsiasi altra vocazione; non c’è da attendersi un segno eclatante per riconoscere e comprendere la volontà di Dio ed il suo progetto nella nostra vita, ma un “prudente” esame dei piccoli fatti quotidiani che suscitano nella nostra mente, nel nostro cuore e nella profondità della nostra coscienza una vera attrazione per Dio, a servizio dell’uomo. La prudenza è necessaria per riconoscere e scartare le infatuazioni che durano lo spazio di un troppo facile entusiasmo. A livello esistenziale, la vocazione cristiana specifica raggiunge la sua maturità quale scelta stabile e definitiva quando si è raggiunto il pieno discernimento dei segni oggettivi, prudentemente richiesti per una fedeltà definitiva. In altre parole, l’auto-discernimento è la coscienza matura di un complesso di valori che confortano una scelta libera, consapevole e per sempre, sia nella direzione dell’amore coniugale e sia in quella dell’amore verginale. La perfetta armonia tra il valore oggettivo della propria vocazione e la coscienza soggettiva di una scelta giusta, operata in piena libertà, non esclude il ritorno di dubbi e conflitti interiori percepiti, anche dai mistici, come “la notte della fede”. In fondo, l’essere umano è pur sempre una creatura debole e fragile, sempre in ricerca di certezze e, per questo, ha spesso bisogno dell’aiuto altrui, di una guida spirituale capace di discernere l’azione dello Spirito nelle anime che sanno far emergere la propria miseria e fragilità e, al tempo stesso, così autorevole da essere percepita come “voce di Dio” che parla per bocca degli uomini. Tra i segni oggettivi, che consentono di orientare e, al tempo stesso, di misurare il grado di maturità di una scelta vocazionale, possiamo citare: la capacità di assumere la parola di Dio come fonte e misura della propria esistenza, la fede, l’esperienza di Dio attraverso la preghiera, la capacità di relazionarsi con gli altri in modo rispettoso e la disponibilità al dialogo ed alla collaborazione, il coraggio del sacrificio nella pazienza e nella dedizione, l’inclinazione al servizio e la disponibilità al nuovo cui sollecitano la vita e la stessa parola di Dio. 33 Accanto a tali parametri oggettivi, spicca pur sempre la componente soggettiva della vocazione, che appartiene al mistero della persona umana ed alla pedagogia divina, non quantificabile né razionalizzabile e che possiamo in qualche modo identificare con l’intuizione profonda di un valore particolare dell’esperienza cristiana o nella “simpatia”per una vocazione precisa. Rientrano in questo ambito l’intuizione della bontà di un servizio reso a Dio a tempo pieno o di una verginità consacrata per il Regno dei cieli, il fascino misterioso della vita contemplativa, il desiderio di una vita affettiva particolare o la volontà di lavorare per gli altri attraverso una vita di coppia. L’intuizione di un valore o di un modo particolare di realizzare la sequela si traduce nella “simpatia” per una scelta, nel desiderio che convive con la certezza o la fiducia di realizzarsi in pienezza, in un’attrattiva che si fa precisa più a livello esistenziale che razionale, nella consapevolezza di una crescita personale in sintonia con uno o più dei valori oggettivi cui abbiamo accennato in precedenza. Il discernimento dei “segni” non coincide solo con la verifica della loro presenza all’interno della vita concreta del chiamato, ma è anche un “cammino”, che induce e stimola lo sviluppo psicologico e spirituale di colui che si sente investito di un compito affidatogli dal Signore. L’intuizione e la simpatia iniziali diventano conoscenza matura delle implicazioni spirituali e morali imposte dalla sequela. Se la persona non si pone in termini chiari e precisi il problema della scelta, risulta difficile una vera libertà quale condizione di maturità vocazionale. Per dirla con parole semplici: la vocazione non è un pacco regalo recapitato da Dio agli uomini per suscitare curiosità, sorpresa ed emozioni, ma un vero e proprio impegno a scoprire il senso della propria esistenza e della propria appartenenza ad una comunità di salvati e tale impegno richiede disponibilità al sacrifico, alla rinuncia, alla scelta, al dubbio, all’incertezza, alla sofferenza, al rischio di mettere in gioco la propria sicurezza e tranquillità. Si può anche rischiare di “perdere” la propria vocazione o di sentirsi a disagio in un contesto vocazionale che, per l’innanzi, era riconosciuto con certezza come proprio e che garantiva, in certo qual modo, la pace interiore. Dio parla in modo misterioso alla coscienza delle persone, interpellando la libertà di ciascuna di loro nella costruzione di un progetto. Ogni vocazione è, pertanto, una chiamata che impegna totalmente la libertà dell’individuo, posto di fronte a delle scelte continue che possono arricchirlo od impoverirlo spiritualmente in forza del fatto che esse siano o no conformi alla volontà di Dio. Il discernimento vocazionale, dunque, è una sollecitazione permanente nel cammino educativo della libertà con proposte e continue verifiche dei grandi valori umani e di fede che la sostengono, dei condizionamenti che possono mortificarla, delle povertà spirituali che ne riducono lo spazio, dei falsi miraggi che la illudono. Per rimanere nell’ambito del Nuovo Testamento, il discernimento orienta il credente verso Gesù Cristo, il rivelatore del Padre, il precursore dello Spirito Santo e lo sollecita ad ascoltarlo, a riconoscerlo, a seguirlo e ad imitarlo. Di conseguenza, il discernimento impone al credente l’obbedienza, la rinuncia alla propria vita per amore di Cristo, il sacrificio, l’umiltà, l’accettazione della croce come mistero mai del tutto comprensibile; risulta difficile fare esperienza di Cristo, quale che sia la propria vocazione personale, se si vuole eludere questo crocevia della morte a se stessi ed all’affermazione del proprio io. *seminarista diocesano 1 Cf. A. CENCINI, Vocazione psicologia e grazia. Prospettive di integrazione, EDB, Bologna 1987, 49-55.61-69. 2 Cf. C. ZUCCARO, Roccia o farfalla? AVE, Roma 2007, 91-110. Settembre 2012 34 arissimi fratelli e sorelle, vorrei raccontarvi brevemente il mio cammino di conversione che mi ha portato oggi a testimoniare la mia fede in Cristo attraverso un cammino di preparazione al diaconato. Le parole di Gesù che seguono hanno segnato sin dall’inizio questa mia vocazione al servizio: “Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa” (cfr Mt 5,14); “Se dunque io, il Maestro e Signore, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fat- la preparazione alla prima comunione del mio primo figlio, Alessandro. Mia moglie Letizia, dopo un incontro con un frate cappuccino, ha conosciuto la spiritualità francescana dalla quale entrambi siamo rimasti profondamente attratti. Insieme abbiamo deciso di frequentare il terz’ordine di Segni. Inizialmente come simpatizzanti partecipavamo alle riunioni, in seguito, dopo l’ammissione come novizi e dopo due anni di profonda formazione sulla Regola e le Costituzioni del Terz’ordine francescano, siamo giunti prima alla professione temporanea e dopo un anno alla professione perpetua. Intanto durante questo cammino di conversione siamo andati a vivere a Segni e a far parte della Parrocchia Santa Maria degli Angeli. Il nostro parroco don Claudio Sammartino, avendo bisogno di aiuto nel portare Gesù Eucaristia to io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato” (Cfr Gv 13,14-16 ). Sono Giuseppe, ho 48 anni, sono sposato con Letizia da ventitré anni e abbiamo tre figli: Alessandro, Diletta Ludovica e Francesco. Finito il servizio militare ho iniziato a lavorare come artigiano nell’azienda di famiglia e tutt’ora ne faccio parte. Durante la mia infanzia, l’unica persona che mi parlava della vita di Gesù era la mia bisnonna, terziaria francescana. La sua parola è stata come quel seme gettato sulla buona terra, che ha germogliato e portato frutti. Nonostante questo insegnamento da cui sono rimasto molto attratto, anch’io però, come tanti, ho avuto il mio periodo di aridità, dove ero lontano da Dio e dalla Chiesa. Il mio cammino di conversione ebbe inizio con agli ammalati, ci chiese se volevamo adempiere a tale servizio: ancora una volta Gesù ci chiamava a compiere la Sua volontà! Dopo tre mesi di formazione Letizia ed io abbiamo iniziato questo nuovo cammino come ministri straordinari della comunione, nell’anno 2003. Intanto mi riaffiorava un pensiero che avevo sempre custodito nel mio cuore e che spesso chiedevo a Gesù che si potesse realizzare: parlo del diaconato, ma mi sembrava davvero una cosa impossibile, dato gli impegni di tempo e di studio che comporta la relativa preparazione. Pensata e accantonata più volte questa idea, un giorno si è presentata l’occasione di parlare con don Augusto Fagnani, in quel tempo parroco della Parrocchia di San Bruno in Colleferro, che a sua volta mi consigliò di incontrarmi con il diacono Vito Cataldi. Vito mi ha mostrato il cammino che bisognava Giuseppe e Letizia Baroni C fare per diventare diacono. Nel mio cuore iniziava così ad intravvedersi un raggio di luce per poter compiere ancora una volta la volontà del Signore. Il cammino diaconale comporta una formazione spirituale e teologica e tutto questo in un primo momento mi sembrava insormontabile, ma confidavo pazientemente nel Signore, in quanto i tempi di Dio non sono i nostri tempi. Grazie agli studi serali appositamente organizzati per coloro che lavorano, sono stato dunque inserito in un gruppo di aspiranti al ministero diaconale. Non posso negare che inizialmente ero molto scoraggiato a causa delle grosse difficoltà nel gestire gli orari delle lezioni con quelli lavorativi; qui è intervenuto l’aiuto di mia moglie che mi sostiene e mi sprona ad andare avanti e a pregare il Signore per capire il mio futuro. Tra le tante difficoltà incontrate durante il mio cammino di conversione, devo aggiungere un fatto che mi ha creato sempre grandi insicurezze: mio padre! Egli non è mai stato informato del mio cammino, in quanto è una persona che non crede in Gesù Cristo ed è critico verso la Chiesa; vi lascio immaginare quanti ostacoli ho dovuto superare per mantenere gli impegni presi verso i miei formatori. Come dire: si creano delle situazioni dove noi dobbiamo fare delle scelte, che non sempre sono facili. Decisi di parlare ai miei genitori del mio cammino di conversione, iniziato con la Comunione di Alessandro, per aderire successivamente al francescanesimo e al ruolo di ministro straordinario della comunione, infine verso il cammino diaconale. Entrambi hanno accettato la mia scelta, anche se mio padre spesso mi mette alla prova con riflessioni sulla Chiesa che non condivido. Letizia ed io confidiamo sempre e comunque nel Signore! Egli ci chiama a servirlo per compiere il Suo disegno, un disegno che noi non riusciamo a comprendere ora, ma Lui ci dà la speranza e vuole la nostra partecipazione affinché noi siamo testimoni della sua giustificazione. Da Lui attingiamo la forza per percorre la Sua strada, anche se le tentazioni alla resa e alle tribolazioni sono molte. Gesù ha detto: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (cfr Mt 16,24). Ringrazio coloro che mi sostengono in questo cammino con la preghiera. Pace e Bene a tutti! Settembre 2012 L 35 don Daniele Valenzi a misericordia è definita da Sant’Agostino come “la compassione del nostro cuore per la miseria altrui, che ci porta a soccorrerla, se possiamo”. Questa vicinanza del cuore è irradiazione della misericordia di Dio stesso. Questo legame profondo che unisce le grandi acque della misericordia con la sua scaturigine lo sottolinea Gesù stesso insegnando ai suoi discepoli: “Siate misericordiosi come anche vostro il Padre è misericordioso” (Lc 6, 36). E quando il vescovo di Ippona si trova a commentare le parole che san Paolo scrive a Timoteo nella sua seconda lettera, coglie l’occasione per sottolineare ogni gesto di misericordia è non solo riconducibile a Dio, ma è per sua grazia che se siamo capaci. Così scrive: “Perché il Signore mi dovrebbe dare una corona di giustizia? Perché ho combattuto la battaglia, perché ho terminato la corsa, perché ho serbato la fede. E in che modo hai combattuto, in che modo hai serbato la fede? Non io però, ma la grazia di Dio insieme con me. Se dunque tu sei coronato, ciò avviene per la misericordia di Dio. Per nessuna ragione tu devi essere superbo: loda sempre il Signore, senza mai dimenticare tutte le sue retribuzioni. È una sua retribuzione che tu, pur essendo peccatore ed empio, sia stato chiamato alla grazia della giustificazione. È una sua retribuzione che tu sia stato rialzato e sorretto per più non cadere. È una sua retribuzione che ti siano state fornite le energie necessarie per perseverare fino alla fine. È una sua retribuzione che anche questa tua carne, di cui senti il peso continuo, risorga e non cada dalla tua testa neppure un capello. È una sua retribuzione che, dopo essere risorto, tu sia coronato. È una sua retribuzione che tu possa lodare eternamente il tuo Dio senza mai venir meno. Se dunque vuoi che la tua anima benedica il Signore, che ti corona con la sua compassione e misericordia, non dimenticare tutte le sue retribuzioni”. Sembra che questa solenne e umile lezione sulla misericordia di Dio riecheggi in modo sintetico anche nelle parole di Bruno di Segni che conclude il suo discorso su questo tema dando una spiegazioni delle unzioni battesimali e di quelle legate alla consacrazione della chiesa e dell’altare che prevedeva la liturgia del suo tempo. Eccone il testo: “A ragione splendidamente i Greci chiamano la misericordia oleon, perché, come nei fluidi l’olio è più alto, così tra tutte le opere di Dio, la misericordia è superiore, così come già disse prima, perché la sua misericordia si stende su tutte le sue opere. Hai versato mai qualsiasi liquido sopra l’olio? L’olio galleggia sempre in superficie. L’olio significa quindi la misericordia. Per questo motivo siamo unti così spesso, per non dimenticare mai la misericordia. Noi tutti siamo unti in genere sul capo, sulla fronte e sul petto. E i re, ei sacerdoti ricevono altre l’unzioni in aggiunta a queste, poiché sono costituiti il giudici in mezzo al popolo di Dio, rispetto agli altri devono manifestare più numerose e più grandi misericordie. Se siamo unti sul capo, è perché, cacciata via ogni superbia, lì abbia sede la misericordia, a cui tutti i nostri sensi sono sempre preposti. Infatti sono nella testa i cinque sensi del corpo che dovrebbero servire la misericordia. Ma sono a servizio gli occhi se sono rivolti ai bisognosi e ai poveri, le orecchie se ascoltano il grido dei poveri, e la lingua se dispone le sue parole con giudizio. “Felice è l’uomo, che ha pietà, e condivide, dispone le sue parole con discrezione, non vacillerà in eterno (Sal 111, 5).” Tuttavia c’è anche un’unzione sulla fronte, e deve sia rallegrare tutto il volto dell’uomo, sia preparare alla misericordia, affinché la buona volontà che è nel cuore, sia riconosciuta sul volto stesso.“Dio ama chi dona con gioia (2 Cor. 9, 7).” Siamo unti anche sul petto, affinché mai il bene della misericordia possa discostarsi del nostro cuore e dalla memoria. Anche le mani, che sono state unte, non sono chiuse ai poveri, non sanno rubare e ferire, lavorano sempre per ciò che è buono, perché abbiano qualcosa da dare a chi soffre la necessità. Chi, pertanto, dopo tante unzioni non tende alla misericordia, ma giace pur sempre duro, contratto, infermo, e paralizzato, perché è lontano dalla misericordia, in quale indulgenza può sperare? Al contrario quelli che non possono altrimenti, attraverso l’affetto o il desiderio tendono ad essa. Anche gli stessi muri, i monti e gli alberi, ci invitano alla misericordia. Poiché a questo fine gli altari, le pietre e le pareti sono unti, come gli uomini, che sono significati da loro, comprendono la loro unzione in loro, e comprendendo la custodiscono. Spesso il nostro Salvatore aveva l’abitudine di salire e pregare sul Monte degli Ulivi; da lì è anche asceso al cielo, lì ha lasciato i discepoli che, tuttavia, non ha mai abbandonato. Così, dunque, non solo con le parole e con l’esempio, ma anche attraverso questa stessa azione invitava alla misericordia. Il monte degli olivi è monte di pace e di misericordia. E fortemente sono unite a Lui, la pace e la misericordia; quindi non è senza ragione che ciascuno di essi è significato dal ulivo. Quante sono le virtù, tanti sono i monti, su cui il salire, e in cui siamo in grado di pregare. Sul monte dell’umiltà stanno gli umili, e prega- no: sul monte della pazienza stanno i pazienti, e pregano: sul monte dell’obbedienza stanno gli obbedienti, e pregano. Così, quindi, sul monte della misericordia stanno gli operatori di pace e i misericordiosi, e pregano; su questo monte allora rifugiamoci. Qui il Signore ha lasciato i discepoli: qui c’è la via per cui si va in cielo. Non senza motivo si dice che i cherubini fossero di legno di olivo e che stando con le ali aperte nel tempio insegnavano al popolo. Vuoi volare? Prendi le ali della misericordia; queste ti porteranno al Padre della misericordia, e al Dio di ogni consolazione. Venendo per il giudizio il Signore, come le parole del santo Vangelo sembrano insegnare, farà il discorso della sola misericordia: lodando alcuni per la misericordia, rimproverando e condannando gli altri perché non hanno avuto misericordia. “Ho avuto fame, dice, e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato: Venite, dunque, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo (Mt 25, 36) “. Allora a quelli che chiedendo, quando lo hanno visto in questo modo, o come in questo modo lo hanno servito, dice:” quando avete fatto questo ad uno dei miei più piccoli, voi l’avete fatto a me.” E per tutti gli altri che non vollero compiere ciò, c’è solamente una sentenza di condanna. Ecco, come le sue misericordie sono superiori a tutte le sue opere. Qualunque cosa per compassione, qualunque cosa per generosità, qualunque cosa per benevolenza, qualunque cosa per pietà facciamo, anche se tuttavia lo abbiamo fatto per Dio, il tutto spetta alla misericordia. Tutte le divine Scritture, tutti gli apostoli e tutti i libri dei profeti sono pieni delle lodi della misericordia, e per la maggior parte il libro dei Salmi, che superabbonda tanto delle lodi della misericordia, come se non ci fosse altra questione, di cui sarebbe possibile parlare. Lodino il Signore i figli degli uomini per la sua misericordia e per la sua grandezza. Lodate il Signore, perché è buono, eterna è la sua misericordia. Dica Aronne che è buono, eterna è la sua misericordia. Lo dicano ora tutti quelli che temono il Signore, che è buono, eterna è la sua misericordia. Ma “chi è il sapiente, che custodisce queste cose, e comprende le misericordie del Signore?” (Sal 106, 1 e seguenti.) Colui che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen”. Settembre 2012 36 O don Ubaldo Montisci biettivo: riflettere sulle acquisizioni, le nuove sfide, le questioni aperte e le attese nei confronti della catechesi d’iniziazione cristiana (IC) in Italia maturate nell’ultimo decennio. Percorso: ripercorro alcune tappe del rinnovamento catechistico favorito dal Concilio (1), per indicare poi alcuni punti di non ritorno della riflessione catechetica, ma anche delle ambiguità o elementi suscettibili di miglioramento (2). 1. Il Concilio Vaticano II e la sua ricezione in Italia 1.1. Il rinnovamento conciliare Il Concilio Ecumenico Vaticano II, pur non affrontando in modo esplicito il tema della catechesi, attraverso le sue scelte, le sue attenzioni e i suoi principi teologico-pastorali, ha tracciato le linee per il suo rinnovamento, sintetizzabili in cinque grandi orientamenti: una maggiore utilizzazione e aderenza alle fonti bibliche, all’interno dello schema concettuale di Storia della Salvezza; un legame più stretto con la liturgia; un carattere antropologico e dialogico; uno stile missionario; un più efficace coordinamento e rinnovamento organizzativo. Il Concilio utilizza per la prima volta ufficialmente l’espressione IC, che trova spazio sia nei testi che si riferiscono alla riforma e promozione liturgica sia in quelli relativi alla dimensione evangelizzatrice ed educativa della Chiesa (SC 6566, 71; AG 14; GE 2, 4); esso riscopre l’unità dei sacramenti dell’IC, ripristina il catecumenato, rivela particolare sensibilità all’itinerario formativo di IC. 1.2. La “rilettura” del Concilio nel progetto catechistico italiano Anche in Italia, la catechesi nel post-concilio si è dovuta impegnare per un rinnovamento su tre fronti: l’aggiornamento del linguaggio teologico (ermeneutica delle fonti); la questione della significatività della fede rispetto alla persona e alla cultura contemporanea; il passaggio da una organizzazione di cristianità a quella missionaria. 1.2.1. Il Documento Base e i catechismi I principi guida teologico-pastorali del ripensamento sono contenuti nel Documento Base (DB): Il rinnovamento della catechesi (1970). Il testo individua alcuni “temi generatori” che orientano la successiva organizzazione catechistica: tutti responsabili della parola di Dio (DB 12; 182184); la mentalità di fede (DB 30); l’integrazione fede vita, cioè l’impegno volto a favorire l’inserimento del messaggio nell’intera struttura della personalità: nella dimensione motivazionale, dinamica e progettuale-decisionale (DB 52-55); il cristocentrismo antropologico e trinitario (DB 56-58; 70; 72); la fedeltà a Dio e all’uomo (DB 160-162); la comunità prima dei catechismi (DB 199-200), ecc. L’IC passa necessariamente attraverso il Progetto Catechistico non solo per ragioni cronologiche ma anche genetiche, in quanto i vescovi chiedono che l’IC si faccia avvalendosi dei catechismi della CEI. Nonostante gli innegabili pregi, tuttavia, il documento non è esente da limiti: i “ritardi” o le inadempienze più vistose sono state rilevate già dalla Lettera di riconsegna del RdC del 1988. Le carenze più rilevanti possono essere consi- derate: la mancanza di ricezione “alla base” della responsabilità di tutta la comunità nello svolgimento della catechesi; l’insufficiente peso attribuito al problema oggi vitale del “primo annuncio” e, di conseguenza, l’eccessiva responsabilità di cui si è caricata la catechesi, costretta a portare tutto l’onere dell’evangelizzazione e della iniziazione cristiana; a livello di finalità della catechesi, la scelta di privilegiare la linea kerygmatica e l’istanza “veritativa” da cui deriva una catechesi pensata soprattutto come insegnamento; l’inadeguatezza a esprimere la pedagogia di Dio nella “traditio-redditio” che, in modo analogico, riflette la natura di “dono-risposta”, propria della rivelazione divina; l’attenzione limitata alla realtà culturale in quanto “luogo” in cui Dio agisce e attraverso il quale si rivela; come pure è poco presente il tema della inculturazione del vangelo e insufficiente il rapporto tra messaggio cristiano e realtà sociale, politica ed economica. Più recentemente, il documento Annuncio e catechesi per la vita cristiana individua le debolezze del DB nei cambiamenti del contesto culturale (AeC 79) e nelle nuove esigenze pastorali (AeC 10-17). Gli “esiti” di questo modello che – lo si noti – pur nella sua precarietà garantisce tuttora un’ampia partecipazione della gente alla chiesa, manifestano delle carenze preoccupanti: mancanza di appartenenza e di collocazione ecclesiale; insufficienza di interiorizzazione e permanere della dissociazione fedevita; socializzazione religiosa molto bassa e protrarsi anche in età adulta dell’interpretazione antropomorfa e ingenua dell’immagine di Dio (analfabetismo religioso); poco sviluppo della abilitazione a vivere la vita cristiana. 1.2.2. Le Note per l’iniziazione cristiana e la sperimentazione E così, all’indomani del completamento dell’edizione definitiva del “Catechismo per la vita cristiana” (1991-1997), i vescovi sentono l’esigenza di promuovere una riflessione sulla iniziazione cristiana, cui fa seguito l’avvio di una sperimentazione in alcune diocesi italiane. A promuovere il processo provvedono tre Note pastorali che indicano contenuti, finalità e modalità di un itinerario di IC che conduca alla maturità di fede e che raccolgono, per così dire, il “testimone” del RdC per portarlo più avanti in spirito di continuità e insieme di rinnovamento, in modo da far fronte in maniera adeguata alle sfide e agli stimoli provenienti dal tempo presente. 2. Alcuni “punti di riferimento” per orientare percorsi fecondi di IC 2.1. L’orizzonte della nuova evangelizzazione (NE) Non solo motivi socio-culturali ma teologici per la NE: consapevolezza di una “eccedenza” della Parola di Dio, la quale necessita di sempre nuovo annuncio. Il problema dell’infecondità dell’evangelizzazione oggi, oltre a essere antropologico, è primariamente ecclesiologico. La prospettiva con cui la Chiesa realizza la verifica è decisiva: nei confronti della cultura non basta la semplice reazione (cura delle cose che non vanno) e la pretesa di soluzioni “sicure”, ma occorre fornire un apporto al dialogo di volta in volta critico/autocritico, stimolatore e integratore. C’è biso- Settembre 2012 gno di un ascolto attento e prolungato, e del coinvolgimento di tutte le componenti del popolo di Dio, in vista di scelte coraggiose e condivise, negli intenti e nelle loro formulazioni, per abitare credibilmente questo tempo, che non è meno promettente per l’evangelizzazione di quelli del passato. 2.2. Nello specifico contesto italiano Qualsiasi scelta deve prendere sul serio il contesto culturale italiano e offrire indicazioni per questa specifica realtà, che è considerata una “anomalia” nel panorama religioso europeo. Ciò deve avvenire attraverso un’analisi della situazione completa, dettagliata, realistica. In particolare, se è vero che l’Italia da cattolica è diventata “genericamente cristiana”, e si è di fronte alla “prima generazione incredula”, è anche vero che la secolarizzazione della mentalità, pur operante, non appare ancora in grado di soppiantare le tracce dei riferimenti cristiani, mantenuto vivo da una forte presenza di cattolicesimo popolare. Ciò rappresenta una risorsa ma anche un limite. Necessità del ricorso alla “immaginazione” (fedeltà creativa). 2.3. Una catechesi dai tratti rinnovati Appaiono rilevanti soprattutto gli sviluppi che hanno portato a considerare la catechesi in primo luogo come un atto relazionale e comunicativo; la riscoperta della sua intrinseca dimensione missionaria (riscoperta del primo annuncio) e la scelta di ispirarsi al modello del catecumenato antico; la premura nel mettere al centro le persone e gli ambiti in cui si svolge ordinariamente la vita della gente; la necessità del recupero di tutta l’armonica dei linguaggi della fede, di un “allargamento” della razionalità che introduca l’intera gamma dei linguaggi umani e della fede (specie quello narrativo, legato alle Scritture, e quello simbolico, legato alla liturgia); l’urgenza di un più stretto rapporto con le altre funzioni ecclesiali, per non farla rimanere esposta all’isolamento. Permane una “Babele” terminologica. 2.4. L’iniziazione cristiana Una difficoltà di fondo sta nel fatto che oggi, in Occidente, si è poco propensi a “iniziare”. L’IC assume rilevanza nel momento in cui si ha consapevolezza che «con l’iniziazione cristiana la Chiesa madre genera i suoi figli e rigenera se stessa» (VMP 7), e si prende coscienza che dal processo di iniziazione dipende la stessa immagine di Chiesa. L’IC vuole designare la trasformazione radicale della persona per la partecipazione al mistero pasquale di Cristo, compiuta con la mediazione della Parola che porta alla fede e mediante i sacramenti del battesimo, della confermazione e dell’eucaristia, con la conseguente aggregazione piena alla Chiesa e l’inizio di una nuova esistenza e il processo di formazione sufficientemente ampio nel tempo e adeguatamente articolato, indispensabile perché una persona possa partecipare liberamente e responsabilmente alla fede e alla vita cristiana. 2.5. Acquisizioni che ispirano le “sperimentazioni” La responsabilità condivisa a livello organizzativo: alleanze educative; pastorale integrata, lavoro in équipe; logica progettuale. La sensibilità missionaria, anche quando ci si rivolge a persone che chiedono semplicemente i sacramenti; questa sensibilità appare anche nella scelta del RICA come documento di riferimento e nella comunicazione dei contenuti, che vengono essenzializzati, proposti sul versante kerygmatico e nello stile narrativo. L’enfasi sulla comunità come grembo generatore; l’IC deve possedere una sua dimensione comunitaria; la parrocchia è il luogo ordinario e privilegiato per la trasmissione della fede (problematico rapporto con associazioni e movimenti). Il coinvolgimento attivo e responsabile della famiglia dei ragazzi, nella consapevolezza che i genitori sono i primi e principali educatori dei figli nella fede; li si aiuta a riscoprire/scoprire una fede adulta in vista della testimonianza ai loro figli (diversi modi di intendere la loro collaborazione/co-responsabilità). Gli adulti come principali destinatari della formazione ecclesiale; la consapevolezza che i fanciulli e ragazzi hanno una personalità evolutiva autonoma e sono interlocutori attivi del rapporto educativo (debole attenzione agli adolescenti e giovani). Prime sensibilità verso l’intergenerazionale. La formazione alla globalità della vita cristiana; il percorso iniziatico, attraverso una proposta formativa globale e graduale, ha il compito di introdurre nelle dimensioni fondamentali della vita cristiana. Una pluralità di esperienze, coinvolgenti e attive, collegate organicamente tra loro attraverso una seria programmazione entro un itinerario progressivo che coinvolga i partecipanti, i loro familiari e l’intera comunità. Dalle varie fasce d’età alle differenti situazioni di fede dei catechizzandi. Una articolazione unitaria e a tappe successive e graduali, ognuna con una propria originalità e fisionomia spirituale, con proprie accentuazioni e segni particolari.La valorizzazione dell’anno liturgico e, soprattutto, della domenica. Il ruolo insostituibile di accompagnamento degli educatori, all’interno della comunità cristiana: pastori, genitori, catechista/equipe di catechisti, padrino. 2.6. La formazione Il catechista va sempre pensato inserito in modo vitale e responsabile nella comunità cristiana, titolare e responsabile della catechesi (DGC 220; DB 200). Oggi si è precisata l’identità: il catechista è un mediatore (DGC 156); nella realtà italiana attuale, sembra avere un certo consenso quello di “accompagnatore”, di “compagno di viaggio”. Il catechista è un credente/“cercatore di Dio” che si scopre dentro il progetto di Dio e si rende disponibile a seguirlo; vive la risposta alla chiamata dentro una comunità, con la quale è unito in modo vitale, che lo convoca e lo invia ad annun- 37 ciare l’amore di Dio; svolge il compito specifico di promuovere itinerari organici e progressivi per favorire la maturazione globale della fede in un determinato gruppo di interlocutori; possedendo una certa competenza pastorale, elabora, verifica e confronta costantemente nel gruppo la sua azione educativa; si pone in ascolto degli stimoli e delle provocazioni che provengono dall’ambiente culturale in cui si trova inserito. Un aspetto sul quale non c‘è unanimità riguarda l’istituzionalizzazione del ministero del catechista. Esigenza di promuovere nuove figure catechistiche, favorendo anche la complementarità di ministeri differenziati. La formazione è considerata oggi un elemento determinante nelle nostre società e si presenta come un’attività complessa, differenziata ed eterogenea. Il sistema formativo finora utilizzato appare oggi inadeguato. Al momento si vanno affermando teorie e tecniche che si orientano con sempre maggiore convinzione verso concezioni in cui gioca un ruolo da protagonista il soggetto, disponibile alla formazione e corresponsabile di essa (Laboratorio). Settembre 2012 38 prof. Antonio Venditti S e ne è parlato e scritto anche negli ultimi decenni del secolo scorso, ma indubbiamente negli ultimi anni la “meritocrazia” è un tema al centro dell’attenzione generale. Partendo dalla crisi dell’istruzione, considerata nella difficoltà delle istituzioni scolastiche a fornire un servizio “efficiente ed efficace”, in sintonia con le esigenze della società, si è imposta l’indifferibilità della “Riforma”, basata sulla razionalizzazione del sistema, sulle certe ed approfondite conoscenze finalizzate alle competenze, sulla oggettiva valutazione dei risultati e sulla conseguente valorizzazione del merito. Nulla da eccepire su tale procedura limpidamente educativa che fa del merito un “valore”, ma non un “potere” come evidenzia l’etimologia del termine “meritocrazia”, che è sempre più sulla bocca di tutti, politici in prima fila, ed anche i giovani lo usano sempre più frequentemente. La scuola deve garantire un itinerario di apprendimento, strettamente correlato all’insegnamento, che consiste nel condurre ogni soggetto in crescita al raggiungimento della conoscenza, nei diversi rami del sapere, secondo tempi e modi adeguati alle caratteristiche di ognuno, senza disimpegni e senza forzature. I risultati ci devono comunque essere, ma, trattandosi di percorsi personalizzati, non saranno uguali per tutti, secondo un sistema standardizzato di valutazione. Ognuno riceverà un aiuto particolare ed ognuno darà secondo le sue reali possibilità, in quel momento reale di crescita, ed anche nella scarsità non potrà essere svalutato e scoraggiato, ma dovrà essere sostenuto con la paziente e fiduciosa attesa del recupero. Parliamo ovviamente della parte obbligatoria d’istruzione, durante la quale, mentre si sostengono alunni/e in difficoltà di apprendimento, non deve verificarsi un appiattimento dell’insegnamento ai livelli inferiori, ma si deve corrispondere alle esigenze di quanti possono conseguire un discreto rendimento ed inoltre non si devono trascurare le eccellenze che non mancano all’interno delle classi. Come? È la domanda posta soprattutto da chi è preoccupato di assicurare il successo ai più dotati. L’intervento differenziato, non certo facile, è possibile, se gli insegnanti sanno praticare una didattica attiva, capace di coinvolgere tutti gli alunni, nei diversi livelli di apprendimento. L’ex Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, Mariastella Gelmini, ha indicato in “merito, valutazione e autonomia” i tre fondamentali obiettivi della sua Riforma. Nell’illustrazione che ne ha fatto, poco dopo la sua nomina, alla Commissione Cultura della Camera, ha detto testualmente : la meritocrazia “è un sistema di valori che promuove l’eccellenza delle persone indipendentemente dalla loro provenienza sociale, economica, etnica. In Italia si fa troppo spesso carriera solo per conoscenze o anzianità. Il paradosso è che a credere che la meritocrazia produca disuguaglianza sono proprio quelli che ne beneficerebbero. L’Italia è uno dei Paesi più “diseguali” al mondo. Il merito è intelligenza più impegno”. La scuola “deve premiare gli studenti migliori. Nessuna ambiguità su questo tema. Se i risultati sono uguali per tutti, saranno sempre i figli dei privilegiati a prevalere”. Si rende necessaria “una rivoluzione culturale : non sarà semplice, non sarà immediata ma io voglio dare il mio contributo per spargere i “semi del merito”. Nel discorso del Ministro i due piani della società e della scuola s’intersecano, anche se le modalità educative non possono coincidere con quelle amministrative e politiche, perché mentre quest’ultime sono o dovrebbero essere selettive, nel senso migliore del termine, ossia ricerca della persona giusta per il posto giusto, la scuola, cosiddetta d’obbligo, non deve discriminare, ma deve educare, ossia permettere ad ognuno la maturazione integrale della sua personalità. Il “premio” scolastico consiste nel riconoscimento dei risultati raggiunti e misurati senza pietismi o inutili esaltazioni, perché la gratificazione dev’es- sere soprattutto interiore, ossia la consapevolezza di aver fatto fino in fondo il proprio dovere. La scuola primaria e la scuola media, nella diversità dei contesti, hanno ben interpretato e svolto la loro funzione e si sono sforzate di porre le basi dell’uguaglianza civile, nel rispetto delle piccole e fragili persone in formazione. La scuola superiore, non disperdendo ma consolidando tali esperienze, può gradualmente indirizzare il lavoro scolastico verso i progressivi rendimenti (iniziale, intermedio e finale), nelle annualità e nei bienni, e valutare i livelli di conoscenza e di competenza effettivamente raggiunti, necessari per il proseguimento degli studi ed il conseguimento finale del diploma, richiesto per la collegata professione o per l’iscrizione ad una facoltà universitaria. La selezione scolastica, quindi, è un processo progressivo e naturale, senza alcun proposito discriminatorio e punitivo, nel rispetto sempre delle persone che sono al centro dell’educazione. In un sano ambiente di formazione ci deve essere volontà di miglioramento ma non di competizione tra non bravi e bravi, con ansia per quest’ultimi di primeggiare per mantenere un “primato” che non può esistere in una comunità educativa, formata da persone che crescono eguali e solidali, pur nella diversità dei risultati scolastici e delle possibilità future. La “rivoluzione culturale”, a ben vedere, è necessaria nella società, le cui gravi degenerazioni sono sotto gli occhi di tutti e si annidano nei centri di potere sparsi, non solo ai vertici, ma in maniera più subdola alla base della grande piramide dello Stato. Con le risorse pubbliche, accumulate dai bravi cittadini che lavorano onestamente e pagano le tasse, si formano questi “centri” che assegnano i posti e stabiliscono i lauti compensi a parenti e amici : basta considerare le “aziende” che gestiscono i servizi locali, gli appalti , le consulenze ecc. I beneficiari di tali “affari” sono stati scelti in base al “merito”, ossia perché più intelligenti e impegnati degli altri, esclusi “regolarmente”? No, semmai con varie astuzie, avallate dai vertici amministrativi e politici, nonostante i rischi che l’incompetenza provoca nei pubblici servizi, con danni gravi per i cittadini., come la cronaca quotidiana dimostra. Nelle Università, considerate fari della cultura, in base al merito sono stati scelti i titolari degli incarichi più prestigiosi? Certamente no : molto spesso, nei concorsi, sono prevalsi figli e parenti, per una sorta di “diritto” di successione, perché ritenuti “meritevoli” da benevole commissioni formate ad hoc. continua a pag. 39 Settembre 2012 39 Una lapide alla Stazione ferroviaria di Colleferro per ricordare Maria Goretti e tutti gli emigranti don Silvestro Mazzer P er ricordare il passaggio nella nostra stazione, “in una fredda mattina del febbraio 1899” di santa Maria Goretti, e per ricordare in generale quanti son passati di qui in cerca di lavoro, abbiamo chiesto alle Ferrovie dello Stato il permesso di porre una lapide nella Sala Attesa della stazione. Il papà e la mamma di Maria Tersa Goretti, emigrati (per fame) da Corinaldo, abitarono per più di un anno in una misera casa, oggi diroccata sul Colle Gianturco. Ma, quando andando male lì le cose, decisero di emigrare alle Ferriere di Conca non lontano da Nettuno. Alla stazione di SegniPaliano (Colleferro ancora non esisteva) presero il treno per Velletri, qui cambiarono per Cecchina; lì un carro li portò alle ferriere. Di solito si fa una lapide per fatti o persone di grande rilievo storico, in questo caso abbiamo voluto ricordare che “da qui passò una bambina”! Una bambina di otto anni che aspettava “felice” il treno come sono felici tutti i bambini che aspettano un treno. Essa aveva sulle ginocchia “un gatto rosso” e teneva stretta l’unica cosa preziosa che quei “pover” si portavano dietro: “un quadro dell’Addololrata”. Colleferro è tutta di “emigranti”; tutti venivano da fuori, alcuni da vicino altri da lontano. La Lapide è allora “a memoria di tutti i migranti che per un pane alla famiglia passarono di qui”. Lo stesso scrivente non aveva ancora un anno quando, piccolo emigrante guardava forse curioso le pareti di questa stazione, o forse dormiva. Non sembri quindi esagerato far festa ad una “bambina”, e a i nostri vecchi che con grandi sacrifici emigrando di luogo in luogo, di fabbrica in fabbrica, si sono sforzati di preparaci un “mondo migliore”. Quanto poi alla santità di Maria Goretti, non fu solo santa solo nel suo ultimo sacrificio, ma lo era anche prima, povera figlia che desiderava sempre la Comunione, faceva scalza chilometri per andare a Messa e “fare la Comunione”, e con dolcezza insegnava ai suoi fratellini le preghiere, e toccava a lei fare la polenta per tutti (perchè la madre, vedova, doveva andar a zappare dal mattino alla sera al posto del marito) e tutto sempre faceva volentieri. Laboratorio didattico del Museo diocesano di Velletri: Corso Base di Iconografia Fabio Pontecorvi I l 27 Settembre presso il laboratorio del museo diocesano di Velletri inizierà il corso Base di Iconografia Bizantina, il corso è aperto a tutti coloro che vogliono approfondire la tecnica della tempera all’uovo usata dagli antichi maestri di pittura ed a principianti del disegno, ma anche a coloro che vogliono approfondire l’aspetto teologico e spirituale, il corso sarà curato dal maestro d’arte Fabio Pontecorvi. Lo scopo del corso sarà quello di dipingere su una tavola in legno e ingessata (Levkas) portando a termine un icona del volto di Cristo, percorrendo un percorso base di primo livello. Le otto tappe partiranno con il disegno per seguire con la preparazione della tempere, l’applicazione della foglia in oro per arrivare con diversi passaggi ai tratti di luce del Volto. “Quando si parla del lavoro dell’iconografo, non si dice «dipingere»ma dal greco gràphein(grafia) quindi «Scrivere». Come la parola scritta, l’icona insegna la verità cristiana: è una teologia in immagini. L’immagine rappresenta ciò che la scrittura insegna con la parola”www.artesacraveliter. Il corso prevede un massimo di cinque allievi che saranno seguiti personalmen- te dal maestro, attraverso le otto tappe, per otto giovedi dalle ore 15:00 alle 18:00 . Ad ogni allievo verrà consegnato con l’iscrizione, una tavola ingessata, dei pennelli, colori (pigmenti naturali) e foglia in oro,gli allievi dovranno portare con se una matita,una gomma, una squadra, un righello dei piattini in ceramica bianca ed un grembiule. “Per riscoprire la bellezza di Dio è importante lasciarci abbracciare dall’amore del Padre contemplando il Figlio, l’icona è uno strumento di preghiera che ci aiuta ad alzare gli occhi al cielo” Pontecorvi Fabio. -Iscrizioni entro il 20 Settembre 2012. -I posti sono limitati, massimo 5 allievi. -Alla fine del corso le icone verranno benedette durante una celebrazione Eucaristica. -Ad ogni allievo sarà consegnato un attestato di partecipazione. Per informazioni rivolgersi direttamente al maestro d’arte Fabio Pontecorvi al 3341707171 o inviando una mail a: [email protected]. zioni : e ce ne sono tanti, ad esempio, a livello locale, che si conoscono direttamente, senza bisogno che siano televisioni e giornali a scoprirli. Contemporaneamente, si facciano concorsi seri, con commissioni libere e responsabili, che sappiano scegliere i meritevoli, con oggettivi e trasparenti accertamenti. Sarebbe un modo per attuare da subito un sistema “meritocratico”. Si riformino, quindi, le leggi, eliminando ogni ambiguità, per evitare il ripetersi dei gravi fenomeni, e si stabiliscano rego- le ineludibili di comportamento, fondate sulla competenza, sulla coerenza, sulla disponibilità, sull’equilibrio, sulla fedeltà al servizio pubblico ed ai cittadini. Su tali basi si ricostituisca il patto sociale, punto obbligato di riferimento per tutti e fondamento sicuro della formazione umana e civile. La scuola ha tutto da guadagnare da siffatta “rivoluzione” morale e culturale e davvero il merito potrà sempre più emergere come valore educativo e sociale. segue da pag. 38 Non era questo il significato, il valore dell’autonomia degli atenei, garantita dalle leggi, che comunque non doveva essere esente da efficaci controlli ministeriali. La “rivoluzione”, quindi, è morale, prima ancora di essere “culturale”. Si abbia il coraggio di rimuovere, dai loro posti di prestigio, tutti coloro che sono venuti meno al dovere di “fedeltà” alle Pubblica Amministrazione, per dare l’esempio e scendere a mano a mano a quanti, anche nel piccolo, hanno abusato delle loro fun-