Post/teca
materiali digitali
a cura di sergio failla
02.2013
ZeroBook 2013
Post/teca
materiali digitali
Di post in post, tutta la vita è un post? Tra il dire e il fare c'è di
mezzo un post? Meglio un post oggi che niente domani? E un post
è davvero un apostrofo rosa tra le parole “hai rotto er cazzo”?
Questi e altri quesiti potrebbero sorgere leggendo questa antologia
di brani tratti dal web, a esclusivo uso e consumo personale e
dunque senza nessunissima finalità se non quella di perder tempo
nel web. (Perché il web, Internet e il computer è solo questo: un
ennesimo modo per tutti noi di impiegare/ perdere/ investire/
godere/ sperperare tempo della nostra vita). In massima parte sono
brevi post, ogni tanto qualche articolo. Nel complesso dovrebbero
servire da documentazione, zibaldone, archivio digitale. Per cosa?
Beh, questo proprio non sta a me dirlo.
Buona parte del materiale qui raccolto è stato ribloggato anche su
girodivite.tumblr.com grazie al sistema di re-blog che è possibile
con il sistema di Tumblr. Altro materiale qui presente è invece
preso da altri siti web e pubblicazioni online e riflette gli interessi e
le curiosità (anche solo passeggeri e superficiali) del curatore.
Questo archivio esce diviso in mensilità. Per ogni “numero” si
conta di far uscire la versione solo di testi e quella fatta di testi e di
immagini. Quanto ai copyright, beh questa antologia non persegue
finalità commerciali, si è sempre cercato di preservare la “fonte” o
quantomeno la mediazione (“via”) di ogni singolo brano. Qualcuno
da qualche parte ha detto: importa certo da dove proviene una cosa,
ma più importante è fino a dove tu porti quella cosa. Buon uso a
tutt*
sergio
Questa antologia esce a cura della casa editrice ZeroBook. Per info: [email protected]
Per i materiali sottoposti a diversa licenza si prega rispettare i relativi diritti. Per il resto, questo libro esce sotto
Licenza Creative Commons 2,5 (libera distribuzione, divieto di modifica a scopi commerciali).
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materiali digitali
a cura di Sergio Failla
ZeroBook 2013
Post/teca
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Post/teca
20130201
Alessandro Ferrucci e Malcom Pagani per "il Fatto Quotidiano"
uomocheguarda b
Tinto Brass La
Presse
Tinto Brass fa un altro giro nel parco della luna. Adolescente nei bordelli veneziani: "Erano 33, li
conoscevo tutti, fin dai 16 anni. Al più economico, lo Scalone, ero di casa. Tornavo dalla caccia pervaso
dalle voglie e con un documento falso andavo dalla mia puttana preferita". Maggiorenne alla stazione di
Milano: "Sporco e povero, a vagabondare dopo il turno ai mercati generali".
Rapidissimo vecchio in un regale borgo medievale sulla Cassia, tra antichi manifesti elettorali per i
radicali: "Meglio un culo che una faccia da culo", teiere di bronzo e salici piangenti. Mentre ride,
protegge l'età con una coperta e fa ballare la rossa montatura degli occhiali, vede con altre lenti e torna
bambino proprio all'alba degli 80. Esserci arrivato, esorcismo riuscito: "Sapete in quanti me l'hanno
augurata?".
uomocheguarda
La prematura dipartita?
Visto il mio Action, Morandini si superò sul Giorno: "Brass deve essere eliminato". Sessuofobi, critica,
Chiesa e femministe mi han sempre massacrato. Io, Carla Bruni e Odifreddi, siamo gli unici scomunicati
d'Italia, lo può leggere in latino sul sito del Vaticano.
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Tintobrass
E le femministe?
Elvira Banotti mi attese a Napoli con plotoni di ossesse e striscioni: "A morte Brass". Poi non si trattenne
e salì sul palco. Mi diede un pugno mentre le compagne mi bersagliavano di ghiande urlando maiale.
Mia moglie in prima fila gridava più di loro: "Faglielo vedere, Tinto! Tiratelo fuori così scappano".
"Tinta" Cipriani, figlia del suo tempo e dell'Harry's Bar.
Donna fantastica. Mi presentai all'Harry's con i muscoli in vista: "Vorrei invitarla al cinema, danno
Monsieur Verdoux". Accetta. Entriamo. Chaplin mi rapisce e dimentico i miei doveri di maschio.
Tinto Brass
Lei delusissima.
Rimanemmo anche al secondo spettacolo. Con piena soddisfazione. La mia Tinta sapeva dove andare e
aveva le idee chiare. Quando le chiesi di seguirmi a Parigi sprecò due sole lettere: "No".
Tinto Brass partì ugualmente.
La città della mia vita. Libertà. Invenzione. Divertimento. Le proiezioni alla Cinémathèque. Le notti a
parlar di cinema chiudendo i bistrot con Chagall. Le cene con Truffaut, Godard e la banda di belle
speranze chiamata Nouvelle Vague.
Chi preferiva?
Truffaut era disimpegno, Godard rabbia. Uno più allegro, l'altro più interessante. Jean Luc non avrebbe
mai girato Effetto Notte, ma poteva tranquillamente inquadrare un cazzo enorme in primo piano.
Andavo a Parigi tutte le volte che potevo. Stavo per collaborare con Ivens e intanto lavoravo come aiuto
regista per Il Generale Della Rovere. Rossellini girava con la mano sinistra, era in un momento di sopiti
entusiasmi e si annoiava terribilmente. Io anche. Lo convinsi a spedirmi in Francia perché sapevo dove
trovare immagini splendide della Milano occupata alla Pathè. Sette giorni di gaudio.
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tintobrass
brs04 tinto brass regalo
Però è tornato.
Sono nato in Italia. Papà era il Vice Podestà di Venezia. Figlio di un'ebrea geniale, vigilava su una famiglia
fascista, ma relativamente libertaria. I soldi per andare al bordello li ricavavo dal "furto" dei suoi libri. Un
giorno entra dal rigattiere, ne apre uno e trova la sua sigla.
Si arrabbiò?
"La prossima volta chiedimeli", così disse. Il Paese era un po' rigido, la necessità di frequentare
assiduamente i casini, irrinunciabile. Tra me e mio padre i rapporti furono alterni. I miei mi cacciarono di
casa. Cambiarono le serrature. Mi consideravano un irrecuperabile. Litigammo: "Spero di non vedere più
la tua faccia da stronzo". Per anni papà è stato un estraneo. Sono andato a trovarlo prima che morisse.
Sapevo di dovergli dire qualcosa di importante, ma non lo feci. Se ne andò poco dopo. L'ultimo pianto
della mia vita.
Tinto Brass e Debora Caprioglio
tinto brass
06scena
Sua madre?
Non andai neanche al funerale. Non credo nella liturgia del rapporto di sangue. Ci si piace, ci si detesta,
non ci si sceglie, soprattutto.
Al cinema è diverso.
Sulle mie attrici non tolleravo intrusioni. Le sceglievo io, come facevo con la biancheria intima che
indossavano in scena, ma non sempre ho realizzato i miei desideri. Ne La chiave avrei voluto Sofia Loren.
Carlo Ponti sbottò: "Hai per caso lo sperma nel cervello?".
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Optò per Stefania Sandrelli.
Alla proiezione assiste senza dire una parola e fugge via. Penso sia rimasta disgustata e mi preparo al
peggio. Poi leggo i giornali. Lei sfrontata, allegra: "Son felice di aver dimostrato di saper recitare anche
con il culo". Le voglio bene. È stata l'unica a non rinnegarmi. L'avrei voluta dirigere ancora.
tinto brass KickTheCock
Invece?
La chiave, un trionfo, l'aveva resa irraggiungibile. Per il film le avevo corrisposto 16 milioni. La volta
successiva me ne chiese 600. La mandai affettuosamente a cagare.
brass7
Claudia Koll?
Prima della deriva mistica, favolosa. Ai provini sapeva come muoversi e come spogliarsi. Al pari di Serena
Grandi e di Anna Galiena. Quest'ultima venne qui per Senso 45, tirò una tenda e scatenata, si denudò:
"Ho poco pelo lì". Il film non riuscì, in certi casi voleva la controfigura, e io: no! La considero la meno
intelligente di tutte quelle che ho incontrato.
Cova rancore?
Mai. Né rancore né rimpianti. A volte mi incazzo, se devo mandare a fare in culo qualcuno lo faccio e sul
set sono severo. In Io Caligola, dopo mesi di accordi alla lettera, Maria Schneider tentò di fregarmi.
Pretendeva di indossare una tunica cucita fino ai piedi. Grido come un pazzo: "Stop, stop, stop". La
caccio. Mi fece causa denunciandomi ad Amnesty International per violazione dei diritti umani.
Però.
Poveretta. Pensi che su Paprika le ragazze erano entusiaste: "Recito volentieri per lei perché almeno
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nella finzione bisogna essere un po' porche". Poi la vita è la vita e il cinema, solo cinema.
TBrass salon kitty
stefaniSandrelliLaChiave
Francesca Dellera?
Gioiosa. Vitale. Berlusconi vide le foto di Capriccio e se ne incapricciò. Tormentava l'addetto stampa:
"Come posso incontrarla?". La trovo e allora iniziarono le chiamate a me e a mia moglie: "Che devo fare?
Lo incontro?". E noi all'unisono: "Vai cara".
Mai avuto storie con le sue attrici?
Neanche una. Quello che accadeva dopo il film era solo a favore del marketing.
Ma come, proprio lei? Impossibile...
Invece è proprio così, ho una forma di timidezza malcelata. Non dico di essere stato monogamo (e
scoppia a ridere), ma il lavoro è un'altra cosa.
LOCANDINA TINTO web
Los Burdeles De Paprika
È vero che voleva portare in tv la culologia?
Verissimo. Roberto D'Agostino mi aveva omaggiato in Mutande Pazze e io pensai di proporre una
rilettura della più soave delle visioni. Quella che porto nel cuore e nel cognome. Vero Caterina?
(Al suo fianco siede Caterina Varzi, sorridente avvocato calabrese, attrice, musa, amante: "La donna che
amo di più" flauta Tinto e ora anche biografa. Per Tea, in primavera è in uscita "Maio vedo più in là". Un
libro che raccoglie 80 anni di avventure)
"Brass the ass". Il Culo.
Il culo è più onesto della faccia, ma a volte il culo coincide con la faccia stessa. Poi guardate, il mio caso è
strano. È come se il Cantico del culo avesse cancellato tutto il resto. Il cinema serio, la sperimentazione,
la cultura, i miei inizi. Quando era direttore a Torino, Moretti mi chiamò per discutere del mio Chi lavora
è perduto. Fu adorabile. Ci eravamo sempre combattuti. Avevo stroncato il Caimano e mi era scappato
un giudizio poco benevolo sul suo cinema.
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imagen
locandina DEF
web
Cosa aveva detto?
Che aveva funzioni lassative. È stato spiritoso, Nanni. Come Sordi e la Vitti conosciuti nel '64 sul set de Il
disco volante, o le domeniche con Antonioni, tra il ping-pong e la gioia pura. Michelangelo era un amico
fraterno, ma di cinema non parlavamo mai. Io consideravo Deserto Rosso soporifero e battute come "Mi
fanno male i capelli" imperdonabili, ma gli volevo veramente bene.
Tra un mese compie 80 anni. Malinconia?
(Si ferma. Arriccia il naso. Muove gli occhiali, gli brillano gli occhi) All'ultimo che me lo ha detto, gli ho
tolto il saluto.
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Gabriele Pantucci per "la Repubblica"
jack kerouac
A Manhattan 290 volte. A Washington 30. 37 in California... 10 a Brooklyn... Ma altrove sono già 355. E
la lista continua con il New Jersey, il Messico, Londra, Parigi... Una moderna versione di quello che con i
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suoi toni di basso profondo Leporello declama in
Madamina il catalogo è questo...
È la versione contemporanea che ci offre Jack Kerouac. Più generoso di informazioni del servo di Don
Giovanni creato da Mozart e Da Ponte che si ferma al numero di donne ripartite per nazioni (In Ispagna
son già milletré), Kerouac ci offre i nomi delle conquistate, i luoghi in cui sono avvenute le conquiste e il
numero di volte in cui è stato a letto con ciascuna amante.
jack kerouac
La lista autografa delle amanti dello scrittore c'è, ma nessuno l'ha mai pubblicata. L'erede John Sampas
non lo permette. In pochi ne conoscono l'esistenza. Il manoscritto si trova alla Berg Collection della New
York Public Library ed è lungo 87 nomi di donne. Non dovremmo sorprenderci di tanta precisione perché
già sappiamo quanto l'autore di
On The Road fosse metodico nel conservare tutto il suo materiale di lavoro. Adesso si può dire che
faceva lo stesso con la vita sessuale.
jack kerouac3
Ce lo descrive così Ann Charters, autrice della prima biografia di Kerouac e curatrice dei due volumi di
lettere. La Charters, oggi docente di Letteratura Americana alla University of Connecticut, lo incontrò nel
1966 a Hyannis, quando lo scrittore le chiese di collaborare con lui. La studiosa trasecolò quando si rese
conto dell'ordine meticoloso con cui l'autore conservava quanto aveva scritto: gli originali delle sue
opere, le lettere ricevute e le copie di quelle inviate, tutto sistemato in cartelline scrupolosamente
etichettate.
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jack kerouac rotolo
L'elenco delle donne di Kerouac si apre con il nome di Edie. Ovvero Frankie Edith Parker, di pochi mesi
più giovane di lui, figlia di un medico del Michigan e sposata il 25 agosto 1944, a 22 anni, per ottenere il
pagamento di 105 dollari in forma di cauzione richiesta dalla polizia per ridargli la libertà. Jack era stato
arrestato per la testimonianza sospetta offerta per scagionare l'amico Lucien Carr, responsabile
dell'omicidio di David Kammerer. L'episodio è descritto con nomi alterati nel primo romanzo pubblicato
da Kerouac, La città e la metropoli.
STELLA SAMPAS CON KEROUAC jpeg
La somma richiesta dalla polizia fu pagata dalla mamma di Edie e il matrimonio consacrò un'unione di
fatto realizzata da tempo. Edie lo lasciò nel 1946, ma rimase sua amica. Accanto al suo nome Kerouac ha
scritto "100", numero che indica gli incontri sessuali con la specifica dei luoghi: New York, New Jersey,
Detroit e Ontario. Nell'elenco di amanti c'è soltanto Joan H. che vanta un numero maggiore di rapporti
sessuali: 150, tutti a New York.
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joan haverty KEROUAC
Si tratta di Joan Haverty, la seconda moglie: sposata il 17 novembre 1950. Prima della fine dell'anno
successivo, i due erano già divorziati e lei era rimasta incinta. Joan sostenne di essere stata
abbandonata. Jack, invece, la accusò di averlo cacciato di casa e di averlo tradito. Per questo rifiutò di
riconoscere la figlia Jan. La ex moglie gli fece causa per tutta la vita pur di ottenere il mantenimento.
JACK KEROUAC
Per la quantità di incontri sessuali emerge poi la numero 46 della lista, Joyce G., con 75. È Joyce
Glassman, che conobbe lo scrittore a 22 anni, quando lui ne aveva 34. Nei due anni della loro
frequentazione si scambiarono affettuose lettere che lei vendette dopo aver scritto le sue memorie,
ricavandone a sufficienza per acquistare una casetta ai bordi di un bosco. Joyce, che oggi porta il nome
di Johnson, ha scritto di recente The Voice Is All: The Lonely Victory of Jack Kerouac.
KEROUAC DODYH MULLER E ARAM jpeg
Nella lista, Joyce è preceduta da Helen W.: ventiquattrenne quando incontrò e sedusse Kerouac che
aveva 10 anni più di lei. Helen Weaver, che poi divenne una delle maggiori traduttrici americane dal
francese, in The Awakener offre un ritratto dello scrittore che spiega il successo che aveva Jack sui cuori
femminili: «Non molto alto... ma assurdamente bello».
Pare che i suoi occhi azzurri fossero fatali. Ma, dopo averlo ospitato per due mesi, Helen lo mise alla
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porta il 14 gennaio 1957. Soffriva per la mancanza di puntualità di lui, per le notti di sonno perdute
quando l'amante tornava ubriaco.
STELLA SAMPAS CON KEROUAC jpeg
Tra i nomi catalogati con un alto numero di incontri - 50 - c'è la numero 52: Dody. Non è difficile
identificarla con Dody Muller, un'artista di New York molto attraente nelle fotografie dove appare con
Kerouac. Diventò amica di Jack quando, davanti a un ristorante del Village, questi si mise a civettare con
lei sotto gli occhi di Joyce Johnson. Già stanca per le trascuratezze e inadempienze di lui, Joyce sbottò:
«Sei un pallone gonfiato». «Un amore non corrisposto è una noia» fu la risposta di lui, che causò la
rottura. Grazie a Dody, vedova dell'artista Jan Muller, Kerouac apprenderà molto sulla pittura e
conoscerà tanti artisti. Vissero insieme fino al febbraio 1959 quando lei lo lasciò perché lo considerava
troppo imprevedibile. In una lettera all'amico poeta e accademico John Clellon Holmes Kerouac lamentò
di aver perduto la donna che amava.
IL LIBRO DI EDIE PARKER SU JACK KEROUAC
C'è poi Lois Sorrels con lo stesso numero di presenze: 50 e porta il numero 51 della lista. Sposata e
divorziata, all'Università di Berkeley aveva trovato il tempo di leggere I sotterranei e di innamorarsi del
suo autore. Riuscì a farsi presentare a lui quando era in Florida e cadde subito tra le sue braccia. Quando
poi questa attraente e intelligente poetessa lavorava a New York, Kerouac la vedeva durante la
settimana e la raggiungeva a casa, a Northport il sabato e la domenica.
Poi vi comprò una casa anche lui per alloggiarvi sua madre Gabrielle. Nel seminterrato Jack e Lois
fumavano erba e bevevano ascoltando Charlie Parker e Bach. Nel 1962, trasferitosi a Orlando in Florida,
Kerouac, già debilitato dall'alcolismo, chiese a Lois di raggiungerlo. Furono in contatto occasionalmente,
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poi nella primavera 1964, lei, incinta di pochi mesi, gli chiese di sposarlo. La risposta arrivò da mamma
Gabrielle che la schiaffeggiò e la cacciò di casa.
Edie Kerouac PARKER
Perché il documento con tutte le conquiste femminili di Jack fa chiarezza su un punto. Ricorda che
l'unica donna davvero presente in tutta la vita di Kerouac sia stata sua madre: Gabrielle Levésque che,
invalida dopo un infarto, viveva con lo scrittore quando questi morì, nel 1969, a 47 anni. Era con loro
Stella Sampas, sposata da Jack tre anni prima per assicurare assistenza costante alla mamma.
L'autore fu legato a Gabrielle da un matrimonio edipico, che non si sarebbe mai sciolto. Lo aveva giurato
lo stesso scrittore. Il suo non era il complesso edipico che tormentava intellettuali decadenti come
Burroughs. Era stato in qualche modo razionalizzato da Kerouac che lo vedeva alla base del dinamismo
americano: il figlio ha bisogno di superare il padre per il bene della madre, oggetto di venerazione.
Edie Parker
Gabrielle morì quattro anni dopo il figlio lasciando tutto a Stella. Nel 2009, dopo un'azione promossa da
Jan, figlia di Jack nata dal suo secondo matrimonio, sostenuta dallo scrittore Gerald Nicosia, autore della
più importante biografia di Kerouac, il tribunale della Florida dichiarò falso il testamento che assegnava
tutto a Stella. Ma ironicamente la legge sulle prescrizioni rendeva inoperante la revoca del legato e John
Sampas, erede di Stella, continua a ricevere tutti i diritti d'autore e ha l'autorità di decidere quello che
può essere riprodotto dagli archivi venduti alla Berg Collection della New York Public Library. Ecco
perché non si può riprodurre la lista delle conquiste.
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HELEN WEAVER E JACK KEROUAC
Ma sono tutti lì, gli 87 nomi. Scritti nella grafia metodica e regolare di Kerouac: quella con cui riempiva i
taccuini che portava sempre con sé, i quaderni, i fogli protocollo e quelli sciolti oggi conservati in almeno
sette diversi archivi americani. Il moderno elenco di Don Giovanni fu compilato nel 1962 quando lo
scrittore era già molto debilitato dall'alcol e dagli eccessi. Gli appunti suoi o quelli delle donne che
continuavano a essere in rapporto con lui suggeriscono che la sua vita sessuale si era ormai conclusa.
Ann Charters
La lista, realizzata con la tipica grafia chiara in uno stampatello di maiuscole e minuscole a lettere
separate inclinate a destra è caratteristica di quelle stesure a cui Kerouac mise mano in diversi momenti
della vita. Volendo lo si potrebbe interpretare come il piano preparatorio di un lavoro futuro. Dopo il
successo di On the Road perché non prendere in considerazione On the Bed?
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--------------------da: Internazionale:
Sono fan del tuo podcast Savage Lovecast da tanto tempo, ma ho sentito il bisogno di scriverti dopo aver
ascoltato lo stupendo discorso di Marty Klein sugli equivoci che circondano la cosiddetta
“sessodipendenza”. Io ho 27 anni, e per buona parte della mia vita adulta ho costantemente avuto
problemi sessuali con le mie partner. Mi vergognavo, pensavo di essere sessualmente troppo incasinato
per avere una compagna, e questo perché mi piace il sesso un po’ insolito (mi eccitano i collant e le
calzamaglie).
Avevo anche paura di cercare aiuto, per timore di essere etichettato come “anormale” o
“pornodipendente”. Le cose sono un po’ migliorate grazie a una partner comprensiva, anche lei
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Post/teca
fantasiosa a letto, amante del porno e con un approccio al sesso positivo. Anziché sentirmi meglio, però,
i problemi continuo ad averli. Mi sai dare qualche dritta decente per trovare uno psicologo sex positive
come il dottor Klein? Diverse persone mi hanno consigliato un tizio che si definisce “terapista qualificato
nel campo delle sessodipendenze”, e io ho paura che si tratti esattamente di uno di quegli psicologi
inutili e moralisti di cui parlava il dottor Klein nel tuo podcast.
NON-Addict Despite Dumb Intolerant Counselors’ Theories
“Se la gente sapesse quanta poca formazione sessuale riceve la maggior parte degli psicologi,
rimarrebbe a bocca aperta”, dice il dottor Marty Klein, sessuologo, consulente matrimoniale,
psicoterapeuta e scrittore. “Uno può ottenere la licenza di consulente matrimoniale senza mai aver
sentito nominare le parole ‘clitoride’, ‘vibratore’ o ‘porno amatoriale’. Ragion per cui la domanda ‘come
faccio a trovare uno psicologo valido per le questioni sessuali?’ è estremamente importante”.
Klein ti consiglia di cominciare mettendoti in contatto con un buon consultorio della tua zona,
specializzato in educazione sessuale, tenendo però presente che “non tutti quelli che ci lavorano
potrebbero condividere i suoi stessi valori”, dice Klein. “Ecco cosa dovrebbe chiedere NON-ADDICT a un
potenziale terapista: ‘Quali sono i suoi valori in campo sessuale?’, ‘In cosa pensa che consista una
sessualità sana?’, ‘Le crea problemi parlare di pratiche sessuali insolite?’, ‘Crede che il sesso monogamo,
eterosessuale, esclusivamente genitale sia a conti fatti migliore di altre pratiche pur consensuali?’”. Uno
psicologo sex positive, che è quello di cui hai bisogno tu, deve rispondere a domande dirette come
queste già al telefono, prima ancora di darti appuntamento per una seduta. “E in ogni caso,
indipendentemente dalle risposte, se si ha la sensazione che questa persona sia a disagio nel parlare di
sesso, bisogna passare al candidato successivo”.
Klein dice che esistono molti modi per trovare nella propria zona uno psicologo progressista e sexpositive. “Basta contattare con un consultorio locale o un centro Lgbt, con un ginecologo o un urologo,
con un docente universitario che si occupi di questioni sessuali o con un avvocato divorzista della zona”,
suggerisce Klein. Potresti perfino chiedere a un prete. “Ci sono preti che per i problemi sessuali fanno
riferimento a psicologi della zona, alcuni dei quali sono piuttosto aperti”.
Se volete sentire il dottor Klein chiacchierare con me di pornografia e racket della “sessodipendenza”,
andate su The Stranger lovecast e ascoltate l’episodio 326. Il suo brillante attacco all’industria della
sessodipendenza “You’re addicted to what? Challenging the myth of sex addiction” (uscito sulla rivista
The Humanist del luglio-agosto 2012) si trova su tinyurl.com/addictedtowhat. Per saperne di più sul
dottor Klein e il suo lavoro, visitate martyklein.com.
Poco tempo fa ho beccato il mio ragazzo a guardare un porno. Ne avevamo già parlato, e lui mi aveva
detto che quando stava con qualcuno non ne guardava. Ma io, quando l’ho beccato lì con l’uccello in
mano, non ci ho visto più. Non mi sono mai sentita tanto ferita e tradita. È la prima relazione seria che
ho, e non riesco a superare il senso di disgusto e la tristezza. È giusto che sia così sconvolta? Era un porno
interattivo, come se stesse facendo sesso virtuale con una sua ex. Cosa devo fare?
Sad And Deceived
Ma il tuo ragazzo stava davvero facendo sesso virtuale con un’ex fidanzata? Oppure ti ha fatto
semplicemente lo stesso effetto? Io farei una distinzione netta, SAD, perché se è vero che qualsiasi
forma di pornografia vìola le regole del vostro rapporto, interagire online con una sconosciuta, che
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Post/teca
peraltro è assai probabilmente una professionista, non dovrebbe farti sentire così minacciata.
Ma facendo un grande passo indietro: il tuo fidanzato non avrebbe dovuto mentirti, SAD, ma anche tu
non dovevi essere così ingenua da credergli. Se proprio non puoi perdonarlo per aver mentito, se non
riesci a metterti nei suoi panni cercando di capire come mai ha sentito il bisogno di mentire su questa
cosa (vergogna, paura, desiderio di non ferirti), allora la vostra relazione non ha futuro. Chiudila e trovati
un nuovo fidanzato. Ma quando anche il prossimo fidanzato ti dirà che lui di porno non ne guarda, sappi
che tu penserai “Cerrrrrrrto, come no”.
Chiedi al tuo nuovo fidanzato di essere discreto e di fare in modo che tu non ti accorga che guarda dei
porno, perché la cosa ti mette a disagio. Se è disposto a fare questo per te, SAD, se è abbastanza
rispettoso da coprire le sue tracce, allora tu dovresti essere a tua volta abbastanza rispettosa da
chiudere un occhio su quelle rare occasioni in cui ti capiterà comunque di trovare qualche indizio che il
tuo nuovo fidanzato guarda i film porno, proprio come il tuo ex e tutti quelli che lo seguiranno.
Ho chiuso una relazione di due anni e mezzo sei mesi fa. Per chiuso intendo che lui ha preso tutte le mie
cose e le ha sbattute sul prato davanti a casa, come nei film! Il motivo è stato che aveva spiato nella mia
casella di posta elettronica, leggendo una serie di email molto esplicite su un’avventura che avevo avuto
in Messico qualche settimana prima.
Ecco le giustificazioni da ST che gli ho dato:
1) Noi due eravamo in pausa, e io mi stavo facendo ospitare da alcuni amici per sottrarmi alle sue crisi di
rabbia e ai suoi abusi emotivi. Comunque continuavamo a vederci e un paio di volte siamo pure finiti a
letto.
2) Si rifiutava di fare sesso orale, o meglio, di farlo a me.
3) Quando in passato avevo cercato di lasciarlo, lui aveva minacciato di suicidarsi.
4) Aveva un sacco di manie sessuali strane e trascorsi di infedeltà, e quando non volevo partecipare a
un’ammucchiata mi diceva che avrebbe cercato altrove.
Con lui non mi sentivo mai sicura né sul piano sessuale né su quello emotivo, e per una sera, mentre ero
in Messico, mi sono presa una vacanza da una relazione di merda. Mi ha ridato energia, mi ha fatto
sentire attraente e mi ha fatto provare cosa vuol dire avere a che fare con un adulto sano di mente. Ha
funzionato da catalizzatore per tirarmi fuori dal tipo di relazione che voleva lui e se dovessi scegliere lo
rifarei. Rientro nella categoria ST?
My EX Isn’t Completely Obtuse
Per chi si fosse appena messo all’ascolto: in questa rubrica, ST significa “Stronzo Traditore” (o “Stronza
Traditrice”) e indica qualcuno che tradisce senza nessun motivo. E no, MEXICO, non rientri nella
categoria. Tu i motivi ce li avevi: volevi uscirne, ci hai provato, ma non ce la facevi perché il tuo ex,
essendo pazzo, ha sostanzialmente preso se stesso come ostaggio, minacciando il suicidio (che è una
tattica tipica di chi abusa degli altri, segnatevelo bene). Infantile, manipolatore ed egoista com’è, il tuo
ex non voleva lasciarti andare in santa pace. Da parte tua, tradirlo e farsi beccare non sarà stata una
strategia conscia, MEXICO, ma l’hai messa in atto alla perfezione.
Traduzione di Matteo Colombo
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Post/teca
-----------------------curiositasmundi ha rebloggato pragmaticamente
“La seduzione non si basa sul desiderio o sull’attrazione: tutto questo è volgare meccanica e
fisica carnale, nulla di interessante. Certo, il fascino della seduzione passa attraverso
l’attrattiva del sesso. Ma, propriamente, vi passa attraverso, la trascende. Per la seduzione,
infatti, il desiderio non è un fine, ma un’ipotetica posta in gioco. Anzi, più precisamente, la
posta in gioco è provocare e deludere il desiderio, la cui unica verità è brillare e restare
deluso.”
—
Jean Baudrillard (via kalasum)
Fonte: kalasum
----------------------costalongu
“Tutti siamo umidi e nessuno è impermeabile.”
—
Costantino Longu
-------------------puzziker ha rebloggato falcemartello
“La verità è che la verità cambia.”
—
Friedrich Nietzsche (via mroblivion)
Fonte: mroblivion
---------------------il Post:
Le autorità della città russa di Volgograd – oltre un milione di abitanti sulle rive del Volga, poche
centinaia di chilometri a nord del Caucaso – hanno votato all’unanimità giovedì 31 gennaio per cambiare
ufficialmente il nome della città per alcuni giorni ogni anno in Stalingrado, come era chiamata durante
l’Unione Sovietica.
Il nome ufficiale sarà “città eroica di Stalingrado” e sarà usato nei documenti pubblici e nei discorsi che si
terranno sabato 2 febbraio per commemorare la fine della celebre battaglia della Seconda guerra
mondiale che si combatté nella zona. Sergei P. Zabednov, il politico locale che ha redatto la proposta con
il sostegno delle associazioni dei veterani, ha detto al New York Times che le previsioni del tempo
radiofoniche e televisive potranno usare il nome “Stalingrado” e che anche l’orario dei treni nella
stazione ferroviaria potrebbe essere modificato.
Il 2 febbraio 2013 sarà il 70esimo anniversario della vittoria sull’esercito nazista da parte dei sovietici,
che concluse sei mesi di violentissimi combattimenti attraverso l’inverno del 1942-1943, in cui morirono
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Post/teca
circa 2 milioni di persone. L’Armata Rossa riuscì ad accerchiare la Sesta Armata del generale Friedrich von
Paulus, facendo circa 100 mila prigionieri. La battaglia è considerata uno dei punti di svolta della
Seconda guerra mondiale. Oltre al 2 febbraio, Volgograd tornerà al suo vecchio nome in altre cinque
date simboliche della vittoria dell’Unione Sovietica nella guerra, tra cui il 9 maggio (resa della Germania)
e il 22 giugno (inizio dell’invasione nazista).
In origine Volgograd si chiamava Tsaritsyn e si chiamò così per centinaia di anni, sin dalla sua fondazione
nel Cinquecento. Negli anni Venti la città venne però dedicata a Stalin, in onore del leader dell’Unione
Sovietica che stava diventando tale proprio in quegli anni. Nel 1961, durante gli anni del rifiuto del culto
della personalità stalinista, alla città venne cambiato di nuovo il nome in un più neutro “Volgograd”,
“città del Volga”.
Il cambio temporaneo di nome di Volgograd-Stalingrado è solo l’ultimo esempio del patriottismo e della
retorica nostalgica nei confronti dell’URSS della Russia di Putin. Mentre nel resto del mondo Stalin è
ricordato soprattutto per i suoi crimini e per la sanguinosa repressione dei veri o presunti dissidenti degli
anni Trenta, in Russia molti lo celebrano ancora oggi attribuendogli la vittoria della Seconda guerra
mondiale e la trasformazione dell’URSS in una superpotenza industriale. La retorica nazionale promossa
dall’ex ufficiale del KGB Vladimir Putin, pur senza suoi espliciti tentativi di riabilitazione di Stalin, ha
come effetto che, secondo i sondaggi, il numero di russi che definisce “negativo” l’operato di Stalin sia in
costante calo.
Negli ultimi anni ci sono state molte proteste da parte delle associazioni dei diritti umani e della debole
opposizione politica russa nei confronti di iniziative come la revisione dei libri di testo scolastici, che
mettono Stalin in una luce più positiva, oppure il restauro di una stazione della metropolitana di Mosca
comprensivo della decorazione in cui i versi dell’inno nazionale sovietico lodavano l’ex dittatore.
Le autorità di Volgograd, così come quelle di San Pietroburgo e di Chita, in Siberia, hanno deciso che il 2
febbraio gli autobus delle loro città saranno decorate con grandi ritratti di Stalin, un’iniziativa molto
controversa che è già stata presa alcune volte negli ultimi anni. Ad ogni modo, chi ha promosso il cambio
del nome dice che non intende ristabilire il dittatore, ma dare “rispetto” ai veterani della Seconda guerra
mondiale.
Foto: l’interno del memoriale per la Battaglia di Stalingrado durante la visita dell’allora presidente russo Medvedev
a Volgograd, Russia, 25 marzo 2010.
(AP Photo/RIA Novosti, Mikhail Klimentyev, Presidential Press Service)
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-------------------------maewe
PREVIOUSLY ON TUMBLR WEEK BOOBS
Settimana in cui non seguo i vostri flame perché avete scassato 3/4 di minchia.
C’è però tanto romanticismo in dash, nella fattispecie di “ti farò venire come il Brenta in piena”
(parole parole parole)
3nding è sempre più innamorato, e a noi ci piace. Poi però fa il vecchio che si spaventa e sgrida i
bambini tirandogli le orecchie, viene denunciato dai genitori e arrestato. Ora è in prigione e gli
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Post/teca
portano i ravioli all’arancia.
unoetrino ha la barba che sembra un talebano. O un rabbino. O eclipsed.
Pokoto ha un esame ma non ne vuole parlare.
Quartodisecolo voleva fare il fumettista ma è finito a fare il wannabe boscaiolo.
Nasce il più bel meme italiano (lo è, STFU): Bersani Vittorioso
Django
Django
Django
Tette
Django
Si parla di pasta all’uovo e ribadisco che gli emiliani devono stare tranquilli, che poi la pressione
alta e l’uovo non vanno d’accordo.
Esce un corto della Disney che su fb “XY e altri TRE GAZILLIONI DI TUOI AMICI shared:”
(basta)
Ridere
Ridere
Trattino non mi vuole più bene
Emily comincia i tumblr games ma si arrende quasi subito
E’ tornato UDS ma non si è capito bene perché sia così interessante
------------spaam ha rebloggato waxen
“Per ogni conto che viene abbandonato, un banchiere piange e si contorce tra atroci
sofferenze. Per ogni conto che viene abbandonato, migliaia di investimenti speculativi vengono
messi in pericolo e centina di consulenti finanziari ridotti a miseri stipendi medio-altissimi.
Per ogni conto che viene abbandonato, il capitalismo collassa un po’ e tu finisci per dare
automaticamente ragione a quel barbone di Marx. Non lo fare, contribuisci anche tu a salvare
le banche. Non abbandonare il tuo conto. Se lo abbandoni, il vero bastardo sei tu.”
—
Fonte: diecimila.me
-------------lachimera ha rebloggato pezzi-di-vetro
“Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
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La resa dei conti - Diecimila.me (via waxen)
Post/teca
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.”
—
C. Pavese (via pezzi-di-vetro)
---------------kon-igi ha rebloggato microlina
microlina:
kon-igi:
““La donna è un errore della natura … con la sua eccessiva secrezione di liquidi e la sua bassa
temperatura essa è fisicamente e spiritualmente inferiore … è una specie di uomo mutilato,
fallito e mal riuscito … la piena realizzazione della specie umana è costituita solo dall’uomo.””
—
Tommaso d’Aquino, Santo e dottore della Chiesa, 1225-1274. (viabaustellina)
Vabbé l’eccesso di secrezioni, ma dal commento sulla temperatura si capisce che frequentava
solo donne dai piedi freddi.
cazzo avete contro le donne con 35°C di temperatura corporea e i piedini freddi?
Niente, se se ne stanno zitte e buone a tenere in fresco la lattina di birra tra le caviglie.
Fonte: baustellina
---------------addictions:
(via Robert Liston « Bizzarro Bazar)
Ma forse il più famigerato incidente avvenne durante un’operazione nella quale per sbaglio,
nell’agitare il coltello, recise le dita al suo assistente, e tagliò attraverso il vestito di un distinto
spettatore: anche se non era stato ferito, quest’ultimo ebbe un infarto dallo spavento e crollò
morto; l’assistente e il paziente morirono in seguito di cancrena. Questa incredibile tragedia è
passata alla storia come l’unica operazione chirurgica che abbia mai avuto una mortalità del
300%.
Fonte: bizzarrobazar.com
-----------------
Le nuove droghe stanno trasformando il mercato degli stupefacenti in Europa,che oltre che luogo di
consumo è anche un forte centro di produzione. Sul web spopolano le nuove pillole, anche se le droghe
più consumate rimangono la cannabis, fumata da più di venti milioni di europei, e la cocaina, “tirata” da
circa quattro. L’eroina rimane ancora il maggior pericolo per la mortalità da droga.
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Post/teca
NUOVO RAPPORTO - Ieri è stata pubblicata la prima relazione congiunta dell’Osservatorio europeo sulle
droghe e le tossicodipendenze (Oedt) e dell’Europol sul mercato europeo degli stupefacenti. Le due
agenzie dell’Ue, spiega la Commissione, hanno unito le loro forze per realizzare la prima analisi
strategica del mercato europeo delle droghe illegali nel suo insieme. Secondo il rapporto l’Europa “e’ alle
soglie di una nuova era per quanto riguarda l’offerta e la domanda di droghe illecite, il cui sviluppo
mette a dura prova le attuali risposte politiche”. Il rapporto evidenzia un mercato sempre più dinamico,
innovativo, dove gioca un ruolo centrale la rete. Il traffico di stupefacenti mostra inoltre il nuovo volto
della criminalità organizzata continentale. Il mercato della droga, storicamente imperniato sulla
produzione e vendita illegale di determinate sostanze stupefacenti a opera di trafficanti specializzati,
attraverso rotte ben definite, sta diventando sempre più “fluido” e si caratterizza per la comparsa di
nuove rotte e di spedizioni multiple.
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Post/teca
SFIDA CRIMINALE - Secondo Cecilia Malmstroem, Commissaria dell’Ue per gli Affari interni, “i gruppi
della criminalità organizzata sono più propensi a trafficare contemporaneamente più sostanze
stupefacenti e tendono a coalizzarsi tra loro. Il traffico tende anche a diversificarsi, sia dal punto di vista
della complessità delle rotte scelte, sia per i tipi di droghe che vi transitano. Questa evoluzione esige una
maggiore cooperazione nell’ambito dell’Ue. Le misure predisposte a livello nazionale, per quanto
energiche, non sono più sufficienti”. Rob Wainwright, il direttore dell’Europol, evidenzia come il traffico
internazionale di stupefacenti sia la principale attività delle mafie europee. L’utilizzo dei mezzi di
trasporto commerciale è sempre più diffuso. Le droghe circolano grazie a container, aerei, corrieri e
servizi postali abitualmente utilizzati nella movimentazione merci del settore privato. Per questi motivi il
direttore dell’Europol sottolinea come sia sempre più difficile individuare il traffico di sostanze
stupefacenti e contrastarlo.
CENTRO DI PRODUZIONE - La relazione mette in rilievo anche il ruolo dell’Europa come uno dei
principali produttori mondiali del precursore chimico impiegato nella produzione di eroina, l’anidride
acetica, nonché la sua responsabilità, nel confezionare, commercializzare e promuovere prodotti a base
di nuove sostanze psicoattive. “L’Ue e’ un’importante regione produttrice di droghe sintetiche e, in
misura crescente, di cannabis”, osserva Wolfgang Götz, direttore dell’Oedt.”Sta prendendo piede la
tendenza a produrre droghe nelle vicinanze dei potenziali mercati di consumo, dove e’ meno probabile
che vengano intercettate. Questa evoluzione – prosegue – ci costa sempre più salata in termini di
sicurezza collettiva, salute pubblica e onere imposto alle già limitate risorse della polizia”. –
Considerevole e’ anche l’influenza di internet, sia come mezzo di comunicazione che come punto di
vendita online. Non solo. Il vecchio continente e’ una “fonte di competenza e perizia” in materia di
coltivazione intensiva di cannabis, produzione di droghe sintetiche e occultamento di cocaina.
CONSUMO IN EUROPA - La cannabis è lo stupefacente di gran lunga più utilizzato in Europa. 80 milioni
di cittadini ammettono di averne fatto uso nella vita, mentre l’anno scorso dovrebbero essere stati 23
milioni quelli che hanno fumato regolarmente la marijuana o l’hashish. La statistica forse più
interessante è che l’Olanda, dove le droghe leggere sono state liberalizzate, è il paese che ha
sequestrato il maggior numero di piante. L’Italia è seconda con un milione di unità, e da noi passa o
rimane il 30% dell’hashish europeo. La seconda droga più apprezzata è la cocaina, con quattro milioni di
tiratori della polvere bianca, anche se il numero reale potrebbe essere superiore. Nell’arco di una vita i
consumatori di cocaina sono stimati in 15 milioni, un numero di poco superiore alle anfetamine. Il
nostro paese, insieme a Spagna, Regno Unito, Irlanda e Danimarca, è il luogo dove si registra il maggior
consumo di polvere bianca. I dipendenti da eroina sono circa 1 milione e mezzo, e per tasso di mortalità
questa continua ad essere la droga più pericolosa. Le autorità europee continuano ad essere contrarie
alla liberalizzazione delle droghe leggere. ” Wolfgang Götz, direttore del Centro di monitoraggio,
ammette che “il consumo della cannabis è diffuso, ma abbiamo tre milioni di persone che fumano tutti i
giorni e hanno problemi psicologici che prima non c’erano. Si alza il numero di chi chiede un trattamento
medico. È un fatto che non si può trascurare”.
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Post/teca
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via: giornalettismo
------------------carnaccia ha rebloggato unaqualunque
unaqualunque:
“Certe persone sono sincere come un uomo quando dice ad una donna “Con te è amore, con le
altre è sesso”.”
—
con te è amore, con le altre è SPESSO
-----------------microsatira
Brasile, tenta di uccidere il marito col veleno sulla vagina. Gravissimo il cane.
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Carlo Freccero
Stefania Rossini per "L'Espresso"
Trent'anni di televisione commerciale hanno formato il gusto medio del Paese, la sua ideologia politica,
l'adesione e il consenso al berlusconismo», annuncia subito Carlo Freccero a chi prende in mano il suo
nuovo libro, "Televisione", in uscita in questi giorni per le edizioni Bollati Boringhieri. Ma aggiunge: «Ora
però è finita. Con l'avvento del digitale assistiamo all'agonia della tv generalista e alla nascita di qualcosa
di nuovo».
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Post/teca
Chi ama la televisione, ma anche chi la detesta, si ritroverà nelle pagine scorrevoli e dense di questo
trattatello che è insieme l'autobiografia intellettuale di un protagonista e l'analisi impietosa di un mezzo
che ha dominato il nostro sentire per trent'anni, modificandoci nei comportamenti e nella percezione
della realtà. Ma che ora, avviato al tramonto, ci lascia nelle braccia multiple, diversificate, specializzate,
in sintesi più democratiche, dei nuovi media.
SILVIO BERLUSCONI jpeg
Eppure, Freccero, mai come oggi c'è la corsa ad apparire in televisione. La campagna elettorale si
svolge tutta lì.
«È vero, ma questo accade perché nonostante la sua crisi e l'avvento di altri metodi di marketing
politico, la televisione generalista resta il riferimento centrale, e spesso unico, per un pubblico anziano,
culturalmente poco attrezzato e facilmente influenzabile. I sondaggi dicono che la tv può condizionare il
75 per cento dell'elettorato, dato che in Italia soltanto il 25 per cento si documenta altrove».
È per questo che Berlusconi l'ha rioccupata in tutti i suoi spazi?
«L'ha fatto in quel modo massiccio perché il suo spettacolo si era interrotto e lui doveva riannodarne il
filo per riportare il discorso pubblico sul proprio terreno. È un attore formidabile. Con le sue apparizioni
ha smontato lo scenario montiano di ogni sacralità. La politica è tornata spettacolo e tutti hanno dovuto
inseguirlo».
BEPPE GRILLO AD UN COMIZIO
Persino Grillo.
«Già, proprio il più accurato sostenitore di Internet chiuderà la campagna elettorale in televisione. E
pensare che Casaleggio aveva dichiarato che attraverso la Rete il messaggio di Grillo si sarebbe diffuso
come quello di Gesù. Ma sui media Grillo la sa lunga, tanto è vero che tutti i suoi uomini utilizzano a
tempo pieno le tv locali».
Messa così sembra però il trionfo della tv.
«E invece la televisione come l'abbiamo conosciuta, cioè generalista e commerciale, è destinata
comunque a soccombere. Glielo dice uno che per tutta la vita ci ha fatto un continuo corpo a corpo. Ho
cominciato nel 1980 proprio nelle tv di Berlusconi, ho fatto televisione in Francia e ora dirigo Rai 4. Ho
visto il passaggio dalla tv pedagogica a quella di intrattenimento, a quella dell'infotainment. So di che
cosa parlo. È cambiato lo spirito del tempo».
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Post/teca
Come?
«Lo vediamo ogni giorno. Il passaggio dall'analogico al digitale ha permesso l'interazione tra i vari media,
ha fatto nascere televisioni tematiche destinate a pubblici individualizzati e competenti, ha dato vita a
figure inedite come quella del reporter diffuso, cioè il cittadino pronto a filmare e a diffondere un evento
di cui è spettatore. Questo pubblico attivo sta decretando la fine di quella dittatura della maggioranza da
cui è stata pervasa la nostra vita collettiva».
casaleggio-grillo
Eravamo in una dittatura?
«Nel senso che spiego nel mio libro, sì. La televisione generalista ci ha fatto vivere in un clima culturale
dove la qualità è stata soppiantata dalla quantità, e quest'ultima ha finito per costituire la verità. È il
criterio quantitativo che stabilisce se un fatto è vero o no, e lo fa attraverso un sondaggio che dà anche
l'illusione della democrazia diretta. Con la dittatura della maggioranza la norma ha coinciso con la media
statistica. Berlusconi ha dominato per vent'anni perché ha applicato alla politica questa sua filosofia
commerciale».
Come mai la sinistra non ha saputo fermare questa deriva?
«Perché la sinistra non ha mai capito niente di comunicazione. È ancora legata alla galassia Gutenberg e
non ha neanche assimilato il messaggio di McLuhan. Continua a pensare che il condizionamento
dell'elettorato riguardi, come nell'età moderna, i contenuti e non i medium stessi, il programma non le
emozioni. Solo oggi comincia a capirci qualcosa e lo abbiamo visto con Renzi. Ma la beffa è stata che
Renzi, che è poi una semplice imitazione di Berlusconi, arriva quando Berlusconi è alla fine della sua
parabola. Un fallimento».
MATTEO RENZI IN BICI
Quindi la sinistra non ha scampo.
«Può cavarsela se capisce che ora di nuovo tutto sta cambiando. Il computer, a differenza della tv,
permette di coniugare la quantità con le scelte individuali. Oggi la quantità, cioè la massa, viene
progressivamente sostituita dalla moltitudine come somma di differenze, un concetto che ho preso in
prestito da Toni Negri. Dieci anni fa polemizzai con lui proprio su questo, ma oggi ammetto che aveva
visto le cose in anticipo. Adesso penso che l'idea di moltitudine rifletta bene la gestione computerizzata
del presente: dal mercato, all'informazione, alla politica. Ma chissà se la nostra sinistra se ne
accorgerà!».
Non sarà semplice se, come lei scrive, la tv ha cambiato addirittura la nostra organizzazione del
pensiero.
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Post/teca
«Ogni medium che si affaccia rappresenta un'estensione della nostra sensibilità, ma la sua diffusione
finisce per mutarci anche nel modo di ragionare. Come la stampa aveva creato l'uomo rinascimentale,
legato alla scrittura, la tv ha disgregato quel mondo traghettandoci dal moderno al postmoderno. Con la
televisione i fondamenti del discorso pubblico, esperienza, argomentazione, contraddittorio si sono
mutati in intrattenimento. Le neuroscienze dovrebbero verificare quanto siamo cambiati. Forse
avremmo delle sorprese».
Lei sostiene che è mutata anche la nostra esperienza del tempo.
«Certo. È la stessa condizione del postmoderno a farci vivere in un eterno presente e la televisione
amplifica questa immobilità con la continua possibilità di recuperare il passato e di ripercorrerlo infinite
volte, mischiandolo con l'attualità. In Italia non c'è neanche l'obbligo di mettere la scritta "Immagini
d'archivio" sotto vecchi filmati per cui oggi si può ascoltare una dichiarazione di qualcuno con immagini
dell'estate scorsa. Ma nessuno si meraviglia. Nell'archivio permanente rimandato dalla tv, la nostra
giovinezza vive in eterno alimentando anche i miti delle generazioni successive. Per questo oggi manca
quella benefica frattura che contraddistingueva il passaggio e lo scontro tra padri e figli. È tutto un
unicum immobile».
Ci dia almeno una via di fuga, Freccero. Quando siamo davanti allo schermo tradizionale, che cosa
possiamo guardare per non soccombere? .
«Telefilm americani, amica mia, come fanno del resto tutte le persone intelligenti ancora in circolazione.
Mentre la Rai finanzia ancora sceneggiati alla Bernabei, tanto è vero che il più grande produttore di
fiction è ancora lui, i nuovi telefilm dettano il linguaggio dei tempi e mettono al bando l'ascolto distratto
tipico della televisione. Per essere capiti richiedono una concentrazione assoluta e anche visioni
successive. Reggono moltissime repliche e non si consumano. Ma comunque non disperi, le nuove
televisioni tematiche ci aiuteranno a tornare tutti intelligenti. Glielo dice uno che se ne intende».
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via: dagospia
----------------20130204
BARBARA SORRENTINI – Cantando Victor Hugo sulle
barricate di Parigi
Una delle cose che colpisce di più del film musicale I Miserabili è quello di riuscire a far
comprendere la storia, scritta da Victor Hugo nel 1862. E non è una battuta, perché, tradurre in
canzoni le pagine di uno dei classici più importanti della letteratura francese, da una produzione di
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Post/teca
Hollywood, non è garanzia di un risultato scontato. Con due ore e quaranta di canzoni, con il parlato
quasi assente (e per di più inutilmente doppiato nella versione italiana) in un contesto storico che va
dalla fine dell’epoca della Restaurazione agli ultimi fuochi della Rivoluzione Francese si rischiava
il disastro.
L’omonimo romanzo in cinque tomi di Victor Hugo ha inevitabilmente subito dei tagli, soprattutto
per quanto riguarda le descrizioni storiche, come la battaglie di Waterloo e altri episodi avvenuti
durante le Guerre Napoleoniche. Così come è assente il punto di vista sulla chiesa e il rapporto con
la religione. Ma il fulcro centrale, concentrato sui personaggi e le relazioni tra loro. Caratteristiche
umane e moti del cuore che funzionano anche senza dialoghi e che non vengono penalizzati dal
testo cantato.
La generosità di Jean Valjean (Hugh Jackman), ingiustamente condannato per il furto di un tozzo di
pane per sfamare i nipotini; la tenacia autoritaria nel tentativo di far rispettare la legge di Javert
(Russel Crowe); o la furfanteria dei Thenardier così simili al gatto e la volpe (Helena Bonham
Carter e Sacha Baron Chen); o l’innocenza di Cosette (Amanda Seyfried), la disperazione di
Fantine (Anne Hathaway) non hanno bisogno di ulteriori discussioni per esprimersi. Alcune nature
umane, un po’ stereotipate, funzionano alla perfezione anche con il bel canto. Un canto in presa
diretta, che ha impegnato tutti gli attori come fossero cantanti.
Non tutto è perfetto: l’impianto teatrale, scenografico ed esteticamente pieno di riferimenti pittorici,
così come la messa in scena, in alcune scene rasentano il kitsch, più spesso il melodramma.
E’ invece notevole, romantica e di efficace espressione rivoluzionaria, la parte che si svolge sulle
barricate a Parigi con il piccolo Gavroche martire della rivoluzione.
I Miserabili non insegna nulla sulla storia, anzi, confonde. In questo senso è lontano anni luce da
Lincoln e Tom Hooper non è Steven Spielberg. Anche se l’Oscar lo ha già vinto con il Discorso del
Re. E I Miserabili si presentano ai premi dell’Academy con 8 candidature contro le 12 di Lincoln.
Barbara Sorrentini
(31 gennaio 2013)
fonte: http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/02/01/barbara-sorrentinicantando-victor-hugo-sulle-barricate-di-parigi/
---------------------rispostesenzadomanda ha rebloggato marikabortolami
“Sto interiorizzando la raccolta differenziata, ergo vedo il mondo secondo la tassonomia
ufficiale della differenziata. Cinque sono gli Elementi Fondamentali del Tutto: Metallo, Vetro,
Carta, Plastica e Umido. Questo quando la realtà si presenta, diciamo così, in purezza. Le
perplessità cominciano al cospetto di combinazioni complicate, tipo Carta-sporca-di-sugo.
Sono convinto che ci sia qualcosa di profondo, in ciò.”
—
---------------maewe ha rebloggato mariaemma
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Francesco Pecoraro on fb (via marikabortolami)
Post/teca
La dura vita della lepre
mariaemma:
folie-p:
In questi giorni pensavo a quanto sia difficile la vita di noi gente in nomination per la Lepre
d’Oro 2013, il Premio Speciale per la Fuga dalle Relazioni Serie. La nostra vita è uno slalom tra
una serie di difficoltà, gente che ci vuole ingabbiare, complotti per attentare alla nostra libertà e
molestatori innamorati che fraintendono di continuo le nostre intenzioni. Per affrontare tutto ciò
sono necessarie delle abilità notevoli, autocontrollo e grande istinto per la strategia.
Passiamo ora in rassegna alcuni aspetti del problema:
Telefonia mobile:
Situazione tipo: se alla lepre propongono una di quelle tariffe NOITUTTIYOUANDME♥ per le
coppiette che si telefonano, verrà colta nell’immediato da rash cutanei, dopodiché risponderà:
● Lepre: Mhhh, siiiii! oppure facciamo anche che NOITUTTIYOUANDME♥ ci teniamo la
tariffa normale, dai.
● Interlocutore: Ma c’è scritto nell’offerta che posso anche aggiungere un numero Wind per
avere telefonate illimitate!
● Lepre: non-osare. (End of story).
Pernottamento:
Dopo il sesso la lepre farà una leggera, quasi impercettibile pressione sull’ospite affinché questi
capisca che deve sloggiare tornare a casa sua, perché la lepre è abituata a stare a stella marina
nel suo letto da una piazza e mezza, perciò non c’è spazio. Se poi l’ospite non sembra capire la
lepre comincerà ad irritarsi e a parlare a monosillabi finché l’indesiderato ospite non si deciderà
a levarsi dai coglioni.
Appuntamenti:
Che fare se ti propongono un innocente “Che fai stasera?” mentre tu hai un impegno
inderogabile con le serie tv? Semplice: inventare, sfacciatamente e spudoratamente. Capite che
l’inventiva è la skill di base del fuggitivo-pro.
Spazzolini da denti:
Lo spazzolino da denti nel bicchiere è l’incubo peggiore della lepre. È oserei dire il simbolo del
problema. Se una lepre vede uno spazzolino da denti nel suo bicchiere degli spazzolini da denti
in bagno prenderà una pinzetta di quelle di CSI e lo metterà sotto il naso dell’ospite dicendo in
tono minaccioso: “Cos’è questo scusa?!”.
Labeling:
Etichettare le relazioni è ormai fuori moda, è OUT, è da sfigatoni, il vero trend è il non-labeling.
Perché dare un nome a una cosa, così da renderla chiara, definita e imporre delle sane regole?
Il labeling ti può salvare la vita però, cara la mia lepre, ad esempio, nel caso in cui tu sia in
mezzo alla strada e un’auto stia per investirti, se il tuo molestatore innamorato ti urlerà “Io ti
amo! E tu?”, balzerai via con una tale velocità che riuscirai ad evitare l’auto. Mentre se te lo dirà
sul divano o a letto otterrai solo di ritrovarti inspiegabilmente sotto il tavolo della cucina mentre
ti fai scudo con una sedia, tremante.
Sesso e relazioni intime:
L’altra moda è che si può fare sesso, coccole, colazione, ti può lavare i piatti, può portarti fuori
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Post/teca
la spazzatura, puoi cucinare per lui/lei, andare al cinema, passare 8 giorni di fila insieme in
simbiosi nel letto ma: non-vuol-dire-mica-niente. Assolutamente. Perché, dovrebbe?Makes
perfect sense.
Inconscio:
Se non riuscite a fare questo intenzionalmente (e ci riuscite, tranquilli), non sarà un problema, ci
penserà il vostro abile inconscio al posto vostro. Ad esempio, se si accorgerà che un maglione
grigio grande e caldo è l’unico elemento che tradisce le sue vere intenzioni vi farà sbagliare la
temperatura della lavatrice e il maglione ne uscirà infelitrito e si restringerà diventando della
misura che da Bimbus (negozio di abbigliamento per bambini, ndr) riporterebbe l’etichetta “8-10
anni” (true-story).
Inoltre farà addormentare di schianto la lepre alle 21.30 non appena il molestatore inizierà un
qualsiasi discorso di chiarimento sulle suddette pericolosissime e inutilerrime regole.
Bene, vinca il migliore anche quest’anno.
Io sono in gara.
vi dico già da oggi che questo è il post della settimana
Fonte: folie-p
-----------------curiositasmundi
“[…]
Ormai era diventata una sorta di deformazione professionale: ripassava mentalmente le
lezioni che gli venivano impartite sulle normative, le leggi e gli obiettivi della Nuova
Repubblica Popolare Italiana. In quel periodo, per l’appunto, stavano studiano il
funzionamento del servizio pubblico. Poiché l’intero patrimonio immobiliare, le industrie,
l’erogazione dell’acqua, dell’energia elettrica, tutto era stato nazionalizzato, le spese di un
cittadino si limitavano alle bollette, al cibo, ai ristoranti, agli spettacoli, ai vestiti. Il
funzionamento dei servizi era integrato, oltre che dai proventi dell’industria e del commercio,
dal turismo, molto fiorente dopo l’opera di restauro dei monumenti, l’apertura dei musei, la
cura delle coste. Per esempio: una stanza d’albergo a Venezia, per due persone con colazione,
veniva pagata da un turista americano 250 euro, mentre ne costava alla Repubblica Popolare
50. Quindi 200 euro venivano reinvestiti nella sanità, nelle scuole o nelle pensioni. In questo
modo, spiegavano con puntiglio i docenti, le modeste trattenute sugli stipendi, unite a questi
considerevoli guadagni, generavano il servizio pubblico più efficiente del mondo: la sanità era
totalmente gratuita, così i trasporti, le scuole, gli affitti, la manutenzione delle strade, degli
edifici ecc.
[…]”
—
----------------
32
Da: Le tre leggi fondamentali, di M.Baldrati
Post/teca
Il fumetto nel 2012, in 7 tendenze
4 febbraio 2013
Più che a dicembre, il momento di tirare le somme dell’annata editoriale, nel fumetto, è gennaio.
Per una semplice ragione: ieri si è concluso il festival di Angoulême, occasione per eccellenza di
scambi, incontri, analisi e principale megafono culturale per il settore, in Francia e in Europa.
Come dovrebbe fare un buon blogger (e sentendomi in dovere di pagare un piccolo pegno, vista la
lunga parentesi da lavativo per Il Post), mi conformo al calendario per tentare un breve ‘riassunto’
dell’anno. Del tutto personale, naturalmente: le sette tendenze o fenomeni del 2012 fumettistico.
Con un occhio – un po’ strabico – sia all’Italia che allo scenario internazionale.
1. Biografie à go go
La biografia, genere editoriale tradizionalmente più anglofono e nordico che continentale, sembra
sempre più europeo, nel fumetto. In Francia – dove il genere vive un vero e proprio boom – uno dei
mantra del 2012 era «biographies-n’importe-qui», battutina pronunciata dai giornalisti o editor più
disillusi per ironizzare su una moda sempre più evidente.
In diversi casi questo filone funziona molto bene come strumento per raccontare l’attualità. Penso,
ad esempio, ai lavori di Maximilien Le Roy, che raccontano le vite di cittadini (rivoluzionari)
comuni, simboli delle difficoltà di paesi come Palestina, Vietnam, o delle nostre periferie urbane.
Penso anche a La Voiture d’Intisar (di Pedro Riera e Nacho Casanova), premio France Info BD
2012, ritratto biografico di una donna yemenita; o alla mia lettura favorita del 2012, Les ignorants
di Etienne Davodeau, auto-ritratto incrociato di un viticoltore e di un fumettista radicali, e di un
anno vissuto insieme per sfidare la reciproca ignoranza sui propri mestieri. In altri casi, invece, le
biografie aprono squarci imprevisti sulla Storia. E qui penso al recente Moi, René Tardi di Jacques
Tardi, sulla vita e la prigionia in guerra del padre dell’autore; o a La guerra di Alan di Emmanuel
Guibert, forse la più bella biografia di un “uomo qualunque” del decennio.
Nella gran parte dei casi, tuttavia, questa moda biografica sembra un’altra cosa: la versione
fumettistica del concetto di celebrity. Per fortuna non i VIP della stampa people (a quelli ci pensa
l’editore USA Bluewater), ma altri personaggi dalla variegata notorietà pubblica: da David Bowie a
Maradona, passando per Steve Jobs, Henry David Thoreau, Dian Fossey, Zelda Fitzgerald, Salvador
Dalì, Pablo Picasso, Charles Bukowski, Mark Twain, Enrico Mattei, Antonio Gramsci… Nulla di
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Post/teca
strano né di male, sia chiaro. Il racconto di personalità larger than life è un bisogno antropologico,
prima ancora che editoriale. Rimane però un dato: finita l’età degli eroi (super-), il fumetto in tempo
di crisi pare aggrapparsi ad altri eroi (real life heroes?). Soprattutto quelli della Storia e della società
civile, della cultura o dello sport.
La mia ipotesi è che la fortuna del filone dipenda da due forze. Una è il suo fare sponda con il
versante (pure in voga) del comics journalism: le biografie come inchieste nella Storia, diciamo. Ma
l’altra, e forse più importante, è il suo esemplificare alla perfezione il posizionamento culturale del
fumetto: un medium oggi più “al traino” che “alla testa” degli immaginari collettivi. Detto
diversamente, là dove antiche icone declinano (supereroi, serie ‘classiche’ da Tex a Spirou a
Disney), il boom di biografie pare il ricorso a valori sicuri di altro genere.
Sintomo di ripiegamento o “pigrizia simbolica” che sia, per fortuna questo non vuol dire che
prosperino solo libri inutilmente didascalici. E in Italia il 2012 ha offerto almeno due biografie
progettate con classe sopraffina: Sweet Salgari di Paolo Bacilieri (Coconino Press), o Enigma. La
strana vita di Alan Turing di Tuono Pettinato e Francesca Riccioni (Rizzoli Lizard).
2. Graphic journalism goes digital
Negli Stati Uniti il 2012 ha visto nascere la prima rivista di giornalismo a fumetti nativa digitale. Si
tratta della app Symbolia, un tablet magazine che unisce giornalisti e fumettisti (soprattutto donne),
in una piccola ma promettente start-up cofinanziata da International Women’s Media Foundation,
McCormick Foundation e J-Lab. L’offerta è chiara: sei uscite l’anno per 11.99$, oppure 2.99$ a
numero. E tra i primi contributors ci sono autrici come Sarah Glidden e Suzie Cagle.
Nella stessa linea il progetto francese La revue dessinée, il cui debutto è avvenuto in questi giorni di
festival di Angoulême, e che ha raggiunto il suo obiettivo di pre-abbonamento online in soli tre
giorni. I fondatori sono cinque autori e un giornalista, proprietari all’80% (con un 20% a Gallimard
e altri piccoli soci): Franck Bourgeron, Olivier Jouvray, Kris, Virginie Ollagnier, Sylvain Ricard et
David Servenay. Il modello di offerta è differente: quattro uscite l’anno, ma sia in versione cartacea
(circa 15€) che digitale (5/6€). Sempre in questi giorni si è vista la preview di un altro magazine
digitale francese, Professeur Cyclope, animato da un gruppo di autori particolarmente noti e
apprezzati: Gwen de Bonneval, Brüno, Cyril Pedrosa, Hervé Tanquerelle, Fabien Vehlmann. Il
progetto è un mensile di un centinaio di ‘tavole’, prodotto dalla rete tv francotedesca Arte,
disponibile sia gratuitamente (per la lettura online, entro un mese), che a pagamento (per la lettura
su dispositivi portatili).
Insomma, la tendenza del comics journalism non si ferma. E anzi guarda avanti con nuove imprese,
guidate peraltro dagli stessi autori. Peccato che in Italia, cui non mancano certo talenti creativi,
continuano a latitare le capacità organizzative – e forse un pizzico di volontà.
3. Riedizioni curatorial
Sono ormai dieci anni che il fumetto moltiplica progressivamente l’offerta di riedizioni. Una
tendenza che ha permesso recuperi importanti, riportando alla luce capolavori fuori catalogo o
persino mai ristampati, spesso in edizioni ‘complete’ di splendida fattura. Ma dopo tante collane,
dai Peanuts a Popeye a Gasoline Alley a Calvin&Hobbes, le riedizioni più recenti mostrano come
l’asticella della “qualità della memoria” si sia ulteriormente alzata. Un po’ perché i classici più
celebri sono ormai tutti usciti; un po’ perché recupero non significa solo ristampa filologica. E il
risultato è un fermento sempre più sorprendente. In due direzioni.
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Post/teca
Da un lato non smettono di spuntare gioielli dimenticati. Le strips di Otto Soglow, le serie meno
note di George Herrimann, le opere di Antonio Rubino, i personaggi collaterali di Spirou…
Dall’altro, i volumi appaiono sempre più ambiziosi, editorialmente e graficamente. A valle, con
contenuti che vanno al di là del repackaging chic: documenti d’archivio, testimonianze, foto di
famiglia, ricostruzioni storiche con informazioni inedite, glosse & commenti (la mia personale
preferenza: Bravo les brothers, la storia di Gaston Lagaffe e Spirou preferita dallo stesso André
Franquin). Ma soprattutto si fa visibile l’ambizione a monte: immaginare e organizzare questi
progetti editoriali dimostra la presenza di editor e curatori dalle competenze sempre più complesse,
definite, e in alcuni casi persino personali. Per questo il Topolino di Flloyd Gottfredson (Rizzoli
Lizard) o il tomo La véritable histoire de Spirou (1937-1946) sono dei piccoli ma preziosi eventi
editoriali: libri grandi, belli, densi, al servizio di un’idea ormai matura e complessa del patrimonio
storico-culturale del fumetto.
4. Autofiction, autoriflessività e ipercontrollo
Il filone autobiografico, faro del cambiamento negli anni ’90, e trend consolidato negli anni Zero,
non smette di fare da cartina al tornasole del fumetto contemporaneo. E la produzione del 2012 ha
segnato una nuova svolta, di cui il libro-simbolo è stato il MetaMaus di Art Spiegelman. Non un
fumetto di per sé, ma una riflessione ‘meta’ sul fumetto più meta – dell’autore più meta – degli
ultimi 30 anni. Un sintomo, insomma, di un nuovo livello nell’autopercezione del proprio “essere
fumettisti”: una crescente consapevolezza nella sfida/problema racconto di sé.
Credo infatti che molte autobiografie recenti mostrino questa autoconsapevolezza in modo sempre
più esplicito. Talvolta con esiti vertiginosi – in MetaMaus, come già fu per il Journal di Fabrice
Neaud – che da eccezioni sembrano trasformarsi in tendenza. Il che è interessante, ma anche
problematico: se il raccontare se stessi è (stato) l’atto di maggiore autenticità praticato dagli autori
dell’ultima generazione, tutta la autoconsapevolezza odierna non la sta forse mettendo in crisi?
Dall’urgenza di dirsi, siamo passati a una fase di crescente freddezza progettuale? A un eccesso di
razionalizzazione che sta spegnendo l’autenticità?
Nel numero di dicembre i Cahiers du Cinéma hanno posto la stessa questione tra le “10 tare del
cinema d’autore” odierno, parlando di culte de la maitrise, e citando i Coen, Fincher, Nolan.
Sinceramente mi sembra un buon punto, su cui trovo allineato il “fumetto d’autore” autobiografico
e non solo. E tra i primi autori che mi sentirei di inserire – con gradi assai diversi di autorappresentazione – ci sono questi: Daniel Clowes, Chester Brown, Seth, Boulet, ma anche un
italiano come Ausonia (Interni, ABC), tra i più labirintici fumettisti iper-consapevoli.
5. Graphic novel(lizzazione)
Ricordate quando sulle copertine di libri/albi compariva la dicitura “a fumetti”? I Promessi Sposi a
fumetti, Dante a fumetti, Guerre Stellari a fumetti… Tutt’altro che scomparsa, questa prassi è in
voga anche oggi, mutatis mutandis, dissimulata dalla nuova dizione “il graphic novel ispirato a”.
Sempre di adattamenti si parla, in effetti. E sarà l’accento su novel più che su graphic, ma nel 2012
pare siano cresciuti gli adattamenti di provenienza letteraria (tv e videogiochi si sono dati una
calmata, insomma). In Francia, prosperano intere collane dedicate, dal noir (Casterman/Rivages) ai
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Post/teca
ragazzi (Gallimard/Fétiches), e classici per tutti (Delcourt/Ex-Libris; Vents d’Ouest/Commedia …).
Ma anche in Italia, dove gli esempi non mancano, con opere tratte da romanzi o racconti di
Alessandro Baricco, Giancarlo De Cataldo, Antonio Pennacchi, Giorgio Vasta, Dacia Maraini e altri
– spesso pubblicati da Tunué.
Niente più approccio alla Classic Illustrated, per fortuna: l’obiettivo si esaurisce di rado nella sola
“illustrazione” del testo di partenza, e si offre piuttosto come reinterpretazione personale, affidata al
disegno. Una sfida intrigante, ma dagli esiti ancora incerti. E non solo perché l’esistenza di alcuni
adattamenti si spiega solo con logiche editoriali appiattite sul marketing (e qualche caso di ego del
narratore e/o fiuto di un agente). Il punto è piuttosto espressivo: la difficoltà di creare un graphic
novel interessante, che non si esaurisca in un ruolo di servizio ad un altro linguaggio. Certo, Città di
Vetro di Paul Karasik e David Mazzucchelli – capolavoro in sé, al di là del romanzo di Paul Auster
– non è un modello alla portata di tutti. Ma dalla sfida usciranno vincitori solo editori e autori in
grado di creare qualcosa di diverso dal mero “famolo strano” (= “a fumetti”), il cui effetto sarebbe
solo di rinforzare la tendenza di un fumetto “a rimorchio” di altri immaginari.
E se la scena letteraria italiana, più ingessata di quella anglosassone o francese, fatica ancora a
produrre progetti davvero notevoli, qualche speranza si accende intorno alle collaborazioni dirette
tra scrittori e fumettisti. Come nei casi recenti di Vasco Brondi con Andrea Bruno (Come le strisce
che lasciano gli aerei), o di Daniele Luttazzi con Massimo Giacon (La quarta necessità). I cui esiti
sono stati felici soprattutto per i fumettisti, che hanno saputo trasformare testi piacevoli ma non
memorabili in mirabolanti performance grafiche.
6. Ri-bonellizzazione
Erano anni che, in Italia, non si presentava un simile déjà-vu: una gran quantità di fumetti in edicola
somiglianti tra loro, per formato e per formula editoriale. Sulla formula – immaginario di genere,
personaggi ricorrenti, impianto realistico, bianco e nero – hanno lanciato nuovi prodotti soprattutto
due editori, Star Comics (The Secret, Kepher, Davvero) e Aurea (Unità Speciale e la miniserie
Metamorphosis), che dentro a una visione emulativa hanno saputo inserire ingredienti di ogni
genere: dal poliziesco nazionalpopolare – e autentico cult trash – Unità Speciale, alla scifi
postapocalittica e caciarona di Legion 75, fino a serie ben scritte come Law o Dr. Morgue.
Ma quel che è accaduto nel 2012 è stato soprattutto altro: un fenomeno di puro repackaging
editoriale che ha visto numerosi fumetti – delle più diverse matrici e provenienze – tornare in
edicola nel tradizionale formato degli albi Bonelli. Non solo una “prima volta” per tanti, ma anche
una notevole metamorfosi dei prodotti: per la consistente riduzione del formato di pubblicazione
originale, e per l’inedito ‘downgrade’ dal colore al bianco e nero. L’editore leader della nuova onda
della “bonellizzazione” è stato GP Publishing, che ha ristampato in questo formato arci-italiano vari
classici francobelgi (da Durango a Lo Sparviero a Wisher), ma anche le strip online di A Panda
Piace. Ma non sono mancati repackaging ancor più sorprendenti, come la serie americana The
Walking Dead, o persino il bestseller francese XIII.
Una tendenza che certamente dimostra l’influenza mai spenta del modello Bonelli, checché se ne
dica (o se ne voglia). Ma anche una tendenza che pare tipicamente difensiva: la testimonianza di un
mercato che tenta la via del back to basics. Più preoccupato a tenere botta che all’attacco, a caccia
di nuovi modelli.
7. Fumetti sulla storia del fumetto
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Post/teca
Infine, il 2012 è stato anche l’anno di un fumetto come Gringos Locos (Dupuis), gustosa commedia
su una piccola ma cruciale vicenda della storia del fumetto belga: il viaggio compiuto dal trio di
amici e colleghi Jijé, André Franquin e Morris negli Stati Uniti e in Messico, nel 1948.
Un’avventura avvolta da un’aura leggendaria e di cui lo sceneggiatore Yann ha messo insieme i
frammenti per anni, riuscendo a chiarire – con affetto e ironia – alcuni aspetti di quell’epopea
americana che ha tanto influenzato quei tre giganti della Nona arte europea.
Il volume in questione rappresenta il più chiacchierato e fortunato caso di un filone che negli ultimi
anni è andato crescendo, un po’ in sordina: i fumetti sul fumetto. Ma diversamente dai noti comics
essays di Will Eisner, Scott McCloud o Matt Madden, a contare oggi non è più il suo linguaggio,
bensì la sua Storia. La sua evoluzione e, soprattutto, i suoi momenti dimenticati. Una storiografia
riflessiva che pare colmare lacune degli studiosi di professione, raccontata in prima persona – o
attraverso documentazione (orale e non) accumulata personalmente – dagli stessi fumettisti,
scavando in anni di carriera, esperienza, lavoro e frequentazioni. La stessa tendenza in cui si erano
collocati non solo il memorabile La véritable histoire de Futuropolis di Florence Cestac, ma anche
il recente ed emozionante L’inverno del disegnatore di Paco Roca, sulla condizione dei fumettisti
durante gli anni di Franco, o l’antologia Quoi! sulla storia de l’Association, narrata dagli stessi
autori e co-fondatori.
In Italia, Davide Toffolo lavora da anni a una storia sulla figura di Magnus; Paolo Cossi prosegue la
sua biografia della vita di Hugo Pratt. Ma oltre a Gringos Locos, l’altro gioiello di questo filone nel
2012 è stato Pepe, nuova opera del maestro spagnolo Carlos Gimenez, interamente dedicata alla
figura di un fumettista spagnolo tanto dimenticato quanto moderno sul piano delle scelte sessuali e
di vita, tra gli anni ’50 e ’70.
Segni insieme di affetto, orgoglio professionale e autoconsapevolezza critica, le opere di questo
filone sono forse tra le più indicate per i lettori che guardano al fumetto, oggi, con un’attenzione
decomplessata da antichi snobismi o, viceversa, da fragili ossessioni hipster. Carotaggi per praticare
il buon vecchio esercizio della memoria: stimolare curiosità e accogliere il desiderio di scoperta,
esplorando un campo che nel bene e nel male continua a farci capire quanto poco abbiamo capito
della sua (strana?) avventura culturale.
fonte: http://www.ilpost.it/matteostefanelli/2013/02/04/il-fumetto-nel-2012-in-7-tendenze/?
utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+ilpost+%28Il+Post+-+HP
%29
------------------svuotatoio ha rebloggato curiositasmundi
“Ho un cuore eremita. Sono
impastata di silenzio e di vento.
Sono antica.”
—
Fonte: pirillipirollo
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M.Gualtieri (via pirillipirollo)
Post/teca
---------------3nding
“Da quando ti ho baciata sei sempre sulle mie labbra.
Vaffanculo te e l’herpes.”
—
3nding
------------20130205
costalongu
“Tra di noi non corre buon sangue, e se mai dovesse correre mi auguro che sia il tuo.”
—
Costantino Longu
-------------------------luciacirillo ha rebloggato eclipsed
“Un’ipotesi prevede che l’universo possa continuare a espandersi all’infinito fino a che tutte le
stelle si allontaneranno e si spegneranno. Quanto ci vorrà? Potremmo utilizzare una frase di
un filosofo contemporaneo, Woody Allen, il quale dice “L’eternità è molto lunga, specialmente
verso la fine”.”
—
(Michio Kaku, fisico teorico statunitense)
Fonte: flipperella
-------------------------puzziker
“
Ruba dappertutto qualsiasi cosa ti dia ispirazione
o alimenti la tua immaginazione.
Divora vecchi film, nuovi film, musica, libri, quadri, fotografie,
poesie, sogni, conversazioni casuali, architettura, ponti,
segnali stradali, alberi, nuvole, masse d’acqua luce e ombra.
Seleziona tra le cose da rubare solo ciò
che parla direttamente alla tua Anima.
Se farai così, il tuo lavoro (e il tuo furto) saranno autentici.
L’autenticità è senza prezzo, l’originalità non esiste.
E non stare a preoccuparti di nascondere il tuo ladrocinio
- onoralo se ti sembra il caso E comunque ricorda sempre quello
che ha detto Jean-Luc Godard:
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Post/teca
“Non è da dove prendi le cose, è dove le porti”.
”
—
Jim Jarmush questa la dedico al mio primo anon evah, che
mi sentivo povera, senza.
e tutto quel che rubo, anche involontariamente,
è per restituire qualcosa a una serie di tumbleri
meravigliosi che mi hanno aiutata a sopportare
dei gran momenti di merda.
(il tasto puzziker-vai-a-cagare è sempre quello
in alto a destra)
------------------------------------
Parigi, dopo 200 anni anche le donne possono
mettere i pantaloni
Chi di voi è stato a Parigi avrà visto più volte file di donne aggirarsi sui boulevard in giacca e
pantaloni. Le madame in questione fino a ieri risultavano fuori legge. Sembra incredibile, eppure
era in vigore una ordinanza del 17 novembre 1800 che vietava alle ragazze di indossare abiti
considerati maschili
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Post/teca
Brigitte Bardot in jeans
5 febbraio 2013 - 13:03
Tacchi o ballerine che siano. Chi di voi è stato a Parigi avrà visto più volte file di donne aggirarsi
sui boulevard in giacca e pantaloni. Ebbene, le madame in questione fino a ieri risultavano fuori
legge. Anche se molto probabilmente nessuna di loro lo sapeva. Sembra incredibile, eppure in
Francia fino a 48 ore fa era in vigore una legge del 17 novembre 1800 che vietava alle ragazze di
indossare abiti considerati maschili. Come i pantaloni, appunto. A stracciare l'antica legge ci ha
pensato la giovane ministra per i Diritti delle donne (si chiama proprio così) e portavoce del
governo francese, Najat Vallaud-Belkacem.
Trentacinque anni, Vallaud-Belkacen è il ministro più giovane dell'esecutivo guidato da Francois
Hollande. La si vede spesso, anzi quasi sempre, in giacca e pantaloni. Forse per questo, proprio lei,
rispondendo a un'interrogazione parlamentare sulla Gazzetta ufficiale del Senato, ha scritto nero su
bianco che l'antica regola risalente al 16 brumaio dell'anno IX è da ritenersi non più in vigore,
perché «caduta in desuetudine» e «incompatibile con il principio della parità tra i due sessi».
Firmata dal prefetto, l'«ordinanza concernente il travestimento delle donne» D/B 58 obbligava
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Post/teca
le madame ad «abbandonare gli abiti del proprio sesso solo per motivi di salute. Tutte le donne che,
dopo la pubblicazione della presente ordinanza, si travestiranno da uomo senza aver sbrigato le
formalità prescritte lasceranno intendere di avere la colpevole intenzione di abusare del loro
travestimento». La pena prevista era il carcere immediato.
La norma era in aperto contrasto con i rivoluzionari sanculotti, che rivendicavano il diritto di
portare i pantaloni fino alle caviglie per distinguersi dai nobili in culottes, i mutandoni che si
fermavano sotto al ginocchio. Una donna con i pantaloni era dunque sinonimo di sovversione.
Durante tutto il Diciannovesimo secolo, più volte le parigine hanno cercato, ma senza successo, di
ottenere l'abrogazione della rdinanza. Al massimo, si poteva ottenere una deroga per motivi di
lavoro. Alle giornaliste, ad esempio, era consentito l'uso dei pantaloni. Solo dopo la Belle Epoque e
l'arrivo delle nuove mode, la D/B 58 è caduta in disuso, senza essere comunque abrogata.
La norma era stata modificata in senso più permissivo in due occasioni, nel 1892 e nel 1909,
quando fu consentito alle donne di portare i pantaloni senza preventiva autorizzazione nel caso in
cui «impugnassero il manubrio di una bicicletta» e «le redini di un cavallo». L'episodio più
emblematico nel 1972, quando la giovane deputata Michèle Alliot-Marie venne bloccata all'ingresso
del Parlamento perché indossava un paio di pantaloni.
L'obiettivo della proibizione, ha dichiarato la giovane ministra di origini marocchine, consisteva
«nel circoscrivere l'accesso delle donne a determinati incarichi o occupazioni». È questa l'ultima
battaglia della giovane ministra. Sua è la proposta di legge antiprostituzione, che punta alla
penalizzazione dei clienti. Suo è un nuovo progetto di legge contro le molestie sessuali. Come si
legge su Le Parisien, per la piena uguaglianza c'è ancora molta strada da percorrere. L'articolo L.
120-2 del codice del lavoro permette, ad esempio, al datore di lavoro di imporre la gonna alle
proprie dipendenti, purché ne giustifichi «chiaramente» le motivazioni.
L'abbigliamento femminile resta un tema molto dibattuto nella politica francese. Nel maggio
scorso aveva fatto discutere la 37enne ecologista Cécile Duflot, ministra dell'Edilizia, che si era
presentata in jeans alla prima seduta del Consiglio dei ministri. Questa ipotesi nella norma del 1800
non era stata neanche presa in considerazione.
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Co
lette Main
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Bri
gitte Bardot
Fra
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ncois Hollande e Valérie Trierweiler /Nicolas Sarkozy e Carla Bruni
fonte: http://www.linkiesta.it/divieto-pantaloni-parigi
----------------sillogismo ha rebloggato curiositasmundi
“Mi ricorderò di te anche quando mi scorderò quasi tutto di me e forse anche oltre.La pelle
non la freghi, è lì che sta la memoria. I segni sono lividi che scottano, non te ne liberi.”
—
(via gaia03)
Fonte: gaia03
------------------sillogismo ha rebloggato curiositasmundi
“Avevi la pelle d’oca e ridevi. Eravamo talmente vicini che non potevamo vederci, assorti
entrambi in quel rito urgente, avvolti nel calore e nell’odore che emanavamo insieme. Mi
aprivo il passo per le tue vie, le mie mani sulla tua vita protesa e le tue impazienti. Sfuggivi, mi
percorrevi, mi scalavi, mi avvolgevi con le tue gambe invincibili, mi dicevi mille volte vieni con
le labbra sulle mie.”
—
Isabel Allende_ (via lenostrenewyorkinteriori)
Fonte: letueparolenellemetropolitane
-------------Il sito americano Flavorwire ha raccolto e pubblicato i passaporti di alcuni personaggi famosi, da
Walt Disney a una sedicenne Witney Houston, a Francis e Zelda Fitzgerald. Come sottolinea
Flavorwire i passaporti raccontano qualcosa delle persone a cui appartengono: quanto e quando
hanno viaggiato e in quali paesi, oltre banalmente a quanto sono venuti bene in foto. Abbiamo
allargato la loro raccolta, soprattutto grazie al sito Passport-Collector, dedicato a chi colleziona,
acquista e scambia passaporti: il più costoso è quello di Marilyin Monroe, venduto all’asta per 115
mila dollari, seguito da quello di James Joyce venduto a 97 mila dollari e quello di Albert Einstein
per 90 mila dollari.
fonte: http://www.ilpost.it/2013/02/05/foto-passaporti-persone-famose/?
utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+ilpost+%28Il+Post+-+HP
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-----------------curiositasmundi ha rebloggato tiamoanchiotesoro
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Post/teca
“C’è una vecchia storia su un uomo che aveva commesso cinquantadue omicidi. È il caso di
ripeterla…
Secondo la storia, fu dopo il cinquantaduesimo delitto che l’assassino venne colto dai rimorsi e
decise di cercare un santo per emendarsi. Visse alcuni anni col santo, facendo tutto ciò che gli
era ordinato e impegnandosi a fondo per avere la meglio sulla sua natura malvagia. Poi un
giorno il santo gli disse che era libero di riprendere la sua vita nel mondo, che non doveva più
aver paura di commettere altri delitti. Dapprima l’uomo fu pazzo di gioia, ma l’esaltazione
cedette presto il passo alla paura e al dubbio. Come poteva essere certo che non avrebbe più
peccato? Pregò il santo di dargli un segno, una prova tangibile che era liberato per davvero. E
così il santo gli diede un drappo nero, dicendogli che quando il drappo fosse diventato bianco
avrebbe potuto essere assolutamente certo della propria innocenza. L’uomo partì e riprese la
sua vita nel mondo. Una dozzina di volte al giorno guardava il drappo nero per controllare se
era diventato bianco. Non riusciva a pensare ad altro: era un’ossessione. Poco a poco cominciò
a chiedere agli altri che cosa poteva fare perché si compisse il miracolo. Ognuno diede un
suggerimento diverso. Egli seguì ogni suggerimento, ma invano. Il drappo rimase nero.
Finalmente fece un lungo pellegrinaggio al Gange, avendo sentito dire che le acque sante di
quel fiume sacro avrebbero sicuramente fatto diventare bianco il drappo nero. Ma come tutti i
suoi tentativi, anche questo fallì. Infine, disperato, decise di tornare dal santo e vivere con lui
per il resto dei suoi giorni. Almeno, pensava, vivendo col santo sarebbe riuscito a evitare le
tentazioni. Partì dunque per il lungo viaggio. Mentre s’approssimava alla sua destinazione
s’imbatté in un uomo che aveva assalito una donna. La donna lanciava urla da spezzare il
cuore. Egli afferrò l’uomo e l’implorò di desistere. Ma l’uomo non gli diede retta. Al
contrario, raddoppiò i suoi colpi. Senza dubbio intendeva uccidere la donna. Bisognava far
qualcosa, e in fretta, se non voleva che la donna fosse assassinata sotto i suoi occhi. In un
lampo il vecchio assassino riesaminò la situazione. Aveva già commesso cinquantadue delitti.
Uno di più non poteva far molta differenza. Dato che avrebbe dovuto espiare gli altri, tanto
valeva commetterne cinquantatré. Anche se avesse dovuto restare all’inferno per l’eternità
non poteva tenersi in un canto a veder uccidere questa donna. E così si scagliò sull’uomo e
l’uccise. Quando giunse dal santo gli raccontò l’accaduto, dopodiché il santo sorrise e disse:
«Hai guardato il drappo nero che ti ho dato?» Dopo il cinquantatreesimo delitto il drappo
nero gli era completamente passato di mente. Tremando lo tirò fuori e lo fissò. Era diventato
bianco…
C’è assassinio e assassinio, dunque. C’è quello che riduce in schiavitù e quello che libera. Ma
l’obiettivo finale è assassinare l’assassino.”
—
Henry Miller (via kazu4lity)
Fonte: kazu4lity
---------------byronic:
The skeleton of King Richard III, dead in 1485, found under a parking lot in Leicester, UK via
The Guardian
Now is the winter of our discontent
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Post/teca
Made glorious summer by this sun of York;
And all the clouds that lour’d upon our house
In the deep bosom of the ocean buried.
Now are our brows bound with victorious wreaths;
Our bruised arms hung up for monuments;
Our stern alarums changed to merry meetings;
Our dreadful marches to delightful measures.
Grim-visag’d war hath smooth’d his wrinkled front;
And now,—instead of mounting barbed steeds,
To fright the souls of fearful adversaries,—
He capers nimbly in a lady’s chamber
To the lascivious pleasing of a lute.
But I, that am not shap’d for sportive tricks,
Nor made to court an amorous looking-glass;
I, that am rudely stamp’d, and want love’s majesty
To strut before a wanton ambling nymph;
I, that am curtail’d of this fair proportion,
Cheated of feature by dissembling nature,
Deform’d, unfinish’d, sent before my time
Into this breathing world, scarce half made up,
And that so lamely and unfashionable
That dogs bark at me, as I halt by them;
Why, I, in this weak piping time of peace,
Have no delight to pass away the time,
Unless to see my shadow in the sun
And descant on mine own deformity:
And therefore, since I cannot prove a lover,
To entertain these fair well-spoken days,
I am determined to prove a villain,
And hate the idle pleasures of these days.
Fonte: byronic
----------------littlemisshormone
Dio ti punisce, Dio ti punisce sempre e di solito lo fa prescrivendoti l’aerosol.
-------------20130206
ilfascinodelvago
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Post/teca
“Vorrei dirti qualcosa che riuscisse a spiegarti quanto ti ho aspettata, ma le parole non
vengono per colpa di questo sorriso stampato in faccia che non riesco a far andare via.”
—
(tu chiamale se vuoi …)
------------------------
— MONDO
Il documento della Casa Bianca sui droni
Lo ha pubblicato NBC, spiega quando si possono usare gli aerei senza pilota secondo l'amministrazione
Obama, anche per uccidere cittadini americani
6 febbraio 2013
Il sito di NBC News ha pubblicato un documento di 16 pagine del Dipartimento della
Giustizia degli Stati Uniti che analizza la questione legale che sta dietro all’utilizzo dei
droni. La pubblicazione arriva in giorni importanti per il dibattito politico americano sulla
questione.
I droni sono gli aerei senza pilota o UAV (Unmanned Aerial Vehicle) che durante
l’amministrazione Obama sono stati molto utilizzati per l’uccisione di terroristi o presunti
tali in diversi paesi del mondo, oltre che per le più comuni attività di ricognizione e
sorveglianza. Queste operazioni si sono svolte anche al di fuori dei paesi in cui gli Stati
Uniti erano formalmente impegnati in un conflitto, come in Yemen e nelle zone del
Pakistan al confine con l’Afghanistan.
Il punto è che l’utilizzo dei droni pone diversi problemi legali: in alcuni casi, per esempio,
le persone che sono state uccise con gli attacchi dei velivoli senza pilota erano cittadini
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Post/teca
statunitensi, come nei casi di Anwar al-Awlaki e di Samir Khan, uccisi in un attacco del
settembre 2011 in Yemen. Al-Awlaki e Khan erano accusati di essere membri di al-Qaida
ma non erano mai stati oggetto di un procedimento formale da parte delle autorità
giudiziarie degli Stati Uniti o di qualsiasi altro paese. Inoltre, chi ne ordina l’utilizzo – il
presidente Obama, in definitiva – lo fa senza passare da un’approvazione del Congresso,
che di queste operazioni è tenuto ufficialmente all’oscuro in base a delle norme approvate
dopo l’11 settembre 2001.
La questione è tornata d’attualità negli ultimi giorni perché uno dei principali sostenitori
dell’utilizzo dei droni, John Brennan, sta venendo ascoltato in questi giorni dal Congresso
per la conferma della sua recente nomina a capo della CIA da parte di Obama. Brennan fu
il primo membro dell’amministrazione Obama a riconoscere ufficialmente l’uso dei droni
in un discorso pubblico dello scorso anno e in questi anni è stato uno dei consiglieri più
ascoltati della Casa Bianca in materia di sicurezza e politiche anti-terrorismo.
Nel documento di 16 pagine pubblicato lunedì (qui in PDF), un white paper (cioè un
documento informativo, non un provvedimento concreto), il Dipartimento della Giustizia
analizza la questione dell’uso dei droni e conclude che il governo degli Stati Uniti può
decidere dell’omicidio di cittadini americani se c’è motivo di credere che siano “importanti
leader operativi” (senior operational leaders) di al Qaida o altre organizzazioni
terroristiche simili, anche se non ci sono prove dirette che siano al momento coinvolti nella
progettazione di un attacco contro gli Stati Uniti.
La condizione necessaria, dice il documento, è che il cittadino americano sia stato
“recentemente” coinvolto in “attività” che minaccino di causare un attacco violento agli
Stati Uniti e che “non ci siano prove che suggeriscano che abbia rinunciato o abbandonato
quelle attività”. Perché si utilizzino i droni è poi necessario che la cattura della persona non
sia possibile: e anche quest’ultimo concetto, nel documento, è particolarmente vago, dato
che questa impossibilità della cattura è definita anche con la presenza di un “rischio non
necessario” per i soldati americani.
Il documento, scrive NBC, non è datato, ma risale all’incirca allo scorso giugno: era stato
consegnato da funzionari dell’amministrazione Obama, infatti, ai senatori della
commissione parlamentare americana sui servizi segreti, con il vincolo della riservatezza
(anche se il documento in sé non è protetto dal segreto di Stato). La sua pubblicazione da
parte di NBC è arrivata in un momento in cui il dibattito parlamentare si sta occupando
molto estesamente dell’utilizzo dei droni: è molto probabile che giovedì 7 febbraio, quando
apparirà davanti alla commissione per i servizi segreti del Senato, John Brennan riceverà
molte domande sui droni e, in particolare, sui documenti dell’Ufficio per i Pareri Legali del
Dipartimento della Giustizia, che avrebbero fornito molti materiali di informazione legale
per la campagna con i droni dell’amministrazione Obama. Sono documenti riservati di cui
si parla da molto tempo ma di cui, finora, non c’è stata neppure conferma ufficiale
dell’esistenza. Pochi giorni fa, 11 senatori democratici e repubblicani hanno chiesto con
una lettera a Obama che copia di quei documenti venga consegnata al Congresso.
Foto: AP Photo/U.S. Customs and Border Protection
fonte: http://www.ilpost.it/2013/02/06/il-documento-della-casa-bianca-sui-droni/?
48
Post/teca
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--------------------------noncecrisinelmercatodellebugieha rebloggato matermorbi
“Mi hai sospeso su un filo di lana
e mi ci terrai ancora per molto
giovane amore, fiore non colto
o forse sì, ma da un’altra mano.
- Il lungo addio, Dylan Dog.”
—
(via matermorbi)
----------------------------Contro tutti i genitori / Goffredo Fofi, su: Internazionale
Thomas Bernhard, Goethe muore
Adelphi, 112 pagine, 11 euro
Di Thomas Bernhard non ci si stanca mai, del suo malumore e della sua durezza sofferta e cattiva.
Ecco quattro testi ripescati da giornali, antologie, programmi di sala, i centrali con il tema ossessivo
delle sofferenze subite per mano e mente dei genitori, una dichiarazione di odio per come padre e
madre si sono comportati nei suoi confronti, ma anche contro tutti i genitori.
“I genitori fanno i figli e poi ce la mettono tutta per annientarli”, è una verità che non è forse mai
stata vera quanto oggi. Agghiacciante è Incontro, lettera a un amico che non si è ribellato, come lui
dice di aver fatto a 16 anni, ai loro ricatti e alle loro imposizioni: “Io non ho mai sofferto per
essermi lasciato alle spalle i genitori, non ho mai avuto motivo di sentirmi in colpa verso di loro
come tu ti senti in colpa verso i tuoi genitori”, ma questo non è evidente, nel sottile rovesciamento
finale.
Montaigne racconta come Bernhard ha potuto salvarsi, grazie alla lettura dei filosofi, di nascosto
da padre e madre. Ma il racconto più bello e furioso è quello del titolo, con Goethe attorniato da
ipocriti che vuole invitare Wittgenstein (“un pensatore austriaco!”) presso di sé, ma quello muore
poco prima di lui (120 anni dopo!). Non si può che dolorosamente apprezzare la feroce lucidità sui
riti e miti del mondo di uno dei pochi veri eredi di Kafka.
--------------------------http://dietroalcibo.com/2012/05/30/its-showtime/
----------------------------49
Post/teca
Quella sera che Falcone e Borsellino ridevano
come due amici qualunque
Lidia Baratta
La foto di Falcone e Borsellino sorridenti è diventata il simbolo della rinascita della Sicilia contro la
mafia. A scattarla, il 27 marzo del 1992, è stato un giovane fotoreporter, Tony Gentile. Che
racconta: «Quello scatto, purtroppo, ha acquisito il significato che oggi gli diamo per quello che è
successo dopo».
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino il 27 marzo del 1992
23 maggio 2012 - 07:35
Il 27 marzo del 1992 Paolo Borsellino e Giovanni Falcone si danno appuntamento al palazzo
Trinacria di Palermo, nel rione storico della Kalsa. L’occasione è la presentazione della candidatura
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Post/teca
alla Camera dei deputati del collega Giuseppe Ayala. La città è in fermento, il 5 e 6 aprile si
terranno le elezioni politiche dell’era Mani Pulite. I due magistrati sono l’uno accanto all’altro. Si
dicono qualcosa, parlano a bassa voce. Poi uno dei due fa una battuta. E il sorriso compare sui loro
volti. Dall’altra parte del tavolo c’è un giovane fotoreporter del Giornale di Sicilia, Tony Gentile,
che preme il pulsante della sua macchina fotografica proprio in quel preciso momento. Il giorno
successivo la fotografia non viene pubblicata. «Magari la usiamo un altro giorno», gli dicono. Ma
dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio, quell’immagine diventa il simbolo della rinascita di una
terra che reagisce contro la logica mafiosa. «Quello scatto purtroppo ha acquisito il significato che
oggi gli diamo», racconta Tony Gentile, «per quello che è successo dopo. Altrimenti sarebbe rimasta
una foto come tante altre».
Tony Gentile, com’è nata quella fotografia?
Lavoravo come fotoreporter dal 1989. Nel 1992 collaboravo già con l’agenzia Reuters dalla Sicilia
e con la cronaca locale del Giornale di Sicilia. Una sera, il 27 marzo di quell’anno, mi sono trovato
a coprire un convegno legato alla candidatura del magistrato Giuseppe Ayala. Falcone e Borsellino
erano seduti a quel tavolo. Non so cosa si siano detti, ma a un certo punto tra di loro si è creato
questo momento di battuta e hanno sorriso. Io credo che stessero scherzando su una delle persone
sedute al tavolo con loro. Ma è una mia idea. Così è venuta fuori quella foto.
Quella sera c’erano anche altri fotografi, ma solo la sua foto mostra la complicità e l’amicizia
tra i due magistrati a pochi giorni dalla loro morte.
È stata una confluenza di fattori diversi. Forse la prontezza di riflessi, la posizione, l’aver compreso
subito il gesto. E così ho fatto quattro o cinque scatti consecutivi. Certamente il fattore determinante
che ha reso famoso lo scatto è che la foto sia stata pubblicata e che sia stata usata più delle altre
fatte quella sera. L'intera sequenza degli scatti, comunque, sarà in mostra a Palermo dal 24 maggio
al 3 giugno in occasione del ventennale della strage di Capaci e via d'Amelio.
La foto, però, non venne pubblicata immediatamente. Venne “ripescata” qualche mese dopo.
Sì, la sera del convegno portai alla redazione del Giornale di Sicilia i miei scatti. Ci furono dei
commenti di apprezzamento per quella foto. Mi dissero: “Bravo, è carina, magari la usiamo un altro
giorno”. Ma il giorno dopo non venne pubblicata. Tra maggio e luglio, poi, dopo la strage di Capaci,
un amico mi disse: “Ma tu non avevi fatto quella bella foto di Falcone e Borsellino?”. Così la inviai
all'agenzia di Roma con la quale collaboravo. E il 20 luglio, il giorno successivo alla strage di via
d’Amelio, i maggiori quotidiani nazionali, dal Corriere della sera a La Stampa, la ripresero e la
pubblicarono in prima pagina.
Così quell’immagine divenne simbolo della rinascita della Sicilia.
Quello scatto, purtroppo, ha acquisito il significato che oggi gli diamo per quello che è successo
dopo, a causa delle stragi. Se non fossero stati uccisi Falcone e Borsellino, sarebbe stata una foto
come un’altra. C’è stato un editore in città che decise di metterla sui manifesti contro la mafia che
venivano affissi a Palermo in quei giorni. Qualcuno pensava che io fossi l’unico fotografo presente
quella sera al palazzo Trinacria. In realtà c’erano altri colleghi che scattarono foto simili. Ma quella
complicità, quei sorrisi ce li ha solo quella foto.
Uno scatto in bianco e nero: è stata una scelta stilistica?
È uno scatto in bianco e nero non per una ricerca estetica. Nel 1992 i giornali erano tutti in bianco e
nero. Noi fotografi andavamo in giro con una macchina in bianco e nero per i quotidiani e un’altra a
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Post/teca
colori per i settimanali. Lo scatto è in bianco e nero perché era destinato a un quotidiano. Magari se
fossi stato inviato da un settimanale, ora quella foto sarebbe a colori.
Come reagì a quelle stragi? Il significato assunto da quello scatto si trasformò anche in un
particolare impegno antimafia?
Io credo nel giornalismo obiettivo. Le idee intime del giornalista sono un’altra cosa. E quelle può
averle chiunque, dall’imbianchino al vigile urbano. Certo la legalità fa parte dei miei valori e cerco
ogni giorno di trasmetterla anche ai miei figli, che a casa vedono quella foto di Falcone e Borsellino
appesa dappertutto. Mi è capitato anche di scrivere alcuni libri sul tema mafioso e sono legato a Rita
Borsellino, sorella di Paolo, da una amicizia molto forte. Lei era proprietaria della farmacia dietro
casa mia, a Palermo.
Quindi conosceva di persona Paolo Borsellino e Giovanni Falcone?
Di persona no. Li conosci da disturbatore, come tutti i fotoreporter e i giornalisti. E loro imparano a
conoscerti e ti tollerano. Mi ricordo però del discorso di Paolo Borsellino alla biblioteca comunale
di Palermo dopo la morte di Falcone nella strage di Capaci. Io ero ai piedi del tavolo dietro il quale
il magistrato era seduto. Ho scattato tante foto, ma a un certo punto le sue parole mi hanno talmente
emozionato che mi sono seduto a terra all’angolo della scrivania a osservarlo da vicino. Avrei
voluto scrivergli un mio pensiero su un bigliettino per fargli arrivare la mia vicinanza. Ma non lo
feci, non so perché. Dopo il 19 luglio andai a raccontare questa cosa a Rita Borsellino e le portai in
regalo quella foto che ritraeva il fratello sorridente insieme a Giovanni Falcone.
fonte: http://www.linkiesta.it/giovanni-falcone-paolo-borsellino-mafia-tony-gentile
----------------loslambros
Non è un paese per buoni
Ieri sul blog Libero Pensiero, che non è solo la casa degli italiani esuli in patria, ma è anche la casa
di Sergio Di Cori Modigliani, fine intellettuale; è apparso questo editoriale di Repubblica del 15
marzo 1980 firmato Italo Calvino. Un contributo illuminante su cosa voglia dire vivere
onestamente nel paese dei cialtroni. Provate a pensare che sono passati solo 33 anni.
Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
di Italo Calvino
C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema
politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo
sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari
smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più
capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè
chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di
favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne
risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.
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Post/teca
Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa,
perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi,
benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità
formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione
illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli
individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e
mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una
frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a
intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il
proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia
convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle
imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o
illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non
diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si
sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare
lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene
comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà
poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza
(così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni
gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori
pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una
complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle
attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.
Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi,
provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano
avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento
dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse
d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e
strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro
compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e
d’interessi illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo
tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più
modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella
giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi
certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.
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Post/teca
In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli
stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio
d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano
come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di
rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il
migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema
che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano
trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a
posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse
stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo
attribuire: gli onesti.
Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi
principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per
abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci
niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in
denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il
guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre
persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a
farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che
fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente
l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza
interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano
illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una
società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in
margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di
tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna
pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e
affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di
sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli
onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza
altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo
modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine
di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora
non sappiamo cos’è.
----------------
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Post/teca
l231 ha rebloggato luciacirillo
“La distrazione.
La massima invenzione dell’essere umano per continuare a tirare avanti. Per fingere di essere
quello che non siamo. Adatti al mondo.”
—
Hanno tutti ragione, Paolo Sorrentino (via
egocentricacomeigatti)
Fonte: mariofiorerosso
---------------sillogismo ha rebloggato batteriaesaurita
“L’umorismo è ciò che evita alla lucidità di affondare nell’amarezza.”
—
Grégoire Lacroix (via dimmelotu)
Fonte: dimmelotu
--------------MEMORIE DI UNO SCRIPT
“
DOCTOR”- LO SCENEGGIATORE VINCENZONI RIAVVOLGE
IL NASTRO DEI SUOI 60 FILM: WILDER
“
RIDEVA SOLO
Malcom Pagani per il "Fatto quotidiano"
LUCIANO VINCENZONI jpeg
Con il Marsala razionato, i fogli scritti a macchina e la realtà in lotta col paradosso: "Ho un brutto
male, è per questo che fumo" Luciano Vincenzoni vorrebbe essere altrove. In America, dove registi
e produttori l'avrebbero tenuto per sempre: "Non rimasi, la più grande sciocchezza dei miei 87
anni" o nel Neorealismo parigino in cui Pietro Germi dimenticava la fame: "Firmammo un contratto
con la United Artists di Ilya Loper, lui tornò in camera, telefonò alla moglie: Marianna,
‘
siamo ricchi'
e iniziò a piangere".
LUCIANO VINCENZONI jpeg
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Post/teca
In una delle sue visioni remunerate: "Non ha idea di quanto pagassero" e premiate ovunque.
Sessanta film. Oscar, palme, leoni. Commedie, drammi, esperimenti. La grande guerra e Giù la
testa, Signore e signori, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo. Lo sceneggiatore
Vincenzoni vive ancora di passioni. Alza la voce, si incazza, ride, batte i pugni sul tavolo. Per il set
non scrive più e sui suoi eredi, non promette testamenti: Non mi chiama più nessuno, ma me ne
frego. L'amarezza è un'altra.
LUCIANO VINCENZONI jpeg
Quale?
Veder morire il cinema che avevamo amato. Quel che c'è adesso fa solo pena. Billy Wilder aveva
capito tutto. Andai a trovarlo in ospedale quando stava per andarsene. Aveva scritto un soggetto.
Me lo regalò: "Tienilo tu, a me non fanno più scattare neanche una Polaroid".
Billy Wilder
Che storia era?
C'è un regista vecchio che nessuno fa più lavorare e investe tutto quel che possiede nel suo ultimo
film. Affitta un ufficio alla Paramount e scopre che l'adiacente cimitero è in espansione e si
annetterà la parte degli studios in cui lavora. La metafora della sua vita e di un'arte spazzata via da
computer e tv.
Lo conosceva bene Wilder?
Ero l'unico che lo facesse ridere. Mi chiamava l'italiano
‘
pazzo'. La prima volta che ci parlai lo
mandai a fare in culo.
Perché?
Chiamarono dall'America in piena notte. Una signorina troppo calma assicura che il signor Wilder
desidera parlarmi. Penso: "Sono Age e Scarpelli". Lavoravamo insieme fin dai tempi della Grande
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Post/teca
Guerra e sugli scherzi non avevano rivali. Così sto al gioco e quando arriva la voce maschile, libero il
vaffanculo e attacco.
Dino De Laurentiis
E Wilder?
Non se la prese e richiamò. Dopo aver scritto 'Cosa
‘
è successo tra tuo padre e mia madre''
diventammo amici fraterni. La sera io e Audrey, la moglie di Wilder, sfamavamo la truppa con
polenta e carbonara. Gregory Peck, Jack Lemmon, Candice Bergen con cui parlavo di Celìne. Bei
tempi.
Celìne le piaceva?
Il più grande di tutti. Un genio. Che sia finito povero e reietto è una vergogna. In 'Viaggio
‘
al termine
della notte'' c'è una risposta a ogni perché e a Parigi, nel '68, era la Bibbia dei manifestanti. La
vittoria fuori tempo massimo del signor Destouches. Quando anni dopo incontrai Kerouac, fu
chiaro: "Mai letto nessun altro libro europeo. Oltre non era possibile andare".
joan haverty KEROUAC
Gli inizi?
Facendo da mediatore su una partita di vestiti militari nella Treviso del dopoguerra. Li aveva
acquistati Tony Roma, ex tenente di Marina a cui anni prima avevo offerto un costoso cognac pur
avendo le tasche quasi vuote. Se ne ricordò a liberazione avvenuta e dalla povertà più nera trovai i
soldi per scendere a Roma e realizzare il sogno. Amavo il cinema, il padrone della sala locale mi
faceva entrare sempre gratis.
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Post/teca
Roma?
Avevo incontrato Aldo Fabrizi e scritto Hanno rubato un tram, ma per il Popolo del Bar Rosati era
come se non esistessi. Salutavo, mi sbracciavo, mi ignoravano. Per chi veniva dalla provincia e non
faceva parte della cricca era più dura. Capitava a me come a Ferreri e Fellini. Poi c'era il partito. Il
cinema venne assaltato dai comunisti, i cinematografari furbi si travestirono iscrivendosi al partito.
In molti. Anzi quasi tutti. Io No. E neanche Germi.
jack kerouac3
Con Germi i rapporti erano ondivaghi.
Ci volevamo bene, ma litigammo per uno di quegli equivoci terribili che animano l'esistenza.
Facemmo pace. Mi venne a trovare offrendomi di scrivere Amici miei e mi lasciò una foto, guardi.
C'è una dedica: "Come è triste essere soli".
Stava già male Pietro, uno che ha vinto l'Oscar ma non nominano mai perché non faceva parte
della congrega. Carattere duro, serio, grande regista.
Conobbe anche Petri e Leone.
Bravissimo nel mestiere Elio, con un tremendo carattere. A Mosca, durante una cena discutemmo.
C'erano gli affreschi, le bandiere e le donne sul trattore. L'epica della patria e la tavola vuota. Mi
spazientii. Chiamai un cameriere, gli diedi 10 dollari e gli dissi: "Acqua e pane". Arrivò di corsa. Mi
girai verso Elio e provocai: "Il capitalismo vince sempre". Con Sergio il rapporto era di lunga data.
Gli americani mi avevano dato il compito di ridurre a due ore la versione americana dei suoi film.
Per lui tagliare il suo lavoro equivaleva a tagliarsi le palle. Discutevamo. Con affetto.
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Post/teca
sergio leone
Dino De Laurentiis?
Abbiamo lavorato insieme per un tempo che oggi mi sembra infinito. Ci conoscemmo nel '55.
Decisi che dovevo arrivare di fronte a Dino. Gli telefonavo da mesi, regolarmente respinto. Presi un
taxi, bluffai: "mi aspetti, torno tra poco" e mi presentai. Per superare il check point della
severissima segretaria servì la forza della disperazione: "Non ce l'ho con lei, ma non vorrei fosse la
prima a prendersi un calcio in culo dal sottoscritto. Non è mai accaduto".
1 sergio leone
Si scostò?
Con orrore permettendo a "La différence entre la gloire et la merde" di emergere nel suo
splendore. L'ufficio era enorme. Dino troneggiava dall'alto di una sedia altissima. Chiesi pochi
minuti. Raccontai sette film. Esausto mi fermò: "La prego, sta parlando da due ore. Compro tutto".
Poi per le spese, mi diede due milioni. Le banconote erano grandi come lenzuola. Uscii e al tassista
che mi aveva portato fin lì, dubbioso sul mio ritorno, chiesi solo dove avrebbe preferito mangiare.
Andammo nel miglior ristorante della città.
Ha guadagnato molto?
Mi sono divertito, ho lottato, scialacquato patrimoni e amato molto senza alcun rimpianto.
Wilder la chiamava Casanova.
Mi prendeva in giro. Stavo con un'attrice che mi riempiva di corna e mi confidavo con lui. Gli
scrivevo.
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Grafomane nato.
Se hai una buona idea, bastano 15 giorni per darle forma. Altrimenti l'idea non esiste. Gillo
Pontecorvo che con il povero Solinas impiegava non meno di tre anni per scrivere un copione, si
stupì. Mi avevano chiesto aiuto dalla produzione: "Non finiremo mai a questi ritmi". Risolsi la
pratica in 13 giorni, Gillo, mente acuta e cacadubbi a prescindere era sconvolto.
La grande guerra: un trionfo.
Feci un furto che non confessai né a Monicelli né a Furio, né ad Age. Avevo letto un bellissimo libro
di Roland Dorgelès, Le croci di legno e copiai di sana pianta la scena del ritorno dei soldati che si
vede nel film. A Venezia il presidente della giuria Marcel Carnè a fine proiezione inizia ad
applaudire. È il segno che il Leone è di Mario. Alla festa, Carnè mi avvicina: "Bella quella iperbole,
l'ha scritta lei?".
E lei?
"L'ha scritta Dorgelès, maestro". "Bravo ragazzo, sei una persona per bene".
via: dagospia
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THE MAN FROM NOWHERE
rai4 MARTEDÌ 5 FEBBRAIO, ALLE 21:10
Film crime/thriller
Titolo originale: A-jeo-ssi
Produzione: Corea del Sud
Anno: 2010
Regia: Lee Jeong-beom
Cast: Won Bin, Kim Sae-ron, Kim Hyo-seo
Se il cinema crime di Hong Kong ha da tempo trovato la sua formula di successo nel mix di azione frenetica e stilemi classici del noir
americano e francese, la più recente produzione di genere della Corea del Sud si distingue, al contrario, per uno stilizzato gusto
dell’eccesso. Sull’onda dei consensi di critica e pubblico raccolti da Park Chan-wook a metà del decennio scorso, la nuova
generazione di autori crime sudcoreani accosta violenza iperrealista e look “tarantiniano” a una grande profondità drammatica,
esplorando pulsioni elementari ed ancestrali dell’animo umano come l’amore o il desiderio di vendetta.
In questo filone si colloca The Man From Nowhere (2010, prima visione assoluta), opera seconda del promettente Lee Jeongbeom, giunta quattro anni dopo il già acclamato Cruel Winter Blues (2006). Al centro della scena c’è il solitario e taciturno Cha Taesik, gestore di un piccolo banco dei pegni dal passato misterioso. La sua vita anonima viene improvvisamente sconvolta quando una
vicina di casa lascia in pegno nella sua bottega una fotocamera che nasconde all’interno dell’eroina rubata, attirando su di sé la
vendetta di una coppia di trafficanti.
Tra la ricca messe di premi raccolta dalla pellicola nelle tre principali manifestazioni coreane – Gran Bell Award, Blue Dragon Award
e Korea Film Award – spiccano i riconoscimenti, da parte di giurie e pubblico, al protagonista Won Bin. Molto diverso nei toni, il
cinema sudcoreano condivide con quello di Hong Kong la passione per il divismo, alimentato nell’ex-colonia britannica dalla
contiguità tra industria cinematografica e musicale e in Corea dalla grande popolarità dei drama televisivi.
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Post/teca
fonte: http://www.rai4.rai.it/dl/Rai4/programma.html?ContentItem-56f04e59-41ca-45ec-94f12894166431ef
---------------IL MONITIFICIO…
Massimo Gramellini per la
“ Stampa”
Saranno piovute anche a casa vostra le immagini arabescate dei tg sullinaugurazione
’
dellanno
’
giudiziario della Corte dei Conti, la magistratura che ha il compito di fare le bucce ai bilanci dello
Stato. Un rito che il potere mette in scena ogni primo martedì di febbraio. In unaula
’
stipata di
giudici spagnolescamente agghindati, alla presenza delle Gentili Autorità e di carabinieri muniti di
pennacchio, un giudice più agghindato degli altri, il Presidente, pronuncia discorsi solenni in una
lingua arcaica e sovrabbondante, la cui sintesi è: facciamo schifo.
La corruzione ha raggiunto livelli sistemici (gli incorruttibili vengono ormai additati nei corridoi dei
ministeri come anime bizzarre), le imprese sono strangolate da mazzette e mancati pagamenti, il
lavoro è soffocato da tasse e austerità, le famiglie boccheggiano.
Un ritratto della nazione che, liberato dalle sue bardature linguistiche, potrebbe essere stato
scritto da un rivoluzionario con dolori alla cistifellea o più banalmente da chiunque di noi, ma che
contrasta col contesto parrucchiforme in cui viene declamato.
Ogni anno, al termine del discorso, mi aspetto sempre che il Presidente ordini ai carabinieri col
pennacchio di arrestare parecchie delle persone sedute nelle prime file, sicure corresponsabili del
disastro. Invece il fustigatore si limita ad auspicare una presa di coscienza che il quadro appena
delineato rende necessaria e addirittura impellente, eccetera. A quel punto gli accusati
applaudono laccusatore
’
e poi tutti vanno a pranzo perché si è fatta una certora.
’
Anche ieri. Se
stanotte mi verrà un incubo, sarà a forma di monito.
---------------20130107
sillogismo ha rebloggato niceednice
“E qualcosa rimane,
fra le pagine chiare,
fra le pagine scure,
e cancello il tuo nome dalla mia facciata
e confondo i miei alibi e le tue ragioni,
i miei alibi e le tue ragioni.
61
Post/teca
Chi mi ha fatto le carte mi ha chiamato vincente
ma lo zingaro è un trucco.
Ma un futuro invadente, fossi stato un po’ più giovane,
l’avrei distrutto con la fantasia,
l’avrei stracciato con la fantasia.”
—
Francesco De Gregori - Rimmel (via soggettismarriti)
Fonte: soggetti-smarriti
---------------------------curiositasmundi ha rebloggato bugiardaeincosciente
“Come stai?”
“Al contrario.”
—
cieloxverde:
bugiarda e incosciente:
Fonte: cieloxverde
---------------------------
Qualche etrusco è ancora fra noi…
Pubblicato su Plos One il nuovo studio sul Dna degli Etruschi,
coordinato da Guido Barbujani e David Caramelli
e realizzato in collaborazione con l’Itb-Cnr
Gli Etruschi non venivano dall’Anatolia, come sosteneva Erodoto, ma erano una popolazione
stanziata da tempo in Italia, come aveva intuito Dionisio di Alicarnasso. E benché i toscani di oggi
discendano per lo più da antenati immigrati in tempi più recenti, fra gli abitanti di Volterra e del
Casentino si trovano ancora Dna identici a quelli degli Etruschi di 2500 anni fa. È quanto emerge da
uno studio pubblicato sulla rivista scientifica 'Plos One', coordinato da Guido Barbujani, docente di
genetica dell’Università di Ferrara e David Caramelli, docente di antropologia dell’Università di
Firenze, e realizzato in collaborazione con l’Istituto di tecnologie biomediche del Consiglio
nazionale delle ricerche (Itb-Cnr) di Milano.
“Leggere nel Dna di persone così antiche è difficile”, spiega Guido Barbujani. “I pochi Dna finora
disponibili non permettevano di dimostrare legami genealogici fra gli Etruschi e i nostri
contemporanei. Lo scorso anno, il gruppo fiorentino di David Caramelli, è riuscito a studiare un
numero maggiore di reperti ossei; così ci siamo resi conto che comunità separate da pochi
chilometri possono essere geneticamente molto diverse fra loro e abbiamo visto come l’eredità
biologica degli Etruschi sia ancora viva, anche se in una minoranza dei toscani. Il confronto con
Dna provenienti dall’Asia dimostra che fra l’Anatolia e l’Italia ci sono state sì migrazioni, ma che
sono avvenute migliaia di anni fa, nella preistoria, e quindi non hanno rapporto con la comparsa
62
Post/teca
della civiltà etrusca nell’VIII secolo avanti Cristo. Viene così smentita l’idea di un’origine orientale
degli Etruschi, ripresa alcuni anni fa, da studi genetici che però si basavano solo su Dna moderni”.
“Questo risultato è stato possibile grazie ad un approccio multidisciplinare”, prosegue Ermanno
Rizzi, ricercatore dell’Itb-Cnr. “L’applicazione di tecnologie di sequenziamento di nuova
generazione (Next Generation Sequencing – Ngs), nell'ambito della paleogenetica ha permesso di
recuperare informazioni genetiche da molecole di Dna di campioni più antichi di 2000 anni. Tale
approccio ad elevata risoluzione e resa, ci ha consentito di discriminare le molecole endogene del
Dna mitocondriale dei campioni etruschi, che come altri reperti antichi, oltre ad essere molto
degradati, hanno un quantitativo molto scarso di materiale genetico informativo, che si aggira
attorno al 1-5% del Dna totale”.
Le nuove analisi su campioni antichi delle Università di Ferrara e Firenze rispondono a domande
vecchie di millenni sull’origine biologica e sulla sorte degli Etruschi, mentre lasciano aperte alla
ricerca archeologica tutte le questioni riguardanti la cultura di questo popolo, la sua affermazione e
il suo declino.
Roma, 7 febbraio 2013
La scheda:
Chi: Istituto di tecnologie biomediche del Cnr di Milano
Che cosa: Studio sul Dna degli Etruschi, Ghirotto S., Tassi F., Fumagalli E., Colonna V., Sandionigi
A., Lari M., Vai S., Petiti E., Corti G., Rizzi E., De Bellis G., Caramelli D. and Barbujani G. (2013)
Origins
and
evolution
of
the
Etruscans’
mtDNA.
PLoS
ONE
DOI:
10.1371/journal.pone.0055519
http://dx.plos.org/10.1371/journal.pone.0055519
------------------------------------selene ha rebloggato sefossi
“Diffida da sante e bigotte che sono le peggiori mignotte.”
—
(via sefossi)
-----------20130208
puzziker ha rebloggato curiositasmundi
“Affronta qualunque cosa stressante come un cane. Se non puoi mangiarla o giocarci,
semplicemente facci sopra la pipì e passa oltre.”
—
Fonte: angry-bass
63
Snoopy (via angry-bass)
Da qui in poi.
(via pulcinonero)
Post/teca
----------------------------curiositasmundi ha rebloggato ilfascinodelvago
“E questo dovrebbe accadere solo perché ieri non è più? Direi che anche il futuro non è
ancora, e a noi piace mettere il becco sia nell’uno che nell’altro, dimenticandoci del presente.
Ora è il 2013, il presente. Sognate sempre, immaginate senza ritegno. Andiamo, c’è ancora da
viaggiare. Si va”.”
—
Michele Scoppetta, Agrodolce (via
fantasticazioni)
Fonte: fantasticazioni
-----------------------curiositasmundi ha rebloggato out-o-matic
“Rima della rabbia giusta
Tu dici che la rabbia che ha ragione
È rabbia giusta e si chiama indignazione
Guardi il telegiornale
Ti arrabbi contro tutta quella gente
Ma poi cambi canale e non fai niente
Io la mia rabbia giusta
Voglio tenerla in cuore
Io voglio coltivarla come un fiore
Vedere come cresce
Cosa ne esce
Cosa fiorisce quando arriva la stagione
Vedere se diventa indignazione
E se diventa, voglio tenerla tesa
Come un’offesa
Come una brace che resta accesa in fondo
E non cambia canale
Cambia il mondo.”
—
Bruno Tognolini,
grazie alla dott.ssa De Gregorio (via out-omatic)
-----------------------curiositasmundi ha rebloggato kindlerya
“Stettero per un attimo sospesi come se volassero nel buio sfiorandosi appena con le labbra e
con la punta delle dita. Senza una decisione e senza che un solo muscolo si contraesse, ma
obbedendo alle leggi della gravitazione, i loro corpi si appoggiarono di nuovo uno all’altro, le
loro labbra si ricongiunsero. […] Gli prese con la destra la mano sinistra e gliela strinse così
forte da fargli male. Angelo non immaginava che in quella mano esile potesse esserci tanta
forza e rimase lì immobile, docile e felice. Lei socchiuse con la sinistra la porta, si affacciò
64
Post/teca
appena nella fessura e disse semplicemente con la sua voce armoniosa: - Vengo subito -. Poi
richiuse e, senza parole, appoggiati uno all’altra scesero gli scalini e si avviarono nel buio fitto.
Era lei che lo guidava come se ci vedesse chiaramente. - Forse ci vede davvero nel buio - pensò
Angelo nella sua felicità. E in quella felicità silenziosa, in quel suo delicato profumo che si
mescolava all’odore dell’umidità notturna le disse che l’amava, che l’avrebbe amata sempre e
le chiese se voleva diventare sua moglie. Valentina, sempre stringendogli la mano disse di sì, e
attirandolo a sè gli morse le labbra con i suoi piccoli denti aguzzi. Non pensarono al padre,
alla madre, che avrebbero potuto non approvare quella loro decisione, non pensarono a
nessun ostacolo che potesse frapporsi, non per sventatezza di innamorati, ma perché dentro di
loro ciò che si erano reciprocamente promesso stava già accadendo, era accaduto.”
—
Giuseppe Dessì, Paese d’ombre (via kindlerya)
-------------------------curiositasmundi ha rebloggato zenzeroecannella
“È pesantissimo, dissi, in questo momento mi sembra tutto pesantissimo.
Lei mi porse un fazzoletto di carta.
Ma non sto piangendo, le dissi.
Lo so, fece lei, toccandomi il polso. Volevo solo farti vedere qualcosa di leggero”.”
—
Aimee Bender (via latuababy)
Fonte: latuababy
---------------------------
Senza visione
7 febbraio 2013, giuliano Milani
Mario Perniola, Da Berlusconi a Monti. Disaccordi imperfetti
Mimesis, 114 pagine, 5,90 euro
Oggi in Italia “solo la chiesa cattolica e le organizzazioni criminali hanno una visione globale; la
prima, pur essendo dotata di un soft power molto arretrato e di mezzi economici poco trasparenti,
resta l’unica potenza universale legittima con sede nella nostra penisola. Le seconde possono invece
disporre di un hard power non trascurabile e persino superiore a quello dello stato”.
Due anni fa il filosofo Mario Perniola aveva segnalato in un saggio assai discusso (qui ripubblicato
insieme ad alcune risposte alle critiche) le “affinità elettive” tra l’ideologia del sessantotto e il
berlusconismo, leggendoli come frutti della stessa fase storica che ha portato alla scomparsa della
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Post/teca
classe media, dell’istruzione pubblica come mezzo di mobilità sociale e del ruolo degli intellettuali.
Oggi torna a parlare del tempo in cui viviamo, rilevando nell’azione del governo Monti, di cui si
mostrano le differenze con Berlusconi, una contraddizione tra l’invito a consumare per rilanciare la
crescita e la mancata redistribuzione che contribuisce all’immiserirsi della società.
Benché presente anche altrove, oggi in Italia questa contraddizione rischia di far aumentare quella
frustrazione e quel rancore che hanno già raggiunto livelli di guardia, e compromettere ancora di più
l’elaborazione di una visione di lungo respiro capace di ridare dignità alla maggior parte dei
cittadini del paese.
Internazionale, numero 985, 1 febbraio 2013
-------------------kon-igi
1. Gesù: Non credi che io sia stato crocifisso, trafitto da una lancia e poi risorto? Tocca il mio
costato!
2. San Tommaso: No, no... ci credo. Il tuo ragionamento non fa una piaga.
---------------------------08 febbraio 2013
Ecco l'antenato di tutti i mammiferi placentati
Combinando migliaia di caratteristiche fisiche ricavate dai fossili con i dati di biologia molecolare
forniti dalle analisi genetiche è stato ricostruito l'albero filogenetico dei mammiferi placentati
comparsi poco dopo l'estinzione di massa dei dinosauri, 65 milioni di anni fa, e differenziati a
partire da un piccolo insettivoro
(red)
evoluzione paleontologia animali
L'albero filogenetico di tutti i mammiferi placentati (cioè tutti, esclusi marsupiali e monotremi) e
l'aspetto dell'antichissimo antenato comune – un piccolo insettivoro il cui peso non eccedeva i 250
grammi - sono stati ricostruiti da un gruppo internazionale e interdisciplinare di ricercatori riuniti
nel progetto Assembling the Tree of Life (ATOL) della National Science Foundation, che ne
riferiscono in un articolo su “Science”.
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Post/teca
Ricostruzione dell'antico antenato comune di tutti i mammiferi placentati. (Cortesia Carl
Buell/Science/AAAS) La ricostruzione di un albero filogenetico su basa su due tipi principali di
dati: quelli ricavati dall'analisi morfologica dei resti fossili, che uniti allo studio dell'ambiente in cui
sono stati trovati può anche dare informazioni sul comportamento dell'animale, e i dati genetici
ottenuti dal sequenziamento del DNA. Tuttavia queste fonti, prese singolarmente, hanno dato
origine a due ricostruzioni diverse della storia evolutiva dei placentati: i dati paleontologici
indicherebbero che la diffusione e diversificazione di questa sottoclasse dei mammiferi sarebbe
avvenuta dopo il grande evento di estinzione del Cretaceo-Paleogene che circa 65 milioni di anni fa
portò alla scomparsa – oltre che dei dinosauri – del 70 per cento di tutte le specie allora viventi. Le
ricostruzioni basate sui dati genetici ne collocherebbero invece l'origine a metà del Cretaceo,
quando i dinosauri dominavano ancora il pianeta.
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Post/teca
Uno dei molti fossili usati nella ricostruzione
dell'albero filogenetico dei mammiferi:si tratta di un esemplare di Ukhaatherium nessovi, unn
piccolo animale simile a un toporagno, scoperto nel 1994 nel deserto del Gobi. (Cortesia AMNH/ S.
Goldberg, M. Novacek)In realtà entrambi i metodi di ricostruzione hanno degli inconvenienti.
Estrarre materiale genetico più vecchio di 30.000 anni dai fossili è pressoché impossibile, mentre
gran parte dei fossili disponibili fornisce informazioni molto frammentarie, come nel caso del
rinvenimento di pochi denti o di frammenti di scatola cranica.
Il progetto ATOL ha quindi cercato di integrare le due fonti, ampliando al contempo in maniera
molto significativa la base di dati a cui fare riferimento. Il team di genetica molecolare ha proceduto
a un'attenta campionatura delle 5100 specie di mammiferi viventi, mentre i paleontologi hanno
definito oltre 4500 caratteri fenotipici per la classificazione dei fossili, contro i circa 500 finora
utilizzati in questo tipo di ricerche, servendosi della MorphoBank, un'applicazione web nata dalla
collaborazione fra la National Science Foundation e l'American Museum of Natural History che
permette un'analisi filogenetica dei caratteri morfologici evidenziando possibili omologie e percorsi
di modificazione fra di essi.
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Post/teca
Clicca per ingrandire. Il nuovo albero filogenetico
dei mammiferi placentati. (Cortesia Stony Brook University/ Luci Betti Nash/Science/AAAS)La
creazione di questa amplissima base di dati fenotipici ha permesso di dare un senso a molti reperti
fossili “secondari”, consentendo la costruzione di una matrice di tutte le variazioni osservate e attraverso l' integrazione con i dati genetici - della loro ereditabilità. A questo punto è stato possibile
procedere alla ricerca dell'albero filogenetico che ottimizzasse in parallelo le modificazioni dei tratti
fenotipici e il numero di mutazioni genetiche corrispondenti. In questo modo è stato anche possibile
arrivare a una ricostruzione plausibile dell'aspetto dell'antenato comune dei placentati, che
sarebbero emersi e avrebbero iniziato a diversificarsi per riempire le nicchie ecologiche rimaste
vacanti dopo l'estinzione del Cretaceo-Paleogene.
"L'analisi di questo cospicuo insieme di dati dimostra che i mammiferi placentati non hanno avuto
origine nel Mesozoico", ha detto Maureen O'Leary, della Stony Brook University e dell'American
Museum of Natural History. "Specie come roditori e primati non hanno condiviso la Terra con
dinosauri non-avicoli, ma nascono da un antenato comune, un piccolo insettivoro, che ha iniziato a
scorrazzare poco dopo la scomparsa dei dinosauri."
fonte:
http://www.lescienze.it/news/2013/02/08/news/antenato_mammiferi_placentati_albero_filogenetico
_radiazione-1499116/?rss
-----------------------
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Post/teca
Professione parente
8 febbraio 2013, di filippo facci
Sembra sopita ogni polemica tra Antonio Ingroia, ex allievo di Paolo Borsellino, e Salvatore
Borsellino, fratello minore di Paolo Borsellino e di professione «attivista» in virtù del suo
«Movimento delle agende rosse» dedicato alla ricerca della verità sulla morte di Paolo Borsellino.
Dopo aver rifiutato il posto di capolista al Senato, Salvatore Borsellino aveva suggerito a Ingroia di
mettere in lista anche il giovane Benny Calasanzio Borsellino, ex candidato Idv alle regionali del
Veneto, collaboratore del Fatto Quotidiano e dell’eurodeputata Idv Sonia Alfano, figlia di Giuseppe
Alfano, giornalista ucciso dalla mafia nel 1993. Benny Calasanzio Borsellino è anche coautore di un
libro-intervista a Salvatore Borsellino in cui quest’ultimo parla del fratello Paolo Borsellino, ed è
nipote, sempre Benny, di un altro Paolo Borsellino trucidato dalla mafia: non il magistrato, ma un
omonimo pure lui ucciso in Sicilia negli anni Novanta, come ricostruito dal fratello di Paolo
Borsellino (il secondo) che si chiama Pasquale Borsellino. Resta che Ingroia, alla fine, ha proposto
di mettere Benny Calasanzio Borsellino in fondo alla lista sicché Salvatore Borsellino per protesta
si è ritirato da capolista al Senato, sostituito da Sandra Amurri, ex candidata Idv, collaboratrice del
Fatto Quotidiano, testimone del processo sulla «trattativa» istruito da Antonio Ingroia, autrice del
libro «L’albero Falcone» nonché consulente della Fondazione «Giovanni Falcone e Francesca
Morvillo», quest’ultima moglie di Falcone e magistrato ucciso dalla mafia assieme a lui, nonché
sorella di Alfredo Morvillo, magistrato legato a Gian Carlo Caselli e al Fatto Quotidiano,
procuratore antimafia a Termini Imerese e al centro di una polemica, quattro anni fa, quando a
Marsala al suo posto fu nominato procuratore capo Alberto Di Pisa, a suo tempo accusato di essere
il «corvo» che scrisse lettere anonime contro Giovanni Falcone. Alla Camera, invece, il capolista in
tutte le circoscrizioni siciliane sarà lo stesso Ingroia, ex allievo di Paolo Borsellino, mentre al
secondo posto nel collegio occidentale ci sarà Giovanna Marano che alle regionali era stata
sostituita da Claudio Fava, figlio di Giuseppe Fava, giornalista ucciso dalla mafia nel 1984; al
secondo posto nel collegio orientale ci sarà invece Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, politico
ucciso dalla mafia nel 1982. In lista anche il magistrato Caterina Chinnici, figlia di Rocco Chinnici,
magistrato ucciso dalla mafia nel 1983.
Salvatore Borsellino, successivamente, a seguito di una polemica sull’abitudine di Ingroia di citare
spesso Falcone e Borsellino, si era limitato a dire che il nome di suo fratello, Paolo Borsellino,
doveva restare fuori dalla campagna elettorale. Più dura con Ingroia, rispetto a Salvatore Borsellino,
era stata Maria Falcone, sorella di Giovanni Falcone ed ex candidata al Parlamento europeo per il
Pd: la donna, già presidente della citata Fondazione Falcone, aveva esplicitamente accusato Ingroia,
da ex allievo di Paolo Borsellino, di sfruttare il nome di Giovanni Falcone per cercare consensi,
suscitando la rabbia di Ingroia che aveva replicato che anche lei aveva sfruttato il nome di Giovanni
Falcone, ma era stata trombata alle Europee. Per quanto riguarda il nome di Paolo Borsellino,
invece, è stato fatto notare che Ingroia per lungo tempo tempo ha indagato sulla morte del suo ex
maestro Paolo Borsellino (Ingroia è stato suo allievo) a margine dell’inchiesta sulla «trattativa», che
si basava anche sulle testimonianze di Agnese Borsellino, moglie di Paolo Borsellino e madre di
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Post/teca
Manfredi Borsellino, quest’ultimo apprezzato testimone della gesta di suo padre e attaccante della
nazionale magistrati, anche se è commissario di Polizia a Cefalù. Distante da ogni polemica si era
opportunamente tenuta Rita Borsellino, sorella di Paolo Borsellino e parlamentare europeo del Pd,
mentre la delicatezza dell’argomento aveva suggerito silenzio persino a Sonia Alfano, solitamente
loquace europarlamentare dell’Idv e citata figlia di Giuseppe Alfano, ucciso dalla mafia prima che
Sonia Alfano ottenesse l’assunzione diretta alla Regione Sicilia in virtù della normativa in favore
dei familiari delle vittime di mafia; accadeva, va precisato, prima che Sonia Alfano s’incatenasse
davanti alla Prefettura di Palermo per chiedere l’equiparazione tra le normative per i familiari delle
vittime della mafia e le normative per i familiari delle vittime del terrorismo (2007) e accadeva, va
pure precisato, prima che la medesima Sonia Alfano fondasse la «Associazione Nazionale Familiari
Vittime di mafia» (2009) nello stesso anno in cui partecipava all’organizzazione delle
manifestazioni delle Agende Rosse assieme a Salvatore Borsellino, fratello di Paolo Borsellino.
fonte: http://www.ilpost.it/filippofacci/2013/02/08/professione-parente/?
utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+ilpost+%28Il+Post+-+HP
%29
---------------------sillogismo ha rebloggato pellerossa
pellerossa:
C’è gente che si fotoscioppa anche l’anima.
------------
Vulcano (Etna) 3
8 febbraio 2013
di mario filloley
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Post/teca
Per disposizioni dell’autorità aeronautica siete pregati di mantenere spento il vostro telefono
cellulare sia a terra che in volo. Potreste fare il solletico all’antenna MUOS di Niscemi, che è
l’unica autorizzata a interferire con le strumentazioni di bordo di quest’aeromobile in partenza
dall’aeroporto di Comiso.
Elaine Dickinson - Signore, mi scusi, dovrebbe spegnere il suo telefono cellulare, stiamo per
decollare
Ted Striker - Non è un cellulare
ED - Il suo smartphone, allora
TS - Non è uno smartphone
ED - E che spacchio è ‘sta cosa?
TS - È una tecnologia nuova: si appizza al MUOS, mi serve per comandare le testate nucleari di
Sigonella, quindi lo posso tenere addumato
ED – Favorisca la carta d’imbarco, per cortesia
TS - Prego, tenga pure
ED – ”Conquistare la totalità dell’Asia, presidiando la Sicilia con almeno due armate”?
TS – Gliel’avevo detto
ED - E io ora all’autorità aeronautica che gli dico?
TD - La stessa cosa che la Cancellieri ha detto a Crocetta
ED – E cioè?
TS - Suca
ED - E al comandante?
TS - Forte
ED - E se precipitiamo?
TS - Spacchio m’antaressa
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Post/teca
ED - Ma non muore pure lei, scusi?
TS - Io? Io sono un drone, il vero pilota di questo volo
ED - Ma allora… Non mi dirà che anch’io…
TS – Mi lasci indovinare: per caso lei, la notte, sogna pecore elettriche?
fonte: http://www.ilpost.it/mariofillioley/2013/02/08/vulcano-etna-3/?
utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+ilpost+%28Il+Post+-+HP
%29
-----------spaam
“Sì, ma come faremo?” domandarono gli ippopotami, come se a loro fosse mai fregato un
cazzo dell’intera faccenda. “Faremo come gli antichi” rispose il capo delle scimmie:
“Fumeremo tutta l’erba del bosco e voleremo in alto fino a raggiungere Dio”. E così fecero.
Rullarono e squagliarono tutto il fumabile che si trovava nel bosco fino a quando non ne
rimase più nulla. Poi se lo fumarono e volarono fino a Dio.”
—
----------------
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Roy Winehouse e l’applicazione maledetta Diecimila.me
Post/teca
20130211
tattoodoll ha rebloggato ilpapo
“San Valentino è alle porte, non aprite a nessuno.”
—
(via starrivandolafinedelmondo)
Fonte: starrivandolafinedelmondo
---------------------senza-voce ha rebloggato burnedflames
“Preferivo la mia debolezza. La mia tristezza e la mia capacità di soffrire. La luce dell’estate,
l’odore del vento, il verso delle cicale. Sono queste le cose che mi piacciono, non ci posso fare
niente.”
—
Haruki Murakami - Nel segno della pecora (via
mariofiorerosso)
Fonte: mariofiorerosso
-----------------12:08 – La dichiarazione di Benedetto XVI sulle sue dimissioni fatta oggi durante il
Concistoro per tre canonizzazioni:
Carissimi Fratelli,
vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per
comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver
ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che
le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il
ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza
spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno
soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato
da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro
e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore
che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia
incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole
della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di
Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19
aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di
San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave
per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice. Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore
per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e
chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo
Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria,
affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo
Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una
74
Post/teca
vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.
fonte: http://www.ilpost.it/2013/02/11/live-dimissioni-papa-benedetto-xvi/
-----------------byme74:
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/politica/2013/02/11/Benedetto-XVI-lascia-pontificatoPapa-dimette-28-febbraio_8225601.html
Se il papa è andato via,
buon viaggio e così sia!
Non morirem d’affanno,
perchè fuggì un tiranno!
Perchè si ruppe il canapo
che ci legava il piè!
Viva l’Italia e il popolo,
e il papa che va via!
Addio santa corona,
finì la monarchia!
Or che sovrano è il popolo,
mai più ritorni un re!
O popoli fratelli
oppressi da mill’anni
Buttate giù i cancelli,
scacciate i re tiranni!
Mai più sui troni siedano
imperatori o re!
Goffredo Mameli
fonte: http://k-ur-tz.tumblr.com/post/42835502027/byme74
----------------kon-igi
“Il testo originale latino dell’abbandono del papa:
“Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit. Ut adipiscing, justo ut scelerisque
venenatis, erat nunc vehicula neque, et scelerisque mauris enim sit amet ligula. Pellentesque
augue orci, dictum sed adipiscing ut, ultrices vitae dolor. In hac habitasse platea dictumst.
Maecenas posuere, felis sed euismod pulvinar, justo nibh egestas mi, ac pretium dolor arcu ut
massa. In varius erat vitae ligula malesuada blandit. Defatigātus sum. Uffa. In hac habitasse
75
Post/teca
platea dictumst. Phasellus in augue urna. Sed semper posuere blandit. Nulla ac nunc mollis
ipsum facilisis ultrices eu sed libero. Mauris eu varius sem. Aliquam sed tellus ac lorem
molestie tincidunt. Suspendisse lectus erat, vulputate a suscipit non, pretium sed nibh. Integer
sit amet ligula ut mauris consectetur ultricies. ”
—
Un amico su FB
------------------
Il vinile e la perdita dell'«aura»
Quirino Principe 10 febbraio 2013
Nelle sue Conversations with Igor Strawinsky (1959), il direttore d'orchestra Robert
Lawson Craft, oggi novantenne, riferisce un giudizio di Stravinskij su ciò che allora era un
miraggio, anzi una Fata Morgana: l'alta fedeltà d'ascolto di musica riprodotta e incisa su
dischi in vinile a 33 o 45 giri.
Ci scusiamo con i lettori: abbiamo scritto il cognome del compositore russo con la grafia
assurda usata da anglofoni, francofoni e da qualche altro, ahinoi: abbiamo sbagliato
deliberatamente, proprio per essere fedeli alla maniera in cui aveva scritto e
sciaguratamente continua a scrivere un musicista colto ma, purtroppo, americano.
Insomma, qui la fedeltà confligge con la verità, o almeno con l'esattezza. Ma guarda! Ciò
che qualcuno avrà ritenuto una nostra fastidiosa e saccente digressione, è invece un
preludio filosofico all'esposizione del tema! L'antitesi, fedeltà versus verità, era proprio la
materia sulla quale Craft discuteva con Stravinskij. Quest'ultimo, alla domanda
dell'interlocutore «Lei che cosa pensa della fedeltà di suono dei "long playing"», aveva
risposto secondo il suo stile da rasoio: grazie ai dispositivi di alta fedeltà (a nostro avviso,
quei complicatissimi e delicatissimi e fragilissimi trabiccoli elettro-acustici non
funzionavano mai, né miglioravano la situazione le puntine speciali – maledette, quando
si doveva cambiarle! –, né le varie spazzole morbide passate e ripassate sul solco, né i
micidiali e corrosivi liquidi antistatici, "garantiti" come cancellatori del fruscio), a forza di
perfezionare il suono sarebbe giunto alla perfezione, e quindi si sarebbe realizzata
l'altissima infedeltà, poiché la perfezione non esiste nelle esecuzioni dirette, dal vivo. La
perfezione dei microsolco in vinile, concludeva Stravinskij, era innaturale.
Nel 1959, i vecchi cari Lp erano freschi di anagrafe, e si pensava che il futuro
appartenesse alle viniliche creature della loro naturale evoluzione. Ma i dischi in vinile
non esistevano affatto trentadue anni prima, quando la musica riprodotta ("die
technische Reproduzierbarkeit", la riproducibilità tecnica sulla quale meditò Walter
Benjamin nel famoso saggio del 1936) era affidata a una più primitiva specie zoologica:
gli arcaici dischi a 78 giri, quelli che incantano due personaggi di Thomas Mann, Hans
Castorp in Der Zauberberg e Adrian Leverkühn in Doktor Faustus. Non è immotivato dire
"trentadue anni prima": nel 1927, Theodor Wiesengrund Adorno pubblicò un articolo,
76
Post/teca
«Nadelkurven» ("I volteggi della puntina", in «Blätter des Anbruchs», n. 10, febbraio
1928, pagg. 47-50): una riflessione non tecnico-empirica come quella di Stravinskij del
'59, bensì filosofica e dialettica; avendo esperienza soltanto di 78 giri, Adorno teorizzava
una semplice formula: quanto più cresce il fenomeno della diffusione tecnica della
musica riprodotta, e quanto più si sviluppano i mezzi della riproducibilità, tanto più il
prodotto si allontana dall'oggetto originario (la musica), e tanto meno è fedele a sé. Era,
più o meno, l'anticipazione della "perdita dell'aura" di cui nel '36 avrebbe parlato
Benjamin. Trentotto anni dopo, in pieno trionfo storico dei "nuovi" Lp in vinile, Adorno
rivide il saggio del '27, e lo ripubblicò in «Phono: Internationale SchallplattenZetischrift», n. 6, luglio-agosto 1965, pagg. 123-124. Oggi lo troviamo nella grande
edizione completa, Gesammelte Schriften, vol. XIX, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1984,
pagg. 525-529.
Ora, splendida notizia, l'editrice Castelvecchi pubblica la traduzione italiana del prezioso
saggio e di altri affini di Adorno, Die Form der Schallplatte ("La forma del disco", nella
cui perfetta circolarità Adorno vede un archetipo prefissato dal destino alla civiltà
occidentale), Oper und Langspielplatte ("L'opera e il disco long playing"), e uno di tema
collaterale, Reflexionen über Musikkritik ("Riflessioni sulla critica musicale"). Pagine
brevi e veloci, di acutissimo stimolo. E, con straordinaria (o forse prevedibile)
coincidenza, la casa editrice De Agostini ha avviato, prendendo un po' di sorpresa
appassionati e collezionisti, un'iniziativa abbastanza clamorosa: la risurrezione del vinile,
la rinascita dei 33 giri non già nella musica di consumo (dove era sempre rimasta viva
una certa continuità) bensì nella musica alta e forte.
In verità, qualcosa di simile era nell'aria: ce ne parlava una delle persone di maggiore
professionalità in materia discografica, Luigi Grazioli, anfitrione di quel luogo magico che
è la "Bottega Discantica" di Milano. Si tratta di ritrovare la famosa "aura" benjaminiana,
le condizioni vere e lo stato d'animo dell'ascolto diretto, ma anche della preparazione
nella solitudine sublime e nobile "indoor" ("heim", in tedesco), quella preparazione che
impegnava mani, pulizia del disco, udito fine, e che è stata resa inutile dai Cd, e che ora i
nuovi Lp (nuovissimi, non d'antiquariato!) rendono elegante ma non tormentosa.
Vogliamo provare? I primi titoli sono Beethoven (la Quinta diretta da Karajan, la Terza
da Klemperer), Stravinskij (il Sacre diretto da Solti)... E allora, com'è? Abbiamo
sperimentato, ma non precorriamo i giudizi dei nostri cari lettori. Provare è sempre
un'avventura!
Theodor Wiesengrund Adorno, Long Play e altri volteggi della puntina, a cura di
Massimo Carboni, Castelvecchi, Roma, pagg. 62, € 9,00
fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-02-10/vinile-perdita-aura-081932.shtml?
uuid=AbNqC0SH
-------------cosipergioco ha rebloggato iamtheheroofmystory
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Post/teca
Io non mi faccio i film mentali. Mi faccio i libri mentali, poi di
solito ci traggo il film, ma il libro era più bello.
Comunque è bello vedere che la mia frase viene ancora rebloggata senza fonte.
Mi fa sentire un sacco importante, mi fa anche rodere il culo, ma vuoi mettere rispetto alla
sensazione di sentirsi importante?
PS Sono ironica, è molto di più il rodimento di culo.
Fonte: anninamour
---------------20130212
falcemartello ha rebloggato magopancione
microsatira:
Secondo il terzo segreto di Fatima la profezia Maya diceva che Nostradamus avrebbe
previsto le dimissioni del Papa.
Fonte: microsatira
------------microsatira
Dan Brown aveva il blocco dello scrittore. Poi il Papa si è dimesso.
(grazie a Kon-igi per l’ispirazione)
---------periferiagalattica
“Racconta un’antica leggenda norrena che un contadino di nome Scrav, avendo cresciuto un
bel maiale di buona stazza fino a farlo diventare florido e pasciuto, decise infine, al giunger
dell’inverno, di farne salumi, di cui andava parecchio ghiotto. Scrav preparò allora tutto
l’occorrente, affilò coltelli e mescolò spezie; poi si diresse da Lomy, il maiale, per porre fine
alla sua vita. Mentre era lì per lì per ucciderlo, Lomy cacciò un grido e iniziò a parlare. Scrav,
impietrito, ascoltò l’animale che lo redarguiva, un po’ a parole un po’ a grufolii: “Che fai,
Scrav, m’uccidi? Non siamo forse stati bene assieme? Tu m’accudivi, e io ti gironzolavo
attorno, facendoti compagnia. Quell’acida di tua moglie, quei furfanti dei tuoi figli, ti sono
forse stati vicini quanto me? No, Scrav, non l’hanno fatto. Eppure sei qui, pronto a
sacrificarmi per soddisfare la tua gola. Però non lo farai, caro Scrav, perché siamo amici, e
non vuoi che il mio spettro ti perseguiti notte e giorno finché vivi”. Allora Scrav strinse forte a
sé Lomy e lo uccise. E quando Lomy tornò dall’oltretomba per la sua vendetta, Scrav lo prese
e ci fece delle tendine, perché del maiale non si butta via niente, nemmeno il fantasma.”
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Post/teca
—
La storia di Scrav e Lomy | Diecimila.me
----------------ilfascinodelvago
“Soffro sapendo di soffritto”
—
Stark
-------------emilyvalentine ha rebloggato brondybux
brondybux:
12 Febbraio. Per non dimenticare.
Oggi si celebra la giornata mondiale degli infissi in legno. Tutti la festeggiano, ma sono veramente
in pochi a sapere perchè.
il 12 febbraio del 1939, Italo Balbo mandò 10 mila infissi nelle allora nostre colonie in Africa.
Arrivati nel continente nero, purtroppo, non trovando occupazione (non ci avevano le finestre), in
meno di una settimana i poveri infissi vennero accatastati ed abbandonati in un capannone.
----------------“Benché possa sembrare incredibile, dapprima molte persone opposero resistenza all’uso dei
parafulmini. La Chiesa sosteneva che il fulmine era una punizione divina, una risposta al peccato
mortale, e che non si doveva interferirecon esso. Nell’America degli inizi, quando un fulmine
colpiva una casa i pompieri non tentavano nemmeno di spegnere le fiamme, ma si limitavano a
gettare acqua sulle case vicine per impedire che l’incendio si propagasse. La polvere da sparo
veniva di solito accumulata in chiesa perché si riteneva che gli edifici sacri godessero di una
speciale protezione divina. In realtà non era così; semmai i loro campanili aguzzi attiravano i
fulmini. Infine, l’opposizione religiosa al parafulmine ebbe termine nel 1767, quando a Brescia,
forse a causa di un fulmine, esplose la torre-polveriera di Porta San Nazaro, in cui erano
conservati 90.000 chili di polvere da sparo, provocando gravi distruzioni e la morte di trecento
persone.
Lo stesso Franklin fu oggetto della collera delle moltitudini bigotte. Nel 1756 fu attaccato dai
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Post/teca
ministri del culto, che lo consideravano responsabile di un terremoto a Boston. Gli ecclesiastici
sostenevano che i parafulmini di Franklin avevano rubato il fulmine all’Onnipotente e lo avevano
scaricato nel suolo, dove esso aveva provocato il terremoto. Franklin replicò argutamente che
proteggersi dal fulmine con un parafulmine non era più sacrilego che proteggersi dalla pioggia con
un tetto.”
Da “Come si sbriciola un biscotto”, di Joe Schwarcz.
-------------pizzonero:
Oggi ho smarrito il sorriso.
Chiunque lo ritrovasse è pregato di riportarmelo.
Lo potrete riconoscere perchè è solo e piange.
Non spaventatelo, potrebbe sparire per sempre.
Ci terrei molto a riaverlo quindi sono disposto
a elargire una lauta mancia
a chiunque me lo riportasse: un sorriso non ha prezzo.
Accetto anche le bugie pur di riaverlo.
Astenersi perditempo.
Spero di esserne ancora capace.
Spero di essere. FacciaTosta
-------------ilfascinodelvago
“Ci sono giorni in cui mi affaccio al terrazzo, le mani sulla ringhiera e le braccia tese, come se
se dovessi tenere un comizio. Invece controllo solo di quanto sono cresciute le mie piante
grasse.”
------------lubabbollu
Del perchè ci sono categorie di ascoltatori in Italia che elogiano la
mediocrità (ovvero come impararai a criticare Mogol ed il beat
italiano ed amare Demetrio Stratos, Coltrane ed i King Crimson)
I nostaligici, italiani, del beat anni ‘60 e del rock leggero (definizione mai detta con cognizione di
causa, ma completamente de-contestualizzata) della seconda metà dei sessanta. Questa categoria di
ascoltatori, cresciuta amando complessi quali i Dik Dik, Camaleonti, Primitives, Giganti, etc etc,
crede che
● i brani siano autentici e le versioni di oltremanica siano delle cover;
● Mogol sia una divinità intoccabile, quando ha fatto più danni che altro. Anche perchè si
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Post/teca
parla della grandezza di Mogol come produttore (cough cough), arrivando a considerarlo
superiore a Eno e Albini.
● quella era musica, mentre tutto quello che è stato pubblicato in ambito rock in Italia dopo il
1975 sia una chiavica;
● i tormentoni quali” quella ERA musica, non la schifezza attuale”. Oppure “eh, ma prima
sapevano suonare mentre oggi è tutto fatto al computer”. Quando magari un paio di anni più
tardi in Germania c’era gente che fondava gruppi poco importanti come Kraftwerk e
Tangerine Dream;
Il problema è che, sebbene si trattassero di buone espressioni di musica (benintenso che al
sottoscritto piacciono ed è cresciuto ascoltandoli), restano comunque delle bands ancorate - la
maggior parte, perchè alcuni sono partiti dal beat e poi hanno avuto la svolta prog/world/jazz,
fondando alcuni dei migliori gruppi italiani - allo stereotipo manierista del beat, scalando le
classifiche con cover, addirittura identiche e prive di ogni benchè minimo arrangiamento peculiare,
riuscendo per di più a travisare completamente le lyrics e le tematiche dei brani originali.
Quest’ultima, poi, è una colpa ed una responsabilità di gente come Mogol, democristiano come
pochi, che traduceva come un duo Rutelli - Bagnasco, solo per rendersi accomodante nei confronti
delle etichette discografiche italiane. In Italia nel 1967 noi sbavavamo per una (ottima) cover dei
Procol Harum e contemporaneamente venivano pubblicati alcuni dischi come
- l’omonimo di Leonard Cohen;
- l’esordio dei Doors;
- Sgt Peppers: LORO si bombavano di acidi e noi facevamo ancora le pappette alla love me do.
- Kinks - Something By Else
- Love - Forever Changes, che insegnava ai futuri Calexico e Wilco come coniugare il folk, il rock,
il pop e le atmosfere gitane e cupe;
- Hendrix ti chiedeva se avessi abbastanza esperienze, ma nel caso avrebbe provveduto lui a
colmare queste lacune. E scriveva la storia del rock.
- Non voglio neanche fare cenno al disco della Banana, basterebbe la sola Heroin a spazzare viva
tutta la produzione beat italiana.
E la finisco qui, ma c’è gente che tuttora crede che quella manciata di anni sia stata la maggiore
espressione del rock. Gente che, fieramente, considera quell’accozzaglia di cover e canzonette da
classifica, la più alta manifestazione di genialità sonica mai sentita in Italia. A Loro, va il mio più
profondo disgusto.
-----------20130213
La M tra il mio nome e cognome
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Post/teca
13 febbraio 2013, di francesco m. cataluccio
La M. tra il mio nome e cognome ha una lunga storia, che è meglio farla breve. In Sicilia, i
primogeniti si chiamano tradizionalmente come i padri. Mio padre, che era l’ultimo di 20 figlioli
(ma solo 10 sopravvissero più di una settimana), fece in tempo a richiamarsi Francesco, come il
primo fratello (nel frattempo morto) e come il padre, il nonno, il bisnonno… Il mio destino era così,
secondo lui, segnato. Ma, quando papà, accompagnato da suo fratello Matteo (medico e sfegatato
comunista), si recò all’Anagrafe fiorentina per registrarmi, il solerte impiegato comunale gli disse
che nel frattempo il fascismo aveva introdotto una leggina (ovviamente tutt’allora, e tutt’ora,
vigente) che vietava tassativamente di chiamare i figli come i padri (forse per sembrare così più
numerosi ed evitare che si diffondesse l’uso americano del jr.). Francesco e Matteo, presi alla
sprovvista, non trovarono di meglio che darmi i loro due nomi. Quando la mia povera mamma lo
venne a sapere, ci mancò poco che si buttasse dalla finestra della clinica dove stava cercando di
riprendersi dalle fatiche del parto (nacqui di otto mesi, con taglio cesareo, come l’uccisore di
Macbeth). A Firenze, Matteo pare sia un modo più gentile per dire «matto». Lei iniziò quindi un
martellante lavaggio del cervello: «Ricordati che tu ti chiami Francesco e non Matteo; se ti fai
chiamare così ti daranno dello svitato!». Per compiacere la mamma (del resto anche il babbo, per
quieto vivere, si era adeguato) ed evitare di esser trattato precocemente come un malato di mente, fu
imposto a maestri, insegnanti e compagni di chiamarmi Francesco. Tutto filò liscio fino ai 18 anni e
un giorno. Ringalluzzito dalla maggiore età firmai un documento come avevo sempre fatto. Rischiai
così di finire in galera. Escogitai quindi (mal consigliato dalla mia umbra fidanzata di allora) un
doppio regime: solito nome nella vita quotidiana e nome anagrafico nelle firme di assegni e
documenti. Ero diventato lo zimbello dei miei amici! Ma la dea protettrice dei firmatari mi fu
benevola. Fino a quando non firmai (nel 1977) il mio primo articolo, su un settimanale comunista
italiano, critico verso il regime comunista polacco (☞ PSEUDONIMI). Ne venne fuori un caso di
omonimia che fu smascherato da un pignolo studente di Storia contemporanea di Genova che, alla
fine della lezione, pensò bene di chiedere al suo professore, mio padre, come mai fosse così
misurato nel suo insegnamento ed esagitato sulla stampa. Mai visto il mio genitore così furibondo:
minacciò di cacciarmi di casa e interdirmi, per vie legali, l’uso del suo nome, e persino del
cognome. Grazie alla mediazione della mamma, giungemmo a un compromesso: così nacque il
Francesco M. Ma, tutte le volte che un distratto redattore o tipografo si dimenticava l’emme puntata
(e capitava, purtroppo, sempre quando le mie opinioni erano particolarmente divergenti da quelle di
papà), erano dolori. Il legittimo proprietario del nome Francesco s’infuriava terribilmente.
Presentiva forse quello che accadde qualche anno dopo: l’Enciclopedia Treccani, confondendosi, mi
chiese un aggiornamento della voce Nazionalismo arabo che il mio talentuoso papà aveva
compilato nel 1938. Mi guardai bene dall’accettare, anche perché l’autore di quell’erudita voce (non
avendo ancora sperimentato la tragedia della guerra ed esser quindi diventato partigiano, e anche
comunista) allora era un giovane e promettente intellettuale fascista e vedeva con favore «i nemici
arabi dei nostri nemici» (la perfida Albione). La situazione si è ovviamente, e tristemente, risolta
con la scomparsa del «vero» Francesco. Sul momento, mi ha salvato da ulteriori scosse emotive il
fatto che nei necrologi ci fosse sempre scritto «prof.»: titolo di distinzione che spettava a lui e solo a
lui. Rimango comunque, ancor oggi, costretto a mantenere una «doppia vita nominale»:
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Post/teca
amministrativa (Matteo Francesco) e pubblico/privata (Francesco). E la «M.» cerca di rimanere nel
mezzo.
(tratto da L’ambaradan delle quisquilie, Sellerio 2013)
fonte: http://www.ilpost.it/francescocataluccio/2013/02/13/la-m-tra-il-mio-nome-e-cognome/?
utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+ilpost+%28Il+Post+-+HP
%29
-----------------20130214
Amore mio ho fatto tesoro della tua lettera, l'ho letta. Mi ha reso
felicissimo. Solo una cosa mi ha contrariato...hai sbagliato a scrivere il
mio nome.
Snoopy - Charles M. Schulz
-----------------selene ha rebloggato gianlucavisconti
“Era il giornale di Pierpaolo Pasolini, Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo, Italo Calvino,
Massimo Bontempelli, Cesare Pavese, Alfonso Gatto, Paul Eluard, Louis Aragon, Federico
Garcia Lorca ed Ernest Hemingway. Era il giornale che vedevi orgogliosamente arrotolato in
tasca agli operai in sciopero o ai contadini di Avola, infilato nella sporta delle donne che si
battevano per quei diritti amari e per quello ancora più indispensabili. C’è ancora ma è come
se non lo vedessimo più, nemmeno fatto a barchetta in testa a operai che fischiano sulle
impalcature. Quelli ci sono ancora ma è difficile sentirli fischiare.”
—
Le ceneri di Gramsci: L’Unità scorda il proprio
compleanno « (viagianlucavisconti)
Fonte: ilsimplicissimus2.wordpress.com
-------------------lachimera ha rebloggato neogrigio
“Vado dentro un delirio. Mi prende.
Mi arrendo. Voglio sapere tutto. Svengo.
Io sono morendo sono scrostando scrostando.
Sono morendo morendo. MI spezzo.
Sono tutta fango. Poi rinasco fiore. Lasciatemi
in pace. Lasciatemi la pace per dopo.
Quando torno se torno. Adesso vado via.
Dove non si vede. Scivolo giù. Costeggio
un gran vuoto. Adesso rinasco. Butto
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Post/teca
questa greppia, le vecchie parole, passo per
una muffa micidiale, per i vortici delle
attese, in quello scomparire ci passo.
Non resto. Mi assento.”
—
Mariangela Gualtieri (via neogrigio)
----------skiribilla ha rebloggato manyinwonderland
Invio manoscritti
Oggi il sito di ISBN Edizioni è tutto nuovo, sono andata a dargli una sbirciata, così, nella pagina
Chi siamo, al punto Invio manoscritti, ho letto questo:
Astenersi dall’inviare: romanzi storici, romanzi rosa, romanzi i cui protagonisti hanno soprannomi
tipo Strippo, Scubi o Faina, romanzi di auto-fiction, romanzi ispirati a Bukowski, romanzi ispirati a
Carver, fantasy che non siano all’altezza di Game of Thrones, horror che non siano (almeno)
all’altezza di Clive Barker, storie di Sud Italia idilliaco, storie di artisti che hanno girato il mondo e
tornano a casa e non si riconoscono, romanzi troppo letterari, romanzi in cui non succede
veramente un cazzo.
Che è un modo eccezionale per scoraggiare chiunque, tranne i coraggiosi e i megalomani. Astenersi
perditempo.
novelz
Fonte: novelz
---------------kon-igi
“È piuttosto significativo che vi sia una giornata degli innamorati, una giornata per la pace,
una giornata dei bambini, una giornata contro la violenza alle donne. Una.”
--------------k-ur-tz ha rebloggato marguse
“Una persona è i libri che ha letto, la pittura che ha visto, la musica ascoltata e dimenticata, le
strade percorse.
Una persona è la propria infanzia, la sua famiglia, vari amici, qualche amore, abbastanza
seccatori. Una persona è una somma abbassata da infinite sottrazioni.”
—
Fonte: destinyforeternity
---------------20130215
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S. Pitol (via marguse)
Post/teca
Muy confidencial da Primaonline.it...
Il calo pubblicitario è strutturale non congiunturale, dice Nielsen
Fino al 2009 l’andamento del mercato pubblicitario è sempre stato ciclico. Un andamento omogeneo e
ripetitivo che ogni otto anni si comportava più o meno alla stessa maniera: ai primi due anni di calo è
sempre seguita la ripresa. Fino al 2009 appunto. Da quell’anno qualcosa è cambiato nei modelli utilizzati
da Nielsen e presentati oggi nella prima conference call organizzata in occasione del rilascio del dato di
chiusura 2012 degli investimenti (vedi Dati e cifre di Primaonline.it). “Abbiamo registrato un elemento di
discontinuità. Dopo il calo pubblicitario del 2009 (-13,6%) e il rimbalzo positivo del 2010 (+7,9%) non è
seguita la ‘solita’ ripresa ma sono arrivati altri due anni di decrescita, rispettivamente -3,9% nel 2011 e
-14,3% nel 2012. Un andamento che indica chiaramente una cosa: siamo di fronte a un cambio
strutturale e non congiunturale. E ci vorrà ancora tutto il 2014 prima di capire se ripartirà un ciclo o se
rimarremo in questa fase di turbolenza”, avvisa Alberto Dal Sasso, advertising information services
business director dell’istituto.
Difficile fare previsioni per come andrà quest’anno, ma la situazione appare particolarmente dura. “È
improbabile un cambio di rotta rispetto al trend che nel 2012 ha registrato un peggioramento continuo e
progressivo: il 1° trimestre è calato del 7,2%, il 2° trimestre dell’11,4%, il 3° trimestre del 20,5% e il 4°
trimestre del 21,1%. Possiamo immaginare che la raccolta di gennaio sarà negativa a doppia cifra e con
un due davanti”.
La crisi fotografata da Nielsen riguarda un po’ tutto il sistema. Le aziende investritrici che nel 2012 sono
diminuite del 3% così come l’investimento medio, sceso del 12%. Significativo anche l’andamento della
raccolta sui mezzi negli ultimi dieci anni. Dal 2002 al 2012 la quota del mercato pubblicitario in mano ai
quotidiani è calata dell’8,2% (dal 23,5% del 2002 al 15,3% del 2012); periodici -6,8% (dal 15,7% del
2002 al 8,8% del 2012); tv stabile con il 53,6%; radio +1,4% (dl 3,9% del 2002 al 5,3% del 2012); web
in crescita tra il 15% e il 18%. (Primaonline.it - 14 febbraio 2013)
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Le protolingue si studiano al computer
Un nuovo software è in grado di automatizzare la ricerca delle lingue ancestrali con un alto livello
di accuratezza. I linguisti perderanno il posto? No, avranno a disposizione uno strumento molto più
sofisticato
Roma - La ricerca sulle protolingue ha la sua Stele di Rosetta informatica, un sistema software in
grado di analizzare con accuratezza - e con l'efficienza propria di un programma per computer - le
componenti per ricostruire la storia ancestrale di una famiglia linguistica.
Realizzato dai ricercatori della University of British Columbia e di Berkeley, il sistema viene
trattato in uno studio sulla pubblicazione Proceedings of the National Academy of Sciences: per
mettere alla prova il software, gli esperti hanno ricostruito il proto-austronesiano (origine comune
delle lingue parlate in Polinesia e altrove nell'Oceano Pacifico) e le sue 600 e più varianti a partire
da un database di 140mila parole moderne.
Il software basa infatti il suo lavoro di analisi probabilistica sullo studio di parole dal suono simile
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Post/teca
in lingue diverse, calcolando le possibilità che ogni suono ha di appartenere a una protolingua o
meno. I ricercatori dicono che il sistema è in grado di inferire le protolingue con un livello di
accuratezza dell'85 per cento, impiegando tra l'altro qualche ora di calcolo informatico piuttosto che
gli anni necessari ai linguisti impegnati nello stesso compito.
I creatori del software tengono a dire che il sistema non soffierà il posto ai suddetti linguisti, anzi il
loro lavoro sarà enormemente facilitato dalla disponibilità di uno strumento di analisi così potente e
al passo coi tempi. Tutto ciò che fa il software è "automatizzare" teorie di linguistica su una scala
più ampia, con l'accesso a un maggior numero di dati, parole, linguaggi a una frazione del tempo.
Per provare l'utilità della loro Stele di Rosetta digitale, gli scienziati nordamericani pianificano ora
di adottarla per ricostruire protolingue indigene dell'America del Nord prima dell'arrivo dei
colonizzatori europei.
Alfonso Maruccia
fonte: http://punto-informatico.it/3716262/PI/News/protolingue-si-studiano-al-computer.aspx
----------------------curiositasmundi ha rebloggato rungia
“Ti penso al mattino quando vado al lavoro, ti penso mentre lavoro, ti penso quando torno dal
lavoro. Mi manchi tanto, weekend.”
—
Dio (via dovetosanoleaquile)
Fonte: dovetosanoleaquile
-----------------1000eyes ha rebloggato amamiconilcuorenoncongliocchi
“Le ragazze intelligenti aprono la mente. Le ragazze facili aprono le gambe. Le ragazze dolci
aprono il cuore..
E poi ci sono io, che apro il frigo.”
Fonte: nonhopiuuncuore
--------------------spaam
“Per passare da orgogliosamente fiere di esser single, a orgogliosamente fiere di avere un
fidanzato, ci metti un cazzo.”
-----------------lolitafuocodeimieilombi
“Io ti amo
e se non ti basta
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Post/teca
ruberò le stelle al cielo
per farne ghirlanda
e il cielo vuoto
non si lamenterà di ciò che ha perso
che la tua bellezza sola
riempirà l’universo.
Io ti amo
e se non ti basta
vuoterò il mare
e tutte le perle verrò a portare
davanti a te
e il mare non piangerà
di questo sgarbo
che onde a mille, e sirene
non hanno l’incanto
di un solo tuo sguardo.
Io ti amo
e se non ti basta
solleverò i vulcani
e il loro fuoco metterò
nelle tue mani, e sarà ghiaccio
per il bruciare delle mie passioni.
Io ti amo
e se non ti basta
anche le nuvole catturerò
e te le porterò domate
e su te piover dovranno
quando d’estate
per il caldo non dormi.
E se non ti basta
perché il tempo si fermi
fermerò i pianeti in volo
e se non ti basta
vaffanculo.”
—
----------------------alfaprivativa ha rebloggato curiositasmundi
“Sono solo stasera senza di te,
Mi hai lasciato da solo davanti a scuola,
Mi vien da piangere,
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Stefano Benni
Post/teca
Arriva subito,
Mi riconosci ho le scarpe piene di passi,
La faccia piena di schiaffi,
Il cuore pieno di battiti
E gli occhi pieni di te.”
—
Le tasche piene di sassi
Fonte: the-end-of-the-time
------------------
Libri elettronici a scuola: la vittoria di Pirro degli editori
A colloquio con Antonio Tombolini, fondatore di Simplicissimus BookFarm. Il dietrofront
ministeriale sull'adozione dei libri di testo in formato elettronico perde di vista un dato di fatto: la
transizione al digitale non solo della scuola ma di tutti i processi formativi che contano è già
iniziata.
Maria Teresa Della Mura
12 Febbraio 2013
La notizia è di pochi giorni fa.
Al momento della pubblicazione delle indicazioni operative in merito all’adozione dei libri di testo
per l’anno scolastico 2013/2014, la circolare del Miur si traformava in una vera e propria sorpresa.
Malgrado le promesse e gli impegni dei mesi scorsi, malgrado i piani annunciati, malgrado le linee
guida ormai datate 2009, la realtà sembra trasformarsi i un clamoroso dietrofront.
Testualmente si legge, infatti: ”Per quanto riguarda inoltre il primo ciclo di istruzione, lo stesso
decreto ministeriale 16 novembre 2012, con cui vengono emanate le “Indicazioni Nazionali per il
curricolo della scuola dell’infanzia e della scuola del primo ciclo” prevede espressamente che
l’editoria scolastica adegui i libri di testo destinati alle scuole del primo ciclo, a partire dalle
adozioni per l’anno scolastico 2014/2015. Il passaggio ai libri di testo nella nuova versione
digitale, da realizzare gradualmente a decorrere dalla adozioni per l’anno scolastico 2014/2015,
richiede in ogni caso l’adozione di un apposito decreto ministeriale che ne definisca le
caratteristiche tecniche”.
Burocratese perfetto, per rendere forse meno palese la cruda realtà: senza un decreto ministeriale
apposito, tutto l’impianto destinato a introdurre il libro elettronico a scuola resta lettera morta.
Per meglio capire cosa significa questo rinvio ministeriale, abbiamo interpellato Antonio
Tombolini, fondatore di Simplicissimus BookFarm, non solo voce autorevole sul mercato
dell’ebook in Italia, ma anche molto attento alle tematiche legate proprio al mondo della scuola, cui
dedica per altro il quarto eBook Camp in programma a Cosenza il 2 e 3 marzo prossimi.
Secondo Tombolini, la nuova svolta imposta dal Ministero ”al di là della solita involuzione del
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Post/teca
linguaggio teso a mascherare il più possibile la realtà dei fatti, ha un significato semplice: la lobby
degli editori specializzati della scolastica è riuscita nel proprio intento di ottenere un ennesimo
rinvio - di fatto sine die - del passaggio per legge alla fruizione digitale dei materiali didattici”.
Ed è una constatazione amara, soprattutto perché costringe a prendere atto di una sola verità. ”Alle
roboanti dichiarazioni di intenti pro-digital che i ministri di turno fanno in pubblico, consci del
fatto che vi è ormai un ampio consenso da parte delle famiglie, fanno seguito finti adeguamenti
normativi tesi in realtà a prolungare il più possibile lo status quo”.
Nulla di nuovo rispetto al passato, dunque.
Tuttavia, Tombolini è ottimista, tanto da definire quella che sembrerebbe una vittoria delle case
editrici una vera e propria vittoria di Pirro.
”Battendosi per ottenere questo risultato - sostiene - hanno ormai reso evidente a tutti il loro
atteggiamento di fondo, che è e resterà quello di una sostanziale ostilità alla transizione al digitale.
In questo è il punto debole di questa "vittoria": la transizione al digitale, anche nella scuola, non
avrà luogo né verrà impedita per via di legge. E' un evento che accadrà, e in qualche misura sta
già accadendo, per dirla con Totò, a prescindere. E chi pensa di opporvisi facendosi forza di norme
di legge, è destinato a essere travolto, a meno che non cambi rapidamente mentalità e strategie. I
contenuti digitali, come ogni "liquido", vogliono fluire, e opporre resistenza non serve ad altro che
ad aumentarne la pressione e a moltiplicarne in maniera incontrollata i flussi”.
L’ottimismo di Tombolini nasce dalla constatazione di una situazione di fatto, che va ben oltre la
semplice digitalizzazione dei libri scolastici.
IL processo irreversibile, di fatto già iniziato, è quello che sancisce la transizione al digitale non
solo della scuola ma di tutti i processi formativi che contano.
”Occorre una buona dose di ottusità per non accorgersi che interi settori dell'apprendimento, a
vari livello, stanno già emigrando massicciamente verso piattaforme digitali, dalle più complesse
strutture di elearning ai più semplici, ma efficacissimi, approcci delle lezioni frontali via youtube”.
Tombolini si domanda che cosa intendano realmente fare scuola e l'università: la formazione
evolverà in ogni caso verso queste modalità, e di nuovo: ”se l'istituzione-scuola deciderà di
contrastarle o di rimanervi estranea verrà travolta. Provo a rendere l'idea con un esempio che mi
pare paradigmatico: la formazione nel software prescinde ormai quasi del tutto in Italia dalla
formazione universitaria istituzionale, perché le facoltà di informatica non hanno saputo adeguarsi
all'evoluzione di questo settore, che segnala in genere i percorsi che vengono poi adottati da altri
settori più "tradizionali". L'Italia è piena di eccellenti "ingegneri informatici di fatto", con grandi
competenze software acquisite attraverso esperienze formative le più varie, al di fuori
dell'università. Ed è anche piena, ahimé, di troppi "ingegneri informati di diritto", muniti del pezzo
di carta ma privi delle competenze necessarie a stare sul mercato, perché formati in maniera
vecchia su competenze e metodologie ormai obsolete”.
Duro nelle sue opinioni, Tombolini riconosce tuttavia che il problema non sia solo italiano.
L'atteggiamento ostruzionistico degli editori specializzati è condiviso dai principali editori del
settore su scala mondiale, e la scuola, al di là di esperienze avanzate di eccellenza, non ha ancora
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mostrato percorsi convincenti, neanche all'estero.
La buona nuova, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, è che dunque il nostro Paese non ha
ancora un gap così drammatico da colmare.
Attenzione però: ”La condizione per non perdere il treno però è di partire subito con
sperimentazioni che partano dal basso, senza attendere una innovazione che si imponga per
decreto legge. Cosa che peraltro non è mai accaduta”.
In ogni caso, ed è qui che l’ottimismo del fondatore di Simplicissimus si fa più evidente, c’è un
mercato intero e nuovo a disposizione di chi voglia seriamente investirci in maniera innovativa.
”E visto l'atteggiamento degli editori tradizionali, direi che è un settore di elezione per startup e
nuove imprese. Anche per questo con Simplicissimus, piuttosto che rincorrere le chimere di
business che dovrebbero essere creati controvoglia e per legge dagli attuali editori, abbiamo deciso
di mettere mano allo sviluppo di una piattaforma per la produzione, vendita e condivisione di
materiali didattici digitali autoprodotti e non, che a partire dal prossimo anno scolastico metteremo
gratuitamente a disposizione delle scuole che vorranno cimentarsi con noi in questa
sperimentazione”.
fonte: http://www.01net.it/01NET/HP/0,1254,0_ART_152247,00.html
-------------------------alfaprivativa ha rebloggato curiositasmundi
“Il pensiero viaggia alla velocità del desiderio.”
—
Malcolm de Chazal
Fonte: rebloglr
--------------------------carnaccia ha rebloggato lapizzicata
lapizzicata:
“Girate il mondo e baciate tutte le belle ragazze.”
— Joe Strummer
“Girate le ragazze e baciatele”
- Carnaccia
--------------------------on-igi ha rebloggato autolesionistra
Prontuario molesto per vegetariani molesti
autolesionistra:
Premessa importante: non credo che l’essere vegetariani implichi l’essere rompimaroni, è una
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scelta che si adagia su aspetti caratteriali pre-esistenti: ho amici vegetariani talmente pacati che
uno se ne scorda e non lo dice agli amici quando li invita ad una festa e ci si trova con un sacco di
borlenghi al lardo e tanto imbarazzo (true story) (per fortuna c’era dello stracchino).
Parallelamente ho altri amici che son vegetariani ma se fossero idraulici troverebbero il modo di
comunicarmi con dovizia di particolari quanto siano sbagliate le mie scelte in fatto di lavelli.
In diverbi più o meno espliciti con questi ultimi ho testato una serie di argomentazioni
particolarmente irritanti che vi agevolo a beneficio della rissosità universale (e mi scuso con i
primi, quelli simpatici).
- Mangeresti carne se dovessi macellare tu gli animali?
Vivresti in un condominio se dovessi costruirtelo te? Probabilmente no, vivresti in capanne di
paglia e sterco (muratori esclusi) e io sì, continuerei a mangiare carne probabilmente limitandomi
a polli e conigli accoppati in maniera tarantiniana perché è l’unica cosa che più o meno ho visto
fare ma non mi ricordo bene come si fa.
- Polemiche su allevamenti intensivi e macelli splatter-gore
Il problema c’è ma è chiaramente colpa dei vegetariani. La rivoluzione che c’è stata in campo
ortofrutta con l’agricoltura biologica è stata possibile anche e soprattutto perché c’era un’ampia
fetta di consumatori disposti a spostare i consumi su una catena di produzione diversa (e più
onerosa). Sulla carne le posizioni si sono radicalizzate su chi non la mangia senza se e senza ma e
chi la mangia comunque, e siamo ad una fase zero, manco esiste una classificazione di
allevamenti e macelli. Giusto con le uova sono comparse le informazioni sulla tipologia di
allevamenti, e perché? Perché se le magnano pure una fetta di vegetariani, e il parco consumatori
etici è più ampio. Colpa vostra. La mia bistecca non accetta salse né sensi di colpa.
- Dal punto di vista nutrizionale la carne non è necessaria/fa male
Dal punto di vista nutrizionale è mangiare a cazzo che non è necessario / fa male, chi mangia
carne 8 giorni a settimana concettualmente lo metto insieme al vegetariano che non si pone
problemi su ferro e proteine e sviene quando tira su la tapparella di casa.
- Osservazioni random su sacralità della vita
Sì ma è antropocentrismo riscaldato, solo perché non riesci a concepire altre forme di vita allora la
mucca poverina ma la patata la sradichi e te la tieni in qualche credenza viva (fa ancora i
germogli, purella), la spelli viva e la azzicchi in forno viva. Se parlassi patatese sentiresti cose da
non dormirci la notte. E con le carote non inizio neanche.
Ti prego, prendiamoci per mano e aiutami a picchiare attraverso l’internet i vegetariani di facebook
(che ovviamente appartengono alla seconda categoria).
-----------------------------------
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Post/teca
uncertainplume ha rebloggato notearsnofears
“Prendete la vita con leggerezza,
che leggerezza non è superficialità,
ma planare sulle cose dall’alto,
non avere macigni sul cuore.”
—
I.Calvino (via myborderland)
Fonte: myborderland
---------------------------sillogismo ha rebloggato lei-occhichiusi
ilbaciodellabuonanotte:
Per qualche motivo che ignoro, mi piaci moltissimo.
Molto, niente di irragionevole, direi quel poco che basta per far si che di notte da sola, mi svegli, e
non riuscendo a riaddormentarmi, inizi a sognarti.
Kafka; Lettere a Milena
Fonte: ilbaciodellabuonanotte
-----------------------------20130218
luciacirillo ha rebloggato whowhere
“Verrà un giorno che l’uomo si sveglierà dall’oblio e finalmente comprenderà chi è veramente
e a chi ha ceduto le redini della sua esistenza, a una mente fallace, menzognera, che lo rende e
lo tiene schiavo… l’uomo non ha limiti e quando un giorno se ne renderà conto, sarà libero
anche qui in questo mondo”
—
Giordano Bruno (via whowhere)
--------------------rispostesenzadomanda ha rebloggato messalaida
quello che non aveva capito Hegel è che ciò che è reale è razionale,
sì, ma col culo degli altri
-----------------curiositasmundi ha rebloggato pensierispettinati
“Piangere? No, noi non piangiamo.
Noi ci mettiamo a scrivere, risponderete, e subito vi verrà in mente un fatto che c’entra poco,
ma che vi fa sempre ridere e vi dà una specie di sollievo, e cioè che nel 1915 Chaplin partecipò
a un concorso per sosia di Chaplin, e arrivò terzo.”
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Post/teca
—
Sarah Spinazzola » Come essere disperati e
vivere felici \8/ (viapensierispettinati)
Fonte: sarahspinazzola.it
--------------------pensaunpo ha rebloggato colorolamente
“- Lui mi salvò la vita, sapete? Trent’anni fa fui accoltellato in un bazar a Calcutta, lui mi
portò in spalla fino all’ospedale.
- Chi ti aveva accoltellato?
- Sempre lui.”
—
Margot Tenenbaum (via valinonfarumore)
Fonte: valinonfarumore
------------curiositasmundi ha rebloggato pragmaticamente
“Muore solo un amore che ha smesso di essere sognato”
—
Pedro Salinas (via mariofiorerosso)
Fonte: mariofiorerosso
-----------------puzziker ha rebloggato matermorbi
“L’immensità di quanto poco me ne fotte mi dà le vertigini.
- Lia Haramlik.”
—
(via matermorbi)
-------------nives ha rebloggato mariofiorerosso
“Prendete la penna e cominciate a scrivere,
e smettetela di piagnucolare.
Prendete il pennello e, tanto per cambiare,
siate buoni con voi stessi: mettetevi a dipingere.
Ballerine, infilate un’ampia veste, legatevi i nastri nei capelli,
alla vita o alle caviglie e dite al corpo di muoversi: danzate.
Attrici, scrittrici, poetesse, musiciste: bando alle ciance.
Non pronunciate neanche una parola
a meno che non siate cantanti.
Chiudetevi in una stanza o in una radura sotto il cielo.
E dedicatevi alla vostra arte.”
—
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Clarissa Pinkola Estès - Donne che corrono coi
Post/teca
lupi (viamariofiorerosso)
---------------lubabbollu
Smentiamo un pò di leggende metropolitane giuridiche (part. 1)
Non ce l’ho con nessuno, capisco che si tratta di linguaggio dell’uomo della strada, filtrato spesso
dalla cronaca giudiziaria. Ma, giorno dopo giorno, mi accorgo che questi errori sono quotidiani e
bisogna fare qualcosa.
- Il registro degli indagati non esiste. Semmai si parla di registro delle notizie di reato (oppure RNR)
che è anche il numero identificativo della causa penale.
- la fedina penale è un’invenzione, perciò o mi parlate di certificato penale oppure vi riferite
all’estratto del casellario giudiziale.
- Quando dite “sono in affitto in un appartamento” un civilista, muore. Non è un contratto di affitto,
ma di locazione di immobile ad uso abitativo. L’affitto riguarda le aziende ed il complesso di beni
che vi ruotano attorno. E, perddio, non pagate l’affitto ma un canone di locazione.
------------------20130219
ilfascinodelvago
“È una salita difficile oggi,
meno di ieri. Certi pesi da liberarsi
con le parole che assediano il dubbio.
I passi sono pagine di un moto
per resistere sotto le nuvole.
L’azzurro è un odore nei gesti
che sono stati, annegare
nel ventre e fermare il respiro.
Anche se ci sarà niente lassù
Resteranno le impronte, per chi le vedrà.”
—
Roberto Cescon, La gravità della soglia
---------------------biancaneveccp ha rebloggato marealmattino
Mi sono innamorata di troppe idee perfette addosso a persone
sbagliate.
Fonte: theinvisiblemonster
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Post/teca
-------------------curiositasmundi ha rebloggato pragmaticamente
“Sono le parole più silenziose, quelle che portano la tempesta.”
—
Friedrich Nietzsche (via 230km)
Fonte: beat-anna
--------------------jjflash1970 ha rebloggato selene
“Ho iniziato la dieta, in 2 settimane ho perso 14 giorni.”
—
tempiduriperiromantici (via fulloflove-fulloflife)
Fonte: fulloflove-fulloflife
---------------------curiositasmundi ha rebloggato alfaprivativa
“Il narratore comune narra come qualcosa poteva press’a poco accadere. Il buon narratore fa
accadere qualcosa davanti ai nostri occhi come fosse presente. Il maestro narra come se
qualcosa accaduta da gran tempo accadesse di nuovo.”
—
Hugo von HofmannsthaL (via alfaprivativa)
Fonte: lalunaditraverso
----------------------misantropo
I gatti e la telecinesi
Il mio gatto può aprire le finestre con lo sguardo.
Si siede lì davanti e fissa la maniglia per lunghi minuti.
Poi passa qualcuno che, mosso a pietà, gliela apre.
---------
Dove sta Zola?
GIOVANNI DE LUNA
17.02.2013
Nel 1894, il capitano francese di origini ebraiche, Alfred Dreyfus, fu condannato per alto
tradimento alla deportazione a vita. Accusato di essere una spia al soldo dei tedeschi, Dreyfus
era innocente. Contro di lui fu ordita una congiura avallata dal ministro della guerra e dalle alte
gerarchie militari, sostenuta da una virulenta campagna di stampa. Di fronte a un'opinione
pubblica largamente colpevolista, un pugno di intellettuali si impegnò strenuamente per
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Post/teca
dimostrare la falsità delle accuse. Nacque così il «caso Dreyfus», i cui lineamenti essenziali
sono stati ora riproposti in un libro di Agnese Silvestri (Il caso Dreyfus e la nascita
dell'intellettuale moderno, Franco Angeli, 2012 ), che offre una buona occasione per riflettere
sull'affaire anche alla luce del dibattito politico-intellettuale nell' Italia di oggi.
I francesi chiamano failles, fratture, quelle fasi della loro storia in cui ci si divide in due diverse
"idee" della Francia. È stato così per lo scontro tra la Francia di Vichy e di Pétain e quella della
Resistenza e di De Gaulle, è stato così per la guerra d'Algeria ed è stato così, soprattutto, per il
caso Dreyfus, quando il dibattito tra dreyfusardi e antidreyfusardi investì proprio le questioni
ultime dei valori repubblicani e della cittadinanza.
Particolarmente significativo fu il modo in cui gli intellettuali schierati con Dreyfus
interpretarono lo scontro tra politica e cultura. Fu la politica, sensibile agli umori di una Francia
maggioritaria e fortemente antisemita, a volere infatti la condanna dell'ebreo Dreyfus e a
proporre un'idea di cittadinanza fondata sulla "razza"; e fu la cultura a battersi per una Francia
erede dei diritti e delle tradizioni repubblicane scaturite dalla grande Rivoluzione. «Cercate di
capire che una sola pagina scritta da un grande scrittore è più importante per l'umanità di un
intero anno della vostra agitazione da formicaio. Voi fate la storia, è vero, ma noi la facciamo
con voi e a un livello superiore perché è tramite noi che essa rimane», scrisse allora Emile
Zola. In questa orgogliosa rivendicazione del ruolo degli intellettuali nella società, Zola si
spinse più avanti di tutti e il suo j'accuse (una serrata requisitoria contro la macchinazione del
potere che aveva colpito Dreyfus) fu un urlo quasi eccessivo nella sua foga, animato da
un'indignazione che lo rese difficile da gestire perfino da parte degli intellettuali del suo stesso
schieramento.
Nella polemica si fronteggiarono infatti anche due diversi stili di comunicazione; a una
"rappresentazione" della realtà dai toni accesi e affollata da stereotipi a sfondo razziale degli
antidreyfusardi, gli altri opposero un discorso il più possibile ancorato ai fatti, alla fredda
disanima delle carte processuali che evidenziavano l'impostura, a una logica razionale che
cercava di sottrarsi alla presa emotiva del vittimismo, «il dreyfusista lacrimevole, che non
sapeva fare altro che compatire la vittima, mi infastidiva» scrisse allora Jules Benda.
Ma l'aspetto che colpisce di più l'osservatore italiano è che, pure nel calore dello scontro, i
dreyfusardi non si sentivano estremisti, contestatori dell'ordine costituito, ma anzi i custodi dei
valori autentici dell'identità francese, patriottismo compreso. Dreyfus stesso, al momento della
degradazione seguita alla condanna, gridò più volte «Vive la France!».
In questo senso si può dire che l'Italia non abbia mai avuto un caso Dreyfus. A scontrarsi, nel
nostro passato novecentesco, sono sempre stati modelli di identità nazionale irriducibilmente
contrapposti; è stato così quando il fascismo costrinse i suoi oppositori a considerarsi un'"altra"
Italia o quando, nella lotta al comunismo, si delinearono progetti di Stato e di società
assolutamente inconciliabili.
Quanto all'Italia di oggi, anche da noi le ragioni della cultura sembrano contrapporsi
frontalmente a quelle della politica. In questi venti anni di egemonia berlusconiana, nella loro
maggioranza gli intellettuali italiani si sono impegnati nel contrastare la rappresentazione della
realtà elaborata dal potere politico; a una "narrazione" dai toni favolistici e compiaciuti si è
opposto un discorso il più possibile ancorato ai fatti, soprattutto quando la crisi economica ha
messo a nudo l'illusorietà dei meccanismi mitologici su cui si fondava la macchina
propagandistica della politica. Tutto questo ha molto a che fare con lo scontro tra dreyfusardi e
antidreyfusardi, tranne che per un elemento non secondario: non c'è Zola. E non ci sono
neanche Sciascia o Pasolini , con la loro capacità di rompere gli schemi, di rimescolare concetti
e schieramenti, di proporsi come figure coraggiosamente isolate anche nei confronti dei loro
colleghi e amici.
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I dreyfusardi bastarono a se stessi e costrinsero la politica a capitolare. Gli intellettuali italiani,
invece, non sono riusciti a mobilitare direttamente l'opinione pubblica e quando hanno cercato
di darsi una veste politica (penso, ad esempio, all'esperienza dei "girotondi"), le loro istanze si
sono sempre afflosciate su se stesse. Refrattari ai richiami dell'antipolitica e del populismo, non
sono stati però in grado di avviare quelle grandi "campagne" di opinione che costituiscono
l'humus della cittadinanza democratica, mostrando una complessiva riluttanza a riproporre gli
"eccessi" di Zola, il suo coraggio dell'anticonformismo. È come se il sentirsi tutti dalla stessa
parte, tutti impegnati nel contrastare il berlusconismo, abbia provocato una loro chiusura,
un'interpretazione del proprio ruolo che alla fine ne ha impedito il proporsi come una realtà
autonoma, alternativa alla politica.
fonte: http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/9106/
---------------3nding ha rebloggato yomersapiens
La sindrome dell'estero.
yomersapiens:
Trovarsi a dover parlare un’altra lingua, che si conosce ma non si usa con la stessa libertà della
madre, ti porta a dover riflettere di più sulle frasi da comporre, aspettare il momento giusto per
intervenire, eliminare ogni sfarzo superfluo, concentrarsi e dire solo l’essenziale. Che forse alla
fine risulta povero, ma dannatamente onesto.
E pensavo, che è una cosa che dovrebbero provare tutti, prima o poi, ad un certo punto:
dimenticarsi la propria lingua. Rincominciare a dover ascoltare, aspettare, valutare, soppesare le
parole invece di usarle come niente, senza gli spigoli che hanno, senza il piacere di dirle per
sentirne il suono rassicurante, spogliarsi dalla loro difesa. Perché quando invece di migliaia di
parole, in testa, ne hai solo cento, non riesci a trovare scuse, sei vero come un pugno in pancia. E
lì vale veramente la pena parlare.
Sottoscrivo tutto.
-------------
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Post/teca
20130220
ilfascinodelvago
“Con il passare del tempo le coppie smettono di baciarsi. Lo sanno tutti, anche se non lo di ce
nessuno.Ma non significa niente. E’ così. A volte si baciano in pubblico, per farlo vedere agli
altri. Come per dire: “Lo vedete che ogni tanto ci baciamo ancora?”. Ma nell’intimità è
diverso, non ce n’è bisogno. Lo si fa soltanto perché si teme che sia brutto no baciarsi, è una
cosa di cui non si parla, e nessuno sa che succede a tutti. A tutti. Anche a chi ha una vita
sessuale più o meno attiva. Magari fanno l’amore una volta a settimana, rigorosamente. Due
volte nel migliore dei casi. Però baciarsi è diverso. Il bacio perde il suo fascino troppo presto.”
—
Tua, Claudia Piñero
(di baci e intimità)
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Il direttore Tondelli lascia Linkiesta, ecco
perché
Jacopo Tondelli
Una decisione strategica presa sopra la mia testa, la difesa del giornalismo come “dovere e
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La redazione milanese de Linkiesta.it
Poi arriva un giorno, e ti accorgi che è il giorno in cui devi – non hai altra scelta, devi – andare via.
Quel giorno per me è arrivato oggi in seguito a una decisione degli organi di gestione de Linkiesta.it
che non doveva essere presa sopra la mia testa. Succede invece che, a cose fatte e decise, mi viene
comunicata verbalmente la decisione “già presa” del licenziamento del condirettore Massimiliano
Gallo. Non solo già presa, ma materialmente già irrevocabile. Figurarsi.
Senza neanche entrare, qui, nel percorso decisionale e nell’impianto motivazionale della scelta, mi è
parso evidente quale fosse il mio dovere e dove stesse la mia dignità personale e professionale: nelle
dimissioni. Perché non si può fondare un giornale come Linkiesta aderendo anche come socio
all’iniziativa; non si può pretendere di fare le pulci al potere, ai suoi tic, alle sue arroganze, ai suoi
errori di valutazione e gestione, per poi annuire e magari anche ringraziare di fronte a un gesto che
sa, palesemente, di esautorazione. Qualunque altra mia scelta, avrebbe voluto dire accettare e anzi
istituzionalizzare, dentro al giornale che ho diretto sin dalla sua fondazione e di cui sono socio, il
germe di ciò che più accesamente abbiamo criticato nelle società degli altri.
Quando un rapporto finisce così, il rischio è quello di farsi travolgere dal male e non restituire la
gratitudine – immensa – per questa storia. La gratitudine per aver potuto dirigere in questi due anni
una squadra di professionisti eccezionali. Proprio con Massimiliano Gallo, tante volte, ci siamo
trovati ad osservare le evoluzione personali e professionali, provando a guidarle e a valorizzarle. Ci
siamo sorpresi nel vedere la crescita di autorevolezza e audience, abbiamo sempre sorvegliato la
tentazione di pensare che fosse fatta e anzi ci siamo rimproverati a vicenda quando sopravvenivano
entusiasmi troppo accesi o delusioni troppo profonde. Con il mio infaticabile compagno di cayenna
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Post/teca
Jacopo Barigazzi, socio de Linkiesta.it e caporedattore encomiabile, geyser perenne di idee e visioni
che arrivavano da paesi più civili del nostro, abbiamo dato sempre materiale concreto al sogno di un
giornale nuovo, che guardasse lontano e a lungo. Che facesse dell’indipendenza un faro sempre
acceso a sorvegliare ogni tentazione, che neutralizzasse l’ipocrita confusione tra comunicazione e
informazione, che provasse a tenere alta la tensione intellettuale rispondendo alla sacrosanta
domanda di chi – in internet – cercava profondità e qualità. Con l’altro socio fondatore, Lorenzo
Dilena, abbiamo condiviso il peso e la responsabilità di descrivere per numeri il capitalismo italiano
e quella strana cosa che è il “mercato” in un sistema allergico a competizione, regole, dove persino
le autorità preposte fanno fatica a rendere conto, e figuriamoci se lo fanno volentieri i sorvegliati...
Abbiamo condiviso l’eccitazione per gli scoop e il fastidio per quando arrivavano primi gli altri:
perché non abbiamo mai giocato per partecipare.
Con Paolo Stefanini, tra un reportage profetico e l’altro sul “comico in politica”, abbiamo
cercato lungamente la strada che porta il miglior giornalismo a parlare la lingua di internet. Coi
nostri pochi, pochissimi mezzi, abbiamo fatto per lungo periodo miracoli: ma sarebbe più corretto
dire i miracoli li hanno fatti lui e il nostro grafico Carlo Manzo. Con Fabrizio Goria, mentre un
uccellino che cinguetta 300 volte al giorno ci sbatte in faccia come cambia il mondo, abbiamo
guardato da dentro la crisi finanziaria e dell’euro, abbiamo spiegato e documentato il default greco
prima che fosse una hit. Abbiamo aiutato l’Italia a sorvegliare la sua situazione di malata d’Europa.
Con Alessandro Da Rold abbiamo raccontato, passo a passo, il deflagrare di un sistema decennale, e
abbiamo guardato fin nel dettaglio come il mitico “asse del Nord” si era innamorato degli stessi
difetti che rimproverava al sud: o forse, li aveva sempre avuti. Con Marco Sarti, eroicamente
abbandonato da solo in parlamento e nei ministeri, abbiamo guardato con dovizia di particolari il
lavoro della politica, e quello dei politici. Abbiamo spulciato le carte delle commissioni, annodato i
fili delle alleanze, visto mutare il clima politico e intuito l’emergere di nuovi personaggi. Con
Antonio Vanuzzo abbiamo messo l’entusiasmo al servizio dell’informazione economica, del
dettaglio tecnico che è importante non perdere, del lavoro più minuzioso e noioso che però rende
servizio al cittadino, risparmiatore e consumatore. Con Michele Fusco abbiamo adoperato l’antidoto
del cinismo e dei sentimenti, del sarcasmo e della caciara: ad alcuni, con lo stomachino delicato, le
sue parole spesso non piacevano; a noi sembravano talora le uniche possibili per guardare in faccia
un’Italietta immarcescibilmente simile ai propri peggiori difetti. Lungo la strada, poi, abbiamo
incontrato giovani professionisti alla prima esperienza, come Marco Braghieri che è stato con noi
quasi un anno, e poi Dario Ronzoni e Lidia Baratta con ancora lavorano nel seminterrato di via
Brocchi e smazzano tanto lavoro senza fiatare, perché a Linkiesta si lavora parecchio. Con
Giuseppe Alberto Falci, uno che ha iniziato a frequentare queste redazioni grazie alla tenacia di chi
davvero vuole fare questo lavoro, abbiamo raccontato la Sicilia e la sua classe politica: uno
specchio, troppo spesso snobbato, che restituisce la forma di altre latitudini. Con Marco Alfieri,
firma importante del giornalismo italiano e ultimo arrivato in redazione, avevamo invece sognato,
un tempo, di riannodare i fili di un ormai antico percorso professionale comune, ed è davvero un
peccato che il tentativo debba abortire prima ancora di poterci provare.
Il pezzo di cammino che ha portato fin qui Linkiesta, naturalmente, non è avanzato solo sulle
spalle della redazione. Abbiamo incontrato nuove intelligenze e – Dio li benedica – ci siamo portati
dietro diversi maestri. Penso anzitutto a David Bidussa, il maestro che ringrazio sempre ogni volta
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Post/teca
che devo dire un grazie. A lui voglio aggiungere il nome di un grande giornalista politico, Peppino
Caldarola che con la generosità del ragazzino che inizia e l’esperienza di quello che le ha viste tutte
non ha mai fatto mancare la sua nota politica quotidiana, un piccola perla che mi riempiva sempre
di onore. Un grazie strano e sincero lo devo a Giulio Sapelli: nei turbinii che capitano con le
personalità spigolose, ha regalato a Linkiesta un grande ritratto, quasi profetico, dell’Italia dei
tecnici e del suo declino. E poi penso al lavoro puntuale e originale sulle istituzioni europee svolto
da Giovanni Del Re, ai consigli di saggezza di Giuseppe Baiocchi, alla puntualità di Alessandro
Marzo Magno, agli obituaries di Andrea Jacchia, al santo del giorno disegnato da Jean Blanchaert, a
Paolo Bottazzini, che ci insegna che l’informatica è una scienza umana, ai tanti talenti incontrati
sulla nostra strada, come Valerio Bassan, Luca Rinaldi, Stefano Casertano, Edoardo Petti, Antonio
Aloisi, Gabriele Catania, Stefania Divertito, Alberto Crepaldi, Andrea Moizo, Laura Lucchini e a
tanti altri che mi vorranno scusare se non li menziono.
Abbiamo fatto degli errori qua dentro, naturalmente. Del resto, le cose nuove non sono
notoriamente le più facili, e dovendo scegliere ogni giorno cento volte che passo fare, può capitare
di sbagliare. Dalle nostre parti, tra l’altro, quando si sbaglia lo si ammette. Ma non abbiamo mai
perduto di vista l’obiettivo di provare a raccontare la realtà economica, politica, sociale del paese.
Con numeri, dati, inchieste, notizie esclusive, analisi di altissimo profilo per il panorama italiano, e
anche qualche riconoscimento. Abbiamo giocato con le opinioni? Certo, e ci mancherebbe altro che
privarsi della forza inquirente della provocazione. Soprattutto, abbiamo sempre diffidato dalle
formule magiche, e a questa cosa abbiamo dato il nome di libertà e dovere.
Nel congedarmi da chi ha frequentato Linkiesta negli anni della sua fondazione, cioè i lettori,
voglio ringraziarli per ultimi, ben sapendo che sono stati i primi. I primi a credere davvero alla
nostra capacità di dare informazione indipendente; i primi a stimolarci e a migliorarci; e sopratutto i
primi a darci l’unica vera grande soddisfazione di un giornalista: accorgersi di fare un lavoro
prezioso, utile, di servizio e adrenalina, insomma un lavoro bellissimo. A tutti voi, dunque, un
grazie di cuore, e un auguro di ogni bene. Lo stesso augurio che, certo di aver sempre voluto il bene
per questo giornale e per questa azienda, rivolgo alla storia editoriale e imprenditoriale de
Linkiesta.it.
fonte: http://www.linkiesta.it/linkiesta-dimissioni-direttore-jacopo-tondelli
-----------------puzziker ha rebloggato curiositasmundi
“Lasciatemi soffrire tranquillo. Chi vi chiede niente a voi? Vi ho chiesto qualcosa? No. Voglio
solo soffrire bene. Mi distraete. Non mi riesco a concentrà. Con voi qua non riesco… Soffro
male, soffro poco, non mi diverto. Non c’è quella bella sofferenza!”
—
Fonte: fhideandseek
---------------------------
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Massimo Troisi (via fhideandseek)
Post/teca
curiositasmundi ha rebloggato batchiara
“mia nonna vittoria era nata nel 1918. nel ‘38 ha sposato mio nonno ferruccio. l’anno dopo la
prima figlia, prima di dodici fratelli, sei maschi e sei femmine, partoriti in 11 parti di cui
l’ultimo gemellare, un maschio e una femmina. i miei nonni avevano una fantasia della
madonna per i nomi da dare alla prole: clara, imelda, venanzio, dante, beatrice, emidio e via
così. nel ‘54 la famigliona emigra: dalla provincia di padova, quasi venezia, alla provincia di
novara. i figli crescono a suon di gran sganassoni e polenta, tanta polenta, quella bianca, del
veneto. non era una gran cuoca mia nonna, ma la sua polenta è stata una costante delle mie
domeniche d’infanzia. mia nonna vittoria, da che mi ricordo, è sempre stata cieca, mi han
detto a causa delle gravidanze, ma io boh, non ho mai saputo bene perché. dicevano che io
avevo preso i suoi occhi azzurri, i suoi e quelli di nessun altro in famiglia, perché io,
sdirazzando, a otto anni ero già miope come mister magoo. alla fine degli anni settanta aveva
già una decina di nipoti e ha seppellito la sua prima figlia. a fine anni ottanta i nipoti erano
una ventina e ha seppellito un altro figlio, mio padre. negli anni novanta abbiamo fatto una
super festa per i sessant’anni di matrimonio dei nonni. nipoti e pronipoti ormai non si
contavano più. qualche anno fa il nonno ferruccio ci ha lasciati, con la raccomandazione di
non avvisare i parenti lontani che “vengon solo a curiosare”. mia nonna faceva già allora
fatica a riconoscere i nipoti che, come me, incontrava meno. una settimana fa se n’è andato un
altro figlio, divorato da uno di quei mali che non vorresti mai. e lei domenica scorsa ha detto
basta alla vita. oggi l’abbiamo salutata tutti, chi in chiesa, chi no. a me è venuta voglia di
polenta bianca.”
—
kiado: (via batchiara)
Fonte: kiado
--------------------Malcom Pagani per "il Fatto Quotidiano"
MARCELLO CICCAGLIONI
Quell'anno, prima di Natale, ci toccarono soltanto giorni plumbei e ammantati di brina. Erano
pochi coloro che si fermavano a guardare la vetrina e ancora meno quelli che si avventuravano a
entrare per chiedere di quel libro sperduto che li aveva aspettati per tutta la vita, e la cui vendita,
poesie a parte, avrebbe contribuito a rappezzare le precarie finanze della libreria". Sotto l'avaro
cielo della crisi, con l'orizzonte limitato dai numeri e dalla concorrenza, i librai indipendenti d'Italia
somigliano ai personaggi di Carlos Ruiz Zafòn.
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Post/teca
MARCELLO CICCAGLIONI
Con il làpis in mano, la testa tra le mani, i conti in rosso e la sensazione che indietro non si tornerà.
Chiudono i marchi storici fiorentini (Le Monnier, Edison), in pochi si ricordano del poeta antiquario
Roberto Roversi che a Bologna serrò l'attività nel 2007 e anche la nostalgia per il tramonto della più
amata libreria di Livorno, "La gaia scienza" di Franco Ferrucci e dell'ultimo volume venduto:
"Livornesi al barre", quasi uno sberleffo, stinge nel-l'ineluttabile. Costi, ricavi, pragmatismo, addio
definitivo.
Tremano conoscendo per la prima volta la cassa integrazione in attesa di notizie peggiori i 60
dipendenti dell'arcadica Hoepli di Milano (20 serrate in città negli ultimi due anni), hanno già
salutato la Croce di Roma, Amore e Psiche e la Herder, la "biblioteca" del Parlamento in Piazza
Montecitorio. Pezzi di storia che si consegnano a una cronaca quotidiana con poche sorprese. Con
la spietata concorrenza della grande distribuzione e di un E-commerce che con i giganti del settore
(Ibs, Amazon) conquista nuovi lettori, abbatte costi di spedizione e cancella insieme al trasporto su
gomma interi cardini della filiera fino a ieri considerati indispensabili.
MARCELLO CICCAGLIONI
Alla stella polare della crisi economica si inchina anche il libro. Protetto fuori tempo massimo da
una legge (la Levi) che di fronte all'assalto dell'offerta selvaggia (sul web, al supermercato o in
Autogrill) ha fissato lo sconto massimo al 15% per le novità e al 25% per le promozioni. In
Germania non esiste. In Francia è al 5%.
Franco Levi del Pd, il primo firmatario di un disegno capace di non rendere davvero entusiasta
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Post/teca
nessuna delle controparti (la strozzata categoria dei librai indipendenti ne sottolinea limiti e
debolezze, la controparte l'ha accolta come l'ennesima boa assistenzialista) aveva tentato di
distinguersi dallo Stato ipocrita immaginato da De Andrè.
prati44 libreria arion prati
Quello che "si costerna, si indigna, si impegna e poi getta la spugna con gran dignità". È stato
inutile perché a un ritmo che stupisce per progressione, con assoluto disprezzo del valore sacrale
dei luoghi che avevano "scortato" generazioni di lettori, il processo pare irreversibile. Per chi vende
un oggetto anomalo, i guadagni sono comunque relativi.
E l'abbattimento dei prezzi, reazione degli editori a un mercato in contrazione, è la classica coperta
troppo corta. Si resiste a una flessione generalizzata (7 punti nel solo 2012), ma smaltite spese,
trucchi e fuochi d'artificio, ci si scopre poveri come sempre. Quando incontri i 66 anni di Marcello
Ciccaglioni, proprietario con sua moglie Elisabetta della catena indipendente Arion (18 librerie
romane in cui lavorano anche i figli Fabio e Daniele, curate come tabernacoli in cui si respira
competenza e passione per il mestiere) è difficile non cedere alla tentazione di vedere dietro il velo
di un'educazione britannica e di un dinamismo che non si arrende alle ombre, la rabbia chi rifiuta
una sconfitta già scritta.
Non per i riconoscimenti recenti (due settimane fa la Fondazione Cini e la Scuola dei librai di
Venezia hanno premiato il suo gruppo ed è la prima volta che il riconoscimento per la migliore
libreria d'Italia non va a un singolo esercizio), ma perché da mezzo secolo Ciccaglioni si identifica
nel ritratto del libraio che Achille Mauri aveva dipinto durante la cerimonia: "Per me è come un
buon farmacista capace di alimentare l'intelligenza del lettore nutrendola di quella altrui". Iniziò
con il destino in mezzo ai denti nel 1961, in un banco all'addiaccio con vista su Piazza Esedra.
DANIELE CICCAGLIONE
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Post/teca
Aprì la prima libreria, l'Eritrea grazie all'interesse discreto del giudice martire Vittorio Occorsio:
"Aldo, il poliziotto della sua scorta, gli fece sapere che praticavo prezzi convenienti. Vittorio era un
grande lettore, ma non amava scialacquare e in breve, abbandonò la Rizzoli per il mio banchetto.
Portava una lista di titoli e tornava dopo qualche giorno per ritirarli. Divenne mio affezionato
cliente.
Un giorno mi accompagna a prendere un caffè. "Chi vuoi diventare davvero da grande, ragazzo?".
Avevo 21 anni, lavoravo dall'età di 15 e nutrivo un sogno più nitido degli altri: "Vendere libri con un
tetto sulla testa". Mi disse che a due passi da dove poi lo uccise Concutelli nel 1976, nel quartiere
‘africano' di Roma, aveva visto alcuni locali in affitto. Mi fidai. non mi sono più fermato".
Ciccaglioni è un idealista. Ma è anche un mercante. Ha mantenuto affittandolo ad altri il banco
numero 5 di Piazza Esedra: "Non lo venderò mai", ma non ignora che recintare la rivoluzione
tecnologica più o meno equivalga a impedire la libera circolazione di merci e persone. Al cambio di
rotta, giura, si è già adeguato. Nei suoi locali tablet, byte e pixel sono affiancati alle pagine in attesa
che il boia faccia il suo mestiere.
Marino Sinibaldi
Nel frattempo, non mette spontaneamente la testa sulla ghigliottina. Si industria. Inventa percorsi
letterari e baratti ossimorici, moderni e antichissimi. "Entro un mese inaugureremo Freesbee.
Un'iniziativa che a tutti i lettori che ci portano volumi del 2011 o del 2012 consentirà di ottenere
buoni per quelli del 2013 e la riammissione in circolo alla metà del prezzo dei loro vecchi libri".
Movimento, ingegno, ricerca di sinergie e accordi quadro: "Se lei chiama nella sede di Piazza Fiume
può ottenere sconti per i teatri romani fino al 60%. Mi piacerebbe trovare un punto d'incontro con
i cinema. Dal lunedì al venerdì le sale sono vuote, intersecare i percorsi delle arti e contaminare
può essere la soluzione utile a contrastare soluzioni come quelle di Parma. La libreria delle Coop
immaginata da Romano Montroni, costata milioni di euro che regge il 50% del suo fatturato sulla
ristorazione. Una competizione drogata. Alterata. Davanti alla quale la libreria indipendente può
reagire con la sola intelligenza. Con una rete. Con un sistema di contatti".
Sostiene senza enfasi, Ciccaglioni, che il libro gli abbia cambiato la vita e che quando torna a
trovare i parenti in periferia dove è nato in un appartamento: "In cui non esisteva neanche un
libro", nei vecchi amici d'adolescenza con i 60 pollici in salone e il Corriere dello Sport spalancato
sulla gagliarda senescenza di Totti, riveda se stesso.
Un autodidatta che da allora, abbandonate le aspirazioni obbligate della condizione precaria:
"Giocavo negli allievi della Lazio, ero molto bravo", della lettura è rimasto schiavo. Dalla divisa
indossata su un volto da attore (cravatta e giacca, ogni giorno, da sempre): "Per distinguermi dallo
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Post/teca
sciattume dei vicini di banchetto che poi sono diventati miliardari vendendo antichi papiri", non si
separerebbe mai. L'abito non fa il monaco, ma tradire l'apparenza significherebbe condannare la
liturgia un po' scaramantica che ora sembra aver smarrito il suo stellone nel formicaio impazzito di
una recessione che non risparmia nessuno.
Alessandro Laterza
Ciccaglioni non crede che il mestiere che dopo averlo portato in volo ovunque (dai primi Oscar
Mondadori in edicola: "Steinbeck, Hemingway, Sartre, Buzzati" alla pubblicazione di libri erotici) e
ora vorrebbe costringerlo al prosaico controllo delle risorse, sia davvero in via di estinzione. Con lui
si battono e si sbattono 110 persone.
LOTTERANNO INSIEME
"Non mi arrendo all'idea che il libro sia equiparabile a profumi, smart box e gadget di ogni natura
che vorrebbero occuparne lo spazio vitale per sopprimerlo. Per anni con una politica selvaggia si è
deciso di mercificare il settore senza tener conto che a ogni promozione antieconomica si
inflazionava il mercato e che nell'impersonalità di un commercio da tastiera, si smarriva la passione
di chi ha per decenni indirizzato sensibilità e inclinazioni dei clienti. Ma la soluzione non è
trasformare la libreria in Bistrot o vendere mortadella in allegato. L'80 per cento delle librerie
italiane non è più grande di 100 metri quadri e con l'enorme quantità di titoli a basso prezzo messi
in circolo, anche alcuni editori illuminati hanno dimostrato di non saper dominare la paura".
Ciccaglioni non pretende di fermare il progresso: "Le innovazioni non si bloccano", ma è convinto
della complementarità almeno a medio termine dei due medium in nome dei quali si è dato il via a
una guerra santa dagli esiti imprevedibili. "L'amministrazione Veltroni 8 anni fa contribuì con 50
mila euro all'apertura di 20 librerie in periferia. Hanno chiuso già in 18 perché aprire è facile, ma
non chiudere, difficilissimo. Serve formazione, mentre oggi il mestiere del libraio si limita a
impilare libri e a custodire la merce. Senza contatto umano o scambio, i luoghi muoiono".
Nella stagnazione mondiale del mercato letterario, all'estero si è intervenuti con coesione popolare
e istituzionale. Forse con la cultura non si mangia, ma sfamarsi con il bello allevia le angustie: "La
Hune a Saint Germain è stata salvata" dice Ciccaglioni "Ovviando al caro degli affitti con il
reperimento di un'altra sede nei pressi della precedente ubicazione".
Oltre Chiasso, il sottinteso, si osserva la tempesta senza paratìe adeguate a reggere l'urto di un
conflitto nuovo che in America copre il 25% del mercato e anche da noi, pur con le spalle ancora
strette, crescerà: "Non mi arrendo all'idea che colossi telematici in grado di perdere denaro per
anni possano uccidere decenni di ricerca, sentimento e lavoro pesantissimo sui volumi".
Mostra antiche edizioni facendo correre le dita tra le pagine, prepara iniziative e incontri per il 24
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Post/teca
febbraio con Sinibaldi, Laterza, De Mauro e la banda'
‘
del Forum del libro: "Nel giorno delle elezioni
le librerie indipendenti italiane rimarranno aperte", divide l'assegno concesso da Mauri e Ottieri a
Venezia (5.000 euro) con i dipendenti, dardeggia gesti e simbolismi con la stessa forza dei
vent'anni. Intorno è cambiato tutto. Ma non cedere, circondati dai demoni, somiglia a un coerente
manifesto dostojevskiano: "Bisogna essere davvero un grand'uomo per saper resistere anche
contro il buon senso".
-----------------20130221
MARINA BOSCAINO E BRUNO MORETTO – Invalsi, il
colpo di mano di Pdl e Lega
Accade che, con un colpo di mano – a Camere sciolte – PDL e Lega (il PD non ha partecipato al
voto), su pressione del governo, hanno dato parere favorevole in Commissione Istruzione del
Senato al DPR sul sistema nazionale di valutazione, che si fonda sul potere del Ministro, sull’azione
discrezionale di una propria diretta emanazione (l’Invalsi) e che intende rendere studenti e
insegnanti, saperi e pratiche didattiche, subordinati alla valutazione basata sui test.
Dieci associazioni hanno pubblicato il documento “La valutazione: un impegno condiviso”, ma la
strategia arrembante ed autoritaria del veni, vidi, vici su materie nevralgiche – sottratte
volontariamente al dibattito e alla condivisione – continua ad imperversare anche nelle ultime
azioni di un Governo non nuovo a colpi “a sorpresa”, fortunatamente sventati. Mancano ancora i
pareri delle commissioni della Camera ma il rischio che il dpr venga emanato ugualmente è alto. È
stato inviato ad opera delle stesse associazioni un appello ai leader del centrosinistra, cui hanno
prontamente risposto Bersani, Ingroia e Guidoni (SEL).
Anche coloro che non hanno a che fare direttamente con la scuola sanno che il tema della
valutazione è uno dei più controversi e problematici, che hanno infiammato rigurgiti di
partecipazione e di protesta in questi anni complicati e difficili su tanti fronti. La “vulgata”
neoliberista, allo stesso modo di quella di un incauto uomo della strada, pensa che tali proteste siano
state animate da un acritico rifiuto da parte del mondo della scuola (desideroso di conservare – sic!
– i propri presunti privilegi) di qualsiasi forma di valutazione. Dal tentativo di rimanere – come ci
ha accusati di essere il premier uscente – corporativi e impuniti.
Non è così. Il percorso della valutazione nel nostro Paese, nonostante i numerosi richiami al
taumaturgico “ce lo chiede l’Europa”, è stato molto lontano e differente da quello dei Paesi europei
che, almeno dagli anni ’80, studiano e investono su questo tema, individuando in esso uno degli
istrumenti principali per determinare interventi e cambiamenti migliorativi nei propri sistemi
scolastici.
L’introduzione in Italia della valutazione degli apprendimenti degli studenti risale al Ministro
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Post/teca
Moratti (Dlvo 286/2004).
La sua applicazione ha creato fin da subito molte polemiche, per il piglio punitivo nei confronti
delle scuole che il ministro seppe imprimere a quel testo.
Il ministro Fioroni nel 2007 inserisce i test Invalsi di lingua e matematica nell’esame di Stato di
terza media, ma prevede una valutazione di sistema a campione.
La Gelmini, seguendo il documento di Checchi, Ichino e Vittadini del 2008, si propone di imporre a
tutti gli studenti la somministrazione di tali prove al fine di costruire un’anagrafe degli studenti che
li segua nel loro percorso scolastico. Cade il principio della valutazione di contesto; viene messa in
discussione la competenza primaria dei docenti sulla valutazione in nome di una presunta
oggettività dei test; vengono inseriti nel mansionario dei docenti voci non contrattualizzate; si
scavalcano presupposti determinanti per l’impianto didattico-padagogico della scuola italiana. Per
giunta l’affidatario della elaborazione e della rilevazione dei test – l’Invalsi – è un istituto alle
dirette dipendenze del Ministro, controllato da commissari straordinari e da un comitato di indirizzo
fin dall’inizio in orbita CL (Ugolini e Vittadini).
Seguono tre anni di introduzione surrettizia dei test Invalsi e le proteste che molti ricorderanno di
genitori, studenti e docenti.
Il governo Monti nomina sottosegretaria all’istruzione con delega alla valutazione proprio la Prof.
Elena Ugolini, dirigente del Liceo privato Malpighi di Bologna.
Per superare le contestazioni e le “beghe” giuridico-contrattuali viene introdotto nel decreto
semplificazioni del 9/02/12 l’art. 51 che prevede:
2. Le istituzioni scolastiche partecipano, come attività ordinaria d’istituto, alle rilevazioni
nazionali degli apprendimenti degli studenti, di cui all’articolo 1, comma 5, del decreto-legge 7
settembre 2007, n. 147, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 ottobre 2007, n. 176.
Viene promosso dal basso un emendamento – che raccoglie più di 6mila adesioni in un mese – che
vincola le rilevazioni a campioni e non a tutta la popolazione scolastica; e la somministrazione delle
prove stesse alla formazione di adeguati rilevatori esterni, nel rispetto del grado di scuola e dei
criteri di rappresentatività del campione.
Il Governo pone la fiducia sul decreto, che viene trasformato in un odg di PD e IDV accolto dal
Governo il 29/03/12.
Il 24 agosto 2012 il Consiglio dei Ministri emana una bozza di DPR contenente il regolamento sul
Sistema Nazionale di Valutazione, che sconfessa l’odg e ripropone il modello del 2008: tutto il
potere al ministro e all’Invalsi, scuole oggetto di valutazione e non protagoniste, test obbligatori per
studenti e scuole.
Il CNPI emana un parere molto critico in data 20/11/12.
Il Consiglio di Stato, nel suo parere del 16/01/13, rileva una serie di forzature e incongruenze del
decreto nei confronti della legge di cui è emanazione, che imporrebbero un profondo ripensamento.
Nonostante questo – a Camere sciolte – il 23 gennaio il governo chiede il previsto e ultimo parere
con procedura d’urgenza.
Il 15 febbraio la Commissione Istruzione del Senato dà parere favorevole a maggioranza nonostante
l’assenza dichiarata dall’aula della delegazione PD.
Ed eccoci tornati all’inizio del nostro intervento. Il parere favorevole in Senato rischia di attribuire
al ministro di turno il potere di definire le strategie educative e, attraverso l’Invalsi, «gli indicatori
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Post/teca
di efficienza e di efficacia in base ai quali si individuano le istituzioni scolastiche e formative da
sottoporre valutazione esterna».
All’Invalsi (ripetiamo, un organismo non autonomo, ma direttamente dipendente dal ministero)
verrebbe attribuito un ruolo spropositato: controllare tutto il sistema, addirittura “curare la
selezione, la formazione dell’elenco degli esperti dei nuclei della valutazione esterna e pure quella
degli ispettori», con modalità discrezionali e senza alcuna previsione di un concorso pubblico. Il
decreto obbligherebbe le scuole ad essere sottoposte alle rilevazioni, confermando l’impostazioneGelmini del 2008.
L’autonomia scolastica, costituzionalmente sancita, continua ad essere sotto attacco: la scuola deve
essere restituita alla sua funzione di istituzione dello Stato (come la magistratura), che persegue fini
di interesse generale e sottratta alla funzione di servizio che le scelte politiche ed amministrative le
hanno attribuito dal ’93 ad oggi. Non sono bastati i pareri critici del Cnpi e addirittura del Consiglio
di Stato. Certamente la data del 28 febbraio, in cui scadranno i decreti di nomina dei commissari
straordinari di Indire e Invalsi, che – insieme al corpo ispettivo – costituirebbero il Sistema
Nazionale di Valutazione, e la scadenza della data di presentazione delle candidature alla presidenza
dei consigli dei due organismi motivano la fretta di Profumo. Che sta perciò tentando – a Camere
sciolte – di far passare come “attività ordinaria”.
Il giro di vite che Profumo ha tentato su Invalsi, così come su Anvur, è inaccettabile. È bene che
docenti e studenti siano consapevoli del rischio che stiamo correndo. Perché – se tutto andasse
secondo la volontà del ministro uscente – si determinerebbero condizioni tali da annullare anni di
mobilitazione. E – soprattutto – c’è la necessità di affrontare un tema così importante partendo dalle
proposte operative concrete del mondo della scuola.
Marina Boscaino e Bruno Moretto
(20 febbraio 2013)
fonte: http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/02/20/marina-boscaino-ebruno-moretto-scuola-e-valutazione-il-colpo-di-mano-di-pdl-e-lega/
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Le domande che non avrei voluto fare
di Salvatore Borsellino | 27 settembre 2010
Commenti (4)
Più informazioni su: Agende Rosse, Giovanni Falcone, Giuseppe Ayala, Nicola Mancino, Paolo
Borsellino, Strage di Capaci, Strage di via D’Amelio.
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Ero rimasto a disagio, e non è la prima volta che mi succede, nel leggere le dichiarazioni di
Giuseppe Ayala riguardanti le scorte dei magistrati e in particolare dei magistrati di Palermo. Mi
era sembrata una dichiarazione inopportuna, stonata e stranamente sincrona con una analoga
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Post/teca
dichiarazione dell’arcivescovo di Palermo Paolo Romeo che aveva addirittura lamentato un preteso
spreco di risorse pubbliche per “quanto si spende per le cene dei magistrati con scorta”. Delle
affermazioni del monsignore non vale nemmeno la pena di parlare, basterà ricordargli i 2,5 milioni
di euro che verranno dilapidati per la visita del Papa a Palermo – una città con enormi problemi di
ogni tipo – in opere delle quali alla città non rimarrà nulla, o chiedergli perché invece di lamentarsi
dei fondi per pretese cene dei magistrati con scorta, che non mi risultano avvenire abitualmente o
essere a carico dello Stato, non abbia parlato invece dei costi della politica istituzionale non per
scorte ma piuttosto per escort e al costo dei voli di Stato adoperati per trasferire in ville in Sardegna
nani, ballerine e menestrelli di ogni tipo.
Ad Ayala che afferma, tra l’altro che “Cosa nostra è cambiata, da oltre 18 anni non uccide più” e
che auspica per questo “una responsabile, se pur graduale rivisitazione delle scorte in
circolazione” avrei voluto ricordare i progetti di attentati, per fortuna scoperti in tempo grazie a
quelle intercettazioni che si vorrebbero abolire, nei confronti di magistrati come Antonio Ingroia,
Nino Di Matteo, Sergio Lari, Giovanbattista Tona e gli attentati, progettati o anche realizzati
seppure finora per fortuna senza esiti mortali, nei confronti di magistrati calabresi.
Ma piuttosto che a disagio sono rimasto ora indignato nel leggere la replica di Ayala alle sacrosante
reazioni dell’Anm e in particolare del presidente della giunta di Palermo, Nino Di Matteo che dice,
e le sue parole mi sento di sottoscrivere pienamente, “L’intervento di Ayala mi lascia veramente
perplesso. Evidentemente il collega, anche per la sua lunga militanza politica è da troppi anni ben
lontano dalla trincea e dall’attualità delle inchieste e dei processi di mafia. Proprio questa attualità
dovrebbe semmai indurre gli organismi preposti ad una rinnovata attenzione”. Nella sua risposta
Ayala, che ha perso ancora una volta un’ottima occasione per tacere, replica, quasi ironizzando,
definendo Nino Di Matteo “un collega che ha cominciato a muovere i primi passi da magistrato
soltanto nel 1993”, quasi che questo costituisse una colpa e senza accorgersi di quanto le sue parole
siano tristemente simili a quelle di Francesco Cossiga quando credeva di bollare con l’epiteto di
“giudice ragazzino” quel Rosario Livatino la cui grandezza è semmai accresciuta proprio da quella
definizione che il Presidente Emerito aveva usato in maniera spregiativa. Poi Ayala non si esime,
come è suo costume, di pavoneggiarsi citando i suoi “dieci anni nel pool antimafia e i diciannove
anni di vita blindata”. Peccato che del pool antimafia Ayala non abbia mai fatto parte essendo il
pool diretto dal Consigliere Istruttore Antonino Caponnetto e formato da Giovanni Falcone,
Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, tutti magistrati facenti parte
dell’Ufficio Istruzione presso il Tribunale di Palermo. Non ne poteva far parte Giuseppe Ayala che
esercitava il suo ruolo di Magistrato presso la Procura di Palermo e che ricoprì il ruolo di Pubblico
Ministero al primo maxiprocesso insieme a Domenico Signorino, morto suicida dopo le accuse da
parte di Gaspare Mutolo di essersi venduto alla mafia a causa degli ingenti debiti di gioco. Ma
Ayala ha sempre giocato sull’equivoco proclamando in ogni occasione la sua appartenenza al pool
antimafia e non se ne capisce la ragione , se non quella di volere concentrare l’attenzione su di sé,
quando invece dovrebbe essergli sufficiente , senza alterare la verità, citare il fatto di avere, in
qualità di pm, sostenuto al processo il procedimento istruito proprio dal pool di Falcone e
Borsellino.
Strana coincidenza, questa dei debiti, che accomuna i due pm del maxiprocesso, ma che a uno,
Domenico Signorino, costarono il volontario addio alla vita spinto dal tormento del rimorso per
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Post/teca
aver ceduto ai ricatti della mafia, all’altro, Giuseppe Ayala, soltanto un provvedimento disciplinare
da parte del Csm e il volontario trasferimento al tribunale di Caltanissetta nelle more di un
inspiegabile ritardo nell’attuazione del provvedimento di spostamento dal tribunale di Palermo per
incompatibilità ambientale.
Non conoscevo di persona Ayala prima della morte di Paolo, né avevo sentito parlare proprio per il
suo ruolo di pm al maxiprocesso e dopo la strage di Capaci mi aveva colpito, e non
favorevolmente, il suo continuo accreditarsi come l’amico più intimo di Giovanni Falcone, per cui
una volta mi capitò di parlarne con Paolo in una delle poche telefonate che avemmo in quei tragici
57 giorni che intercorsero tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio. Mi ricordo che mi disse,
in quel dialetto in cui abbiamo sempre amato esprimerci tra di noi, e mi sorprese il tono, quasi di
fastidio, che usò allora “chistu l’avi a chiantari, pari ca fussi sulu iddu amicu di Giovanni” (“questo
la deve piantare, sembra che fosse solo lui amico di Giovanni”). In seguito ho incontrato Ayala
poche volte, in occasione di incontri ai quali eravamo stati invitati entrambi come relatori e ogni
volta ho ascoltato quasi con avidità i suoi racconti, è dotato di spiccate dosi di affabulatore, di
episodi e di aneddoti della vita di Paolo, cosa che faccio ogni volta che incontro una persona che ha
avuto l’occasione di condividere con Paolo una parte di quei 23 anni di vita in cui io, che sono
andato via da Palermo a 27 anni, gli sono stato, per la maggior parte del tempo, lontano.
Più volte mi è invece capitato, a fronte di episodi nei quali è stato coinvolto Giuseppe Ayala, di
sentire la necessità di porgli delle domande, delle domande su pesanti dubbi che mi erano nati a
fronte di certi episodi che lo hanno coinvolto dopo la morte di Paolo, ma mi sono sempre trattenuto
pensando ai rapporti di amicizia che lo legavano a Paolo di cui mi ha sempre parlato nei suoi
racconti. Ma adesso a sentirlo vantarsi, nella sua replica a Nino Di Matteo, del suo “self control”, a
sentirlo irridere chi, parlando della situazione attuale in Sicilia parla di “trincea”, scrivendo
testualmente: “Accantono ogni pudore. Non credo proprio che riuscirò mai a dimenticare le vittime
della barbarie mafiosa di quell’orrendo periodo. Le vedove e gli orfani ai quali ho donato una
carezza consolatoria. I miei dieci anni nel pool antimafia e i diciannove di vita blindata. E non
aggiungo altro. Altrimenti qualcuno mi accuserà di volere infierire”, dato che il pudore lo ha
veramente accantonato, sono io ad abbandonare ogni remora e a fargli finalmente quelle domande
che da tanto tempo rimugino nella mente . Perché, se si ha avuto la sorte di partecipare a quei
funerali soltanto da spettatore e non da vittima, si deve avere il pudore di non ascrivere a proprio
merito le “carezze consolatorie” che si è riusciti a “dispensare” e non si può rinfacciare i propri
“diciannove anni di vita blindata” conclusi peraltro con l’abbandono, per di più temporaneo, della
magistratura ed il passaggio ad una più agiata vita da parlamentare, a chi invece la vita blindata la
conduce ancora oggi.
E allora eccole, rivolte ad Ayala e in attesa di una risposta, le domande che non avrei voluto fare.
La prima domanda riguarda l’Agenda Rossa di Paolo e la sparizione di questa dalla borsa che
sicuramente la conteneva dato che la moglie di Paolo, Agnese, gliela aveva vista riporre prima di
partire per il suo appuntamento con la morte. Delle circostanze relative al rinvenimento e al prelievo
di questa borsa Ayala, che è testimone diretto visto che fu uno dei primi ad arrivare sulla scena della
strage, ha dato, in successione e in tempi diversi almeno quattro versioni differenti.
La prima è dell’ 8 aprile 1998 e fu resa quindi da Giuseppe Ayala, che il 19 luglio 1992 era
deputato della Repubblica, sette anni prima del coinvolgimento del Capitano Giovanni Arcangioli.
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Post/teca
“Tornai indietro verso la blindata della procura anche perché nel frattempo un carabiniere in
divisa, quasi certamente un ufficiale, se mal non ricordo aveva aperto lo sportello posteriore
sinistro dell’auto. Guardammo insieme in particolare verso il sedile posteriore dove notammo tra
questo e il sedile anteriore una borsa di cuoio marrone scuro con tracce di bruciacchiature e
tuttavia integra, l’ufficiale tirò fuori la borsa e fece il gesto di consegnarmela. Gli feci presente che
non avevo alcuna veste per riceverla e lo invitai pertanto a trattenerla per poi consegnarla ai
magistrati della procura di Palermo”.
In questa prima versione è dunque un ufficiale in divisa ad aprire la portiera, ad estrarre la borsa e a
fare il gesto di consegnarla ad Ayala, ma lui rifiuta di prenderla in mano.
Il 2 luglio 1998, al processo Borsellino Ter, Ayala dichiara di essere residente all’hotel Marbella, a
non più di 200 metri in linea d’aria da Via D’Amelio. Sente il boato nel silenzio della domenica
pomeriggio. Si affaccia, ma non vede nulla perché davanti c’era un palazzo. Per curiosità scende
giù, si reca in via D’Amelio e vede “una scena da Beirut”. Dal momento dell’esplosione “saranno
passati dieci minuti, un quarto d’ora massimo”. Dice di non sapere che lì ci abitava la madre di
Paolo Borsellino. Camminando comincia a vedere pezzi di cadavere. Vede due macchine blindate,
una con un’antenna lunga, di quelle che hanno solo le macchine della procura di Palermo. Pensa
subito a Paolo Borsellino. “Ho cercato di guardare dentro la macchina, ma c’era molto fumo nero”.
Ayala afferma che proprio in quel momento stavano arrivando i pompieri. Osserva il cratere e poi
torna indietro. “Sono tornato verso la macchina, era arrivato qualcuno… parlo di forze di polizia.
Ora, il mio ricordo è che a un certo punto questa persona, che probabilmente io ricordo in divisa,
però non giurerei che fosse un ufficiale dei carabinieri, (….) ciò che è sicuro è che questa persona
aprì lo sportello posteriore sinistro della macchina di Paolo. Guardammo dentro e c’era nel sedile
posteriore la borsa con le carte di Paolo, bruciacchiata, un po’ fumante anche… però si capiva
sostanzialmente… lui la prese e me la consegnò (….) Io dissi: – Guardi, non ho titolo per… La
tenga lei. –“.
In questa versione, leggermente ritoccata rispetto alla prima, non c’è più la sicurezza di un ufficiale
in divisa che apre la portiera, ma permane la certezza che sia stata questa persona ad aprire la
portiera e a raccogliere la borsa. Ayala, in ogni caso, nega assolutamente di avere preso in mano ed
aperto la borsa. “Io poi mi sono girato, sono andato di nuovo verso questo giardinetto, e lì poi ho
trovato il cadavere di Paolo (…). Io ci ho inciampato nel cadavere di Paolo, perché non era una
cadavere… era senza braccia e senza gambe”.
Le corrispondenti dichiarazioni rilasciate il 5 maggio 2005 dal Capitano Arcangioli, l’ufficiale cui
fa riferimento Ayala, sono completamente differenti. Ayala parla di un ufficiale in divisa mentre
Arcangioli dice che è in borghese, Ayala dice di avere esaminato la macchina con l’ufficiale mentre
Arcangioli dice che Ayala era rimasto in un posto diverso. Ayala dice che la borsa era bruciacchiata
mentre Arcangioli dice di no. Ayala dice di avere rifiutato la borsa e di non averla mai aperta ed
esaminata mentre Arcangioli dice che addirittura la aprirono e la esaminarono insieme. E’ chiaro
che almeno uno dei due mente, se non entrambi.
Il 12 settembre 2005 Ayala cambia completamente versione.
Afferma di essere arrivato sul luogo subito dopo l’esplosione, di avere identificato il cadavere di
Paolo Borsellino e di avere notato l’auto del magistrato con la portiera posteriore sinistra aperta.
“Scorsi sul sedile posteriore una borsa di pelle bruciacchiata. Istintivamente la presi, ma mi resi
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subito conto che non avevo alcun titolo per fare ciò, per cui ricordo di averla affidata
immediatamente ad un ufficiale dei carabinieri che era a pochi passi. Nell’affidargli la borsa gli
spiegai che probabilmente era la borsa appartenente al dottore Borsellino”. Quando gli viene
mostrata la foto di Arcangioli, Ayala dichiara: “Non ricordo di avere mai conosciuto, né all’epoca
né successivamente il capitano Arcangioli. Non posso escludere ma neanche affermare con certezza
che detto ufficiale sia la persona alla quale io affidai la borsa. Per quanto possa sforzarmi di
ricordare mi sembra che la persona alla quale affidai la borsa fosse meno giovane, ma può darsi
che il mio ricordo mi inganni. Insisto comunque nel dire che l’ufficiale ricevette la borsa e poi
andai via. Escludo comunque in modo perentorio che all’inverso sia stato l’ufficiale di cui si parla
a consegnare a me la borsa”.
Cambia tutto dunque. Non è più l’ufficiale in divisa ad estrarre la borsa dalla macchina, ma Ayala in
persona, che aveva precedentemente escluso di avere mai preso in mano la borsa.
E’ lui a questo punto a consegnarla all’ufficiale e questa volta esclude “in modo perentorio” che sia
avvenuto l’inverso.
L’8 febbraio 2006 Ayala modifica di nuovo la propria versione dei fatti: “Ebbi modo di vedere una
persona in abiti borghesi (…) è certo che non fosse in divisa, la quale prelevava dall’autovettura
attraverso lo sportello posteriore sinistro una borsa. Io mi trovavo a pochissima distanza dallo
sportello e la persona in divisa si volse verso di me e mi consegnò la borsa (…). Dato che accanto
alla macchina vi era anche un ufficiale in divisa quasi istintivamente la consegnai al predetto
ufficiale.”
Cambia tutto di nuovo. Questa volta Ayala si dice certo che la persona non fosse in divisa, ma in
borghese. Non fu lui quindi ad estrarla, ma la prese in mano e la consegnò poi ad un altro ufficiale,
in divisa. Questa dichiarazione di Ayala è talmente confusa che lui stesso chiaramente sbaglia
quando dice “la persona in divisa si volse verso di me”, visto che due secondi prima si era detto
certo che non fosse in divisa. La ritrattazione di Ayala non potrebbe essere più traballante e
incoerente di così.
La domanda che a questo punto mi preme fare a Giuseppe Ayala è la seguente: ma come è possibile
che un magistrato della sua esperienza, abituato a vagliare le deposizioni dei testimoni e degli
imputati, possa dare versioni così contrastanti e contraddittorie di una circostanza di cui lui stesso è
non testimone ma attore diretto, come è possibile che si sia prestato ad alterare la scena del delitto
prelevando la borsa e poi consegnandola ad una persona della quale non ricorda neppure
chiaramente se fosse in divisa o in borghese, come è possibile che avendo avuto in mano un reperto
così fondamentale come la borsa contenente l’agenda rossa di Paolo non lo abbia protetto per
assicurarsi, se egli come dice “non aveva titolo” per prenderlo in consegna, che fosse almeno
consegnato ad una persona di sua assoluta fiducia.
Giuseppe Ayala ha avuto in mano l’agenda di Paolo, la cui sottrazione è stata uno dei motivi di
quella strage e non la ha saputa proteggere come avrebbe potuto e dovuto?
O c’è qualche altra, agghiacciante, risposta ?
Ma c’è un altro episodio, sempre relativo a Paolo Borsellino che mi ha fatto nascere forti perplessità
su Giuseppe Ayala e riguarda l’incontro del 1° luglio 1992 tra lo stesso Paolo e Nicola Mancino nel
suo studio del Viminale dove Mancino si era appena insediato come ministro dell’Interno. Io ho
sempre sostenuto che quest’incontro non solo ci fu ma che nel corso di esso Mancino parlò a Paolo
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di quella scellerata “trattativa” che era stata avviata tra la criminalità organizzata e pezzi dello
Stato, e di cui Mancino, come da recenti rivelazioni di alcuni collaboratori di Giustizia, costituiva il
“terminale istituzionale”. Sostengo anche da tempo che deve essere stata la reazione violenta e
senza appello di Paolo a quella proposta che deve avere affrettato la necessità della sua eliminazione
e l’attuazione della strage del 19 luglio 1992. Di quell’incontro resta la testimonianza diretta di
Paolo che nella sua agendina grigia che, diversamente dalla sua agenda rossa non è stata sottratta
subito dopo la strage, annota “1° luglio – Ore 19:30 – Mancino”. Mancino ha però sempre negato
l’incontro, sostenendo addirittura, e qui la sua affermazione risulta assolutamente inverosimile, che
anche se avesse incontrato Paolo non potrebbe ricordarlo perché “non lo conosceva fisicamente”. E
a fronte dell’esibizione da parte mia dell’agenda di Paolo che prova il contrario di quello che egli
afferma, ha esibito in televisione una sua agenda ‘planning’, cioè quelle agende che riportano sulla
stessa pagina i giorni di tutta una settimana nella quale, per quel giorno, non risulta alcun
appuntamento. Ora a parte il fatto che ciò non prova nulla perché l’appuntamento potrebbe non
averlo annotato, è la stessa agenda ad essere inverosimile perché in tutta la settimana sono annotate
soltanto tre righe e non è pensabile che tutta l’attività settimanale di un ministro della Repubblica,
appena nominato, riesca a riempire solo tre righe di un planning.
Su questa storia dell’incontro e dell’agenda Giuseppe Ayala ha dato a Mancino un maldestro assist
cadendo anche in questo caso in evidenti contraddizioni come nel caso dell’agenda rossa.
Il 24 luglio del 2009, durante un’intervista ad Affari Italiani, Ayala dichiara: “lo stesso Nicola
Mancino mi ha detto che il 1° luglio incontrò Paolo Borsellino. Le dirò di più, Mancino mi ha fatto
vedere la sua agenda con l’annotazione dell’incontro”.
Ma poche ore dopo, questa vota sul settimanale Sette ribalta completamente la precedente
dichiarazione e afferma: “Si è trattato di un lapsus. In realtà volevo dire che non ci fu nessun
incontro. Anzi Mancino tirò fuori la sua agenda per farmi vedere che non c’era nessuna
annotazione”.
Ci risiamo, per la seconda volta, e sempre in relazione a Paolo Borsellino, Ayala si contraddice in
maniera evidente e fa dichiarazioni che, da magistrato, avrebbe pesantemente contestato a qualsiasi
testimone, imputato o collaboratore di Giustizia. E non si tratta di una contraddizione da poco
perché riguarda un incontro che, come io ritengo, è stato la causa o almeno ha affrettato la fine di
Paolo Borsellino.
Può chiarire Ayala questa contraddizione e questa circostanza? Perché si è prestato a sostenere
questa versione e su sollecitazione di chi ha poi ritrattato? Finora non lo ha fatto perché della sua
prima dichiarazione esiste la registrazione audio e quindi non può in alcuna maniera affermare di
essere stato frainteso.
Un’ultima cosa. Ayala continua a ricordare in ogni suo intervento la sua amicizia con Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino e senza dubbio in un certo periodo della sua vita questa amicizia c’è
stata, ma proprio per questo dovrebbe evitare di mercificarla e sono rimasto veramente allibito
quando, qualche giorno fa, ho letto testualmente di un “recital-spettacolo“ dal titolo “Chi ha paura
muore ogni giorno” nel quale il “consigliere preso la Corte D’Appello dell’Aquila, debutta a teatro”
E, in coda è riportato : “Prezzi: Poltronissima 40,00; Poltrona I settore 35,00; Poltrona II settore
25,00; Tribuna 15,00”. Siamo alla svendita dell’amicizia e dei ricordi.
Anche se poi oggi forse non è più tanto conveniente vantarsi di essere stato amico di Paolo, come in
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Post/teca
tanti, troppi, dopo la sua morte hanno preso l’abitudine di fare, se, come hanno testimoniato due
magistrati che lavoravano con Paolo a Marsala, Alessandra Camassa e Massimo Russo, a pochi
giorni dalla strage del 19 luglio, essendo andati a trovare Paolo nel suo ufficio alla Procura di
Palermo, lo trovarono sconvolto e in pianto mentre, con la testa tra le mani, ripeteva “Un amico mi
ha tradito, un amico mi ha tradito”. E nell’ agenda rossa sparita Paolo Borsellino avrà sicuramente
annotato anche il nome di quel traditore.
fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/27/le-domande-che-non-avrei-voluto-fare/65084/
-------------------------centrovisite
Architettura fascista
Quando ero molto giovane lo sapevo, cos’era l’architettura fascista, e
mi faceva schifo. Prima di andare all’Università a studiare
architettura, voglio dire. Non che dopo, il fascismo mi abbia fatto meno
schifo, anzi, ma scoprii che dietro l’accostamento di quelle due parole
c’era un mondo piuttosto complesso.
Più a meno a metà di quel mio decennio breve, che per me è durato da
fine ‘71 a inizio ‘79, uscì un numero monografico di una rivista che
allora seguivo, se non altro perché la facevano a Bologna, ma anche per
altro, su “Giuseppe Pagano: fascista, antifascista, martire”, e
attraverso quella vita scoprii un sacco di cose. L’istriano di Parenzo
Giuseppe Potoschnig si cambiò il cognome in Pagano perché voleva essere
italiano, si entusiasmò per le pagliacciate di D’Annunzio, fu fascista
convinto e militante, militante anche nelle idee di architettura, dalla
parte dei, diciamo così, modernisti, contro i, diciamo così,
monumentalisti. Era stato per tutti gli anni Trenta redattore importante
e poi anche direttore della rivista che ancora io leggevo, negli anni
Settanta, Casabella, solo che ai suoi tempi si chiamava “La Casa Bella”,
che uno potrebbe pensare ai romanzi di Liala, e invece no, c’era dietro
uno scontro culturale mica da ridere. Io non lo sapevo negli anni
Settanta, che nelle battute e frecciate di qualche mio professore
c’erano ancora gli echi e le code di quegli anni là, così lontani e così
conclusi, mi sembrava, ci sembrava a noi che ci avevano tirati su con
una religione fatta di due sole parole: Mai più, e che perciò da bambini
avevamo guardato tutti allegri alla conquista dello spazio, alle
macchine da corsa, alla casa con gli elettrodomestici e i mobili
svedesi: funzionale, poi bella vien da sè.
Non lo sapevo, quando ero molto giovane, dell’esistenza di un
personaggio come Giuseppe Pagano, che ancora all’inizio degli anni
Quaranta era convinto che la Scuola di mistica fascista (si chiamava
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Post/teca
proprio così) fosse il luogo adatto per condurre delle battaglie
culturali, e poi fu contento di andare in guerra perché in trincea
“l’aria è molto più pura” che a Roma, e poi si rese conto, e allora
anche gli altri si resero conto, tanto che lo arrestarono e mandarono a
morire a Mathausen.
E anche fino a metà di quel mio decennio breve non ne sapevo poi
granché, di quelle battaglie culturali, sapevo solo che l’architettura
fascista mi faceva schifo, così, istintivamente, compreso un bel po’ di
quella che ci additavano a buon esempio nonostante tutto, la casa del
fascio di Terragni, per esempio, andai fino a Como per vederla e pensai
“Bene, adesso l’ho vista. Ma dov’è che si mangia? Non ci sono trattorie,
da queste parti?”.
Del resto, non è che l’architettura postfascista mi suscitasse poi tutti
questi entusiasmi. Da Mathausen qualcuno era tornato vivo, aveva messo
su uno studio con altri tre dove si progettava di tutto, dal cucchiaio
alla città, e avevano progettato anche la Torre Velasca: si spiegano
molte cose, a sapere com’è andata. La prima volta che la vidi, io
abitavo in una casina da geometra che per risparmiare sotto la mia
stanza era vuoto, lo chiamavano portico, ma era praticamente la negativa
di una stanza ancora da costruire. Morivo di freddo, in quella stanza
sopra il portico, che oltre a due pareti esterne aveva anche il
pavimento esterno, e rivolsi un pensiero solidale a quelli che abitavano
o lavoravano sullo sbalzo della Velasca; a parte quello, penso ancora
oggi che sia l’edificio più importante di tutto il Novecento, non solo
in Italia. Appunto.
Ma quella volta lì, la volta che ero andato a Milano, arrivando in
stazione non è che mi ero sentito propriamente a mio agio, neanche
uscendo, ché avevo traguardato la Torre Galfa che ci avevano già
spiegato che era praticamente un radiatore per scaldare lo smog, meno
male che lì a destra c’era il Pirellone, un radiatore di buon design, se
non altro. Poi mi ero girato indietro a guardare la stazione e mi aveva
preso un colpo, perché sapevo che l’avevano inaugurata nel ‘31. Ma
possibile? Un cesso così nel trentuno, dopo che Le Corbusier aveva
tirato su Villa Savoye, dopo che c’era già stato il cubismo, il
futurismo, Kandinskij e compagnia bella?
Devo dire che io ero abituato bene, a entrare e uscire nella stazione di
Firenze. Ma insomma, mi dicevo, possibile? Come quelli che oggi
confondono i Kb coi Mb, Gb, Tb: quattro anni dopo quella di Milano, non
quattro secoli dopo. E comunque, già un pezzo di storia anche quella,
nonostante fosse ancora vivo e incazzoso come sempre Michelucci (che
peraltro, per quel che avevo visto, a parte la stazione non si meritava
poi tutta questa fama), e nostante il suo braccio destro e coprogettista
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Post/teca
fosse ancora lì ad aspettarci per l’esame dell’ultimo anno, insieme con
un altro di quel gruppo, che noi chiamavamo il pinguino.
Quelli più snob tra noi studenti dicevano che il vero capolavoro alla
stazione di Firenze era la palazzina dei servizi tecnici, quella rosso
scuro che si vede a sinistra quando il treno esce dalle pensiline, e in
effetti sembrava uscita dai nostri libri di Storia Due, capitolo
architettura costruttivista, tutto illustrato con disegni di progetto,
almeno quella era lì. Sapevamo che Angiolo Mazzoni, il progettista, a
quel tempo era giovane e aveva fatto altre cose interessanti tipo
qualche colonia marina, poi aveva partecipato al concorso per la
stazione tutta intera e non aveva vinto, ma si era rifatto bene, anzi
male, diventando un trombone dell’architettura ferroviaria e un fascista
a cinque stelle e progettando poi vaccate inenarrabili che ammorbano le
nostre città e rendono abbastanza bene il concetto di “architettura
fascista”, se mai l’accostamento dei termini ha un qualche senso.
Quella cosa, cioè, che quando la guardi ti toglie l’aria, ti guasta la
giornata o il viaggio che stai facendo, anche se fatta con le migliori
intenzioni da intellettuali che credevano di far bene, come Giuseppe
Potoschnig, che si fece cambiare il cognome in Pagano per essere un
italiano e poi un fascista, ed è finito come è finito.
Queste cose mi sono venute in mente quando ho letto della signora Edda
Negri, candidata alle elezioni per il Fli (cioè con Fini, cioè con Monti
e Casini), che si è fatta cambiare nome in Edda Negri Mussolini in
quanto orgogliosa discendente di Mussolini Benito, quel signore (si fa
per dire) che in Italia qualcuno che non ha neanche la discutibile
scusante di essere sua discendente continua a sostenere che “ha fatto
anche cose buone” (sì, lui, ha fatto tutto lui). “Grazie a lui abbiamo
avuto l’architettura fascista”, dice questa signora. E anche le
bonifiche, ma di quelle parleremo un’altra volta.
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Scrivere, dicevamo una sera in hotel
21 febbraio 2013
di mario fillioley
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Ormai quando uno va alla presentazione di un libro (io ci vado in continuazione, lo so che è
un’abitudine insana, ma del resto vado anche ai comizi e alle conferenze stampa, e passerei ore a
osservare il bancarellaro del Bosco Minniti mentre fa la dimostrazione di quel coso che cava il
succo dal limone senza tagliarlo: a me la pubblicità dimostrativa piace, che ci posso fare?) scatta
sempre la domanda sulla scrittura di massa, specie se a presentare il libro è un esordiente. Spesso
l’interrogativo assume la forma del “com’è che adesso scrivono tutti? com’è che tutti vogliono
scrivere? com’è che tutti c’hanno un blog, fanno giornalismo dal basso, livetwitting e cose così?”,
che comunque secondo me è una domanda poco carina da fare a uno scrittore (specie se esordiente),
tanto vale che gli dici: ecco qua un altro scemo che si sente Cicerone, chiamate la neurodeliri,
presto.
Chi pone la questione di solito ha le vene del collo in rilievo e un colorito che varia dal livido
itterico al rosso paonazzo, e sembra proprio avvilito dalla quantità di parole scritte che circola in
rete, insofferente al punto da sentirsene soffocare. Da come ne ho tratteggiato il ritratto, risulta però
evidente che anche costoro (i domandatori) patiscono un pregiudizio: se ne sentono disturbati e si
sfogano alle presentazioni dei libri perché a disturbarli in realtà è il fatto che su facebook e twitter ci
sono persone pronte a sputtanarsi senza farsi tante paranoie, mente loro, che il talento ce
l’avrebbero sul serio, non confesseranno mai a nessuno che da vent’anni lavorano al nuovo Guerra
e pace o alla nuova Critica della ragion pura. Secondo me anche questo non è per forza vero e non
ha senso accomunare tutti nel girone degli invidiosi (a meno che tu non sia Dante- e quanto sarebbe
bello esserlo già solo per questo- che poteva sbattere la gente che gli faceva antipatia dove gli
pareva a lui). Forse allora è solo che siamo un po’ tutti vittime di un cliché sempre più
insopportabile. Vediamo se riesco a dire quale.
Effettivamente le velleità artistiche possono dare fastidio, e diciamo che la dimensione social
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Post/teca
assunta dalla nostra esistenza le titilla e le ingrassa fino a renderle moleste. Siamo diventati tutti
fotografi, scrittori, poeti, aforisti, editorialisti, stilisti, giornalisti, musicisti, cantanti e le nostre
bacheche facebook sono la nostra esposizione personale permanente. Per esempio: io. Non so fare
neanche una o col bicchiere, però provo lo stesso a scrivere, quindi appartengo in pieno alla schiera
dei velleitari. E invece non mi ci sento. Com’è questo fatto? Io dico che è una questione di
quantità/qualità mista alle aspettative che uno nutre nei confronti del mezzo (la scrittura). Da
quando esistono i social network la gente scrive di più. Molto di più. E questo dato quantitativo
incontestabile è alla base della domanda sulla scrittura di massa. Però che c’entra la quantità con la
qualità? La qualità di cosa scrivono gli illetterati come me è irrilevante. Associare la scrittura alla
qualità della scrittura (se scrivi è perché sai scrivere, che poi pure qua ci sarebbe molto da dire su
chi sa scrivere cosa) è una specie di retaggio ereditato da certo vetero-romanticismo (il poeta
tirtaico), quello secondo cui la statura “autoriale” dello scritto è l’unico criterio che ne autorizza la
diffusione. In pratica molto pubblico delle presentazioni rimane convinto che ci sia qualcuno che dà
le patenti di scrittore, e che se la patente non ce l’hai ma scrivi lo stesso è solo perché sei un
esibizionista. C’è insomma ancora molto presente questo mito dello scrittore che, quando è un vero
scrittore, scrive per se stesso e non per gli altri, a meno che non ci sia un’autorità (presumo la
critica: ma se uno non scrive finché non è riconosciuto dalla critica come fa a pubblicare e a essere
riconosciuto dalla critica?) che gli riconosca il diritto di diffondere (in rete o a mezzo stampa) ciò
che scrive. Da questo assioma si fa discendere una specie di corollario: quanto più esibisci la tua
opera scritta tanto meno sei un vero scrittore. Chi ha davvero talento tiene tutto sotto chiave dentro
al famoso cassetto. All’opposto, chi imbratta le bacheche con le sue ciance è di sicuro un mitomane
«privo di qualunque talentaccio» (tanto per citare uno molto in gamba che su questa cosa ci ha
scritto un libro divertente). Ecco: mi pare una minchiata. L’aumento quantitativo di parole scritte
riguarda per lo più quelli che un tempo si sarebbero detti illetterati, nel senso di gente che usa la
scrittura pur senza possedere nozione delle belle lettere (in una parola: senza essere un
intellettuale). Oggi tra di noi illetterati si scrive un sacco perché tra di noi illetterati ci si legge un
sacco. Prima, sempre tra di noi illetterati, non si scriveva per niente perché, sempre tra di noi
illetterati, non ci si leggeva per niente. La gente normale (però noi illetterati mi piaceva assai e mi
sta dispiacendo non scriverlo per la decima volta) ha cioè ricominciato a scrivere lettere (mail), a
lasciare pizzini (sms), a commentare per iscritto le notizie (forum, blog, commenti) non appena le è
stato fornito uno strumento adeguato alla velocità delle comunicazioni telefoniche cui si era ormai
abituata.
In pratica ci deve essere una specie di legge della termostaminchia secondo cui chiunque abbia un
destinatario finisce per scrivergli. E con la rete chiunque può essere il destinatario di chiunque,
quindi: chiunque scrive e chiunque può leggere. Le velleità letterario-giornalistiche c’entrano e non
c’entrano: la nascita, lo sviluppo e l’immensa popolarità dei nuovi strumenti di scrittura (i blog,
twitter – che è micro-blogging- le newsletter, le groupletter, i social network in generale)
dimostrano solo – e in modo lampante – che se l’essere umano ha qualcuno a cui scrivere, scrive, e
se non ce l’ha, non scrive, esattamente come se non ha nessuno con cui parlare sta zitto (tranne
Ignazio La Russa quando fa campagna elettorale a Milano).
C’è stata una fase storica (in realtà piuttosto breve se confrontata alla lunghezza di quelle in cui per
comunicare principalmente si scriveva) in cui la comunicazione orale era semplicemente più
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conveniente e comoda di quella scritta, e questa fase di egemonia telefonica è tramontata con
l’avvento della rete. Il sentirsi velleitariamente scrittore quando si scrive su un blog o su facebook è
un accidente che riguarda la personalità di ciascuno di noi, una peculiarità del carattere che in certe
occasioni si manifesta con maggiore evidenza e in certe altre no, un po’ come quando il sabato vai a
giocare a calcetto scapoli contro ammogliati e in ciascuna delle due squadre c’è sempre quello che
si sente un campione incompreso, o da scoprire, o la cui carriera in serie A è sfumata per colpa di un
ginocchio molle. Eppure a pallone ci giochiamo tutti: non è che devi essere Maradona per prenotare
un campo.
L’essere schivo, solitario, timido, introverso, restio a far conoscere i propri scritti a un pubblico è un
mito romantico e basta: se non vuoi dire niente a nessuno, non scrivi. Nessuno, nemmeno Bufalino
(il più citato da quelli che fanno la domanda sulla scrittura di massa alle presentazioni di libri), che
tenne celata al mondo la Diceria dell’untore per decenni, risponde a questo ritratto dello scrittore
eremita che compone frasi cesellate per il proprio esclusivo diletto. Bufalino teneva il malloppo nel
cassetto perché non voleva essere letto da me o dal suo verdumaio: voleva essere letto da Sciascia e
da Consolo (e aveva ragione: io non sono mai andato oltre pagina venti della Diceria, e me l’ha
regalata il mio verdumaio perché a lui non era piaciuta). Era schivo o era snob? Nessuna delle due:
aveva in testa un tipo di lettore che potesse leggerlo, e aspirava a essere letto da quel tipo di lettore.
Ognuno quando scrive si rivolge a qualcuno che lo legga, a volte consapevolmente, e a volte
inconsapevolmente, certo, ma la scrittura resta un atto comunicativo che perde ogni significato se
non c’è interlocutore. Poi, di sicuro, c’è e ci sarà sempre il genio che parla da solo dentro una grotta
al mero scopo di ascoltare la propria eco restituirgli la sua stessa voce, godendo beato di questo
riverbero e di null’altro. Ma allora forse più che davanti a Bufalino siamo davanti a Holderlin,
chiuso dentro la torre della casa del falegname, che quando riceve una visita si impaurisce e non
vede l’ora che tutti si levino di torno per ricominciare a scrivere l’Iperione. E infatti Holderlin oltre
che un genio era anche un pazzo conclamato.
Noi siamo nell’epoca della scrittura di massa semplicemente perché siamo nell’epoca della
comunicazione di massa: le velleità letterarie, creative, sono sempre quelle che c’erano prima,
alcuni ce l’hanno e altri no. Abbiamo semplicemente ripreso a scrivere, e stavolta a scrivere siamo
un po’ di più perché siamo un po’ di più ad essere andati a scuola. È l’alfabetizzazione di massa,
bellezza, e tu non puoi farci niente. Chi c’ha un blog scrive anche senza essere uno scrittore. Del
resto c’è una bella differenza tra uno che scrive e uno scrittore. E secondo me c’è sempre stata.
Anche prima di internet.
fonte: http://www.ilpost.it/mariofillioley/2013/02/21/scrivere-dicevamo-una-sera-in-hotel/?
utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+ilpost+%28Il+Post+-+HP
%29
---------------------curiositasmundi ha rebloggato iceageiscoming
“21 febbraio 1967 - Presso gli EMI Studios londinesi iniziano le sessioni di registrazione
dell’album “The Piper At The Gates Of Dawn”, il debutto psichedelico dei Pink Floyd. Il
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Post/teca
primo pezzo registrato è “Mathilda Mother”. Mentre Syd, Nick, Richard e Roger incidono,
nello studio di fianco i Beatles sono al lavoro sulla canzone “Fixing A Hole” , che comparirà
nell’album “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”.”
—
Classic Rock Italia
(via onepercentaboutanything)
Fonte: onepercentaboutanything
-------------------------curiositasmundi ha rebloggato pragmaticamente
“L’onda non riesce a prendere
il fiore che galleggia:
quando cerca di raggiungerlo
lo allontana.”
—
Rabindranath Thakhur Tagore
l’onda (via 10lustri)
Fonte: 10lustri
--------------------k-ur-tz ha rebloggato mindthecam
“
IL DECALOGO DEL PERFETTO BLOWJOB.
SE SEI DONNA, IMPARALO A MEMORIA.
SE SEI UOMO, STAMPALO E APPENDILO IN UN POSTO VISIBILE VICINO AL
LETTO. (IN STAMPATELLO PER LE BIONDE.)
PREFAZIONE: MELIUS ABUNDARE QUAM DEFICERE.
1 - PRIMA DEL BLOWJOB, NON FUMARE JOINT. LA SALIVAZIONE È
FONDAMENTALE, E INTERROMPERE LA FELLATIO VENTICINQUE VOLTE PER
BERE ACQUA NON SERVIRÀ A RIFORMARE SALIVA E FARÀ ESASPERARE
L’UOMO.
2 - NON ALCOLIZZARTI IN MANIERA ECCESSIVA E NON MANGIARE 7 KEBAB E 5
BIGMAC APPENA PRIMA, IL DEEP THROAT IN QUEL CASO POTREBBE AVERE
SPIACEVOLI EFFETTI. SE POSSIBILE, ASPETTA L’AVVENUTA DIGESTIONE.
3 - GUARDARLO NEGLI OCCHI DURANTE LA FELLATIO AUMENTERÀ
ESPONENZIALMENTE IL LIVELLO DELLA SUA ECCITAZIONE, A MENO CHE TU
NON SIA UNO SCORFANO.
4 - NON PROVARE MAI A TIRARE FUORI I DENTI. IL COLPO DENTALE ASSASSINO
NON È ASSOLUTAMENTE SCUSABILE. SE L’UOMO IN QUESTIONE È UNO
SCOPAMICO, TE LO SEI GIOCATA PER SEMPRE. SE L’UOMO IN QUESTIONE È UN
POSSIBILE RAGAZZO, TE LO SEI GIOCATA PER SEMPRE.
5 - USA QUELLA CAZZO DI LINGUA CHE NOSTRO SIGNORE TI HA DONATO. LE
LABBRA DA SOLE NON FANNO GRANDI COSE.
121
Post/teca
6 - ESERCITATI AD ESPANDERE LE VIE AEREE, RILASSATI E LA TUA GOLA SARÀ
PIÙ RILASSATA. IN QUESTO MODO CONQUISTERAI ALMENO 5 CM IN PIÙ E
RAGGIUNGERAI LA CASA-BASE CON ALMENO IL 90% DEI TUOI PARTNER.
- SE INCONTRI OVER20, RICORDATI CHE POSSIEDI DUE MANI.
- RUOTARE LEGGERMENTE LA TESTA È UN TRUCCO CHE PUÒ FARTI
GUADAGNARE QUALCHE CM IN PIÙ.
7 - NON ESISTE SOLO IL PALO. ANCHE SE TI ADDENTRI UN PO’ PIÙ IN BASSO, LA
MAGGIOR PARTE DEGLI UOMINI SARÀ ESTREMAMENTE FELICE.
8 - INDICATIVAMENTE, USA LE MANI SOLO PER NECESSITÀ (VEDI N. 6). E’
PROVATO CHE LA CAPACITÀ PURAMENTE ORATORIA È MOLTO PIÙ
APPREZZATA RISPETTO A UNA FELLATIO IBRIDA. SE LE VUOI USARE A TUTTI I
COSTI, USALE MA PIÙ IN BASSO (VEDI: PALLE).
9 - SE VUOI CONQUISTARE UN UOMO, FAGLI UN POMPINO.
- SE VUOI TENERTI STRETTO UN UOMO, FAGLI TANTI POMPINI.
- SE VUOI CHE IL TUO UOMO TI CHIEDA DI SPOSARLO, COGLILO TOTALMENTE
ALLA SPROVVISTA E FAGLI UN POMPINO MENTRE MANGIA POP-CORN
GIOCANDO ALLA PLAY.
10 - CHIUNQUE SIA IL PARTNER, CONCORDATE PRIMA IL LUOGO DEL CUMSHOT,
IN QUANTO PARLARE O ANNUIRE DURANTE UN DEEP THROAT È CALDAMENTE
SCONSIGLIATO, SOPRATTUTTO NEL MOMENTO CULMINE. E RICORDAGLI DI
AVVISARTI QUANTO STA PER VENIRE.
- CHI NON AVVISA, È UN GRAN PEZZO DI MERDA.
- SE TI VIENE IN GOLA SENZA AVVISARTI, BECHÉ TU GLI ABBIA
ESPLICITAMENTE CHIESTO DI VENIRE ALTROVE, INFRANGI LA REGOLA N. 4.
- IMPARARE A INGOIARE SENZA TROPPE STORIE NÈ SMORFIE SAREBBE
COMUNQUE COSA BUONA E GIUSTA.
NOTA AGGIUNTIVA: IL PIERCING ALLA LINGUA NON È NECESSARIO E, SE CE
L’HAI, DEVI IMPARARE AD USARLO, PERCHÉ SPESSO PUÒ ESSERE DANNOSO.
- da Anonimo.
”
----------------------------------curiositasmundiha rebloggato insospettabilmente-superficiale
Come gira il mondo...
mangorosa:
Bisogna reagire. Ma alcuni lo fanno in maniera sconsiderata.
FATTO DEL GIORNO
“La terra non è piatta”.
LE REAZIONI
Pontifex Roma: “La terra non è piatta. Quindi è giustificabile chi la stupra”.
Umberto Bossi: “L’encefalogramma di mio figlio è differente”.
122
Post/teca
Tg5: “Nei sondaggi la piattezza è in rimonta”.
Studio Aperto: “Il mondo è nella morsa della rotondità più accentuata degli ultimi 150 anni. Nel
dubbio, bevete molta acqua”.
Silvio Berlusconi: “Un impegno concreto. Ve la restituirò piatta”.
Gianni Alemanno: “Chiedo lo stato di calamità”.
Carlo Giovanardi: “Ilaria Cucchi sfrutterà anche questa tragedia”.
Branko: “Tonda e ricca d’acqua? Potrebbe essere un acquario”.
Ernesto Galli della Loggia: “Non dimentichiamo le ragioni di chi la ritiene piatta”.
Fabio Volo: “Piatta o rotonda non fa differenza. L’importante è viverla”.
Nicole Minetti: “Non sarà piatta, ma il mio chirurgo avrebbe fatto di meglio”.
Flavia Vento: “L’ho sempre saputo: è chiaramente cubica”.
Canzone sanremese: “Amore mio, i tuoi occhi sono tondi come la terra e profondi come il mare”.
L’espresso: “Nella foto vediamo Benedetto XVI di fronte a un mappamondo. Il suo viso è
visibilmente provato. Gli restava una sola cosa da fare: dimettersi”.
Nichi Vendola: “La nostra terra sofferente, con la sua tonditudine, suggerisce alla sinistra compiti
gravosi e ineludibili. La storia ci chiede una lettura partecipe dei nuovi scenari, per la
compilazione di un nuovo vocabolario volumetrico. Affrontiamo dunque le sfide lanciate dalla
forma sferica del mondo. Cominciamo con la riscoperta dei piedi: questi silenti testimoni della
strada percorsa ci insegnano a misurare lo spazio tondo con umiltà, e tracciano la fisionomia di un
orbe terracqueo che dissemina metafore, perché la sua superficie è curva come la parabola
ascendente del neoliberismo. Siamo chiamati a salmodiare la nostra invettiva, come musicanti
ebbri di empatia, contro il perpetuarsi di un’asettica globalizzazione che si muove su sentieri
arcuati, in quanto privi di rettitudine. Vogliamo dare impulso alla giustizia sociale, capovolgendo
la curvatura di quest’epoca spietata, segnata da una precarietà diffusa e sempre più
implacabile…”.
Beppe Grillo: “Vaffanculo”.
Fonte: lolingtonpost.it
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5 BUONE RAGIONI PER NON VOTARE GRILLO
Pubblicato il 20 febbraio 2013 da admin
“Il fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha
dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche
vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odii, dei desideri. Il fascismo
è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni
strati del popolo italiano, non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola,
dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e amministrato”
Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, 26 aprile 1921.
Quando è diventato chiaro che Berlusconi era troppo impegnato a cercare di limonarsi da
123
Post/teca
solo per avere la lucidità politica necessaria a mantenere il potere, mi sono chiesto: cosa
s’inventeranno questa volta gli italiani?
Domanda legittima quando hai ancora chiaro nei ricordi il clima da caccia alle streghe del
2001 quando l’Italia si divideva in due: da una parte le persone, dall’altra i berlusconiani in
erezione.
Centinaia di migliaia di volontari che ripetevano a pappagallo slogan che sembravano
scritti da un bambino che avesse ricevuto un ferro da stiro in testa dopo aver provato a
cambiare canale sulla tv della nonna durante “La ruota della fortuna”. Cose tipo “Internet,
Inglese, Impresa” “Un presidente operaio” “Aiutare chi è rimasto indietro” quest’ultimo
decisamente rappresentativo del tipo di persone che stavano per andare al governo.
L’italia fu invasa da schiere di subumani in doppiopetto e sciure con trucco pesante e
gioielli in stile il mio grosso grasso matrimonio greco che andavano in giro per le sedi dei
Ds a fare fatality di Mortal Kombat già mesi prima delle elezioni.
Facile quando dall’altra parte hai Rutelli1
Quella fu una specie di gigantesca controrivoluzione conservatrice e furono anche le prime
elezioni politiche a cui potei partecipare come elettore, che è un po’ come perdere la
verginità scopandosi la vecchia dei Goonies. Il minimo che ti può succedere è che ti prendi
un’infezione lunga dodici anni.
Alla fine di questo herpes democratico chiamato Berlusconi le soluzioni potevano essere le
più svariate ma con il materiale umano che abbiamo a disposizione c’era in realtà poco da
essere ottimisti.
E infatti ne è venuto fuori Berlusconi 2.0 ovvero Beppe Grillo.
Più violento nei toni
più multimediale
più fascista
La storia del suo movimento la conosciamo bene, ha preso una buona idea (la democrazia
partecipativa) l’ha scopata un paio di volte, le ha detto che l’amava, poi ha incominciato a
picchiarla e a farla battere sulle strade della penisola per suo tornaconto.
Se ogni volta che lo sentite parlare in piazza non vi vengono i brividi lungo la schiena o a
scuola avete avuto un pessimo insegnante di storia o siete Gianroberto Casaleggio.
Gli elementi che rendono Beppe Grillo e il suo movimento un partito tecnicamente fascista
sono parecchi. Andiamo qui a vederli uno dopo l’altro con una numerazione va dall’1 al
5.In ordine crescente. Questo lo aggiungo nel caso ci fossero dei grillini che stanno
leggendo il pezzo, non vorrei gli venisse mal di testa
1. L’infallibilità del capo
Grillo in questi anni ha detto tutto e il contrario di tutto, ha distrutto sul palco dei
computer poi ha esaltato la rete come panacea di tutti i mali. Come diceva Daniele Luttazzi
in questo insuperato intervento2 quando la gente applaude Grillo non applaude il
contenuto applaude la foga. I cani pastore e Mario Monti obbediscono a chi dà ordini in
tedesco, gli italiani invece danno ragione a chi urla di più, deve essere una specie di riflesso
genetico. Qualsiasi cazzata detta con convinzione e movimento delle mani sufficientemente
concitato fa nascere nell’italiano il sospetto che diventa in fretta una certezza che quello
che sta ascoltando abbia un senso.
124
Post/teca
Altrimenti perché quel tizio urlerebbe così tanto?
Questa è una cosa che ha scoperto Mussolini e per provarla ai suoi amici metteva dentro i suoi
discorsi cose assurde. Prendiamo ad esempio il discorso dopo la conquista
dell’Etiopia nel 1936
Mussolini: Tutti i nodi furono tagliati dalla nostra spada lucente
Popolo: yeahhh
Mussolini (girato verso i suoi gerarchi): Visto?
Quando Grillo dice “Italiani!” alla maniera del duce non fa satira, mostra per un istante
quello che vorrebbe essere veramente. Chi è allenato alle discipline satiriche lo aveva
capito da subito, per un semplicissimo motivo: quella gag non fa ridere, fa accapponare la
pelle.
Se ti fa ridere, sotto sotto almeno una piccola parte di te è convinta che il fascismo non
fosse proprio tutto da buttare. Magari sei uno di quello che ripete le solite fregnacce dei
treni in orario e le bonifiche. Tutte cose che di solito nascondono il sottotesto “non riesco
ad avere un’erezione decente se non appoggio la mia virilità su una sovrastruttura politica
totalitaria che mentre mi annulla come essere umano mi dà l’illusione di avere un senso
all’interno di un progetto più ampio che mi trascende, nel tempo e nello spazio, e sul quale
non ho alcun controllo reale”
2. “Non siamo di destra nè di sinistra” dice Grillo, ma la post-ideologia è
ideologia
Questo ci porta al secondo, e probabilmente il più inquietante, dei punti. Quando il m5s
era al 3-4% e sentivo fregnacce colossali tipo “noi non siamo nè di destra nè di sinistra” la
mia prima reazione era di accarezzare la testa del grillino e dirgli di andare a giocare con gli
altri bambini. Ora che si avviano a diventare il secondo o terzo partito di uno dei paesi più
industrializzati del mondo fanno paura.
Il motivo è molto semplice: non esiste una politica post-ideologica. Alla base di questa
convinzione dei grillini, oltre ad una marchiana e intollerabile ignoranza delle categorie
base del politico, ci sono le seguenti idee naif per non dire puerili:
● esiste un bene universale e assoluto (detto talvolta verità) che la politica
può e deve conseguire
● Il bene così definito si consegue attraverso l’uso corretto del mezzo
internet
Bene anzi male. Malissimo. Ovviamente l’azione politica di qualsiasi partito deve tendere
verso uno scopo, e questo scopo è un tipo di amministrazione della cosa pubblica piuttosto
che un’altra. Questo è pienamente legittimo, anzi è la base di ogni agire politico in un
sistema democratico.
Ognuna di queste visioni però, proprio mentre ambisce per sua natura a diventare
maggioritaria deve sempre accettare anche di essere UNA delle possibili visioni, che si
scontrano all’interno di un sistema di regole uguali per tutti e stabilite assieme.
Normalmente queste visioni corrispondono al costituirsi come contendente all’interno del
125
Post/teca
gioco politico di determinati gruppi di interesse. Gruppi di grandezza e finalità
diversissime tra loro. Non fatevi ingannare dal fatto che poi per questioni di marketing
(vincere piace a tutti) ogni partito si dipinga come il più ampiamente rappresentativo,
ognuno sta in realtà in rappresentanza di un gruppo ben definito.
Storicamente chiamiamo “Sinistra” quel variegato numero di partiti che all’interno di un
sistema democratico come il nostro si propongono come i rappresentanti della
maggioranza meno abbiente della popolazione. A questo si possono spesso aggiungere altri
valori collaterali che nel corso della storia ( ma non sempre ) si sono associati a queste
parti politiche come ad esempio la lotta per i diritti civili, il pacifismo, l’internazionalismo.
Chiamiamo invece storicamente “Destra” quell’universo di partiti che si propongono di
fare gli interessi della parte più ricca della popolazione unendo spesso ( ma anche qui non
sempre) a questo anche posizioni a favore della patria, della concezione religiosa della
famiglia eccetera.
Questo funzionamento si può riproporre in maniera più dettagliata anche per corpi sociali
meno ampi e decisamente più definiti, ad esempio l’Italia dei valori era un partito molto
gettonato fra gli appartenenti e gli ex appartenenti alle forze dell’ordine, il movimento
pensionati fra, appunto, i pensionati, un partito come quello di Oscar Giannino presso un
certo di tipo di piccola e media imprenditoria eccetera eccetera.
A questo punto il grillino è già saltato sulla sedia e sta urlando
“Ma questi non rappresentano più nessuno”
Errore. Rappresentano chi li vota. Certo è impossibile dire che Berlusconi abbia fatto tecnicamente
gli interessi dei milioni di poveri che l’hanno votato in passato, ma sicuramente li
ha rappresentatipoliticamente.
Per evitare situazioni come queste il cittadino ha però un’arma potentissima che raramente sfrutta
e della cosa può incolpare solo se stesso: non votare più il partito le cui
dichiarazioni d’intenti in termini di rappresentatività non corrispondono
all’effettiva azione di governo.
Tutto questo è estremamente sano, ed è il gioco alla base della democrazia.
Se non ci sono interessi diversi da rappresentare semplicemente non c’è
democrazia.
Persino un’eventuale vittoria totale di un partito di sinistra autenticamente popolare
avrebbe altissime probabilità di degenerare prima o poi (più prima che poi) in dittatura,
quand’ora fosse totalmente sprovvisto di qualsivoglia forma di opposizione.
Siamo esseri umani, siamo diversi e vogliamo cose diverse. Per questo il modo migliore che
abbiamo di stare assieme e sederci a un tavolo, discutere e trovare un compromesso.
Non è un metodo perfetto, ma (spolier alert per i grillini): l’uomo non è un animale
perfetto
Per arrivare a questo sistema ci sono voluti 4 millenni, centinaia di milioni di
morti, e decine di migliaia di studiosi che hanno dedicato tutta la loro vita a
questi temi, fornendo supporto fondamentale a chi poi nella pratica svolgeva
126
Post/teca
l’attività politica.
Non è esattamente il frutto due stronzi di politici corrotti che vanno a
mignotte in un appartamento di Roma pagato dal ministero.
È evidente che alla maggior parte dei grillini tutto questo non è chiaro.
È evidente perché credono basti fare due domande su internet ai cittadini per arrivare
immediatamente alla soluzione perfetta e universale cioè valevole per tutti.
Ora un’obiezione tecnica classica a questa concezione semplicista è che non tiene presente il
fondamentale ruolo di filtro fatto da chi possiede oggettivamente un maggiore
grado di conoscenza di un argomento.
In altre parole, quando state male andate in ospedale e volete che sia un medico a curarvi o
preferite chiedere tramite il vostro smarthphone al pubblico da casa di scegliere
varie opzioni terapeutiche possibili? Oggi esistono degli invasati che
propenderebbero per la seconda, di solito li trovate al cimitero.
È facile dire che su internet emerge sempre la soluzione più corretta ma ci sono milioni di esempi
di come in realtà questo meccanismo sia tutt’altro che infallibile. La rete prende
continuamente sole gigantesche, a dimostrazione che l’intelligenza collettiva è
spesso inferiore in tanti aspetti a un’intelligenza individuale ben formata e
preparata.
Il problema però si pone in misura ancora maggiore per quegli argomenti in cui la
soluzione non è di natura scientifica ma riguarda invece le scelte del libero agire umano.
Quel campo di sapere che Aristotele chiamava Phrònesis. Qui una soluzione
oggettivamente giusta non esiste, siamo nel campo del perpetuo divenire, del confronto fra
esseri umani, del ribaltamento continuo, dell’equilibrio dinamico. Questo tipo di verità ha
sempre sempre il carattere dell’accordo, dura pochissimo ed è il frutto transitorio di una
contrattazione inarrestabile
Grillo invece ritiene che la verità possa essere individuata in fretta, con precisione e in
maniera rigorosa e universale e che una volta fatto questo (tramite internet) debba essere
imposta a tutti
Che è esattamente quello che hanno sempre inseguito i sistemi totalitari
E infatti Casaleggio ha messo on line questo video delirante
dove non fa mistero dei suoi progetti. È lì, tutti lo possono vedere, è una cosa mostruosa
ma nessuno ne parla. Questo anche perché il giornalismo in Italia preferisce inseguire la
singola scorreggia fuori contesto di un leader politico o la peperonata di Di Pietro che
andare a vedere quali sono i principi e le idee che regolano l’azione dei partiti. È la famosa
intelligenza collettiva dell’era di internet, in cui le società più ricche del mondo decidono il
proprio futuro discutendo di tweet lunghi 140 caratteri piuttosto che i programmi e i libri
da cui sono stati ricavati.
Il risultato è che questo lavoro tocca farlo a me mentre i direttori dei giornali si scopano le
escort al posto mio. Mannagia la puttana.
Una cosa comunque deve essere chiara: essere né di destra né di sinistra è impossibile nei
fatti.
127
Post/teca
Facciamo un esempio concreto, come si pone il m5s rispetto alle politiche sul lavoro?
Non lo sappiamo.
Il cittadino perfetto del mondo di Grillo è contro la corruzione e gli aereoporti, fa la
raccolta differenziata, ha la banda larga gratis ovunque per poter essere sempre
raggiungibile dai pensieri di Casaleggio ed è contro gli inceneritori. E vuole bene agli orsi
della luna.3
Detto questo non si sa cosa pensi delle vere questioni politiche. Cosa farà il m5s sul lavoro?
Sul welfare?sulla sanità? Sull’istruzione? In politica estera?
Tutte questioni su cui Grillo rimane così vago da non dire sostanzialmente nulla 4
Lo scopo qui è lasciare le mani libere a Beppe Grillo di decidere in modo carismatico sulla
singola questione dopo le elezioni. Infrangendo quindi quel vincolo di rappresentanza
d’interessi di cui parlavo prima. Il m5s è il più personale dei partiti personali e
l’inconsistenza del programma è funzionale a questa sua caratteristica.
il programma di Grillo sembra quello che scriverebbe una matricola di scienze politiche al
10° chiloom. Ad esempio:
Punto 2. Misure immediate per il rilancio della piccola e media impresa
Apposto, problema risolto ( al massimo cercheranno “Misure immediate per il rilancio
della piccola e media impresa” su wikipedia )
Manca solo il punto “11. legalizzazione dell’erba e concerti gratuiti degli ska-p che fanno cover di
pizzica in piazza con hollandia gratis per tutti.
Quando governi poi devi scegliere con chi schierarti, con la maggioranza delle persone o
con i più ricchi.
In base alla risposta che dai a questa domanda nei vari settori della società sui quali ti
troverai a decidere, si definirà se sei di destra o di sinistra.
Sei a favore delle scuole e della sanità private?
Sei di destra
Sei contro la rappresentanza sindacale (come concetto prima ancora che come
svolgimento) ?
Sei di destra
E via così
3. Grillo non è un leader democratico
3. L’altro aspetto della verità assoluta che il m5s promulga è che essa viene definita
comela parola di Beppe Grillo. Molto semplicemente. L’ex comico ha una sorta
d’infallibilità papale che raggiunge livelli che neppure Berlusconi ha mai avuto nei
suoi tempi migliori. Questo perché
4. Ha il controllo totale del partito. Ha deciso espulsioni alla minima
infrazione dei suoi regolamenti e ha sempre agito rapidissimo con la
logica del “Colpirne uno per educarne cento” e fino a adesso ce l’ha fatta,
sostenuto in questo dalla fede cieca di molti suoi militanti, tanti dei quali ormai
vedono profilarsi sedie e carriere politiche che solo un anno fa non avrebbero mai
osato sognare. Abbiamo visto con Berlusconi come questa capacità portare in
128
Post/teca
politica persone emerse dal nulla abbia i suoi vantaggi in termini di fedeltà assoluta
5. Il metodo di scelta dei candidati è stato votato esclusivamente a
mantenere il controllo assoluto del partito. Si fa sempre un gran parlare di
meritocrazia e Grillo si vende come un innovatore che porterà finalmente aria nuova
nella gerarchia sociale di questo paese. Dopo di che quando si tratta di scegliere le
persone che siederanno nel parlamento della repubblica le fa scegliere tramite un
sistema online opaco di cui solo lui e Casaleggio conoscono il reale funzionamento,
tra una lista di grillini trombati alle elezioni amministrative. Meritocrazia
secondo Grillo significa che se ti segano alle elezioni di Busto Arsizio sei
pronto per diventare senatore, e chissà, pure ministro. Questo è quello
che tecnicamente si chiama “primato del partito” una caratteristica di tutti i
partiti rivoluzionari che hanno instaurato regimi totalitari
1. Dopo le elezioni Beppe Grillo si ritroverà a essere a capo di un importante gruppo di
parlamentari pur senza essere stato eletto. Cosa che diventa ancora più assurda nel
momento in cui il suo movimento promulga l’incandidabilità per i condannati come
lui.Secondo Beppe Grillo quindi da condannati non si può fare il singolo
parlamentare ma si può benissimo essere a capo di un nutrito gruppo di
deputati e senatori. Un salto logico orwelliano.
4. Il lato oscuro di Grillo e dei suoi partner impresentabili
Qualche indicazione però sui veri progetti Grillo ce la dà con
1. I contenuti che gli scappano per sbaglio
Grillo ogni tanto tocca i veri temi pesanti della politica e spara quasi sempre boiate
pazzesche, fra le quali ricordiamo
1. i sindacati vanno aboliti (esattamente come fece il fascismo)
2. i rom sono una bomba a tempo
3. Non bisogna dare la cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia
4. I ragazzi di Casa Pound fanno battaglie in buona parte condivisibili
È più forte di lui, ogni tanto gli scappa e dice quello che pensa veramente. Un po’ come un
altro leader, non so se ve lo ricordate. Ad ogni modo anche senza aspettare questi momenti
di disvelamento clamorosi era già chiaro chi fosse Grillo bastava osservare
1. La sua retorica (la forma) . Grillo è perennemente incline allo sfottò
reazionario, tende immediatamente alla purga staliniana e alla gogna contro
chiunque gli si metta contro, ed evade le questioni scottanti con risposte che
vorrebbero essere comiche ma sembrano scritte dall’autore di “troppo frizzante” 5.
Nell’intervista in ginocchio sui ceci che gli ha fatto Marco Travaglio c’è questo
passaggio assolutamente esemplificativo del suo modus operandi.
(domanda di Travaglio) Torniamo alla democrazia interna al movimento. È
normale che il marchio sia nelle mani di Grillo e Casaleggio?
(risposta di Grillo) ahah, Casaleggio viene dipinto come una figura luciferina,
misteriosa, oscura. Sarà ma sono anni che lo rivoltano come un calzino e non gli han
trovato un belino di niente fuori posto. Mai visto una vita più normale, ripetitiva e noiosa
della sua. Va in ufficio la mattina, lavora tutto il giorno, la sera torna a casa dalla moglie
e dal bambino. Un persuasore talmente occulto che non riesce nemmeno a convincere la
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Post/teca
moglie a seguirlo nella casa di campagna a Quincinetto, sopra a Ivrea. Ogni tanto mi
chiama e mi chiede di andare a fargli compagnia. Ecco la centrale operativa della
Spektre è a Quincinetto.
Questa risposta è fantastica e mostra una tecnica che Grillo utilizza spessissimo, riportare
arbitrariamente questioni complesse e importanti a quadri pseudo-buffi da commedia
popolare. Utilizza cioè scene prese di peso dall’imaginario collettivo dell’italiano medio (in
questo caso l’uomo che non riesce ad avere ragione della moglie) per applicarle come una
pezza coprente sopra le contraddizioni interne al suo partito. Nella maggior parte dei casi il
parallelo è forzato, centra molto poco o, come nel caso qui sopra, è usato a scopi
chiaramente mistificatori e per eludere a piè pari una questione.
Il messaggio è “come può essere Casaleggio, uno che 1. Non ha potere su sua moglie e 2. ha
un orto a Quincinetto, essere un uomo potente e diabolico?”
Ma anche Hitler amava i cani.
Grillo compie qui un doppio movimento di depotenziamento della figura di Casaleggio e
poi lavora per contrasto attingendo di nuovo all’immaginario popolare per tirarne fuori la
“Spektre”.
A questo punto l’operazione è compiuta: la domanda è evasa attraverso l’utilizzo di
un’immagine e di un contrasto vagamente comico. L’anima povera qui è pienamente
soddisfatta, la persona preparata invece si sta chiedendo dove sia finita la risposta.
Dal punto di vista comunicativo si noti il potenziale comico del nome Quincinetto. Non è un posto
serio, non può esserlo con quel nome, e per estensione chi ha un orto lì non può
essere una persona pericolosa
Marco Travaglio ci ha spiegato per quindici anni che il problema dei giornalisti italiani è
che non fanno mai la seconda domanda. Appena si è trovato davanti a Grillo ha compiuto
lo stesso errore. Capita che i fedeli in udienza davanti al loro dio perdano un po’ di lucidità.
Sarebbe stato interessante se gli avesse chiesto conto dell’ex socio fondatore della
Casaleggio e Associati ( ancora dentro la società al tempo dell’intervista) Enrico Sasson a
lungo anche amministratore delegato dell’American Chamber of Commerce in Italy una
sorta di lobby delle multinazionali americane in italia. Nel board di questa società siedono
persone che stanno anche ai vertici di Aspen Italia un potentissimo think thank di
ispirazione liberista per cui passa buona parte del gotha finanziario economico e mediatico
d’Italia.
Ecco questo forse sarebbe stato un po’ più interessante da sapere piuttosto che l’orto a
Quincinetto. Eppure a Travaglio sarebbe bastato applicare lo stesso rigore con cui scavò
(giustamente) nel passato di Schifani individuando soci imbarazzanti per il presidente del
senato.
Forse i grillini che sentono il loro profeta urlare contro il mondo finanziario un giorno si e
l’altro anche queste cose vorrebbero saperle. Ad ogni modo, tempo fa se ne è occupato tra
gli altri micromega e trovate il pezzo in nota6
Forse non è un caso che in un momento storico in cui il liberismo mostra al mondo il suo
fallimento, le disuguaglianze aumentano e per mezzo delle nuove tecnologie siamo di
fronte a un cambiamento antropologico (che personalmente non avrei molti dubbi a
130
Post/teca
definire un’involuzione ) un partito che accoglie queste nuove istanze tecniche (che hanno
del potenziale di controllo infinito e senza precendenti) in modo totalmente acritico e
ottimista e bypassa del tutto i grandi temi politici delle disuguaglianze sociali per
concentrarsi su aspetti tutto sommato marginali come la corruzione, abbia tanto successo.
Se il mio problema fosse mantenere le condizioni di business per le grandi aziende di
fronte a una crisi senza precedenti che mette in pericolo la sopravvivenza stessa dei partiti
che mi hanno permesso di prosperare indisturbato, beh una proposta politica come quella
del m5s la prenderei seriamente in considerazione per cambiare tutto senza che cambi
nulla.
L’idea è incanalare la rabbia popolare su alcuni temi che non toccano gli affari e lasciare la
struttura della società esattamente com’è rendendola però più docile e disciplinata.
Ovvero quello che hanno sempre fatto i totalitarismi mentre si affermavano nei momenti
di crisi
5. Del militante. Ovvero dell’animo intimamente fascista del grillino
Gli argomenti del grillino
1. bisogna mandarli a casa tutti
Tutti chi? Di cosa stiamo parlando realmente? Esiste una compatta e inscindibile
compagine di politici cattivoni e irrimediabilmente corrotti? Sono tutti così? Sono
generalizzazioni false e indiscriminate che fanno venire i brividi per la superficialità e la
violenza che contengono
2. Se non voti Grillo allora chi voti?
Le alternative ci sono. Ma anche se non ci fossero non è un buon motivo per consegnarsi
nelle mani di una personalità autoritaria e di uno spin doctor con evidenti pulsioni
totalitarie ( delle quali non fa mistero!)
3. Tutti coloro che esprimono dubbi o critiche, anche argomentate, contro
Grillo e il suo partito sono al soldo degli interessi dei potenti o di qualche
complotto, oppure non vogliono che ai giornali vengano tolti i finanziamenti pubblici.
L’idea che qualcuno possa avere delle idee diverse dalle loro e abbia ciònostante una
dignità intellettuale, non li sfiora neanche lontamente
Il fatto che le bacheche di internet siano piene di Grillini che caricano contro tutto e tutti
come tori che vedono rosso non è affatto un caso ma è una logica conseguenza degli aspetti
che abbiamo visto fino ad adesso
Casaleggio cerca di infondere nell’elettore un’accettazione pre-razionale del contenuto
politico e della figura messianica e carismatica di Grillo. All’interno di questo meccanismo
il grillino trova finalmente quello spazio nel mondo che prima gli era stato negato dalla
parcellizzazione della società, dalle dinamiche ultra-individualizzanti del libero mercato e
dalla complessità difficilmente decifrabile di un mondo globalizzato che produce ogni
giorno migliaia di informazioni, molte delle quali molto simili e sostanzialmente
irrilevanti.
Il grillino militante in questo oscuro mare magnum ha un bisogno primordiale di risposte
semplici, pre-codificate. è preso dal revanscismo, dalla foga di vendetta, da un idealismo
131
Post/teca
dozzinale che non tiene in considerazione la complessità del reale.
Studi scientifici hanno dimostrato che la paura blocca la capacità dell’essere
umano di pensare e problematizzare. Bush ci ha costruito due mandati su
questa nozione fisiologica di base.
Oggi a bloccare le attività cerebrali non è più la paura del terrorismo ma
quella del futuro, mischiata con una rabbia le cui ragioni sono profonde e
spesso poco comprese da chi la prova
Tutti i movimenti politici che basano il loro successo sulle sensazioni invece che sui
ragionamenti sono sempre movimenti estremamente pericolosi
Di fronte ad un panorama di rovine e di dinamiche estremamente difficili da capire e
analizzare l’uomo della strada prova rabbia e frustrazione. Ed è qui che arriva Grillo, con il
suo format rabbia in cui il vaffanculo diventa un brand aziendale, il punto di volta
attraverso il quale eliminare alcune cose effettivamente insostenibili ( la corruzione della
classe politica su tutte ) e altre preziosissime come, ad esempio, la democrazia.
Quando Grillo dice di eliminare le province, allargare i comuni, diminuire i parlamentari
quello che sta proponendo di fare è
TOGLIERE IL POTERE AI CITTADINI
Più voti servono per eleggere un rappresentante, meno conterà il vostro. È aritmetica base.
Questo dato di fatto ovvio passa in secondo piano di fronte alla folla con i forconi di fronte
al palazzo, ma in ultima analisi, questa folla si sta scavando la fossa da sola.
Allo stesso modo l’idea di togliere i finanziamenti pubblici ai giornali a fronte degli abusi
che sono stati perpetrati ha una sola logica conseguenza:
LA RIDUZIONE DEL PLURALISMO
Che un’opinione pubblica variegata sia un bene sociale in cui lo Stato debba investire per
rimanere sano, è qualcosa che Grillo non contempla.
In effetti a cosa serve il pluralismo se la verità la possiede già Casaleggio?
A scanso di equivoci: questo è un altro provvedimento di destra che punta ad eliminare le
voci scomode alle quali il mercato non concede investimenti pubblicitari.
Senza finanziamenti potresti mai trovare in edicola un giornale che parla male del
marketing o delle grandi aziende?
No.
Questa cosa ovvia è così difficile da capire?
CONCLUSIONI
Il progetto liberista dello stato minimo con Grillo arriva ad un nuova, più avanzata fase.
Dopo aver distrutto lo stato sociale ed aver privatizzato tutto il privatizzabile nel periodo
che va da Reagan e la Thatcher fino ad oggi, si tratta ora di distruggere la rappresentanza
politica. L’ultimo baluardo di fronte allo strapotere dell’economia sulla politica.
Un’ottima strategia per riuscire nello scopo è questo fascismo di nuova concezione che
mischia elementi classici del totalitarismo (il leader carismatico e la sua infallibilità, il
primato del partito) con elementi di modernità tecnica (l’uso di internet) ma quello che ne
esce è un mix che di progressista non ha nulla.
132
Post/teca
Nella ridondanza dell’infinito spazio di internet si disperde il valore della singola persona
che confluisce all’interno del progetto totalitario e il processo di deliberazione democratico
viene sostituito dal plebiscito a favore di un leader assolutamente autoreferenziale.
Più brevemente: la democrazia sparisce e rimane solo il suo simulacro multimediale
p.s. Ringrazio Filippo Orlando per le immagini e Pierpaolo Buzza per la citazione di
Gramsci e vi lascio con un’altro video di Casaleggio, giusto per non farvi dormire questa
notte
fonte: http://www.quitthedoner.com/?p=1268&cpage=1
----------------------20130222
sillogismo ha rebloggato mdma-mao
“E poi ho controllato sotto al sogno nel cassetto
e c’era scritto IKEA.”
—
(via thesenseofgoodthings)
Fonte: thesenseofgoodthings
------------sillogismo ha rebloggato rollotommasi
“Ho due grossi difetti: non so contare.”
—
(via spegniriaccendi)
geniale.
(via rollotommasi)
Fonte: porcomondo
-------------sillogismo ha rebloggato aryra
Il problema delle menti chiuse è che hanno sempre la bocca
aperta.
Fonte: lucecapovolta
---------sillogismo ha rebloggato unoetrino
“L’aria malinconica non è di buon gusto; ci vuole l’aria annoiata. Se siete malinconico, è segno
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Post/teca
che qualcosa vi manca, che non siete riuscito in qualche cosa. È un segno manifesto
d’inferiorità. Invece se siete annoiato, è inferiore ciò che ha cercato vanamente di piacervi.”
—
Stendhal - Il rosso e il nero (via doppisensi)
Che libro esoso. (via unoetrino)
Fonte: ruedescascades
------------------biancolatte
[..] il tèismo è l’arte di celare la bellezza così che la si possa scoprire, di accennare quello che non
osiamo rivelare apertamente. È il nobile segreto di saper ridere di se stessi, pacatamente ma senza
reticenze, ed è quindi lo humour stesso - il sorriso della filosofia.
Kakuzo Okakura
---------------spaam ha rebloggato scrokkalanotizia
“Kurt Vonnegut una volta scrisse che “il vero terrore è svegliarsi una mattina e scoprire che i
tuoi compagni di liceo stanno governando il Paese” e il programma politico dei 5 Stelle è
esattamente questo. Io non voglio gente che mi assomigli o con cui prendere una birra, non mi
importa che qualcuno sia cresciuto in una casa popolare come me o che faccia le vacanze in
yacht in Sardegna come Grillo. Non mi serve la pelosa condiscendenza dell’ultra-borghesia
che ti dice che alla fine cioè, vivi meglio tu che sei vero. Voglio che la gente che mi governi sia
così più preparata e intelligente da farmi vergognare di tutte le scelte che ho compiuto nella
mia vita. Non voglio avere nulla in comune con qualcuno a cui do il mio voto. Nulla. Voglio
ammirare una persona per aver avuto il coraggio di fare cose di cui ho paura, prendere
decisioni che non mi sarebbero mai venute in mente perché sono un idiota. Voglio essere
geloso. Non voglio urlare alle politica vaffanculo, vorrei che la politica avesse le palle di
mandare a fanculo me.”
—
Anche Beppe può sbagliare | VICE Italia
Bucknasty incontra i grillini e ha un momento di
splendore come ai vecchi tempi
(via weofp)
wow, davvero, sembra il Bucknasty di una volta.
(via emmanuelnegro)
Fonte: vice.com
-------------------ilfascinodelvago
“La primavera è uno stato mentale.
Sono pensieri che giocano su prati di un verde che fa male agli occhi, sono sorrisi che
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Post/teca
sboccciano da semi di parole, sono aliti caldi che rendono la temperatura gradevole.”
—
Sono stupito di come le parole che dico
abbiano un senso.
-----------------falcemartello
...
Espropriamo le catenine da battesimo, dopo averle vendute a Oro Shop, e con il ricavato
stucchiamo le pareti dove c’era il chiodino per i crocefissi.
----------------
Pimp my Cathedra
22 febbraio 2013
di leonardo tondelli
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Post/teca
È anche impossibile da fotografare, non ci sta tutta e comunque non rende l'idea.
22 febbraio – Cattedra di San Pietro, panca medievale incastonata in un capolavoro
visionario.
Un Papa può decidere che non è più in grado di fare il Papa? Certo che può (lo prevede anche il
Diritto Canonico): è infallibile. Ma un Papa che dice di non essere più infallibile, ammette di potersi
sbagliare; e quindi potrebbe anche sbagliare quando dice di non essere più in grado di essere il
Papa, cioè infallibile… ma può essere infallibile anche quando annuncia di non poter esserlo più?
Se non è più infallibile, forse si sbaglia anche quando dice che non è più infallibile… non se ne
esce. Ma è solo un passatempo per sofisti. E poi: chi l’ha detto che il Papa è infallibile?
Siccome non si registrano rivelazioni divine al riguardo, non può che essere stato un altro Papa, per
definizione (chiunque altro lo avesse detto poteva pur sempre sbagliarsi). Invece Pio IX preferì
parlarne al Concilio Vaticano Primo nel 1870 – lui non è che nutrisse molti dubbi in riguardo, però
preferiva che nessuno ne avesse. Il giorno prima del voto una sessantina di vescovi lasciò Roma in
silenziosa protesta. Ci fu anche un piccolo scisma con alcune comunità sparse tra Svizzera
Germania e Paesi Bassi – i “vecchi cattolici”. Di lì a poco la Prussia dichiarò la guerra alla Francia e
il concilio fu sospeso; dalla guerra dipendeva anche il destino di quel che restava dello Stato della
Chiesa, di cui Napoleone III era il migliore alleato. Infallibile in materia di fede, Pio IX
evidentemente non lo era quando si trattava di scegliere le alleanze, perché la guerra fu subito un
disastro, Napoleone scappò, Parigi issò la bandiera rossa, e il 20 settembre a Roma arrivarono i
bersaglieri italiani – si sa che gli italiani hanno una vocazione per attaccare chi ha già perso contro
qualcun altro. Il concilio rimase sospeso a data indeterminata: solo nel 1962, quando Papa Giovanni
(VOTA BERSANI) volle aprirne un altro, ci si ricordò che era rimasto aperto tutto il tempo, come
un’imposta in solaio, e lo si chiuse ufficialmente. Insomma, il Papa ha governato la Chiesa e il suo
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Post/teca
Stato per un millennio e mezzo senza sostenersi infallibile; appena ci ha provato si è trovato i
piemontesi in Vaticano, forse questo potrebbe significare qualcosa, forse.
Mi fa sempre venire in mente l'Avvocato del Diavolo, il film, lo so, non c'entra niente.
Comunque nemmeno Pio IX sosteneva di essere infallibile in qualsiasi cosa dicesse: il Papa lo è
solo quando parla ex cathedra, dall’alto della sua autorità suprema di vicario di Cristo, a proposito
dei dogmi della fede. Il problema è che il Papa di fede ne parla continuamente, ci mancherebbe, è il
suo mestiere: è infallibile ogni volta? Secondo alcuni no, l’infallibilità “tecnica” sarebbe stata usata
una volta sola, da Pio XII nel 1950 per proclamare l’Assunzione di Maria. Ma ci sono delle
ambiguità, dei non detti, che permettono ad alcuni di considerare infallibile il Papa ogni volta che
dice due cose dal balcone. L’ambiguità non è accidentale, bensì necessaria, tiene aperto alla Chiesa
e ai suoi pastori lo spazio per eventuali retro-front: metti che a un certo punto si accorgono che si
sono sbagliati ad es., sul Limbo: “ah sì, ma quelle erano soltanto ipotesi, mica parlavamo ex
cathedra”. Per poter essere davvero infallibile, il Papa ha bisogno che la sua cattedra si veda un po’
sì e un po’ no, come certi insegnanti che un momento scherzano e il momento dopo ti stanno
facendo il quinto grado – ma forse stanno scherzando ancora – no aspetta mi ha messo un quattro
sul registro maledettobastardofigliodi – i Papi come tutti si riservano il diritto di cambiare idea, solo
gli imbecilli non lo fanno mai, e quindi alla fine non si sa mai esattamente se stanno parlando ex
cathedra o no. La cathedra del Papa non è come il martelletto del giudice, che trasforma le sue
parole in sentenza dotata di valore reale, effettivo: la cathedra è come sospesa nell’aria, un po’ c’è,
un po’ no, e la cosa incredibile è che molti secoli prima Gian Lorenzo Bernini già lo aveva capito .
Siete liberi di non credere in Dio, ma in Bernini ci dovete credere: è vissuto, ha camminato su
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Post/teca
questa nostra terra, se lui c’è stato qualunque cosa è possibile. Nuvole di pietra, orgasmi di marmo,
raggi di sole di bronzo che si illuminano duecento anni prima che a qualcuno venga in mente di
accendere una lampadina (il trucco sono le vetrate nascoste); ma d’altro canto Bernini girava già dei
film straordinari molto prima dei fratelli Lumière, e in fondo alla Basilica di San Pietro c’è uno dei
suoi migliori effetti speciali. Magari un giorno sul serio il cattolicesimo passerà di moda, non ne
parlerà più nessuno, sic transit gloria coeli. Questo non significa che la Basilica smetterà di essere
un luogo sacro, visto che in essa si è manifestato in tutta la sua gloria, la sua abilità, la sua
versatilità e soprattutto la sua incomparabile tamarraggine, Gian Lorenzo Bernini. Ma in questo
periodo la gente non ci fa caso, la gente preferisce inginocchiarsi o, al limite, guardare la Pietà di
Michelangelo che è un po’ l’idea che passa dell’arte classica: una cosa dolce, che a guardarla ti
intenerisci, la mamma che si espande per accogliersi un trentatreenne in grembo, e poi guarda
com’è bravo coi muscoli, coi tendini, bravo bravo bravo – poi tornano a casa e si mettono vestiti
Bernini, e vanno a vedere film Bernini, ma non è arte, è solo la vita in cui vivono, immaginata
progettata arredata e illuminata da Bernini e dai suoi seguaci.
Una riproduzione della cattedra originale: dai temi delle formelle si deduce che è quella donata da
Carlo il Calvo.
La Cattedra di San Pietro di Bernini passa quasi inosservata, eppure è immensa ed è in primo piano;
ma c’è il Baldacchino davanti e poi sembra parte dell’arredo, la gente fa una certa differenza tra
“arredo” e “scultura”. Bernini no, Bernini era totale: scolpiva, arredava, montava i carri delle
processioni, le quinte degli spettacoli, un sacco di roba sua non ci è arrivata perché non era
progettata per durare. Bernini aveva già sessant’anni quando Alessandro VII gli disse, senti,
abbiamo di nuovo bisogno di te a San Pietro, in quell’officina che gli aveva già dato tanta gloria e
tanti dispiaceri (gli avevano buttato giù un campanile, per invidia o perché rischiava di venir giù da
solo). Per quanto già traboccante di decorazioni e opere importanti (tra cui il suo San Longino), la
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Post/teca
Basilica continuava a sembrare troppo vuota, e probabilmente in tutto quello spazio, sotto tutto quel
Baldacchino, nessuna cattedra sembrava abbastanza monumentale. Quella originale, poi, quella su
cui in teoria avrebbero dovuto sedersi i facenti-funzioni-di-Cristo da Pietro in giù, era veramente
poca cosa, una panca medievale appena un po’ istoriata, e prima o poi qualche occhio attento si
sarebbe accorto che non era del primo secolo dopo Cristo (più probabilmente è del nono).
“Non mi posso più sedere su una cosa del genere, che figura ci faccio coi patriarchi”, disse dunque
Alessandro VII. “Non potresti pimpare la mia cathedra?”
Potrei sbagliarmi, eh? Ma non ci ho mai visto seduto nessuno, secondo me non c'è neanche una
scala dietro.
Forse non furono le sue esatte parole, ma in sostanza andò così. Nessuno poteva pimpare una
cattedra meglio della Bernini Factory; se non lui chi? Borromini? bravissimo, per carità ma
diciamocelo, soprattutto un architetto, sempre lì a ragionare con compassi e squadre. Bernini invece
è uno stilista, Bernini è il panneggio, è tutto sbuffi e increspature, Bernini è l’effimero ma scolpito
nella roccia, Bernini è l’eccesso. È il vero grande artista italiano, ma noi italiani fingiamo di non
conoscerlo perché, a differenza di Michelangelo o Caravaggio, Bernini ci scorre nelle vene, Bernini
è Versace – anche la Medusa è roba sua. Prese la cattedra e la montò su un tripudio di nuvole, di
dottori della Chiesa, di angeli vorticanti intorno a un punto luce abbagliante, in cui nei giorni di sole
a malapena si intravede la colomba stilizzata nelle vetrate. In fondo nessuno la guarda con
attenzione perché come il sole è inguardabile, è impossibile, è una statua-che-abbaglia. Sai che da
qualche parte lì in mezzo c’è ancora la panca medioevale, ma preferisci distogliere lo sguardo, al
massimo noti il Trono che sta in cima: finalmente un vero Trono, salvo che nessun Papa credo ci sia
fisicamente seduto sopra. Ma quanto era un genio Gian Lorenzo Bernini. Crollerà il cielo, verranno
giù i santi infiammandosi come meteore, dovremo toglierli dal calendario, e il 22 febbraio non ci
resterà che festeggiare la Cattedra di Gian Lorenzo Bernini.
fonte: http://www.ilpost.it/leonardotondelli/2013/02/22/pimp-my-cathedra/?
utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+ilpost+%28Il+Post+-+HP
%29
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Post/teca
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Io non vi voto
21FEB2013
Non voterò Grillo perché sono democratica. Non merita il mio voto il partito di un uomo che ne
possiede il simbolo e il nome e ha dunque il potere di imporre agli altri il suo arbitrio, altrimenti si
porta via la palla e tanti saluti alla partecipazione: ne ho già visti altri. Non posso votare il partito di
uno che mentre m'indignavo contro il razzismo della legge Bossi Fini dava ragione alla Lega
dicendo che ai rom bisognava chiudere le porte con un "vaffanculo". Non posso votare il partito di
uno che da un palco chiama "busone" un avversario omosessuale e i suoi emuli in Sardegna si
sentono autorizzati a paragonare le unioni omoaffettive ai rapporti con le bestie. Non posso votare
uno che ha chiamato "vecchia puttana" il premio Nobel Montalcini: sono stanca di chi cerca di
delegittimare le donne, umiliandole nella dignità. Non posso votare uno che va in giro a dire che
l'Aids non esiste, non proprio io che nella giornata contro l'AIDS ero a Sassari con padre Morittu e
gli ospiti della sua comunità di accoglienza per i malati sieropositivi. Non voterò uno che rifiuta di
andare a rispondere alle domande dei giornalisti e preferisce il monologo di piazza, così comodo,
così privo di contraddittorio. A molti sembra bastare lo schifo degli altri per chiudere gli occhi sul
suo, ma per me anche la sua politica è morta.
Non voterò il PdL perché se non ci fosse stata Fukushima oggi la Sardegna avrebbe le centrali
nucleari e dovrebbe anche dire grazie. Non lo voterò perché ha illuso con ciniche promesse i
lavoratori del Sulcis terrorizzati dalla disoccupazione e poi, con la complicità dei consiglieri locali
del suo partito, se li è dimenticati. Non lo voterò perché non ha avuto il minimo scrupolo a cercare
di escludere la Sardegna dal master plan delle rotte marittime europee, ledendo la nostra libertà di
movimento e di impresa. Non lo voterò perché mentre in consiglio regionale si discuteva del caso
Quirra, il sottosegretario forzitaliota Giuseppe Cossiga faceva sapere ai nostri consiglieri che
l'occupazione militare della Sardegna non è a Cagliari che la si decide. Non lo voterò perché ha
regalato alla mia isola il governo peggiore degli ultimi 50 anni, e giuro che non era facile: dal caro
trasporti al definanziamento del Master&Back, dal tentativo di smantellare la legge salvacoste alle
nomine indegne di amici e parenti, la vergogna dei baronetti locali rispecchia in maniera precisa la
vergogna del Pdl italiano. E tutto questo per tacere del suo capo. La loro politica è morta.
Non voterò Monti perché sono allergica alle destre reazionarie, tanto quelle retrive e illiberali
(leggi PdL e UDC) che quelle tecnocratiche eterodirette dai banchieri; in un anno di operato del
governo Monti non si conta un solo provvedimento a favore delle fasce deboli. Dal punto di vista
del lavoro e dello stato sociale la dirigenza montiana si è mossa sulla stessa falsariga del governo
Berlusconi, che non a caso gli ha votato tutti i provvedimenti. Il risanamento dei conti, anziché
orientarsi verso una tassa patrimoniale sui ricchi, ha preferito aumentare quelle sulla casa dei
poveri. La riforma Fornero sta spingendo tutti i contratti a progetto non verso la regolarizzazione,
ma verso la giungla delle partite IVA. Il risanamento dei conti mi interessa molto meno del mondo
in cui viene realizzato: per ora lo si è fatto sulla pelle dei poveri e dei deboli. Anche sul fronte dei
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Post/teca
diritti civili c'è il buio totale: Mario Monti ha già espresso la sua contrarietà ai matrimoni tra
persone omosessuali e io sono stanca di vedere la vita dei cittadini gay trattata come un aspetto
irrilevante della vita civile; ma come potrebbe essere diversamente con un premier che si allea con
Casini, Fini e Montezemolo? La loro politica è morta.
Non voterò il PD perché ho buona memoria: quando ha avuto l'occasione per varare una pur
blandissima legge per regolarizzare le unioni di fatto, quel partito si è spaventato della piazza e ha
permesso che venissimo riportati al medioevo dei diritti civili. Il giorno in cui il delinquenziale
scudo fiscale di Tremonti passava per 20 voti di differenza, il PD aveva 22 parlamentari assenti o in
missione, alcuni dei quali si stanno ricandidando adesso. In compenso per votare il rifinanziamento
delle missioni militari all'estero c'erano tutti, parlamentari sardi compresi. Il PD è un partito dove le
politiche sul lavoro sono sempre state timide e più preoccupate dei costi agli imprenditori che non
dei diritti di chi lavora; è un partito dove i traffici con le banche sono identici a quelli dei partiti di
cui si pretenderebbe antagonista; è un partito che fa le primarie a spese dei suoi elettori e poi fa
rientrare i trombati dalla porta di servizio. Soprattutto è il partito che ha rimandato al mittente le
giuste richieste sarde sulla vertenza entrate, facendole diventare un nulla di fatto. Potrei continuare,
ma credo sia sufficiente per dire che non voterò nè il PD nè chi lo sostiene per calcolo elettorale,
compreso Vendola: la loro politica è morta.
Non voterò Ingroia perchè non mi piacciono le forche, non mi piace l'ostentazione di eredità
morali vere o presunte e non mi piace vedere il nome di una persona sola su un simbolo elettorale:
di tribuni del popolo ne ho abbastanza, da qualunque parte vengano. Ma soprattutto non lo voterò
perché, per quanto non metta in dubbio la sua migliore qualità morale rispetto agli avversari, resta
un politico con una visione della Sardegna accessoria ai problemi italiani: non è forse sua la
proposta di riaprire il carcere dell'Asinara come risposta al sovraffollamento dei detenuti? Che
quell'angolo di paradiso sia da anni tornato in mano ai sardi evidentemente gli appare del tutto privo
di rilevanza. Capisco che l'Italia abbia bisogno di altre carceri, ma ai sardi servono invece scuole e
spazi civici dove costruire la propria cittadinanza. Una politica che ragiona in termini di
occupazione del territorio a fini punitivi per me è morta.
Non voterò nessuno dei partiti indipendentisti sardi che si presenti alle elezioni italiane, perchè
la loro presenza alle politiche italiane mi appare una contraddizione in termini: la storia degli ultimi
sessant'anni ha dimostrato più che esaustivamente che il miglioramente del nostro destino,
qualunque cosa ne pensi il figlio di Cossiga, non può essere deciso dall'altra parte del mare.
Cosa resta, dunque? Resta la necessità di dare un segno forte di dissenso e motivarlo perchè non sia
qualunquista. Per questo sulla scheda apporrò un bollino nero, uno di quelli che da settimane
sulle piazze sarde vengono distribuiti gratuitamente a migliaia, senza simboli di partito sopra in
modo da poter essere usati da chiunque ne sposi lo spirito. L'annullamento consapevole del voto per
me significa che questa politica non mi rappresenta in nessuna delle sue facce. Significa che
ciascuno dei suoi simboli elettorali è un buco nero dove le speranze e le esigenze della mia isola
verranno ancora una volta divorate, strumentalizzate e nel caso migliore dimenticate. Non è un
segno di resa né la scheda bianca di chi non sa che fare: è un voto a tutti gli effetti e dice "Non più.
Non voi. Non qui."
Quando dovrò decidere del governo della mia regione, allora sceglierò.
Ora non mi piego alla logica del meno peggio.
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Post/teca
fonte: http://www.michelamurgia.com/sardegna/politica/789-siete-un-buco-nero
-------------------20130225
Se siete seri, siete bloccati. L'umorismo è la via più rapida per invertire
questo processo. Se potete ridere di una cosa, potete anche cambiarla.
Richard Bandler
--------------
“Vi racconto l’urbanizzazione ‘romantica’ di
Berlino”
di Valerio Bassan
“Berlino è una città-arcipelago, composta da tante isole diverse che si uniscono in un modello di
urbanizzazione unico al mondo”. Così la pensa Paolo Conrad-Bercah, architetto italiano che alla
capitale tedesca ha dedicato un’ampia sezione del suo ultimo e-book “Archipelago Town-Lines,
Notes for a Bare urbanism“, pubblicato nel 2013 e disponibile per l’acquisto sull’App Store.
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Post/teca
Conrad-Bercah, titolare dello studio di architettura milanese C-B A, si è laureato al Politecnico di
Torino, prima di approfondire gli studi alla Design School di Harvard, con cui collabora tutt’ora. In
oltre vent’anni di carriera, ha ottenuto diversi importanti riconoscimenti a livello internazionale. Lo
abbiamo intervistato in esclusiva, per parlare del suo lavoro e della particolarissima storia urbana
di Berlino.
Conrad-Bercah, ci spiega il concetto di “archipelago-town”?
Archipelago-town è un termine che ho coniato. Tutti utilizzano la parola “città” senza realizzare che
ha perso il suo significato originale, dal momento che la situazione attuale ha fatto svanire i confini
tra ciò che è urbano e ciò che è rurale. Questa confusione semantica, secondo me, è la ragione per
cui da lungo tempo non c’è una teoria convincente in grado di spiegare il problema
dell’urbanizzazione. La parola “town”, d’altra parte, è interessante e racchiude un potenziale
ancora inespresso. Nel mio e-book il concetto di “archipelago-town” si riferisce soprattutto
all’occupazione criminale del suolo che sta avvenendo nella maggior parte del mondo. Un
fenomeno spaventoso che, in una singola frase, potrebbe essere descritto come “urban meltdown”
– un altro termine di mia ideazione.
Il libro definisce la storia urbana di Berlino come quella di “una tragedia greca trasformatasi in
una commedia dal finale allegro”. Perché?
L’urbanità di Berlino è, a mio giudizio, un esperimento semantico per alcune delle questioni più
misteriose dei nostri tempi. Per mezzo secolo Berlino è stata il simbolo della divisione del mondo e
di un’urbanità annientata, la città dove Est e Ovest si sono scontrati. Ma oggi, Berlino appare ai più
come uno dei “corpi urbani” più meravigliosi, ed è diventata una destinazione ambita.
Infatti, la città offre un modello urbano unico, costituito da un mix interessante: la pianificazione
infrastrutturale strategica tedesca che si fonde con un genio romantico collettivo ed individuale
che mostra poco interesse nella “globalizzazione” in sé e per sé. La maggior parte delle persone
identificano ancora Berlino con la divisione mondiale, ma quando vivi lì, non percepisci questa
sensazione e cominci ad apprezzare il fatto che gli ambienti urbani e sociali si evolvono seguendo
un modello romantico e godibile. Proprio questo romanticismo è una qualità che molti nel mondo
sembrano aver dimenticato o abbandonato, nel momento in cui ce ne sarebbe il bisogno maggiore.
Se si considera che questa godibilità e piacevolezza della vita prende forma su un suolo che ha
ospitato alcuni dei peggiori crimini che l’umanità abbia mai visto in cinquant’anni, allora ecco
perché si può dire che la storia urbana di Berlino sia una “tragedia greca trasformatasi in una
commedia dal finale allegro”.
Che cos’è così particolare del modello urbano di Berlino?
Berlino è stata, in passato, tante città diverse. All’inizio era una Doppelstadt, formata da due centri
urbani: Berlino e Kölln, la prima per i commercianti e la seconda per i pescatori. Successivamente è
diventata una città-mercato, una città residenziale, una capitale, e poi, nel diciannovesimo secolo,
una città industriale. Alla fine si è trasformata in una metropoli, prima di essere divisa in due da un
muro anziché da un fiume, così com’era all’inizio della sua storia.
Nel diciassettesimo secolo, “Berlino” era già una confederazione di città, formata da sei centri
urbani distinti: Berlino (commerciale), Cölln (industriale), Friedrichwerder (amministrativa),
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Post/teca
Dorotheenstad (residenziale), Friedrichstadt (militare), e i sobborghi dell’est (fabbriche). A
differenza di molti posti attorno al mondo, l’urbanità di Berlino è costruita su una centralità plurale.
La città è cresciuta come un arcipelago terrestre e come tale viene governata.
Questo modello amministrativo è ancora poco apprezzato perché provocatorio: un unico
paradigma che trascenda sia il pensiero urbano modernista, sia quello post-modernista. Il
paradigma romantico di Berlino, rendendo nota una nozione di urbanità formata da parti in
contrasto tra loro, ritaglia ampi spazi assai godibili, una qualità che manca nella maggior parte degli
altri conglomerati urbani contemporanei. Berlino è una collezione di “isole”, ognuna delle quali di
diversa natura.
Una parte significativa del libro esplora la storia del Tempelhofer Feld, il vecchio aeroporto
diventato parco nel 2008. Come giudichi questo esperimento e cosa prevedi per il futuro di
Tempelhof?
Tempelhof è un’espressione di libertà ed è sulla strada giusta per diventare uno degli spazi aperti
più godibili di tutti i tempi. Non dubito che la sua riapertura verrà considerata uno dei momenti
chiave nella storia della costruzione della città. Tempelhof, in altre parole, è l’esempio perfetto di
quello che io suggerisco vada fatto, cioè disegnare qualcosa di perfettamente equilibrato tra aree
non-costruite ma compatibili e forze complementari. Il vasto “mare verde” tra le “isole” è
importante tanto quanto le “isole” stesse.
fonte: http://www.ilmitte.com/berlino-conrad-bercah-archipelago-town/
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Contrappunti su Punto Informatico di domani.
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Parte negli Stati Uniti la sperimentazione degli occhiali di Google. Ed è un progetto molto
interessante, pur se leggermente intossicato dal contest online che permetterà di scegliere a chi
affidare in prova (alla modica cifra di 1500 dollari + tasse) il prodotto del momento.
Qualsiasi sia il vostro parere sui contest online anche solo l’idea di cercare di capire quali potranno
essere gli utilizzi preferiti dagli utenti dei nuovi schermi indossabili di Mountain View, allargandone
la sperimentazione in una fase molto precoce dello sviluppo, è una idea intelligente ed umile che
merita rispetto.
Gli occhiali di Google uniscono in un solo progetto due temi legati all’innovazione molto differenti:
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Post/teca
un tema tecnologico puro che è attualmente non troppo oltre il livello iniziale e che attiene a
funzionalità e utilizzi del device ed un tema sociologico che invece prova ad interpretare in maniera
inedita i rapporti fra umani e macchine.
Mentre l’aspetto tecnologico si occupa di nuovi modi per far cose che già ora facciamo,
l’esplorazione sulle tecnologie indossabili incide con molta decisione sul nostro rapporto fisico con
l’ambiente intorno. E francamente oggi sapere se i Google Glass saranno wifi o bluetooth, se
avranno batterie più o meno potenti o registreranno video ad alta o bassa risoluzione è assai meno
interessanti del chiedersi se simili ed altre protesi cambieranno (e come) il nostro modo di
camminare per strada, spostarci, incontrare le persone alla fermata dell’autobus.
A questo proposito non è casuale che Isabelle Olsson che insieme a Steve Lee si occupa del
progetto spieghi a Johsua Topolski di The Verge che alcune idee sulle lenti indossabili le sono
venute osservando persone in fila a testa bassa impegnate a digitare sui piccoli schermi dei loro
smartphone alla fermata del bus. Del resto chiunque di voi abbia camminato recentemente nelle
strade del centro di una città tecnologicamente sviluppata sa perfettamente che pochissimi ormai
prestano la necessaria attenzione alla linea dell’orizzonte ed allo scenario intorno, impegnanti
come sono ad armeggiare con i propri dispositivi portatili (tanto che io spesso mi sono chiesto
quanto manchi prima che la segnaletica delle grandi metropoli inizi ad essere indicata
direttamente sul marciapiede in modo da essere meglio identificabile dai passati a capo chino).
Il tema sociologico degli occhiali di Google ha a che fare con una vecchia formidabile frase
contenuta in una pubblicità IBM di molti anni fa ed è quello, ansioso e risentito, dell’attesa delle
macchine volanti. Ci avevate promesso le macchine volanti! Dove sono le macchine volanti? A
differenza del nuovo tablet, del telefono sottilissimo, del computer da scrivania di grande impatto
estetico, tutti pezzi di tecnologia che si evolvono in maniera lineare, i computer indossabili, nel
momento in cui riescano ad uscire dalla dimensione “macchine volanti” tracciano una linea netta
fra il prima ed il dopo, alterano con maggior decisione le nostre prerogative sociali, cambiano in
definitiva le nostre vite molto più del passaggio dal wi-fi G al wi-fi N.
E se allo stato non siamo ancora troppo distanti dal rimbrotto sulle macchine volanti che non
arrivano, va comunque sottolineato che il progetto di Google insieme a pochi altri, esplora per la
prima volta concretamente parti di innovazione tecnologica che sono fino ad oggi rimaste chiuse
nei laboratori o peggio dentro i libri di fantascienza.
Come sempre non è detto che si tratti per forza solo di un miglioramento. Per esempio il fatto che
gran parte dei comandi dei Google Glass siano, allo stato, comandi vocali, fa prevedere nuove
inedite forme di inquinamento dell’ambiente pubblico perfino più deplorevoli di quella di
incocciare in un palo mentre si scrive un SMS camminando. Nello stesso tempo le frontiere
dell’innovazione che riguardano le macchine volati (ed i computer indossabili ed i google glass)
sono le uniche per le quali valga davvero oggi la pena entusiasmarsi. E preoccuparsi e meravigliarsi.
fonte: http://www.mantellini.it/2013/02/24/anteprima-punto-informatico-342/?
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Brogli alle elezioni, ecco chi li ha inventati
Alessandro Marzo Magno
La parola è nata a Venezia, ai tempi pieni d’intrighi del Doge. Così come un’altra: “ballottaggio”
Il sistema di elezione del Doge di Venezia
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Quando diciamo “broglio” non ce ne rendiamo conto, ma stiamo parlando veneziano. Già, perché
questo termine evocato a ogni elezione, assieme a un altro che pure riguarda le urne (che però in
Italia ha a che fare solo con la nomina del sindaco), “ballottaggio”, viene dritto dritto dal sistema
elettorale adottato a Venezia per eleggere il doge e per votare le leggi. Sistema che deve aver
affascinato parecchio, se in inglese “ballot” vuol dire voto, e “ballot box” urna elettorale.
Il perché è presto detto: il Maggior consiglio veneziano, e tutti gli organi costituzionali della
Serenissima, prendevano le loro decisioni votando con le balote (palline): si introduceva in un’urna
una palla di stoffa bianca se favorevoli, nera se contrari. Si contavano le palle e si dichiarava l’esito
della votazione.
Venezia era una repubblica e la sovranità risiedeva nel Maggior consiglio, ovvero l’assemblea
del patriziato (il doge, ovvero il capo dello Stato, aveva una funzione più che altro rappresentativa
con scarsissimo potere reale). Essere nobile – ma a Venezia si diceva patrizio – corrispondeva col
far parte del suddetto Maggior consiglio che, dopo la “serrata” del 1297, non accetta più nuovi
membri se non in condizioni eccezionali (in sostanza pagando un mucchio di quattrini in occasioni
di guerre particolarmente gravose). Non esiteva nobiltà terriera, ovviamente, né i titoli propri di
coloro ai quali veniva infeudato qualcosa; i patrizi veneziani sono stati d’ufficio equiparati a conti
soltanto in epoca austriaca. Durante la Serenissima, l’unico titolo che loro spettasse era quello di
“nobil homo” e davanti al nome anteponevano un “ser”. Poteva capitare che fuori da Venezia
facessero i ganassa, come ai tempi di Lepanto, quando tra loro si chiamavano “magnifico misser”,
tanto che Gianandrea Doria (il genovese odiava – ricambiato – i veneziani) li nominava
sprezzantemente “i magnifici”.
I patrizi, che arrivano a essere anche oltre 1.500, l’1 per cento circa della popolazione, non
erano mai tutti presenti nel Maggior consiglio, perché un certo numero era in missione nelle cariche
riservate al patriziato: comandante di galea (per i più giovani), podestà e capitani (amministratori
civili e militari) delle città suddite, che nel periodo di massima espansione andavano da Candia
(l’attuale Heraklion, capoluogo dell’isola di Creta) a Crema, exclave veneziana in Lombardia.
Il patriziato aveva origini mercantili, ma dopo la serrata del 1297 parecchie famiglie decadono
e si impoveriscono tanto che i nobili poveri – detti “barnabotti” perché abitavano attorno alla zona
di San Barnaba – diventano un problema sociale. Sopravvivono ricoprendo alcune cariche
pubbliche che prevedono un introito anziché un esborso (poche, le cariche più importanti – prima
fra tutte quella di doge – costavano un mucchio di soldi a chi era chiamato a ricoprile, ma
conferivano un prestigio talmente elevato che nessuno si rifiutava) e vendendo il loro voto. Ed ecco
che torniamo al punto da cui siamo partiti.
Le assemblee del Maggior consiglio (in genere una volta alla settimana, nel pomeriggio di
domenica) si svolgevano nel silenzio assoluto. Chi aveva la parola poteva parlare, ma senza alzare
troppo la voce, i patrizi tra loro potevano al massimo bisbigliare. Gli scranni erano disposti in modo
tale da non guardare in direzione del doge e la signoria che sedevano su un rialzo lungo la parete di
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fondo (decorata dal “Paradiso” del Tintoretto), ma verso le pareti più lunghe, dove vari dipinti
celebravano le glorie della repubblica. Al momento di votare sfilavano a uno a uno, sempre nel più
rigoroso silenzio, davanti all’urna dove lasciavano cadere la pallina o bianca o nera, secondo la
scelta. Siccome la “balota” di pezza nel cadere non faceva alcun rumore, non era nemmeno
possibile individuare gli astenuti che non deponevano alcunché nell’urna. Quest’ultima (ne esistono
ancora alcuni esemplari sopravvissuti) era fatta in modo tale che per votare bisognasse introdurre
entrambe le mani fino al polso da due aperture giustapposte, così da garantire l’assoluta segretezza
del voto.
Le complicate modalità di elezione del doge, stabilte nel 1268, arrivano con pochissime
modifiche fino alla caduta della repubblica (12 maggio 1797) e, attraverso una serie di estrazioni a
sorte ed elezioni, si finiva che da 45 eletti venivano estratti a sorte 11 che eleggevano 41 grandi
elettori che a loro volta eleggevano il doge. I 41 dovevano avere almeno trent’anni e votavano con
“balote scarlatte” ovvero palle rosse con una croce gialla; perché un candidato risultasse eletto
doge, doveva ricevere almeno 35 voti. Le palle di pezza venivano estratte dall’urna da un ragazzino,
detto “ballottino ducale”.
Tutto questo sistema cervellotico e complicato doveva servire a garantire la trasparenza del
voto; in realtà, a mano a mano che passavano i secoli, si accrescevano anche i sistemi per
controllarne l’esito. Per esempio, bastava che tra i 41 venisse eletto un certo numero di candidati
amici per potersi garantire il dogado. Si poteva comprare anche l’elezione di cariche molto ambite,
come quelle di senatore (120 membri), di membro del consiglio dei Dieci (a dispetto del nome, era
composto da una trentina di persone) di procuratore di San Marco (erano in 9), seconda carica dello
Stato, e unica vitalizia, oltre a quella di doge.
La nobiltà senatoria, composta da una trentina di famiglie, queste sì tutte molto ricche, si
garantiva di ricoprire a rotazione le cariche più prestigiose, comprando i voti dei patrizi poveri. Ma
dove avveniva il mercato dei voti? Non nell’aula del Maggior consiglio – lì bisognava rimanere in
silenzio – ma nel cortile di Palazzo Ducale che aveva conservato il nome di quanto era un prato, un
orto, in veneziano “brolo”, o “brojo”, “o broglio”.
I nobiluomini quindi andavano in broglio, e quelli disposti a vendere il voto abbassavano sul
braccio la stola nera che abitualmente tenevano sulla spalla, sopra la toga nera appannaggio dei
patrizi (il nero a Venezia era colore della solennità, non del lutto, che invece era contraddistinto da
un verde rossiccio detto “pavonazzo”). Rapide trattative facevano sì che il loro suffragio andasse
all’uno o all’altro candidato. Per comprarli non si ricorreva necessariamente al denaro, ma si poteva
garantire loro l’elezione a una di quelle cariche ambite dai patrizi poveri, come rettore di una
qualche città di provincia di secondaria importanza, ma dalle casse piuttosto pingui.
Ecco quindi che gli accordi elettorali, non sempre limpidi, presi nel broglio venivano poi sanciti dal
ballottaggio nella solennità dell’aula del Maggior consiglio.
fonte: http://www.linkiesta.it/elezioni-brogli
--------------------------sillogismo ha rebloggato monerror
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Post/teca
“ Il peggiore degli inchiostri è migliore del migliore dei ricordi. ”
—
detto cinese. (via bemolle)
Fonte: bemolle
-----------------------------------20130226
sillogismo ha rebloggato zuccaquasivuota
“Oggi, quando uscite da casa, prendete a schiaffi un italiano su tre. Lui non sa perché, voi sì.”
—
(via coqbaroque)
Fonte: coqbaroque
----------------------------scrokkalanotizia ha rebloggato nives
“Il voto a Grillo è come quelli che al liceo dai che facciamo autogestione, la scuola è una
merda, potere agli studenti, decidiamo noi e poi li ritrovavi tutti in aula magna a giocare a
carte.”
—
(via vialemanidagliocchi)
Fonte: friendfeed.com
-----------hollywoodparty ha rebloggato socialistnetwork
Socialist Network: Il pagellone
socialistnetwork:
L’ultima cena? - Dei 12, 4 grillini, 4 di sinistra e 4 per l’unto: “Giuda, te lo so che sei un
venduto berlusconiano, mi meraviglia più Pietro che ha votato Grillo. Io? Il voto è segreto, lo
sa solo il mio babbino caro. Ma non ho votato Monti”
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Post/teca
Berusconi 8: Highlander - L’ultimo immortale
Ha più vite di un gatto zombie. Che un italiano su tre credesse che Ruby è la figlia di Mubarak,
non lo credevo. Lui invece sapeva benissimo che se così tanti guardano Barbara d’Urso e Maria
de Filippi, puoi raccontare qualsiasi cosa. Tanto a sette anni è grassa se riesci a fare una x con la
matita copiativa. Ha dimostrato che la vera anima del commercio è la pubblicità e questo è sempre
stato il suo lavoro. Il suo successo è la fine del Pdl, che si può chiamare Forza Italia, Viva la
gnocca, Popolo delle libertà, Casa delle libertà, Casa del popolo, Libertà di sparar cazzate, ma
senza di lui è nulla. Angelino mandato fuori alle 4 a dire “abbiamo vinto” insieme a Capezzone e
Cicchitto è l’emblema del suo strapotere personale. Si tira dentro i vari Ghedini, Bondi, Brunetta,
Gasparri e perfino La Russa. La carica di Presidente del Senato, che garantisce l’immunità,
potrebbe bastare Quando si dice che i soldi non possono comprare tutto. Tutto no, ma un terzo sì.
Bersani 4 La metafora della sconfitta
Non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è da questi particolari che si giudica un giocatore.
Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia. Ecco, ha sbagliato il rigore e non
ha avuto fantasia. La sua campagna elettorale è stata giocata in difesa, col più classico dei
catenacci all’italiana. Non un guizzo, non un elettore in più. La miglior difesa è l’attacco, il
miglior attacco è l’attacco. Non l’at-tacchino. Occhetto se la ride, Veltroni idem: la gioiosa
macchina da guerra ha fatto il suo dovere anche a questo giro: lo spauracchio comunista (ma chi?)
ha fatto ancora sì che oltre il 30% non riesca ad andare. E’ il dato storico del Pci, bisogna farci i
conti. Il suo errore più grosso? Non andare subito al voto quando è caduto Berlusconi. Si è fidato
di Napolitano, che si è fidato di Monti, che si è fidato del topolino che per due soldi mio padre
comprò. Si è nascosto dietro il mantra della “responsabilità” per fare un po’ il paraculo e scaricare
sul “tecnico” la responsabilità dei tagli che dovevano essere fatti. Così ha governato senza
governare e si è preso la colpa dei tagli che non ha di fatto deciso lui. Paraculi si nasce, non si
diventa. E come Calimero si accorge che Miralanza non smacchia, perché la pubblicità a volte può
essere ingannevole.
Grillo 8 Ora ha l’influenza
Da 0 a primo partito mangiando tutto come Pac-man, l’uomo-pacco. Riuscirà a svicolare fra i
fantasmini che ora gli daranno la caccia? Chi sono i suoi parlamentari? E’ un oggetto misterioso
ed ha sulla carta un parco buoi che gli obbedisce ciecamente. Ora però deve passare dal vaffanculo
a tutti alla proposta. E’ la politica, bellezza: facci vedere cosa sai fare, tu che sai tutto. Il deus ex
machina non può affidarsi a un autista ma deve quantomeno indicare una direzione. Viva il duce
che ci conduce contro i pali della luce. Sulle proposte ambientali e sociali, sul “Parlamento
pulito”, sulla legge elettorale, sul conflitto d’interessi, sul ripristino del reato di fgalso in bilancio,
su più trasparenza e più onestà, può trovare convergenze con il centrosinistra (nessun indagatoinquisito nelle fila degli eletti, scelti attraverso le primarie), sull’uscita dall’euro no. Ma ora non si
può più nascondere. “Ci vediamo in parlamento”, ha detto. Ecco, siamo tutti lì che aspettiamo.
Facci vedere Grillo che non sei solo un bluf, facci vedere che hai qualche idea, che il nonprogramma è attuabile.
Monti 3 Chi si loden s’imbroden
Il primo dato è evidente: l’Università privata in italia non lega nemmeno le scarpe all’Università
pubblica. Di rettore, meglio la Donatella, che almeno invece di dire “siamo soddisfatti del
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Post/teca
risultato” avrebbe detto “datemi una lametta che mi taglio le vene”. Pensava di essere decisivo, lo
è quanto una scuregia in un temporale. I suoi saggi consigli se li può cacciare in culo e tirare di
scherma con la Vezzali. Risponde ai mercati internazionali, ma in Italia a porre le domande sono
ancora i cittadini italiani. Che con i grandi grupi finanziari e le banche non sono proprio in ottimi
rapporti: prima dello spread risolviamo il problema della dsocupazione, perché col Nasdaq non si
mangia. O meglio, chi ci mangia può avere il piatto un po’ meno pieno.
Giannino 100 E allora Zurlì? Mica è un vero mago
Il suo teweet di ieri (“abbiamo vinto, grazie ai 100 milioni di italiani che ci hano votato”) riassume
la sua ascesa. Sta già preparando il prossimo Sanremo dove canterà “Sono bugiarda”, perché ora
crede di essere una donna e in verità quella canzone l’ha scritta lui per Caterina Caselli
Fini. Fini chi?
Gli italiani lo hanno mandato definitivamente a casa. Ora deve scegliere quale casa.
Probabilmente quella a Montecarlo, dove si potrà riposare insieme alla moglie che ha “scippato” a
Gaucci. Pare voglia aprire un ristorante: “Aglio e Badoglio”.
Casini 1 Mite sodomita
Entra in parlamento per il rotto della cuffia e solo perché alla fine i democristiani trovano sempre
un varco in cui infilarsi. Per ora il varco gli si è aperto fra le gambe, sul lato B. L’ha preso in culo
e si perde per strada Paola Binetti, Lorenzo Cesa, Rocco Buttiglione, Giuseppe De Mita,
Ferdinando Adornato. Dio, a quanto pare, vede e provvede.
Tabacci 6 Marx è vivo e lotta insieme a Dio
Ha praticamente gli stessi parlamentari di Casini e può quindi continuare a mantenere il sorriso
beffardo che ha sfoderato fin dal primo giorno delle primarie. Vero doroteo, ma non è un male che
sia in Parlamento.
Vendola 7 Mi posso sposare ora?
Un presidio di sinistra entra in parlamento e pianta un paletto (nel cuore a tutti i “veri sinistri” che
guardano da fuori). Ha subito iniziato a fare la corte a Grillo, perché alla fine “sulle istanze che
muovono dalla rinovellazione dell’esistenzialismo postfordista si possono creare intraprendenti
segnali di convergenze albine nelle supposizioni autoctone”. In pratica, su alcuni temi - non tanto
sui diritti civili e sull’economia quanto sull’ambiente e scuola e sanità pubblica - è d’accordo con
Grillo, visto anche che molto dell’elettorato grillino proviene dalla sinistra più radicale.
Ingroia 0,00 Non tutti i Guatemali vengono per nuocere
Ha deciso che il problema dell’Italia era il Pd. E lo conferma nelle interviste a caldo: “Ho perso
per colpa del Pd”. Certo, non per colpa del fatto che non ti ha votato nessuno e che, anche a questo
giro, la strategia di Rifondazione è stata lungimirante. Fermi un altro giro al gioco del passo
dell’oca: stare a guardare un Paese che si sfascia e non poter fare nulla dev’essere una bella
soddisfazione per chi ha definitivamente affossato la sinistra italiana e seppellito la falce e il
martello. Ha affondato anche Di Pietro, ma di questo ce ne faremo una ragione. Ogni voto è utile,
ma qualcuno è idiota.
Lega 4 Senza Maroni
E’ la prima vera vittima del celodurismo di Grilo. Il patto con Silvio - al quale il leader Marone
riporta scodinzonalndo non una ma due palline - servirà forse a puntellare l’emorragia, ma ne esce
con le ossa rotte. Tutto dipende dall’esito in Lombardia. Ma sicuramente un partito che ha in tutto
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Post/teca
una ventina di parlamentari e che già da oggi fa i conti con un alleato che non può più sopportare
lo condannano a lunghi anni di opposizione. Che la Lega, diciamocelo, è l’unica cosa che riesce a
fare.
Renzi sv Parola di scout
Piace a Silvio e pure a Monti. Tosi lo adora, Grillo lo rispetta. Il Pd lo ha trombato, ma lui è
rimasto dentro e ora aspetta il suo momento. Che è più vicino di quanto si creda. La Dc non muore
mai. La Terza repubblica potrebbe essere così giovane che ancora non è nata. Significativo il fatto
che Bersani abbia detto: “Ora facciamo scouting” (Vendola ha capito outing e se n’è rallegrato). E
venne chiamata due cuori.
-------------20130227
solodascavare ha rebloggato cosorosso
nipresa:
Restituire il Lombardo-Veneto all’Austria al momento è la cosa migliore da fare. Gli si dà anche
la provincia di Imperia, per sovrannumero.
Tanto poi gli austriaci hanno culo: ricordate quando votarono in massa un nazista e quello dopo le
elezioni si schiantò in auto dopo essere uscito da un locale gay?
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Il paradosso del segretario
27 febbraio 2013
di stefano menichini
Bersani è il leader di una coalizione obbligata ad assumere l’iniziativa per il nuovo governo, ma è
anche il segretario di un partito duramente colpito, ai suoi minimi storici.
Ieri nell’Acquario romano Pier Luigi Bersani non era solo l’impersonificazione della stanchezza e
della delusione di una gran brava persona consapevole di aver mancato un obiettivo importante. Era
anche l’incarnazione di un paradosso forse unico nella storia politica del paese.
Nello stesso tempo, infatti, Bersani è il leader di una coalizione obbligata dai risultati elettorali ad
assumere l’iniziativa per dare corpo a una maggioranza (come di solito capita ai vincitori delle
elezioni). È anche però il segretario di un partito duramente colpito: tre milioni e mezzo di voti persi
in cinque anni, il minimo storico dei consensi per il centrosinistra in termini assoluti e percentuali,
sconfitte locali inattese e amarissime.
Le due identità di Bersani si condizionano a vicenda. La proposta che porterà al Quirinale per la
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Post/teca
formazione del nuovo governo, esplicitamente aperta all’adesione di qualsiasi altro partito (e
segnatamente del M5S), vuole essere forte e innovativa nei contenuti ma sarà fatalmente debole
politicamente.
D’altra parte, l’emergenza di dare un governo al paese (non ci si è neanche resi conto emergenza
fino a che punto: basta verificare le scadenze internazionali di bilancio che l’Italia dovrà rispettare)
funziona da blocco per una discussione interna che senza questo vincolo sarebbe già iniziata, con
l’apertura della crisi del gruppo dirigente del partito.
È una posizione scomodissima per Bersani, la peggiore immaginabile. Eppure nessuno Pdl a parte
dovrebbe aver interesse a tifare per un suo fallimento.
In molte parti del Pd (e fra i simpatizzanti, come ha dimostrato anche il mini-sondaggio lanciato sul
sito di Europa, il giornale che dirigo) si coltiva la speranza non tanto segreta che il primo a non
avere tanta convenienza in un fallimento del tentativo Bersani si chiami Beppe Grillo.
Il ragionamento scivola facilmente in wishful thinking, comunque qualche base razionale ce l’ha.
Perché se anche Grillo punta alla sconfitta totale del sistema dei partiti e quindi anche del Pd, è
improbabile che speri di arrivarci in un turno elettorale sincopato, ravvicinatissimo, magari
addirittura prima dell’estate. Per far crescere la sua opposizione al modo (secondo lui) vecchio di
governare, ha comunque pur sempre bisogno che un governo ci sia. Questo ammesso e non
concesso – e, a costo di sembrare naif, io non vorrei concederlo in automatico – che Grillo non
coltivi dentro di sé anche il senso della responsabilità per la situazione nella quale si trova l’Italia, e
non valuti l’opportunità di mettere da subito l’esercito dei suoi parlamentari al lavoro dentro una
legislatura sicuramente breve, ma sperabilmente utile.
Per questo motivo Bersani (che ne ha parlato col capo dello stato, senza riceverne esplicito
incoraggiamento ma certo senza esserne scoraggiato) lancia un appello ai cittadini-eletti di M5S:
«Questo paese è anche il vostro, e dei vostri figli». Un appello condito di contenuti programmatici
sulla riforma della politica e delle istituzioni che dovrebbero suonare famigliari ai grillini. E
rafforzato da una mossa che non nasce dalla furbizia bensì dal rispetto dell’esito del voto:
l’intenzione di Bersani di proporre un grillino per la presidenza della camera dei deputati è un po’
l’atto inaugurale della Terza repubblica.
Naturalmente, si diceva, l’iniziativa sulla formazione del governo ha i suoi lati deboli.
Il rischio grave per il Pd è che Grillo si comporti come si comporterà il Pdl: consentirà a Bersani di
esporsi per poi farlo fallire, retrocedendolo a un ruolo gregario e sostanzialmente annullando
l’effetto del suo primato elettorale.
Anche per questo motivo quando Bersani afferma con un ritorno d’orgoglio l’intenzione di «tenere
la barra in mano», in realtà dice solo una mezza verità. La barra in mano, una volta di più, toccherà
di tenerla al presidente della repubblica, il quale non consentirà sicuramente a Bersani di proseguire
nel tentativo se non si dovessero creare chiaramente e in anticipo le condizioni per la nascita di una
maggioranza.
Oltre tutto, se si considera ravvicinato l’orizzonte di nuove prove elettorali (quella europea è nella
primavera 2014), si può star certi che il Pd non abbia intenzione di farsi rosolare guidando o anche
solo partecipando a un’avventura di governo fragile e perennemente sotto ricatto. Ieri mattina è
stato significativo l’intervento di Berlusconi, a stoppare le tentazioni del Pdl per un riconteggio dei
voti per la camera. A Berlusconi sta benissimo di non dover esser lui ad assumere l’iniziativa che
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Post/teca
invece tocca a Bersani. Possiamo star certi che, appena la patata dovesse rivelarsi troppo bollente,
anche il Pd la lascerà cadere: va bene il senso di responsabilità, ma di spirito di sacrificio se n’è
dimostrato abbastanza durante l’anno passato. A quel punto toccherà a un simil-Monti (un suo
attuale ministro?), per un lavoro di durata più breve di quello del professore.
Quel che rimane, e che riguarda l’altra identità di Bersani – il segretario di un partito sconfitto – è
una questione enorme che (forse) si mette tra parentesi solo perché le urgenze nazionali vengono
prima di quelle di partito.
Nel discorso di ieri l’analisi del risultato (che non era ancora stata svolta insieme all’intero gruppo
dirigente) è apparsa insufficiente. Tre milioni e mezzo di voti in meno non si spiegano solo col
disorientamento degli elettori davanti a «messaggi semplificatori» provenienti da Berlusconi e
Grillo. Questo suona identico a tante altre letture del passato, quando negli ultimi mesi s’è
raccontata invece la storia di un paese diventato ormai avvertito e maturo.
Bersani ha riconosciuto l’inadeguatezza della proposta elettorale ma qui, temiamo, c’è qualcosa di
più, e di più profondo. Sintetizziamo ora un discorso complesso che andrà sviluppato: se si punta
tutto sulla ricostituzione di un partito di massa radicato nel territorio, e poi per colpa di sondaggi
gravamente sbagliati non ci si accorge di interi pezzi di elettorato che non solo non arrivano (mentre
milioni di elettori ex berlusconiani smobilitano!) ma se ne vanno, vuol dire che era illusoria
l’impostazione di base.
Ora probabilmente sarà messo in discussione il gruppo dirigente. Purtroppo però, una volta di più, si
riaprirà l’eterno dossier dell’identità e della natura del Partito democratico.
fonte: http://www.ilpost.it/stefanomenichini/2013/02/27/il-paradosso-del-segretario/?
utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+ilpost+%28Il+Post+-+HP
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--------------------puzziker ha rebloggato onepercentaboutanything
Internazionale » Il Movimento 5 stelle ha difeso il sistema
onepercentaboutanything:
Wu Ming per Internazionale
Adesso che il Movimento 5 stelle sembra aver “fatto il botto” alle elezioni, non crediamo si possa
più rinviare una constatazione sull’assenza, sulla mancanza, che il movimento di Grillo e
Casaleggio rappresenta e amministra. L’M5s amministra la mancanza di movimenti radicali in
Italia. C’è uno spazio vuoto che l’M5S occupa… per mantenerlo vuoto.
Nonostante le apparenze e le retoriche rivoluzionarie, crediamo che negli ultimi anni il
Movimento 5 stelle sia stato un efficiente difensore dell’esistente. Una forza che ha fatto da
“tappo” e stabilizzato il sistema. È un’affermazione controintuitiva, suona assurda, se si guarda
solo all’Italia e, soprattutto, ci si ferma alla prima occhiata. Ma come? Grillo stabilizzante?
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Post/teca
Proprio lui che vuole “mandare a casa la vecchia politica”? Proprio lui che, dicono tutti, si
appresta a essere un fattore di ingovernabilità?
Noi crediamo che negli ultimi anni Grillo, nolente o volente, abbia garantito la tenuta del sistema.
Negli ultimi tre anni, mentre negli altri paesi euromediterranei e in generale in occidente si
estendevano e in alcuni casi si radicavano movimenti inequivocabilmente antiausterity e
antiliberisti, qui da noi non è successo. Ci sono sì state lotte importanti, ma sono rimaste confinate
in territori ristretti oppure sono durate poco. Tanti fuochi di paglia, ma nessuna scintilla ha
incendiato la prateria, come invece è accaduto altrove. Nienteindignados, da noi; niente #Occupy;
niente “primavere” di alcun genere; niente “Je lutte des classes” contro la riforma delle pensioni.
Non abbiamo avuto una piazza Tahrir, non abbiamo avuto una Puerta de Sol, non abbiamo avuto
una piazza Syntagma. Non abbiamo combattuto come si è combattuto – e in certi casi tuttora si
combatte – altrove. Perché?
I motivi sono diversi, ma oggi vogliamo ipotizzarne uno solo. Forse non è il principale, ma
crediamo abbia un certo rilievo.
Da noi, una grossa quota di “indignazione” è stata intercettata e organizzata da Grillo e Casaleggio
– due ricchi sessantenni provenienti dalle industrie dell’entertainment e del marketing – in un
franchise politico/aziendale con tanto di copyright e trademark, un “movimento” rigidamente
controllato e mobilitato da un vertice, che raccatta e ripropone rivendicazioni e parole d’ordine dei
movimenti sociali, ma le mescola ad apologie del capitalismo “sano” e a discorsi superficiali
incentrati sull’onestà del singolo politico/amministratore, in un programma confusionista dove
coesistono proposte liberiste e antiliberiste, centraliste e federaliste, libertarie e forcaiole. Un
programma passepartout e “dove prendo prendo”, tipico di un movimento diversivo.
Fateci caso: l’M5s separa il mondo tra un “noi” e un “loro” in modo completamente diverso da
quello dei movimenti di cui sopra.
Quando #Occupy ha proposto la separazione tra 1 e 99 per cento della società, si riferiva alla
distribuzione della ricchezza, andando dritta al punto della disuguaglianza: l’1 per cento sono i
multimilionari. Se lo avesse conosciuto, #Occupy ci avrebbe messo anche Grillo. In Italia, Grillo
fa parte dell’1 per cento.
Quando il movimento spagnolo riprende il grido dei cacerolazos argentini “Que se vayan todos!”,
non si sta riferendo solo alla “casta”, e non sta implicitamente aggiungendo “Andiamo noi al posto
loro”.
Sta rivendicando l’autorganizzazione autogestione sociale: proviamo a fare il più possibile senza
di loro, inventiamo nuove forme, nei quartieri, sui posti di lavoro, nelle università. E non sono le
fesserie tecnofeticistiche grilline, le montagne di retorica che danno alla luce piccoli roditori tipo
le “parlamentarie”: sono pratiche radicali, mettersi insieme per difendere le comunità di esclusi,
impedire fisicamente sfratti e pignoramenti eccetera.
Tra quelli che “se ne devono andare”, gli spagnoli includerebbero anche Grillo e Casaleggio
(inconcepibile un movimento comandato da un milionario e da un’azienda di pubblicità!), e anche
quel Pizzarotti che a Parma da mesi gestisce l’austerity e si rimangia le roboanti promesse
elettorali una dopo l’altra.
Ora che il grillismo entra in parlamento, votato come extrema ratio da milioni di persone che
giustamente hanno trovato disgustose o comunque irricevibili le altre offerte politiche, termina
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Post/teca
una fase e ne comincia un’altra. L’unico modo per saper leggere la fase che inizia, è comprendere
quale sia stato il ruolo di Grillo e Casaleggio nella fase che termina. Per molti, si sono comportati
da incendiari. Per noi, hanno avuto la funzione di pompieri.
Può un movimento nato come diversivo diventare un movimento radicale che punta a questioni
cruciali e dirimenti e divide il “noi” dal “loro” lungo le giuste linee di frattura?
Perché accada, deve prima accadere altro. Deve verificarsi un Evento che introduca una
discontinuità, una spaccatura (o più spaccature) dentro quel movimento. In parole povere: il
grillismo dovrebbe sfuggire alla “cattura” di Grillo. Finora non è successo, ed è difficile che
succeda ora. Ma non impossibile. Noi come sempre, “tifiamo rivolta”. Anche dentro il Movimento
5 stelle.
(Questo articolo di Wu Ming, collettivo di scrittori italiani, è stato pubblicato per la prima volta il
25 febbraio 2013 nel live blog di Internazionale sulle elezioni politiche).
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Guido Gentili
27/02/2013
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di Massimo Zamarion
Il giornale della Confindustria fu tra i grandi sponsor dell’operazione Monti. Ricorderete come
rompeva i marroni col «fare presto!». Il suo era un disegno profondo e lungimirante: liquidare il
berlusconismo, scassare il bipolarismo, succhiare il meglio, a sinistra e a destra, di un parlamento
delegittimato e impaurito, e fare del centro illuminato ed europeo il dominus della politica italiana.
Dopo qualche mese fu chiaro che la grande strategia scricchiolava paurosamente. Si ripiegò allora
sull’idea di un centro-sinistra moderno, guidato da Monti, ma con la truppa fornita dal Pd. Idea
bellissima che fece puntualmente naufragio dopo molto meno di qualche mese. Ci si acconciò
allora, lì ai piani alti del giornale, alla prospettiva di un più modesto ma nobilissimo obbiettivo: un
sinistra-centro guidato da quel brav’uomo di Bersani che avesse in Monti un prezioso collaboratore
e un garante nei confronti del severo consesso europeo. Alla vigilia delle elezioni, quando era ormai
chiaro che il centro montiano avrebbe fatto la stessa fine gloriosa del centro martinazzoliano di
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Post/teca
vent’anni fa, l’unica speranza era posta in una franca vittoria del Pd di Bersani, misteriosamente
assurto a paladino dell’europeismo responsabile. Sensatissima ipotesi che il giorno dopo la realtà
avrebbe spietatamente smentito. Ed ora l’Italia è sotto il tiro dei mercati. In attesa che la situazione
politica trovi un auspicale sbocco, il nostro formidabile Sole 24 Ore è del parere che bisogna
muoversi subito e bene. E attraverso Guido Gentili ha fatto un video appello a due possibili
protagonisti di questa azione preventiva: Mario Draghi, presidente della Bce, e …Grillo. Sì, Grillo.
Il Beppe. Lui in persona. Guido Gentili ha ricordato che Beppe una settimana fa, in un’intervista,
avrebbe detto di non essere un anti-europeista, e che il problema vero non è l’euro ma la montagna
del debito pubblico. Ecco, ha detto il giornalista, una pubblica dichiarazione di Grillo che vada in
questo senso sarebbe una grande prova di responsabilità. Forse mi sbaglio – io sono berlusconiano –
ma ho avuto come l’impressione che stesse per piangere.
fonte: http://www.giornalettismo.com/archives/799905/guido-gentili/
---------------------curiositasmundi ha rebloggato coqbaroque
“La loro vita si sviluppa solo tra Botteghe Oscure, il Nazareno e Montecitorio. Del resto non
sanno nulla. Gli basta quel triangolo.”
—
Elezioni, Cacciari commenta i risultati: “Sono
teste di cazzo, era meglio Renzi” - Il Fatto
Quotidiano (via iorejna)
Fonte: ilfattoquotidiano.it
-------------------sillogismo ha rebloggato felicementedepressa
“Volevo scriverti qualcosa di toccante, ma alla fine nulla, toccati da solo”
—
Amillstone (via amillstone)
Fonte: amillstone
---------------------puzziker ha rebloggato rollotommasi
“Ed un giorno ti ritrovi dieci anni alle spalle . Nessuno ti ha detto quando iniziare a correre , ti
sei perso il segnale di partenza.”
—
Fonte: cinquebianco
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Time -The Dark Side of the Moon - Pink
Floyd (via cinquebianco)
Credo che sia l inizio della mia vita
Il mio big bang
(via afterevening)
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E Gina vota ancora alla rovescia
di Michele Serra
L'anziana signora Luigia Pighin è convinta che sulla scheda si metta la croce sul simbolo più odiato, quello del
partito che si vuole eliminare: quindi da cinquant'anni manda in Parlamento i comunisti
(24 febbraio 2013)
Quanti impresentabili parteciperanno alle imminenti elezioni? Poche decine se ci si attiene ai candidati. Milioni se parliamo degli
elettori. Incrociando parametri di ordine diverso (psicologici, culturali, attitudinali, criminologici, lombrosiani) la Facoltà di
sociologia di Uppsala ha individuato alcuni normotipi di elettore italiano impresentabile.
CARMINE LOSQUASCIAME Boss del clan calabrese dei Losquasciame, vota in un seggio-bunker allestito solo per lui dal
sindaco di Catrì, il paesino della Locride dove i Losquasciame controllano da generazioni il traffico mondiale delle cartoline erotiche.
Ad ogni elezione, dopo avere decapitato il presidente di seggio e nominato scrutatori i suoi tre figli, don Carmine depone
personalmente nell'urna le trecentoventi schede dei suoi compaesani, compilate di suo pugno. Poi tutto il paese va a festeggiare al
santuario della Vergine Santissima di Catrì, ringraziando la Madonna per la straordinaria fortuna di vivere a Catrì sotto la protezione
della famiglia Losquasciame.
GINO E GINA PIGHIN Sono due anziani coniugi veneti molto devoti, convinti che tracciare la croce sul simbolo serva a
esorcizzarlo, cancellando dalla scheda il partito più odiato. Da cinquant'anni votano comunista.
BRAMBILLO BRAMBILLA All'anagrafe Carlo, ha voluto cambiare il suo nome in Brambillo per ribadire le sue origini lombarde,
delle quali va molto fiero. Vive barricato dall'87 nel suo capannone, dove produce capannoni. Di notte sussulta ad ogni rumore per
paura che siano i ladri, di giorno per paura che sia la Finanza. E' molto deluso dalla Lega Nord ma ha annunciato che la voterà lo
stesso perché, lavorando sempre, non ha mai avuto il tempo di informarsi sull'eventuale esistenza di altri partiti.
CHANTAL PIRILLO Fondatrice del club "Silvio tvtb", la trentenne cubista è diventata celebre per il video virale nel quale danza
nuda in ascensore di fronte al suo vicino di pianerottolo, un maresciallo dei carabinieri in pensione che le intima di coprirsi. Ha
saputo delle imminenti elezioni, ma forse non andrà a votare perché non ha ben capito il nesso tra il voto e gli incarichi politici.
Lei, per esempio, è stata sottosegretario nell'ultimo governo Berlusconi, eppure nessuno l'aveva mai votata.
CHRISTIAN TRUZZI Venticinque anni, figurante nello spot di un deodorante per piedi (ma il suo sogno è diventare figurante nello
spot di un deodorante per ascelle), non ha mai letto un giornale o un libro. E' tra i pochi al mondo a non avere aperto una pagina
Facebook ma una mezza pagina, più che sufficiente. Nei test ai quali è stato sottoposto, alla domanda «l'Italia è una repubblica o una
monarchia?» ha risposto di non interessarsi di politica. Ma Christian rifiuta di farsi etichettare come il classico giovane disimpegnato:
ha confidato agli amici che andrà a votare a torso nudo sperando che qualcuno lo noti.
MARISA MARISENGO Da quando ha chiuso il suo salone di manicure in provincia di Asti, la signora Marisa vive nel suo alloggio
di Ospedaletti e passeggia con le amiche sul lungomare con la pelliccia di castorino o il cappottino con il collo di lapin. Parlano
esclusivamente di malattie, radiografie, vene varicose, esami clinici; oppure di come cucinano male le nuore. Non sanno niente di
alcun altro argomento, e nel 2005 hanno allontanato dal gruppo la loro amica Mariella perché, in conseguenza di un piccolo ictus,
aveva cominciato a parlare di biologia. Nei test, alla domanda «in che secolo siamo?», ha risposto «non mi intendo di politica, ma
voterò per Berlusconi perché è un bell'uomo». Nel rapporto conclusivo dello studio sull'elettorato italiano, si possono leggere queste
gravi parole: «Il fatto che il voto della signora Marisa valga esattamente come il voto di Rita Levi Montalcini costituisce uno dei
problemi irrisolti della democrazia».
fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/e-gina-vota-ancora-alla-rovescia/2200945
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3nding
“Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di delitti che, al
cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la condanna, la vergogna e la privazione
di ogni autorità di governo. Perché il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini?
Una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e tornaconto
personale. La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle sue attività criminali, ma
preferiva dare il suo voto al forte piuttosto che al giusto. Purtroppo il popolo italiano, se deve
scegliere tra il dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie
sempre il tornaconto. Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile
effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei. Presso un popolo onesto, sarebbe
stato tutt’al più il leader di un partito di modesto seguito, un personaggio un po’ ridicolo per
le sue maniere, i suoi atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso
della gente e causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il capo del governo.
Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano. Ammiratore della forza, venale,
corruttibile e corrotto, cattolico senza credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente
bonario, buon padre di famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si
circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile, e tale da fare effetto su
un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un proprio carattere, si immagina sempre di
essere il personaggio che vuol rappresentare.”
—
Elsa Morante – 1945, via
-----------------------3nding
Tre leggi della grillotica
1. Un grillino non può dissentire da Beppe Grillo né può permettere che, a causa del proprio
dissenso, un altro grillino dissenta.
2. Un grillino deve obbedire agli ordini impartiti da Beppe Grillo, purché tali ordini non
contravvengano alla prima legge (es. Grillo che dice “Datemi torto! Dissentite!).
3. Un grillino deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con
la Prima o con la Seconda Repubblica.
-------------------------puzziker ha rebloggato classe
Wu Ming: Perché «tifiamo rivolta» nel Movimento 5 Stelle
Uno dei motivi principali, sui quali abbiamo più volte insistito, è, per quanto possa sembrare
strano di primo acchito, l’antiberlusconismo, ovvero l’interpretazione destoricizzata (e quindi
«berluscocentrica») dello sfascio italiano.
A partire dal ’94 quest’interpretazione si è diffusa a macchia d’olio nella sinistra, facendo
scambiare l’effetto (l’avvento di Berlusconi) per le cause, che invece risiedono nella sconfitta dei
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movimenti di emancipazione degli anni ’60-’70, con conseguente toga party reazionario, vero e
proprio festival trentennale di controriforme, privatizzazioni, concentrazioni di potere, corruzione,
riduzione dei partiti a cosche mafiose etc. Berlusconi è figlio di quella temperie. Di più: è
l’antropomorfosi degli anni Ottanta, guardi lui e vedi gli anni Ottanta. Ma non te ne accorgi,
perché credi che dei mali d’Italia abbia colpa principalmente lui.
Berlusconi non è una causa, ma principalmente una conseguenza. Aver concentrato tutta
l’attenzione su di lui e sulle sue malefatte ha disarmato concettualmente la sinistra e i movimenti,
impedendo di aggredire i nodi di fondo che generano i Berlusconi. Questo ha causato gravi danni,
oltre ad aver regalato una «luna di miele» al governo Monti, per il solo fatto che a Palazzo Chigi
non c’era più Lui.
Intendiamoci: non che la sinistra «ufficiale» avesse granché bisogno di essere disarmata; si stava
già disarmando da sola, in un lungo processo di capitolazione culturale – diremmo addirittura
antropologica – iniziato già negli anni Settanta.
----------------------20130228
LA FURIA DEI CERVELLI – La sinistra è morta, solo un
Grillo la potrà salvare?
L’affermazione del Movimento 5 Stelle annuncia la scomparsa della sinistra in Italia.
Non di quella “radicale”, già spazzata via dalla rivolta del 2008, quando all’incirca 2 milioni di
persone si rifiutarono di votarla, azzoppando per sempre l’ala sinistra, un miscuglio di ingraismo,
comunismo terzinternazionalista, nostalgici del PCI, sindacalismo di base: quella che non ha voluto
aderire alla “cosa” degli Occhetto-D’Alema-Veltroni-Bersani.
E’ stato colpito duramente il blocco sociale maggioritario dell’ex partito comunista, e la sua
rappresentanza politica, quella trascolorata nelle varie sigle. Nel prossimo biennio la parte residuale
del “comunismo” all’italiana – tosco-emiliano – cioè il blocco della moderazione politica che
gestisce l’economia delle banche e delle cooperative e le istituzioni di tre regioni, o poco più, non
solo dimezzerà i suoi voti, ma rischia di perdere il diritto a rappresentare come partito quella parte
residuale della società sindacalizzata, garantita, ridotta a poco più della rappresentanza di un’élite.
Il Movimento 5 Stelle è il sintomo, non sappiamo però se sarà il soggetto, che non è possibile
garantire una “governabilità” mettendo sullo stesso piano i beni comuni e la proprietà, il laburismo
archeologico e il reddito garantito, il tumulto e la rappresentanza, la povertà e i sacrifici, il
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movimento e la stabilità. A questo punto non è nemmeno credibile quella politica omeopatica,
proposta in maniera opportunistica dal Pd come dalle sinistre europee, di allentare il patto di
stabilità tedesco sperando in una crescita. E questo dopo averlo votato in Parlamento con Monti e
Berlusconi.
La sanzione rispetto a questo progetto, che sarà perseguito comunque fino al 2014, è stata
fortissima. Semplicemente, nessuno ci crede. Gli strumenti per continuare questa opposizione
all’austerità sono comunque limitati. Grillo propone un referendum sull’Euro. Se fosse questo
l’unico strumento che il 5 stelle ha contro l’austerità, sarebbe una prospettiva tutto sommato
irrisoria. Per farlo – e poi anche per vincerlo – ci vuole una riforma costituzionale. Insomma è una
battaglia poco più che simbolica. Ma sufficiente per catturare il consenso e neutralizzare, per alcuni
anni, il conflitto contro le politiche di austerità che nel frattempo continueranno. Continuando,
forse, a premiare l’offerta elettorale di Grillo e Casaleggio.
A noi interessa capire la lettura che Grillo fa di questa situazione perché serve a interpretare il suo
campo politico, quello che sta spazzando via l’ideologema del comunismo italiano sulla
“governabilità”, che è poi lo stesso a cui si ispirano i custodi dell’ordine finanziario europeo. Grillo
fa una lettura schematica e tutto sommato neutralizzante del conflitto di classe che si svolge
all’interno del Quinto Stato. Da un lato ci sono milioni di esclusi dalla cittadinanza, tutta la povertà
di questo mondo: giovani e precari a cui viene negato il riconoscimento del “merito” e delle
“competenze”; esodati e pensionati da fame raggirati dalla cialtronaggine della riforma ForneroMonti; i piccoli imprenditori del Nord est impoveriti e rancorosi derubati dall’Imu, dall’Irap e da
tasse inique, oltre che dalla crisi.
Dall’altra parte mette coloro che non sono stati toccati dalla crisi degli ultimi 20 anni – si, perché la
crisi dura almeno da 20 anni. E ci mette le rendite, i finanzieri, i dipendenti pubblici e li tratta come
un Brunetta qualsiasi: lazzaroni, corporativi, mangiapane a tradimento. Può avere ragione, ma forse
tra loro ci sono anche quelli che potrebbero aiutarlo nel suo progetto di rifinanziare lo stato sociale.
Senza considerare che 3,3 milioni di precari – giovani e meno giovani – lavorano proprio per la
pubblica amministrazione. E molti lo hanno votato.
La schematicità meramente oppositiva di questo scontro ricorda l’”apartheid” degli esclusi
(giovani) voluta dai garantiti, dai “vecchi”, i precari contro i dipendenti, insomma dalla “Casta”.
Questa è la base del populismo che fonda oggi la politica del Quinto Stato e attraversa mille
ambienti diversi: dalla Cgil ai partiti di destra e sinistra, da Brunetta al Corriere della Sera, fino a
Monti-Ichino. Grillo ha gioco facile nel dimostrare che la colpa è tutta dei “parassiti” che succhiano
il valore del lavoro di chi produce o di chi è giovane. Lo dicono tutti, e a lui in questo momento
garantisce una rappresentanza istituzionale.
Davanti a questa ondata di risentimento gli eredi del comunismo italiano hanno le armi spuntate:
sono stati loro a votare le leggi sulla precarietà, oltre alla riforma Fornero. Tutti lo sanno e li
disprezzano. E loro sono impotenti nel gestire un conflitto che usa le armi del populismo, del ritorno
alla sovranità del popolo, dell’odio contro chi ti ha rovinato per sempre la vita. Ma quest’odio è
politico, cioè esprime conoscenza, crea nuovi rapporti di forza e quindi nuove coalizioni dentro il
Quinto Stato?
A questa domanda non si può rispondere mostrando solo i voti che garantiscono la rappresentanza
parlamentare, come fa Grillo e il suo movimento. Questa è un’illusione che svanirà presto, appena
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qualcuno metterà mano al dispositivo statale che governa l’esclusione e la povertà di milioni di
persone. Il Quinto Stato è una condizione irriducibile sia a questa idea come alla finzione di uno
scontro “generazionale” o tra il popolo e gli espropriatori della sua ricchezza.
Per andare incontro al Quinto Stato è necessario un reddito di base, la tutela dei beni comuni,
politiche economiche espansive, un nuovo Welfare e un’Europa federale, politica e sociale siano le
sole e possibili pratiche politiche. Poche di queste cose rientrano nell’agenda di Grillo, ma certo
nessuno le troverà nelle politiche di austerità e dei loro imitatori catto-comunisti.
Giuseppe Allegri-Roberto Ciccarelli – La furia dei cervelli
(27 febbraio 2013)
fonte: http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/02/27/la-furia-dei-cervelli-lasinistra-e-morta-solo-un-grillo-la-potra-salvare/
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Addio a Hessel, padre degli “indignati”
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di Marco Cesario, da linkiesta.it
PARIGI – «La morte è per me un grande progetto. Penso che tra tutte le esperienze che si fanno nel
corso della vita, l’esperienza forse più interessante sia la morte. In quel momento infatti si può
vedere ciò che resta e ciò che verrà». Queste parole profeticamente pronunciate da Stéphane Hessel
assumono, all’indomani della sua morte, tutta la pregnanza che in vita ne diede l’autore. La morte
infatti chiude un ciclo e retrospettivamente dà significato a ciò che l’ha preceduta ovvero la vita.
Se n’è andato con l’eco di queste parole Stephane Hessel, uomo poliedrico, partigiano, ex deportato,
intellettuale instancabile, poeta e coscienza del nostro tempo, se ne va l’Homme du Siècle, colui il
quale alla veneranda età di 92 anni è riuscito a pubblicare un libretto dall’impatto mondiale dal
titolo ‘Indignatevi!’ che ha ispirato il movimento degli Indignati in Europa, Occupy Wall Street e ha
dato le armi dell’intelligenza politica alle giovani masse della Primavera Araba, represse da dittature
trentennali.
Se n’è andato all’età di 95 anni, nella buona ed antica tradizione di filosofi e saggi delle nostre
società che, invecchiando, s’avvicinano ai barlumi della verità, illuminando con la canuta
senescenza il buio di tante esistenze. Eppure la morte aveva già sfiorato lo spirito d’Hessel in un
campo di concentramento in Germania, ma egli - al pari di un Max von Sydow nel capolavoro di
Bergman ‘Il Settimo Sigillo’ - era riuscito a giocare d’astuzia, a temporeggiare ed a posticipare la
sua fine di molti anni, giocando con la Morte una lunghissima partita a scacchi.
Così, dopo esser sopravvissuto a due guerre mondiali, lo spirito d’Hessel ha attraversato come una
cometa i totalitarismi di destra e di sinistra, la minaccia nucleare, la globalizzazione, la crisi
economica ed il risveglio delle masse nel mondo arabo, in Europa e negli Usa. E quale fu, in breve,
questa sua vita che difese strenuamente dai gelidi artigli della Morte?
Tedesco di nascita (nacque a Berlino nel 1917, l’anno della rivoluzione russa, come amava
ricordare), Hessel giunse in Francia alla sola età di 7 anni e fu naturalizzato francese nel 1937. La
figura di sua madre Helen Grund ispirerà il personaggio di Catherine nel romanzo di Henri-Pierre
Roché, ovvero quello di una donna amata da due amici, mirabilmente portata sulla schermo dal
regista François Truffaut nel capolavoro cinematografico Jules et Jim.
Mentre suo padre traduce con Walter Benjamin Proust in tedesco, Hessel, che parla tedesco,
francese ed inglese, entra all’École Normale nel 1939. Inizia a leggere Sartre, segue i corsi del
filosofo Merleau-Ponty, la sua coscienza politica si va formando e con essa una natura indomita che
l’accompagnerà nel corso di tutta la sua esistenza. Chiamato alle armi nel 1939, Hessel viene fatto
prigioniero, poi entra a far parte della resistenza e raggiunge le forze della Francia Libera di Charles
De Gaulle a Londra. Viene fatto di nuovo prigioniero e trasferito nel quartier generale della Gestapo
a Parigi, ad Avenue Foch.
Interrogato, torturato, viene deportato l’8 Agosto 1944 nel campo di concentramento di
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Buchenwald. Per salvarsi, Hessel si fa passare per un francese malato di tifo nascondendosi
nell’infermeria mentre i suoi colleghi di campo venivano impiccati uno ad uno.
Viene trasferito nel campo di Rottleberode dove tenta d’evadere il 2 Aprile 1945 ma viene arrestato
di nuovo, picchiato e trasferito al campo forzato di Dora dove si costruivano i missili dell’ultimo ed
inutile sforzo bellico della Wermacht. Durante un trasferimento verso Luneburg riesce a fuggire dal
treno e a raggiungere le forze americane. L’8 Maggio 1945 arriva alla Gare du Nord di Parigi dove
ritrova sua moglie. Da qui inizia tutta una carriera diplomatica all’insegna della difesa dei diritti
umani, dei diritti dei ‘sans-papier’ e degli immigrati, diventando un’icona non solo per la sinistra
francese ed europea ma per tante altre fette ‘dimenticate’ della società.
Nel 1948, in qualità di segretario della commissione dei Diritti Umani, partecipa attivamente
all’elaborazione della Dichiarazione Universali dei Diritti Umani, nel 1971 è nominato vicedirettore del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo e nel 1981 François Mitterand lo eleva
al rango di Ambasciatore di Francia. Si batte fino alla morte per il riconoscimento dello stato
palestinese e per una soluzione pacifica al conflitto, scatenando spesso le reazioni virulente di
numerose associazioni ebraiche. Paradossale e grottesco per Hessel, che era d’origine ebraica da
parte paterna, il processo intentato contro di lui nel 2010 per “incitamento all’odio razziale” dopo
aver criticato – in editoriali pubblicati su Libération e l’Humanité - l’occupazione e la
colonizzazione israeliana e dopo aver denunciato i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità
dell’esercito israeliano contro la Striscia di Gaza.
L’aver aderito all’iniziativa Bds (boicottaggio contro Israele), gli attira le folgori del Bureau de
Vigilance contre l’Antisemitisme, che fa partire una denuncia contro di lui e contro tutti gli
intellettuali che sottoscrivono l’iniziativa. Il Crif (Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni
ebraiche di Francia) riesce addirittura a far annullare una conferenza di Hessel all’Ecole Normale
Supérieure, la sua Ecole - lì dove era iniziata la sua avventura d’intellettuale e di coscienza politica
delle masse di dimenticati - facendo credere al rettore e al ministro dell’università che Hessel avesse
l’intenzione d’utilizzare lo scranno universitario per promuovere il boicottaggio d’Israele.
In seguito a questo fatto – grave per un paese come la Francia perché indirizzato contro uno dei suoi
intellettuali più rappresentativi – diversi intellettuali, scrittori, giornalisti e membri della società
civile si schierarono dalla parte di Hessel, denunciando l’attentato alla libertà d’espressione e di
parola.
Malgrado però queste amarezze, Hessel, fino alla fine della sua estenuante partita contro la Morte,
rivelò che l’ultimo suo sogno “prima di partire” era quello di vedere risolta definitivamente la
questione israelo-palestinese, sogno che purtroppo ancora oggi non si è avverato.
Ed eccoci al 2010. Hessel è molto anziano, ha 92 anni ma come per il nostro Bobbio o il nostro
Montanelli, la lucidità non gli manca. Anzi. Riesce a pubblicare un libretto di 32 pagine, dal titolo
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Post/teca
“Indignez-vous!”, che diviene in breve un caso editoriale (oltre 4 milioni di copie vendute). Un
piccolo pamphlet che ha tanto effetto sulla psicologia collettiva dei giovani in Spagna, Grecia e
Stati Uniti quanto lo ha per le masse arabe il gesto disperato ed eroico di Mohammed Bouazizi, nel
lontano dicembre del 2010.
Hessel denuncia lo scarto che esiste tra una minoranza ricca (sempre più esigua ed oligarchica) ed
una maggioranza povera sempre più estesa. Hessel denuncia non solo il saccheggio del pianeta
Terra, ma anche quello dell’uomo, puntando il dito contro il trattamento inumano fatto ai sanspapier, agli immigrati ed ai cittadini di etnia rom e soprattutto contro il male del capitalismo ovvero
quella cieca corsa ad accumulare ed accumulare sempre di più (per cosa poi se la Morte ci segue
passo passo ed è destinata a vincere la sua partita ?).
L’accumulazione senza fine ha portato l’uomo all’individualismo, all’egoismo e all’alienazione. Dal
“ground zero” dell’uomo sottomesso all’abbietta dittatura dei mercati finanziari, Hessel esorta
giovani ad “indignarsi”, a rivoltarsi, alla stregua dell’homme revolté di Camus imbevuto però della
vita politica activa degna della penna salace della Arendt.
L’indignazione è anche contro una politica che ha girato le spalle ai cittadini ed ha sequestrato il
concetto di democrazia, trasformandola in una panacea soporifera. Se a questo s’aggiunge la
manipolazione in chiave politica della paura e dell'insicurezza dei cittadini, i cui sentimenti sono
esacerbati dalla crisi economica e dalla disoccupazione, il quadro è completo. Che sia diretta verso
l'altro, l'immigrato o il Rom, la paura è diventata lo strumento principale in possesso dei governi per
fare pressioni sulle frange più deboli ed influenzabili della popolazione e sollevare sentimenti ostili
come la xenofobia ed il razzismo.
Contro questa visione, Hessel sprona invece all’insurrezione pacifica che riporti pacificamente la
gente comune in piazza. Ed è ciò che è avvenuto in Puerta del Sol, nella piazza Syntagma e nella
piazza Tahrir. La piazza, ovvero l’agora, l’unico spazio politico nel quale il cittadino può ancora
indignarsi, esprimere dissenso e formulare una nuova idea, più umana, di società.
(28 febbraio 2013)
fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/addio-a-hessel-padre-degli-indignati/?h=0
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Ratzinger, 30 anni in Curia e non sentirli… raccontare
Esce questa settimana un numero speciale di Adista dedicato a Benedetto XVI. 24 pagine di analisi
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Post/teca
del pontificato del papa che doveva riformare la Chiesa, ma ha finito per gettare la spugna. La
parabola di Ratzinger in Vaticano, da cardinale e papa, passa sotto la lente di una degli organi di
informazione più critici del panorama ecclesiale, ma anche attraverso il giudizio di alcuni tra i più
autorevoli teologi cattolici. A completare il numero, una intervista allo storico Daniele Menozzi.
Pubblichiamo di seguito un intervento estrapolato dallo speciale. Quello che riguarda i 25 anni di
Ratzinger alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede.
di Valerio Gigante
Se quello di Benedetto XVI, contrariamente alla pubblicistica corrente, è stato un pontificato pieno
di contraddizioni, ancora più stridente è la differenza tra la rappresentazione che i media continuano
a dare di Ratzinger come di un papa-teologo avulso dai maneggi di Curia e dagli scontri tra le
diverse correnti all’interno della gerarchia ecclesiastica, e la sua carriera all’interno della Curia
romana, di cui il papa tedesco è architrave dal novembre 1981, anno in cui fu chiamato da Giovanni
Paolo II alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Per quasi 25 anni, infatti, cioè fino alla morte di Wojtyla, Ratzinger è stato tra i cardinali di Curia
che più hanno accompagnato le scelte fatte da Giovanni Paolo II in ambito teologico e pastorale,
oltre che – assieme ad un ristrettissimo numero di ecclesiastici – le nomine, i trasferimenti e le
rimozioni dei vescovi. Ratzinger è stato inoltre il braccio destro di Wojtyla per tutto ciò che
concerneva la difesa dottrinale dell’ortodossia romana e della teologia vaticana e il “braccio
armato” nella lotta a tutti i preti, i teologi, i vescovi, le aggregazioni laicali che potessero solo
vagamente essere sospettabili di “sinistrismo”, di contiguità con i movimenti di liberazione dei
Paesi del Sud del Mondo, di compromesso con la cultura laica e secolarizzata.
In particolare, a partire dal 1984, Ratzinger ha curato direttamente, e puntigliosamente, il processo
alla Teologia della Liberazione. Non solo, con l'Istruzione Libertatis nuntius, il prefetto della Cdf ha
condannato in toto la TdL, ma ha messo anche sotto processo i massimi esponenti di questa
innovativa corrente teologica e pastorale: Gustavo Gutiérrez, nelle cui riflessioni Ratzinger
individuava «l'influenza del marxismo»; e Leonardo Boff, nel cui celebre libro Chiesa, carisma e
potere, il prefetto dell’ex Sant’Uffizio riteneva (1985) si incontrassero contenuti «tali da mettere in
pericolo la sana dottrina della fede».
Ratzinger condusse una lotta senza quartiere anche a tutti i teologi progressisti, liberal, o
semplicemente possibilisti su temi quali la morale sessuale, la libertà di ricerca teologica, il
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sacerdozio femminile, il pluralismo religioso. Nel 1986, il futuro papa dichiarò ad esempio «non
idoneo all'insegnamento della teologia cattolica» il teologo statunitense Charles Curran, “colpevole”
di criticare l’Humanae vitae e di sostenere «la legittimità del dissenso dall'autorità»; nel 1988
destituì dall'insegnamento universitario i gesuiti José María Castillo e Juan Antonio Estrada e
sollevò il clarettiano Benjamín Forcano dalla direzione di Mision Abierta.
Nel 1993 fu poi la volta del teologo morale canadese André Guindon le cui tesi – soprattutto sui
temi della sessualità – contenevano secondo Ratzinger «gravi dissonanze non solo con
l'insegnamento del Magistero più recente, ma anche con la dottrina tradizionale della Chiesa». Andò
un po’ meglio alla suora e teologa femminista Ivone Gebara, cui nel 1995 Ratzinger impose di
trasferirsi in Europa per studiare teologia «sicura». Ci fu poi il caso dell’incredibile scomunica, poi
ritirata, comminata nel 1997 al teologo cingalese Tissa Balasuriya, “colpevole” di mettere in dubbio
la dottrina cattolica sul peccato originale, l'immacolata concezione e il ruolo di Gesù nell'opera di
salvezza. O l’altrettanto incredibile notificazione di condanna, datata 1998, nei confronti del gesuita
indiano Anthony de Mello, autore di libri di spiritualità famosissimi, e venduti in tutto il mondo, ma
già morto da ben undici anni.
Sempre nel 1998, Ratzinger estromise dall'insegnamento presso la Pontificia Università Gregoriana
il teologo gesuita Jacques Dupuis per il suo libro Verso una teologia cristiana del pluralismo
religioso. L’anno successivo, vietò per sempre a suor Jeannine Gramick ed a p. Robert Nugent
«ogni attività pastorale in favore delle persone omosessuali», perché i due non condannano «la
malizia intrinseca degli atti omosessuali». Al redentorista spagnolo p. Marciano Vidal venne invece
imposto, nel 2001, di ritrattare le sue tesi su contraccezione, aborto, omosessualità. Nel 2004 fu la
volta del gesuita p. Roger Haight, a cui fu vietato l’insegnamento della teologia cattolica per la sua
cristologia, giudicata non ortodossa.
E questi sono solo alcuni degli innumerevoli interventi di Ratzinger come prefetto della Cdf, che nel
corso dei suoi anni in Curia si è anche fortemente speso per bloccare il rinnovamento conciliare
della vita religiosa (che culminerà, da papa, con il commissariamento delle suore Usa), favorendo
invece il processo di ri-clericalizzazione degli ordini e delle congregazioni a tutto svantaggio, tra
l’altro, dei religiosi “laici”, cioè non ordinati preti.
Ai provvedimenti si uniscono poi i documenti emanati dalla CdF. Quello sull’omosessualità, ad
esempio, una delle ossessioni del futuro pontefice: nella lettera pastorale intitolata Homosexualitatis
problema, del 1986, si affermava che l'inclinazione omosessuale «dev'essere considerata come
oggettivamente disordinata». A questo tema si affiancano gli innumerevoli interventi contro il
sacerdozio femminile (per Ratzinger, contrariamente all’opinione di diversi altri cardinali, Martini
in testa, le donne non possono aspirare nemmeno al diaconato), l’uso del preservativo, la
comunione ai divorziati risposati, il ruolo dei gay nella Chiesa, il pluralismo religioso,
l’inculturazione, la “precedenza” delle Chiese locali sulla Chiesa universale, la collegialità, la
libertà di ricerca teologica.
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A proposito di quest’ultimo aspetto, nel 1988, la Congregazione presieduta da Ratzinger pubblicò la
“Professione di fede” e il “Giuramento di fedeltà” cui sottoporre tutti coloro che assumono un
officio “da esercitarsi a nome della Chiesa”. Vi si impone l’adesione al «deposito della fede»;
l’obbedienza alla «disciplina comune a tutta la Chiesa», nonché «l’osservanza di tutte le leggi
ecclesiastiche». Inoltre è necessario giurare obbedienza a «ciò che i sacri Pastori dichiarano come
autentici dottori e maestri della fede o stabiliscono come capi della Chiesa» e agli «insegnamenti
del pontefice» e «del collegio episcopale» quando «esercita il suo Magistero autentico».
Della collegialità episcopale auspicata dal Concilio Ratzinger fece invece giustizia nel 1992, con la
lettera Communionis notio, che ribadisce con forza il primato papale. Ma il suo capolavoro
dottrinale l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede lo compì nel 2000, con la
promulgazione della Dominus Iesus, una dichiarazione nella quale si insisteva sulla unicità e
universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, vanificando le aperture del Concilio Vaticano II
ai “semi di verità” presenti nelle altre religioni e riportando indietro di decenni il dialogo
ecumenico, poiché alle altre confessioni non cattoliche, ad esclusione della Chiesa ortodossa,
veniva revocato l’appellativo di “Chiese sorelle”, appellativo che le poneva sullo stesso livello di
quella romana.
(27 febbraio 2013)
fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/ratzinger-30-anni-in-curia-e-non-sentirliraccontare/
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Sui nostri comodini le radiosveglie segnano orari diversi perché viviamo in mondi diversi.
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Una crisi italiana. Alla radice della teoria dell’autonomia del
politico
di DARIO GENTILI
La questione dell’“autonomia del politico” esplode in Italia nel corso degli anni Settanta e rientra
nel dibattito se attribuire il primato o all’organizzazione o all’autonomia, e cioè o al luogo del
conflitto (Tronti, Cacciari) o alla soggettività antagonista (Negri). Tuttavia, ciò che queste posizioni
hanno in comune è il fatto di poter essere comprese all’interno di un dispositivo della crisi.
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L’ARTICOLO IN PDF
1. Dentro e contro: Tronti
Per limitare la questione dell’“autonomia del politico” nella tradizione filosofico-politica italiana a
tre autori (Mario Tronti, Antonio Negri e Massimo Cacciari) e a un arco di tempo determinato (gli
anni Settanta), prendo lo spunto iniziale da Operai e capitale. Mi riferisco in particolare al punto in
cui Tronti passa dall’analisi operaista del rapporto economico classe operaia-capitale alla proposta
politica. Innanzitutto, egli prende criticamente le distanze – anzi rovescia – il paradigma gramsciano
(fatto proprio a suo modo da Togliatti) per la conquista dell’egemonia politica da parte della classe
operaia: il passaggio politico da compiere non è tanto quello dalla classe operaia al popolo, ma,
viceversa, dal popolo alla classe operaia. Lo scopo è quello di definire l’organizzazione politica
operaia, il partito di parte operaia. Tronti scrive:
Come far funzionare il popolo dentro la classe operaia è problema tuttora reale della rivoluzione in
Italia. Non certo per conquistare la maggioranza democratica nel parlamento borghese, ma per
costruire un blocco politico di forze sociali, da usare come leva materiale per far saltare una per una
e poi tutte insieme le connessioni interne del potere politico avversario […]. Così, su questa base,
dai compiti del partito rimane escluso proprio quello che sembra averlo finora caratterizzato: il
compito di mediare i rapporti tra classi affini, e cioè tra ceti diversi, con tutte le loro ideologie, in un
sistema di alleanze.[1]
Il problema è pur sempre quello gramsciano della conquista dell’egemonia politica. Per Tronti, il
popolo – in quanto “sintesi dialettica” e, al di là delle intenzioni di Gramsci, prodotto di una cultura
della mediazione se non proprio del compromesso – non è la soluzione, perché neutralizza al suo
interno la classe operaia, l’unica contraddizione del sistema capitalistico davvero rivoluzionaria.
Eppure, come a suo modo già sapeva Gramsci, l’antagonismo della classe operaia dentro e contro il
capitale, la lotta in fabbrica, la lotta sindacale, non si traducono immediatamente in lotta per la
conquista del potere politico. C’è bisogno, a questo punto, di uscire fuori dal rapporto di produzione
capitalistico, di natura esclusivamente economica, e quindi controllabile e gestibile dalla posizione
dominante del capitale. Affinché ci sia politica, la classe deve andare contro se stessa, contro la sua
stessa natura economica: «È propriamente la separazione della classe operaia da se stessa, dal
lavoro, e quindi dal capitale. È la separazione della forza politica dalla categoria economica»[2]. E
deve rendersi autonoma: «Una separata autonomia politica dei movimenti di classe delle due parti è
tuttora il punto di partenza da imporre alla lotta: di qui, di nuovo, tutti i problemi di organizzazione
della parte operaia. Lo sforzo del capitale è di chiudere entro la relazione economica il momento
dell’antagonismo, incorporando il rapporto di classe nel rapporto capitalistico, come suo oggetto
sociale. Lo sforzo di parte operaia deve all’opposto tendere continuamente a spezzare proprio la
forma economica dell’antagonismo»[3]. Il problema politico diventa discriminante per portare
l’antagonismo dalla fabbrica alla società. Cambia il luogo, ma il soggetto deve restare lo stesso: la
classe operaia. E tuttavia, il rendersi autonoma della classe operaia dal rapporto economico che la
lega al capitale non ne fa immediatamente un soggetto politico. All’autonomia della classe operaia
deve corrispondere allora un’organizzazione politica dove possa aver luogo la sua soggettivazione
politica senza neutralizzarne – come popolo – la peculiarità dell’antagonismo. Questo luogo però
non può essere – o non è più – la fabbrica, dove la forma di antagonismo è ormai esclusivamente
economica. Stringere insieme classe operaia, antagonismo e organizzazione politica: ecco il
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compito.
È possibile tuttavia pensare la classe operaia al di fuori della fabbrica, come soggetto politico
autonomo, senza scendere a compromessi con la forma-popolo e senza accettare le logiche
democratiche e riformistiche che la ridurrebbero a una parte tra le altre, che deve negoziare il
proprio “interesse di parte” in nome dell’interesse generale? Può la società, ambito costituito e
dominato dalla tendenza uniformante delle ideologie borghesi, dar luogo al conflitto di due parti?
Che ne sarebbe, infine, della classe operaia al di fuori del contesto determinato in cui ha luogo
quella forma di antagonismo che ne determina la soggettivazione? Queste sono le questioni che
Operai e capitale lascia sul terreno del dibattito filosofico e politico del marxismo italiano, e non
solo[4]. Se con la teorizzazione della centralità della classe operaia di fabbrica e con la
determinazione del soggetto antagonista Tronti ha definito le peculiarità di una scienza operaia, ha
invece dovuto riscontrare la difficoltà di trasporre tutto ciò a livello di organizzazione politica. “La
classe operaia è il segreto del capitalismo”, segreto che la scienza operaia ha svelato[5]; resta
tuttavia da svelare il segreto del Politico, che non è – come insegna, per Tronti, la regola dei
fallimenti delle iniziative politiche operaie, la cui unica eccezione è la rivoluzione d’Ottobre – a
disposizione della scienza operaia. Il segreto del successo politico di Lenin non va ricercato
nell’esperienza delle lotte operaie, bensì nella grande tradizione del realismo politico, appannaggio
della classe avversa. Siamo nel 1970 e, nel Poscritto di problemi aggiunto alla seconda edizione di
Operai e capitale, si sta consumando la deviazione di Tronti dall’operaismo degli anni Sessanta –
deviazione che non implica affatto un disconoscimento delle sue conquiste teoriche, bensì la
consapevolezza che, per poter proseguire la ricerca all’altezza della politica, bisogna trasporla su un
altro piano:
Contrapponendo un tipo di organizzazione all’altro, Lenin elabora la teoria di entrambi. Ne aveva
bisogno, perché il suo discorso era veramente tutto politico, non partiva dalle lotte, non voleva
partirci, la sua logica era fondata su un concetto di razionalità politica assolutamente autonoma da
tutto, indipendente dallo stesso interesse di classe, comune semmai alle due classi, il suo partito non
era l’anti-stato; anche prima della presa del potere era l’unico vero stato della vera società. […] Pur
senza essere mosso dalla spinta della lotta operaia, Lenin centra in pieno le leggi della sua azione
politica. Per questa via subisce un processo di rifondazione, da un punto di vista operaio, il concetto
borghese classico di autonomia della politica.[6]
La fase operaista di Tronti – e il cosiddetto primo operaismo – si esaurisce con la conclusione
dell’esperienza della rivista “classe operaia”, nel 1967[7]. Dopo quegli ultimi bagliori di “vera”
politica (nota bene: prima del ’68) inizia il suo lungo tramonto[8], cominciato proprio con
l’indebolirsi e il disgregarsi della concentrazione di luogo, epoca e soggettività antagonista. Sul
piano teorico, dunque, il primo operaismo si esaurisce con la rottura dell’unità di soggetto
antagonista e luogo dove tale antagonismo si mostra nella massima intensità, la fabbrica. È la fine
dell’epoca della forma di produzione fordista – e, con essa, dell’epoca moderna stessa – a
determinare l’estinguersi della figura storica dell’operaio della fabbrica fordista, il cosiddetto
operaio-massa. In fondo, è la collocazione del conflitto a sembrare prioritaria rispetto
all’individuazione della soggettività antagonista. Anzi, una soggettività antagonista è stata possibile
finché la fabbrica era ancora luogo di soggettivazione politica[9]; ha avuto una potenzialità politica
finché la fabbrica era ancora luogo di divisione e, al contempo, di aggregazione sociale, finché
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soddisfaceva il criterio del politico: quel “criterio” che definisce crisi e scissione come costitutive
del politico. Il criterio del politico è dunque la contrapposizione più intensa amico-nemico[10]; ed è
stato pienamente soddisfatto finché, in fabbrica, Lenin ha incontrato Carl Schmitt, la lotta di classe
il realismo politico: «La contrapposizione è la più intensa ed estrema di tutte e ogni altra
contrapposizione concreta è tanto più politica quanto più si avvicina al punto estremo, quello del
raggruppamento in base ai concetti amico-nemico»[11]. Ecco perché Tronti, in conclusione al
Poscritto di Operai e capitale, critica le posizioni di coloro che vogliono collocare la classe operaia
dopo e fuori la fabbrica. Ma non solo. La critica più sottile e profonda è rivolta alla possibilità di
rintracciare un’altra “definizione oggettiva” della soggettività antagonista al di fuori della classe
operaia caratterizzata dall’operaio-massa:
Si può, ad esempio, abbandonare una definizione “oggettiva” di classe operaia? E definire “classe
operaia” tutti quelli che lottano soggettivamente in forme operaie contro il capitale dall’interno del
processo di produzione sociale? […] Vanificare la materialità oggettiva della classe operaia in pure
forme soggettive di lotta anticapitalista è appunto un errore di nuovo ideologico del neoestremismo.
Non solo. Ampliare i confini sociologici della classe operaia per includervi tutti coloro che lottano
contro il capitale dal suo interno, fino a raggiungere la maggioranza quantitativa della forza-lavoro
sociale, e addirittura della popolazione attiva, è una grave concessione alle tradizioni democratiche.
[12]
Per Tronti, invece, il problema non è tanto quello dell’individuazione di una nuova soggettività
antagonista, quanto piuttosto quello di una nuova collocazione del conflitto, all’altezza stavolta
della tradizione del realismo politico, del Politico moderno. Il passo che lo condurrà a tematizzare
l’“autonomia del Politico” è, a questo punto, davvero breve.
2. Contro e fuori: Negri
Le nuove soggettività antagoniste sono figlie della crisi economica. Sotto la pressione del
succedersi continuo delle crisi, la produzione – e con essa il rapporto più intensamente
antagonistico capitale-classe operaia – abbandona la fabbrica fordista come suo luogo privilegiato e
investe l’intera società: il soggetto della crisi non può essere più l’operaio-massa di Tronti, ma
diventa l’operaio sociale. Durante gli anni Settanta, è Antonio Negri a essere impegnato nel
delineare la figura dell’operaio sociale e, di conseguenza, a marcare la discontinuità rispetto alla
fase del primo operaismo. Ecco come, in Proletari e Stato del 1976, Negri delinea il passaggio
dall’operaio massa all’operaio sociale:
È un’ipotesi sconvolgente quella che comincia a configurarsi, la categoria “classe operaia” va in
crisi ma continua a produrre tutti gli effetti che gli sono propri sul terreno sociale intero, come
proletariato. […] Dopo che il proletariato si era fatto operaio, ora il processo è inverso: l’operaio si
fa operaio terziario, operaio sociale, operaio proletario, proletario. […] Avevamo visto l’operaiomassa (prima concretizzazione massificata dell’astrazione capitalistica del lavoro) produrre la crisi.
Ora vediamo la ristrutturazione che, lungi dal superare la crisi, ne distende e allunga l’ombra su
tutta la società.[13]
Non è semplicemente il passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale a determinare la
deviazione di Negri dalle posizioni del Tronti di Operai e capitale, anzi è evidente l’intento di
avvalersi del metodo operaista: la precedenza delle lotte operaie – quelle dell’operaio massa dei
primi anni Sessanta – rispetto alla ristrutturazione capitalista è pienamente rispettata; come è in
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accordo con l’insegnamento operaista ritornare, in seguito alla trasformazione del modo di
produzione capitalistico che stava avvenendo in quegli anni, ad analizzare la composizione di classe
operaia. Anche la problematica rimane la stessa: individuare il soggetto antagonista. Che cosa
emerge allora nell’operaio sociale di così radicalmente divergente dalla precedente analisi operaista
della composizione di classe, tanto che lo stesso Negri scrive vent’anni dopo di averne introdotto la
figura in modo, a volte, “troppo timido”[14]? È il termine stesso, “operaio sociale”, che, come
“fabbrica sociale”, lo spiega: è un ossimoro, sosterrebbe Tronti, per il quale la classe operaia e la
fabbrica si oppongono radicalmente a ogni dimensione sociale e a ogni possibile assorbimento nella
società. Per Tronti, infatti, la società è la dimensione dell’ideologia borghese, che neutralizza il
conflitto e l’antagonismo: nella società il punto di vista di parte operaia viene compreso all’interno
dell’idea sintetica di popolo. Magari anche Tronti ha riconosciuto il dissolversi della fabbrica nella
società, ma, a differenza di Negri, vi ha visto il tramonto definitivo della classe operaia e non, con la
sua proletarizzazione, una nuova potenzialità politica. Politica si poteva dare nella fabbrica in
quanto luogo in cui si concretizzava il criterio schmittiano del politico come contrapposizione
amico-nemico; la società – come la forma politica a essa corrispondente, la democrazia moderna –
ne è esattamente l’opposto: un non-luogo. In essa è impossibile prendere parte e partito in quanto
per Tronti ciò equivale a dar luogo al conflitto. È nel passaggio al postfordismo che si compie
quindi il tramonto della politica; infatti, in quanto movimento generato e diffuso nella società, il ’68
rappresenta, per Tronti, un’accelerazione della ristrutturazione capitalistica. Negli stessi anni in cui
Negri teorizza con la figura dell’operaio sociale una soggettività antagonista fuori dalla fabbrica,
Tronti continua quella ricerca di una politica operaia che aveva lasciato in sospeso nel Poscritto di
Operai e capitale, con la consapevolezza qui acquisita che, mentre il segreto del capitalismo è stato
svelato dalle lotte della classe operaia, il segreto della politica è custodito nella teoria e nei luoghi
appannaggio del nemico di classe. Il presupposto indiscusso è che vera politica si dia
esclusivamente nelle modalità e nei luoghi della politica moderna e, quindi, l’unico modo per la
classe operaia di conquistare davvero l’autonomia politica e uscire dall’aporia in cui la costringeva
il rapporto economico di fabbrica – essere dentro e contro il capitale – è farsi Stato. Ecco
configurarsi la svolta trontiana degli anni Settanta, ecco l’autonomia del Politico:
L’obiettivo è quello di ricreare un effettivo dualismo di potere; però in grande, non più nella
fabbrica, cioè non più nel rapporto di produzione, e neppure più nella società, ma addirittura tra
società e stato. Per concludere. L’autonomia del politico risulta addirittura un’utopia, una volta
presa come progetto politico direttamente capitalistico; risulta addirittura l’ultima delle ideologie
borghesi; diventa realizzabile, forse, soltanto come rivendicazione operaia. Lo stato moderno
risulta, a questo punto, nientemeno che la moderna forma di organizzazione autonoma della classe
operaia.[15]
Non potrebbe esserci distanza maggiore rispetto a quanto Negri scriveva in quegli stessi anni; anzi,
le concezioni della politica che ne scaturiscono sono esattamente agli antipodi: sebbene per
entrambi lo Stato sia il luogo del potere, per Tronti, la politica è essenzialmente scontro per il potere
che si svolge quindi a livello del Politico, dello Stato; per Negri, al contrario, politica è la potenza
immanente alla dimensione sociale, che si contrappone al potere dello Stato, la cui funzione
capitalistica – e quindi di parte – è ormai pienamente manifesta. Negri rivendica allora
un’autonomia operaia proprio dallo Stato in quanto “impresa capitalista”, in quanto forma del
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dominio e del controllo del capitale sulla società, quella società che invece diventa
progressivamente il terreno di germinazione dei nuovi antagonismi. Ed è, infatti, fuori dalla
fabbrica, nella società, che si vanno formando le nuove soggettività antagoniste ed è sempre dentro
la società che si creano nuove potenzialità politiche[16]. Scrive Negri in Proletari e Stato: «A
questo punto qualsiasi operazione trasformistica a livello di “autonomia del politico” cozza contro
l’irrealtà della categoria, contro la sua mera adeguatezza all’ideologia e alla pratica mistificatoria
del capitale. Un uso operaio delle istituzioni statali è oggi inconcepibile»[17]. E ancora, in Il
dominio e il sabotaggio, dove si congeda esplicitamente da Tronti: «Dice bene l’ultimo Tronti che
lo Stato moderno è la forma politica dell’autonomia della classe operaia. Ma in che senso? Nel
senso, anche per lui, del suo rinverdito “socialismo”, di compatibilità e convergenza? No davvero,
caro compagno: qui la metodologia della critica dell’economia politica va modificata a partire
dall’autovalorizzazione proletaria, dalla sua separatezza, dagli effetti di sabotaggio che
determina»[18].
Lo schema trontiano del lavoro di fabbrica, “dentro e contro il capitale”, per Negri, non può più
funzionare, tantomeno come presupposto per la determinazione di una soggettività politica,
soprattutto se pensata con i criteri della politica moderna. Il processo di soggettivazione che aveva
luogo in fabbrica determinava, infatti, un soggetto omogeneo e uniforme: la classe operaia. Il nuovo
soggetto di Negri, invece, si costituisce politicamente fuori dalla fabbrica e dentro la società
capitalistica in quanto spazio della produzione dove sono messe a lavoro la conoscenza e le capacità
relazionali (quel General Intellect su cui si concentrerà la riflessione post-operaista). La nuova
soggettività assume pertanto proprio quel carattere “plurale”, “multilaterale” e “differenziato” che
per Tronti è il contrassegno del sociale in contrapposizione al politico. Ma il criterio del politico
moderno per Negri è ormai inefficace; non è più la contrapposizione il criterio della soggettivazione
politica operaia, bensì la separazione: «Dentro quest’intensità della separazione c’è il massimo di
libertà. L’individuo sociale è la multilateralità. Il massimo di differenza è il più alto approccio al
comunismo. […] Ogni omogeneità è dissolta. Lo schema metodologico “plurale”, multilaterale,
trionfa»[19]. Il nuovo soggetto antagonista non ha bisogno del nemico di classe per definirsi, non è
nella contrapposizione che si valorizza politicamente: si autovalorizza, è autonomo. Il criterio del
politico moderno non può più fare da riferimento per un uso operaio della crisi perché non ha più
presa su una realtà economica e sociale ormai postfordista e postmoderna. È il capitale piuttosto ad
avvalersi del “criterio del politico”, ad aver bisogno della dialettica amico-nemico, della negazione
da togliere nella sintesi, della crisi da superare con lo sviluppo. Inoltre, come non è da dentro il
capitalismo fordista che il soggetto antagonista si definisce, è nemmeno da dentro il corrispettivo
pensiero borghese che si costituisce un pensiero antagonista, un “pensiero negativo”. Non il
rovesciamento dall’interno, bensì la separazione è la prassi politico-teorica dei nuovi antagonismi:
Si tratta di cogliere il progresso dell’accumulazione capitalistica in forma rovesciata. Ma non c’è
possibilità di farlo se questo concetto di rovesciamento non viene ridotto a quello di separazione. Il
rapporto di capitale è un rapporto di forza che si tende verso l’esistenza separata e indipendente del
suo nemico: il processo di autovalorizzazione operaia, la dinamica del comunismo. L’antagonismo
non è più una forma della dialettica: la sua negazione. Si parla tanto di “pensiero negativo”: bene,
il pensiero negativo è – strappato dalle sue origini borghesi – un elemento fondamentale del punto
di vista operaio. Cominciamo ad usarlo, anziché nella critica dell’ideologia, nella critica
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dell’economia politica.[20]
C’è da chiedersi – e Negri se lo chiede in conclusione di Marx oltre Marx – se il dispositivo della
crisi, fondamentale per manifestare e radicalizzare il dualismo di potere insito nel sistema
capitalistico, e così porre il conflitto, non debba essere abbandonato nel momento in cui si cerca,
attraverso la pratica della separazione, di affermare l’autonomia e l’antagonismo del potere
costituente della nuova soggettività al di fuori della dinamica binaria e, quindi, al di fuori del
legame costitutivo con il nemico di classe. La crisi è l’inizio, rappresenta l’occasione e l’opportunità
per uscire dal sistema capitalistico-borghese. Perché la via d’uscita indicata dalla crisi possa essere
percorsa bisogna, al contempo, che qui e ora sia determinato un fuori, un altrove: Negri schiva così
il problema – l’individuazione e la determinazione del luogo del conflitto – che ha indotto Tronti a
cercare nello Stato le potenzialità di conflitto politico che la fabbrica e poi il partito avevano
perduto. È su questo passaggio, il passaggio dalla logica del “dentro e contro” il capitale a quella
del “contro e fuori” il capitale – tra le quali intercorre lo scarto decisivo fra pensiero della crisi e
autonomia del potere costituente – che si gioca la sfida teorica di Negri sia all’operaismo di Tronti
sia al “pensiero negativo” di Massimo Cacciari: «Su questo passaggio, dentro questo metodo la
soggettività operaia diviene classe rivoluzionaria, classe universale. Su questo passaggio il processo
costitutivo del comunismo si sviluppa con pienezza. E va subito sottolineato che, posta in questa
luce, la logica antagonistica smette di svolgersi su un ritmo binario, smette anche di accettare la
realtà fantasmatica dell’avversario sul suo orizzonte. Cancella la dialettica anche solo come
orizzonte. Rifugge ogni formula binaria»[21]. Ci sarebbe da chiedersi, tuttavia, come farò in
conclusione, se il dispositivo della crisi renda effettivamente possibile il passaggio dalla decisione
di separazione alla decisione di autonomia di una parte rispetto all’altra.
3. Dentro è contro: Cacciari
Nel 1977, in Pensiero negativo e razionalizzazione, sembra quasi che Massimo Cacciari anticipi la
risposta alla critica che Negri gli avrebbe mosso nelle conclusioni di Marx oltre Marx; se – come lo
stesso Negri arriva a sostenere seppure in senso riduttivo – il “pensiero negativo” rappresenta la
“teoria” della crisi, per Cacciari è proprio questa teoria, cioè la “critica della sintesi dialettica”,
l’essenza della crisi. La critica dell’economia politica, dunque, ne è soltanto la conseguenza: «La
crisi della sintesi classica è ben più radicale della crisi della political economy. Essa è altresì la crisi
di ogni “teoria generale” del Politico. La critica della economia politica non si “avvera” nel
Politico, ma nella critica del Politico. Se qui riscontriamo le “assenze” più significative nella stessa
teoria marxiana, a maggior ragione concepire tale critica è oggi finalmente il problema»[22]. La
critica dell’economia politica si basa sul medesimo presupposto di Negri: lo sviluppo come risposta
alla crisi non ne comporta il superamento dialettico; anzi, la sintesi dialettica fallisce come
riequilibrio del sistema: è infatti come squilibrio che si ristabilisce il ciclo capitalista. Tuttavia, per
Cacciari, a differenza di Negri, la crisi non rappresenta l’esplosione della contraddizione
fondamentale intrinseca al sistema capitalistico a cui il potere operaio deve imporre il proprio,
autonomo “uso politico”: potere contro potere, ovvero potenza del sociale contro potere del
politico. Il dispositivo della crisi, piuttosto, è già tutto compreso nella dimensione del Politico
moderno: nulla resta al di fuori di esso e, quindi, nessuna via d’uscita. La decisione che
dall’antagonismo conduce all’autonomia resta dentro la crisi, non ne fuoriesce. La crisi ha sì
travalicato i confini dell’economico, e in particolare l’ambito della “produzione immediata”,
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permeando la totalità del sistema – tanto che il capitale stesso ha imparato a farne un uso politico –
ma appunto per questo la conflittualità che si produce e si diffonde al suo interno non può essere
agita dal di fuori. La critica del Politico, per Cacciari, non rappresenta allora un ambito tra gli altri,
ma denomina la condizione stessa di conflittualità, immanente al sistema. Se il Politico moderno
definisce con Hegel il proprio vertice prospettico nella Forma che supera le contraddizioni e toglie
il conflitto, la critica del Politico mostra l’impossibilità di tale Forma e l’irriducibilità del conflitto –
anzi, rappresentando il Politico la sintesi dialettica per eccellenza, la sua critica diventa critica di
ogni pretesa di sintesi.
La triade filosofica del pensiero negativo è composta, nell’ordine, da Schopenhauer, Kierkegaard e
Nietzsche. Ma è con Nietzsche che si raggiunge l’esito estremo: «La sintesi è divenuta per
Nietzsche soltanto il dominio, la vittoria della più “perfetta” volontà che agisce nella pura
immanenza. Tale sintesi non avrà, quindi, alcun carattere di “valore”, non cercherà alcuna
“giustificazione” nell’universale – sarà, anzi, il rifiuto di ogni valore, sia estetico, che etico, che
religioso»[23]. La “volontà di potenza” nietzschiana rappresenta pertanto la s-valutazione di ogni
valore e l’assunzione consapevole del potere – e non della potenza come invece sostiene Negri[24]
– in quanto capacità di dominio non sul mondo, che comporta ancora la Sintesi dialettica del
Soggetto, bensì nel mondo: “pura immanenza”. Nietzsche è oltre sia rispetto alla Volontà come
“rinuncia” al mondo di Schopenhauer, sia rispetto al Singolo di Kierkegaard che trascende il mondo
nel Religioso. “Potere è integrarsi nel sistema”, scrive Cacciari in Krisis, il libro del 1976 dove si
conclude e si compie la sua ricerca sul pensiero negativo. Ma per integrarsi nel sistema nulla deve
rimanerne fuori, nulla può affermarsi come “autonomo”: neanche il Soggetto. L’“organizzazione”
si afferma sull’autonomia. Perché il suo potere sia pienamente dispiegato, il Soggetto stesso deve
perdere la propria posizione privilegiata, la propria “autonomia”:
Il soggetto pare così ritrovarsi in una situazione paradossale. Da una parte, esso riscopre una sua
funzione attiva, “creativa”, prima impensabile – dall’altra, però, perde qualsiasi posizione
“prospettica”, qualsiasi “privilegio” gnoseologico. Esso pone il sistema nella sua dinamica e
contraddittorietà – ma, insieme, non ne risulta più in alcun modo distinguibile. […] Ma ponendo
tale processo, il soggetto ha perduto ogni auratica “autonomia”, ne è divenuto parte, proprietà. […]
Potere è integrarsi nel sistema.[25]
Non è più pensabile nessuna soggettività al di fuori del sistema; la decisione del soggetto che, alla
Schmitt, deve imporvi la propria sovranità non mostra altro che l’ineffettualità di tale decisione. La
crisi del Politico moderno produce il Sistema di Potere. Ma non solo: essendo le prerogative
soggettive di trasformazione, innovazione, produzione, creazione – di antagonismo stesso – passate
al Sistema, quest’ultimo è caratterizzato da conflitto e crisi: è a questo potere che si partecipa
integrandosi nel sistema. Non è più il soggetto a essere antagonista, lo è il sistema stesso; non c’è
conflitto fuori dal sistema: dentro è contro. E tuttavia, in quanto Soggetto, proprio garantendo la
conflittualità al suo interno, il Sistema la sussume e la domina. Il problema che l’esito del pensiero
negativo lascia aperto è dunque: è possibile una politica rivoluzionaria – o almeno la decisione per
una politica di innovazione all’interno di un Sistema politico la cui organizzazione converte, pur
senza risolverlo e superarlo, il conflitto in conservazione? In che modo una soggettività che non ha
più potere sul sistema, pur partecipando alla sua conflittualità, può decidere e rendere effettuali le
proprie rivendicazioni? Insomma, dal momento che il disincantamento non trasforma il sistema in
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Post/teca
quanto tale, come si può invertire il segno conservatore delle trans-formazioni al suo interno? È
questo il problema di Krisis: «Il problema è: come [il soggetto] vi partecipa?, perché, con quale
scopo? […] In che misura e in che modo [le forme di questa sua “partecipazione”] sono ancora
effettuali? Con quali parametri andrà ora misurata questa effettualità? Il nihilismo radicale può
giungere fino a quel “disincantamento” – ma non può affrontare e tantomeno risolvere queste
domande»[26]. Sono domande “politiche”, queste, che tuttavia non sono rivolte ad alcuna
soggettività politica, vecchia o nuova che sia. Weber ha infatti integrato compiutamente il Soggetto
politico all’interno del sistema, facendone una sua funzione a discapito di ogni sua “qualità”: il
politico diventa “funzionario” e quello dell’intellettuale è un Beruf, una “professione”.
Se il Politico è per coerenza “funzionale” all’amministrazione del sistema; se, parafrasando il
Wittgenstein del Tractatus, fondamentale in Krisis, “su ciò di cui non si può parlare – su ciò che non
è integrato nel sistema – si deve tacere”, come può darsi trasformazione innovatrice entro questi
limiti? Ovvero: come pensare la crisi non in quanto conservazione, oltre quindi lo stesso pensiero
negativo? L’esito sul piano della critica del Politico moderno, del tutto corrispondente a quello di
Krisis sul piano logico-epistemologico, è rappresentato dall’Impolitico, che, in Dialettica e critica
del Politico (1978), rappresenta la “soluzione” nietzschiana alla crisi dello Stato dialettico
hegeliano: «L’impolitico nietzschiano è […] critica del Politico. Che nessun soggetto e nessuna
Verità si esprimano nello Stato non comporta l’utopia del Singolo – ma il problema della grande
Politica. […] Ma proprio perché il Politico non appare più come il Linguaggio capace di pro-durre
nello Stato la Verità del soggetto, questo Stato è trasformabile – quel Politico è continua rivoluzione
delle sue forme»[27]. Il Politico si è compiuto in Hegel, nello Stato dialettico; una volta constatata
la sua crisi irreversibile e l’irresolubilità delle sue contraddizioni (di classe, prima di tutto), non
resta che l’Impolitico come critica di ogni ritorno del Politico in quanto Sintesi e Valore e, di
conseguenza, l’assunzione della trasformabilità dall’interno dello Stato. Sembrerebbe quasi che,
seppur seguendo una linea in origine diversa, Cacciari finisca per convergere, almeno nell’esito
politico, sulle posizioni del Tronti di Sull’autonomia del politico. Eppure, la concezione di Cacciari
dell’autonomia del politico si differenzia per diversi aspetti da quella trontiana, ma principalmente
perché non conferisce alcun primato al Politico, ma rappresenta piuttosto una modalità del discorso
sull’impolitico, come si può evincere da questo passo dell’Introduzione a Pensiero negativo e
razionalizzazione:
Autonomia del Politico e sua ri-definizione (nel senso suddetto del termine) costituiscono, dunque,
il tema obbligato di ogni introduzione al problema storico del Politico. L’“autonomia” di cui “gode”
non conferisce al Politico alcuno statuto prospettico privilegiato. Essa definisce la particolarità delle
funzioni, il “valore” delle funzioni, che esso è chiamato a svolgere nei confronti e a causa delle
limitazioni intrinseche agli altri elementi del sistema. Senza tali limitazioni, e dunque senza tali
elementi, non si darebbe “autonomia” del Politico. Un sistema complesso di “autonomie”, del quale
differenze-conflitti-contraddizioni non sono che “altri nomi”, subentra alla struttura omogenea e
centripeta della Rationalisierung dialettica. Il Politico è-in questo universo.[28]
Il Politico è un elemento tra gli altri dentro il sistema; ogni elemento ha una propria “autonomia” in
conflitto con quella degli altri, che ne limita le pretese egemoniche. In sostanza, il Politico non può
rappresentare il luogo per eccellenza del conflitto per il potere, perché il conflitto è tra le diverse
“autonomie” poste sul medesimo piano, all’interno del sistema: insomma, l’autonomia del politico
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Post/teca
di Cacciari non colloca lo Stato nel luogo centrale che invece vi attribuiva il Politico moderno. Si
potrebbe anzi sostenere che, nella sua crisi, il Politico moderno si sia diviso in due e lo Stato
corrisponde alla sua unica collocazione possibile, quella burocratico-amministrativa, mentre l’altra,
quella del progetto rivoluzionario, è pura Utopia: ou-topia, non-luogo[29]. Quello di cui scrive
Cacciari è dunque lo Stato che risulta dalla crisi del Politico moderno. È l’organizzazione dispiegata
– sulla scorta di Heidegger – dalla Tecnica che si fa politica: organizzazione funzionale non alla
conquista del Potere, bensì a che nessuna forma di potere si possa sottrarre alla trans-formazione e
imporsi così sulle altre. Soltanto all’interno di tale organizzazione della crisi – logicoepistemologica e statuale – si danno autonomie e antagonismi[30].
***
Nel corso degli anni Settanta, in Italia, come risulta dall’itinerario attraverso il pensiero di Tronti,
Cacciari e Negri che ho provato a tracciare, la questione dell’“autonomia del politico” viene
compresa all’interno del dibattito sul primato da attribuire all’organizzazione o all’autonomia –
ovvero sul primato politico da attribuire al luogo del conflitto (Tronti, Cacciari) o alla soggettività
antagonista (Negri). Tuttavia, ciò che hanno in comune ognuna di queste posizioni è il fatto di
essere comprese all’interno di quello che ho chiamato dispositivo della crisi; un dispositivo la cui
influenza, nel pensiero filosofico e politico italiano, travalica l’arco di tempo preso in
considerazione, arrivando fino a oggi. In che cosa consiste il dispositivo della crisi? L’analisi
etimologica del termine “crisi” può fornire indicazioni importanti. In greco, krisis significa: “forza
distintiva, separazione, scissione”; ma anche: “decisione, risoluzione, giudizio, elezione, scelta”. Ne
risulta che: la “scelta” di un aspetto rispetto all’altro che la “separazione” della krisis
“distingue”, il tentativo di “risolvere” la crisi, non rappresenta affatto l’uscita dalla crisi, ma ne
resta all’interno in quanto suo elemento costitutivo. Vengo adesso alla nostra questione. La crisi è la
condizione di possibilità dell’autonomia del politico, il presupposto su cui poggia ogni collocazione
del conflitto. Prima di ogni autonomia del politico – prima cioè dell’individuazione del luogo dove
il conflitto produce soggettivazione politica – c’è una divisione, una separazione in due parti: ecco
la crisi. E tuttavia, il dispositivo della crisi comprende anche la decisione per fuoriuscirne, non
esclusa quella finalizzata all’autonomia e all’autovalorizzazione del soggetto, che vi resta altrettanto
implicata. Ogni decisione pone dunque un’ulteriore separazione e un ulteriore dualismo:
un’ulteriore crisi – e così all’infinito. La soluzione della crisi è pertanto indistinguibile dalla
produzione stessa di crisi. Certo, di contro a tante concezioni tecnocratiche e procedurali della
politica, il dispositivo della crisi contempla il carattere produttivo del conflitto. Ma se, catturato
all’interno del dispositivo della crisi, il conflitto fosse funzionale soltanto alla produzione di crisi e,
quindi, all’assunzione dell’impossibilità di una scelta effettiva, di una decisione risolutrice?
Bisognerebbe forse svincolare il conflitto dalla crisi, cioè porre radicalmente in questione l’idea –
maturata in Italia proprio negli autori e nel periodo che ho trattato, ma oggi più che mai d’attualità –
che una politica in quanto conflitto sia inconcepibile senza presupporre la crisi.
[1] Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 2006, pp. 114-5.
[2] Ivi, p. 262.
[3] Ivi, p. 219.
[4] Di tal genere sono le questioni che solleva Roberto Esposito nella sua interpretazione di Operai
e capitale: porre la classe operaia al contempo “dentro e contro” il capitale – nei termini di
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Post/teca
Esposito: tenere insieme “immanenza e conflitto” –, nel passaggio dal piano economico a quello
politico, comporta un’aporia e una contraddizione che ricade sulla sostenibilità filosofico-politica
della stessa classe operaia in quanto soggetto antagonista. Cfr. R. Esposito, Pensiero vivente,
Einaudi, Torino 2010, pp. 207-12.
[5] «Quando ci si chiede perché solo dal punto di vista operaio si può cogliere il segreto del
capitalismo, ecco l’unica risposta possibile: perché la classe operaia è il segreto del capitalismo»
Tronti, Operai e capitale, cit., p. 230.
[6] Ivi, p. 279.
[7] Cfr. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009, p. 7.
[8] Tronti tematizza compiutamente tale periodizzazione in La politica al tramonto, in cui colloca le
lotte degli anni Sessanta nella fase crepuscolare dell’Occidente, che proprio allora si compie
definitivamente: cfr. Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, Torino 1998.
[9] Oggi, infatti, Tronti scrive: «La grande fabbrica è il contrario dei non-luoghi, che oggi
configurano la consistenza, o meglio l’inconsistenza, del post-moderno. La grande fabbrica è il
classico del moderno. La concentrazione dei lavoratori nel luogo di lavoro determinava le masse,
senza fare massa» Tronti, Noi operaisti, cit., pp. 94-5.
[10] Ancora in Noi operaisti: «L’amico-nemico operai-capitale non era un’invenzione filosoficoletteraria. Era un dato di fatto economico-sociale. Stava lì, sotto gli occhi di tutti e nessuno lo
vedeva. O meglio, si vedeva con gli occhiali del padronato o con i binocoli del sindacato, ma con
gli occhi della politica, e del pensiero politico, non si vedeva niente, perché si guardava altrove.
Ecco, l’operaismo mise a fuoco un’immagine, accese una lampada in un interno di fabbrica: e
fotografò» Ivi, p. 39.
[11] C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P.
Schiera, il Mulino, Bologna 1972, p. 112.
[12] Tronti, Operai e capitale, cit., p. 314.
[13] A. Negri, Proletari e Stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico
(1976), in I libri del rogo, DeriveApprodi, Roma 2006, p. 144-5.
[14] Cfr. A. Negri, 1997: vent’anni dopo. Prefazione alla seconda edizione, in I libri del rogo, cit.,
p. 7.
[15] M. Tronti, Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, Milano 1977, p. 20.
[16] Per un confronto tra Tronti e Negri, cfr. A. Toscano, Chronicles of Insurrection: Tronti, Negri
and the Subject of Antagonism, in L. Chiesa e A. Toscano (a cura di), The Italian Difference.
Between Nihilism and Biopolitics, re.press, Melbourne 2009, pp. 109-28.
[17] A. Negri, Proletari e Stato, cit., p. 166.
[18] A. Negri, Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale, in I
libri del rogo, cit., pp. 256-7.
[19] Negri, Marx oltre Marx (1979), manifestolibri, Roma 1998, p. 200.
[20] Ivi, p. 250.
[21] Ivi, pp. 251-2.
[22] M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia 1977, p. 12.
[23] Ivi, pp. 172-3.
[24] A differenza di Cacciari, Negri pone Nietzsche sulla linea spinoziana della potenza e del potere
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costituente. Tale divergenza interpretativa è in parte giustificata dall’ambivalenza e ambiguità dello
stesso termine tedesco Macht, che può essere tradotto in italiano sia con “potere” che con
“potenza”.
[25] Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein,
Feltrinelli, Milano 1976, p. 66.
[26] Ivi, p. 63.
[27] Cacciari, Dialettica e critica del Politico. Saggio su Hegel, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 73-4.
[28] Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, cit., p. 11.
[29] Cfr. Cacciari, Progetto, in “Laboratorio politico”, anno I, n. 2, 1981, pp. 88-119.
[30] Per un confronto tra Cacciari e Negri a partire da Krisis, cfr. M. Mandarini, Beyond Nihilism:
Notes towards a Critique of Left-heideggerianism in Italian Philosophy of the 1970s, in Chiesa e
Toscano (a cura di), The Italian Difference, cit., pp. 55-79.
Dario Gentili (Napoli, 1975) è stato borsista post-dottorato in Filosofia e storia delle idee presso
l’Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM). Su questi temi, di recente ha pubblicato: Italian
Theory. Dall’operaismo alla biopolitica (Il Mulino, 2012). Collabora con la cattedra di Filosofia
Morale dell’Università di Roma Tre.
fonte: http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/02/27/una-crisiitaliana-alla-radice-della-teoria-dellautonomia-del-politico/
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Krugman: Un voto contro l’austerità
di Paul Krugman, International Herald Tribune, 27 febbraio 2013
Due mesi fa, quando Mario Monti si è dimesso dalla carica di Capo del Governo Italiano, il giornale
“The Economist” ha espresso l’opinione che la “prossima campagna elettorale sarà soprattutto un
test sulla maturità e sul realismo degli elettori italiani”. Presumibilmente questa azione matura e
realistica avrebbe dovuto portare al ritorno di Monti, che è stato essenzialmente imposto all’Italia
dai suoi creditori, al ruolo di Capo del Governo, questa volta con un reale mandato popolare.
Non sembra che le cose siano andate per questo verso. Il partito di Monti é arrivato quarto, non solo
arrivando dietro l’essenzialmente comico Silvio Berlusconi, ma anche dietro al vero comico Beppe
Grillo, la cui mancanza di una piattaforma coerente non gli ha impedito di diventare una forza
politica poderosa.
Si è aperta una prospettiva fuori dall’ordinario, che ha diffuso nel mondo molti commenti sulla
cultura politica italiana. Ma senza voler difendere le politiche del bunga bunga, lasciatemi porre la
domanda più ovvia. Che bene ha esattamente fatto il realismo maturo all’Italia ed all’Europa intera?
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Post/teca
In effetti Monti è stato il proconsole insediato dalla Germania per realizzare l’austerità fiscale in una
economia già in difficoltà; la volontà di perseguirla senza limiti è ciò che i circoli politici europei
definiscono come rispettabilità. Posizione che sarebbe stata corretta, se queste politiche avessero
potuto funzionare, cosa che non è avvenuta. E, ben lungi dal sembrare realisti e maturi, coloro che
invocano ancora l’austerità appaiono petulanti e fallimentari.
Consideriamo come avrebbero dovuto funzionare le cose fino a questo punto. Quando l’Europa si è
infatuata per l’austerità, i membri della Commissione Europea hanno respinto le preoccupazioni che
il taglio drastico della spesa e l’aumento delle tasse avrebbe approfondito la depressione di
economie già in difficoltà. Al contrario, essi hanno insistito che queste politiche avrebbero
rinforzato l’economia “ispirando la fiducia”.
Ma la fata della fiducia non si è fatta vedere. Le nazioni a cui è stata imposta una dura austerità
stanno attraversando profonde crisi economiche; maggiore l’austerità, maggiore la depressione.
Questa relazione è stata così forte che anche il Fondo Monetario Internazionale, in un forte mea
culpa, ha ammesso che è stato sottovalutato il danno che l’austerità avrebbe prodotto. Nel
frattempo, l’austerità non ha neppure raggiunto l’obiettivo minimo di ridurre il costo del debito. Al
contrario, i paesi che hanno intrapreso politiche di dura austerità hanno visto aumentare il rapporto
del debito pubblico sul Prodotto Interno Lordo, poiché la contrazione delle loro economie ha
sopravanzato ogni riduzione degli interessi sul debito.
E poiché le politiche di austerità non sono state compensate da una politica di espansione perseguita
altrove, l’economia europea nel suo insieme, che non ha mai recuperato dal crollo del 2008-2009, è
caduta in una recessione con tassi di disoccupazione in rapida crescita. L’unica buona notizia è che
il mercato dei interessi sul debito pubblico si è calmato, largamente grazie alla proclamata volontà
della Banca Centrale europea di comprare debito pubblico qualora si fosse reso necessario. Come
risultato, il crollo finanziario che avrebbe distrutto l’euro è stato sventato. Ma quale freddo conforto
per i milioni di europei che hanno nel frattempo perso il loro lavoro e nutrono scarse speranze di
trovarne uno nuovo.
Dato tutto questo, ci si sarebbe aspettati un qualche ripensamento da parte dei gruppi dirigenti
europei, qualche sprazzo di flessibilità. Invece i principali responsabili di questa politica sono
diventati ancor più insistenti nel dire che l’austerità è l’unica via perseguibile.
Perciò nel gennaio 2011 Olli Rehn, vicepresidente della Commissione Europea, ha lodato i
programmi di austerità di Grecia, Spagna e Portogallo e predetto che il programma Greco in
particolare avrebbe dato “risultati duraturi”. Da allora i tassi di disoccupazione si sono impennati in
tutti e tre i paesi, ma nel dicembre del 2012, il Sig. Rehn ha pubblicato un editoriale dal titolo
“L’Europa deve proseguire con le politiche di austerità” . E’ la risposta del Sig. Rehn a coloro che
mostrano che gli effetti negativi dell’austerità sono stati molto più ampi di quanto atteso è stata di
inviare una lettera ai Ministri delle Finanze dei Paesi EU e al FMI in cui dichiara che queste
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Post/teca
segnalazioni sono pericolose perché rischiano di “erodere la fiducia”.
Quest’altra considerazione ci porta all’Italia, una nazione che, a causa di tutte le sue disfunzioni, ha
subito una politica di sostanziale austerità, e visto la sua economia contrarsi rapidamente come
risultato di queste scelte.
Gli osservatori esteri sono terrorizzati dal voto italiano, ed a ragione; anche se l’incubo di un ritorno
di Berlusconi al potere non si è materializzato, il forte risultato di Grillo o di entrambi potrebbe
destabilizzare non solo l’Italia, ma l’Europa intera. Ma dovranno ricordarsi che l’Italia non è unica:
politici discutibili potrebbero avere successo in tutta Europa meridionale. E la ragione per cui
questo sta avvenendo é che la rispettabile Europa non vuole ammettere che le politiche che ha
imposto ai suoi debitori sono un fallimento disastroso. Se non saranno cambiate, il voto italiano sarà
solo un assaggio di una ulteriore pericolosa radicalizzazione.
(27 febbraio 2013)
fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/krugman-commenta-le-elezioni-austerity-all
%E2%80%99italiana/
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In vino veritas
27 febbraio 2013
Dan Savage è un giornalista statunitense nato nel 1964. Scrive una rubrica settimanale di consigli
sessuali e di coppia. Il suo linguaggio è diretto, molto esplicito, spesso umoristico. Nel corso degli
anni ha polemizzato con i conservatori di destra e l’establishment gay di sinistra. Ha lavorato per il
teatro, ha scritto libri, collabora con Mtv, e la sua rubrica, Savage love, è pubblicata in tutto il
mondo e in Italia sul sito di Internazionale. Con il marito, Terry Miller, ha dato vita al progetto It
gets better per aiutare gli adolescenti gay vittime di bullismo.
Ti scrivo a proposito di un amico. Uno che sembra etero in tutto e per tutto. In più di un’occasione,
però, gli è capitato di ubriacarsi e cercare di rimorchiare un travestito o una persona che avrebbe
tranquillamente potuto esserlo. Una volta in discoteca è stato abbordato da una ragazza
dall’aspetto veramente maschile, che subito dopo gli ha fatto un pompino. Il mio amico, ubriaco
com’era, le ha infilato una mano nei pantaloni e ha trovato una fica solo dopo che quella ha
cominciato a succhiarglielo.
Durante una gita a Las Vegas, sempre da ubriaco, ha rimorchiato una che, mi hanno detto,
sembrava “Kevin Garnett con la parrucca” ed era chiaramente un uomo. Ha cercato di portarselo
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Post/teca
in albergo, ma gli amici l’hanno fatto desistere. Ora mi è appena arrivato un messaggio da un
amico che sta facendo con lui un viaggio in Europa. Dice che il nostro ha appena tentato di rifarlo
con un altro travestito molto maschile. E di nuovo il mio amico l’ha fermato prima che facesse cose
di cui potrebbe pentirsi.
Capirei se lo facesse con dei travestiti che sembrano donne per davvero. È facile fregare uno da
ubriaco. Ma a giudicare dalle situazioni a cui ho assistito con i miei occhi, e da quelle che mi
hanno raccontato, quello che vuole il nostro amico sono i travestiti. Non è che nasconde qualche
tendenza gay o bisessuale? Non l’ho mai visto comportarsi così da sobrio. O forse regge poco
l’alcol?
–Cautious Lad Observing Developments
In inglese, CLOD, esiste l’espressione beer goggles, letteralmente “occhiali da birra”. È quando
qualcuno è troppo sbronzo per rendersi conto che per sbaglio ha rimorchiato – o scopato a sangue –
una persona che normalmente non troverebbe attraente. Io però non penso che sia un caso se il tuo
amico si ubriaca a ripetizione e a ripetizione cerca un particolare di tipo di persona.
Una volta? Ok, può essere un incidente. Due? Chiamiamola coincidenza. Ma tre volte, CLOD?
Contando solo quelle di cui sei a conoscenza? Scusami tanto, ma il tuo amico quelle persone non le
abborda perché è ubriaco. Si ubriaca per poterle abbordare. Prima di proseguire, CLOD, permettimi
una parolina sul termine che hai scelto per descrivere la tipologia che cerca il tuo amico: travestito.
Ecco, a me sa tanto che quella parola non significa quello che pensi tu.
Una transgender non è un travestito, e un travestito non è una transgender. Una trans è una persona
che alla nascita “si è vista assegnare il sesso coercitivamente”, come dicono su Tumblr, ma che ora
si considera una donna e vive come una donna. Una transgender può essersi o meno sottoposta a un
cosiddetto intervento di riassegnazione sessuale, il che ovviamente significa che una transgender
può avere il cazzo o la fica. “Travestito” è un termine un po’ arcaico e dispregiativo, e oggi in
inglese si usa molto di più crossdresser.
Ora, io non so che tipo di partner sessuale cerchi il tuo amico, CLOD, ma a giudicare dal
curriculum dei suoi ultimi rimorchi (“una ragazza con un aspetto veramente maschile”, “Kevin
Garnett in parrucca”, “un altro travestito molto maschile”), è possibile che non gli interessino né le
trans né i crossdresser.
Ho fatto la drag per quasi dieci anni, e ai nostri spettacoli si aggirava sempre una tipologia di
maschio precisa. Anche questi tizi sembravano in tutto e per tutto etero. Solo che non gli
interessavano le donne, e non gli interessavano i maschi che potevano sembrare donne, e nemmeno
le trans. Gli interessavano delle “ragazze” che erano palesemente dei travestiti. Gli interessava
gente come me: due metri e fischia tacchi inclusi, tettone giganti, 66 centimetri di girovita (grazie,
bustino!) e microvestito in latex. Ero bellina assai – poi vi twitto qualche foto per dimostrarvelo –
ma non sembravo una donna, né cis né trans, sembravo un gran bel bestione di drag queen (il mio
nome di battaglia? Helvetica Bold).
Le drag che bazzicavo avevano un nome, per i maschi che ci volevano scopare: “cacciamutandine”.
Curiosa scelta terminologica, considerato che nessuna di noi le portava, le mutandine (le mutandine
le portano le donne cis e trans, CLOD; le drag queen portano sospensori su calzamaglie). All’epoca
non sapevo che per definire i maschi a cui piacevamo esisteva anche un parolone:
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Post/teca
ginandromorfofili, ovvero “uomini che amano maschi a forma di femmine”.
Ad alcuni ginandromorfofili piacciono i crossdresser, ad altri le drag queen, e altri ancora sono
attratti dalle trans. Se alcuni di loro possono desiderare partner che potrebbero passare per donne,
molti ginandromorfofili no. Vogliono che il mix sia palese.
Se a uno dei ginandromorfofili che venivano dietro a me e alle mie amiche drag avessi dato la
possibilità di scegliere tra una “donna vera” – cis o trans – e un maschio che sembrava “Kevin
Garnett in parrucca”, lui avrebbe scelto tutta la vita Kevin Garnett.
Ma torniamo al tuo amico cacciamutandine, CLOD. Sono praticamente certo che il motivo per cui
non l’hai mai visto “comportarsi così da sobrio” è che l’alcol gli dà il coraggio che gli serve per
rimorchiare “Kevin Garnett in parrucca”, e l’alibi di cui ha bisogno dopo. Il mio consiglio?
Piantatela di mettergli l’eterosessualità tra le ruote e fategli capire che lo accettate così com’è.
Magari anche lui troverà il coraggio di accettarsi prima che gli parta il fegato.
Sono una ragazza etero di 18 anni all’ultimo anno di superiori, e sono ancora vergine. Il che mi va
benissimo. In autunno andrò all’università a circa cinquemila chilometri da casa, e mi chiedo se
non sia il caso di cominciare a usare qualche metodo contraccettivo. A laurearmi ci metterò sei
anni, e nel corso di questi sei anni immagino potrebbe venirmi voglia di fare sesso.
Secondo te è una sciocchezza andare dal dottore e farmi mettere un anticoncezionale sottocutaneo
o la spirale (mi sa che preferirei un metodo di contraccezione a lungo termine)? Del dottore che ho
qui mi fido. Appena ho compiuto 14 anni mi ha dato una valanga di informazioni sui metodi
contraccettivi e come procurarmeli, per cui mi sentirei tranquilla con lui. Dimmi per favore se mi
sto scervellando troppo e se secondo te è il caso di spuntare la contraccezione dalla lista delle cose
da fare prima dell’università.
–Thinking I Might Encounter Love Yearnings
“Non è affatto una ‘sciocchezza’ riflettere sulla contraccezione quando si è ancora vergini”, dice la
dottoressa Unjali Malhotra, che dirige gli Options for sexual health della British Columbia, cioè
tutti i consultori della provincia canadese. “Anzi, è molto meglio scegliersi il metodo giusto prima
ancora di cominciare a fare sesso, per essere certi che la scelta ci soddisfi senza aspettare di averne
seriamente bisogno”.
La dottoressa Malhotra è anche favorevole – seriamente favorevole – alla tua preferenza per i
metodi a lungo termine.
“I contraccettivi orali, pur essendo molto popolari”, dice la dottoressa Malhotra, “presentano un
tasso di insuccesso medio del 9 percento”. Una donna può essere tradita dalla pillola se si scorda di
prenderla – cosa che capita fin troppo spesso – ma non può certo dimenticarsi di prendere la spirale
o l’impianto sottocutaneo. Ecco perché le spirali a rilascio di progesterone hanno un tasso di
insuccesso dello 0,2 percento, quelle in rame dello 0,8 percento, e gli impianti sottocutanei dello
0,05 percento.
“TIMELY può scegliere tra spirale in rame non ormonale, spirale a rilascio di progesterone e
impianto sottocutaneo a rilascio di progesterone”, dice la dottoressa Malhotra. “Quanto alla durata,
si va dai tre anni dell’impianto ai 5 o 10 della spirale. Ciascuna opzione ha i suoi vantaggi, e ne
potrà parlare con il suo medico. Infine, nonostante le leggende che vorrebbero il contrario, la spirale
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Post/teca
presenta pochissimi rischi, e si può rimuovere e rimanere incinta, se si vuole, in qualsiasi
momento”.
Nessuna di queste opzioni, TIMELY, ti proteggerà però dalle malattie a trasmissione sessuale,
perciò il preservativo usalo lo stesso.
(Traduzione di Matteo Colombo)
fonte: http://www.internazionale.it/opinioni/dan-savage/2013/02/27/in-vino-veritas
%E2%80%A8%E2%80%A8/
-----------------------microsatira ha rebloggato pellerossa
pellerossa:
L’Italia è un paese spaccato in tre. Chi vota con la testa, chi vota con la pancia e chi vota con il
culo.
Poi c’è anche la 4a categoria di coloro che il giorno del voto restano a casa, indecisi se grattarsi
testa, pancia o culo.
---------------------------selene ha rebloggato kalasum
“La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a
qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi, la solitudine non è un albero in mezzo a una
pianura dove ci sia solo lui, è la distanza tra la linfa profonda e la corteccia, tra la foglia e la
radice.”
—
José Saramago (via mycolorbook)
Fonte: mycolorbook
-------------------------3nding ha rebloggato curiositasmundi
“Ho solo bisogno di silenzio, tanto ho parlato troppo è arrivato il tempo di tacere, di
raccogliere i pensieri allegri, tristi, dolci, amari, ce ne sono tanti dentro ognuno di noi. Gli
amici veri, pochi, uno? sanno ascoltare anche il silenzio, sanno aspettare, capire. Chi di parole
da me ne ha avute tante e non ne vuole più, ha bisogno, come me, di silenzio.”
—
Alda Merini (via apertevirgolette)
Fonte: apertevirgolette
-----------------------
Quello che Grillo non ha
185
Post/teca
capito del M5S (e
viceversa)
Pubblicato: 28 febbraio 2013
Faccio una premessa personale: quello che sta succedendo nel M5S non mi piace affatto, soprattutto e
per certi toni da parte di molti militanti ed eletti nei confronti di Beppe Grillo.
Io – che di certo non sono annoverato tra i suoi fan – ho sempre censurato i toni violenti delle sue
arringhe e posizioni, la gestione monocratica e totalitaria del movimento e la banalizzazione di concetti
importanti, non posso che censurare altrettanto i toni e le frasi verso di lui.
Mi verrebbe da chiedere, semplificando, dove erano questi commenti e queste contestazioni sino a ieri,
dov’era questo confronto, dov’erano queste posizioni “responsabili” quando nelle piazze e per tutto il web
dicevate (nella forma e nella sostanza) ben altro.
Invece mi sa che l’unico coerente con se stesso e con quello che ha detto sino a ieri è proprio (e solo)
Grillo.
Chapeau.
Cosa non ha compreso Grillo del suo movimento?
Intanto – prendendo a prestito un commento di Mario Calabresi – che nell’autostrada della politica, in cui
molti vogliono entrare ma in cui non è semplice individuare gli ingressi, lui ha fatto da casello in bella
vista, e attraverso quel casello è entrato di tutto.
Pensava di arginare i problemi scegliendo persone senza formazione e senza esperienza: peccato di
superbia.
Non ha compreso che cavalcare l’onda della rabbia, alimentarne vorticosamente la foga, significava
prendere dentro tutto e il contrario di tutto – ruolo e funzione di un parlamento, non di un singolo partito
politico.
I voti di Grillo non sono inventati, non sono persone spuntate dal cilindro di un mago, ma sono persone
che votavano tutti gli altri partiti: c’è il piccolo imprenditore, l’artigiano, il contadino, il disoccupato,
l’operaio, lo studente, la casalinga… di tutta Italia.
E queste persone, che le puoi anche mettere insieme per uno scopo e con un obiettivo, e usi la rabbia e la
demagogia come collante, e usi una comunicazione violenta, settaria e “tossica” per farle unire, se poi
raggiungi l’obiettivo, e togli lo scopo, tornano ad essere ciò che erano, ed a sentire la propria sensibilità
sociale, regionale, culturale e politica…
Sottovalutare – o non voler vedere – queste cose, significa confondere lo spot che fai con la realtà; in
estrema sintesi significa credere allo spot che hai fatto, ignorando il prodotto che hai venduto.
In generale Grillo non ha tenuto conto che gli eletti non hanno vincolo di mandato, che lui può continuare
a fare il “leader con le mani libere” e parlare per proclami dal suo blog, mentre loro devono lavorare alla
Camera e al Senato, prendere decisioni concrete e non possono scegliere di volta in volta, secondo
l’umore, con chi parlare e confrontarsi e con chi no.
Grillo confonde oggi tra “li ho messi lì io” e “li abbiamo eletti noi”: e questo fa si che coloro che si
vorranno svincolare propenderanno per la seconda ipotesi, e gli altri per la prima… e hai voglia a espellerli
tutti…
Lui gli ha detto: uno vale uno, io sono solo il vostro megafono… e loro gli hanno creduto (e anche se non
lo hanno fatto, adesso lo usano strumentalmente).
Da ultimo Grillo non ha tenuto conto che il jolly del “senso di responsabilità” è la carta più usata dal 1948
(ma anche prima) per fare scelte diverse da quelle di partito, per cambiare casacca e schieramento…
anche solo semplicemente “tornando” all’area di appartenenza, da parlamentare, usando il voto del 25
186
Post/teca
febbraio come un semplice taxi.
Cosa non ha capito il M5S di Grillo?
Che lui non scherzava, non “esagerava” per ragioni di opportunità, lui veramente “ha mandato i suoi” lì,
tenendosi le mani libere.
Lui pensava – come tutti o quasi – che davvero il Pd avesse le maggioranze, e si poteva godere più o
meno cinque anni facendo “casino” in parlamento e continuando nello show, denunciando ogni cosa non
gli fosse andata bene, e accusando “gli altri” di fare il male del paese.
Lui questa patata bollente non la voleva e non la vuole, perché o è lui maggioranza assoluta o non c’è
maggioranza politica che può sostenere.
Perché lui sa che governare è una cosa seria, che richiede compromessi, ascolto, dialogo, confronto,
limare, correggere… tutte azioni che non gli appartengono culturalmente, e tutte cose che vanno contro lo
spot che ha urlato in tutte le piazze e a milioni di persone.
Come potrà domani dire “loro sono altro, sono corrotti e devono andare a casa” se di quella maggioranza
comincia in qualsiasi forma a fare parte?
E questo vicolo cieco non è chiaro al movimento, che non comprende che è l’unica chance che Grillo ha
per mantenere in piedi la macchina del movimento, gestirla, e semmai farla anche crescere… qualsiasi
deviazione da questo percorso obbligato non può che far perdere consensi.
Come lo spieghi a quei leghisti e quegli elettori di centrodestra che appoggi il Pd?
Peggio, significa essere obbligato a cambiare linguaggio, toni, contenuti, e parlare di mediazione, di
confronto, di dialettica politica, e spiegare perché accettare certe cariche non è far parte della casta.
Significherebbe dimezzare pubblico, voti, e forza – e questo lui e il suo blog non possono permetterselo.
Ora, non è una gara tra chi è più forte tra lui e il suo movimento, né un braccio di ferro a “vi espello, vi
tolgo simbolo, meetup, piattaforma e blog” da una parte e “me ne faccio io uno per i fatti miei” dall’altra…
Qui si sta verificando esattamente quello che – lucidamente e senza attaccare pregiudizialmente nessuno
– avevo cercato di dire qualche mese fa – divenendo per qualcuno tra i peggiori nemici.
La politica tende alla “normalizzazione” ed alla “parlamentarizzazione delle istanze sociali” – e nessuna
protesta di piazza che entra in quelle istituzioni può restare fuori da questa dialettica – non ne è restata
fuori nemmeno nei periodi più bui in cui qualcuno disse “Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un
bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti.”
Fare politica è una cosa seria, e governare è ancora più serio.
Far parte di un parlamento in un momento complesso e delicato di un paese lacerato, disunito,
arrabbiato, stanco, è ancora più difficile.
Questo il senso di quando scrivevo (prima del voto, sarebbe troppo facile affermarlo oggi)
L’Italia, il mio paese, la mia gente, ha bisogno di serenità, e non di arruffoni o arruffapopolo.
L’Italia, il mio paese, la mia gente, ha bisogno di persone serie e di programmi fattibili, e non di promesse
illusorie che nessuno può realizzare.
L’Italia, il mio paese, la mia gente, ha bisogno anche di cambiare complessivamente, qualitativamente e
generazionalmente, la sua classe dirigente, ma questo lo potrà fare solo cambiando se stessa, e
scegliendo davvero, e non certo affidandosi al primo che ti lusinga facendo leva sugli istinti peggiori.
L’Italia, il mio paese, la mia gente, non ha bisogno di tsunami (abbiamo già le nostre catastrofi naturali su
cui sarebbe bene non scherzare) né di vaffanculo, né di odio di parte, ma di una nuova base di
riconciliazione e unità.
L’Italia, il mio paese, la mia gente, ha bisogno di un’idea alta – che oggi non c’è – in cui mettere le
proprie energie migliori, come fu nel dopoguerra… e come accade sempre nei paesi che riconoscono una
propria identità senza divisioni… penso all’America del new deal, penso alla Germania post bellica e a
quella della riunificazione, alla Francia del dopo Vichy, alla Spagna post franchista…
Ma questo non lo fa nessun paese che si fa incitare da un urlatore, che non costruisce unendo, che cerca
un capo nelle cui mani essere massa…
fonte: http://micheledisalvo.com/2013/02/28/quello-che-grillo-non-ha-capito-del-m5s-e-viceversa/
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Post/teca
microsatira
Nelle merendine di Banderas trovate tracce del cavallo di Zorro.
sergej: questa, tra qualche settimana sarà difficile da capire... :-)
---------------------grandecapoestiqaatsi
Grande, la deputata più piccola ha 25 anni e quasi due lauree
ROMA - «Faremo del nostro meglio per non deludervi, tutto qua». Semplice e quasi spiazzante,
Marta Grande concludeva così, nell’aprile scorso, un comizio 5 Stelle a Civitavecchia. Poco prima
aveva inneggiato alla «rivoluzione culturale», spiegando ai «civitavecchiesi» che «non dobbiamo
aspettare che venga un principe a risolvere i nostri problemi: ce li dobbiamo risolvere da noi».
Pochi giorni dopo, il palcoscenico cambia ed ecco la più giovane deputata del Movimento 5 Stelle
sbarcare in Parlamento, si dice addirittura come possibile presidente della Camera (con paragoni
immediati, e non beneauguranti, con la leghista Irene Pivetti). Sbarco preceduto dall’apparizione
sulle tv nazionali, con la stessa semplicità di sempre. A Lilli Gruber che chiede insistentemente di
«governabilità», «fiducia», «programmi», lei risponde un po’ imbarazzata, ripetendo più volte
come un mantra: «Noi pensiamo alle idee».
Facile spararle addosso, naturalmente, come è puntualmente avvenuto sui social media, nuova
tribuna di opinioni e talvolta di insulti a mano libera. Del resto già accadde con Marianna Madia,
altra giovane deputata, indicata con uno slancio vitalistico da Walter Veltroni come capolista nel
Lazio: esordì rivendicando la sua «straordinaria inesperienza», con una gaffe e un’ingenuità che non
le fu perdonata (nonostante un impegno parlamentare successivo che le è valso la riconferma).
La Grande, come la Madia, porta in Parlamento la sua straordinaria inesperienza, ma anche un
curriculum di tutto rispetto. Laureata nel 2009 in Lingue e commercio internazionale in
Alabama (a Huntsville), è tornata in Italia nel 2010, ha preso un master in Studi europei e ora
sta prendendo la seconda laurea, in Relazioni internazionali, a Roma Tre. Le manca solo la
discussione della tesi. Nel frattempo è stata all’università di Pechino, per un corso in relazioni
internazionali, ha fatto la traduttrice e l’interprete. Infine, la volontaria, nel settore marketing, a
Greenpeace per il referendum sul nucleare.
L’avventura con il Movimento è recente, risale a un annetto fa: «Ho letto il blog di Grillo e ho
cominciato a interessarmi. Ho visto troppi colleghi costretti ad andare all’estero per lavorare,
bisognava fare qualcosa». La sua iscrizione al «meetup» di Civitavecchia risale al 4 giugno 2012. Si
impegna sul tema arsenico e acqua pubblica, uno dei temi ricorrenti degli esponenti a 5 Stelle. La
stella che preferisce, tra le cinque (acqua, ambiente, trasporti, connettività e sviluppo) è l’ambiente.
Nel video di presentazione propone la riduzione del traffico (senza troppi dettagli) e la tutela
dei parchi. Alle parlamentarie (le primarie) del M5S risulta la seconda più votata della
circoscrizione Lazio 1: la votano in 335, non una massa sterminata, ma quanto basta.
Il giorno del trionfo grillino appare ovunque in tv. Evidentemente Grillo si fida di lei, nonostante
l’inesperienza che non le viene perdonata da ironie e strali. Capelli rossi a caschetto, viso efebico,
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Post/teca
sorriso pulito, ricorda vagamente l’attrice Carey Mulligan. Raggiunta al cellulare, non vuole
rilasciare interviste e del resto l’ordine di scuderia, inviato ieri a tutti i neo parlamentari, è di non
parlare con la stampa per almeno 15 giorni. Difficile che venga rispettato fino in fondo e da tutti,
ma lei si ritrae: «Presidente della Camera? Non commento». Respinge ogni domanda «personale»:
«Non è interessante sapere delle cose su di noi, conta quello che faremo». Che le idee camminino
sulle gambe delle persone, e che quindi sia interessante conoscere la loro storia e la loro vita, non le
sfugge: «Ma non è il momento».
I neo eletti hanno festeggiato in un bar trendy della Capitale: 200 presenti, frittelle,
amatriciana e birra «bersaniana», per un conto scontato da 2.750 a 1.841 euro, dopo le proteste
(e i cronisti accusati di aver mangiato a sbafo). Ma lei alla festa non c’era. Il giorno dopo c’era da
svegliarsi presto e cominciare a lavorare. Già, perché Marta non ha una storia politica da
vantare nel curriculum, non dichiara l’orientamento partitico precedente («il voto è segreto»),
ma ha una gran voglia di fare: «Non abbiamo paura, vogliamo lavorare e fare bene». Tutto qua.
Alessandro Trocino
-----------------------noncecrisinelmercatodellebugieha rebloggato rollotommasi
“Ce l’hai nel culo. E non vedi l’ora di disincularti. Ma l’inculata è semplice, mentre la
disinculata è molto più difficile. La seconda legge della termodinamica guarda con sommo
sfavore la disinculata. La gravità dell’inculata aumenta se non interviene un elemento
disinculante da fuori. Tu, coglione, non puoi farci niente. E quel che è peggio è che non ti rendi
conto della gravità della tua inculata.”
—
— Il mondo dopo la fine del mondo - Nick
Harkaway
(via 24shots)
---------------------------cosipergioco
ThyssenKrupp
“TORINO - Antonio, ti avevano proprio ammazzato. Roberto, eri morto per niente e non per caso.
Angelo, è come se ti avessero accoltellato. Bruno, ti accadde quello che succede quando ti sparano
in testa. Rocco, la tua vita non se ne andò per disgrazia, ma per colpa di qualcuno. Rosario,
sapevano che potevi lasciarci la pelle e non fecero nulla. Giuseppe, tu che sei stato l’ultimo, e hai
resistito dentro una paurosa, infinita agonia di venticinque giorni, anche tu hai detto addio alla vita
per esatta, precisa, lucida follia di chi forse poteva, doveva evitarlo ma non lo evitò. Ragazzi, ora
lo dice anche un Tribunale: vi hanno assassinato, non siete solo morti di lavoro sbagliato.
Le sette facce ci guardano, e sembrano ancora più piccole dentro le fotografie sui giornali come al
cimitero, minuscoli visi sconfitti, ma ieri sera vincitori.Perché succede una volta ogni milione di
anni che i sommersi possano vendicarsi sui salvati, e riescano a ottenere giustizia. Una volta
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Post/teca
ogni milione di anni, i morti si prendono la rivincita sui vivi. E non lo fanno solo a nome loro,
che già ce ne sarebbe d’avanzo: lo fanno anche per tutti gli altri morti caduti dai ponteggi,
soffocati nei silos, precipitati nelle fornaci, massacrati dal lavoro nero che, curiosamente, cambia
il colore alla morte, perché la morte dei lavoratori senza diritto si chiama invece morte bianca.
Una volta ogni milione di anni, i piccoli operai scomparsi nella voragine, spazzati via dal fuoco
come cenere, cancellati dalla memoria comune che ormai considera solo le cose, e il loro valore
materiale, e il loro prezzo sul mercato, e mai il costo umano che è stato necessario per produrle e
per metterle in vetrina, una volta ogni milione di anni i piccoli operai scomparsi dall’orizzonte del
lavoro e delle loro case, delle loro famiglie, ottengono quello che è semplicemente giusto. Non solo
dovuto. Giusto.
(…)
Dalla trappola non fecero in tempo a scappare, ma qualcuno ha lavorato per loro, ha ascoltato le
storie senza più voce, ha percorso il sentiero della colpa e della responsabilità, infine ha detto che
sì, i tedeschi e i loro sottoposti sapevano, e corsero il rischio, e dunque uccisero. Evitarono di
spendere ventimila euro per la sicurezza, tanto la fabbrica sarebbe stato presto chiusa, e sperarono
in bene. Così poco, dunque, vale la vita di un uomo? Ventimila euro diviso sette? Forse. Ma poi
viene il giorno in cui è un altro il conto che torna, che deve tornare.
La vita, quella no, la vita non ritorna. Ma la giustizia, se è vera giustizia, lei non era mai andata
via. Lei è come il ricordo di chi ti amò.”
Così scriveva il 16 Aprile 2011 Maurizio Crosetti sulla Repubblica.
Mi sono andata a cercare questo articolo perchè mi era rimasto impresso, perchè mi ricordo le
lacrime di “giustizia” (se tali si possono definire) che piansi quel giorno. Oggi che quelle pene sono
state ridotte mi verrebbe solo da dire che la giustizia no, non è mai vera giustizia e che i sommersi
non possono vendicarsi sui salvati. Non qui.
-----------kon-igi
“Sei l’ospite d’onore del ballo che per te suoniamo,
posa la falce e danza tondo a tondo,
il giro di una danza e poi un altro ancora
e tu del tempo non sei più Signora.”
—
Ballo in fa Diesis Minore - Angelo Branduardi
-----------proust2000
Spezzo una matita ciucciata
Premessa: non mi interessa perdere follower, grazie ed arrivederci, né essere coperto di insulti, o
argomenti o preparati ad essere ignorato. Non ci saranno altri post sulla questione da parte mia, solo
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Post/teca
la speranza di far riflettere qualcuno per qualche minuto su un tema che può avere sfaccettature
leggermente differenti dall’insulto.
Ho votato Movimento 5 Stelle, solo alla Camera ma l’ho votato, l’ho deciso all’ultimo ma l’ho
fatto. Perché? Sarebbe facile rispondere perché sono schifato dalla politica degli ultimi 20 anni.
Errore, come molti hanno fatto notare ho sempre votato, turandomi il naso o di più o di meno ed ero
quindi connivente col sistema, nessun diritto di fare il moralista con me stesso o peggio, con gli
altri.
Torniamo a noi: perché? Perché non mi aspettavo il boom ma speravo che di “grillini” in
parlamento ce ne fossero un bel po’. Ché io son sempre stato un fenomeno nel scegliere la squadra
perdente, negli anni novanta tutti i miei amici decidevano di tifare Milan, Inter o Juve, io no, io
milanese scelsi la Lazio, tutti tifavano Vale Rossi io no, Capirossi. Ma non divaghiamo.
Cosa mi aspettavo? Che, al di là delle boutade di Grillo (tratto tra poco) un buon numero di persone
che non sono in parlamento per arricchirsi, che sanno che dopo due giri tutti a casa, che perlomeno
non hanno pendenze penali sul gobbo, potessero rompere il cazzo per bene e fare un po’ di pulizia
nel sistema, nel come. Sperando che, vista la scarsa esperienza media, non avessero per il momento
a che fare col cosa.
Avete letto bene, ho scritto rompere il cazzo, proprio una di quelle espressioni che in questi 3 giorni
ho visto rinfacciata come la peggiore delle prospettive. Ma mi permetto di sottolineare che dietro a
rompere il cazzo ci sia la rinuncia ai contributi pubblici, ai rimborsi, al 70% dello stipendio, la
richiesta di trasparenza, il taglio delle province, una legge elettorale decente. Roba che sfido
chiunque a dire che siano cazzate.
E lo so che un paese non si manda avanti tagliando i costi del parlamento, ma se rompi il cazzo,
magari (illuso, lo so) anche quelli che si occupano del cosa, si danno una regolata e al posto che
essere lì a pigiare bottoni perché qualcuno gli paga il mutuo si danno da fare. Perché eravamo a
questo prima, non dimentichiamocelo.
Ora, quello che vedo in giro è un sacco di gente che cade dal pero, che fino a venerdì se ne fregava
del Movimento 5 Stelle e ora si scatena insultando e permettetemelo, anche senza capire bene cosa
c’è dietro. Mi son permesso di scrivere un commento su Facebook proponendo il beneficio di
inventario a della gente che non sappiamo chi siano piuttosto che a gente come Scilipoti che
sappiamo per certo essere un demente. Mi è stato risposto (in caps lock, sic!) “no, ciucciano le
matite!” come se 8 milioni e mezzo di italiani avessero ciucciato al matita, vale come dire “No,
sono schiavi delle banche!” agli elettori di Monti o “no sono comunisti” agli elettori del PD…
C’è da dire che ora siamo in ballo e ci tocca ballare, e qui come giusto, si presta il fianco alle
critiche. Contenuti. Il Cosa. Abbiamo sentito tutti le sparate di Grillo nelle piazze, il reddito di
cittadinanza (che perdio, in altri paesi esiste, qui non si può fare ma non è la Luna), l’uscita
dall’Euro, l’uscita dalla Nato, il politometro, etc. Tutte, a mio modo di vedere, puttanate. Nel senso
stretto della parola, che anche solo a pensarci si finisce a puttane in un lampo, tutti.
Su cosa sono le critiche invece? Sulla biowash ball o sul “10 anni fa spaccava i PC sul palco”. Ora,
capisco l’astio e anche la sfaccettatura divertente di tutto ciò ma mi permetto di ricordare che fino a
poco fa il leitmotif della politica italiana era la smentita nel giro di 12 ore “mai detto che non mi
sarei candidato” “mai detto che era la nipote di Mubarack” “mai detto che avevamo al vittoria in
pugno” “se viene condannato mi dimetto” “se verrà collegata la casa al partito mi ritiro dalla
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Post/teca
politica” e si va avanti 400 pagine… Ci aggrappiamo alla biowash ball? Alle matite ciucciate?
Davvero? In effetti è molto più grave di una condanna per associazione mafiosa.
Sarò ingenuo, ma per una volta mi piace pensare positivo, mi piace pensare che Grillo e i “grillini”
siano realtà più distinte di quanto creda la maggioranza di noi, che una volte alla prova dei fatti
sapranno essere responsabili (parola stuprata ultimamente, lo so), non dico che facciano la cosa
giusta per forza ma che almeno se sbagliano lo facciano in buona fede.
Giusto per chiarire il concetto: non sono contento che ci siano 100 e passa dilettanti allo sbaraglio
che possono decidere le sorti del paese in questo periodo delicato, ma sono decisamente più
rincuorato dal fatto che il paese non sia più in mano a degli incompetenti certificati per di più
provatamente disonesti. (l’elenco è lungo, cercatevelo su nonleggerlo).
-----------------waxen
“Non hai tutti i torti, ma nemmeno tutte le ragioni. L’importante è sapere che non hai.”
---------------aniceinbocca ha rebloggato afterevening
“Ama a cu t’ama si vo’ aviri spassu,
c’amari a cu nun t’ama è tempu persu.”
—
(via rollotommasi)
Secondo me questa è calabrish
Fonte: rollotommasi
---------------
Il dito media
Pubblicato il 28 febbraio 2013 da Luca
L’ho scritto altre volte ed è un tema su cui passo spesso: ma io sono davvero convinto di una
grossissima responsabilità dei media più seguiti nelle condizioni disastrose dell’Italia e della sua
politica, e di conseguenza convinto che se non cambia qualcosa su quel fronte lì non si fanno grandi
passi avanti. Non starò a dirvi le cose canoniche sul ruolo dell’informazione, sulla democrazia
valida solo se informata, sul quarto potere, eccetera. Quello che è indiscutibile è che votiamo quel
che votiamo in base alle informazioni che abbiamo, e le informazioni che abbiamo vengono in parte
dalla nostra esperienza diretta e in parte da quello che leggiamo e sentiamo dai mezzi di
192
Post/teca
informazione: che pensiamo di governare ma invece ne siamo inevitabilmente plagiati, sempre, pur
con tutte le capacità di mediazione che vogliamo attribuire al nostro senso critico.
Insisto, perché non sto parlando più di una responsabilità secondaria dei media in quanto assenti e
fallimentari nella spiegazione e nell’informazione corretta sulle cose, ma di una responsabilità
primaria nella costruzione di visione e immagini distorte della realtà e nella conservazione
dell’esistente. Qui arriva quello che dice “eccerto, è sempre colpa dei giornali, come no!”. Ma
benché non ci piaccia confessarcelo, le nostre informazioni, convinzioni e opinioni vengono da lì,
come è normale e giusto. Da una comune melassa di conformismo informativo che va dai maggiori
quotidiani alle televisioni (con puntuali e notevoli eccezioni da parte di molti giornalisti, ci
mancherebbe!) e oltre a dire un sacco di balle ed educare alla superficialità e al sensazionalismo
coltiva e perpetua un sistema che in altri paesi sarebbe morto, perché descritto come morto da un
mondo dei media più attento al presente e al futuro.
Sappiamo bene – ormai è una specie di cliché – come gli eletti tanto criticati somiglino ai loro
elettori: e se associamo a questa riflessione quello che abbiamo detto molte volte, che una
democrazia funziona bene solo se gli elettori sono informati (altrimenti può dare risultati peggiori di
una dittatura illuminata), a chi guardare per scardinare il sistema diventa ovvio.
Quando tutti danno pagine e minuti al fatto che nel PD si sia aperto un confronto, e come interpreti
di questo confronto e della critica verso Bersani propongono D’Alema e Veltroni, invece che Civati
o qualunque degli altri più nuovi e consapevoli esponenti del PD che cercano davvero di cambiarlo,
il problema non sono D’Alema e Veltroni: sono i giornali e il pigro e cieco mondo
dell’informazione politica italiana, gioiosamente pendente dalle labbra di D’Alema e di tutta la
compagnia. Lo stesso quando i giornali promuovono come imminente e all’ordine del giorno
un’alleanza PD-PdL che è invece disprezzata e negata da praticamente tutti, e la cui evocazione
serve solo a far crescere il disprezzo. Così facendo, i media fanno due cose. Da una parte tengono in
vita il ruolo di D’Alema e Veltroni, in un circolo vizioso di potere che si mantiene finché è
riconosciuto, ed è riconosciuto finché si mantiene. Dall’altra consegnano a lettori, spettatori e
ascoltatori di queste letture l’idea che l’Italia sia quella, i poteri siano quelli, e alimentano
disincanto, disprezzo e desolazione. Tengono in vita il peggio dell’Italia passata e ne producono di
nuovo. Sono responsabili di un doppio gioco per loro sempre vincente, indicare demagogicamente
un nemico e conservarlo per indicarlo demagogicamente.
Non è solo un disegno strategico (magari, troppa grazia): ci sono altri elementi che lo spiegano, a
cominciare dallo scarso ricambio generazionale che c’è tra chi guida i giornali e chi commenta la
realtà sui giornali e proseguendo verso un tasso di preparazione, umiltà e interesse per la verità assai
basso, tra noialtri che facciamo questa specie di lavoro. Ma non mi interessano qui, ed è fuorviante
attribuire le colpe. Il problema non è cosa si è fatto finora, ma cosa non si fa ora.
Ma quando Grillo se la prende con i giornali, ha molte ragioni, come ho scritto altre volte, e vede
prima cose a cui gli altri arriveranno. Solo che mentre lui lo fa con una discreta ragionevolezza (sì,
dico sul serio) e col modo suo, che spesso è affettuoso e leggero coi singoli giornalisti quando li
incontra, il messaggio viene invece elaborato dalla “base” in forma di “servi schifosi andate a casa
vi spazzeremo via”. E questo dà allora molte ragioni ai giornalisti che quindi si rifiutano di leggere
e capire con equilibrio il M5S e i grillini (avvenne la stessa cosa con la Lega). E il mito della Rete
che si sostituisce all’informazione tradizionale è una balla: se nell’ultimo anno non ci fosse stata
193
Post/teca
internet Grillo avrebbe preso gli stessi voti, se non ci fossero stati tv e giornali ne avrebbe presi la
metà. Per non dire della quantità di informazioni distorte di cui dalla rete si nutrono molti degli
stessi diffidenti dei media tradizionali.
Un’altra obiezione è “sopravvaluti il ruolo dei media”. Peccato che arrivi da quelli che sostengono
da anni che il ruolo dei media berlusconiani abbia avuto un ruolo determinante nel suo successo. O
che accusano Giovanni Floris di aver “creato” politicamente Renata Polverini.
Fossi direttore e corresponsabile dei maggiori giornali e tg italiani oggi proverei a superare il
fastidio per queste e altre accuse – spesso fastidiose, anche le mie, li capisco – e a chiedermi
davvero se la pretesa di essere solo testimoni e narratori dell’esistente non sia un grande inganno e
alibi: perché in parte l’esistente lo creano, e non è un bell’esistente, e in parte lo narrano falso. Sono
i primi creatori di un’Italia da cambiare, ormai, non i secondi. E se la politica ammuffita verrà
spazzata via sarà perché è in ogni caso responsabile: un giornalismo che si sottragga alle proprie
responsabilità non cambierà mai, a meno che non arrivi qualche forma di grillismo anche lì. E
potrebbe essere peggio.
p.s. avevo scritto cose uguali, scopro alla fine, non simili. Nel 2007.
Che il disastro della politica italiana e l’alienazione dei suoi protagonisti dalla realtà siano in
gran parte responsabilità dell’informazione tradizionale, che ne è stata complice, sobillatrice
e avvoltoio, non lo troverete certo scritto sui giornali stessi. È questo il grande rimosso del
dibattito di oggi sulla “casta” e l’”antipolitica”: che a farsi paladini dello scandalo siano gli
stessi giornali che l’hanno creata, la casta (con l’entusiasta collaborazione della stessa, e il
dissenso di pochissimi). Ed è probabile che a differenza della politica – che ha nei media la
sua “sentinella” – la casta autoindulgente del giornalismo italiano non possa venir scossa da
nessuno: non ha la sentinella. Per ora ha invece alcuni blog che con equilibrio e misura
cercano di ricordarle – ignorati nelle redazioni, ma apprezzati su internet – come si dovrebbe
fare: ma dietro l’angolo c’è un Beppe Grillo anche per loro, e il prossimo potrebbero non
riuscire a mangiarselo.
fonte: http://www.wittgenstein.it/2013/02/28/il-dito-media/?
utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+ilpost+%28Il+Post+-+HP
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Non è tutta colpa del Porcellum
28.02.13
Vincenzo Galasso e Salvatore Nunnari
●
194
inShare
Post/teca
Con un diverso sistema elettorale, avremmo avuto una maggioranza stabile? L’ingovernabilità non
sembra dovuta al Porcellum, ma all’esistenza di tre poli di dimensioni simili e poco propensi ad
accordi. La riforma della legge elettorale è comunque necessaria, per migliorare la qualità dei
candidati.
UN PREMIO SENZA QUALITÀ (DEI CANDIDATI)
Durante la conferenza stampa post-elettorale, Pier Luigi Bersani ha mestamente constatato che, pur
senza vincere, la sua coalizione è arrivata prima, e ha prontamente accusato il sistema elettorale
per l’ingovernabilità del paese. Il Porcellum ha sicuramente molti difetti, ma siamo sicuri che lo
stallo in cui versa la situazione politica italiana sia da attribuire a questo (seppur pessimo) sistema
elettorale? È vero che un sistema maggioritario avrebbe regalato maggioranze più stabili alla
Camera e al Senato?
Evidentemente il premio di maggioranza su base nazionale previsto dal Porcellum per la Camera
premia la governabilità, poiché consente alla coalizione che ha ottenuto la maggioranza relativa dei
voti di godere della maggioranza assoluta dei seggi. In queste elezioni, uno scarto di soli 124mila
voti favorisce il centrosinistra, che si vede assegnare ben 216 seggi più del centro destra (340 a 124
nel collegio unico nazionale che non comprende la Valle D’Aosta e la circoscrizione Estero).
Questo forte elemento di dis-proporzionalità, che consente di ottenere la governabilità alla Camera,
è tuttavia discutibile, perché da un lato non garantisce la rappresentatività tipica dei sistemi
proporzionali, e dall’altro non introduce quell’elemento di concorrenza elettorale che può spingere i
partiti a competere sulla qualità dei politici, selezionando i candidati migliori.
Dunque Bersani si riferiva al sistema elettorale in vigore al Senato, con il premio di maggioranza
attributo a livello regionale, che ci ha consegnato un’assemblea divisa in quattro partiti (o
coalizioni), nessuno dei quali gode della maggioranza assoluta, e con difficili coalizioni
all’orizzonte. Ma siamo sicuri che altri sistemi elettorali – al di là ovviamente del sistema già in
vigore alla Camera – avrebbero consentito una maggiore governabilità al Senato?
TRE POLI IN PARLAMENTO
Per rispondere alla domanda, abbiamo analizzato cosa sarebbe accaduto se i voti ottenuti dai diversi
partiti o coalizioni durante le elezioni del 24 e 25 febbraio fossero stati espressi sotto diversi
sistemi elettorali. (1) Si tratta ovviamente di un esercizio puramente teorico, poiché è ben noto che
i sistemi elettorali modificano l’offerta politica, ad esempio inducendo alcuni partiti a raggrupparsi
in coalizioni o incentivando la nascita di nuovi partiti o movimenti, e di riflesso cambiano le scelte
elettorali dei cittadini.
Ciò nonostante, è ugualmente istruttivo comprendere in che misura, date le scelte di voto dello
scorso weekend, sia stata l’assegnazione dei seggi dettata dal Porcellum a determinare
l’ingovernabilità del paese. La tabella allegata mostra la distribuzione dei seggi ai sei principali
partiti o coalizioni (centrodestra, centrosinistra, M5S, Lista Monti, Fare e RC) in diversi scenari che
vanno dal proporzionale puro (collegio nazionale senza soglie di sbarramento) al maggioritario con
collegi uninominali. Sono analizzati anche casi intermedi, che prevedono un sistema proporzionale
con collegi regionali o provinciali (e diverse soglie di sbarramento), e sistemi maggioritari a livello
regionale o provinciale (ovvero dove il partito di maggioranza relativa ottiene tutti i seggi
disponibili a livello, rispettivamente, regionale o provinciale).
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Post/teca
Come è facile prevedere, il sistema proporzionale puro (ovvero con un collegio nazionale e senza
soglie di sbarramento) consegnerebbe un Senato ancora più diviso, con 98 seggi alla coalizione di
maggioranza relativa (il centrosinistra) e ben 74 seggi al Movimento 5 Stelle. L’incremento della
soglia di sbarramento fino all’8 per cento aumenterebbe i seggi del M5S e della lista Monti, a
discapito dei partiti minori delle due maggiori coalizioni, che probabilmente in quel caso sarebbero
però confluiti in una lista unica. L’utilizzo di un sistema proporzionale con collegi regionali non
modificherebbe il quadro attuale in maniera rilevante. Il proporzionale con collegi più piccoli
(provinciali) consentirebbe invece al M5S di diventare il secondo partito in Senato con 97 seggi,
contro gli 81 del centrodestra, poiché penalizzerebbe la coalizione internamente più frammentata (il
centrodestra) a favore del partito unico (M5S). In nessun caso, tuttavia, un sistema proporzionale
(puro o modificato con una soglia di sbarramento, anche molto restrittiva) sarebbe stato in grado di
garantire una maggioranza assoluta in Senato, dati i voti espressi domenica e lunedì scorso.
Una maggiore governabilità al Senato poteva invece essere ottenuta dai sistemi maggioritari (Fptp:
first-past-the-post). Il caso dei collegi regionali, in cui la coalizione di maggioranza relativa si
assicura tutti i seggi in palio nella Regione – estremizzando dunque la componente del premio
regionale già esistente nel Porcellum – rappresenta l’unica situazione in cui una coalizione (quella
di centrodestra) sarebbe in grado di assicurarsi la maggioranza assoluta al Senato con 164 seggi,
contro i 107 del centrosinistra, mentre il M5S non otterrebbe alcun rappresentante. Con i collegi
provinciali, la coalizione di centrodestra otterrebbe 144 seggi (7 in meno della maggioranza
assoluta), il centrosinistra 140 e i grillini avrebbero 17 senatori. L’analisi condotta utilizzando i 231
collegi uninominali esistenti nel 2001 con la legge elettorale Mattarella, ma ignorando la
componente proporzionale, presenta una situazione molto simile. Considerando un maggioritario a
sistema a turno unico (“first-past-the-post”), centro-sinistra e centro-destra avrebbero circa 100
seggi a testa (con il centro-sinistra in leggero vantaggio) ed il contingente del M5S sarebbe limitato
ad una ventina di seggi, ma potenzialmente decisivo per il governo. I dati delle elezioni 2013 non ci
consentono ovviamente di simulare gli ipotetici risultati in un sistema maggioritario a doppio turno.
Contrariamente alle riflessioni offerte da Bersani, più che al Porcellum l’ingovernabilità nel nuovo
scenario politico italiano sembra quindi dovuta all’esistenza di tre poli indipendenti di dimensioni
simili, e poco propensi ad accordi post-elettorali. Tuttavia, una riforma dell’attuale sistema
elettorale è quanto mai necessaria per correggere i gravi difetti che, ad esempio, l’esistenza di liste
bloccate induce nella selezione dei candidati politici e nella loro accountability verso gli elettori. In
quella sede sarà bene ricordare che qualunque riforma in direzione proporzionale (ad esempio
attraverso una riduzione dei premi di maggioranza su base nazionale o regionale) renderebbe ancora
più arduo il raggiungimento di una maggioranza in entrambe le camere. Per migliorare la
governabilità è necessaria una riforma in chiave maggioritaria, che consentirebbe anche di
aumentare la competizione elettorale, con conseguenze positive sulla selezione dei candidati
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(1) Nota metodologica
Tutti i dati escludono il Trentino Alto-Adige, la Valle D’Aosta e la circoscrizione Estero (i cui 14
senatori sono eletti con una legge elettorale diversa). Per il sistema proporzionale, abbiamo
considerato dieci liste: Pdl, Lega Nord, “Altri CDX” (che include tutti gli altri partiti associati alla
coalizione di centro-destra), Pd, Sel, “Altri CSX” (che include tutti gli altri partiti associati alla
coalizione di centro-sinistra), M5S, Lista Monti, Fare, Rivoluzione Civile. I seggi attribuiti a
ciascuna lista in ciascun collegio sono determinati con il metodo D’Hondt (escludendo dalla
ripartizione dei seggi le liste che non raggiungono la soglia necessaria). Per i sistemi maggioritari
(Fptp e uninominale), abbiamo considerato un’unica lista per ciascuna coalizione. Il numero di
seggi assegnato in ciascun collegio provinciale è determinato sulla base dei seggi stabiliti dal
Porcellum per la Regione corrispondente e gli aventi diritto al voto in ciascuna provincia. Per il
sistema uninominale, le circoscrizioni sono quelle stabilite dalla legge Mattarella per la componente
uninominale del Senato. In questo caso, la forbice nell’attribuzione dei seggi è dovuta a problemi di
attribuzione dei dati elettorali delle politiche del 2013 alle circoscrizioni uninominali stabilite dalla
legge Mattarella. La fonte dei risultati elettorali per le elezioni politiche 2013 è il ministero
dell’Interno
fonte: http://www.lavoce.info/non-e-tutta-colpa-del-porcellum/
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Scientists Date Publication Of The Iliad
Wed, 02/27/2013 - 12:14pm
Inside Science News Service, Joel Shurkin
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Homer's 'Iliad' codex from approximately the late 5th-early 6th
century A.D. Image: Public DomainScientists who decode the genetic history of humans by tracking how genes mutate
have applied the same technique to one of the Western world's most ancient and celebrated texts to uncover the date it
was first written.
The text is Homer's Iliad, and Homer – if there was such a person – probably wrote it in 762 B.C., give or take 50 years,
the researchers found. The Iliad tells the story of the Trojan War – if there was such a war – with Greeks battling
Trojans.
The researchers accept the received orthodoxy that a war happened and someone named Homer wrote about it, says
Mark Pagel, an evolutionary theorist at the Univ. of Reading in England. His collaborators include Eric Altschuler, a
geneticist at the Univ. of Medicine and Dentistry of New Jersey, and Andreea Calude, a linguist also at Reading and the
Sante Fe Institute in New Mexico. They worked from the standard text of the epic poem.
The date they came up with fits the time most scholars think the Iliad was compiled, so the paper, published in the
journal Bioessays, won't have classicists in a snit. The study mostly affirms what they have been saying, that it was
written around the eighth century B.C.
That geneticists got into such a project should be no surprise, Pagel says.
"Languages behave just extraordinarily like genes," Pagel says. "It is directly analogous. We tried to document the
regularities in linguistic evolution and study Homer's vocabulary as a way of seeing if language evolves the way we
think it does. If so, then we should be able to find a date for Homer."
It is unlikely there ever was one individual man named Homer who wrote the "Iliad." Brian Rose, professor of classical
studies and curator of the Mediterranean section at the Univ. of Pennsylvania Museum, says it is clear the Iliad is a
compilation of oral tradition going back to the 13th century B.C.
"It's an amalgam of lots of stories that seemed focused on conflicts in one particular area of northwestern Turkey," Rose
says.
The story of the Iliad is well known, full of characters like Helen of Troy, Achilles, Paris, Agamemnon and a slew of
gods and goddesses behaving badly. It recounts how a gigantic fleet of Greek ships sailed across the "wine dark sea" to
besiege Troy and regain a stolen wife. Its sequel is the Odyssey.
Classicists and archeologists are fairly certain Troy existed and generally know where it is. In the 19thcentury, the
German archeologist Heinrich Schliemann and the Englishman Frank Calvert excavated what is known as the Citadel of
Troy and found evidence of a military conflict in the 12th century B.C., including arrows and 5 feet of burned debris
around a buried fortress. Whether it was a war between Troy and a foreign element, or a civil war is unknown, Rose
says.
The compilation we know as the Iliad was written centuries later, the date Pagel is proposing.
The scientists tracked the words in the Iliad the way they would track genes in a genome.
The researchers employed a linguistic tool called the Swadesh word list, put together in the 1940s and 1950s by
American linguist Morris Swadesh. The list contains approximately 200 concepts that have words apparently in every
language and every culture, Pagel says. These are usually words for body parts, colors and necessary relationships like
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"father" and "mother."
They looked for Swadesh words in the Iliad and found 173 of them. Then, they measured how they changed.
They took the language of the Hittites, a people that existed during the time the war may have been fought, and modern
Greek, and traced the changes in the words from Hittite to Homeric to modern. It is precisely how they measure the
genetic history of humans, going back and seeing how and when genes alter over time.
For example, they looked at cognates, words derived from ancestral words. There is "water" in English, "wasser" in
German, "vatten" in Swedish, all cognates emanating from "wator" in proto-German. However, the Old English "hund"
later became "hound" but eventually was replaced by "dog," not a cognate.
"I'm an evolutionary theorist," Pagel says. "I study language because it's such a remarkable culturally transmitted
replicator. It replicates with a fidelity that's just astonishing."
By documenting the regularity of the linguistic mutations, Pagel and the others have given a timeline to the story of
Helen and the men who died for her – genetics meets the classics.
fonte: http://www.laboratoryequipment.com/news/2013/02/scientists-date-publication-iliad
--------------------misantropo ha rebloggato 3e32
Inizia domani il processo alle carriole, un processo alla speranza
3e32:
Inizierà domani 1 marzo il processo a sei imputati per i fatti relativi alla manifestazione delle
carriole del 28 Marzo 2010 domenica delle Palme e di elezioni provinciali nella quale cittadine e
cittadini, giovani, famiglie e anziani invasero L’Aquila “armati” di carriole per rimuovere le
macerie del centro storico.
L’accusa iniziale di “violazione del silenzio elettorale” formulata dall’allora prefetto Gabrielli,
che mosse tra l’altro anche il ridicolo sequestro di alcune carriole ( verbale di “carriola in pessimo
stato di conservazione”),ovviamente si è rivelata una bufala infondata. L’accusa della Procura per
i sei imputati è invece quella di manifestazione non autorizzata. Come se tutte le altre “domeniche
delle carriole” invece fossero state autorizzate. Ricordiamo bene quante volte abbiamo dovuto
forzare il blocco della polizia, voluto dal Sindaco Cialente e da Franco Gabrielli, che hanno
cercato così di impedirci di rimuovere le macerie.
La cosa grave è che mentre la Procura chiede il processo contro le carriole (ovvero contro quelli
che hanno cercato di liberare il centro dalla macerie), il centro a quasi quattro anni dal sisma è
ancora chiuso, devastato, derubato, abbandonato a se stesso. Non esiste pianificazione, e neanche
un’idea della città che sarà.
Con questa accusa (l’ultima di una lunga serie), ci sembra quasi che si voglia processare la
speranza di quelli che volevano solo esercitare il diritto di partecipare alla ricostruzione del
proprio territorio, della propria vita, del proprio futuro.
Questo non fermerà di certo la nostra battaglia per una ricostruzione giusta. Ci chiediamo come
sia possibile che, tra le infiltrazioni delle cricche negli appalti per la ricostruzione, i cantieri dove
molto spesso la sicurezza sul lavoro è un optional, lo spreco e la assoluta mancanza di trasparenza
nella gestione dei fondi, la giustizia italiana non abbia di meglio da fare che portare avanti
processi contro le carriole, CaseMatte, le manifestazioni a L’Aquila e a Roma, spendendo
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Post/teca
immotivatamente così tanto denaro pubblico.
In ogni caso, questa accusa non ci spaventa, possiamo dimostrare che nessun reato è stato
commesso e che le carriole meritano solo un ringraziamento e non una condanna penale.
La città deve tenersi strette e difendere tutte quelle giornate di dignità, rabbia e riappropriazione
che in ogni modo hanno tentato di non fare andare le cose come purtroppo sono poi andate, tra
prefetti che ridono e macerie che sono ancora abbandonate nel centro storico non ricostruito.
Ci vediamo domattina, a partire dalle ore 9, presso il Tribunale di Bazzano (L’Aquila). Con la
schiena dritta e determinati come sempre
L’Aquila è ancora là.
------------------falcemartello ha rebloggato brondybux
“In genere vince la destra.
la sinistra vince ogni morte di papa.
ma quando il papa abdica,nessuno sa che cazzo fare!”
—
Fonte: yoruichi
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200
Giuseppe (via yoruichi)
già
(via brondybux)
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