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materiali digitali
a cura di sergio failla
12.2009
ZeroBook 2011
Post/teca
materiali digitali
Di post in post, tutta la vita è un post? Tra il dire e il fare c'è di
mezzo un post? Meglio un post oggi che niente domani? E un post
è davvero un apostrofo rosa tra le parole “hai rotto er cazzo”?
Questi e altri quesiti potrebbero sorgere leggendo questa antologia
di brani tratti dal web, a esclusivo uso e consumo personale e
dunque senza nessunissima finalità se non quella di perder tempo
nel web. (Perché il web, Internet e il computer è solo questo: un
ennesimo modo per tutti noi di impiegare/ perdere/ investire/
godere/ sperperare tempo della nostra vita). In massima parte sono
brevi post, ogni tanto qualche articolo. Nel complesso dovrebbero
servire da documentazione, zibaldone, archivio digitale. Per cosa?
Beh, questo proprio non sta a me dirlo.
Buona parte del materiale qui raccolto è stato ribloggato anche su
girodivite.tumblr.com grazie al sistema di re-blog che è possibile
con il sistema di Tumblr. Altro materiale qui presente è invece
preso da altri siti web e pubblicazioni online e riflette gli interessi e
le curiosità (anche solo passeggeri e superficiali) del curatore.
Questo archivio esce diviso in mensilità. Per ogni “numero” si
conta di far uscire la versione solo di testi e quella fatta di testi e di
immagini. Quanto ai copyright, beh questa antologia non persegue
finalità commerciali, si è sempre cercato di preservare la “fonte” o
quantomeno la mediazione (“via”) di ogni singolo brano. Qualcuno
da qualche parte ha detto: importa certo da dove proviene una cosa,
ma più importante è fino a dove tu porti quella cosa. Buon uso a
tutt*
sergio
Questa antologia esce a cura della casa editrice ZeroBook. Per info: [email protected]
Per i materiali sottoposti a diversa licenza si prega rispettare i relativi diritti. Per il resto, questo libro esce sotto
Licenza Creative Commons 2,5 (libera distribuzione, divieto di modifica a scopi commerciali).
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materiali digitali
a cura di Sergio Failla
12.2009 (solo testo)
ZeroBook 2011
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dic2009_anthology(1)
1 dicembre 2009
Contrappunti/ L'ignoranza dell'intellighenzia
di M. Mantellini - Uno strumento a disposizione dei terroristi, del demonio, chissà di chi e cos'altro.
Internet è un avversario: eppure è solo uno strumento che, come qualunque altro, può essere
utilizzato per il meglio o per il peggio
Roma - Qualche giorno fa, durante un convegno della Caritas diocesana bolognese, Monsignor
Vecchi, vescovo vicario della città, ha detto che il demonio sta spesso dentro Facebook. Sempre nel
corso della scorsa settimana il Ministro Maroni, intervenendo ad un incontro del CIMO (un
organismo di paesi mediterranei che comprende fra gli altri Algeria, Marocco ma anche Francia e
Spagna) ha affermato che occorra "impedire la presenza di siti internet che fanno apologia del
terrorismo e la fruizione e diffusione telematica di documenti audio e video di natura estremista".
Intervistato da Alessandro Longo, il sottosegretario alle Comunicazioni Romani ha ammesso
(candidamente, va detto) di non conoscere il decreto Pisanu che regola, per ragioni di
antiterrorismo, l'autenticazione in accesso a Internet dalle reti wireless in due soli paesi al mondo: in
Italia e - pare - nel Dubai.
Se non bastasse sempre in questi giorni giunge alle battute finali il processo milanese che vede
Google imputata per il famoso video su Youtube del ragazzo affetto da sindrome di Down
maltrattato dai bulli della sua stessa scuola. Le dissertazioni sul bullismo sono da tempo ormai
scivolate nelle pagine interne dei quotidiani, ma una eventuale condanna della piattaforma
californiana per l'utilizzo sconsiderato che ne fanno gli utenti sarebbe un degno compimento di
questo clima pesante che avvolge da tempo la rete italiana, stropicciata e maltrattata da un numero
molto vasto di critici disinformati e largamente improvvisati.
C'è, alla base di tutto questo, anche una cultura della mediazione che, nella gestione delle politica
delle reti, è semplicemente malsana e perdente. Nella confusione che definisce molte delle cose che
non conosciamo, la molteplicità di giudizio potrebbe anche essere considerata un'ancora di
salvezza, i distinguo sembrerebbero aiutare la nostra capacità di comprendere l'imprevedibile.
Così i gestori di una piattaforma di rete sono responsabili "anche" degli utilizzi della piattaforma
stessa (come se a Telecom Italia si chiedesse di controllare parola per parola che il contenuto delle
comunicazioni vocali che transitano sulle proprie linee non contengano contenuti puniti dalla
legge), i blogger sono frequentemente citati in solido con eventuali commentatori, magari anonimi,
dei propri post, i siti web sono "anche" prodotti editoriali (e come tali teoricamente sottoposti alle
normative riservate alla stampa), infine chi sta troppo tempo su Facebook, magari non diventa cieco
(al riguardo si potrebbe contattare Monsignor Vecchi per una consulenza), ma in un numero elevato
di casi, come direbbero gli psichiatri del Policlinico Gemelli che hanno recentemente aperto un
ambulatorio apposito, ne resta "anche" intossicato.
Internet è insomma buona ma soprattutto cattiva, bella ma più che altro pericolosa, è uno strumento
formidabile di sviluppo economico ma anche un gingillo completamente inutile, visto che i soldi
per gli investimenti, per una ragione o per l'altra, vanno sempre altrove.
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Non è chiaro se faccia maggior danno la distanza del sottosegretario Romani dagli scenari
tecnologici che amministra (dimenticavo, sempre la settimana scorsa Romani ha affermato che in
Italia, contro le indicazioni del commissario europeo e in contrasto con le scelte di gran parte degli
altri paesi, le frequenze liberate dal passaggio alla TV digitale invece che essere riservate alla larga
banda mobile resteranno probabilmente nella disponibilità delle piccole TV private) o il rovinoso
cipiglio interventista del Ministro dell'Interno e dei tanti politici che da tempo dichiarano superiori
necessità di censurare in rete questo o quello.
Ciò che è sufficientemente chiaro è che viviamo in questo paese tempi cupissimi nei quali, ad una
diffusa sottostima delle possibilità di Internet di autoregolarsi, si somma una arroganza nel trattare,
a voce alta e in sedi spesso istituzionali, argomenti dei quali non si ha nemmeno una vaga idea.
Aiutati dal grande rumore di fondo che nasconde in poco tempo qualsiasi stupidaggine e dalla
sempre più grave amnesia di un paese che sembra aver preferito le nebbie del cloroformio, anche
Internet finisce dentro il grande otre della comunicazione urlata e vanesia, il cui risultato finale è un
deprimente e continuo nulla di fatto, pur se urlato con maschia convinzione. Il che, per voler essere
più realisti del re, è comunque sempre meglio di un decisionismo casuale affidato alle mani di
questi signori.
Massimo Mantellini
Manteblog
Fonte: http://punto-informatico.it/2763088/PI/Commenti/contrappunti-ignoranza-dellintellighenzia.aspx
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È morto lo storico gesuita Pierre Blet per sessant'anni al servizio della Santa Sede
Intellettualmente nel cuore del cattolicesimo
di Andrea Riccardi
"Leggete padre Blet" - rispose Giovanni Paolo II ai giornalisti che lo interrogavano su Pio XII e la
sua politica durante la seconda guerra mondiale. Papa Wojtyla veniva dalla Chiesa polacca, che non
solo aveva sofferto durante l'occupazione tedesca, ma aveva vissuto problemi di comunicazione con
Roma, anzi era stata investita dalla propaganda nazista che ritraeva Papa Pacelli lontano dai
polacchi. Giovanni Paolo II conosceva la drammaticità e la complessità dei problemi della Chiesa
durante l'ultima guerra mondiale e per questo aveva detto: "Leggete padre Blet". Infatti Pierre Blet
era tutt'altro che uno scrittore di corte, qualcuno per cui la storia coincideva con l'interesse della sua
istituzione, come è stato troppo a lungo pensato. È stato uno storico attento alla complessità, un
ricercatore che non prescindeva mai da una scrupolosa inchiesta negli archivi. Si è spento a più di
novant'anni, ma non ha perso mai la passione per il dibattito storico. Recentemente, in un'ultima
intervista sui "silenzi" di Pio XII, rispondeva a chi gli chiedeva che cosa si troverà negli archivi
vaticani al momento della loro apertura: "Troveranno che non abbiamo nascosto niente".
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Pierre Blet era stato uno dei quattro storici gesuiti, chiamati da Paolo VI, a pubblicare i documenti
vaticani sulla seconda guerra mondiale, a seguito delle polemiche sui "silenzi" di Pio XII all'inizio
degli anni Sessanta. Papa Montini aveva preso una decisione coraggiosa, che avrebbe portato alla
stampa di dodici ponderosi volumi contenenti i documenti della Santa Sede tra il 1939 e il 1945.
Sono una fonte essenziale per chi vuole ricostruire non solo la storia della Chiesa in quel periodo,
ma anche per chi vuol fare la storia della guerra in tutti i suoi risvolti diplomatici, sociali, religiosi.
L'obiezione fatta all'opera dei quattro gesuiti (conclusa con la stampa dell'ultimo volume nel 1981)
è che non può sostituire il contatto diretto con la documentazione. È vero che la ricerca in archivio è
altra cosa rispetto all'utilizzo delle fonti a stampa; ma si può star certi che i gesuiti hanno fatto un
lavoro scrupoloso e onesto, anche quando qualche documento da pubblicare non era del tutto
favorevole
all'esaltazione
del
lavoro
della
Santa
Sede.
La scelta di far conoscere la documentazione della Santa Sede fu un atto di coraggio e di fiducia
nella storia da parte di Papa Montini, se si pensa che i primi volumi videro la luce a meno di dieci
anni dalla morte di Pio XII. Paolo VI, stretto collaboratore di papa Pacelli durante la guerra, era
convinto, anche per esperienza diretta, che la Santa Sede avesse fatto la scelta più giusta in quei
frangenti. Qualche volta l'utilizzazione dei documenti pubblicati dai gesuiti avrebbe giovato alla
ricerca storica, spesso diffidente verso questa fonte. Del resto basta scorrere i dodici volumi sulla
Santa Sede e la guerra mondiale, per accorgersi - anche solo per il ponderoso apparato critico - della
serietà
e
del
rigore
del
lavoro
fatto
dai
quattro
storici
gesuiti.
Padre Blet è stato uno storico della Santa Sede, nel
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senso che si è collocato intellettualmente nel cuore della Chiesa cattolica. Ha prestato tanti servizi
alla Chiesa: è stato consultato su numerosi problemi, ha insegnato non solo nella Pontificia
Università Gregoriana, ma ha anche formato i giovani ecclesiastici che si preparavano al servizio
internazionale della Santa Sede. Era un uomo che conosceva bene la storia e il presente del governo
centrale della Chiesa, erudito e saggio. Aveva il senso alto del servizio alla Chiesa, maturato in tanti
anni di impegno umile e fattivo. La sua convinta appartenenza alla Santa Sede non significa che
fosse uno storico di parte o un apologeta incapace di vedere la realtà. Rifiutava però un approccio
sensazionalistico e scandalistico alla storia di un'istituzione di cui conosceva la complessità, le
fragilità
e
le
grandezze.
La sua vita era estremamente ritirata, a differenza del suo confratello Robert Graham, amante più di
lui di dibattiti e incontri. Una volta incontrai Blet in una commissione di tesi all'università di
Nanterre in Francia, dove entrambi eravamo invitati dall'amico, lo storico Philippe Levillain. Il
gesuita
mi
disse:
"Sono
un
uomo
discreto".
Lo era. Aveva cominciato a parlare, rilasciando interviste, soltanto quando si era sentito la
responsabilità di essere l'ultimo testimone di quella grande ricerca sugli archivi di Pio XII. Era così
uscito dal suo abituale riserbo. Lo ha fatto sino alla fine con un'ultima intervista, perché convinto
che il dibattito pubblico non rendesse giustizia alla verità della storia di Papa Pacelli e della Chiesa
durante la seconda guerra mondiale. Su questa vicenda aveva pubblicato un volume in cui
richiamava all'esigenza di stare ai fatti e ai documenti, ma anche di considerare il contesto
internazionale
in
cui
la
Santa
Sede
venne
a
operare
dal
1939.
Uomo con un alto senso della Chiesa, padre Blet non era uno storico di parte, proprio perché veniva
da una scuola che l'aveva educato a stare ai documenti e ai fatti. Non era nato come storico dell'età
contemporanea, ma veniva da una tradizione di ricerca sul lungo periodo, specie sull'età moderna.
Aveva pubblicato vari studi sulla vicenda del clero francese tra Seicento e Settecento, durante il
regno di Luigi xiv, servendosi della documentazione delle assemblee del clero e di altro prezioso
materiale. Da questa esperienza traeva un rigore nella ricerca e nell'uso degli archivi. Era anche un
esperto della diplomazia pontificia, di cui aveva tracciato un ampio panorama dalle origini sino
all'inizio dell'Ottocento. Studioso dell'età moderna e delle relazioni internazionali, aduso a
complesse ricerche archivistiche, padre Blet affrontò gli anni di Pio XII con la convinzione,
maturata nelle lunghe frequentazioni delle carte della Santa Sede, che la Chiesa non avesse nulla da
temere dalla storia. È la convinzione di una scuola di storici ecclesiastici che, dall'apertura degli
archivi vaticani con Leone XIII, unisce rigore scientifico alla passione per la Chiesa. Questa
tradizione perde, con la morte di padre Blet, un insigne esponente.
(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 1 dicembre 2009)
--------------------------Non c'è Chiesa senza Roma
di Philippe Levillain
Padre Blet aveva un nome: Pierre. Veniva utilizzato raramente. Si diceva semplicemente padre Blet. Eppure era
tutto lì, nella tessitura onomastica del membro della Compagnia di Gesù, nella quale era entrato nel 1937,
dedicandosi al servizio di Pietro. È questa obbedienza ai voti dell'ordine da lui scelto che lo avrebbe portato ad
accettare di partecipare in modo rilevante all'edizione degli Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde
guerre mondiale, voluta da Paolo VI dopo le insinuazioni spettacolari del Vicario di Rolf Hochhut nel 1964, che
stigmatizzavano Pio XII per la sua complicità nello sterminio del popolo ebreaico, la Shoah.
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Nato il 18 novembre 1918, padre Blet nel 1950 venne chiamato come professore di storia moderna presso la
Facoltà di storia ecclesiastica della Pontificia Università Gregoriana. Visse intensamente gli anni di Pio XII.
Insegnò storia diplomatica presso la Pontificia Accademia Ecclesiastica dal 1965 al 1995 e formò molti grandi
diplomatici della Santa Sede in seno a una istituzione un tempo detta l'Accademia dei nobili ecclesiastici. La
matrice del suo pensiero in termini di Chiesa si colloca nella tesi sostenuta nel 1959: Le Clergé de France et la
monarchie. Étude sur les assemblées Générales du clergé de 1615 à 1666. Padre Blet aveva visto giusto: non c'è
Chiesa senza Roma. La monarchia aveva bisogno di consulenze. In modo spontaneo padre Blet formava un
collegamento
tra
la
diplomazia,
la
Santa
Sede
e
il
temperamento
francese.
La sua grande opera, pubblicata nel 1962, su Girolamo Ragazzoni, vescovo di Bergamo, testimoniava questa
straordinaria capacità dello sguardo di Roma su un mondo lacerato. La visione di Giovanni XXIII vi aveva
contribuito.
Come
Papa,
nonostante
la
brevità
del
pontificato.
La ricca opera di Padre Blet, il cui ultimo libro Richelieu et l'Église Bruxelles, André Versaille éditeur, 2007) ha
riscosso un grande successo in Francia, non basta a dare conto della sua sorprendente personalità. Uomo pio,
modesto, sempre accogliente, sempre sorpreso dall'interesse che gli veniva mostrato, padre Blet viveva alla
Gregoriana la pienezza della vita al quarto piano dal lungo corridoio dove accompagnava gli ospiti con la
massima cortesia. Parlava di cose importanti e, soprattutto, verso la fine della sua vita si preoccupava che venisse
compresa quale fosse la forma di santità di Pio XII, Papa disperato, Papa sacrificato alla ragione di Stato:
quella dello stato del cristianesimo, che forse sarebbe morto. Affrontava gli eventi con serenità, era fiducioso. È
così che ha accettato con calma l'ordine storico delle sue convinzioni.
(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 1 dicembre 2009)
Esperto non solo di Pio XII
Noto universalmente per i suoi studi su Pio XII e la seconda guerra mondiale padre Pierre Blet oltre all'opera
monumentale in dodici volumi Actes et Documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale redatta in
collaborazione con Robert Graham, Angelo Martini, Burkhart Schneider (Città del Vaticano, Libreria editrice
Vaticana, 1965-1982) è autore del volume Pie XII et la Seconde guerre mondiale d'après les archives du Vatican
(Paris,
Perrin,
1997).
Ma il gesuita Blet era anzitutto un modernista. Ecco alcuni titoli della sua bibliografia: Le Clergé de France et la
monarchie. Étude sur les assemblées Générales du clergé de 1615 à 1666, (Roma, Pontificia Università Gregoriana,
1959); Girolamo Ragazzoni évêque de Bergame nonce en France. Correspondance de sa nonciature 1583-1586,
(Paris-Rome, De Boccard - Université Grégorienne, 1962); Correspondace du nonce en France Ranuccio Scotti
1639-1641, (Paris-Rome, De Boccard - Université Grégorienne, 1965); Les Assemblées du clergé et Louis XIV de
1670 à 1693 (Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1972); Histoire de la représentation diplomatique du SaintSiège des origines à l'aube du XIX siècle (Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 1982 e 1990); Le Clergé
de France, Louis XIV et le Saint-Siège de 1695 à 1715, (Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 1989); Le
Clergé
du
Grand
Siècle
en
ses
assemblées,
(Paris,
Cerf,
1995).
(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 1 dicembre 2009)
E il Re Sole
tramontò davanti a Papa Pacelli
di Raffaele Alessandrini
"Padre Blet in ospedale? L'ho trovato lucidissimo, pieno di vita nonostante le sue serie condizioni di
salute. Era davvero molto divertito dal cancan mediatico suscitato dalle sue dichiarazioni su Pio XII
e sulla Humani generis unitas, di cui, giorno dopo giorno, era aggiornato dal confratello Peter
Gumpel, il postulatore della causa di canonizzazione di Pio XII". Così Filippo Rizzi, il collega di
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"Avvenire" al quale lo storico gesuita aveva rilasciato pochi giorni fa la sua ultima intervista,
racconta al nostro giornale le sue impressioni e i suoi ricordi a caldo sulla notizia, appena giunta,
della morte dell'ultimo dei quattro studiosi della Compagnia di Gesù che per incarico di Paolo VI
curarono la pubblicazione dei dodici volumi degli Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la
seconde guerre mondiale (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1965-1982). Dopo la morte
dei padri Burkhart Schneider (1976) e Angelo Martini (1981) i superstiti dell'impresa erano stati
Robert Graham - che, sul finire del 1981, aveva con fierezza potuto scrivere a un vecchio amico
giornalista: "Missione compiuta. Due morti" - e proprio lui, Pierre Blet. Padre Graham sarebbe
morto nel 1997, dopo quindici intensi anni di studi e approfondimenti. Sulla breccia sarebbe rimasto
solo padre Blet. Proprio lui che era il meno contemporaneista dei quattro storici. Agli inizi, come
raccontava, aveva accettato l'incarico per obbedienza. I suoi interessi specifici riguardavano
soprattutto la Francia del Seicento, del Re Sole e di Richelieu, come dimostra ampiamente la sua
bibliografia. Eppure il gesuita francese si sarebbe grandemente appassionato della figura di Pio XII.
Un Papa il cui atteggiamento accorto, di riservato e operoso "silenzio" - ricordava Blet in questi
ultimi giorni - avrebbe avuto un significativo riconoscimento anche da Martin Gilbert, il biografo di
Winston Churchill. Per Gilbert infatti proprio l'atteggiamento di Pio XII fu decisivo per la salvezza
di un grande numero di ebrei dallo sterminio. Padre Blet, come ricorda ancora Rizzi, dopo essersi
tanto dedicato agli anni della guerra, sperava di poter scrivere una sintesi del pontificato di Papa
Pacelli. Studiando le sue encicliche era certo di vedere in lui l'autentico precursore del concilio
Vaticano II.
(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 1 dicembre 2009)
---------------------------Le tradizioni storiche e agiografiche sull'apostolo Andrea dalle Scritture canoniche e apocrife alla fortuna
medievale e moderna
Quella predica lunga tre giorni
In occasione della festa liturgica di sant'Andrea apostolo pubblichiamo ampi stralci di uno dei saggi contenuti nel
volume curato da Michail Talalay Dal lago di Tiberiade al mare di Amalfi. Il viaggio apostolico di Andrea il primo
chiamato (Amalfi, Centro di cultura e storia amalfitana, 2008, pagine 528, euro 40) che, in occasione dell'ottavo
centenario della traslazione delle reliquie del corpo dell'apostolo, ha raccolto i contributi di tre convegni dedicati a
sant'Andrea
nel
2002,
nel
2004
e
nel
2007.
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di Luigi Saccone
Intorno all'apostolo Andrea oltre a quello che narrano i vangeli canonici e gli Atti degli Apostoli, esiste
un'abbondante letteratura apocrifa. Questa può essere suddivisa in due gruppi: da una parte, i cosiddetti Atti di
Andrea e, dall'altra diversi testi, sempre riguardanti l'apostolo ma senza legami con gli Atti di Andrea. Insieme
con quelli di Andrea si annoverano altri quattro Atti - sempre apocrifi - di Giovanni, Paolo, Pietro, Tommaso.
Tutti insieme formano i "cinque grandi romanzi apostolici". Lo studio scientifico di questi Atti è iniziato a
partire dalla metà dell'Ottocento. Si deve al Lipsius la loro prima analisi completa.
Riassumendo a oggi i risultati della ricerca scientifica si può sostenere che gli Atti di Andrea costituiscono un testo
scritto originariamente in greco tra il ii e il iii secolo, forse in Acaia oppure nell'Asia Minore, anche se, in fin dei
conti, ne risulta impossibile una sicura collocazione geografica. Per quelli di Andrea non possediamo alcuna
testimonianza così antica come quelle che abbiamo per gli Atti di Pietro, di Giovanni e di Paolo. La prima
menzione ci proviene da Eusebio di Cesarea (morto nel 340), che annovera gli Atti di Andrea tra le opere diffuse
dagli
eretici.
L'originale non lo possediamo nella sua interezza, ma solo frammentariamente. Il racconto comporta due parti:
i viaggi e il martirio del santo. Resta tuttora molto difficile ricostruire la parte originaria riguardante i viaggi
dell'apostolo attraverso le città dell'Asia Minore e attraverso le città greche, nonché i miracoli compiuti. Secondo
il convincimento dei più accreditati studiosi, fonte principale per ricostruire gli Atti di Andrea è la traduzione
latina
abbreviata
fatta
da
Gregorio
di
Tours
(morto
nel
594).
La seconda parte degli Atti di Andrea, quella che riguarda il martirio, ha inizio nella città di Patrasso. Vi si
racconta che, dopo aver convertito un gran numero di persone, tra cui Stratocle e Massimilla, Andrea è
condannato a morte da Egeato. Prima di essere legato alla croce, Andrea pronuncia una lunga preghiera alla
croce, e poi, sulla croce, predica per tre giorni. Dopo la morte avvenuta il 30 novembre, Andrea è sepolto a
Patrasso. Questa parte è meglio conservata grazie al testo greco e quello armeno. La ricostruzione dell'insieme
degli Atti di Andrea è stata fatta da Jean-Marc Prieur sulla base dei testi greci e copti (due papiri), latini (testo di
Gregorio, lettera dei diaconi di Acaia) e armeni, e delle citazioni patristiche (Agostino, Evodio di Uzala e altri).
Sebbene qualche studioso ritenga che gli Atti non contengano elementi sufficienti per considerare eterodosso
l'autore, il quale poteva ben restare con le proprie idee senza sentirsi fuori della grande Chiesa, il testo presenta
un carattere nettamente encratita. Attesta cioè non solo un forte apprezzamento per la verginità e la castità, ma,
nello stesso tempo, una forma di ascetismo estremo, che nella Chiesa antica apparve ben presto sospetta, in
quanto implicava il rifiuto dei beni creati da Dio a uso e servizio degli uomini come, per esempio, l'esclusione
delle nozze, della procreazione o del cibarsi di carne o bere vino. Non meraviglia, perciò, che gli Atti di Andrea si
diffondessero fra correnti ereticali, manichei e priscillianisti, mentre la versione di Gregorio di Tours li epura di
tutti
gli
eventuali
influssi
ereticali.
Un altro gruppo di testi su Andrea è costituito dal libro iii della raccolta dello Pseudo Abdia, dagli Atti di Andrea
e Mattia nella città degli antropofagi, e dagli Atti di Pietro e Andrea. Esiste, inoltre, un grande numero di vari Atti
di Andrea in lingue orientali e anche un Vangelo di Andrea come riporta il Decreto pseudo-gelasiano (5, 3, 2). La
festa di sant'Andrea del 30 novembre è già confermata nel iv secolo da Gregorio di Nazianzo. Le reliquie
dell'apostolo furono portate da Patrasso a Costantinopoli nel 357 insieme con quelle di Luca e di Timoteo. Il 9
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maggio è la commemorazione di questa traslazione. Nella scia degli Atti, le tradizioni intorno ad Andrea hanno
alimentato leggende medievali, come quelle della missione in Ucraina, oppure le leggende germaniche. Senza
dubbio, anche grazie a queste tradizioni, in oriente come in occidente, Andrea è e resta uno dei santi più
popolari.
(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 1 dicembre 2009)
--------------------------Il bello della «Legenda aurea»
"Andrea significa "bello" o "capace di responsi" o "virile" da andor, cioè "uomo". Andrea inoltre è quasi come
anthropos, cioè "essere umano", da ana che vuol dire "su" e tropos che indica il "volgersi", vale a dire che si è
volto in su alle cose celesti e si è indirizzato al suo creatore. Dunque fu bello nella sua vita, capace di responsi in
una sapiente dottrina, virile nella sofferenza e anthropos nella gloria. Trascrissero la sua passione i presbiteri e i
diaconi
d'Asia,
così
come
l'avevano
veduta
coi
loro
stessi
occhi".
Così comincia la vita di sant'Andrea nella più diffusa raccolta agiografica che per quasi mezzo millennio ha
nutrito la spiritualità e l'immaginario cristiani, la Legenda aurea del domenicano Iacopo da Varazze (1228-1298).
Che iscrive "l'intero tempo della vita umana" nell'anno liturgico e inizia dunque con l'avvento, tempus
renovationis
sive
revocationis
("tempo
del
rinnovamento
o
del
richiamo").
La prima vita è dunque quella di sant'Andrea apostolo, il cui inizio - sull'etimologia del nome, secondo le raccolte
onomastiche in uso nel giudaismo e cristianesimo antichi - qui è stato citato dall'ultima magnifica edizione
critica, pubblicata con traduzione italiana a fronte a cura di dieci studiosi coordinati da Francesco Stella e con
una premessa di Claudio Leonardi (Iacopo da Varazze, Legenda aurea, con le miniature del codice Ambrosiano C
240 inf., testo critico riveduto e commento di Giovanni Paolo Maggioni, Firenze-Milano, Sismel Edizioni del
Galluzzo - Biblioteca Ambrosiana, 2007, Edizione Nazionale dei testi mediolatini, 20, serie ii, 9, pagine lxxi +
1820,
euro
190).
Tradotta già nel medioevo in castigliano, nell'ultimo trentennio del Quattrocento la compilazione di Iacopo da
Varazze fu tra i primi libri stampati in Spagna, già tra il 1471 e il 1475 (forse a Santiago de Compostela), poi a
Burgos nel 1500. Seguirono altre edizioni tra cui, a Siviglia nel 1520, quella dello stampatore salmantino Juan de
Varela, il cui testo (o un altro molto vicino) fu la versione che accompagnò la conversione di Ignazio di Loyola tra
il 1521 e il 1522. E proprio questa traduzione è stata studiata ed edita criticamente dal gesuita Félix Juan
Cabasés - dal 1978 al 1986 leggendario redattore capo della Radio Vaticana - per i "Monumenta Historica
Societatis Iesu" (Series nova, 3) con il titolo Leyenda de los santos, Madrid, Universidad Pontificia Comillas Institutum Historicum Societatis Iesu, 2007, pagine xcviii + 913. (g.m.v.)
(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 1 dicembre 2009 )
--------------------------1/12/2009 Trent'anni fa la profezia di "The Wall"
GABRIELE FERRARIS Trent’anni fa, il 30 novembre 1979, la band inglese dei Pink Floyd
pubblicava uno dei suoi dischi meno riusciti. S’intitolava «The Wall» e non valeva tre accordi di
«Atom Earth Mother» e «Dark Side of The Moon». Come spesso accade ai non-capolavori, «The
Wall», sublime sintesi di mid-culture musicale e drammi post-adolescenziali, in questi trent’anni ha
largamente superato in popolarità gli autentici capolavori dei Pink Floyd, e un centinaio di altri
capolavori rock; di più, a dieci anni dalla pubblicazione se n’è sgattaiolato dalla storia del pop per
insinuarsi nella Storia tout court, in concerto sulle macerie del Muro di Berlino.
In realtà «The Wall» è l’opera di uno solo dei Pink Floyd, Roger Waters; una seduta psicoanalitica
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scritta per saldare i debiti della band con il fisco inglese. Disco doppio, mega-tour, film di successo:
una fabbrica di soldi scivolata impercettibilmente, milione di sterline dopo milione di sterline, nel
mito; fino al luogo comune. Al di là dei reali significati, l’invocazione «Ehy, teacher, leave the kids
alone», i martelli che marciano al passo dell’oca, l’idea stessa di «another brick in the wall»,
appartengono al nostro immaginario. Simboli condivisi. Un tempo vissuti come un’estrema
ribellione libertaria. Oggi, chissà: forse come un’orwelliana profezia.
Fonte: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?
ID_blog=25&ID_articolo=6683&ID_sezione=&sezione=
----------------------30/11/2009 (7:38) - MUSICA
Il Wall dei Pink Floyd compie 30 anni
Il 30 novembre 1979 usciva la monumentale opera rock The Wall
LONDRA
Il 30 novembre del 1979 usciva The Wall, doppio concept-album dei Pink Floyd (ne avevano al loro
attivo già uno, Ummagumma), una monumentale opera rock in cui Roger Waters, autore di quasi
tutti i brani, raccontava la vicenda di Pink, un personaggio largamente autobiografico - ma anche
ispirato dall’ex Floyd Syd Barrett - schiacciato da un’esistenza di alienazione e solitudine, fino a
costruire attorno a sè un muro metaforico.
Un disco che avrebbe diviso i fan del gruppo inglese, tra chi lo considera il loro massimo
capolavoro, e chi lo ritiene uno sgradito cambio di rotta più che altro commerciale per la band di
Animals e The Dark side of the moon, che dopo quell’esperienza (le liti durante la registrazione non
si contarono) cessò di esistere come quartetto, con l’uscita di Waters.
Caratterizzato da suoni più rock che psichedelici, permeato da violenza (molti i richiami alla guerra,
il padre di Waters rimase ucciso ad Anzio nella seconda guerra mondiale) e oppressione, l’album
ebbe come brano-simbolo Another brick in the wall (che è anche il leit-motiv che attraversa il
disco), che sbancò le classifiche di mezzo mondo, ma anche classici come Is there anybody out
there? o Comfortably numb.
La complessa e simbolica narrazione rese The Wall molto più che un album: sin dai primi ascolti si
caratterizzò anche e soprattutto come un’opera destinata a essere vista oltre che ascoltata. Da qui il
film Pink Floyd-The Wall (1982), diretto da Alan Parker e interpretato da un allora semisconosciuto
Bob Geldof, nella parte di Pink. Ma anche e soprattutto un concerto spettacolare (con tanto di muro
che veniva edificato e poi crollava), che i Floyd fecero in poche, selezionate città: New York, Los
Angeles, Londra e Dortmund. Quei concerti finirono nel doppio live Is There Anybody Out There?:
The Wall Live 1980-1981.
The Wall - Live in Berlin, fu invece una performance dal vivo del disco fatta da Waters e da
numerose altre rockstar a Berlino il 21 luglio 1990, per ricordare la caduta del muro, quello vero tra
est e ovest, otto mesi prima. A trent’anni di distanza, forse la cifra sonora di The Wall non è più così
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moderna, ma i messaggi sull’alienazione dell’uomo contemporaneo, e l’inquietudine a tratti
angosciosa che lo permea mantengono la loro forza.
A prescindere dalle opinioni, The Wall è tra i pochi dischi che possano considerarsi «opera rock»,
affreschi complessi di un mondo musicale scomparso per sempre. Per questo, trent’anni dopo, si
può tranquillamente accomodare nel pantheon dei classici, in compagnia di ben pochi altri dischi,
come Tommy degli Who e The lamb lies down on Broadway dei Genesis.
Fonte: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/spettacoli/200911articoli/49883girata.asp
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Rinascimento, quando i cinesi li copiavamo noi
In un saggio nuove teorie sui contatti tra Firenze e
l’Oriente. Lo scrittore: Rinascimento copiato da Zheng He.
Gli storici: solo indizi
FIRENZE - «Paolo il fisico, al Canonico di Lisbona. Ti ho parlato della via di mare da qui all’India
(così era chiamata la Cina nel XV secolo): una strada che è più corta. E perciò mando a sua Altezza
una carta disegnata con le mie mani, nella quale ho indicato la costa dell’Irlanda e, opposta ad essa,
direttamente a Ovest, l’inizio dell’India e quante miglia tu devi fare prima di arrivare a questi posti
che sono i più ricchi di ogni tipo di spezie, gemme e pietre preziose. Nei giorni di Papa Eugenio IV
è arrivato un ambasciatore del Gran Khan ed ho avuto una lunga conversazione con lui su molte
cose». «Paolo il fisico, a Cristoforo Colombo. Io avverto il vostro magnifico e grande desiderio di
navigare verso l’Est da Ovest. Vi mando la copia della lettera inviata al Canonico di Lisbona per il
viaggio che non solo è vero che sia possibile, ma anche è certo che sarà onorevole, porterà profitti
incalcolabili e grande fama a tutti i Cristiani». In questa lettere, scritte nel 1474 dal fisico e
astronomo fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli al canonico Fernan Martinez de Roriz, confessore
di Re Alfonso e della corte del Portogallo, e a Cristoforo Colombo, potrebbe nascondersi la prova
che il navigatore genovese è arrivato in America grazie a carte cinesi e che tutto partì da Firenze.
RINASCIMENTO COPIATO DA ZHENG HE? - Ma non solo: secondo Gavin Menzies, storico
dilettante, ex sommergibilista inglese, l’arrivo di un’ambasciata cinese nel 1434 e il massiccio
trasferimento di tecnologie orientali fu all’origine del Rinascimento, di molte delle invenzioni di
Leonardo, di innovazione decisive nella lavorazione della seta e per lo sviluppo delle risaie venete e
lombarde. Colpevole, l’ammiraglio Zheng He, eunuco, musulmano, grande navigatore (celebre la
spedizione del 1405 con 317 navi e 28.000 soldati a bordo che raggiunse le coste orientali dell’Africa, il Mar Rosso, Giappone e Corea) che nel 1434 arrivò a Venezia, guidando un’ambasciata
che aveva scopi commerciali, ma anche l’incarico di parlare con il Papa. L’incontro con Eugenio IV
ci fu, proprio a Firenze, e lì Paolo dal Pozzo Toscanelli parlò con l’ambasciatore e avrebbe appreso
molte cose, copiando anche le carte geografiche elaborate proprio grazie ai viaggi di Zheng He.
Sempre attingendo alle conoscenze portate dai cinesi — sostiene Menzies nel suo libro 1434, l’anno
in cui una magnifica flotta cinese sbarcò in Italia e dette inizio al Rinascimento , disponibile per
adesso solo in inglese — l’ambiente fiorentino dette vita a quel fenomenale movimento. Firenze e la
Cina avevano contatti da due secoli (nel 1225 lo storico Zhao Ruqua parlava dei fiorentini nella sua
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«descrizione dei popoli barbari» e la Fiorenza era nota come Farang o Fulin), la città toscana era
piena di schiave arabe, russe e mongole, i suoi commercianti giravano mezzo mondo, proprio in
quell’anno Cosimo de’ Medici tornava in città dopo l’esilio e gli indizi «cinesi» scovati da Meniez
sono intriganti. Nel giallo, oltre a Zheg He (ritenuto anche scopritore di America, Nuova Zelanda,
Australia e Antartide) e Colombo sono coinvolti Leonardo da Vinci e Papa Eugenio IV, Filippo Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Mariano Taccola, Medici e Visconti, Amerigo Vespucci, Magellano,
la conquista di Pisa da parte di Firenze nel 1406, un dipinto del Pisanello (datato 1433-1438, vi si
vedono un ammiraglio mongolo assieme a soldati cinesi, bufali d’acqua e navi simili a quelle di
Zheng), il veneziano Niccolò da Conti e altro ancora.
La Santa Maria (piccola)
confrontata con la nave di
Zhen He
GLI STORICI RIBATTONO: SOLO INDIZI - Tutto vero? No, per lo storico Franco Cardini,
perchè alcuni indizi non fanno una prova. E perchè la tentazione codicedavinciana è sempre dietro
l’angolo. No, anche secondo gli esperti dell’Istituto Geografico Militare di Firenze. «Che Zheng He
possa essere arrivato in America è un’ipotesi, ma ciò non ebbe nessun effetto reale esplicito ed è
ancora più difficile pensare ad un effetto implicito come carte di navigazione copiate da Paolo dal
Pozzo Toscanelli — dice Franco Cardini — È facile prendere alcuni indizi isolati, fare di analogie
sporadiche una teoria. Le conoscenze cartografiche all’epoca arrivavano anche dall’islam turco e
persiano, che forse mediava conoscenze cinesi, ma proprio in quel tempo la Cina iniziò la chiusura
che sarebbe durata per secoli. A Firenze c’era dimestichezza con l’Oriente, c’erano schiave arabe e
tartare che parlavano quelle lingue, i meticci non facevano scandalo e lo era anche Alessandro de’
Medici, con il Concilio del 1439 arrivarono missioni diplomatiche da Russia, Etiopia e il veneziano
Niccolò de Conti conosceva l’India, ma che le carte di Colombo fossero cinesi è solo un’idea
strampalata». «La carta inviata da Toscanelli al Re del Portogallo prima e a Colombo poi non esiste,
è andata persa— sottolinea Andrea Cantelli, responsabile dell’area cartografica dell’Istituto
Geografico Militare — e quindi ogni confronto è impossibile, con carte di qualsiasi provenienza ».
EFFETTO DAN BROWN - Carte a parte, davvero le conoscenze cinesi copiate dai fiorentini
innescarono il Rinascimento? «L’effetto Dan Brown — ride Cardini — è sempre in agguato. Il
Concilio di Firenze del 1439 portò molte conoscenze filosofiche e letterarie dall’Oriente ed
altrettanto fecero i dotti in fuga da Costantinopoli dopo la conquista della città da parte di Maometto
II nel 1453, ma lo scambio tra Oriente e Occidente c’è sempre stato, tanto che era comune il fenomeno dei finti ambasciatori cinesi che giravo le corti cercando di fare affari e truffare e che i testi
scientifici greci ci sono arrivati attraverso gli arabi. Chissà se a Firenze venne Vlad Tepes III,
Dracula, per incontrare Papa Pio II che gli scriveva per chiedergli aiuto nella crociata contro i turchi, e può darsi che anche l’ambasciata cinese dell’ammiraglio passasse in città. Ma se Zheng He
raggiunse l’America non se ne accorse nessuno allora; e lo stesso sarebbe oggi se non ci fossero
certi libri...».
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Mauro Bonciani
01 dicembre 2009
Fonte: http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/arte_e_cultura/2009/1-dicembre2009/rinascimento-quando-cinesi-li-copiavamo-noi-1602087906784.shtml
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3 dicembre 2009
L'archivio digitale del prete di Caltagirone nel nuovo portale in rete dell'Istituto Luigi
Sturzo
Un porto sicuro e pieno di sorprese
per storici in navigazione
Si è concluso venerdì 27 novembre a Roma, presso l'Istituto Luigi Sturzo, il convegno di studi
storici "Luigi Sturzo nella storia e nella cultura politica del Novecento" nel cinquantesimo
anniversario della morte del sacerdote e politico siciliano. Pubblichiamo ampi stralci
dell'intervento
della
responsabile
dell'archivio
storico
dell'Istituto.
di Concetta Argiolas
Grazie all'utilizzo delle potenzialità informatiche e alla condivisione del suo immenso patrimonio
documentario l'Istituto Luigi Sturzo ha deciso, nel cinquantesimo anniversario della morte, di
dedicare un sito web (www.luigisturzo.it) al fondatore del Partito popolare italiano per divulgarne
ulteriormente la figura oltre la tradizionale cerchia, tra un pubblico più esteso, sia anagraficamente
che
geograficamente.
Attraverso la messa in rete di più di 4.000 pagine di inventari del suo archivio, di una selezione di
centinaia di documenti ivi conservati, della monumentale opera omnia, delle numerose
pubblicazioni e degli eventi curati negli anni dall'Istituto, delle testimonianze dei più autorevoli
studiosi e di testi di approfondimento storico appositamente elaborati, il sito offre un'ampia
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possibilità di consultazione integrata di fonti archivistiche e bibliografiche, compresi documenti
iconografici e audiovisivi, a dimostrazione della ricchezza e dell'importanza del patrimonio
documentario tramandato da Sturzo. Il tutto seguendo un percorso di navigazione molto semplice e
adatto
a
qualsiasi
tipologia
di
utente.
In particolare, la fondamentale presenza nel sito della documentazione personale di Sturzo
contribuisce a far conoscere a un più largo pubblico le infinite potenzialità del suo archivio: un
vero e proprio "archivio della vita" come l'ha felicemente definito Gabriele De Rosa. Basta scorrere
gli inventari per rendersi conto delle opportunità che queste carte offrono alla riflessione storica. Tra
l'altro oltre 50.000 lettere dell'esilio inglese e americano, che consentono di ripercorrere
avvenimenti come i Patti Lateranensi, la guerra d'Etiopia, la guerra civile spagnola, l'ascesa del
nazismo, le origini della seconda guerra mondiale e i problemi del trattato di pace; fino alle 800
buste di carte del secondo dopoguerra, che ci permettono di ricostruire la battaglia contro lo
statalismo, in difesa della moralizzazione della vita pubblica, delle istituzioni democratiche e
dell'ispirazione
solidaristica
e
cristiana
nella
vita
economica
e
sociale.
Un patrimonio documentario immenso: 1.500 buste di documenti, di cui circa 1.000 custodiscono
la corrispondenza dal 1886 al 1959, in parte pubblicata o in corso di pubblicazione nell'opera
omnia, e le restanti contenenti, invece, tutte le molteplici versioni e stesure degli oltre 3.000 articoli
giornalistici
nonché
le
monumentali
opere
monografiche.
E se guardiamo all'attività di Sturzo come a una realtà polifonica, sviluppatasi, nell'arco di più di 60
anni, su diversi livelli - quello della corrispondenza, quello dell'attività pubblicistica e quello degli
scritti monografici - non c'è dubbio che i carteggi rivelano l'ossatura non solo di un pensiero ma
anche
dei
momenti
salienti
di
un'esistenza.
Nella loro completezza, queste carte svelano preziose indicazioni, oltre che sulle tematiche
specifiche, anche sui rapporti intrattenuti e sui tipi d'ambiente frequentati da Sturzo nel corso della
lunga e movimentata esistenza, sui fattori personali, quotidiani e materiali dell'intensa e metodica
attività di amministratore e di studioso e ci danno la conferma non solo dell'altezza e della singolare
lungimiranza del pensatore politico, della stima e della notorietà di cui godette, ma anche degli
aspetti più intimi e spirituali della sua biografia, cosa questa non meno importante. Ferme restando
le enormi potenzialità che questo patrimonio offre alla ricerca storica e allo studio della biografia di
Sturzo, da un'attenta lettura delle lettere e delle poesie, ma soprattutto da un'accorta analisi del suo
vissuto quotidiano, emergono con chiarezza anche elementi più intimi della personalità di Sturzo. E,
se è vero che prima che sacerdote, politico e studioso, egli è stato innanzitutto un uomo con il suo
temperamento e le sue umane apprensioni, allora non si può concludere senza accennare ad alcuni
tratti caratteristici delle sue abitudini, del suo stile e del suo modo di vivere. Penso, per esempio, al
controllo costante e alla meticolosità ossessiva con cui gestiva il tempo e i rapporti con gli altri,
come emerge dalla corrispondenza e dai diari personali, sui quali, con sorprendente minuzia
annotava, tra l'altro, tutti i contatti intrattenuti ogni giorno con i suoi numerosissimi interlocutori;
penso alla scrupolosa attenzione che riponeva nella conservazione dei suoi scritti, così come emerge
dalla struttura del suo immenso archivio: nulla doveva sfuggirgli, tutto andava annotato, appuntato,
segnato, ritagliato e ordinatamente archiviato; penso ancora alla continua verifica alla quale
sottoponeva le indagini e gli studi, di cui trattava solo quando li aveva sviscerati in tutti i dettagli e
se ne era impadronito a fondo, così come dimostra l'immensa mole di documentazione conservata di
cui si avvaleva per la loro elaborazione. E penso, infine, alle minuziose precauzioni che prendeva
per monitorare l'idoneità degli ambienti in cui doveva vivere e lavorare e al costante timore per la
precarietà della sua salute, le cui condizioni venivano spesso annotate nei suoi diari. Tutti tratti che
potrebbero semplicemente definirsi di intransigente controllo, ma che a una più attenta, seppur
discreta, analisi appaiono, invece, come il frutto di una profonda sensibilità, di una comprensibile
umana fragilità e di una conseguente inconscia difesa. Tutti tratti che indubbiamente colpiscono
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perché in apparente contrasto con la lucida mente, il pratico intelletto e la forte azione, ma che di
fatto avvicinano ancor più alla figura di Sturzo, senza certo offuscarne il vigore intellettuale, la
concretezza delle esperienze e del superiore esempio, anzi, facendone ulteriormente apprezzare gli
sforzi e l'alto prezzo pagato, anche in termini di interiori e quotidiane sofferenze, per la coerente
applicazione del suo metodo e del suo pensiero.
(©L'Osservatore Romano - 3 dicembre 2009)
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Matematica, filosofia e scienza secondo il pensiero del filosofo greco
La fisica di Aristotele
confermata da relatività e quantistica
A conclusione dell'anno galileiano, si conclude il 2 dicembre il convegno "From Galilei's Telescope to Evolutionary
Cosmology. Science, Philosophy and Theology in Dialogue" organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze e
dalla Pontificia Università Lateranense. Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento di uno dei relatori.
di Enrico Berti
La "via" aristotelica va da una cosmologia fisica, una visione dell'universo determinata dalla scienza della
natura, a una cosmologia metafisica, cioè a una visione dell'universo che approda a un principio metafisico,
trascendente la realtà fisica. Al termine della sua Fisica, per spiegare quello che egli riteneva essere il movimento
eterno del primo cielo, o cielo delle stelle fisse, Aristotele è costretto ad ammettere la necessità di un motore
immobile, cioè di un principio che, per il fatto di essere appunto immobile, si sottrae all'ambito del mondo fisico,
caratterizzato dal movimento, e quindi si caratterizza come "metafisico". Dunque la cosmologia fisica entra in
misura massiccia nel discorso metafisico di Aristotele, ma per una ragione che dovrebbe essere apprezzata
soprattutto dai filosofi moderni e contemporanei, cioè per la necessità di "fare i conti con la scienza del proprio
tempo".
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Al rispetto verso la scienza, in particolare verso la matematica, si unisce tuttavia, in Aristotele, la convinzione che
la fisica non sia una scienza matematica, e quindi non abbia il carattere di rigore assoluto e di assoluta necessità
che a suo giudizio caratterizza la matematica, ma sia una scienza meno esatta, più "flessibile", cioè più
approssimativa, la quale enuncia non ciò che accade sempre, cioè in tutti i casi, ma ciò che accade nella maggior
parte
dei
casi,
quindi
con
eccezioni
alla
regola.
Questo carattere di flessibilità, di approssimazione, che Aristotele attribuiva alla fisica, non sempre fu tenuto
nella necessaria considerazione, sia da quanti si richiamavano ad Aristotele, come ad esempio il grande logico del
Cinquecento Giacomo Zabarella, sia da quanti si opponevano alla sua fisica, ma non alla sua logica, come Galileo
Galilei.
Il momento specificamente metafisico della via aristotelica dalla cosmologia fisica alla cosmologia metafisica non
subì alcun sostanziale mutamento nell'antichità. Invece il momento specificamente fisico della via aristotelica,
cioè quello riguardante la struttura dell'universo fisico, subì profonde trasformazioni rispetto allo stadio a cui
era giunto con Aristotele. Della incompatibilità del sistema tolemaico con la fisica e la cosmologia aristotelica si
avvidero chiaramente i filosofi aristotelici ortodossi del medioevo, cioè il musulmano Averroè, l'ebreo Mosè
Maimonide e il cristiano Tommaso d'Aquino, i quali non esitarono a schierarsi dalla parte di Aristotele,
relegando il sistema tolemaico al livello di semplice ipotesi matematica, non necessariamente vera.
Nel Cinquecento la distinzione aristotelica tra fisica e matematica finì con l'essere in gran parte trascurata,
perché si elaborò il metodo del cosiddetto regressus, applicabile indistintamente a tutte le scienze, sia fisiche che
matematiche e metafisiche. Questo consiste in due percorsi, il primo, che in fisica va dagli effetti alle cause e in
matematica va dalle conseguenze alle premesse, è chiamato "metodo risolutivo" o analisi, e identificato con
quella che Aristotele chiamava la "dimostrazione del che", e gli scolastici dimostrazione "a posteriori"; il
secondo percorso, complementare al primo, che in fisica va dalle cause agli effetti, cioè dai principi
all'esperienza, e in matematica va dalle premesse alle conclusioni, è chiamato "metodo compositivo" o sintesi, e
identificato con quella che Aristotele chiamava la "dimostrazione del perché", e gli scolastici dimostrazione "a
priori".
Colui che formulò nel modo più rigoroso, divenuto poi più influente, questo metodo, fu il logico aristotelico
Giacomo Zabarella, il quale tuttavia fraintese la distinzione stabilita da Aristotele tra l'uso matematico e l'uso
fisico dell'analisi, interpretando la precisazione di Aristotele che l'analisi è sicura solo "nelle scienze
matematiche" (èn tòis mathèmasin), come se essa significasse "in tutte le discipline" (in disciplinis), e quindi
anche
in
fisica.
È interessante il fatto che a questo metodo aderì anche Galilei, il quale lo apprese dalle sue frequentazioni
giovanili dei gesuiti del Collegio Romano, profondamente influenzati da Zabarella. Anche Galilei, infatti,
credette che la fisica, in particolare l'astronomia, si strutturasse come la matematica, cioè procedesse con metodo
prima risolutivo e poi compositivo, e in tal modo fosse in grado di fornire "necessarie dimostrazioni", cioè
dimostrazioni dotate di necessità, non solo dalle cause agli effetti, ma anche dagli effetti alle cause. Del resto in
logica egli si considerò sempre, come è noto, del tutto aristotelico, riferendosi all'aristotelismo del suo tempo, cioè
soprattutto di Zabarella. La novità che Galilei introdusse nel regressus furono gli esperimenti, le "sensate
esperienze",
cioè
il
cosiddetto
metodo
sperimentale.
Questa convinzione era comune anche a un aristotelico come il cardinale Roberto Bellarmino, malgrado il suo
celebre richiamo alla differenza tra ipotesi matematiche e dimostrazioni fisiche contenuta nella lettera al padre
Antonio
Foscarini.
Bellarmino considera ipotesi matematiche sia la teoria copernicana che quella tolemaica, ma è convinto che le
Scritture sostengano il geocentrismo e, per cambiare tale interpretazione, pretende da Galileo una dimostrazione
dell'eliocentrismo di tipo assolutamente necessario, come se si trattasse di decidere tra due verità assolute.
Il paradosso è che la stessa convinzione era presente anche in Galilei, il quale, come è noto, riteneva di avere
trovato l'argomento che provava in modo assolutamente necessario la verità della teoria copernicana e lo
individuava nel fenomeno delle maree, da lui spiegato come conseguenza del moto della Terra. Eppure Galilei
aveva capito che la Scrittura non ha bisogno di trovare conferma nelle necessarie dimostrazioni, perché essa non
ci insegna come va il cielo, bensì come si va in cielo. Non c'è da stupirsi, quindi, che un teologo di corte, come
padre Niccolò Riccardi, "maestro del Sacro Palazzo", cioè teologo del Papa, abbia condiviso questa stessa logica
ammessa
dal
cardinale
Bellarmino
e
dallo
stesso
Galileo.
È noto, infatti, che quando Galileo chiese l'imprimatur per la pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi
sistemi, il padre Riccardi, cui competeva tale concessione, gli pose tre condizioni: mutare il titolo, che nella
versione originale suonava Del flusso e riflesso del mare, cioè alludeva proprio alle maree come prova del moto
della terra e quindi dell'eliocentrismo; presentare la teoria copernicana come una semplice ipotesi matematica;
riportare l'osservazione fattagli alcuni anni prima in udienze private da Urbano viii, secondo la quale
l'argomento delle maree, dimostrando il carattere necessario dell'eliocentrismo, avrebbe potuto limitare
l'onnipotenza
di
Dio.
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Di questo discorso è interessante anzitutto la licenza che il teologo del Papa concede a Galileo di criticare "la
filosofia peripatetica", la quale licenza dimostra che alla Chiesa non interessava tanto difendere l'aristotelismo,
come molti vanno ripetendo, quanto difendere la propria interpretazione delle Scritture.
In conclusione, è vero che in Aristotele la cosmologia metafisica è condizionata dalla cosmologia fisica, ma è
anche vero che Aristotele non attribuisce alla cosmologia fisica, e alla fisica in generale, lo stesso carattere di
necessità che egli attribuiva alle dimostrazioni matematiche, e che gli aristotelici moderni - non quelli medievali nonché il cardinale Bellarmino, Urbano viii e lo stesso Galilei, attribuirono alla cosmologia fisica.
Solo in tempi recenti, dopo la cosiddetta seconda rivoluzione scientifica, quella verificatasi tra Ottocento e
Novecento a opera della teoria delle relatività, del principio di indeterminazione e della fisica quantistica, si è
compreso il carattere non necessario, ma approssimativo, cioè statisticamente probabile, della scienza in generale
e quindi della stessa cosmologia fisica, quello stesso carattere approssimativo che secondo Aristotele distingueva
la fisica dalla matematica. Perciò solo in tempi recenti è venuto meno il pericolo di un contrasto tra la fisica e la
metafisica, cioè si è ristabilita grazie alla costruzione di una nuova fisica quell'armonia tra scienza e filosofia che
esisteva al tempo di Aristotele.
(©L'Osservatore Romano - 3 dicembre 2009)
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L'ostilità verso le conversioni dall'ebraismo
Edith Stein
una martire per due popoli
"Pagine ebraiche" - il mensile dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane diretto da Guido
Vitale - pubblica sul numero di dicembre un articolo, qui anticipato, che replica a un intervento
uscito sul primo numero.
di Lucetta Scaraffia
Uno dei punti basilari della Dichiarazione dei diritti votata dall'Onu nel 1948 prevedeva il diritto di
"avere o cambiare religione" poi trasformato nel 1966, per pressione in gran parte islamica, in
quella ad "avere o adottare una religione" e poi, definitivamente, nel 1981, nel diritto ad "avere una
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religione".
La filosofa Donatella Di Cesare, nel suo articolo su
Edith Stein pubblicato sul primo numero di "Pagine Ebraiche" - ma perché un giornale così
interessante doveva iniziare con una caduta del genere? - sembra condividere proprio questo tipo di
ostilità verso le conversioni. Tanto da scrivere che Edith Stein, "alla disperata ricerca di
un'assimilazione negata, si era messa a scrivere di mistica, diventando cattolica, tomista e perfino
carmelitana".
E prosegue definendo la conversione "fuga assurda" e il suo essere carmelitana "una sorta di festa in
costume" con le parole di Günther Anders, che parafrasa, ma omettendo però di scrivere che lo
stesso filosofo nemmeno si sognò di mettere in dubbio "la bona fides, se non l'optima fides, di Edith
Stein", ben diversa ai suoi occhi dalla conversione per convenienza del comune maestro Husserl.
Insistere sul fatto che la conversione della Stein e la sua scelta di farsi religiosa carmelitana
avvennero alla fine di un percorso consapevole e intenso anche dal punto di vista intellettuale è
talmente noto da essere inutile. Le parole con cui Di Cesare bolla la filosofa facendosi scudo con
citazioni estrapolate da Anders - che non può essere considerato l'unico veridico testimone e
interprete solo per il fatto di essere nato anche lui a Breslavia e di averla conosciuta in gioventù sono dunque sintomo non solo di disinvolta approssimazione, ma di un forte pregiudizio nei
confronti delle conversioni dall'ebraismo, in questo caso poi particolarmente infondato.
Ma se a Edith Stein viene negato il diritto di scegliere la sua vita e la sua religione, Di Cesare
attribuisce alla Chiesa cattolica colpe e poteri che storicamente non hanno fondamento: sui silenzi
di Pio xii il dibattito può essere considerato ancora aperto, malgrado una sempre più estesa
documentazione - prodotta non solo da parte cattolica - che ha smontato questa interpretazione, ma
dal punto di vista storico è assurda la dichiarazione che "quella ebrea", cioè la Stein, "forse non
sarebbe
stata
ridotta
al
silenzio
se
la
Chiesa
non
avesse
taciuto".
Di Cesare infatti sembra ignorare che della recrudescenza antisemita in Olanda - che portò alla
deportazione della religiosa e di sua sorella, anch'essa convertita e ospitata nello stesso monastero una delle principali cause fu notoriamente proprio la severa presa di posizione pubblica del clero
cattolico olandese contro la persecuzione nazista degli ebrei. Per questo Edith Stein può essere
considerata al tempo stesso martire ebrea e cristiana, come del resto lei ha sempre voluto essere,
fedele
al
suo
popolo
anche
nella
conversione
e
nella
vita
religiosa.
E proprio per questo si dovrebbe ritenere la Stein appartenente a entrambi i popoli, in misura di
quanto essi hanno intenzione di avvicinarsi al suo insegnamento e ai suoi scritti. E solo l'ignoranza
dei fatti, oppure un pregiudizio non scalfibile, può spiegare l'uso di un'altra citazione di Anders, e
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cioè che il Vaticano si occupa tanto della Stein "solo perché sente l'urgenza di procurarsi un alibi".
Chi ha promosso e sostenuto la pensatrice è stato Giovanni Paolo II, Papa filosofo vicino alla
fenomenologia di Husserl e della stessa Stein, che vedeva nel pensiero e nell'esempio femminile
della
filosofa
carmelitana
un
modello
per
la
Chiesa
moderna.
Si è trattato, in sostanza, di una scelta femminista e culturale, come prova, del resto, l'ingente
bibliografia sulle opere filosofiche e mistiche dell'intellettuale. La morte nel campo di sterminio è
stata decisiva per dichiararla martire, e quindi rendere più rapido un percorso di canonizzazione
altrimenti destinato a essere molto più lungo - chi chiede miracoli a una filosofa? - e per questo
fortemente sostenuto da un Papa che voleva portarla al centro dell'interesse della cultura
contemporanea, non solo cattolica.
(©L'Osservatore Romano - 3 dicembre 2009)
------------I am the eye in the sky
È morto Eric Woolfson, il cantante di quasi tutte le canzoni degli Alan Parsons Project.
In reverenza, la playlist dello APP, da “Playlist“.
Don’t let it show (I Robot, 1977) Militante del “concept album”, Alan Parsons aveva cominciato con un disco
sull’opera di Edgar Allan Poe e proseguì con uno dedicato ad Asimov. Mescolava per ideologia aziendale suoni
classici, rock ed elettronica, e aveva al centro questo lento a base di organo da chiesa che incitava a tenersi tutto
dentro e a non mostrare al mondo sconforti e disperazioni: mentire, dissimulare, fare come se fosse tutto
normale. Una specie di inno anti-mobbing.
Some other time (I Robot, 1977) Nanannàaaa, nana nanà nananà… Una specie di flauto elettronico. E poi:
pappappàaa papa papà papapà! Fiati, fiati. Pezzone epico, dove viene giù tutto il baraccone.
Shadow of a lonely man (Pyramid, 1978) I dischi della band seguivano schemi abbastanza simili, e così le canzoni.
Questo è il lentone solenne conclusivo. Il migliore, nel suo genere, come grandezza melodica. Con quel giusto di
malinconia da sconfitta che è a sua volta un ingrediente diffuso nell’opera del dottor Parsons. “But the sounds of
the crowds when they come to see me now is not the same”, anticipa il tema di “Duchess” dei Genesis.
Winding me up (Eve, 1979) Questa è fantastica. Suono di carica del carillon, carillon, strofa precipitosa e
ritornello leggero, estivo.
E poi la madre di tutti gli assoli strumentali dell’Alan Parsons Project, con il tema ripetuto in arrangiamenti
crescenti: archi, flauti, pianoforte, fiati.
Time (The turn of a friendly card, 1980) Alan Parsons aveva lavorato alla produzione di The dark side of the moon
e gli era rimasto in testa l’arrangiamento di “Us and them”, evidentemente. Quell’andamento marino, a onde,
sospirato, lo adattò al tema dello scorrere del tempo, e fece scopa.
Eye in the sky (Eye in the sky, 1982) I fans dell’Alan Parsons Project dividono la sua opera tra le grandezze
inventive di prima di Eye in the sky e la povertà di maniera del post Eye in the sky. Eye in the sky sta nel mezzo,
giudizio sospeso. Perché sarebbe già un disco piuttosto banale, se non fosse per la formidabile “canzone
omonima”, cantata da Eric Woolfson. Ispirata da una visita a un casinò del Nevada con le sue mille telecamere a
circuito chiuso, è il trait-d’union letterario tra Orwell e il Grande Fratello televisivo. Il più grande successo della
band, perfetta dall’inizio alla fine (passaggio migliore, dei molti: l’ultimo rinvigorito “I am the eye in the sky!”):
ce ne sono due belle cover acustiche simili tra loro, di Noa e di Jonatha Brooke.
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Post/teca
Silence and I (Eye in the sky, 1982) Poi un pianoforte è sempre un pianoforte. E un’orchestra è sempre
un’orchestra. Qui c’è un accavallarsi di archi e fiati degno quasi di quello di “Winding me up”, e altrettanto
incalzante.
Don’t answer me (Ammonia avenue, 1984) Datato quanto volete, ma ancora un arrangiamento pop coi
controbirigozzi. E poi, i cori alla Beach Boys non li avevamo ancora sentiti.
Let’s talk about me (Vulture culture, 1985) “Parliamo di me, per una volta: come pensi che mi senta?”. I tempi
dell’epica letteraria erano passati, I temi erano più quotidiani, ma quanto a trovate melodiche sapevano ancora il
fatto loro. Sentite qui quando “I’m the one who’s losing now…” prepara l’arrivo di “talk about meeeee, for a
minute!”.
Sooner or later (Vulture culture, 1985) Tutto già visto e sentito, arrangiamento e strofa. Ma il ritornello è meglio
di qualsiasi cosa provi a fare Shakira. “I thought you might like to know…”, ho pensato ti potesse interessare:
prima o poi sarai l’ultimo dei miei pensieri.
Fonte: http://www.wittgenstein.it/2009/12/03/i-am-the-eye-in-the-sky/
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ti lascio prima che mi lasci tu, prima che tu cessi di desiderarmi: perché allora non ci resterebbe che
la tenerezza, e so che non sarebbe sufficiente. Me ne vado prima di essere infelice. Porto con me il
sapore dei nostri abbracci. Porto con me il tuo odore, il tuo sguardo, i tuoi baci. Porto con me il
ricordo degli anni più belli della mia vita, quelli che tu mi hai dato. Ti bacio: ti ho sempre amato,
non ho amato che te. Me ne vado perché tu non mi dimentichi mai più.
P. Leconte
fonte: http://claire1.tumblr.com/post/267546352/ti-lascio-prima-che-mi-lasci-tu-prima-che-tu
via: http://plettrude.tumblr.com/
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9 dicembre 2009
La scomparsa
De Rosa: Il patriarca «popolare»
È morto ieri nella sua casa romana lo storico ed ex senatore Gabriele De Rosa. Aveva 92 anni.
La camera ardente è allestita all’Istituto Luigi Sturzo, in via delle Coppelle a Roma. I funerali
avranno luogo luogo domani alle 11,30 nella Chiesa di Sant’Agostino, officiati dal cardinale
Achille Silvestrini.
Per Gabriele De Rosa cultura e impegno civile erano strettamente connessi. E, forse, per un uomo
dal carattere e dalla biografia battagliera, era l’unico modo di vivere la vita pienamente e senza
rimpianti. Ufficiale dei granatieri a El Alamein, membro della Resistenza nella Roma occupata dai
nazisti, primo biografo "autorizzato" da don Luigi Sturzo, di cui raccolse dalla viva voce le
memorie e i ricordi, portava in quell’ambiente accademico, di cui era membro e protagonista, una
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passione civile, un’attenzione al tempo presente, un’analisi profonda e un amore per i poveri e i
perseguitati davvero unici. Pur essendo un frequentatore di archivi e un ricercatore finissimo e
rigoroso, tutto in lui era così distante dallo stereotipo del topo di biblioteca, prigioniero di carte e
documenti. Anche a livello fisico: corporatura imponente, sguardo severo, andatura fiera, voce
baritonale. Per non parlare del suo carattere: uno spirito forte, libero, indipendente, profondamente
ironico, spigoloso a volte, ma capace di momenti di grandissima dolcezza.
Non fu dunque un caso che da giovanissimo riuscì a imporsi nell’ambiente accademico in anni in
cui nelle università dominava l’egemonia comunista: e, non avendo una scuola alle spalle, divenne
rapidamente lui stesso un caposcuola. Insieme a pionieri come Fausto Fonzi e Pietro Scoppola
restituì alle vicende del movimento cattolico italiano, per molti anni trascurate dalla storiografia, il
ruolo e la dignità che a esse spettano nella storia italiana. E se nel mondo cattolico c’era chi si
lamentava che i manuali di storia dei licei erano tutti orientati a sinistra, De Rosa non si associava ai
piagnistei e rispondeva alla sua maniera: scrivendone lui uno.
Fu dunque naturale per lui, ex cattolico-comunista "convertito" dall’incontro folgorante con Sturzo
al cattolicesimo democratico, seguire con interesse e passione le alterne vicende politiche italiane e
della Dc. Schierandosi, da uomo libero e mai da gregario, con le componenti della sinistra
democristiana più attente all’evoluzione della politica, alle riforme sociali e ai temi del
rinnovamento. Battendosi per il dialogo, ma erigendo sempre un muro di intransigenza nei confronti
del decadimento morale, del malcostume, della corruzione e della contiguità tra politica, mafia e
poteri occulti.
Per De Rosa, che da intellettuale aveva collaborato strettamente con Aldo Moro – preparandogli, tra
l’altro, la traccia per il famoso e bellissimo discorso in memoria di don Sturzo tenuto al teatro
Eliseo nel 1959 – la candidatura al Senato, nelle liste della Dc, nel 1987, fu quasi uno sbocco
obbligato. Erano i tempi in cui, a Palazzo Madama, lo scudocrociato faceva eleggere un piccolo
numero di intellettuali cattolici, i cosiddetti esterni. De Rosa, che si trovò subito a fianco di
personalità come Roberto Ruffilli, Niccolò Lipari, Leopoldo Elia, non era però un esterno. Ma, a
ben vedere, nemmeno un interno. Già in quegli anni la sua forza, il suo prestigio, la sua competenza
andavano ben oltre lo schieramento a cui pure, con convinzione, apparteneva. Era, davvero, un
monumento vivente.
Lo conobbi in quegli anni, giovane praticante giornalista alla Discussione, il settimanale della Dc.
Flavia Nardelli, segretario generale dell’Istituto Sturzo, di cui De Rosa era presidente, mi propose di
occuparmi dell’ufficio stampa di un convegno, fissandomi un incontro con il Professore. La figura
di De Rosa era circondata da un’aura di timore. Entrai nella sua stanza trepidante.
Mi scrutò, con quell’inconfondibile espressione tra il burbero e il bonario, mi indicò una sedia e
cominciò a chiedermi notizie sulla Dc. Contrariamente alle aspettative era affabile ed estremamente
cordiale. Ma la cosa che mi stupì di più era che avesse perso molto tempo (la conversazione durò
più di un’ora) ad ascoltare le opinioni di un giovane alle prime armi. Lui era fatto così.
La crisi di Tangentopoli, la decimazione giudiziaria della classe dirigente democristiana, obbligò De
Rosa a impegnarsi ancora più a fondo nella politica attiva. Fu proposto per l’incarico, faticoso e, in
quella stagione tormentata, delicatissimo di presidente dei senatori democristiani. Un ruolo che non
avrebbe mai cercato, ma che accettò con spirito di servizio, mostrando equilibrio, competenza,
onestà e altissima dignità in un momento in cui tutto gli stava franando intorno. Di lì a poco la Dc,
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dopo aver eletto segretario Mino Martinazzoli, chiuse i battenti.
Sulle sue ceneri rinacque il Partito Popolare Italiano, che avrebbe dovuto rappresentare il meglio
della tradizione politica cattolica, depurata dalle scorie di troppi anni di permanenza al potere. De
Rosa si buttò a capofitto, con entusiasmo, nella nuova impresa. E aprì le porte dell’Istituto Sturzo al
battesimo ufficiale della nuova formazione politica, di cui divenne presidente. Come sappiamo, il
secondo Ppi ebbe vita breve e travagliata. In quel periodo i contatti tra il Professore e me, cronista
parlamentare, si intensificarono notevolmente.
Ricordo come fosse oggi quando, deferito ai probiviri e sospeso dal partito per aver appoggiato
Gerardo Bianco contro Buttiglione, si sfogò amaramente con me in Transatlantico. E qualche tempo
dopo mi disse: «Abbiamo fatto lo stesso errore, quello di considerare possibile la rinascita di un
partito sturziano in Italia, dove di personalità come Sturzo ormai non ce n’è nemmeno l’ombra».
Amareggiato dalle successive vicende politiche, che considerava una vera involuzione della
democrazia italiana, uscì dalla vita parlamentare. Ma non per questo smise di fare politica. Con due
obbiettivi principali: difendere la figura unica e irripetibile di don Luigi Sturzo dai ricorrenti
tentativi di appropriazione indebita; combattere il revisionismo storico di chi voleva negare, in toto,
la dignità e il valore etico della Resistenza. Di fronte a questi atteggiamenti il vecchio e leone di El
Alamein tornava a ruggire con la forza di sempre.
Giovanni Grasso
fonte: http://www.avvenire.it/Cultura/DE+ROSA_200912090831518030000.htm
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Ottant'anni fa nasceva Goffredo Parise
Lo scrittore che mal sopportava il Novecento
di Cesare De Michelis
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Quando la fantasia ballava il boogie è un testo folgorante nel
quale lo scrittore, onorato da una delle più antiche università italiane di un titolo ancor più
significativo per chi gli studi universitari non aveva compiuto per scelta e per sprezzo, viveva un
momento di grande emozione. L'accuratezza della scrittura consente di immaginare la prolusione
come il testamento spirituale cui affidare un messaggio che va ben al di là dell'occasione.
Per spiegare le ragioni che avevano indotto gli accademici a rendergli omaggio, Parise - che l'8
dicembre avrebbe compiuto 80 anni - torna indietro, all'adolescenza, al tempo che precede la sua
scelta di diventare scrittore. La laurea gli viene assegnata, dice, perché il suo lavoro di scrittore, è
stato apprezzato da chi "ha ritenuto di trovare nel complesso dei miei scritti quel nescio quid, quel
qualche cosa in più, quella molecola di novità che ha permesso di fare un microscopico passo in
avanti alla letteratura italiana". Per spiegare questo quid, Parise va oltre l'origine, prima della
sorgente, sino al momento in cui il boogie è stato l'annuncio sonoro del "nuovo".
La musica di In the mood - il testo da cui parte il boogie - segna il momento della libertà: "Quel
ritmo inventò un'epoca che coinvolse il mondo nella grande aura della libertà". Siamo qualche anno
prima della scelta di diventare scrittore, infatti "piano piano la felicità della vita andava
esaurendosi: venne il '45, il '46, il '47, e lì finì, come finisce una vita". Nel 1947, dunque, già tutto è
finito.
La scrittura di Parise appartiene al giorno dopo, rispetto alla felicità. L'immaginazione - frutto
generoso della libertà - finisce nel 1947, dopo comincia il faticoso esercizio di una vita dedicata a
scrivere, tornando con la memoria a quella stagione nella quale tutto era stato possibile. Da allora
non c'è più stata la semplice affermazione della felicità della scrittura, è stato un continuo strappare,
faticoso e addolorato, brandelli di poesia a un mondo che sembrava non averne più bisogno dopo
aver vissuto una catastrofe: "Poi una rivoluzione, qualche cosa di tellurico per l'immaginazione è
salito alla superficie". È scoppiata la bomba atomica: l'eco di Hiroshima ha invaso il mondo e
nessuno,
il
giorno
dopo,
sarà
più
felice,
per
l'eternità.
Mood è intraducibile, si può intenderlo come "umore", "stato d'animo", però Parise ne sposta il
senso verso l'area semantica del "capriccio", assai diverso dall'umore, nel senso che lo colora. Uno
stato d'animo "capriccioso", dunque, nel quale nasce il desiderio, la volontà, di esercitare la libertà
di immaginare il mondo. Per spiegare che "il mood è lontano, sempre più lontano", Parise inventa
un'immagine: "L'arte è come una farfalla, senza eredi e capricciosa" che "si posa dove e quando
vuole
lei.
E
inoltre
un
insetto
come
tutti
sanno
ha
vita
breve".
Nel 1985, qualche mese prima di andare a ritirare la laurea, Parise scrive un altro elzeviro nel quale
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si interroga su che cos'è l'arte moderna, e dice che "è uno spinoso albero dai mille rami" a cui non ci
si vorrebbe avvicinare per il tormento che inevitabilmente ne verrà. "È uno spinoso albero dai mille
rami che dà molto bene l'idea di questa confusione in atto (...) c'è una grande confusione nell'arte
(...) contemporanea - insiste - e, quel che è più grave, non si può dare la colpa a nessuno dei già
presunti
colpevoli".
Parise mal sopporta il Novecento: il mondo com'è non gli piace. Lo infastidisce l'ideologia cui
contrappone "l'intelligenza del cuore". Diffida della storia, perché la storia storicista, ideologica, dà
coerenza alla confusione, trova il filo rosso dove invece c'è un albero spinoso. È avverso alla
contestazione e alle dittature. Non ama i suoi coetanei, sbuffa contro Pasolini, Fortini gli fa venire
l'orticaria e lo irrita anche Calvino con quella sua supponenza di piccolo classico imbalsamato.
Insomma non sopporta il disordine, la voglia di stare in gruppo, cui contrappone un aristocratico, o
umanistico,
primato
dell'individuo.
Cogliere i momenti significativi della sua costruzione di un pensiero positivo è interessante perché
Parise ha assaporato la felicità e conosce il piacere della vita; non è un disperato, perché non avendo
avuto la speranza non l'ha neppure perduta; conosce la non edificabilità della felicità, ma quando la
incontra
se
ne
riempie.
È un ammiratore della bellezza della vita, e quando parla dell'arte contemporanea, di quest'arte del
mondo della confusione, dice che di fronte a essa l'unica reazione possibile "è un guizzo, un frisson
non
più
intenso
di
una
leggera
scossa
elettrica".
Prima c'era il mood, adesso c'è il frisson: anch'esso non è razionalizzabile, né spiegabile o
condivisibile. C'è chi ha il guizzo e chi non lo ha. Non è un'estetica, un'interpretazione che ci induce
a distinguere il bello dal brutto, non è un criterio, è solo un'emozione, un battito del cuore. "Tale
frisson è talmente individuale da distribuirsi ad personam secondo un capriccio da imputare soltanto
al
caso".
In un saggio sulla Vecchia Italia degli odori buoni Parise scriveva che "il coraggio, la dignità e
l'onore sono cose e hanno un loro sapore e odore e profumo", sono i valori della tradizione, i vecchi
sentimenti, recuperati come segnali di un mondo nel quale l'umanesimo era ancora possibile. A
questo elenco aggiunge la povertà, che distingue dalla miseria: la prima è un valore, l'altra un
disvalore. La povertà evoca il mondo scomparso prima che la sua generazione potesse farne
esperienza, evoca valori che meritano di essere cercati lungo le tracce che ancora ne resistono.
Parise cercava nel presente le tracce del passato: basterebbero le pagine dedicate al suo Veneto
"barbaro" di muschi e nebbie, dov'è descritta la scoperta del suo "piccolo Eden" lungo il greto del
Piave. "La civiltà veneta non c'era" e se c'era restava confinata negli spazi delle sue antiche città,
quel che invece esisteva era "la "madre terra" (...) barbara e brutale (...) un rimasuglio, o un resto
genetico e somatico delle invasioni nordiche", terragna, primitiva, selvaggia, ma al tempo stesso
forte,
attiva,
operosa.
Pessimista innamorato della vita, testimone del disagio di una generazione sofferente per lo strappo
che c'è stato, Parise suggerisce un profondo ripensamento. Non importa scoprire le tracce della
catastrofe, quel che conta è ciò che dopo è rimasto dell'autentica vita dell'uomo.
(©L'Osservatore Romano - 7-8 dicembre 2009)
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Al confine tra un romanzo e un saggio il nuovo libro di Elisabetta Rasy
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Donne da leggere
di Anna Foa
Il nuovo libro di Elisabetta Rasy, Memorie di una lettrice notturna (Milano, Rizzoli, 2009, pagine 262, euro 18,50)
non è un romanzo e non è neppure un saggio, ma ha qualcosa dell'uno e dell'altro. Si tratta di un intrigante
percorso all'interno delle sue letture, dei libri che legge e ama e delle loro autrici, ché di libri scritti da donne qui
si parla. È, questo di Rasy, un libro di confine che pone a suo centro l'incontro tra il libro e il lettore, non
analizzandolo dal punto di vista teorico ma cogliendolo dall'interno, come un filtro attraverso cui introiettare il
mondo. E raccontando di questo incontro con i suoi libri, quasi di amori in carne e ossa si trattasse, vuol
raggiungere le imperscrutabili radici del sentimento. La lettrice è sempre al cuore del libro, protagonista assoluta
di queste pagine, giudice sempre soggettivo, intento a esprimere emozioni. Questa soggettività è per l'autrice una
condizione essenziale del piacere di leggere, e di questa soggettività fa la storia, attraverso i successivi mutamenti
delle sue percezioni. Prima del cambiamento dell'oggetto, dell'autore che di volta in volta le si presenta, dei libri
che le aprono spazi sempre diversi, c'è il cambiamento del rapporto con l'oggetto libro, nelle sue copertine di
cartone o di finta pelle, e poi quello con il modo in cui i libri le si presentano, da quando le vengono offerti nei
regali infantili, a quando li trova abbandonati in un soppalco, e incontra così Maupassant, a quando, nella
biblioteca della scuola, il libro si trasforma in un oggetto che può scegliere. E, ancora, il cambiamento della sua
percezione dell'autore. Dapprima, infatti, la lettrice bambina pensava che i libri non avessero autore, che si
scrivessero da sé. Poi quei nomi degli autori, Twain, Kipling, divennero qualcosa di "simile a una località
geografica: la regione del tempo e dello spazio dove le storie che in quei libri si narravano erano avvenute" e, ci
dice Rasy, "continuavano ad avvenire". Poi, nella fase di Maupassant, l'autore diventa per la giovanissima
lettrice, un essere speciale, "qualcuno che emanava libri". L'immagine, bellissima, ricorda i raggi della Luna o le
emanazioni
divine
della
kabbalah.
Questo era per Rasy la lettura, una lettura che per i libri più amati avveniva la notte, meglio se d'estate con le
finestre spalancate alle tenebre. L'incontro con le scrittrici, l'attenzione alla scrittura delle donne è di molto
successivo, e immette in quell'infantile passione del leggere nuove attenzioni, nuove modalità di lettura, nuove
priorità. Sempre soggettive, come questo libro ci dice subito: un catalogo personalissimo delle scrittrici più
amate, che ci riporta, alla fine, non a una definizione omologante di ciò che è la scrittura femminile, ma a un
mosaico ricchissimo di voci individuali accomunate dall'avere ognuna la propria inconfondibile voce.
Tutto questo è finito, ci dice Rasy, questa esplosione di talento femminile si è estinta con la fine del secolo scorso.
Ora ci sono solo donne di talento che scrivono, non "una femminilità che si manifesta e si rivoluziona in una
moltitudine di voci provenienti da uno stesso altrove della storia". E forse la delusione di fronte allo spegnersi di
queste luci abbaglianti, decadenza o forse soltanto normalizzazione, può esser legata a un altro pensiero
dell'autrice che abbaglia, come quando si scopre improvvisamente, perché qualcuno l'ha messa in parole, una
verità che si impone. Siamo l'ultima generazione, scrive, a essere approdata alla scrittura direttamente dalla
lettura, senza scuole di scrittura, e senza neanche l'ambizione di diventare scrittori. È di questo legame ahimé
perduto fra lettura e scrittura che questo libro, in realtà, parla.
(©L'Osservatore Romano - 7-8 dicembre 2009)
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11 dicembre 2009
La rava e la fava degli e-book
Passare da filosofie alte a numeri messi quasi a caso non aiuta a mappare un mondo complesso ed
interessantissimo come quello dei libri elettronici.
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Leo Sorge
10 Dicembre 2009
Per l'Associazione Italiana Editori il libro elettronico finalmente esiste ed è negli interessi dei suoi iscritti. Dopo
due anni nei quali questi folli contenuti digitali erano nemici da temere “et dona ferentes”, dopo l'apertura della
Fiera del libro di Torino anche Roma è entrata in adorazione.
Come anticipato parlando del Digital Café dell'edizione 2009 di Più Libri, Più Liberi, è quindi arrivato il
momento delle metriche. Vediamone alcune rilasciate negli ultimi tempi.
Cinquecentomila €-book
I dati forniti da Cristina Mussinelli di Aie assegnano agli e-book italiani lo 0,04% del fatturato complessivo.
Ipotizzando che un libro in elettronico costi mediamente un quinto della versione cartacea, la penetrazione in
volume può essere stimata intorno al 2 per mille. I dati sono quello che sono e l'interesse suscitato, visti i volumi,
è ridotto, ma la Mussinelli intende impegnarsi per ottenere dati sempre più precisi ed utili alla crescita del
settore.
Secondo Nielsen i primi 11 mesi del 2009 hanno portato al settore librario italiano un fatturato di 1,27 miliardi di
euro, per cui agli e-book dobbiamo assegnare 508 mila euro di fatturato complessivo. Teniamolo a mente in
attesa degli eventi di dicembre e di maggiori dettagli.
Non siamo gli States
Guardando i dati statunitensi, anche quelli girano deformati e vanno interpretati. I primi 15 distributori di ebook hanno visto nel 2009 un incremento di fatturato del 300% negli Usa, per un totale di circa 110 milioni di
dollari per i primi 9 mesi e un risultato complessivo estrapolabile a 170 M$ (2008: 54 M$). Sono solo i primi 15
distributori e il prezzo è quello all'ingrosso, per cui lo stesso International Digital Publishing Forum (Openebook
fino a poco fa) avverte che il valore al dettaglio potrebbe essere anche doppio e sfondare i 300 M$ nel 2009. Ma
su Amazon il libro The Lost Symbol (Dan Brown) avrebbe venduto più copie nella versione bloccata per Kindle
che copie di carta, ad indicare una situazione molto diversa da quella italiana.
Sembra di vedere la stessa questione della pubblicità sul web, che cresce con percentuali a due cifre ma partendo
da basi ridottissime e a fronte di cospicui spostamenti dall'advertising classico a quello online.
I cento secondi del reader
In Italia la crescita 2009 -anche se ben più contenuta - è sensibilissima e pari a circa il 60% , confermata anche
da singoli editori con i quali ho potuto parlare.
L'ufficio stampa dell'Aie c'informa che dei 55 mila visitatori dell'ultima edizione, ben 10 mila hanno visitato
l'angolo dei sette chioschi con altrettanti dispositivi in mostra, descritti da altrettanti addetti. La Fiera è rimasta
aperta 4 giorni per un totale di circa 40 ore, che per 7 stand fa 280 ore ovvero 16.800 minuti: mediamente le 10
mila persone sono rimaste 1,68 minuti, ovvero 100 secondi, in un mondo meccanicamente ordinato. Non
moltissimo, apparentemente: è ragionevole pensare che chi abbia effettivamente acquisito informazioni valide
per un acquisto siano stati molti meno di diecimila.
La rava e la fava
Pare che l'accezione principale di questo modo di dire, che accoppia la rapa (pianta di una certa dimensione
nella dizione nordica) alla fava (pianta di dimensioni più modeste) indichi, principalmente, quei discorsi senza
capo né coda nei quali si parte da concetti altissimi per scendere in dettagli occasionali, pressoché inventati sul
posto e dei quali nessuno sente il bisogno. A me sembra che anche nel 2009 la maggior parte degli operatori
apparentemente esposti nel settore specifico abbiano descritto il loro operato in maniera ortofrutticola. Ben
venga l'iniziativa dell'Aie. Ne riparleremo?
fonte: http://www.01net.it/01NET/HP/0,1254,0_ART_104335,00.html?lw=nl20008
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Mio padre ammazzato per aver denunciato i cavalieri della
mafia
di Claudio Fava
Potremmo metterla così, per semplificarci la vita: «Non è che possiamo fare l’analisi del sangue a
tutte le imprese siciliane!». Parole, efficacissime, della buon’anima di Michelangelo Russo, uomo
forte dei miglioristi siciliani attorno agli anni Ottanta. Oppure possiamo dirla con Carlo Alberto
Dalla Chiesa, agosto 1982: «Senza una nuova mappa del potere mafioso, i cavalieri di Catania non
sarebbero mai andati all’assalto degli appalti di Palermo». Parliamo delle stesse imprese, e dello
stesso cono d’ombra che da trent’anni a questa parte inghiotte, mescola e confonde mafiosi e
finanzieri, appalti e ammazzatine, affari leciti e affari illeciti. GiuseppeFavaebbe il merito di farsela,
qualche domanda. Correva l’anno 1982, il mese era dicembre e in edicola era arrivato il primo
numero del nostro giornale, I Siciliani, un mensile bello da vedersi e difficile da leggersi. Difficile
per certi palati fini che preferivano non sentir nominare mai invano i nomi di certi galantuomini.
Quei nomi, fin dal primo numero, c’erano tutti.Nonagitando manette ma producendo ragionamenti,
riacciuffando il filo che il prefetto Dalla Chiesa aveva tenuto in mano fino alla sua morte: chi erano
davvero quei quattro imprenditori catanesi, così gagliardi e impuniti da poter confessare di essersi
divisi a tavolino tutti gli appalti dell’isola? Cos’era che li legava alle cosche di Cosa Nostra, un
semplice patto di sopravvivenza o un reciproco interesse? E quanta parte dell’economia siciliana,
quanti pubblici appalti, quanti rivoli di pubblico denaro erano serviti a consolidare le ricchezze e
l’impunità dei mafiosi siciliani? Bastò farsi queste domande. Bastò farsele ad alta voce, scegliendo
con misura e perizia le parole, decidendodi calar giù queinomiirriferibili, bastò questo per segnare la
sorte di Giuseppe Fava, ammazzato dai sicari di Santapaola esattamente unan no dopo, anche per
rendere un buon servizio agli amici cavalieri.
Mafia e affari sono parole sdrucciolevoli, infide, taglienti. Vanno accostate e poi spiegate. Senza la
mafia, parecchi affari non si sarebbero mai fatti, taluni grandi appalti sarebbero andati in altre mani,
taluni imperi finanziari sarebbero crollati al primo stormir di fronde come giganti dai piedi d’argilla.
E molti rampanti imprenditori sarebbero rimasti capimastri, geometri, palazzinari di provincia.
Viceversa, senza la compiacenza di certi uomini d’affari, i mafiosi sarebbero rimasti «peri incritati»,
scarpe sporche di fango, comediceva di sé e dei suoi Totò Riina. Senza porte spalancate per far
fruttare nelle banche e nei cantieri i loro bottini di guerra. Decifrare il geroglifico di quell’alleanza,
negli anni Ottanta voleva dire dare un nome, un volto e una consistenza definitiva a Cosa Nostra.
Pochi vollero farlo. Pochi ne sono sopravvissuti. Colpa di quelli come Santapaola? Della bassa
macelleria mafiosa? Troppo comodo. In quegli anni mafia e affari non erano un incesto ma un titolo
di merito in società. Al matrimonio di un suo nipote, il cavaliere Carmelo Costanzo esibiva tra i
propri invitati – politici, finanzieri, amministratori – il boss Nitto Santapaola. Non era una forzatura:
era un fatto. Quell’amicizia era il segno di una forza che non temeva giudizi. Era l’impunità. Per
tutti: per il politico, per il cavaliere, per il capomafia. Facevano a pugni per farsi ritrarre, nelle foto
del matrimonio, accanto al capomafia della città. Criminale, certo, e assassino, corruttore,
trafficante: ma non è anche questa una declinazione della parola «potere »?
Quando esce il primo numero de I Siciliani con quel lungo articolo di Giuseppe Fava in apertura, «I
cavalieri dell’apocalisse mafiosa», accadono due cose: quell’espressione entra di diritto nel gergo
delle cose di mafia, un’ingiuria che s’incollerà sul destino di quei quattro imprenditori per tutta la
loro vita. La seconda cosa è che Giuseppe Fava comincia a morire. Per quel titolo, per quello che ci
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sta sotto, per l’ostinazione di ungiornalismo che non voleva più limitarsi a censire i cadaveri e a
raccontare le macerie. Scriveva Fava: «A questo punto della storia avanzano sul palcoscenico i
quattro cavalieri di Catania: loro avanti di un passo e dietro una piccola folla di aspiranti cavalieri di
ogni provincia del Sud, affabulatori, consiglieri, soci in affari, subappaltatori… Chi sono dunque i
quattro cavalieri? Qual è il loro ruolo in questotempo di autentica apocalis se?». La risposta la
forniranno, negli anni a venire, mezza dozzina di inchieste giudiziarie. Carmelo Costanzo, ottava
impresa italiana nel settore delle costruzioni, quello del banchetto di matrimonio con Nitto
Santapaola ospite d’onore, era organicamente affiliato a Cosa Nostra. Gaetano Graci, il più risoluto,
potente e rispettato banchiere del sud, ospitava i summit delle cosche catanesi nei suoi uffici di
Catania. Mario Rendo appuntava sulla sua agenda il nuovo organigramma della Repubblica:
questore: spostare! Prefetto: trasferire! Procuratore: promuovere!
Ecco: la storia del rapporto tra mafia e affari è un lungo censimento di sottovalutazioni, ritardi,
opportunismi, silenzi. Anche da sinistra. Mentre qualcuno provava a comprendere e a spiegare cosa
stesse accadendo nelle vene aperte della società siciliana, c’era il raffinato pragmatismo di
quellicomeMichelangelo Russo, profeta con vent’anni d’anticipo dell’infelice battuta del ministro
Lunardi (“I Siciliani con la mafia debbono imparare a conviverci…”). Oggi a capo della
confindustria siciliana c’è un signore, Ivan Lo Bello, che ha deciso di buttar fuori dall’associazione
gli imprenditori che non denunziano gli estorsori. Un altro mondo, un altro tempo: eppure è la
stessa terra. Che ogni tanto, bontà nostra, ritrova la forza per raddrizzare la schiena.
10 dicembre 2009
Fonte:
http://www.unita.it/news/italia/92450/mio_padre_ammazzato_per_aver_denunciato_i_cavalieri_dell
a_mafia
--------------------------Perchè sta andando in crisi l'editoria libraria come la conosciamo e perchè la cosa è
inevitabile
Luca, qualche giorno fa, ha scritto un interessantissimo post in cui esaminava il modo in cui si è
svolto il confronto sulla crisi dei giornali e definiva tre ambiti di discussione (e tre interessi diversi).
La sua conclusione era -la banalizzo- che il problema veniva affrontato soprattutto dal punto di vista
industriale (quello di chi vende i giornali) mentre avrebbe dovuto essere impostato ascoltando la
voce di chi i giornali li legge.
E' un ottimo punto, quello di Luca. Tuttavia occorre non dimenticare che il vero problema non è la
qualità del giornalismo (su cui si potrebbe e dovrebbe ragionare a lungo) o i comportamenti e le
aspettative del pubblico, che si sono modificati radicalmente. Il problema, al contrario, è totalmente
nel fatto che se chi i giornali li vende non adegua il suo modello di business per ricostruire un
sistema di ricavi in crisi, tutto il resto diventa futile. Semplicemente perchè non ci sarà abbastanza
denaro per pagare il giornalismo (attuale o migliorato che sia) e per cercare di innovare
assecondando la mutazione dei lettori. La crisi dei giornali ha i suoi sintomi visibili (internet, la
diminuzione della fiducia nei lettori, la disponibilità di informazioni diversa ecc.) ma sono sintomi.
La causa è, invece, il modello dei ricavi che non funziona più come prima.
Nell'editoria libraria sta succedendo la stessa cosa. E' irrilevante la questione emozionale («Sì, ma
vuoi mettere un libro di carta?»), come quella di arredamento («Sì, ma vuoi mettere riporre il libro
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Post/teca
finito nella libreria?») e come tutte le nostre preferenze personali. La cosa che conta è che sta
andando in crisi il modello tradizionale per cui si manteneva l'industria e l'indotto: ovvero,
cominciano a vedersi le prime serie crepe in quel sistema che garantiva che ci guadagnassero librai,
distributori, editori (e qualche volta pure gli autori).
Le concause che stanno spingendo in questo senso sono facili da identificare: la corsa al ribasso sui
prezzi (le novità negli USA sono vendute a 10 dollari -contro gli usuali 25 o 30- sempre più spesso
per essere competitive), gli spostamenti del mercato verso i lettori tipo Kindle, i costi elevati
(troppo spesso non competitvi) di un sistema che stampa e distribuisce fisicamente, l'adozione di
innovazioni (i dispositivi, la rete) da parte della società. Ci vorrà qualche anno, ma i segnali ci sono
tutti. Li abbiamo visti, gli stessi, con la musica prima, con i giornali poi.
Così è iniziata la guerra difensiva. E' facile prevedere (come è successo con la musica) che i primi
ad entrare in crisi saranno i librai, seguiti dai distributori. Gli editori, paradossalmente, resisteranno
più facilmente. Già oggi, sebbene combattano il Mostro arretrando, ricevono da un ebook venduto
per il Kindle esattamente lo stesso denaro che ricevevano da un libro rilegato venduto sui Amazon.
Allora perchè Murdoch & company fanno certe scelte?
Murdoch, sempre lui, lancia messaggi come ha fatto con Google per i giornali. Quello che agli
editori non piace è che «Amazon sia l'unico player sul mercato o comunque il più forte, in grado di
dettare regole», scrive USA Today in una bella analisi. Ricorda qualcosa: il Google cannibale che
gli editori di news additano come colpevole della crisi.
Il punto, infine è semplice. Il Kindle ha dimostrato che può esserci una forte motivazione a leggere
libri in digitale, tanto che si spende una cifra considerevole per comprare un lettore che abiliti
questo tipo di sistema. E i «compratori del kindle», alla fine, sono esattamente i lettori forti che
prima compravano libri rilegati. A settembre negli USA gli ebook hanno fatturato 15,9 milioni di
dollari. E la cosa di cui si discute, dunque, non è se i libri devono essere di carta o migliori, ma
banalmente: chi controlla il mercato e chi dovrà guadagnarci. Il risultato di questa battaglia
determinerà l'aspetto e la logica del mercato di domani. Poi, a livello culturale e di potere, che ruolo
avranno gli autori dopo il terremoto (e che ruolo gli editori) potrebbe essere un altro ragionamento
da fare.
Fonte: http://www.bookcafe.net/blog/blog.cfm?id=1113
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Il libro "rimosso" di Jung
Dopo oltre 79 anni esce dall'ombra il favoleggiato manoscritto di Carl Gustav Jung, padre della
psicologia analitica. Realizzato tra il 1914 e il 1930, il 'Libro Rosso' è la testimonianza più intima
del viaggio dello psicanalista svizzero negli abissi della sua psiche.
Il grande psichiatra e psicanalista Carl Gustav Jung (1875-1961) non occultò mai l'esistenza del
'Libro Rosso.' Fece anzi esplicito riferimento al suo contenuto in alcuni saggi e a pochi eletti regalò
anche la fotocopia di alcune pagine.
Tuttavia, sebbene alcuni sostengano che avesse pensato anche a pubblicarlo, Jung era consapevole
di quanto questo diario potesse essere mal compreso, se di esso scrisse "agli osservatori superficiali
sembrerà una follia".
Sta di fatto che dopo la sua morte avvenuta nel 1961, il carattere intimo dei materiali contenuti nel
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Post/teca
libro, convinse gli eredi a tenerlo segreto: prima nei cassetti di case private e dal 1984 nel caveau
dell'United Bank of Switzerland.
A indurli a cambiare idea ci è voluta la caparbia dello storico della psicologia di origine indiana
Sonu Shamdasani, professore all'University College di Londra e coordinatore del progetto
'Philemon series' che mira alla pubblicazione di tutte le opere inedite di Jung.
La presentazione al pubblico
Così nel 2007 il Libro Rosso ha lasciato il suo nascondiglio alla Bahnhofstrasse di Zurigo per essere
studiato e reso pubblico. E recentemente la casa editrice americana W.W. Norton ne ha presentato la
prima edizione in copia anastatica accompagnata da traduzione e testo critico in inglese, curate tra
gli altri anche da Shamdasani.
Presentato dall'editore come "il più importante inedito della storia della psicanalisi" il libro è stato
salutato dal New York Times Magazine come "Il Santo Graal dell'inconscio". Ma il grande interesse
del diario-confessione di Jung è dimostrato soprattutto dal successo delle vendite: nonostante i 195
dollari del prezzo di copertina, la prima edizione è già esaurita e ne è programmata una seconda per
dicembre.
Dagli inizi di ottobre il manoscritto originale si trova invece esposto per la prima volta al pubblico
in una teca del Rubin Museum of Art di New York che gli ha dedicato il posto d'onore nella mostra
celebrativa "Il Libro Rosso di C.G.Jung. Creazione di una nuova cosmologia".
Immagini interlocutrici
Rilegato con una copertina di pelle rossa, il Liber Novus -più noto però come Libro Rosso-, è un
testo di grande dimensioni che per il suo formato (ca. 29.5 x 39 cm), la grafia gotica, i fregi di
capoverso e delle bordure e i coloratissimi disegni, ricorda moltissimo gli antichi manoscritti
medioevali.
In questo volume Jung trascrisse per 16 anni, corredandole da interpretazioni, le principali visioni,
fantasie, immagini e riflessioni intime che ebbe a partire dal 1913, anno della rottura con l'amico e
maestro Sigmund Freud.
"Il Libro Rosso è una specie di dialogo interiore in cui Jung pratica quella che più tardi chiamò,
immaginazione attiva", spiega lo psicanalista junghiano Daniele Ribola. "In questo libro Jung si
mette in relazione con le immagini che emergevano dalla sua fantasia e anche dal suo inconscio,
trattandole come fossero degli interlocutori."
Un pellegrinaggio alla ricerca dell'anima
Negli anni successivi alla separazione da Freud, Jung visse un periodo di profonda crisi esistenziale
durante il quale il magma del suo inconscio esplose in incontenibili e debordanti visioni. "Si scatenò
un flusso incessante di fantasie, e feci del mio meglio per non perdere la testa", ricorda egli stesso
nel libro autobiografico "Ricordi, sogni, riflessioni" (1961).
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Post/teca
Il primo di questi episodi si manifestò nell'ottobre del 1913 nel corso di un viaggio in treno verso
Sciaffusa durante il quale ebbe una visione apocalittica in cui scorse un'alluvione di melma, macerie
e morti invadere la terra dalla Russia fino alle Alpi.
Il succedersi di questi fenomeni lo indussero a intraprendere un confronto diretto con il proprio
inconscio e ad analizzare la nascita e il processo dei propri pensieri. Dopo ogni viaggio nel
profondo annotava le sue visioni in una serie di quaderni (noti come Libri Neri) e poi rielaborava
alcuni di questi materiali nel Libro Rosso completandoli con disegni e mandala che rappresentavano
il processo di sviluppo della sua coscienza.
Utilizzando l'immaginazione attiva - metodo che ai suoi detrattori fece dire che egli fosse
fondamentalmente uno psicotico -, Jung tenne a bada e insieme alimentò il confrontò con il suo
mondo interiore popolato di fantasmi, demoni, figure mitologiche, archetipi e simboli. E proprio nel
corso di questa difficile e tormentata esplorazione intima giunse ad elaborare il meglio di tutta la
sua teoria psicanalitica.
Un delirio o un libro profetico?
Sonu Shamdasani ha dichiarato (Sole 24 ore, 17.10.09) che "non ci possono essere molti lavori
inediti che hanno già avuto un'influenza così vasta sulla storia sociale e intellettuale del Ventesimo
secolo come il Libro Rosso, o Liber Novus. Da lui ritenuto il lavoro che avrebbe contenuto il nucleo
della sua opera successiva, esso da tempo è considerato come la chiave per comprenderne la
genesi."
Anche se in una forma più letteraria che scientifica, effettivamente quest'opera anticipa tutti i grandi
temi di Jung - il processo di individuazione, l'ombra e l'inconscio collettivo, gli archetipi e il sé- ma
è difficile capire o prevedere quanto questa pubblicazione favorirà una rilettura della sua opera,
visto che tra gli stessi junghiani le opinioni sono già molto diverse.
"Questo libro è la testimonianza di un percorso estremamente originale dal quale traspare l'enorme
cultura di Jung, però non credo che per la sua natura sarà un libro fondamentale per la psicanalisi
proprio perché è difficilmente decodificabile", afferma Daniele Ribola.
"È un po' come prendere un'immagine puramente onirica: dipende dall'interpretazione che se ne fa.
Credo che questo libro avrà lo stesso destino: ci saranno persone che lo considereranno un delirio e
altre un libro profetico. Io penso che non sia né l'una né l'altra cosa."
swissinfo, Paola Beltrame, Berna
Un libro in viaggio
Scritto tra il 1914 e il 1930, il Libro Rosso è composto da 205 pagine manoscritte in tedesco con
citazioni latine, corredate da oltre 120 coloratissime illustrazioni dello stesso Jung. Ha un formato di
29.5 x 39 cm ed è rilegato con una copertina in pelle rossa.
Riemerso dalle cassette di sicurezza della United Bank of Switzerland di Zurigo nel 2007, il
manoscritto è stato recentemente pubblicato in copia anastatica con traduzione inglese, dall'editore
americano W.W.Norton. La versione italiana sarà pubblicata da Bollati Boringhieri non prima della
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Post/teca
fine del 2010.
Aperto alla pagina 179, l'originale è ora esposto in una mostra celebrativa al Rubin Museum of Art
di New York dove rimarrà fino al 25 gennaio 2010. Prima di tornare in Svizzera, farà tappa anche
alla Library of Congress di Waschington.
Fonte: http://www.swissinfo.ch/ita/cultura/index/Il_libro_rimosso_di_Jung.html?cid=7760262
---------------------------11/12/2009 (7:29) - INTERVISTA ALL'AUTORE DI «TITANIC»
"Dopo Avatar il cinema non sarà mai più lo
stesso"
James Cameron, il regista del film
in 3D preparato per 14 anni
LORENZO SORIA
LOS ANGELES
Sera di venerdì scorso. Allo Zanuck Theater di Los Angeles, negli studio Fox, Avatar sta per essere
proiettato per la prima volta. Per l’occasione, sono in sala Jim Gianopulos e Tom Rothman, i due
copresidenti della major, con gli altri boss. E c’è James Cameron, il regista: «Ho dato gli ultimi
ritocchi al colore appena un’ora e mezzo fa», dice. Poi ordina che le luci vengano spente e
aggiunge: «Divertitevi».
Sono 14 anni che Cameron aspetta questo momento, da quando iniziò a scrivere questa storia
ambientata su Pandora, una luna del pianeta Poliphemus, capì che i tempi non erano
tecnologicamente maturi per un’impresa del genere e si buttò invece su un film intitolato Titanic, il
maggior successo cinematografico di tutti i tempi. Ora cala il buio e sullo schermo appaiono le
prime immagini del marine Jack Sully, il protagonista interpretato dall’attore australiano Sam
Worthington. Il suo organismo non può respirare l’aria di Pandora ma, grazie all’ingegneria
genetica, può abitare dentro un corpo modellato su quello delle creature indigene, i Navi, un corpo
biologico che vive nel mondo reale controllato dalla sua mente. Il suo avatar, per l’appunto. E ora
che esce dalla base il suo stupore diventa il nostro. Foreste tropicali dove gli alberi raggiungono i
300 metri, montagne che galleggiano, fiori giganteschi con forme e colori che sembrano un trip
psichedelico, enormi uccelli che possono aggredirti ma anche portarti fedelmente sulla groppa. Poi
ci sono appunto i Navi, una razza umanoide che vive in totale armonia con l’ambiente che la
circonda. Bastano un paio di minuti e sembra di essere su Pandora con Jack, di camminare con lui,
di condividere le stesse emozioni, di annusare gli stessi odori. E quel «Enjoy!», quell’invito a
divertirsi, suona riduttivo. Perché Avatar, girato interamente in 3D con cineprese messe a punto
dallo stesso regista, è qualcosa di più che il nuovo riferimento tecnologico con il quale misurarsi.
Come possono attestare quelli che ieri hanno avuto l’occasione di vederne uno spezzone al Festival
di Courmayeur (in contemporanea con l’anteprima del film a Londra), Avatar è un’esperienza senza
precedenti, qualcosa che entra nella pelle dello spettatore.
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Mister Cameron, sono passati dodici anni da Titanic. Perché tanto tempo?
«Ho iniziato a scrivere il film prima di Titanic con l’idea di girarlo subito dopo, ma ho presto capito
che non sarebbe stato possibile. Ho sempre ambito a essere un passo avanti, ma qui ne occorrevano
tre o quattro. È stato solo quando ho visto ciò che ha fatto Peter Jackson con il personaggio di
Gollum nel Signore degli anelli che ho capito che eravamo pronti, che potevamo usare il
movimento delle orecchie o del naso per esprimere meglio che nella realtà sentimenti come
l’aggressività o la tenerezza. Abbiamo finito per creare un nuovo vocabolario».
C’è chi sostiene che il 3D è solo una trovata di marketing.
«Dimentica che noi osserviamo il mondo in 3D e che quando vediamo un film in 2D è come se
accettassimo un limite, come un tempo accettavamo il bianco e nero. Il colore ci ha messo decenni
per imporsi. Non so se il 3D diventerà lo standard del cinema, ma certo apre delle possibilità
infinite e molto stimolanti».
Avatar lancia un messaggio: Pandora è il simbolo del nostro pianeta malato, i Navi delle
popolazioni indigene colonizzate.
«Più che uno strumento per prevedere il futuro, la fantascienza è per me una forma
d’interpretazione del presente, ambientata in un contesto diverso, più epico. Avatar è una storia
delle Americhe, di cosa succede quando una cultura tecnologicamente superiore entra in contatto
con una inferiore. E, lo sappiamo, raramente le cose finiscono bene. I Navi rappresentano noi,
quello che stiamo perdendo e dunque sì, nel film ci sono dei messaggi. Ma, detto questo, non posso
dimenticare che oltre a lanciare dei messaggi ho anche la responsabilità di vendere dei biglietti».
C’è anche chi sostiene che Avatar è un’esperienza che altera la mente. Ci sono già dei
neurologi secondo i quali tocca dei sistemi nervosi che i film convenzionali lasciano
indisturbati.
«Le immagini tridimensionali penetrano nel cervello e nella memoria con un’intensità più profonda,
ma credo che Avatar altererà la coscienza
Fonte: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/spettacoli/200912articoli/50271girata.asp
-------------------10/12/2009 (7:31) - INTERVISTA
Ludovico Einaudi: che maledizione diventare "di
moda"
Il pianista e compositore: basta paragonarmi ad Allevi in comune abbiamo solo il fatto di avere
successo
ANDREA SCANZI
TORINO
Nipote di un Presidente della Repubblica e padre della patria, figlio di un editore storico. Un passato
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come pianista jazz-rock, un presente da settantamila copie vendute di dischi sperimentali. Il
percorso di Ludovico Einaudi non ha nulla di canonico e molto di stupefacente. Non fa eccezione
Nightbook, portato ora in tour (il 14 a Torino) con il musicista elettronico Robert Lippok e il
violoncellista Marco Decimo: 13 tracce che rappresentano «sguardi possibili sulle esperienze che
appartengono al lato più onirico di noi stessi».
Ha raccontato di aver tratto ispirazione da un concerto di tre anni fa all’Hangar Bicocca di
Milano, circondato dai Sette palazzi celesti di Anselm Kiefer. In che senso?
«Mi trovai circondato da spazi immensi e cattedrali industriali. Il suono del piano aveva una luce
particolare, si propagava misteriosamente tra quelle torri. È stato come entrare in un’altra sfera: una
dimensione spirituale e apocalittica. Il pubblico era distante, c’era freddo, avevano delle coperte per
riscaldarsi. Il palco era riscaldato da stufe. Persino la percezione sensoriale era diversa. Lì ho capito
che il mio vecchio repertorio non era più adeguato».
Il suo successo è la dimostrazione di un’evoluzione del gusto italiano?
«Temo di no. La situazione è abbastanza drammatica. La fortuna della mia musica dipende anche da
fattori casuali. Molti si sono avvicinati andando al cinema: ascoltando le colonne sonore di Ennio
Morricone, Lezioni di piano, Amélie».
Niente evoluzione culturale?
«Solo in parte. In Italia la musica non fa parte del programma d’educazione, come accade in
Europa. In Inghilterra sei persone su dieci vengono ai concerti con lo spartito, in Italia è tutto
estemporaneo».
Con la tivù che rapporto ha?
«Pressoché assente. Si dice che la musica non fa audience, ma chi lo dice? È una corsa al ribasso.
Se l’unica strada per alzare l’audience è mostrare le tette, mi chiamo fuori».
Le dà fastidio che l’accostino a Giovanni Allevi?
«Un po’ sì, ma non per Allevi in sé. Questa cosa dei pianisti che “oggi hanno successo” porta a
generalizzare tutto. Siamo molto diversi. Sarebbe come tirare fuori Herbie Hancock ogni volta che
si parla di Keith Jarrett».
Allevi dice che la musica è rivoluzionaria, Battiato scrive un’invettiva (anche) contro
Berlusconi. Come può incidere la sua musica sul contingente?
«La musica non è rivoluzionaria: è un linguaggio astratto. Certo, una canzone è diversa: Imagine ha
bisogno di un testo, di un concetto esprimibile solo a parole. La mia musica ha un modo più sottile,
complesso e misterioso di comunicare. Suggerisce pensieri e visioni. Ispira, neanche io so come,
determinate azioni. Attiva l’intelligenza».
Chi l’«attiva» di più?
«Bach. Quando l’ascolto, percepisco un contenuto spirituale elevato, qualcosa di invisibile che
muove le persone. Non ha nulla di politico, non risolve l’economia mondiale, ma ha profonde
implicazioni morali. E aiuta a vedere al di là del proprio naso».
È stato Nanni Moretti, usando alcuni suoi temi in Aprile, ad aprirle le porte del successo?
«Solo in parte. Incise di più Fuori dal mondo, il film di Piccioni: sviluppai atmosfere che destarono
forte impressione. Il clic l’ho avvertito alla fine dei Novanta, in Inghilterra. Una radio trasmetteva di
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Post/teca
continuo la mia musica, quando mi presentai a teatro lo trovai pieno. Qualcosa era cambiato».
Della collaborazione con Adriano Celentano che ricordo ha?
«Mi ha colpito la totale coincidenza tra personaggio pubblico e privato. Nessuna recita, essere
infantile e giocoso è connaturato in lui. Quando proponemmo il disco in tivù, si presentò mezz’ora
prima. Per lui era come una serata tra amici».
Di Luciano Berio, suo maestro, la affascinava la mancanza di rigidità intellettuale tipica dei
compositori. Un insegnamento che ha fatto suo?
«Sarei presuntuoso se rispondessi di sì. Berio aveva previsto perfettamente lo scenario attuale: la
sincronicità. È tutto sovrapposto: generi, epoche, stili. Le barriere sono cadute, la norma è la
commistione: la sperimentazione. Esattamente quel che provo a fare, da molto prima che diventasse
(forse) di moda».
Fonte: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/spettacoli/200912articoli/50245girata.asp
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La Febbre dell’Aglio
A gonfiare l’ultima bolla finanziaria in Cina e’ stato l’aglio.
Il paese e’ il maggior produttore e tra i piu’ importanti consumatori. Dalla primavera scorsa il
prezzo si e’ quintuplicato e chiunque ha a disposizione contante si e’ buttato a pesce su questo
prodotto.
Bande di speculatori acquistano nei mercati all’ingrosso camion puzzolenti di aglio. Qualcuno li
rivende subito, ma la maggior parte li immagazzina ed aspetta che il prezzo salga ulteriormente.
L’impennata dei prezzi e’ dovuta interamente alla domanda interna. Sono state le scuole a lanciare
per prime la febbre dell’aglio, hanno iniziato a far scorta e subito dopo le casalinghe si sono
riversate nei mercati per comprare sacchi interi di aglio. Durante l’estate i ministeri hanno dato
l’ordine ai cuochi delle mense di acquistare piu’ aglio possibile.
I contadini dello Shandong, il cuore della produzione dell’aglio cinese, sono stati presi letteralmente
in contropiede. Quest’anno avevano piantato di meno perche’ giustamente prevedevano una
contrazione delle esportazioni relazionata alla crisi. Nessuno poteva immaginare che la domanda
interna piu’ che compensasse questa riduzione.
La febbre dell’aglio e’ relazionata ad un’altra malattia: l’influenza suina. I cinesi credono nelle doti
miracolose dell’aglio e lo stanno usando per tenere lontani i germi della pandemia. Ma anche la
febbre speculativa contribuisce a fare dell’aglio un bene raro e prezioso.
Loretta Napoleoni
Fonte: http://lanapoleoni.ilcannocchiale.it/
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Post/teca
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15 dicembre 2009
15/12/2009
Internet no alla censura basta un clic
MICHELE AINIS
Lo squilibrato che ha ferito Berlusconi raccoglie 50 mila fan tra i navigatori della Rete. Significa
che la Rete è a sua volta squilibrata? Significa che ha urgente bisogno di una camicia di forza, o
almeno d’una museruola? Calma e gesso, per favore. E per favore smettiamola d’invocare giri di
vite e di manette sull’onda dell’ultimo episodio che la cronaca ci rovescia addosso.
Oggi succede per l’apologia di reato ai danni del presidente del Consiglio. Ieri per la pedofilia, o per
le stragi del sabato sera. Ma non è così che ci procureremo buone leggi. Specie se la legge intenda
regolare il più grande spazio pubblico mai sperimentato dall’umanità. Specie se aggredisca la prima
libertà costituzionale, quella di parola.
Non che le parole siano altrettanti spifferi di vento. Proteggerle con un salvacondotto permanente
equivarrebbe in conclusione a non prenderle sul serio, perché tanto contano i fatti, i gesti, le azioni
materiali. Equivarrebbe perciò a deprimere la stessa libertà che si vuole tutelare. E d’altronde come ha scritto il giudice Holmes nella sua più celebre sentenza, vecchia ormai di un secolo - la
tutela più rigorosa della libertà d’espressione non proteggerebbe un uomo che gridasse senza
motivo «al fuoco» in un teatro affollato, scatenando il panico. Insomma, dipende. Più precisamente,
dipende dall’intreccio di tre fattori differenti, che a loro volta si riflettono poi sulle parole che fanno
capolino in Rete.
In primo luogo, gioca la posizione del parlante. Altro è se racconto le mie ubbie agli amici raccolti
attorno al tavolo di un bar, altro è se le declamo a lezione, soffiandole all’orecchio di fanciulli in
soggezione davanti alla mia cattedra. In quest’ultimo caso ho una responsabilità più alta, e dunque
incontro un limite maggiore. Non per nulla nei manuali di diritto si distingue tra «manifestazione»
ed «esternazione» del pensiero. La prima è una libertà, riconosciuta a ogni cittadino; la seconda è un
potere, vale per i cittadini investiti di pubbliche funzioni, e ovviamente copre uno spazio ben più
circoscritto. Ma non c’è potere in Internet. C’è solo libertà.
In secondo luogo, dipende dal mezzo che uso per parlare. Il medesimo aggettivo si carica
d'assonanze ora più forti ora più fioche se lo leggo su un giornale che ho scelto d’acquistare, oppure
se mi rimbalza dentro casa quando accendo la tv. Ma è un’edicola la Rete? No, e non ha nemmeno
l’autorità dei telegiornali. È piuttosto una piazza, sia pure virtuale. Un luogo in cui si chiacchiera,
senza sapere bene con chi stiamo chiacchierando. Le chiacchiere, poi, hanno sempre un che d’aereo,
di leggero. Anche quando le vedi scritte sul video del computer, sono sempre parole in libertà.
Meglio: sono lo specchio dei nostri umori, dei nostri malumori. Sbaglieremmo a infrangere lo
specchio, non foss’altro perché così non riusciremmo a modificare di un millimetro il nostro profilo
collettivo.
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Post/teca
E in terzo luogo, certo: dipende da che cosa dico. Se metto in palio mille dollari per chi procurerà lo
scalpo di Michele Ainis, probabilmente offendo la legge sulla tutela degli scalpi, e in ogni caso lui
avrebbe qualcosa da obiettare. Ecco infatti la soglia tra il lecito e l’illecito: quando la parola si fa
azione, quando l’idea diventa evento. In quest’ipotesi è giusto pretendere un castigo, però a due
condizioni, messe nero su bianco da decenni nella giurisprudenza americana: che vi sia una
specifica intenzione delittuosa; che sussista un pericolo immediato.
È il caso di chi plaude alle gesta di Tartaglia? A occhio e croce no, benché ciascuno farà le sue
valutazioni. Ma non facciamo ricadere su tutto il popolo dei navigatori le intemperanze di qualche
marinaio. Anche perché sono molti di più quanti esecrano Tartaglia, rispetto ai suoi tifosi. Dopotutto
l’antidoto agli abusi in Rete già viaggia sulla Rete, basta un clic.
[email protected]
Fonte: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?
ID_blog=25&ID_articolo=6739&ID_sezione=&sezione=#
---------------------------------“ I libri non spariranno mai perché non si può rinunciare all’odore della carta. Del resto anche i
profumi ci sono da sempre perché alla gente piace leggerli.
— Duccio Battistrada
fonte: http://phonkmeister.com/post/258644749/i-libri-non-spariranno-mai-perche-non-si-puo
----------------------------------IL WEB INVASO DA MINACCE E INSULTI
Il lato oscuro della rete
Ma davvero «in democrazia un cittadino deve avere il diritto di dire le sciocchezze più grandi che
crede», come teorizzò nel 2003 l’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli mettendosi di
traverso alla legge europea che voleva ridefinire i reati di razzismo e xenofobia? Roberto Maroni,
vista l’immondizia che trabocca online a sostegno dell’uomo che ha scaraventato una statuetta in
faccia a Silvio Berlusconi (c’è chi si è spinto a scrivere: «Gli doveva rompere il cranio a quel testa
d’asfalto!») pensa di no. E ha ragione. Se è vero che la nostra libertà finisce là dove inizia la libertà
degli altri, anche la libertà di parola, cioè il bene più prezioso dell’oro in una democrazia, ha un limite. Che non è solo il buon senso: è il codice penale.
Ci sono delle leggi: l’istigazione a delinquere e l’apologia di reato vanno puniti. Uno Stato serio
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non può tollerare che esista una zona franca dove divampa una guerra che quotidianamente si fa più
aspra, volgare, violenta. Come ha spiegato Antonio Roversi nel libro «L’odio in Rete», il lato oscuro
del web «è popolato da individui e gruppi che, pur nella diversità di accenti e idiomi utilizzati,
parlano tutti, salvo qualche rara ma importante eccezione, il linguaggio della violenza, della
sopraffazione, dell’annientamento ». Tomas Maldonado l’aveva già intuito anni fa: «In queste
comunità elettroniche cessa il confronto, il dialogo, il dissenso e cresce il rischio del fanatismo.
Web significa Rete ma anche ragnatela. Una ragnatela apparentemente senza ragno, dove la comunicazione, a differenza della tivù, sembra potersi esercitare senza controllo». Ma più libertà di odio
è più democrazia? È una tesi dura da sostenere. E pericolosa. Perché, diceva Fulvio Tomizza, che
aveva visto il suo piccolo paradiso istriano disintegrarsi in una faida etnica un tempo inimmaginabile, «devono ancora inventarlo un lievito che si gonfi come si gonfia l’odio».
Colpire Internet, dicono gli avvocati di Google denunciata per certi video infami su YouTube
( esempio: un disabile pestato e irriso dai compagni) «è come processare i postini per il contenuto
delle lettere che portano». E lo stesso ministro degli Interni non si è nascosto la difficoltà di
avventurarsi in battaglie internazionali contro un gigante immenso e impalpabile. Peggio, c’è il
rischio di far la fine dello scoiattolino dell’«Era glaciale»: a ogni forellino che tappa, l’acqua
irrompe da un’altra parte. Ancora più rischioso, però, sarebbe avviare una (giusta) campagna contro
solo una parte dell’odio online. Trascurando tutti gli altri siti che tracimano di fiele come quelli che
impunemente scrivono d’un «olocausto comunista perpetrato dalla mafia razzista ebraica
responsabile dello sterminio di 300 milioni di non ebrei», di «fottuti schifosi puzzoni stramaledetti
sporchi negri mangiabanana », di «maledetti zingari immigrati razza inutile sporca da torturare», di
respingimenti da abolire perché «la soluzione a questi problemi è il napalm, altro che rimpatri».
Non puoi combattere l’odio se non lo combatti tutto. Andando a colpire sia i teppisti razzisti che
sputano online su Umberto Bossi chiamandolo «paralitico di m.» sia quanti aprono gruppi di Facebook intitolati «Io odio Di Pietro» o «Uccidiamo Bassolino». Mai come stavolta, però, il buon
esempio deve venire dall’alto. Occorre abbassare i toni. Tutti.
Gian Antonio Stella
15 dicembre 2009
Fonte: http://www.corriere.it/editoriali/09_dicembre_15/il-lato-oscuro-della-rete-editorialegian-antonio-stella_36daddde-e940-11de-ad79-00144f02aabc.shtml
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16 dicembre 2009
Umorismo Ingegneristico
Ci sono tre ingegneri in macchina, un ingegnere meccanico, un ingegnere elettronico ed uno
informatico. Improvvisamente il motore della macchina si mette a tossire e si spegne.
L'ingegnere meccanico dice: - E' chiaramente un problema alla pompa della benzina.
L'ingegnere elettronico risponde: - Non dite idiozie è un problema alla centralina elettronica.
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Post/teca
L'ingegnere informatico infine propone: - Sentite ragazzi perché non proviamo a scendere e
risalire...
Un miliardario ha il vizio di giocare ai cavalli e stufo di non vincere mai decide di investire del
denaro nella ricerca di un modello matematico che gli assicuri la vittoria. Da una grossa somma a
un gruppo di matematici che si mettono a lavorare al progetto. Dopo due mesi il capo ricercatore
dice al miliardario: "Abbiamo finito e possiamo dire che la soluzione al problema esiste!" "E qual
è?" domanda il giocatore. "Noi siamo matematici e siamo solo in grado di dirle che esiste". Il
miliardario riflette e capisce che in fondo i matematici sono astratti e che doveva rivolgersi a
qualcuno di più pratico, quindi chiama i fisici. Stessa solfa e dopo due mesi il risultato e: "I
matematici hanno ragione * dice il capo dei fisici - la soluzione al problema esiste e noi l'abbiamo
trovata, nell'ipotesi semplificativa che il cavallo sia una sfera!". Il miliardario capisce di aver
sbagliato un'altra volta e pensa di rivolgersi a qualcuno ancora più pratico: gli ingegneri. Versa
per la terza volta la somma e, stavolta, va a controllare giorno dopo giorno i progressi del lavoro.
Gli ingegneri non si applicano affatto chi parla al telefono, chi naviga in Internet, chi legge il
giornale. Dopo due mesi comunque arriva il capo progettista e dice: "Domani lei vada alle
Capannelle e punti alla prima corsa su Tizio vincente, nella seconda su Caio vincente,..." e cosi
via. Il giorno seguente il miliardario va a giocare e vince a tutte le corse. Organizza un party per
celebrare la vittoria e a notte inoltrata prende da parte il capo ingegnere e gli chiede come
avessero fatto. "Semplice: con tutti soldi che ci ha dato abbiamo comprato tutti i fantini".
Un medico, un ingegnere ed un informatico si trovano al bar, ed iniziano a discutere di quale sia il
mestiere più antico dei tre. Il medico esordisce: "Nella Bibbia si dice che Dio creo Eva prendendo
una costola da Adamo. Cosa fu quella se non la prima operazione chirurgica? Perciò il mestiere più
antico e senz'altro il mio". L'ingegnere ribatte: "Ma prima la Bibbia dice che Dio creo il cielo, la
Terra e tutto l'universo. Questa e una mirabile opera di ingegneria, perciò il mestiere più antico
e il mio!". Infine l'informatico dice: "Vi sbagliate entrambi, infatti la Bibbia cominci con: All'inizio
era il caos,... e quello chi credete che l'abbia creato?"
Per una persona ottimista, il bicchiere e' pieno a meta'. Per una persona pessimista, e' vuoto a
meta'. Per l'ingegnere, e' due volte piu' grande del necessario.
Un uomo vuole cambiare il suo cervello. Va in una clinica per trapianti di cervello e gli fanno
vedere il catalogo: cervello di matematico 20.000 sterline al chilo, cervello di biologo 30.000
sterline al chilo, cervello di medico 40.000 sterline al chilo. Poi vede: cervello di ingegnere
1.000.000 di sterline al chilo. Stupito, chiede alla segretaria: "Signorina, perché il cervello di
ingegnere costa cosi tanto?".E la segretaria: "Ma lei lo sa quanti ne dobbiamo ammazzare per
metterne insieme almeno un chilo?"
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Post/teca
Gli ingegneri e gli scienziati non faranno mai tanti soldi quanto i dirigenti. Ora una rigorosa
dimostrazione matematica spiega perché:
Postulato 1: la Conoscenza è Potenza.
Postulato 2: il Tempo è Denaro.
Come ogni ingegnere sa bene,
Lavoro/Tempo = Potenza
Dato che Conoscenza = Potenza, e Tempo = Denaro, abbiamo
Lavoro/Denaro = Conoscenza
Risolvendo la formula rispetto al Denaro, otteniamo:
Lavoro/Conoscenza = Denaro
Perciò, al tendere a zero della Conoscenza, il Denaro tende a infinito, indipendentemente dal
lavoro fatto. Conclusione: meno Conosci, più guadagni.
Un giorno un signore, che stava facendo un giro in mongolfiera, per un colpo di vento, perde la
bussola e le mappe. Decide allora di perdere quota e, visto un uomo in un campo, scende vicino a
lui e si ferma a circa 2 m. di altezza dal suolo. Getta la cima di ormeggio a quest'ultimo, che
subito la prende, e gli chiede: "Per cortesia, mi sa dire dove sono?". L'altro risponde: "Lei e su
una mongolfiera, in mezzo ad un campo, 2.54 metri di altezza dal suolo". Senza scomporsi l'uomo
sulla mongolfiera replica: "Mi lasci indovinare il suo mestiere: Lei e un ingegnere!" L'altro: "Come
ha fatto a capirlo?" Il Primo: "Perché mi ha dato un'informazione esatta, ma assolutamente
inutile". Allora l'ingegnere, tranquillo, replica: "Adesso indovino io: Lei e un manager!". L'uomo
sulla mongolfiera, stupito: "Come ha fatto a capirlo?!?". L'ingegnere: "Perché lei evidentemente
non sta lavorando, non sa dove sta andando, non sa dov'e e cerca di dare la colpa ai tecnici".
Due studenti in ingegneria passeggiano per l'universita' quando uno dei due dice all'altro,
ammirato : "Dove hai trovato quella bici ?" Il secondo gli risponde "In realta', mentre
passeggiavo, ieri, ed ero assorto nei miei pensieri, ho incontrato una bellissima ragazza in bici che
si ferma davanti a me, posa la bici in terra, si spoglia completamente e mi dice : "Prendi quello
che vuoi." Il primo annuisce e gli dice : "Hai fatto bene, i vestiti sarebbero stati sicuramente
troppo stretti."
Un ingegnere attraversava la via quando una rana lo chiamo' e gli disse: "Se tu mi baci, io mi
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Post/teca
trasformero' in una magnifica principessa." Lui si abbasso', raccolse la rana e la mise in tasca.
La rana gli disse allora: "Se tu mi baci, io mi trasformero' in una magnifica principessa e restero'
cosi' per una settimana". L'ingegnere tiro' fuori la rana dalla tasca, le fece un sorriso e la rimise
in tasca. La rana si mise allora a gridare: "Se tu mi baci, io mi trasformero' in una magnifica
principessa, restero' cosi' per una settimana e faro' TUTTO quello che vuoi". Ancora una volta,
l'ingegnere tiro' fuori la rana dalla tasca, le fece un sorriso e la rimise in tasca. La rana allora
gli chiese: "Che cosa c'e' ? Ti dico che sono una magnifica principessa, che restero' cosi' per una
settimana e che faro' tutto quello che vuoi !" Allora perche' tu non mi baci ? L'ingegnere
rispose : "Guardami, io sono un ingegnere. Non ho tempo per avere una relazione. Al contrario,
una rana che parla, e' una figata!"
Tre ingegneri discutono sulla natura del corpo umano. Uno di loro dice: "E' ovvio che chi l'ha
fatto era un ingegnere meccanico, con tutte quelle articolazioni, le ossa di sostegno... No, no dice il secondo - lo ha fatto sicuramente un ingegnere elettronico; guardate le connessioni
nervose, il sistema cerebrale... No, nessuno dei due - dice il terzo, - è stato un ingegnere civile;
solo loro possono mettere una discarica tossica vicino ad un'area ricreativa!"
Un ingegnere a carico di un importante posto in una ditta di rilevanza, a causa dello stress da
lavoro va in crisi e gli consigliano di prendere dei giorni di riposo in campagna... Il medico lo
manda in un azienda agricola di un sua conoscenza. Trascorsi due giorni senza fare niente,
l'ingegnere era stanco della vita bucolica e pastorale e si annoiava grandemente. Cosi decise di
parlare con il contadino che lo ospitava per chiederle di fare qualche compito semplice per
trascorrere il tempo, cosi avrebbe fatto, anche, un po' di esercizio. Al giorno seguente si
alzarono presto, prima che uscisse il sole. Il contadino, conoscitore della idiosincrasia degli
ingegneri, e temendo che combinasse dei danni, decise di assegnarli compiti facili, che non
potessero causare alcun danno, comprendendo lui stesso. Il compito è molto semplice - gli disse il
contadino dandogli un badile- Soltanto deve raccogliere lo sterco che c'è nel porcile dei maiali e
spargerlo nel seminato... Quando abbia finito venga a vedermi - aggiunse- Il contadino era
proprietario di più di duecento maiali, e lo sterco si accumulava fino alle ginocchia. Cosi che,
l'uomo stimò, che il lavoro avrebbe preso all'ingegnere 2 o 3 giorni...Grande fu la sorpresa,
quando dopo appena 3 ore comparse l'ingegnere, pieno di sterco fino alle orecchie, sorridente, e
con aria di soddisfatto Ho finito -disse- Vedendo che il compito, in effetti, era stato
eseguito, ed inoltre efficientemente, il contadino decise di assegnarli un altro. Bene... c'è da
uccidere dei polli, poiché domani vengono a prenderli dalla macelleria. E' sufficiente tagliare la
testa, -disse, dandogli un enorme coltello. E' un compito un po' più complicato, ma sicuramente,
lei è in grado di farlo. C'erano più di 1500 polli da sacrificare, e suppose che l'ingegnere non
avrebbe finito fino a notte inoltrata. Pensò, anche di aiutarlo, più tardi, quando avesse terminato
di fare il raccolto. Erano appena passate due ore, che l'ingegnere si ripresenta, con tutti gli abiti
e la faccia insanguinati, con il coltello scalfito, e sorridente come un bambino il giorno di natale.
Ho finito -disse- Il contadino non finiva di meravigliarsi. Incredibile, lui stesso abituato alla vita
contadina non avrebbe fatto meglio. 1500 polli perfettamente decapitati !!! Il contadino si grattò
il capo pensoso. Porto l'ingegnere vicino ad una grande montagna di patate e gli disse: - Molto
bene - Adesso bisogna classificare le patate. - Le grandi a destra e le piccole a sinistra Pensò,
tuttavia che
avrebbe visto in meno di un'ora l'ingegnere chiedendogli altri compiti Ma non fu cosi.. Passata
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Post/teca
l'ora del pranzo, e l'ora di cena, si fece notte, e l'ingegnere non compariva Pensò che qualcosa
fosse successo, e sconvolto, il contadino, andò dove lo aveva lasciato Lo trovò seduto davanti alla
stessa montagna di patate, e senza aver classificato neanche una. * Gli è successo qualcosa ?,
domandò con apprensione L'ingegnere rivolgendosi al contadino con una patata in mano gli rispose:
Guardi- spargere cacca e tagliare teste sono cose a cui sono molto abituato... Ma prendere
decisioni e tutta un'altra cosa !!...
Scoppia una terza guerra mondiale ipertecnologica, con armi atomiche tremende, ma incruente,
tra cui la bomba "S" che distrugge tutta la conoscenza scientifica pregressa. Ci si ricorda
vagamente che c'erano sti strani segnetti chiamati numeri, le addizioni, qualche anziano si ricorda
perfino che esistevano le divisioni. Nessuno pero' sa come eseguire queste difficilissime operazioni
!!! L'ONU convoca allora tre tizi che, prima della guerra, erano il piu'bravo ingegnere inglese, il
piu' bravo fisico americano ed il piu' bravo matematico italiano, tale Roberto Maria AvanziMocenigo, li rinchiude nel bunker di los alamos ed assegna loro questo titanico "compitino":
"Quanto fa uno piu' uno ?" Passa una settimana e gia' l'inggnere esce fuori con la sua soluzione:
"1+1 fa circa 3, con buona approssimazione" Coro dirigenti ONU:"Manno', disgraziato, non ci
pare, non e' cosi', nonno' via, via, del resto da un ingegnere che cosa ci potevamo aspettare ?!
bleah!" Passa un mese ed esce fuori il fisico: "1+1 ha o.d.g. 10^0" Coro dirigenti ONU:"Cheeee ?
Andiamo bene ! PEggio che andar di notte ! Del resto ci pare di ricordare che i matematici
rimproveravano ai fisici di violentare la matematica usandola come uno strumento !! Per fortuna
che c'e' l'illustre matematico purissimo Avanzi-Mocenigo: ci pensera' lui a ri-trovare la vera
soluzione!" Passa un anno e il matematico non si vede ! Preoccupatissimi, degli ispettori dell'ONU
decidono di entrare nel bunker. Appena aperte e porte anti-radiazioni, spesse due metri, si odono
urla mostruose: "CONVERGE!! CONVERGE!!"
Differenza tra un matematico, un fisico e un ingegnere:
* il matematico fa 100 teoremi che non servono a niente e non interessano a nessuno
* il fisico fa 100 esperimenti, 99 sbagliati e uno corretto, e per quello corretto consegue il
premio nobel
* l'ingegnere fa 100 progetti, 99 corretti e uno sbagliato, e per quello sbagliato va in prigione
L'umanita' e' divisa in due parti: le donne e gli uomini.
Quest'ultimi sono divisi in due parti: quelli che vanno con le prime e quelli che non ci vanno.
Quest'ultimi sono divisi in due: gli omosessuali e gli studenti di ingegneria.
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Post/teca
L'Ingegnere non vive: funziona!... (se c'è la corrente)
Ingegneria è un fatto di culo: o ce l'hai o te lo fanno.
Quant'è bella giovinezza, che si fugge tuttavia, chi vuol esser lieto sia, non si iscriva a
ingegneria.
IL VERO INGEGNERE
* Conosce perfettamente il calcolo vettoriale, ma non si ricorda come fare una divisione a mano.
* Ridacchia ogni volta che sente parlare di 'forza centrifuga'.
* Conosce ogni singola funzione della propria calcolatrice grafica.
* Quando si guarda allo specchio, vede un laureato in Ingegneria.
* Se fuori è bello e ci sono 30 gradi, sta in casa a lavorare sul computer.
* Fischietta di frequente il motivetto di Mac Gyver.
* Studia per gli esami anche il venerdì sera.
* Sa derivare il flusso dell'acqua della vasca da bagno e integrare il volume richiesto dagli
ingredienti del pollo arrosto.
* Pensa "matematicamente".
* Ha calcolato che la Serie A del campionato diverge per A sufficientemente grande.
* Se può cerca di non fissare troppo gli oggetti, perché teme di interferire con le loro funzioni
d'onda.
* Ha un micio con il nome di uno scienziato.
* Ride alle barzellette sui matematici.
* E' ricercato dalla Protezione Animali perché ha tentato l'esperimento di Schroedinger sul
proprio gatto.
* Traduce direttamente l'italiano in formato binario.
* Non riesce proprio a ricordarsi cosa ci sia dietro la porta del Centro di Calcolo marcata
"EXIT".
* E' cocacola-dipendente.
* Cerca di muoversi il meno possibile per non contribuire alla morte entropica dell'Universo.
* Considera qualsiasi altro corso non scientifico troppo facile.
* Quando il professore chiede la consegna del progetto, dichiara di essere riuscito a calcolarne il
momento vibrazionale in modo cosi esatto, che, secondo il principio di Heisenberg, esso potrebbe
trovarsi in qualsiasi
punto dell'universo.
* Assume come ipotesi di lavoro che un "cavallo" possa approssimarsi ad una "sfera" per
semplificare i conti.
* Ride ad almeno cinque punti di questa lista.
* Fa una stampa di questo file, e se la attacca in casa.
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Post/teca
Tesi di Ingegneria: ESISTE BABBO NATALE?
Nessuna specie conosciuta di renna può volare. Ci sono però 300.000 specie di organismi viventi
ancora da classificare e, mentre la maggioranza di questi organismi rappresentata da insetti e
germi, questo non esclude completamente l'esistenza di renne volanti, che solo Babbo Natale ha
visto.
Ci sono due miliardi di bambini (sotto i 18 anni) al mondo. Dato però che Babbo Natale non tratta
con bambini Musulmani, Indù, Buddisti e Giudei, questo riduce il carico di lavoro al 15% del
totale, cioè circa 378 milioni. Con una media di 1,5 bambini per famiglia, si ha un totale di 98,1
milioni di locazioni. Si può presumere che ci sia almeno un bambino buono per famiglia. Babbo
Natale ha 31 ore lavorative, grazie ai fusi orari e alla rotazione della terra, assumendo che
viaggi da Est verso Ovest. Questo porta ad un calcolo di 822,6 visite per secondo. Questo
significa che, per ogni famiglia Cristiana con almeno un bambino buono, Babbo Natale ha circa un
millesimo di secondo per:
- trovare parcheggio (cosa questa semplice, dato che può parcheggiare sul tetto e non ha
problemi di divieti di sosta);
- saltare giù dalla slitta;
- scendere dal camino;
- riempire le calze;
- distribuire il resto dei doni sotto l'albero di Natale;
- mangiare ciò che i bambini mettono a sua disposizione;
- risalire dal camino;
- saltare sulla slitta;
- decollare per la successiva destinazione.
Assumendo che le abitazioni siano distribuite uniformemente (che sappiamo essere falso, ma
accettiamo per semplicità di calcolo), stiamo parlando di 1.248 Km per ogni fermata, per un
viaggio totale di 120 milioni di Km. Questo implica che la slitta di Babbo Natale viaggia a circa
1040 Km/sec, a 3000 volte la velocità del suono. Per comparazione, la sonda spaziale Ulisse (la
cosa più veloce creata dall'uomo) viaggia appena a 43,84 Km/sec, e una renna media a circa 30
Km/h.
Il carico della slitta aggiunge un altro interessante elemento: assumendo che ogni bambino riceva
una scatola media di Lego (del peso di circa 1 hg), la slitta porta circa 378.000 tonnellate,
escludendo Babbo Natale (notoriamente sovrappeso). Sulla terra, una renna può esercitare una
forza di trazione di circa 150 Kg. Anche assumendo che una "renna volante" possa trainare 10
volte tanto, non è possibile muovere quella slitta con 8 o 9 renne, ne serviranno circa 214.000.
Questo porta il peso, senza contare la slitta, a 575.620 tonnellate. Per comparazione, questo è
circa 4 volte il peso della nave Queen Elizabeth II. Sicuramente, 575.620 tonnellate che
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Post/teca
viaggiano alla velocità di 1040 Km/sec generano un'enorme resistenza. Questa resistenza
riscalderà le renne allo stesso modo di una astronave che rientra nell'atmosfera. Il paio di renne
di testa assorbirà 14,3 quintilioni di Joule per secondo. In breve si vaporizzerà quasi
istantaneamente, esponendo il secondo paio di renne e creando assordanti onde d'urto (bang)
soniche. L'intero team verrà vaporizzato entro 4,26 millesimi di secondo. CONCLUSIONE :
Babbo Natale c'era, ma ora è CREPATO!!!!
Postilla alla pagina: Il vero ingegnere controlla i calcoli di questo test prima di diffonderne il
testo!
Entrate in una stanza e vi accorgete che un quadro è appeso storto, cosa fate?
Lo raddrizzate
Ignorate il problema
Utilizzate un sistema CAD per progettare una cornice autoraddrizzante ad energia solare,
impiegandoci sei mesi e dichiarando continuamente ad alta voce che l'inventore del chiodo era un
cretino.
La risposta apparentemente corretta è la 3., ma un vero ingegnere non potrà che rispondere:
"Dipende", oppure rifiutarsi di trattare il problema dicendo con tono altezzoso "è un problema di
marketing"
Per un vero ingegnere, qualsiasi oggetto esistente nell'universo può venire inserito in una delle
seguenti due categorie:
Oggetti che hanno bisogno di essere aggiustati
Oggetti che avranno bisogno di essere aggiustati dopo che li avrete avuti in mano per qualche
minuto
Agli ingegneri piace risolvere i problemi. Se non ci sono problemi sottomano gli ingegneri li
creeranno. Le persone normali non comprendono questo concetto: pensano che se non è rotto non
ci sarà bisogno di aggiustarlo. Gli ingegneri, invece, pensano che se non è rotto può essere
migliorato.
I vestiti sono la cosa meno importante per un vero ingegnere, purchè le soglie minime di decenza
e di temperatura siano superate. Se nessuna estremità del corpo sta congelando, e nessun organo
genitale sta penzolando in piena vista, allora gli obbiettivi del vestirsi sono stati soddisfatti.
Tutto il resto è uno spreco.
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Post/teca
Ottenere un appuntamento non è mai facile per un ingegnere. Una persona normale metterà in
atto varie strategie per sembrare più attraente; gli ingegneri, invece, non riescono a ritenere
l'aspetto fisico più importante della funzionalità .
Fortunatamente gli ingegneri hanno un asso nella manica: sono ampiamente riconosciuti come
materiale da matrimonio di qualità superiore. Sono intelligenti, affidabili, onesti, hanno un lavoro,
e sono comodi per cambiare le lampadine. Sebbene sia vero che molte persone normali non
vorrebbero mai avere un appuntamento con un ingegnere, tuttavia la maggior parte di loro ospita
un intenso desiderio di diventarne amici, in modo da poterne poi sfruttare l'influenza per produrre
figli-ingegneri, che avranno lavori ad alto stipendio molto prima di perdere la propria verginità .
Per questo motivo, gli ingegneri maschi raggiungono il picco della loro attrattiva sessuale più tardi
delle persone normali, diventando irresistibili macchine da sesso tra i 35 e i 50 anni. Se non ci
credete, guardate questi esempi di persone sessualmente irresistibili con una professione tecnica:
Bill Gates
Mc Gyver
Gli ingegneri sono sempre onesti quando parlano di tecnologia e di relazioni umane. Per questo
motivo, è una buona idea tenerli lontani dai clienti. Tuttavia, talvolta gli ingegneri piegano la
verità per evitare lavoro, dicendo frasi che suonano come bugie, ma tecnicamente non lo sono, in
quanto nessuno sano di mente lo prenderebbe per vere. La lista completa delle bugie degli
ingegneri è riportata qui sotto:
* Non cambierà nulla del progetto senza avvertirti
* Ti riporterà questo prezioso e introvabile cavo entro domani mattina
* Ho bisogno di attrezzature più moderne per svolgere il mio lavoro
* Non sono geloso del tuo nuovo computer
Gli ingegneri sono notoriamente poco spendaccioni, non per avidità o per umiltà , ma perchè ogni
situazione in cui sia necessario spendere del denaro può essere vista come un problema di
ottimizzazione del tipo : come posso uscire da questa situazione conservando la maggior quantità
possibile di denaro? Il vero ingegnere comincerà immediatamente a scrivere un'equazione di sette
variabili e a minimizzarla con un sistema di equazioni differenziali che, per poter essere risolto,
necessiterà di una serie di approssimazioni successive che renderanno il risultato del tutto
inaffidabile.
Un ingegnere ed un matematico devono mettere dell'acqua a bollire in due situazioni diverse.
Caso1: la pentola e' vuota.
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Post/teca
L'ingegnere riempie la pentola e la mette sul fuoco, e il matematico fa altrettanto.
Caso 2: la pentola è già piena.
L'ingegnere la mette direttamente sul fuoco, il matematico la vuota e si riconduce al caso
precedente.
Definizione ingegneristica di un cornuto:
"E' un'unità la cui metà sta sotto un terzo"
Un ingegnere si presenta sul posto di lavoro. E' il suo primo giorno...
Il principale gli mette una scopa in mano e gli dice:
"Ecco questa è una scopa. Come prima cosa potreste dare una spazzata all'ufficio..."
L'ingegnere replica:
"Una scopa ?!?! Ma guardi che io sono un ingegnere !!!"
E il principale:
"Ha ragione scusi venga di là che le faccio vedere come funziona..."
Per un grande industriale esistono 3 modi per perdere dei soldi:
1) Le donne
2) Il gioco
3) Gli ingegneri
Il primo è il più piacevole.
Il secondo è il più rapido.
Il terzo è il più sicuro.
Un ingegnere, un matematico ed un fisico vengono contattati da un grosso allevatore di bestiame
per progettare un recinto atto a contenere 32.459 pecore.
L'ingegnere allora, sapendo che la figura geometrica con minor perimetro a parità di area è il
cerchio, progetta un recinto circolare stimando ad occhio il bestiame e buttando giù una cifra
approssimativa.
Il fisico, assai più meticoloso, consegna anche lui il progetto di un recinto circolare, ma un pò più
piccolo avendo fatto delle misure più accurate.
Il matematico invece lascia tutti di stucco preventivando un recinto lungo appena 2 metri.
L'allevatore allora, stupito quanto incredulo, chiede al matematico spiegazioni, e questi non
accenna ad avere il minimo problema, anzi ha già fatto realizzare il recinto e si appresta a dare
una dimostrazione della sua idea.
Posiziona quindi il recinto attorno a sè ed esclama: "Dichiaro me stesso, punto esterno al
recinto!!!"
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Post/teca
Un prete, un medico e un ingegnere stanno giocando a golf preceduti da un gruppo particolarmente
lento.
L'ingegnere, parecchio innervosito, esclama:
"Ma cosa fanno 'sti morti di sonno!? Sarà almeno un quarto d'ora che aspettiamo!"
Il medico allora:
"Non lo so, ma non ho mai visto una tale inettitudine"
Allora il prete, anche lui un po' spazientito, chiama il giardiniere:
"Ehi, Gino! Cosa stanno facendo quei bravi ragazzi davanti a noi? Sono un poco lenti, non le pare?"
Il giardiniere risponde:
"Oh certo, padre, è un gruppo di pompieri ciechi. Hanno perso la vista salvando la nostra
clubhouse durante l'incendio dell'anno scorso. Per questo li facciamo giocare gratis quando
vogliono"
Il prete, commosso, dice:
"E' così triste. Penso proprio che dirò una preghiera speciale per loro questa notte"
Anche il medico rimane colpito:
"Buona idea. E io vado dal mio collega oculista e gli chiedo se può fare qualcosa per loro"
Al che l'ingegnere sbotta:
"Ma perché invece non giocano di notte?"
Sapete che differenza c'è tra il luogo dove hanno investito un cane e il luogo dove hanno investito
un ingegnere?
Risposta: dove hanno investito il cane ci sono i segni della frenata.
A Bologna organizzano un congresso per ingegeneri e matematici.
Vengono invitati gli ingegneri ed i matematici di Pisa.
Arrivati alla stazione i matematici, tutti precisini, comprano un biglietto a testa.
Gli ingegeneri invece ne comprano uno per tutti.
I matematici commentano: ""Chissà che intenzioni hanno!!!""
Quando sul treno arriva il controllore gli ingegneri corrono a chiudersi in bagno.
Il controllore, esaminati i biglietti dei matematici, bussa alla porta del bagno.
Dall'interno un ingegnere risponde: ""Occupato"".
E il controllore: ""Biglietti, prego"".
Da sotto la porta, gli ingegneri mostrano il loro unico biglietto, il controllore lo vidima e glielo
restituisce.
Al ritorno a Pisa i matematici, vista la scena dell'andata, comprano un solo biglietto per tutti.
Gli ingegneri, invece, nessuno. I matematici pensano: ""Mah!"".
All'arrivo del controllore i matematici corrono nel bagno e gli ingegneri (tutti tranne uno) in un
altro bagno.
L'ingegnere rimasto fuori bussa alla porta del bagno dei matematici.
Uno dei matematici risponde: ""Occupato"".
E l'ingengere: ""Biglietto, prego"""
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Post/teca
Gli scienziati della NASA hanno costruito una specie di cannoncino per lanciare dei polli morti alla
velocità massima possibile contro i parabrezza degli aerei di linea, degli aviogetti militari e della
navetta Space Shuttle. Lo scopo è simulare i frequenti scontri con gli uccelli vaganti nell'aria per
verificare la resistenza dei parabrezza. Alcuni ingegneri italiani, avendo sentito parlare di questa
"arma", erano desiderosi di provarla sul parabrezza dei loro nuovi treni ad alta velocit?. Sono
stati presi accordi con la NASA ed il cannone è stato spedito agli assistenti tecnici italiani.
Quando l'arma è stata attivata la prima volta, gli ingegneri italiani sono rimasti impietriti mentre
il pollo sparato dal cannoncino si schiantava contro il loro parabrezza infrangibile e lo fracassava,
rimbalzava contro la console dei comandi, staccava la testa del manichino messo al posto di guida,
spezzava in due lo schienale della poltroncina del macchinista e si andava ad incastrare nella
parete posteriore della locomotiva come se fosse stato una freccia scoccata da un arco. I tecnici
italiani, sconvolti hanno trasmesso alla NASA i risultati disastrosi dell'esperimento e i progetti
del loro parabrezza supplicando gli scienziati americani perché dessero loro dei suggerimenti. La
NASA ha risposto con un fax di tre sole parole: scongelate i polli.
Umorismo Matematico
Cosa
dice
Scusa, hai un momento?
un
vettore
ad
un
altro?
Un matematico, un fisico un ingegnere sono sottoposti a una prova di sopravvivenza, chiusi
ciascuno in una stanza spoglia di tutto fuorché di un materasso, con una scatola di sardine
sigillata e una forchetta. Dopo un mese di clausura, quando vengono riaperte le stanza, il fisico è
morto appoggiato al muro su cui ha inciso, con la punta della forchetta complicati calcoli
sull'energia dei possibili impatti della scatoletta sulle diverse regioni dei muri, secondo diversi
angoli di incidenza. L'ingegnere è morto con i muscoli contorti dallo sforzo e con la forchetta
deformata dal tentativo di trasformarla in leva per forzare la scatoletta. Il matematico è disteso
immobile sul materasso, ma sembra respirare debolmente e muovere le labbra. Avvicinandosi, lo si
sente sussurrare con fatica: "supponiamo... per assurdo... che la scatoletta ... sia aperta ...". (
da il "Riso di Talete" - G. Lolli)
Uno statistico può mettere la testa nel forno e i piedi nel ghiaccio e dire che si sente
mediamente bene.
Cos'è un bimbo complessato? Un bimbo di madre reale e padre immaginario!
Al cinema c'è un film con 3 vettori linearmente indipendenti. Come si chiama il film? "Rango 3" .
52
Post/teca
E se il film ha 2 sistemi lineari incompatibili? "Kramer contro Kramer".
Un ingegnere, un biologo e un matematico osservano una casa che sanno per certo essere vuota.
Ad un certo punto vedono entrare due persone. Successivamente ne vedono uscire tre.
L'ingegnere: "Sicuramente c'è stato un errore di misura!". Il biologo: "Si sono riprodotti". Il
matematico: "Se adesso entra una persona, la casa sarà vuota!"
La radice di due era molto preoccupata: ormai erano passati trenta decimali senza che le venisse
il periodo. Temeva di essere incinta, anche se cio' le sembrava irrazionale.
Un avvocato, un artista ed un matematico discutono se sia meglio avere una moglie o un'amante.
L'avvocato dice: - Meglio la moglie, perché non ti procura grattacapi legali! L'artista sceglie
l'amante perché rappresenta la libertà, la voglia di esprimersi. Il matematico dice: - Dovreste
averle entrambe, così quando ognuna delle due pensa che siete con l'altra... potete farvi un po'
di equazioni in santa pace...
Che cos'e' un orso polare? E' un orso cartesiano che ha cambiato coordinate!
Ad una festa matematica si incontrano diverse espressioni come X^2, 3sinX, 4Sqr(x^-2) e molte
altre... Ad un certo punto X^2 vede in un angolino, mogio mogio, il
Ln(5XsinX^2/2)/7cos(tg(Ln(x^-(1/2))), e gli chiede: "Perché te ne stai li tutto solo e triste". Lui
gli risponde: "Sai, io non mi INTEGRO facilmente...!"
Perché i giovani matematici sono nervosi e fanno poco sesso? - Perché sentono dire che niente è
meglio del sesso e che un caffè è meglio di niente, quindi deducono che un caffè è meglio del
sesso...
Un fisico, un ingegnere e un matematico se ne vanno in treno per la Scozia, quando dal finestrino
scorgono una pecora nera. - Ah! - dice il fisico - vedo che in Scozia le pecore sono tutte nere! Hmmm... - replica l'ingegnere - Possiamo solo dire che qualche pecora scozzese è nera... - No!
- conclude il matematico - tutto quello che sappiamo è che esiste in Scozia almeno una pecora con
uno dei due lati di colore nero... ( da il "Riso di Talete" - G. Lolli)
53
Post/teca
Qual è il colmo per un matematico? - Trovare la sua metà con un terzo.
Qual è il colmo per un matematico? - Andare a casa con un mezzo.
"Ma tutto ciò è immaginario" disse il radicale puntando l'indice accusatore su menouno.
Alla festa dei simboli matematici non manca proprio nessuno. Sommatoria e parentesi graffa
ballano scatenate al centro della pista, maggiore uguale è ubriaco perso, la radice quadrata si è
imboscata con un differenziale e così via. Solamente "exp(x)" se ne sta sola in un angolo; al che
punto e virgola si avvicina e le fa: "Perché non ti integri?". exp(x) risponde: "Tanto è lo stesso!"
Due atomi si incontrano per strada. Il primo: "Come va? Tutto bene?" L'altro, mesto: "Uh.. no..
ho subito una perdita... un mio elettrone...". "Ma ne sei certo?" . "Eh, si... sono risultato
positivo..."
Secondo Principio della Termodinamica: se fai bollire un acquario ottieni una zuppa di pesce, ma è
molto difficile che raffreddando la zuppa di pesce ritorni ad avere l'acquario.
Epigrammi geometrici: "Uomo retto, dopo una vita lineare, morto in curva".
Ci sono uno studente di matematica ed uno di ingegneria all'inizio di un lungo corridoio. Vedono
contemporaneamente una bella ragazza in fondo allo stesso. Allora il matematico dice
all'ingegnere: - Facciamo una corsa? Chi arriva primo dalla ragazza, può invitarla a cena! Ma a
questo punto, avendoli ascoltati, interviene un professore: - Fate così: correte per tappe...
percorrete ogni volta metà dello spazio che vi separa tra voi e la ragazza, poi vi fermate e poi
ripartite... - Ah! - esclama il matematico - io ci rinuncio! Non arriverò MAI alla ragazza. Invece
l'amico ingegnere: - Io invece ci sto: è vero che non arriverò mai alla ragazza, però potrò
avvicinarmi finché voglio!
Quanti
logici-matematici
servono
per
avvitare
una
Nessuno: essi non possono farlo, ma possono dimostrare che può essere fatto.
54
lampadina?
Post/teca
Quanti assistenti universitari servono per avvitare una lampadina? Quattro: uno per farlo e tre
per firmare l'articolo assieme a lui come co-autori.
Fonte: http://www.ingegnerando.it/universita/universita.html
-----------------------------15/12/2009 22:25
Il piano eversivo
Ecco che cosa è irresponsabile. Mentire. Dire spudoratamente come fa Il Giornale a caratteri
cubitali che «era tutto organizzato». Utilizzare il gesto di una persona che non sta bene
(dov'era la sicurezza, dove stava guardando?) per criminalizzare ogni forma di critica e di
dissenso, in definitiva mettere le premesse per uno stato di polizia dove diventi difficile, meglio
se impossibile, manifestare, esprimere il proprio pensiero anche in modo aspro come avviene
in ogni paese democratico.
Non c'è nessuno bisogno di leggi speciali, basta applicare quelle che ci sono. Non serve lo
scudo fiscale, basta inasprire i controlli e far pagare le tasse. Non serve oscurare internet,
basta usare gli strumenti che esistono per bloccare chi ingiuria. Chiudere internet equivale a
spaccare il termometro per curare la febbre. Il problema, al solito, non è chi commenta ciò che
accade: il problema è ciò che accade, e non basterà blindare le piazze e oscurare i siti perché i
fatti cessino di esistere. Sarà solo molto peggio. Servirà ad esacerbare gli animi a provocare così sì, così davvero - tumulti. Non occorre abolire i processi o ridurli al lumicino, basta
sottoporsi ai giudizi. Se viaggio costantemente contromano e mi multano 2500 volte non sono
perseguitata dai vigili urbani. Ho due possibilità: dimostrare che non ero alla guida oppure
pagare la multa. La regola esiste, cambiare le leggi in corsa significa mandare agli italiani il
messaggio che chi può - solo chi può, certo - fa come gli pare. Fessi gli altri. Si attrezzino a
diventare molto ricchi e potenti o si illudano che basti attaccarsi al carro di chi lo è.
Irresponsabile è scardinare le regole perché è più comodo, si va più veloce, che noia questo
Parlamento, che zavorra questi processi, che tormento questa stampa. Eliminiamoli.
Non serve cambiare la Costituzione, basta rispettarla. Rispettare la Carta, i poteri, la
magistratura, il capo dello Stato, l'opposizione. Non dire un giorno sì è l'altro pure che il
tricolore va nel cesso, l'opposizione è cogliona, i giudici eversivi, il capo dello Stato fazioso.
Non far finta che si sia agli anni di piombo, evocare come ha fatto ieri Cicchitto il terrorismo e
i mandanti morali e intanto, con l'altra mano, mettere la fiducia su una Finanziaria che
restituisce alla mafia i beni sequestrati. Questo sì è irresponsabile, pericolosissimo, criminale.
Evocare il terrore per far carne di porco delle norme minime di convivenza, della discussione
tra chi ha idee diverse e non per questo deve essere additato come assassino facendo di ogni
erba un fascio: confondendo la violenza con l'obiezione legittima, Tartaglia con Rosi Bindi e
guai a chi si azzarda a dire sillaba. Non siamo agli anni di piombo, Cicchitto. Siamo caso mai
sempre alla P2. Siamo davanti a un disegno chiarissimo. Titolava ieri Libero: la Procura di
Palermo non s'arrende. Ecco il punto: barattare il duomo in faccia con il colpo di spugna. Un
folle lo ha ferito, emergenza nazionale, si azzerino i processi. C'entra? Non c'entra. Ai processi
si va, si dibatte. In Parlamento si va, ci si sottopone al voto. Anche in piazza si va. A criticare, a
far comizi. Nel caso dei comizi, possibilmente, con un buon servizio d'ordine. Di questo, in un
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Post/teca
paese normale, si parlerebbe oggi. Di come garantire la sicurezza e la civiltà nel confronto,
non di come eliminarlo.
di concita de gregorio
fonte: http://concita.blog.unita.it//Il_piano_eversivo_828.shtml
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Ci siamo
14 Dicembre 2009 Musica
Dischi dell’anno
Felice Brothers – Yonder is the clock
Bill Callahan, Sometimes I wish we were an eagle
Avett Brothers – I and love and you
Bob Dylan – Together through life
The Decemberists – The Hazards of Love
Conor Oberst – Conor Oberst
Micah P Hinson – All dressed up and smelling of strangers
Ben Harper – White Lies for Dark Times
Jazz (& soul)
Miles Davis - The Complete Columbia Album Collection
Keith Jarrett – Testament
Ella Fitzgerald – Twelve Nights in Hollywood
Naomi Shelton & the Gospel Queens – What have you done, my brother?
fonte: http://www.camilloblog.it/archivio/2009/12/14/ci-siamo/
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La Sindone e il giudaismo al tempo di Gesù
Disinformazione su Masada, crocifissione e sepolture ebraiche
di Antonio Lombatti
Esaminerò aspetti meno studiati, ma non per questo marginali, sul rapporto tra la Sindone come
manufatto e il giudaismo contemporaneo a Gesù. Nello specifico, illustrerò brevemente i tessuti
ritrovati a Masada, le sindoni funebri ebraiche scoperte in scavi archeologici controllati e che
risalgono ai secoli I a.C. e I d.C., il presunto uso di seppellire i defunti con monete sugli occhi,
l'archeologia della crocifissione e, infine, la lunghezza del cubito ebraico. Tutti questi argomenti, in
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Post/teca
un modo o nell'altro, sono stati associati alla reliquia torinese per sostenerne l'autenticità.
Tessuti rinvenuti a Masada(dal volume Masada IV)
Masada è una fortezza ricavata da una montagna rocciosa posta sul versante occidentale del Mar
Morto. Giuseppe Flavio scrive che fu costruita dal sommo sacerdote Gionata verso l'80 a.C. (Guerre
giudaiche VIII, 285). Erode il Grande la utilizzò per nascondersi dopo una sconfitta nel 40 a.C.
(Antichità giudaiche XIV, 280-303). Qualche anno dopo, modificò la struttura e vi costruì una
nuova fortezza (Guerre giudaiche VII, 280-300). È sempre Giuseppe Flavio a raccontare che
all'inizio della Prima Rivolta Giudaica, nel 66 d.C., il luogo era una guarnigione romana. Ma gli
zeloti se ne impossessarono: furono sconfitti definitivamente dall'esercito imperiale il 2 maggio del
73 (Guerre giudaiche II, 408). Tutti gli storici sono concordi nel ridimensionare la testimonianza di
Giuseppe Flavio, il quale scrisse che 900 ebrei si suicidarono piuttosto che cadere prigionieri dei
romani.[1] Le ricerche archeologiche, tuttavia, hanno mostrato la presenza solo di una trentina di
scheletri, molti dei quali sepolti in una fossa comune con ossa di maiale. Questo particolare e altri
dettagli paleoantropologici hanno portato gli specialisti ad affermare che il luogo diventato simbolo
del nazionalismo israeliano non contenesse la sepoltura di ebrei.[2]
Masada viene tirata in ballo da Mechthild Flury-Lemberg in un articolo uscito in tedesco nel 2000[3]
e in traduzione inglese l'anno dopo. Ipotizza che alcuni tessuti e relative cuciture mostrino
somiglianze con il lino sindonico. A partire da questo articolo, tutti i sindonologi hanno citato la
Flury-Lemberg senza, probabilmente, aver verificato la fonte delle sue citazioni: il volume Masada
IV[4].
Partiamo dal lino catalogato nel libro, perché di lino è fatta la Sindone. Alle pagine 220-223
vengono presentati due frammenti. La numerazione dei reperti è 121(Y) e 109(Z). Questa la
descrizione tecnica: 121(Y) linen, undyed, fine knotted net. Thread S-spin; 109(Z) linen, undyed,
fragment of a sock in knotless netting. Thread S-spin. In breve, i due lini di Masada,
rispettivamente, una retina per capelli e un calzino, entrambi con filatura a 'S' non hanno nulla da
spartire con il lenzuolo funebre con filatura a 'Z'.
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Post/teca
Dettaglio di cucitura sulla Sindone
La Flury-Lemberg non ha citato, quindi, il lino di Masada perché non c'è alcun parallelismo con la
reliquia torinese. Diamo un'occhiata, allora, a cosa ha scritto nel suo articolo in tedesco (p. 22):
«Intanto è provata l'esistenza della trama 3:1 dai tessuti di Krokodilo così come la tecnica speciale
di cucitura dell'orlo al tempo della nascita di Cristo dai tessuti di Masada. Il ritrovamento sepolcrale
di Masada in Israele ha portato una notevole quantità di frammenti tessili che... sono stati studiati».
[5]
Poi, cita una nota che vedremo in seguito. Ma già questo paragrafo presenta dei dati parziali e
scorretti. La tessitura 3:1 a spina di pesce è stata rinvenuta in sete cinesi e in lane a Palmira databili
al 2500 a.C. E, soprattutto, a Masada non ci sono tessuti sepolcrali. Zero. Nemmeno uno. Tutti i
tessuti analizzati e catalogati lo sono come vestiti, mantelli, scialli, tuniche, calzini o reti per capelli.
Nessuno di questi è stato rinvenuto nella fossa comune con gli scheletri, che con molta probabilità
erano romani insediati nella locale guarnigione successiva alla Prima Rivolta e non giudei.
Alla fine di quel paragrafo che ho tradotto sopra viene citata la nota 3. A p. 32 si legge: Masada IV,
pp. 210-211, figg. 111-113, p. 169, fig. 16. Ho controllato il volume per verificare quali siano queste
somiglianze con la Sindone. Immaginate un po'? Nessuna. Non capisco proprio perché la FluryLemberg abbia citato quelle pagine. La figura 111 di p. 210 riporta questa descrizione: Wool, red,
balanced 2:2 broken diamond twill. Some edges seem deliberately torn. Dyed with madder. Cosa
c'entra con la Sindone che è un 3:1 herringbone twill? Niente. E anche l'illustrazione 113 di pag.
211 non ha nulla a che fare con il lino. La sua descrizione è nella pagina precedente: wool, 1:1
diamond twill. E queste sarebbero le somiglianze? A me è sembrata una citazione un po' maligna:
riferita ad un libro stampato in Israele, fuori commercio e difficilmente reperibile. Ma il bello deve
ancora venire.
A p. 34 la Flury-Lemberg presenta la foto di un dettaglio di cucitura della Sindone e dice che
un'analoga cucitura, di cui mostra uno schema disegnato, è stata trovata a Masada. I sindonologi ne
approfittano per sostenere che la cucitura sulla Sindone è una prova della sua antichità. Ma a
Masada sono stati riscontrati molti e diversi tipi di cucitura, che non sono esclusivi né del luogo né
dell'epoca, e non c'è niente di strano se uno di questi è anche stato usato nel Medioevo per la
Sindone. Non ci si aspetta che siano stati inventati tanti nuovi metodi di cucitura nei secoli
intercorsi fra l'antichità e il basso Medioevo.
Un secondo argomento interessante riguarda i sepolcri ebraici dell'epoca di Gesù. In questi anni, mi
sono sempre chiesto se non ci fossero sindoni funebri giudaiche scoperte in scavi archeologici
controllati, che potessero essere paragonate al lino torinese. Il fatto che nei libri dei sindonologi non
venissero mai citate, mi aveva molto insospettito. E, se si eccettuano alcune frasi molto sommarie
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Post/teca
sulla sindone di Akeldama, il silenzio è stato pressoché totale. Tuttavia, i ritrovamenti sono stati
numerosi. E anche sul telo di Akeldama non venivano forniti dettagli.[6] Come mai? La risposta è
presto data.
Lo studio tecnico più completo della sindone funebre di Akeldama è quello di Orit Shamir.[7]
curatrice dei tessuti antichi presso l'Israel Antiquities Authority a Gerusalemme. La scoperta fu
merito di Shimon Gibson e James Tabor.[8] Questo telo, anche se molto frammentario, rappresenta
l'unica sindone funebre del Secondo Tempio mai scoperta a Gerusalemme. Il tessuto è stato datato
nel laboratorio di Tucson, in Arizona, lo stesso che sottopose la Sindone al C14 nel 1988. Il risultato
fu 50 a.C.-70 d.C. Si tratta, quindi, di un reale telo sepolcrale gerosolimitano contemporaneo a
Gesù. Vista l'unicità della scoperta, il suo valore come parallelo per il lino sindonico è
fondamentale.
Partiamo dal come il cadavere fu sepolto.
In base alla posizione delle ossa e dei frammenti di tessuto, la ricostruzione della sepoltura mostra
una tecnica diversa rispetto a quanto si vede sulla Sindone. Le braccia erano allungate lungo il
tronco, il cadavere avvolto strettamente e collo, polsi e caviglie fermate con ulteriori bendaggi. Il
tessuto era di lana (la Sindone è di lino), la trama composta da una semplice struttura 1:1 (la
Sindone è a spina di pesce 3:1), la filatura è a 'S' (la Sindone è a 'Z'). Si può, quindi, facilmente
intuire il perché l'unica vera sindone funebre giudaica del tempo di Gesù scoperta a Gerusalemme
non sia mai stata citata dai sindonologi: i due teli non hanno nulla, ma proprio nulla in comune.
La sepoltura dell'uomo di Akeidama
© Fadi Amirah e Shimon Gibson; pubblicata per gentile concessione dell'autore
Ma quella di Akeldama non è l'unica sindone funebre. Diversi frammenti sono stati rinvenuti a 'En
Gedi[9], Qumran[10], Gerico[11] e Khibert Qazone[12] solo per citare alcune scoperte. Tutte datate con il
C14 e tutte risultate essere più o meno contemporanee a Gesù. Questi tessuti – sia quelli in lino che
quelli in lana – presentano semplici strutture 1:1 o 2:2. In alcuni casi, il cadavere era avvolto in
stuoie di paglia ('En Gedi). Due sono le costanti: pluralità di teli e corde per completare le sepolture
– che confermano la buona conoscenza del giudaismo dell'autore del vangelo di Giovanni (11,44 e
20,40) – e filatura dei tessuti a 'S'. Quest'ultimo particolare è alquanto rilevante. Infatti, parecchi
sindonologi hanno detto e scritto che la filatura a 'Z' del lino sindonico è tipica dell'area palestinese.
In realtà, in una lunga trattazione sulla provenienza dei tessuti di Masada si legge (p. 235): «I tessuti
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Post/teca
erano prodotti localmente oppure importati? I manufatti tessili Masada fin qui studiati sono
abbastanza vari, specialmente se confrontati, ad esempio, con quelli provenienti dalla Cava di
Letters. Se si esaminano accuratamente i dettagli di fabbricazione, emergono numerose significative
differenze, in particolare nella direzione della filatura. Poiché i metodi di filatura in una qualunque
località possono essere considerati abituali e tradizionali, la direzione della filatura è un importante
indicatore dell'origine di un tessuto».[13]
Torcitura dell fibre a S e a Z
Quindi fanno una suddivisione in diverse tipologie, che derivano tutte da queste due
macrocategorie:
«I) capi con filatura a S
II) capi con filatura a Z
Prove di diversa natura indicano che i tessuti del gruppo i), con filatura ad S, sono prodotti
localmente. [...] Ed è degno di nota il fatto che tutti i manufatti tessili di lino sono ugualmente filati
ad S. I capi con tessitura a Z, caratteristici del gruppo ii), costituiscono solo una piccola parte dei
tessuti del periodo romano rinvenuti in Israele e nei territori circostanti. I tessuti sono sopravvissuti
molto più raramente nelle regioni mediterranee settentrionali, in Grecia e nella stessa Italia, ma, a
giudicare dai reperti ritrovati, in tali aree la norma era la filatura a Z».[14]
Questa la certezza scientifica. Nonostante – ne sono sicuro – continueremo a leggere sui libri dei
sindonologi, che la torcitura a 'Z' era tipica dell'area palestinese, la realtà archeologica dice che Sspun textiles were locally (Israel) made, mentre in Greece and Italy Z-spinning was the norm.
Una breve trattazione merita anche la questione delle cosiddette monetine. Si tratterebbe di un gioco
di chiaroscuri dell'immagine fotografica della Sindone che, secondo alcuni, lascerebbe intravedere
lettere e figure di pochi millimetri di una moneta coniata quando Ponzio Pilato era procuratore della
Giudea. Si tratta di un'argomentazione ai limiti del ridicolo che perfino alcuni sindonologi
respingono.
La citazione di riferimento sull'uso di monete per chiudere gli occhi dei defunti, ripresa
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Post/teca
acriticamente da tutti i sindonologi, è un articolo uscito oltre cento anni fa.[15] In esso, tuttavia, si
parlava dell'usanza moderna di chiudere gli occhi dei defunti tra gli ebrei russi, citando come fonte
il manoscritto medievale Zohar. In nessun punto si faceva riferimento all'uso di monete. I
sindonologi di tutto il mondo, tuttavia, continuarono a citare l'usanza inesistente di mettere
monetine sulle palpebre dei defunti all'epoca di Gesù. Dovettero intervenire i due maggiori
archeologi ebrei che avevano diretto decine di scavi in tombe del Secondo Tempio, nonché autori di
articoli e libri specialistici sull'argomento. Mi riferisco a Levy Rahmani, direttore dell'Autorità
Israeliana per le Antichità. Rahmani scrisse che su un totale di circa 3000 tombe studiate e risalenti
all'epoca di Gesù le monete erano poche decine. Ma, soprattutto, ribadì con estrema chiarezza come
non ci fosse alcuna pratica di chiudere gli occhi con monete o altri oggetti[16]. Poi, la smentita arrivò
anche da Rachel Hachlili e Ann Killebrew: a Gerico era stata trovata una sola moneta in
corrispondenza della cavità orale di un teschio. Questo poteva testimoniare come l'influsso
dell'ellenismo – ben noto nell'uso della lingua e nell'edilizia pubblica – potesse avere paganizzato il
giudaismo anche in alcuni riti di sepoltura. La moneta in bocca, infatti, rappresentava l'obolo per
Caronte.[17] Ma le precisazioni formali di chi aveva scavato personalmente decine di tombe
contemporanee a Gesù non sarebbero bastate. Ancora oggi i sindonologi continuano a citare una
prassi ebraica inesistente.
La manipolazioni dei dati archeologici arriva a livelli impensabili quando si affronta l'unica prova
della crocifissione mai emersa da uno scavo in Terra Santa. Mi riferisco all'uomo di Giv'at
HaMivtar, i cui resti con un chiodo ancora affisso al calcagno furono trovati nel 1969 nella periferia
di Gerusalemme. Nonostante gli studi paleoantropologici sull'argomento abbiano chiarito con
estrema certezza che la posizione sulla croce di quell'uomo era inconciliabile con quella della figura
sindonica, nei suoi libri Baima Bollone ha continuato a sostenere il contrario. Ma non solo: a
sostegno del suo dato incorretto, ha citato uno studio di Joe Zias in cui si diceva proprio l'opposto.
Ecco le parole esatte di Baima Bollone:
«Si tratta di un maschio adulto dell'età di circa venticinque anni. Il radio destro mostra una piccola
scalfitura prodotta dall'azione di un chiodo sull'avambraccio. La tibia e il perone sinistri risultano
fratturati. I due calcagni sono trapassati da un unico chiodo di ferro della lunghezza di 17-18 cm».
[18]
Ricostruzione del crocifisso Yehohanan
Il professore torinese cita la fonte delle sue informazioni. Non l'avesse mai fatto: si tratta di un
articolo di Joe Zias e James Charlesworth, Crocifissione: archeologia, Gesù e i manoscritti del Mar
Morto.[19] Ma i due hanno scritto: la lunghezza del chiodo era di 11,5 cm e non 17-18 e ciò significa
che era anatomicamente impossibile fissare entrambi i piedi con un solo chiodo; non c'era alcuna
61
Post/teca
traccia di penetrazione di chiodi nei polsi o avambracci, l'intaccatura presente non era di origine
traumatica ma dovuta ad un leggero sfregamento; le numerose fratture dell'arto inferiore non erano
da riferire ad una rottura volontaria, ma piuttosto al tempo trascorso sulla croce. Insomma, nessuna
delle informazioni presentate da Baima Bollone corrisponde a ciò che è stato scritto nell'articolo che
lui stesso ha citato. Inoltre, Zias e Charlesworth illustravano anche con un disegno la posizione di
quell'uomo in croce.
Tra l'altro, proprio in quel contributo i due autori dicono chiaramente che la Sindone è un falso del
XIV secolo (pp. 297-298).
L'ultima questione riguarda la lunghezza del cubito ebraico. Rebecca Jackson, nell'ultimo
documentario sulla Sindone andato in onda sulla BBC2 e nel corso della trasmissione Porta a Porta
su RAI 1 a Pasqua 2008, ha dichiarato che le misure della reliquia sono esattamente 2 cubiti per 8.
[20]
Un taglio di stoffa, quindi, che mostra con certezza l'origine tessile giudaica. Vediamo nel
dettaglio se l'affermazione è corretta.
Le ultime misurazioni riferiscono che il telo è lungo 442 x 113 cm.[21] I primi israeliti utilizzavano
misure di lunghezza che convenzionalmente erano associate a parti del corpo: il pollice, il palmo, il
braccio, il piede e il passo. Poi, sotto l'influenza del cubito egiziano – reale e comune – ma
soprattutto di quelli sumerico, babilonese e assiro, venne introdotto nel Regno di Giuda l'«'ammah»,
unità di misura derivante, anche nell'etimologia, direttamente dall'«ammatu'» accadico.
Anzitutto, occorre chiarire come il cubito fosse una misura utilizzata nelle costruzioni pubbliche e,
soprattutto, nell'architettura religiosa. Nulla a che vedere, dunque, con i tessuti che venivano tagliati
non in cubiti, ma in spanne (tefah), braccia (zeret) o dita (ezba').[22]
Se, per assurdo, considerassimo ugualmente il cubito citato dalla Jackson ci accorgeremmo che i
conti non tornano lo stesso. La sua lunghezza è stata determinata grazie a citazioni bibliche
(Deuteronomio 3,11; 1 Samuele 17,4; Genesi 7,20; Ester 7,19; Ezechiele 40,5 e 43,13; 2 Re 14,13;
Neemia 3,13; Geremia 52,21; ) in 444 mm circa. Da ultimo, la scoperta del tunnel fatto costruire a
Gerusalemme dal re di Giuda, Ezechia, verso il 700 (il racconto è in 2 Re 20,20 e Cronache 32,30)
ha portato alla luce anche una targa che commemorava il completamento dell'opera. Scritta in
paleoebraico, l'iscrizione dice che la lunghezza della galleria era di 1200 cubiti. Misurando in metri
il tunnel si ottiene proprio 42-43 cm. per un cubito.
Ora, se raffrontiamo le misure avanzate dalla Jackson – 2 cubiti x 8 – otterremmo 84-88 cm x 336352 cm.: per nulla combacianti, quindi, con le misure della Sindone.
In conclusione, il giudaismo del tempo di Gesù non conosce alcun artefatto o pratica funebre che
possa in qualche modo provare l'autenticità della reliquia torinese. Anzi, è vero proprio il contrario.
Risulta soprattutto come i dati reali e scientifici, emersi da anni di scavi archeologici nella Palestina
romana, sono stati citati in modo parziale e molto spesso scorretto.
Antonio Lombatti
Note
62
Post/teca
1) Cohen S., "Masada: Literary Tradition, Archaeological Remains, and the Credibility of
Josephus", in Journal of Jewish Studies, 33 (1982), pp. 385-402.
2) Zias J., Gorski A., "Capturing a Beautiful Woman at Masada", in Near Eastern Archaeology, 69
(2006), pp. 45-48.
3) Flury-Lemberg M., "Die Leinwand des Turiner Grabtuches zum technischen Befund", in
Scannerini S., Savarino P. (a cura di) (2000), The Turin Shroud. Past, Present and Future, Torino:
Effatà, pp. 21-43.
4) Aviram J., Foester G., Netzer E. (a cura di) (1994), Masada IV. Final Reports, Gerusalemme:
Israel Exploration Society; nello specifico si cita lo studio di A. Sheffer, H. Granger-Taylor, Texiles
from Masada, pp. 153-256; importanti, però, anche Z.C. Koren, Analysis of the Masada Textile
Dyes, pp. 257-264; O. Shamir, Loomweights from Masada, pp. 265-288.
5) Inzwischen ist sowohl das Vorkommen der Gewebstruktur 3/1 Körper durch Gewebefunde in
Krokodilo als auch die spezielle Eigenart der Webekantenbildung für die Zeit um Christi Geburt an
der Gewebefunden von Masada. Der Grabsfund von Masada in Israel förderte eine grosse Menge an
Gewebefragmenten zutage, die... bearbeiten wurden.
6) Ad esempio, Baima Bollone P. (2006), Il mistero della Sindone, Torino: Priuli & Verlucca, p.
197, nota 3.
7) Shamir O., "Textiles from the First Century CE in Jerusalem", in Ancient Textiles: Production,
Crafts and Society (Millennialism and Society) (2007), a cura di C. Gillis and Marie-Louise Nosch,
Londra: Oxbow Books.
8) Gibson S., Tabor J., Zissu B., "Jerusalem – Ben Hinnom Valley", in Hadashot Arkheologiyot, 111
(2000), pp. 70-72, figure 138-139.
9) Hadas G., Nine Tombs of the Second Temple Period at 'En Gedi, e Sheffer A., Textiles from
Tomb 2 at 'En Gedi, in 'Atiqot, 24 (1994), in ebraico. Un riassunto in inglese, invece, è stato fatto da
O. Shamir, "Shrouds and Other Textiles from Ein Gedi", in Hirschfeld Y. (a cura di) Ein Gedi,
Hecht Museum, Haifa 2006, pp. 57-60.
10) Crowfoot G.M., "The Linen Textiles", in Discoveries in the Judean Desert. Qumran Cave I
(1955), a cura di D. Barthélemy, J.T. Milik, Oxford: Clarendon Press, pp. 18-38.
11) Hachlili R., "Changes in Burial Pratices in the Late Second Temple Period: The Evidence from
Jericho", in Graves and Burial Practices in Israel in the Ancien Period (1994), a cura di I. Singer,
Gerusalemme: Israel Academy of Humanities, pp. 173-189 (in ebraico).
12) Politis D., "The Rescue Excavations of the Cemetery at Khirbet Qazone", in Annals of the
Jordan Department of Antiquities, 42 (1996), pp. 611-614.
13) Were textiles locally made or imported? The Masada textiles so far studied are relatively varied,
especially for instance in comparison with those from the Cave of Letters. When details of
construction are carefully examined a number of significant differences emerge, in particular in spin
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Post/teca
direction. Because methods of spinning in any given locality would have been customary and
traditional, spin direction is an important indicator of the textile's place of origin.
14) I) items with S-spin;
II) items with Z-spin.
Evidence of various kinds points to the textiles of group i), with S-spin, as having been locally
made ... And it is notable that all the linen textiles are also S-spun. Items with Z-spin, the
characteristic of group ii) have only ever formed a small proportion of the textiles of the Roman
period recovered in Israel and neighbouring countries. Textiles have survived much more rarely in
the northern Mediterranean regions, in Greece and Italy itself, but on the evidence that has been
found, in these areas Z-spinning was the norm.
15) Bender A.P., "Beliefs, Rites and Customs of the Jews, Connected with Death, Burial and
Mourning", in Jewish Quarterly Review, VI (1894), 317 ss. e concluso nel volume successivo VII
(1895), p. 259 ss.
16) "The Turin Shroud", in Biblical Archaeologist, 43 (1980), p. 197.
17) Hachlili R., Killebrew A., "Was the Coin-on-Eye Custom Jewish Burial Practice in the Second
Temple Period?", in Biblical Archaeologist, 46 (1983), pp. 147-153.
18) Baima Bollone P. (1998), Sindone. La prova, Milano: Mondadori, p. 61.
19) In Gesù e la comunità di Qumran (1997), Casale Monferrato: Piemme, pp. 287-302. Gli studi
sul crocifisso di Giv'at HaMivtar sono Kuhn H.W., "Zum Gekreuzigten von Giv'at HaMivtar", in
Zeitschrift für neutestamentliche Wissenshaft, 69 (1978), pp. 118-122, e Zias J., Sekeles S., "The
Crucified Man from Giv'at ha-Mivtar: A Reappraisal", in Israel Exploration Journal, 35 (1985), pp.
22-27.
20) In realtà è un'argomentazione che ripete in quasi ogni convegno di sindonologia a cui ha
partecipato (cfr. R. Jackson, "The Holy Shroud in Hebrew", in L'identification scientifique de
l'homme du Linceul: Jésus de Nazareth (1995), a cura di A.A. Upinsky, F.X. de Guibert, Paris, pp.
24-33.
21) Ghiberti G. (2002), Sindone. Le immagini 2002, Torino: Editrice ODPF, p. 9.
22) Scott R.B., "The Hebrew Cubit", in Journal of Biblical Literature, 77 (1958), pp. 205-214.
Fonte: http://www.cicap.org/new/stampa.php?id=273770
-----------------------16/dic/2009
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Post/teca
Io non ho tirato in faccia il Duomo a nessuno
Io non ho tirato in faccia il Duomo a nessuno. Il Duomo al Presidente del Consiglio l'ha tirato in
faccia tale Tartaglia. Bene il Signor Tartaglia ha le sue responsabilità e per quelle pagherà. Affari
suoi e incidente chiuso.
Non capisco e non accetto che tutti quelli che altro non hanno fatto se non esprimere opinioni
adesso non lo debbano più fare perchè altrimenti collusi con Tartaglia.
Che discorsi sono?
I soloni dei giornali, gli editorialisti della domenica, i sacerdoti che spiegano dai loro giornali che
cosa sia bene e cosa sia male censurano per il bene comune ogni opinione che non sia allineata al
pensiero unico.
Dicono sia per il bene della democrazia.
Ma sanno questi signori cosa sia la democrazia?
Hanno assalito questi sacerdoti del potere, spalleggiati da politici di terza fila, Antonio di Pietro e
Rosy Bindi che hanno semplicemente ricordato che quanto ad insulti e violenza verbale il premier
ed i suoi servi non sono mai stati secondi a nessuno.
Cicchito ha fatto un discorso golpista in Parlamento, con tanto di lista di proscrizione e nessuno dei
sacerdoti che abbia detto un cazzo, preoccupati come Polito (tra l'altro dipendente-suddito di un
tangentista) di dare del terrorista a Travaglio o di etichettare come sovversiva Rosy Bindi.
Volete introdurre anche il reato di lesa maestà? Fatelo. La cosa avrebbe una sua logica essendoci già
un Re e un mare di sudditi pronti a tutto pur di potersi specchiare servili nella luce riflessa del loro
Dio in terra.
Pubblicato da silvano
Fonte: http://31canzoni.blogspot.com/2009/12/io-non-ho-tirato-in-faccia-il-duomo.html
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16.12.09
Internet e quella Stella che brilla lassù
di Leonardo Tondelli
Ho una teoria. Quando a un giornalista capita di scrivere il solito pezzo demonizza-internet (un
genere relativamente giovane, ma già irrigidito nella statuaria dei luoghi comuni senza età, come gli
elzeviri sulle mezze stagioni o sugli esodi d'agosto) la prima reazione di chi su internet ci scrive
davvero, e magari da anni si sbatte per difendere e diffondere contenuti di qualità, è più o meno:
Nonno Non Hai Capito Niente. Probabilmente parli per sentito dire e non sai distinguere un profilo
facebook da un blog, avrai una connessione modem a 56k con il fischiettino (vi ricordate il
fischiettino?) oppure la stagista schiavetta che ti scansiona i comunicati battuti in Olivetti Lettera22.
Tante volte devo aver reagito così anch'io, qualche anno fa, ma appunto: era qualche anno fa.
Adesso siamo nel 2009 e davvero anche il nonno ha capito come si accende il computer. Parlare di
Internet per sentito dire non solo non è più ammissibile, ma è davvero impossibile. Eppure le cose
che ha scritto Gian Antonio Stella sono un po' le solite: “zona franca dove divampa una guerra che
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Post/teca
quotidianamente si fa più aspra, volgare, violenta” (Montecitorio? No, Internet) “individui e gruppi
che, pur nella diversità di accenti e idiomi utilizzati, parlano tutti [...] il linguaggio della violenza,
della sopraffazione, dell’annientamento” (Curva di stadio? Set del Grande Fratello? Nooo, Internet).
A gente come me, come probabilmente anche voi, che frequenta internet ogni giorno e ci trova
lampi d'intelligenza, di fantasia e di creatività che nessun altro media gli offre, può sembrare strano
e triste che Gian Antonio Stella si trovi in casa la stessa finestra sul mondo e non ci trovi nient'altro
che volgarità, violenza, odio, anzi, “libertà di odio”. Eppure è così: come si spiega?
Io una teoria ce l'ho, dicevo: dipende tutto da dove è piazzata la finestra. Gian Antonio Stella guarda
internet come tutti noi, ma da una posizione infelice: quella di giornalista. Rifletteteci bene. Voi
praticoni di internet avete i vostri riferimenti, i vostri feed, le persone simpatiche ed esperte di
questo o quel settore che avete selezionato in anni di frequentazioni, ed è questo a rendere la vostra
finestra così colorata e interessante. Stella ha avuto meno tempo di voi, e i frequentatori di internet
forse li conosce soprattutto sotto forma di commentatori medi del sito del Corriere. Ma i
commentatori medi al Corriere (o alla Repubblica), beh... è il caso di dire no comment. Davvero,
cosa pensereste di Internet e di chi lo frequenta, se le uniche prove della loro esistenza fossero le
tracce di bava che lasciano sui siti dei grandi quotidiani, e su qualche gruppo di facebook?
Internet è piena di melma, inutile negarlo (nessuno infatti ci ha provato). Però in mezzo alla melma
ci sono cose straordinarie che valgono tutta la bolletta, e persone che sostengono, come me, che è
inutile criticare la melma: l'unico sistema per migliorare la qualità è creare piccole oasi di cose
intelligenti e interessanti, in zone non troppo remote da quelle dove passa il grande traffico. I blog
che leggo quotidianamente sono una realizzazione imperfetta di questa idea di oasi: mi riassumo i
fatti importanti del giorno in modo esauriente e divertente, mi raccontano notizie singolari e
importanti che da solo non avrei trovato mai, a volte mi fanno arrabbiare, ma sempre per un'idea
diversa dalla mia, non per uno schizzo d'odio. Però ci ho messo anni a selezionarli, e ho dovuto
vincere il fascino per la melma, per i deliri dei dementi, che soprattutto all'inizio mi soggiogavano e
mi facevano perdere tempo prezioso (tuttora, a portata di clic, c'è la perdizione). Insomma, ci ho
messo anni per rendere davvero efficiente e interessante quella che una volta si chiamava
“navigazione” su Internet. E questo smentisce il luogo comune che Internet sia facile come
schiacciare un bottone: no, se schiacci un bottone per prima cosa escono quintali di melma che ti
schizza dappertutto. Il setaccio di contenuti interessanti è una pratica difficile che si acquisisce con
gli anni, è più complesso che imparare a guidare. Basta vedere cosa combinano gli adolescenti in
rete: in teoria dovrebbero capire tutto alla svelta, in pratica finiscono subito impantanati in luoghi
assurdi, e ci impiegano anni a trovarsi una posizione rispettabile, a costruirsi un profilo decente.
Con gli anni s'impara a tenersi lontani da certi luoghi come i commenti su youtube, i gruppi su
Facebook... o i commenti di Repubblica.it, o del Corriere. Ma non è paradossale che la melma su
Internet tenda ad addensarsi proprio intorno a siti informativi professionali? Immaginatevi il
Corriere on line come un grattacielo in mezzo a una discarica: ecco, Gian Antonio Stella vede gli
internauti da una finestra di quel grattacielo, e cosa volete che veda? Mostri subumani che
inneggiano al ferimento di premier mediante souvenir, negatori di olocausti, odiatori di “negri”,
insomma, brutta gente. Come spiegargli che quelli non sono tutti gli internauti... ma solo quelli che
più spesso circolano intorno al Corriere? E perché proprio intorno al tuo giornale, è colpa della linea
editoriale? No, assolutamente. È solo una questione di dimensioni: il grattacielo è un punto di
riferimento nazionale, attira la massa, e in mezzo alla massa la suburra, i cospiratori, i mitomani.
Per contro in un piccolo sito come il mio, mantenere un discreto livello di discussione è
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Post/teca
relativamente semplice. Molto di rado negli ultimi anni mi è capitato di dover mettere i mattoidi alla
porta. Merito mio? No, assolutamente, anche in questo caso è una questione di dimensioni. I
mattoidi accorrono naturalmente verso i centri di traffico, sono attirati dalle celebrità. Non sono
massa, ma si disseminano sempre nella massa. Nei piccoli blog che negli anni abbiamo selezionato
con cura, i mattoidi non vengono: al limite passano di sbaglio se gli capita di scambiarci per
qualcuno più importante di noi. Ma appena hanno capito che noi siamo pesci piccoli, ci lasciano
nella nostra nicchia e se ne tornano in piazza a vandalizzare gli editoriali delle Grandi Firme coi
loro commenti.
Così senza volere siamo riusciti a parlare del povero Tartaglia, che nemmeno aveva un profilo
Facebook. Peccato, ci si sarebbe trovato bene. E forse iscrivendosi a qualche gruppo idiota gli
sarebbe passata la voglia di realizzare le sue idiozie nel mondo vero. Perché Internet è anche questo:
una valvola di sfogo per colletti bianchi che giocano a fare gli odiatori di negri, i negatori di
olocausti, gli inneggiatori a Tartaglia. Sì, non è molto coraggioso da parte loro. Ma ognuno
dovrebbe essere libero di gestirsi la sua melma come vuole, finché non schizza gli altri.
fonte: http://articoliscelti.blogspot.com/
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496. Scrittura e stampa.
By anfiosso
Marzio Pieri fa precedere il suo volumone sul Marino e la poesia dell’età barocca per i “Cento libri
per mille anni”, sontuosa e perlopiù scorrettissima (salvo in questo e pochi altri casi) edizione da
credenziera del Poligrafico & Zecca dello Stato, 1995, un elenco cronologico di testi, inaugurato dal
Petrarca, di cui si rubricano i RVF al 1465-’70, precisando tra parentesi: “prima opera a stampa” –
in Italia, naturalmente.
Ne consegue che di tutti i testi che seguono, che, come suol dirsi in storiadellaletteraturese,
selezionano una dorsale alternativa rispetto a quello che dopo Bloom si denomina talora come
‘canone’ – di qui l’utilità, indubbia, dell’elenco – siano riportati con accanto l’anno di stampa, e non
quello di composizione.
In quest’ottica il Petrarca è già un autore tutto quanto postumo, e anche Enea Silvio Piccolomini,
per esempio, che muore nel 1457, e molti altri; ma anche il Machiavelli (che non rientra peraltro in
questo canoncino alternativo), di cui in vita non fu stampato quasi nulla benché vivesse tutto dentro
l’êra della stampa. Di là dai casi limite, un diacronico succedersi di date di composizione designa in
effetti un percorso del tutto astratto, per non dire falso, inducendo magari ad una serie di illazioni su
influenze reciproche, per non dire di primati, superamenti & progressi, che non possono esserci
stati, se non nel caso, talora ovviamente sostenibile, talora invece no, della conoscenza di
manoscritti, circolanti in cerchie ovviamente ristrette.
Spulciando la Bibliografia Leopardiana, vol. III relativo alle opp. 1931-1951, Olschki, Firenze
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Post/teca
1953, di Giulio Natali e Carmelo Musumarra, ho una dimostrazione abbastanza ilare, volendo, del
significato che l’opera di qualunque autore, ma tantopiù se prestigioso, assume a seconda che sia
pubblicato in immediato o poco o molto tempo dopo la morte.
Si può tranquillamente supporre che l’edizione di scritti che giacciono da decennî o da secoli in
fondi, archivj e presso privati, e che sono magari noti ad un gruppo anche consistente di studiosi,
diventi pensabile a seconda della congiuntura. Un biglietto vergato di furia nel 1839, rivelatosi del
tutto insignificante nel 1910, diventa una specie di profezia nel 1950, per ridursi a commovente
testimonianza nel 2002. È chiaro che se nel 1950 non riscuote interesse tempestivo da parte
dell’editore di qualche bollettino, esso biglietto rischia di rimanere inedito per altri secoli, con i
soliti rischj di dispersione, distruzione, trafugamento.
Ma sono discorsi un po’ astratti, che presuppongono che basti l’edizione perché i libri siano letti da
tutti i componenti, quantomeno, di una classe omogenea di persone letterate e tutte parimente ed
assolutamente avvertite di quello che corre in su le stampe – circostanza che, ovviamente, non può
verificarsi, in specie oggi che non si legge quasi niente al difuori del proprio àmbito ristretto, posto
che si faccia, ancóra, almeno quello.
Per rimanere sul Leopardi, la cui citata bibliografia ho sott’occhio, la gran parte delle sue opere fu
stampata, ad eccezione dei Canti e delle Operette morali, per tutto il corso dell’Ottocento,
consistendo esclusivamente di frammenti e opere di breve e brevissimo respiro.
Quando il Settembrini parla del Leopardi, nel quadro delle sue Lezioni (1873-’75), e riporta i titoli
di qualche operetta giovanile, ciò implica da parte sua una grande attenzione nei confronti del
Leopardi, che l’aveva impressionato giovinetto alla scuola del Puoti; infatti quelle operette, che
testimoniano del Leopardi ’scientifico’, esaltato dal Giordani come filologo, erano piuttosto sparse e
disperse, e spesso rinvenibili solo in forma frammentaria su bollettini e riviste.
Il De Sanctis invece al Leopardi dedica, un intero volume, nientemeno, in cui cerca, quando non si
sbava tristemente addosso, di rifarne la filosofia, senza ovviamente riuscirci perché ha ben poco a
disposizione, e i suoi schemi percettivi, alla faccia delle lezioni zurighesi e degli appunti hegeliani,
sono filosofici come quelli della portinaja – per lui il Leopardi è un bambino che piange, o un
adolescente che non tromba mai, e il suo volume “critico” è forse la cosa più disgraziata che abbia
mai scritto (che è tutto dire).
Quello che fa impressione è che entrambi fecero a meno del vastissimo Zibaldone, che è stampato
per la prima volta tra il 1898 e il 1900 in 7 volumi, quando i due professori sono morti ormai da
anni. La comparsa di questa cornucopia di sapere ha chiaramente rivoluzionato la percezione di
tutta la complicata figura del gran gobbo, tantoché non si può tornare al De Sanctis senza pena;
mentre il Settembrini, forse perché di scienza ne sapeva davvero, “si salva”, ancóra una volta;
questo perché era un uomo molto intelligente, che sapeva che la scienza è un bene ma anche no, e a
proposito del Leopardi s’era limitato a definirlo molto competente filologo, specie per essere
italiano (i grandi filologi dell’Ottocento sono tedeschi), ma non dover egli la sua fama postuma alle
opere scientifiche, poiché la scienza va sempre avanti, ma a quelle poetiche. E dire che il De
Sanctis, “mediocre filologo” per il Petruccelli dei Moribondi di palazzo Carignano (1862), il
Leopardi scientifico non l’aveva nemmeno sfiorato.
Ma, appunto, non è detto che le opere che diventano leggibili siano automaticamente lette. Specie se
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sono molto voluminose. Le opere voluminose, poi, hanno il dubbio vantaggio, quanto più sono
appunto voluminose, di contenere tutto e il contrario di tutto, e la discutibile tendenza a farsi fare a
pezzi e a farsi diffondere sotto forma di scelte & antologie.
Così è avvenuto anche con lo Zibaldone, che, noto sotto forma di piccolissime scelte prima di
pervenire – per così dire – al grande pubblico (i titoli erano quelli ‘classici’ di Diario d’amore,
Storia d’un’anima e altre fesse intitolazioni, comprese finte autobiografie, autentiche croste, sotto la
dicitura de La mia vita o simili), dopo l’edizione maggiore del 1898-1900 riprese di bel nuovo a
diffondersi per scelte e crestomazie, sennonché la completezza del materiale ora a disposizione
rendeva possibili operazioni ancóra più spregiudicate.
Come i preti pubblicarono volentieri, e a ripetizione, sui loro tetri stracciafoglj certe minchiate
puerili sul trionfo della croce, alla faccia della ferma epicureità del Leopardi maturo, così ci furono
anche altri usi del tutto spregiudicati dei frammenti leopardiani.
Quando fu necessario trovare nelle scritture antiche le pezze d’appoggio alle leggi razziali pur mo
applicate, R. Mazzetti, nel suo L’antiebraismo nella cultura italiana dal ‘700 al ‘900, Modena
1939, estrasse dallo Zibaldone una serie di annotazioni a cui diede la sinistra intitolazione Il volto e
l’anima dell’Ebraismo (ma l’anima c’entra sempre, povero Giacomino).
Nel 1941 Papini, espressione a suo modo abbastanza tipica del baveux che, con la torva demenza,
costituì la cifra di quegli anni orripilanti, s’era già fatto cattolico, e con un don G. De Luca stampò a
Torino Prose di cattolici italiani d’ogni secolo. Ma il ‘41 era anche un anno tardo per la dittatura, e
qualche scricchiolio sembra avvertirsi nel laconico rimando, sotto la descrizione bibliografica, alla
“recensione di Alberto Viviani nel “Libro italiano”, Roma, novembre 1941 (nega che le prose del L.
possano essere considerate “prose di un cattolico”)”; che potrebbe essere un modo per parlare a
suocera perché nuora intenda.
Del 1945, a liberazione avvenuta, sono i commoventi “Pensieri anarchici, scelti dallo Zibaldone, a
cura di F. Biondolillo, Roma, Tariffi, 1945, in 16°”. Sotto, quasi ce ne fosse bisogno, Natali e
Musumarra precisano: “Il titolo è, naturalmente, del Biondolillo”.
[Fenomeno, si suppone, studiato e strastudiato. A questo proposito, del 1974 sono, di Gilberto
Lonardi, una voce d'enciclopedia (per il Dizionario critico della letteratura italiana diretto da
Branca, Torino) e un Saggio sugli usi (!) di Leopardi dall'Otto al Novecento, ambi col titolo
Leopardismo. Quanto alla voce, “Si diranno dapprima le linee della presenza ideologica, in largo
senso, leopardiana, poi di un “mito” di Leopardi, poi i rapidi campioni di una ideale sincronia di
incontri in un unico luogo leopardiano di tempi, cioè di poeti diversi che è come indicare la
dimensione della durata accanto a e in intreccio... con quella diacronica, cui infine si accosterà un
sommario rendiconto della incidenza leopardiana sul vario corso delle “forme” poetiche”. Quanto al
saggio: “Una epigrafe per Leopardi; passi da A. Poerio, N. Tommaseo, G. Maccari, A. Aleardi, G.
Carducci, F. De Sanctis, I.U. Tarchetti, A. Graf, G. Pascoli, G. Gozzano, C. Invernizio, C.
Michelstaedter, L. Pirandello, V. Cardarelli, R. Bacchelli, U. Saba, G. Ungaretti, E. Montale, D.
Naldini” (Ermanno Carini, Bibliografia analitica leopardiana (1971-1980), Olschki, Firenze
MCMLXXXVI, p. 53)].
Questo post è stato pubblicato il 16 Dicembre 2009
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Post/teca
Fonte: http://anfiosso.wordpress.com/2009/12/16/496-scrittura-e-stampa/
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18 dicembre 2009
l Web 3.0 secondo Tim Berners-Lee
Nel 2005 (che, alla velocità di trasformazione della Rete, corrisponde pressapoco al Cenozoico
nell'evoluzione umana) il demiurgo del World Wide Web, Tim Berners-Lee, decise di sporgere lo
sguardo oltre l'orizzonte di quello che si stava delineando – oltre, cioè, il Web 2.0. Nozione assai
vaga eppure sperimentabile oggi quotidianamente, il Web 2.0 sconta un deficit di definizioni
condivise perché in continuo allargamento: negli applicativi, nelle possibilità di interazione,
nell'imporsi di modelli sempre più partecipativi e al contempo sempre più elitari. A Tim BernersLee non importa. Visionario di professione e realizzatore delle proprie visioni sempre di
professione, non si fermò nel 1993 davanti al rifiuto del Nobel italiano Carlo Rubbia, che negò la
disponibilità del CERN a irradiare il progetto di Rete pubblica. Figurarsi se un informatico del
genere, che sta a un normale sviluppatore come Silver Surfer sta a Luca Giurato, si ferma davanti
alle difficoltà di previsione e di definizione del Web 3.0. E' difficile stabilire con categorie definitive
cosa sia lo stadio 2.0 del Web? Nel tentativo di darne un'idea, si ricorre a esoterismi
incomprensibili? Tim Berners-Lee spinge l'acceleratore e, del Web 3.0, dice qualcosa di
apparentemente ancor più incomprensibile:
"Le persone si chiedono che cosa sia il Web 3.0. Penso che, forse, quando si sarà ottenuta una
sovrapposizione della Grafica Vettoriale Scalabile (oggi tutto appare poco nitido, con pieghe e
increspature) nel Web 2.0 e l'accesso ad un Web semantico integrato attraverso un grosso
quantitativo di dati, si potrà ottenere l'accesso ad un'incredibile risorsa di dati".
Sembrerebbe trattarsi di una tautologia: quando saranno masticati da determinati protocolli futuri
tantissimi dati, allora disporremo di tantissimi dati. Tante grazie, Tim.
Il fondatore del World Wide Web, in pratica, non ha la minima intenzione di considerare quali
fattori discriminanti i processi partecipativi che hanno originato community, social network,
produzione di user generated content. Le politiche SEO e il mercato pubblicitario non solleticano
minimamente la visione che viene data dello stadio prossimo venturo della Rete. Tutto ciò che
sembra distinguere il Web 2.0 dalla Rete pre-bolla non pare non interessare minimamente Tim
Berners-Lee. Che si concentra, invece su due punti per lui determinanti: la massa di contenuti e le
tecnologie per rendere accessibile questa imponente congerie di contenuti.
Quanto alle modalità di fruizione, il salto evolutivo è tecnologico. Il guru Berners-Lee punta su due
modalità fondamentali.
La prima è la Grafica Vettoriale Scalabile. Detta così, sembra un ente comprensibile soltanto dai
fisici quantistici. La Scalable Vector Graphics è, in soldoni, la tridimensionalità nella
bidimensionalità. Si tratta di una grafica che crea immagini lavorando su linee e curve. L'immagine
è la traduzione visiva di formule matematiche, che contengono tutte le istruzioni necessarie per
tracciarla, lasciando all'algoritmo il compito di creare l'immagine medesima a partire da quelle
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Post/teca
coordinate (per fare esempi comprensibili: per un segmento lineare vengono fornite soltanto le
coordinate del punto iniziale e di quello finale, mentre per un cerchio solo le coordinate del centro e
la lunghezza del raggio. E, per quanto concerne i colori, essi vengono realizzati attraverso istruzioni
delle linee e delle aree chiuse). La grafica vettoriale è dunque orientata agli oggetti. In un'immagine
vettoriale tutti gli oggetti sono elementi indipendenti dagli altri che compongono l'immagine stessa.
Non siamo ancora al 3D della realtà virtuale, ma ci avviciniamo molto. Un'immagine vettoriale
infatti ha la possibilità di essere liberamente spostata e modificata, si può ingrandire o
ridimensionare mantenendo inalterate la chiarezza, la definizione e quindi la qualità. La grafica
vettoriale è definita scalabile proprio per questa sua peculiarità, in quanto non dipende dalla
risoluzione. Proviamo a immaginare sul nostro video l'immagine in GVS di un'automobile: portiere,
finestrini, interni e ogni elemento dell'immagine stessa sono oggetti indipendenti tra loro, con
proprie caratteristiche, ognuno ridimensionabile, ricolorabile o eliminabile senza condizionare gli
altri oggetti che compongono l'immagine. Le immagini vettoriali abbattono inoltre la richiesta di
memoria per essere visualizzate. Questa tecnologia, per Tim Berners-Lee, è sufficiente a fornire il
salto di qualità che portò, da immensi tazebao atzechi in ASCII su sfondo nero, al browser con
immagini: là si era allo stadio 0.0, qui si è al 3.0. Nessun guanto o paio di occhiali per realtà
virtuale: basta che la GVS diventi uno standard comune e assisteremo a un salto evolutivo del Web.
A questa rivoluzione grafica va tuttavia associata una rivoluzione concettuale, che riguarda la
comprensione e l'elaborazione dei significati via Web. Se con la grafica del 3.0 rasentiamo la realtà
virtuale, con il cosiddetto Web semantico sfioriamo l'intelligenza artificiale. Tim Berners-Lee
richiede, perché sia possibile parlare di 3.0, software semantici integrati. Anche per questa
tecnologia, a pronunciarla così sembra possibile farsi comprendere soltanto da un docente del MIT.
Manco a dirlo, la definizione di Web semantico l'ha fornita lo stesso Tim Berners-Lee:
"Il Web Semantico è un'estensione del Web di oggi, in cui le informazioni hanno un ben preciso
significato e in cui computer e utenti lavorano in cooperazione".
La citazione è tratta da un leggendario articolo, "Semantic Web", apparso su una prestigiosa sede
editoriale, cioè Scientific American, in un tempo insospettabile, ovverosia il maggio 2001, in piena
presenza della bolla speculativa che fece gridare molti alla fine della Rete.
In pratica, per estendere e svolgere il senso di ciò che TB-L aveva e ha tuttora in mente, va
considerato che allo stato attuale già stiamo vivendo una transizione verso il Web semantico, grazie
a tag, metatag, feed, rss, etc. I motori di ricerca, volenti o nolenti, stanno fruendo di una
contestualizzazione che viene data ai contenuti, la quale costituisce un'importante elemento di
valutazione per indicizzare le pagine.
Il panorama odierno del Web è quello di un indefinito e oceanico insieme di testi connessi in
qualche modo tra loro, soprattutto attraverso link e vaghe contestualizzazioni fornite tramite
"istruzione" con tag. Al momento (e questo è il fatto discriminante) soltanto utenti intelligenti, e
quindi umani, possono comprendere i contenuti delle pagine che stanno visitando, capendo il testo e
ciò a cui esso allude. Si tratta, di fatto, della possibilità di saltare da un contenuto all'altro attraverso
link che costituiscono un elemento sintattico. I link sono connessi al funzionamento di un qualche
codice di programmazione e risultano fortemente "solidificati", poiché individuano una risorsa
attraverso un URL univoco, anche se si pone un problema di update degli stessi link. Questa
"solidità" si è andata via via liquefacendo grazie alle contestualizzazioni che vengono richieste dal
Web 2.0.
Non è ancora sufficiente per Tim Barners-Lee. Attualmente gli utenti navigano in Rete grazie alla
loro esperienza e alla capacità di evocazione esercitata da parole o espressioni chiave, che sono
comunque legate al codice di programmazione. Il Web semantico fa compiere un salto
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Post/teca
nell'iperspazio: è l'Enterprise della comprensione di significati. Ciò che il Web semantico costituisce
è di fatto un'applicazione in grado di interpretare da se stessa il senso del contenuto delle pagine.
Emerge, in pratica, l'orizzonte di un Web in cui si pongano come interpreti agenti intelligenti, cioè
applicazioni capaci di comprendere da sé il significato dei testi presenti in Rete. L'esistenza di tali
agenti intelligenti e autonomi permetterebbe di condurre gli utenti verso l'informazione ricercata,
oppure di sostituirsi agli utenti stessi per compiere alcune operazioni. Un agente semantico è
definibile attraverso tre abilità fondamentali: è capace di capire il significato dei testi presenti su
Web; sa delineare percorsi e condurre gli utenti in ragione delle informazioni richieste, riuscendo
anche a sostuirsi agli utenti in certi compiti; è in grado di connettere sito a sito, spostandosi
autonomamente e comprendendo il senso di tutti gli elementi dell'informazione richiesta dagli
utenti.
Una tecnologia autonoma e intelligente, come questa che Tim Barners-Lee ha delineato e sta
sperimentando a tutt'oggi, trasforma radicalmente lo scenario di Rete. Il Web stesso diviene un
diffuso motore di ricerca. I motori di ricerca perdono centralità.
Grafica Vettoriale Scalare e Web semantico sembrerebbero elementi minimi per definire lo stadio
del prossimo Web. Che lo siano o meno dal punto di vista dell'elaborazione e della diffusione, non
lo sono affatto quanto a implicazioni. La loro diffusione trasformerebbe non soltanto l'ambiente di
navigazione, ma addirittura le grammatiche con cui navighiamo oggi. Impongono una rivoluzione e
un ripensamento del mercato di Rete, delle gerarchie attuali che si sono consolidate sul Web, del
concetto stesso di utente e perfino di quello di azienda che entra a contatto con Internet.
Si tratta, però, di tecnologie. Tim Barners-Lee effettua una richiesta ancor più radicale per il Web
del futuro: servono contenuti. I contenuti sono informazioni di qualunque tipo, purché dotate di un
senso. La loro specifica natura è determinante nel momento in cui, in primo piano, si pone proprio
l'elemento del senso, sia quanto a intellegibilità del contenuto sia quanto a sua presenza grafica che
deve avere un significato e non può essere immotivata.
Il Web 2.0 è uno stato larvale, neotenico, di transizione verso un orizzonte evoluto che il fondatore
stesso del Web non soltanto vede prossimo, ma lavora alacremente per realizzarlo.
.
Giuseppe Genna
Fonte: http://www.siris.com/articolo_4.php
-------------------------Violet Albina Gibson (1876 – 2 maggio 1956) figlia di Edward Gibson, primo Barone di
Ashbourne e Lord Cancelliere d'Irlanda, è stata la donna che il 7 aprile 1926 attentò alla vita di
Benito Mussolini a Roma.
Mussolini era appena uscito dal palazzo del Campidoglio, dove aveva inaugurato un congresso di
chirurgia, quando la Gibson gli sparò un colpo di pistola, ferendolo di striscio al naso.
Gibson, faticosamente sottratta al linciaggio, fu condotta in questura; interrogata, non rivelò la
ragione dell'attentato. Si è supposto che l'attentatrice, allora cinquantenne, fosse pazza all'epoca
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Post/teca
dei fatti e che potesse essere stata indotta al gesto da qualche istigatore sconosciuto. In tal senso
furono sollevati pesanti sospetti all'indirizzo di Giovanni Antonio Colonna di Cesarò.
L'attentatrice, comunque, fu espulsa dall'Italia e trasferita in Inghilterra. Rimase per trent'anni
in un manicomio vicino a Nottingham, dove morì.
Il giorno dopo l'attentato[1], Mussolini compì un viaggio in Libia e si mostrò a Tripoli con un
vistoso cerotto sul naso, come testimoniano le foto dell'epoca. Di lì a poco anche quell'episodio
servì per giustificare una stretta legislativa e l'avvio vero e proprio verso il fascismo.
Note
1. ^ Il secondo dei tre che subì nel corso della sua vita politica
Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Violet_Gibson
----------------------------18/12/2009 L'Imbarazzato
di Massimo Gramellini
Salve, faccio parte della tribù quasi estinta degli Imbarazzati. Il tipico asociale che sul treno, appena
il telefono comincia a vibrare, si alza di scatto ed esce in corridoio a biascicar parole a mezz’asta.
Poi rientro nello scompartimento per ascoltare le conversazioni degli altri. Conversazioni squillanti
e istruttive, concluse dalla nuova formula di congedo vagamente cinese: «cia-ciao». Apprendo dalla
viva voce della signora accanto al finestrino che sua figlia è stata respinta a un esame per aver
copiato il compito sbagliato: succede. Apprendo dalla vicina di posto che sua sorella ha problemi di
dissenteria, e la cosa mi addolora, anche perché starei mangiando un panino. Apprendo che la
moglie del mio dirimpettaio si è scordata di fare la spesa e la grave mancanza innesca un litigio
coniugale sui massimi sistemi, tale da comportare una interruzione momentanea delle
comunicazioni. Lei richiama, lui lascia trillare a lungo (ha la suoneria dei «tre piccoli porcellin», lo
giuro) e infine risponde. Pace fatta, per la soddisfazione di tutti i passeggeri. Il mio telefono torna
proditoriamente a vibrare e scappo in corridoio. «Perché va fuori a parlare?», commentano alle mie
spalle. «Non vorrà che ascoltiamo quel che dice».
Sì, lo ammetto, anche quello. Però non solo quello. C’è il timore di infastidire il prossimo e - si
potrà dire? - un po’ di vergogna: cascami di maleducazione familiare che purtroppo trent’anni di tvverità non sono ancora riusciti a debellare. Questo vorrei rispondere al signore dei tre piccoli
porcellin. Ma quando rientro nello scompartimento sta urlando al telefono.
Fonte: http://www.lastampa.it/cmstp/rubriche/girata.asp?
ID_blog=41&ID_articolo=734&ID_sezione=56&sezione=
-------------------
73
Post/teca
Hollywood saluta Jennifer Jones : da "Bernadette" a
"Duello al sole"
L'attrice, 90 anni, è morta in California, nella sua casa a Malibu.
Diretta dai più grandi registi degli anni Quaranta e Cinquanta aveva
interpretato classici come "L'amore è una cosa meravigliosa" ma
ottenne l'unico Oscar per il ruolo della pastorella di Lourdes di RITA
CELI
Jennifer Jones in "L'amore è una cosa meravigliosa"
JENNIFER Jones, una delle stelle di Hollywood degli anni Quaranta e Cinquanta, è morta oggi
all'età di 90 anni nella sua casa di Malibu, accanto a suo figlio. Era lontana dal set da oltre 30 anni,
da quando apparve accanto a Steve McQueen in Inferno di cristallo. Il giorno del suo 25esimo
compleanno vinse l'Oscar per l'interpretazione della pastorella di Lourdes che vide apparire la
Madonna in Bernadette di Henry King, il suo primo film in cui apparve come Jennifer Jones. Da
allora ottenne altre quattro candidature, tra cui quella per Duello al sole (1946) e L'amore è una
cosa meravigliosa (1955).
Nata il 2 marzo 1919 a Tulsa (Oklahoma) come Phylis Lee Isley, figlia di proprietari di una catena
di cinema, la futura star di Hollywood aveva cominciato a recitare in una scuola di suore
Benedettine per poi trasferirsi a New York dove aveva frequentato l'Accademia di Arte Drammatica.
Qui aveva incontrato e sposato l'attore Robert Walker, che aveva avuto un momento di gloria negli
anni 40, da cui ebbe due figli. Trasferita a Hollywood e scoperta dal produttore David O. Selznick,
che sarebbe diventato prima suo amante e poi il suo secondo marito, la giovane attrice aveva
centrato il successo immediatamente col ruolo della pastorella Bernadette, conquistando la sua
prima e unica preziosa statuetta.
Tra i film girati nell'arco della sua carriera figurano classici come Duello al sole (1946) di King
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Post/teca
Vidor (che la diresse qualche anno dopo in Ruby fiore selvaggio), Il tesoro dell'Africa (1954) di
John Huston (con cui aveva già lavorato nel '49 in Stanotte sorgerà il sole), a fianco di Humphrey
Bogart, e L'amore è una cosa meravigliosa (1955) di Henry King, nel ruolo di una vedova euroasiatica coinvolta in una intensa storia d'amore con William Holden, nei panni di un giornalista
americano sposato con un'altra donna.
Ha lavorato con i più importanti registi dell'epoca, da Ernst Lubitsch che l'ha diretta in Fra le tue
braccia (1946) a William Wyler (Gli occhi che non sorrisero, 1952), Vincente Minnelli (Madame
Bovary, 1949), William Dieterle (Il ritratto di Jennie, 1948), Michael Powell ed Emeric Pressburger
(La volpe,1950), Nunnally Johnson (L'uomo dal vestito grigio, 1956), Charles Vidor (Addio alle
armi, 1957).
Nel 1954 l'attrice era stata anche in Italia dove era stata diretta da Vittorio De Sica insieme a
Montgomery Clift in Stazione Termini' (Indiscretion of an American wife). La sua ultima
apparizione risale al 1974 in Inferno di cristallo (The Towering Inferno), classico del filone dei film
disastro, che le valse una nomination ai Golden Globe.
Rimasta vedova di Selznick - dal quale ebbe una figlia, Mary Jennifer, morta suicida nel 1976, a 22
anni - si sposò per la terza volta nel maggio del 1971 con l'industriale e collezionista d'arte Norton
Simon, dal quale non ebbe figli. A quell'epoca scoprì di avere un cancro al seno ma riuscì a guarire.
Rimasta vedova nel '93, aveva seguito lo sviluppo del museo che ospitava la sua collezione di opere
d'arte.
© Riproduzione riservata (17 dicembre 2009)
Fonte: http://www.repubblica.it/2009/12/sezioni/spettacoli_e_cultura/jennifer-jones/jenniferjones/jennifer-jones.html
---------------[...] La Misura dell'anima. Perché le disuguaglianze rendono le società più infelici, lo hanno scritto
Kate Pickett e Richard H. Wilkinson e in Italia lo pubblica Feltrinelli. Lo trovate qui e anche nella
libreria sotto casa. Ve ne parlerò nei prossimi giorni perché è il caso di approfondire le proposte
contenute nelle ultime pagine del volume. Intanto vi consiglio questa recensione, questo sito e
questa presentazione.
Fonte: http://civati.splinder.com/post/21861752
---------------“Nella vita le cose passano sempre, come in un fiume. Anche le più difficili che ti sembra
75
Post/teca
impossibile superare le superi, e in un attimo te le trovi dietro alle spalle e devi andare avanti. Ti
aspettano cose nuove.”
—
N.Ammaniti “Ti prendo e ti porto via” (via malibusugar)
--------------------“ Secondo me ti amavo, ma la Questura dice che ti stimo molto ”
DJD (via catechista)
---------------------18/12/2009 (16:38)
Addio "Vecchio cronista"
E' morto Igor Man
E' morto il giornalista de La Stampa Igor Man, pseudonimo di Igor Manlio Manzella. Era nato a
Catania il 9 ottobre 1922. Figlio di Titomanlio Manzella, esperto di politica estera, Man è stata una
delle firme più prestigiose del nostro quotidiano dove cominciò a lavorare nel 1963 sotto la
direzione di Giulio de Benedetti.
Studioso delle religioni e delle società, Man aveva una spiccata sensibilità e competenza per i temi
riguardanti il mondo arabo ed islamico. Nel 2009 aveva ricevuto il Premio America della
Fondazione Italia USA. Nella sua straordinaria carriera ha intervistato grandi personaggi, tra i quali
spiccano i nomi di John Fitzgerald Kennedy, Nikita Khruščёv, Ernesto "Che" Guevara, Gheddafi,
Khomeini, Yasser Arafat e Shimon Peres.
Fonte: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200912articoli/50515girata.asp
-----------------------------------
19 dicembre 2009
Il cuore di un maestro
MARCELLO SORGI MARCELLO SORGI
Yes, I know, listen my friend...»: dal suo gabbiotto in redazione, la voce arrivava tonante.
Igor parlava insieme arabo e inglese. Aveva l’accento yankee di tanti della sua
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Post/teca
generazione che avevano conosciuto gli americani durante la guerra. Nei giorni della crisi
di Sigonella e dei due missili lanciati da Gheddafi su Lampedusa, era uno spettacolo
vederlo lavorare, appeso al filo incerto di una telefonata libica.
Igor Man era un tipo unico, a cominciare dal nome d’arte che s’era dato ed era riuscito
non si sa come a far stampare sui suoi documenti. Aveva un metabolismo mediterraneo,
gli era rimasto attaccato il fuso orario dei vecchi giornalisti che andavano a dormire
tardissimo, con la prima copia fresca di stampa ritirata alla rotativa. Personaggio da film,
era uno degli ultimi di un’epoca romantica e appassionata. In Vietnam mentre la moglie
adorata, Mariarosa, metteva al mondo suo figlio: il telegramma per avvertirlo lo
raggiunse quando il piccolo Federico era già tornato a casa. E poi in Cile, a Cuba, a
Panama e in Costarica: per molti anni non c’era guerra o guerriglia, crisi grande o piccola
nel mondo che non lo vedesse schierato in prima linea. Allora le missioni duravano mesi,
la tv quasi non c’era, gli articoli si mandavano col telegrafo e cominciavano con il
fatidico distico «dal nostro inviato speciale». In quell’aggettivo c’era un che di avventura,
di sogno, di coraggio, che faceva desiderare anche all'ultimo dei cronisti di essere, chissà,
un giorno, come il leggendario Igor Man.
A un certo punto della sua lunga carriera, Man aveva preso una sorta di seconda
cittadinanza in Medio Oriente e nel mondo arabo nostro dirimpettaio e non ancora
soffocato dal fondamentalismo. Andava e veniva, tornava e ripartiva, allungava
orgoglioso il lungo medagliere di foto dei suoi intervistati. Accanto a Che Guevara, ad
Allende, a un gruppo di misteriosi guerriglieri boliviani armati fino ai denti, a un
Kennedy avvicinato svagatamente a un ricevimento a Washington, da un elegantissimo
Igor in dinner jacket e papillon, comparvero così l’israeliana Golda Meir, l’egiziano
Mubarak, il vecchio re Hassan II del Marocco, il ras della Tunisia Bourguiba, e poi, in
varie pose, un Arafat di cui Man era spesso ospite esclusivo e autorizzato, raro privilegio,
a descriverne la vita riservatissima nella casa araba dove il the bolliva lento tutto il
giorno, tra nuvole d’incenso e fiori di gelsomino sparsi un po'dappertutto.
Con molti anni di anticipo, Man aveva capito che dalla sponda orientale a noi più vicina
la polveriera islamica stava incubando dentro e attorno a un Occidente del tutto
impreparato a contenerla. Per questo Igor, che aveva visto nascere il khomeinismo in
Iran, era desolato quando gli americani avevano dovuto abbandonare la Somalia infestata
dai fondamentalisti. Ed era disperato di fronte alla prima guerra del Golfo, quella del '91
in cui l'Italia si commosse per le gesta eroiche del maggiore Bellini e del capitano
Cocciolone, ma non immaginava neppure cosa sarebbe accaduto dieci anni dopo. Toccò a
Man raccontare nella sua rubrica «Diario arabo» la cultura, i valori e anche gli eccessi del
mondo islamico: lo faceva umilmente, in trenta righe, tutti i giorni. E ogni articolo si
concludeva con una «sura», una massima del Corano.
In quel periodo Igor veniva sempre a lavorare alla redazione romana. Arrivava verso
l’una, freschissimo, elegante nella sua camicia candida, le frezze bianche sulla
capigliatura corvina ravviate all'indietro e un'allure di profumo esotico che si lasciava alle
spalle. L’incarnato scuro, la pelle sempre abbronzata già al primo sole primaverile,
tradivano la sua origine catanese. I piccoli occhi verdi, alti su due zigomi sporgenti,
svelavano la sua metà asiatica, ereditata dalla madre russa. Mentre il talento del grande
giornalista trasudava dallo sguardo mobile, dalla battuta pronta, dal gusto dei dettagli,
77
Post/teca
scovati tra le pieghe di un articolo o in un'immagine di tg. Per molti di noi, Man è stato
un maestro, oltre che un amico affettuoso. Memorabile era il suo modo di trasmettere i
vecchi trucchi artigiani del mestiere, come quando spiegava che in un’intervista difficile,
con poco tempo a disposizione, era inutile bombardare l’intervistato con una raffica di
domande. Meglio puntare al cuore, che alla testa. Scegliere, sulla sua scrivania, un
oggetto, una foto, una cosa di nessuna importanza, ma che magari, notati con finta
sorpresa, potessero ammorbidire il clima dell’incontro.
Era anche generoso, pronto a fare qualsiasi cosa necessaria al giornale. Quando morì
Edoardo Agnelli, lui ch’era stato sempre vicino all’Avvocato, si offrì di scriverne il
ritratto. Scoprimmo così che quel ragazzo che aveva scelto di concludere tragicamente
un’esistenza tormentata, per qualche tempo si era interessato alle filosofie orientali, e
aveva trovato in Man un sostegno e un interlocutore. Quella volta Igor scrisse, non un
articolo, ma una bellissima lettera ai genitori di Edoardo. Per confortarli, nel giorno più
difficile della vita. Yes, I know, listen my friend...»: dal suo gabbiotto in redazione, la
voce arrivava tonante. Igor parlava insieme arabo e inglese. Aveva l’accento yankee di
tanti della sua generazione che avevano conosciuto gli americani durante la guerra. Nei
giorni della crisi di Sigonella e dei due missili lanciati da Gheddafi su Lampedusa, era
uno spettacolo vederlo lavorare, appeso al filo incerto di una telefonata libica.
Igor Man era un tipo unico, a cominciare dal nome d’arte che s’era dato ed era riuscito
non si sa come a far stampare sui suoi documenti. Aveva un metabolismo mediterraneo,
gli era rimasto attaccato il fuso orario dei vecchi giornalisti che andavano a dormire
tardissimo, con la prima copia fresca di stampa ritirata alla rotativa. Personaggio da film,
era uno degli ultimi di un’epoca romantica e appassionata. In Vietnam mentre la moglie
adorata, Mariarosa, metteva al mondo suo figlio: il telegramma per avvertirlo lo
raggiunse quando il piccolo Federico era già tornato a casa. E poi in Cile, a Cuba, a
Panama e in Costarica: per molti anni non c’era guerra o guerriglia, crisi grande o piccola
nel mondo che non lo vedesse schierato in prima linea. Allora le missioni duravano mesi,
la tv quasi non c’era, gli articoli si mandavano col telegrafo e cominciavano con il
fatidico distico «dal nostro inviato speciale». In quell’aggettivo c’era un che di avventura,
di sogno, di coraggio, che faceva desiderare anche all'ultimo dei cronisti di essere, chissà,
un giorno, come il leggendario Igor Man.
A un certo punto della sua lunga carriera, Man aveva preso una sorta di seconda
cittadinanza in Medio Oriente e nel mondo arabo nostro dirimpettaio e non ancora
soffocato dal fondamentalismo. Andava e veniva, tornava e ripartiva, allungava
orgoglioso il lungo medagliere di foto dei suoi intervistati. Accanto a Che Guevara, ad
Allende, a un gruppo di misteriosi guerriglieri boliviani armati fino ai denti, a un
Kennedy avvicinato svagatamente a un ricevimento a Washington, da un elegantissimo
Igor in dinner jacket e papillon, comparvero così l’israeliana Golda Meir, l’egiziano
Mubarak, il vecchio re Hassan II del Marocco, il ras della Tunisia Bourguiba, e poi, in
varie pose, un Arafat di cui Man era spesso ospite esclusivo e autorizzato, raro privilegio,
a descriverne la vita riservatissima nella casa araba dove il the bolliva lento tutto il
giorno, tra nuvole d’incenso e fiori di gelsomino sparsi un po'dappertutto.
Con molti anni di anticipo, Man aveva capito che dalla sponda orientale a noi più vicina
la polveriera islamica stava incubando dentro e attorno a un Occidente del tutto
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impreparato a contenerla. Per questo Igor, che aveva visto nascere il khomeinismo in
Iran, era desolato quando gli americani avevano dovuto abbandonare la Somalia infestata
dai fondamentalisti. Ed era disperato di fronte alla prima guerra del Golfo, quella del '91
in cui l'Italia si commosse per le gesta eroiche del maggiore Bellini e del capitano
Cocciolone, ma non immaginava neppure cosa sarebbe accaduto dieci anni dopo. Toccò a
Man raccontare nella sua rubrica «Diario arabo» la cultura, i valori e anche gli eccessi del
mondo islamico: lo faceva umilmente, in trenta righe, tutti i giorni. E ogni articolo si
concludeva con una «sura», una massima del Corano.
In quel periodo Igor veniva sempre a lavorare alla redazione romana. Arrivava verso
l’una, freschissimo, elegante nella sua camicia candida, le frezze bianche sulla
capigliatura corvina ravviate all'indietro e un'allure di profumo esotico che si lasciava alle
spalle. L’incarnato scuro, la pelle sempre abbronzata già al primo sole primaverile,
tradivano la sua origine catanese. I piccoli occhi verdi, alti su due zigomi sporgenti,
svelavano la sua metà asiatica, ereditata dalla madre russa. Mentre il talento del grande
giornalista trasudava dallo sguardo mobile, dalla battuta pronta, dal gusto dei dettagli,
scovati tra le pieghe di un articolo o in un'immagine di tg. Per molti di noi, Man è stato
un maestro, oltre che un amico affettuoso. Memorabile era il suo modo di trasmettere i
vecchi trucchi artigiani del mestiere, come quando spiegava che in un’intervista difficile,
con poco tempo a disposizione, era inutile bombardare l’intervistato con una raffica di
domande. Meglio puntare al cuore, che alla testa. Scegliere, sulla sua scrivania, un
oggetto, una foto, una cosa di nessuna importanza, ma che magari, notati con finta
sorpresa, potessero ammorbidire il clima dell’incontro.
Era anche generoso, pronto a fare qualsiasi cosa necessaria al giornale. Quando morì
Edoardo Agnelli, lui ch’era stato sempre vicino all’Avvocato, si offrì di scriverne il
ritratto. Scoprimmo così che quel ragazzo che aveva scelto di concludere tragicamente
un’esistenza tormentata, per qualche tempo si era interessato alle filosofie orientali, e
aveva trovato in Man un sostegno e un interlocutore. Quella volta Igor scrisse, non un
articolo, ma una bellissima lettera ai genitori di Edoardo. Per confortarli, nel giorno più
difficile della vita.
Fonte: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?
ID_blog=25&ID_articolo=6755&ID_sezione=&sezione=
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Scrittore non solo cronista
ARRIGO LEVI ARRIGO LEVI
Igor è stato uno dei grandi inviati della mia generazione. Inviato a tutto campo. Ci
incontrammo la prima volta nel dicembre del 1956. Ci trovavamo a Porto Said, dove io
ero stato spedito da Londra dal Corriere della Sera al seguito dell’esercito britannico
(giovane inviato, accanto a quel grandissimo inviato che era Virgilio Lilli al seguito
dell’esercito francese), dopo la fulminea occupazione del Sinai da parte d’Israele e
l’intervento militare sedicente «pacificatore» di Francia e Gran Bretagna. A dicembre,
79
Post/teca
risolta in qualche modo la crisi seguita alla nazionalizzazione del Canale di Suez da parte
di Nasser (una singolare commedia degli equivoci, risolta da un duro intervento del
presidente Eisenhower che fermò non solo Ben Gurion, ma anche Eden e Guy Mollet),
arrivò a Porto Said il primo treno proveniente dal Cairo, con a bordo un’altra squadra di
inviati. Igor era tra questi.
Sto parlando di oltre mezzo secolo fa, eravamo tutti e due trentenni o poco più e stavamo
facendo il lavoro più divertente, o almeno così mi pare, che possa fare un giornalista:
l’inviato speciale, col mondo intero come territorio in cui esercitare l’arte del cronista,
che è poi la quintessenza del giornalismo. Noi due appartenevamo, con Ronchey, Bettiza,
Pieroni, Ottone e altri ancora, alla prima generazione postbellica, e ci confrontavamo con
una generazione di grandi giornalisti affermatisi prima della guerra e durante la guerra.
Ho nominato Lilli, cito ancora Luigi Barzini junior, che si era formato alla scuola
americana e che vantava una sorta di primato per diritto ereditario, e ancora Vittorio
Gorresio, Max David, Vittorio G. Rossi, tralasciando troppi altri nomi «Loro» ci
sembravano, ed erano, giornalisti-scrittori, talvolta più scrittori che giornalisti, o così
sembrava a noi. «Loro» sapevano poco o nulla di economia, noi eravamo, o ci sembrava
di essere, più «moderni», più aggiornati culturalmente, anche se dicevamo di avere meno
ambizioni letterarie.
Igor ora se n’è andato, ha lasciato all’improvviso i suoi affezionati lettori e i suoi amici e
rivali di tutta una vita. Fra tutti noi, Igor era forse, per istinto, il più esotico nei suoi
interessi. Quando diventai, nel 1973, direttore della Stampa, era considerato uno
specialista sia di America Latina sia di Medio Oriente. Quelle vaste aree del globo le
aveva girate da un capo all’altro, era stato testimone di tutte le crisi e aveva incontrato
tutti i grandi protagonisti che meritasse incontrare. Lo sanno bene i suoi lettori, che hanno
gustato ogni sette giorni i suoi ricordi di Vecchio Cronista su questo giornale. Igor si
chiamava davvero, per ascendenza parzialmente russa (lo incontrai un giorno a Zurigo
dove era andato a trovare nel più famoso Grand hotel una vecchia zia, gran signora, che
parlava un russo musicale ed elegante che le generazioni successive hanno dimenticato).
Il cognome Man, al posto del siciliano Manzella, gli era parso, giustamente, più esotico e
più adatto al mestiere che faceva. Una piccola dose d’inventiva era pur necessaria, in quel
nostro mestiere. Senza esagerare.
Avevamo, tutti noi, mogli che sopportavano come un destino le nostre frequenti,
lunghissime assenze. Forse per questo quasi tutti abbiamo goduto di lunghissime unioni
coniugali, con la moglie che diversi di noi avevano incontrato in giro per mondo. Igor,
col suo volto un po’ asiatico, si considerava giustamente il più bello, e il più estroso di
tutti. E sapeva scrivere, e come sapeva scrivere! In verità era scrittore, e non solo
cronista. Anche se gli capitava, come a tutti noi, di mandare il pezzo sulla crisi del giorno,
guerra o colpo di Stato che fosse, due ore dopo essere giunto sul posto. Gli autisti di tassì
che ci avevano pescati all’aeroporto erano i nostri primi preziosi informatori; quando non
accadeva che il pezzo l’avessimo già abbozzato in aereo. Era ovvio che i precedenti li
conoscevamo già alla partenza, i protagonisti spesso li avevamo già incontrati, avevamo i
numeri di telefono di chi poteva dirci qualcosa di più del tassista, e anche il primo pezzo
aveva quel tanto di genuinità cronistica e quel piglio un po’ garibaldino che ci si
attendeva da un «grande inviato». Come Igor Man, che ora ci ha lasciati bruscamente, da
un giorno all’altro. Accade, alla nostra età. La schiera dei compagni d’una vita si
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Post/teca
assottiglia. Igor è stato uno dei grandi inviati della mia generazione. Inviato a tutto
campo. Ci incontrammo la prima volta nel dicembre del 1956. Ci trovavamo a Porto
Said, dove io ero stato spedito da Londra dal Corriere della Sera al seguito dell’esercito
britannico (giovane inviato, accanto a quel grandissimo inviato che era Virgilio Lilli al
seguito dell’esercito francese), dopo la fulminea occupazione del Sinai da parte d’Israele
e l’intervento militare sedicente «pacificatore» di Francia e Gran Bretagna. A dicembre,
risolta in qualche modo la crisi seguita alla nazionalizzazione del Canale di Suez da parte
di Nasser (una singolare commedia degli equivoci, risolta da un duro intervento del
presidente Eisenhower che fermò non solo Ben Gurion, ma anche Eden e Guy Mollet),
arrivò a Porto Said il primo treno proveniente dal Cairo, con a bordo un’altra squadra di
inviati. Igor era tra questi.
Sto parlando di oltre mezzo secolo fa, eravamo tutti e due trentenni o poco più e stavamo
facendo il lavoro più divertente, o almeno così mi pare, che possa fare un giornalista:
l’inviato speciale, col mondo intero come territorio in cui esercitare l’arte del cronista,
che è poi la quintessenza del giornalismo. Noi due appartenevamo, con Ronchey, Bettiza,
Pieroni, Ottone e altri ancora, alla prima generazione postbellica, e ci confrontavamo con
una generazione di grandi giornalisti affermatisi prima della guerra e durante la guerra.
Ho nominato Lilli, cito ancora Luigi Barzini junior, che si era formato alla scuola
americana e che vantava una sorta di primato per diritto ereditario, e ancora Vittorio
Gorresio, Max David, Vittorio G. Rossi, tralasciando troppi altri nomi «Loro» ci
sembravano, ed erano, giornalisti-scrittori, talvolta più scrittori che giornalisti, o così
sembrava a noi. «Loro» sapevano poco o nulla di economia, noi eravamo, o ci sembrava
di essere, più «moderni», più aggiornati culturalmente, anche se dicevamo di avere meno
ambizioni letterarie.
Igor ora se n’è andato, ha lasciato all’improvviso i suoi affezionati lettori e i suoi amici e
rivali di tutta una vita. Fra tutti noi, Igor era forse, per istinto, il più esotico nei suoi
interessi. Quando diventai, nel 1973, direttore della Stampa, era considerato uno
specialista sia di America Latina sia di Medio Oriente. Quelle vaste aree del globo le
aveva girate da un capo all’altro, era stato testimone di tutte le crisi e aveva incontrato
tutti i grandi protagonisti che meritasse incontrare. Lo sanno bene i suoi lettori, che hanno
gustato ogni sette giorni i suoi ricordi di Vecchio Cronista su questo giornale. Igor si
chiamava davvero, per ascendenza parzialmente russa (lo incontrai un giorno a Zurigo
dove era andato a trovare nel più famoso Grand hotel una vecchia zia, gran signora, che
parlava un russo musicale ed elegante che le generazioni successive hanno dimenticato).
Il cognome Man, al posto del siciliano Manzella, gli era parso, giustamente, più esotico e
più adatto al mestiere che faceva. Una piccola dose d’inventiva era pur necessaria, in quel
nostro mestiere. Senza esagerare.
Avevamo, tutti noi, mogli che sopportavano come un destino le nostre frequenti,
lunghissime assenze. Forse per questo quasi tutti abbiamo goduto di lunghissime unioni
coniugali, con la moglie che diversi di noi avevano incontrato in giro per mondo. Igor,
col suo volto un po’ asiatico, si considerava giustamente il più bello, e il più estroso di
tutti. E sapeva scrivere, e come sapeva scrivere! In verità era scrittore, e non solo
cronista. Anche se gli capitava, come a tutti noi, di mandare il pezzo sulla crisi del giorno,
guerra o colpo di Stato che fosse, due ore dopo essere giunto sul posto. Gli autisti di tassì
che ci avevano pescati all’aeroporto erano i nostri primi preziosi informatori; quando non
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Post/teca
accadeva che il pezzo l’avessimo già abbozzato in aereo. Era ovvio che i precedenti li
conoscevamo già alla partenza, i protagonisti spesso li avevamo già incontrati, avevamo i
numeri di telefono di chi poteva dirci qualcosa di più del tassista, e anche il primo pezzo
aveva quel tanto di genuinità cronistica e quel piglio un po’ garibaldino che ci si
attendeva da un «grande inviato». Come Igor Man, che ora ci ha lasciati bruscamente, da
un giorno all’altro. Accade, alla nostra età. La schiera dei compagni d’una vita si
assottiglia.
Fonte: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?
ID_blog=25&ID_articolo=6758&ID_sezione=&sezione=
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Addio a Igor Man. Un ponte tra noi e il Medio Oriente
di Umberto De Giovannangeli
Un grande giornalista. Un testimone del secolo. Igor avrebbe detto «Umberto, non allargarti, vola
basso...». Ma se c’è un collega, un amico, un maestro, che grande lo è stato davvero, grande nella
professione, generoso nella vita, questi è Igor Man. Igor se n’è andato in silenzio, senza clamore.
Lui che con il clamore degli Eventi che hanno segnato un secolo ha convissuto, raccontandoli, con
sapienza e tenerezza. Partecipandone con la mente e con il cuore. Con una vitalità che non è mai
venuta meno. Come la passione per il «suo» Medio Oriente.
La sua morte risale a mercoledì. La notizia è stata data a funerali già avvenuti dalla famiglia,
secondo quanto disposto dallo stesso giornalista. Aveva 87 anni. Igor Man, pseudonimo di Igor
Manlio Manzella, era figlio di Titomanlio Manzella, esperto di politica estera. È stato una delle
firme più prestigiose del quotidiano La Stampa. Esempio di giornalismo attento. Uomo dotato di
raffinata cultura. Un «ponte» tra noi e il Medio Oriente...Leggo le dichiarazioni delle massime
cariche dello Stato, dei leader politici di maggioranza e dell’opposizione. Igor li ha messi d’accordo
tutti. Senza sforzo. Perché, stavolta almeno, hanno detto solo la pura e semplice verità. Perché Igor
era davvero un uomo di raffinata cultura. Ed è stato davvero un ponte vivente tra noi e il mondo
arabo da lui raccontato con passione ma senza mai fare sconti alle responsabilità di quei leader che
Igor aveva conosciuto personalmente, intervistato più volte.
Un giornalista vecchio stampo. Ecco una definizione che Igor avrebbe accettato ben volentieri.
Perché il suo era lo stampo di un giornalismo delle idee, e non delle caricature. Di un giornalismo
d’inchiesta, e non di gossip. Un «vecchio cronista». Così Igor usava definirsi nei suoi articoli. Non
era falsa modestia. Ma l’orgoglio di chi si è sempre sentito, prima di ogni altra cosa, «cronista» di
grandi eventi come di «piccoli» fatti a cui riusciva sempre a dare grande dignità. Igor Man «ha
fortemente contribuito alla formazione di una ben informata e responsabile opinione pubblica sui
grandi temi della politica internazionale e dell'evoluzione mondiale ...», ricorda un uomo che con
Igor ha condiviso l’interesse e la passione per la politica internazionale: il presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano. Igor sarebbe stato orgoglioso delle parole di un uomo, Napolitano,
non avvezzo a concedere facilmente attestati di stima e di amicizia personale. Da «vecchio
cronista» Igor rifuggiva da qualsiasi velleità pedagogica. Non era nelle sue corde. Ma formare
informando questo sì, Igor lo ha fatto. Riuscendoci appieno.
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Post/teca
«Era un giornalista d'altri tempi, di quelli che sono capaci di raccontare i grandi avvenimenti, la
grande storia in modo perfino un po’ epico, mescolando insieme ai fatti, anche i ricordi dei viaggi e
del vissuto. Sapeva tenere con i lettori un rapporto forte ed è impressionante il numero di lettere che
ha continuato a ricevere fino all'ultimo», ricorda il suo ultimo, giovane direttore, Mario Calabresi. È
così. Questo è stato Igor Man. Giornalista d’altri tempi. Tempi migliori. Tempi di grandi scontri e di
grandi passioni. Nella sua straordinaria carriera, Igor aveva incontrato tutti i grandi della storia. tra i
suoi ritratti John Fitzgerald Kennedy, Nikita Krusciov, Ernesto «Che» Guevara, Gheddafi,
Khomeini, Yasser Arafat, Shimon Peres...
Igor cominciò a lavorare a La Stampa nel '63 sotto la direzione di Giulio de Benedetti, ma era
entrato nel giornalismo dopo la liberazione - aveva militato nelle file della resistenza - al Tempo di
Roma. Fu subito inviato a Vienna a raccontare l'invasione russa dell'Ungheria. la prima di una lunga
serie di guerre e di tragedie di cui fu testimone. «Odio la guerra - diceva - ma il destino ha voluto
che in ragione del mio lavoro, vi inciampassi non poche volte», dalla crisi del Canale di Suez nel
1956, al Vietnam negli anni Sessanta, alla guerra del Golfo del 1991.
Ha raccontato eventi che hanno fatto la Storia con una dote sempre più introvabile: quella della
semplicità. La semplicità di chi - per dirla con Gianni Vattimo, sapeva raccontare quegli Eventi con
la semplicità di chi le racconta in famiglia. Nelle sue cronache, come nelle sue analisi e interviste,
Igor sapeva essere insieme garbato e acuto. Il buon, vecchio stampo. Era un costruttori di «ponti» di
dialogo in un mondo - anche quello dell’informazione - sempre più dedicato a edificare «muri» di
odio, di ostilità. La conoscenza è il miglior antidoto alla demonizzazione dell’altro da sé. Igor lo
credeva fermamente, e a questo «credo» è sempre stato fedele. Fino in fondo. Che la terra ti sia
lieve, amico Igor. Grande «vecchio» cronista.
19 dicembre 2009
Fonte:
http://www.unita.it/news/culture/92842/addio_a_igor_man_un_ponte_tra_noi_e_il_medio_oriente
---------------------------19/12/2009 (8:11)
Igor Man, la poesia dell'inviato
speciale
Il Vecchio Cronista della "Stampa" è morto a 87 anni. Era l’ultimo esponente di un’epoca gloriosa
del giornalismo
MIMMO CANDITO
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Con uno dei tanti vezzi che amava coltivare, Igor Man aveva scelto «Il vecchio cronista» come
titolo della sua ultima rubrica nel nostro giornale. Sapeva bene d’essere un personaggio pubblico,
uno di quei nomi di immediata riconoscibilità, figure e caratteri cui una dimensione mitica finisce
per attribuire doti, valori, forza morale, che la quotidianità del vissuto privato non sempre è pronta a
sostenere; e allora, in quella volontaria riduzione di un ruolo (il Grande Giornalista, invece)
conquistato con la sapiente costruzione della propria vita professionale, questo titolo modesto, da
leggersi quasi con voce sommessa, piana, finiva per condensare il recupero di una autenticità
difficile da vendere al grande pubblico.
Ma era, comunque, un recupero orgogliosamente consapevole che la modestia se la possono
concedere soltanto coloro che di aristocratica immodestia possono vivere. Man è stato uno degli
ultimi interpreti d’un mondo che era scomparso con il secolo che finiva, il mondo degli «inviati
speciali» cui di diritto spettava il grande reportage nella Terza Pagina (anch’essa sparita da tempo,
travolta dalla mutazione genetica dell’editoria). Oggi che i giornali sono fatti di notizie rapide,
immediate, bruciate nella voracità insaziabile dei bit affastellati freneticamente dentro le modalità
hertziane, un mestiere come quello degli inviati è un lusso che nemmeno un museo della
comunicazione riuscirebbe più a proporre al consumo del sistema mediale.
Era un lavoro affascinante e privilegiato, questo degli inviati, un lavoro nel quale dovevano sapersi
fondere qualità di scrittura, capacità investigativa, forte personalità, e una insaziabile voglia di
viaggiare dentro la vita del mondo. E Man queste doti le aveva certamente, forse non tutte di pari
forza ma ugualmente le sapeva utilizzare al meglio, costruendo con una meticolosa cura della loro
qualità fascinatrice l’identità pubblica del proprio personaggio (a cominciare dalla stessa sua firma:
da Manzella a «Man», che ha questo suono netto e forte, di vite misteriose, esotiche, evocatrici di
geografie impossibili e di grandi intrighi internazionali).
È stato, quel tempo ormai chiuso, il mondo di Luigi Barzini e di Virgilio Lilli, di Paolo Monelli, di
Malaparte, di Max David, di Montanelli, dei nomi, insomma, che hanno fatto la storia del
giornalismo italiano preso ancora a mezzo tra le radici elitarie delle sue ascendenze letterarie e
l’urgenza, sempre più forte, più pressante e angosciosa, del racconto di una realtà che andava
sottraendosi alle sue dimensioni mitiche. Di suo, Igor Man aggiungeva due carature che sempre lo
hanno accompagnato, e anche distinto, alla fine, dai suoi compagni di storia: la prima era quella
intensa visionarietà che stava dentro il suo racconto di cronaca, una dimensione nella quale vita e
immaginazione si trasfiguravano a comporre un tessuto espressivo fortemente partecipato, denso di
connotazioni emotive, di sentimenti e parole che si rifiutavano al ritegno del pudore e del
distanziamento che dovrebbero sostenere il rigore del giornalismo; la seconda era la sua stessa
figura, quel volto così nobile e altero, i segni profondi e marcati delle rughe d’una vita vissuta
davvero, i baffi scuri e sicilianazzi sotto le ciocche elegantemente bianche, quell’anello mostrato
sempre in evidenza a evocare misteriosi geroglifici sottratti alla comprensione comune.
Il suo lavoro professionale lo ha portato in ogni angolo del pianeta, viaggiatore nelle guerre
dell’Asia e del Levante e osservatore attento e sensibile delle convulsioni che agitavano le mezze
democrazie dell’America Latina. Ha raccontato anche storie italiane, storie di un paese che veniva
fuori dalle ossessioni amare del dopoguerra, ma la sua attenzione si era concentrata soprattutto sulle
latitudini inquiete del pianeta, là dove in un tempo ormai lontano passavano i loro giorni di vita gli
inviati di prestigio dei grandi giornali, il Corriere della Sera e La Stampa, e l'amicizia e la
solidarietà si incrociavano spesso con i tranelli professionali, la concorrenza più spietata, anche il
furto del lavoro dei colleghi più ingenui (ci sono storie che Fabrizio Del Noce e il povero Egisto
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Corradi hanno consegnato alla storia del giornalismo).
Della sua carattere profondamente umano, della sua sicilianità, Man aveva fatto anche una chiave si
comprensione e di interpretazione di quella parte del mondo che più lo ha reso noto al grande
pubblico: il Medio Oriente, tagliato dentro dal drammatico conflitto tra mondo arabo e Israele e
segnato dalla complessa trama religiosa e politica dei popoli della Mezza Luna. Come siciliano,
come figlio di una storia che ha intrecciato culture e memorie calate lungo i secoli di vicende e di
contaminazioni mai sedimentate fino alla loro ultima acquisizione, Man avvertiva con particolare
sensibilità le tensioni di questa lotta nella quale si scontravano, e ancora si misurano, i destini non
soltanto di due popoli ma della stessa umanità del nostro tempo, per ciò che ha di comune questo
tempo con i principi conflittuali della intolleranza e della integrazione, della identità segregazionista
e del riscatto culturale, della spiritualità della fede e della capacità manipolatrice della religione.
Il suo «Diario arabo», quelle notazioni quotidiane che sulle pagine del nostro giornale hanno
accompagnato e spiegato le complesse filiere nelle quali s'andava dipanando la preparazione - fino a
poi lo scontro sul terreno - della guerra del Golfo tra Saddam Hussein e il resto del mondo guidato
dai marines di Schwarzkopf, quel diario giornaliero gli aveva dato alla fine la popolarità che solo il
giornalismo televisivo riesce altrimenti ad attribuire; e il merito, com’egli stesso ha riconosciuto,
stava nell’aver saputo legare la cronaca quotidiana di un’inquietante confronto politico con le
motivazioni culturali e religiose che inevitabilmente stavano ripiegate dietro l'apparenza del
conflitto geostrategico.
Prendendo a spunto i versetti del Corano, e leggendone con cura e rispetto il senso profondo, Man
offriva ogni giorno al lettore strumenti nuovi e «altri» per la comprensione di fatti e di personaggi
che si mostravano inaccettabili nella semplificazione mistificatrice di tipizzazioni di comodo. E da
questa vicinanza all'Islam come religione (ma anche come struttura identitaria, sempre riproposta e
offerta all'attenzione del lettore) Man era passato progressivamente a vivere con una partecipazione
intensa la dimensione cattolica della sua propria storia privata; è stata però, la sua, una religiosità
laica, mai perduta dentro le anse difficili del fideismo, ma ugualmente intensa, verrebbe da dire
pubblicamente intensa, in quello spazio nel quale un personaggio popolare finisce per essere
obbligato a consumare anche i momenti più intimi del proprio vissuto quotidiano.
E il racconto dei suoi incontri privati con gli ultimi due Pontefici lo coinvolgeva e lo emozionava
anche al di là dei doveri che il cronista deve sapersi dare. In questo, come in tutti gli aspetti della
sua biografia, Man mostrava alla fine quale sia stata la sua scelta di vita: una integrazione - voluta e
ricercata con costanza - tra dimensione pubblica e orizzonti privati, un terreno nel quale il racconto
della storia del mondo non poteva mai prescindere dagli occhi, e verrebbe da dire dal cuore, di chi
quel racconto lo sta facendo, e lo sta vivendo, non solo pestando la tastiera della macchina per
scrivere o, poi, con il computer, ma anche mettendoci la propria pelle, la carne, le emozioni, la
sensibilità fino alle lacrime.
Fonte: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/200912articoli/50531girata.asp
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La lezione di Igor Man
Venerdì 18 Dicembre 2009
di Marco Bernardini
Se ne è andato Igor Man. Il giornalismo internazionale ha perso un monumento.
Il quotidiano La Stampa: un cavallo di razza pressochè unico. Il mondo di tutti i giorni: una gran brava e onesta persona.
Personalmente un maestro dal quale ricevetti una importantissima lezione professionale e di vita. Era il 1973.
Venni inviato, dal direttore della Gazzetta del Popolo, ad Algeri dove era in programma il summit dei Paesi Non
Allineati del Terzo Mondo. Il mio primo servizio importante. Io, appena professionista, in mezzo a tanti colleghi di
esperienza e di fama. Una sera, in sala stampa, eravamo rimasti in due. Il sottoscritto e Igor Man. Era appena terminata
la conferenza di Fidel Castro. Il maestro, io non lo sapevo ancora, soffriva di malaria. Una malattia che si era preso nel
corso di uno dei suoi frequenti viaggi in Africa e che si manifestava periodicamente con febbroni improvvisi e senza
preavviso.
Era uno di quei momenti. Rosso in viso, scosso da tremiti e con la voce rotta mi dice: "Marco, non ce la faccio. Per
favore, leggi i miei appunti, scrivi il pezzo a mandalo al giornale a nome mio". Provai un senso di vertigine e dovetti
resistere per non cedere al panico. Ma come, io ragazzino, che scrive per il grande inviato? Andò così, comunque. Nei
giorni successivi Igor Man mi portò sempre con sé e con Luciana Castellina, da Allende e da Gheddafy sotto la sua
tenda. E non smetteva di ringraziarmi. Capito che roba? E' per questo che, osservando e ascoltando i giovani praticanti
giornalisti di oggi, i quali si sentono tanti Montanelli senza aver combinato ancora nulla, mi vengono i brividi. Riposa in
pace, caro e vecchio amico maestro.
Fonte: http://www.nuovasocieta.it/editoriali/3699-mab.html
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21 dicembre 2009
21/12/2009
L'estinzione del pensiero
GUIDO CERONETTI
Da un fisico, Luigi Sertorio, viene - anche su questa superflua e nodale parata ecologica di
Copenaghen - una luce. Se trovi un pensiero che vale férmati, ricordati che non sei un bruto!
Il libretto di Sertorio da cercare e da meditare, se si abbia qualche inclinazione a riflettere, s’intitola
La Natura e le macchine, l’editore (SEB 27) non è certo tra i noti. L’autore è torinese e ha anche
insegnato a Torino.
Ne stralcio qualche punto luminoso: «Da bambino, la notte, Torino era buia e guardavo dalla
finestra le stelle e le Alpi lontane.
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Ora dalla casa in collina guardo laggiù Torino tutta illuminata di lampadine, ci saranno molti
megawatt di fotoni spediti nel cosmo, e non mi danno nessun senso di benessere». Quanto a me, mi
domando a quale ingordo Moloch sacrifichino le città tanti inferociti megawatt e tanti torrenti di
denaro per inondare di accecanti illuminazioni artificiali un flusso ormai quasi ininterrotto di partite
notturne! Attenzione, quello spreco insensato di energia, non cessa di far male col fischio finale
dell’arbitro: va a nutrire un oscuro cannibale che un giorno, ad un segnale, sgranocchierà i vostri
figli. Come il minotauro di Creta e il lupo di Perrault - evocabili con profitto anche in un dopocena
danese decembrino.
Il libretto è tutto aureo. Nella prefazione, Nanni Salio ricorda la profezia gandhiana: che se l’India
(che allora contava trecento milioni: oggi, col Pakistan, tocca il miliardo e mezzo) si fosse
industrializzata al modo dell’Occidente «avrebbe denudato il mondo come le locuste».
Conclude Sertorio (per forza ne limito le citazioni): «Ciò che scarseggia non è l’energia ma il
pensiero, la futura vittima non è la Terra, ma è la mente umana, il consumo produce denaro, ma
genera povertà (aggiungo: mentale) nelle nazioni». Sottolineo: la mente umana, con lacrime e
rabbia. Nient’altro che pensiero atrofico o non-pensiero leggi nelle ceneri anche di questa ecoadunata mondiale. Ripiglio dall’India, tritagonista di questa scena tragica smisurata, insieme a Cina
e America (le Americhe, bisogna dire: un unico personaggio policefalo). Ma la Russia, l’Europa,
l’Iran, dove li metti? Tuttavia la demografia miliardaria è la più incosciente nel delirio industrialista,
e ha uno specifico accecamento arrivistico - mostruosità psicologica che su scala di impero
demografico (raggiungere-imitare-superare in potere-che-dà-potenza) oggi non culmina in traguardi
stolti, ma in miserabile, scellerata distruttività del vivente, vicino e lontano, presente e futuro. La via
dello Sviluppo è la via della morte.
Paradosso dei paradossi: la sovrapopolazione planetaria, che affligge gli enormi spazi del sud-est
asiatico, Cina e India in testa, e anche gli Stati Uniti - le regioni più responsabili dell’Inquinamento
- e che altresì affligge l’Africa e Gaza e il Cairo... neppure stavolta la si è vista nell’agenda dei
lavori!! Magicamente rimossa...
Misteriosamente tenuta fuori... Perché manca il gradimento del Papa? Dei paesi islamici? Per paura
dell’Insolubile? Ma se non osiamo confessare la nostra impotenza, allora perché stendere relazioni e
fingere di avere a cuore un problema di essere o non essere, di vita e di morte? Perché incontrarsi e
tenere discorsi su soluzioni possibili la cui caratteristica essenziale è l’impossibilità a coagularsi in
una catena antincendio di severe e punibili concordanze?
Non ci sono percentuali in meno o in più che valgano. Esiste soltanto il convergere di tutte le strade
verso la distruttività crescente, nella folle idea fissa del tempo lineare e della sua conseguente
Crescita illimitata, col suo sterminio di risorse per contrastare le grandi povertà che vengono, le
catastrofi finali che nessuna filosofia politica è in grado di fermare.
Perché la storia umana è iscritta in un ciclo sansarico, è parte di una ruota che la fa, nella luce e
nell’ombra, ora essere ora non essere; perché nel Divenire in perpetuo qualsiasi vivere perde il suo
stesso nome.
Come misura di Ragione Pratica puoi fare la raccolta differenziata e l’orticello biologico in Piazza
Navona o alla Casa Bianca: una condotta etica è bene per chi la tenga - ma non commuoverà mai la
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maschera di pietra di quel che è predestinato, di quel che è, da sempre e per sempre, Destino.
E anche il Destino abbiamo visto tenuto fuori, malvisto cane sciolto, da questa conferenza di
percentuali tristi e di egoismi irriducibili. Il clima out of joint può aiutare, per quanto cosa ahi molto
dura, a capire. Può essere una freccia per andare, a occhi aperti almeno, incontro allo sguardo della
testa inguardabile di Medusa.
Fonte: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?
ID_blog=25&ID_articolo=6763&ID_sezione=&sezione=
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Hits 2009
L’annuale consuntivo delle canzoni più suonate nei miei iTunes, iPod, iPhone.
1) That Look You Give That Guy, Eels, 83
2) Linger with Pleasure, Ane Brun, 69
3) Full Steam, David Gray, 50
4) Kiss my name, Antony & the Johnsons, 46
5) This Guy’s In Love With You, Herb Alpert, 37
6) My Timing Is Off, Eels, 35
7) A Letter to the Patron Saint of Nurses, Richmond Fontaine, 29
8) Wait, Alexi Murdoch, 26
9) 98.6, The Bystanders, 25
10) We Should Be Dancing, Variety Lab, 25
11) Eve Of Destruction, Barry McGuire, 22
12) Colour My World, Chicago, 21
13) God Help The Girl, God Help The Girl, 19
14) Streetlife, Randy Crawford & The Crusaders, 18
15) Buon Appetito, Dente, 17
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16) Shine, Alexi Murdoch, 16
17) Just Breathe, Pearl Jam, 16
18) Careful As You Go, The Drones, 15
19) Turn Your Pretty Name Around, Gary Louris & Mark Olson, 15
20) Funny The Way It Is, Dave Matthews Band, 15
(qui le annate precedenti)
E la classifica generale dal 2001:
1) The Blower’s Daughter, Damien Rice, 161
2) Hard To Miss You, Mojave 3, 145
3) Ain’t No Love, David Gray, 124
4) Our Mutual Friend, Divine Comedy, 123
5) Not Going Anywhere, Keren Ann, 123
6) Lion Tamer, Damien Jurado, 122
7) New Obsession, The Silent League, 122
8) Still, Elvis Costello, 120
9) Suicide Is Painless, Lady & Bird, 118
10) Wheat And Tare, Aluminum Group, 114
11) Hospital Food, David Gray, 113
12) Un Romantico a Milano, Baustelle, 107
13) At My Most Beautiful, R.E.M., 107
14) Woody, Hayden, 106
15) At Last, Etta James, 105
16) That’s How I Knew This Story Would Break My Heart, Aimee Mann, 103
17) Come On Home, Everything But The Girl, 102
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18) Eden, Hooverphonic, 102
19) Holiday In Spain, Counting Crows, 101
20) Book of Love, Peter Gabriel, 101
Fonte: http://www.wittgenstein.it/2009/12/21/hits-2009/
--------------------Le più belle frasi del 2009
«Per evitare gli stupri servirebbe un militare per ogni bella donna». Silvio Berlusconi, 25 gennaio 2009 (il grande
"organizzatore").
«A questo punto bisogna fare la guerra!». Umberto Bossi dopo la bocciatura del Lodo Alfano, 8 ottobre 2009
«Eluana Englaro potrebbe avere un figlio». Silvio Berlusconi, 6 febbraio 2009 (l'esperto sul tema condizione
femminile!).
«Non si possono mandare in giro i poliziotti panzoni.» Renato Brunetta, 28 maggio 2009 - (evidentemente ministri
che trascinano il culo per terra sì però).
«Posso palpare un po’ la signora?» Silvio Berlusconi all’assessore Lia Beltrami , 25 aprile 2009 (classe).
«Berlusconi non ha mai pagato le escort, lui era solo l’utilizzatore finale». Niccolo Ghedini, 17 giugno 2009 (quando si
dice un principe del foro).
«In Italia la sinistra è un’élite di merda, che vada a morire ammazzata.» Renato Brunetta, 18 settembre 2009 (la
democrazia dal basso).
«Sono di gran lunga il miglior presidente del Consiglio che l’Italia abbia potuto avere nei 150 anni della sua storia».
Silvio Berlusconi, 11 settembre 2009 (Napoleon Napoleon Napoleon).
«Mi pare che Rosy Bindi sia più bella che intelligente!». Silvio Berlusconi, 8 ottobre 2009
«Maometto era un pedofilo». Daniela Santanchè, 9 novembre 2009 (la storica delle religioni).
«Mi vergono di essere italiano» Fabrizio Corona dopo la condanna, 10 dicembre 2009 (anche noi ci vergogniamo che
tu lo sia).
«Prendetela come una vacanza!». Silvio Berlusconi ai terremotati dell’Abruzzo, 7 aprile 2009 (cazzo volete!).
«E’ stato un grande successo per il sistema Paese, ci sono 250 paesi collegati in diretta in tutto il mondo». Michela
Brambilla alla prima della Scala, attribuendo al pianeta una quarantina di nazioni più di quelle esistenti, 7 dicembre
2009 (l'autoreggente regge... mica pensa).
«Il clima di odio suscitato da Bersani, Di Pietro e Casini ha determinato il gravissimo episodio di violenza contro il
presidente Berlusconi. Essi ne sono pertanto, indubbiamente, i responsabili morali.» Filippo Berselli, presidente della
commissione giustizia del Senato, 14 dicembre 2009 (Che Pierferdy fosse un guerrigliero sudamericano proprio
non l'avrei mai detto).
«Subiamo un grave danno al turismo per manifestazioni come il No-B Day». Michela Brambilla, ministro del turismo, 8
dicembre 2009 (...regge)
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«Il No-B day? In piazza c’erano 200 mila amici di Spatuzza». Vittorio Feltri, Il Giornale, 6 dicembre 2009 (un
mercenario).
«L’aggressione a Berlusconi è il segno che è davvero il tempo di cambiare la Costituzione». Don Luigi Verzè, 14
dicembre 2009 (quando non si è assistiti dalla Divina Provvidenza...)
Fonte: http://31canzoni.blogspot.com/2009/12/le-piu-belle-frasi-del-2009.html
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DA «IO DONNA» IN EDICOLA
Le cento donne che hanno fatto il 2009
Dalla Merkel a Ilaria Cucchi: le protagoniste di un'idea
di politica e di economia che rimette al centro l'esistenza
La prima classificata:
Angela Merkel (Epa)
La colpa è anche un po’ nostra. Siamo anche noi che - abitudine millenaria - non la smettiamo di
pensarci come vittime. E invece: crisi o non crisi, crescono le imprese femminili; all’università le
ragazze volano; e il welfare? sempre noi: tutto il prezioso lavoro dell’amore, con l’aiuto di altre
donne che vengono da lontano. Le donne dell’anno, diciamocelo, siamo noi. Altro che vittime. Un
po' stanche, questo sì. Ma affaticate soprattutto da una rappresentazione mediatica che come uno
specchio deformante - lo dimostra uno studio del Censis - parla di noi come spogliate o violentate.
Delle vite vere, del lavoro, dell’amicizia, dell’amore, della passione politica e culturale (sono le
donne a riempire musei e teatri e a divorare libri), nessuna traccia. Facile finire nella trappola
dell’autocommiserazione. E dell’automoderazione. Dobbiamo dircelo, invece: l’orizzonte del
desiderio femminile è il mondo. È una nuova idea di politica e di economia che rimetta al centro
l’esistenza e la ricerca di una ragionevole felicità. Il mondo ha bisogno di essere pensato anche da
noi. Alcune fra le cento donne che qui vi raccontiamo sono già in cammino su questa strada. Il
Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, con la sua ostinata certezza che «il tempo è dalla nostra
parte». La blogger tra le più lette al mondo, Gina Trapani, geniale "profittatrice" della rete, il più
femminile tra i medium. Stefania Baggi, maestra milanese che ha ospitato in casa piccoli rom
cacciati dal campo. E poi c’è qualche anti-modello: ma anche qui non mancano motivi di
riflessione. Scegliete la vostra eroina, e tenetela dentro di voi. Per dialogarci, mentre andate avanti.
Marina Terragni
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1 Angela Merkel
In vetta non solo per noi, ma in tutte le classifiche internazionali. Unica donna a non frequentare la
congrega delle trillanti first lady, perché tiene in mano in prima persona il pallino del comando.
Dopo le celebrazioni del Ventennale della caduta del muro di Berlino, la Cancelliera va a sbattere
contro il muro del suo governo, ma tiene testa ai capricci degli alleati e lo rimpasta. Pronta ad
affrontare la missione in Afghanistan e la strage di Kunduz, gli sgravi fiscali e la crisi greca.
2 Connie Hedegaard
Conservatrice ambientalista: da ministro, ha pianificato la riduzione delle emissioni in Danimarca,
grazie alla green economy. E ha siglato un importante accordo con l’India sulle energie rinnovabili.
Barroso l’ha scelta come Commissario all’ambiente, il settore su cui si gioca il futuro dell’intero
pianeta.
3 Aung San Suu Kyi.
L’eroina birmana, icona globale della non-violenza, a giugno subisce l’ennesima condanna dal
regime di Yangoon. Il pretesto è la bravata dell’americano John William Yethaw, che raggiunge a
nuoto la sua casa violando la sicurezza; il vero obiettivo è escluderla dalle elezioni del 2010. Il
mondo si mobilita. Lei, a novembre, chiede un incontro al capo della Giunta militare. Il nostro
augurio è che, mentre andiamo in stampa, il destino di Aung cambi finalmente direzione.
4 Neda Soltani.
È morta il 20 giugno, alle 18.30, in Kargar Avenue a Teheran, filmata dai telefonini dei compagni di
protesta. Ed è diventata il simbolo della rivoluzione verde. I sostenitori di Akhmadinejad hanno
rimosso la sua pietra tombale. Ma il pellegrinaggio al suo sepolcro non si ferma.
5 Hillary Clinton
Scala la nostra hit (nel 2008 era al 22° posto): non è diventata il primo presidente Usa donna, ma
come Segretario di Stato sfoggia il classico pugno di ferro in guanto di velluto rubando spesso la
scena a Obama. La vita (rughe comprese) ricomincia a 62 anni. Verso le prossime presidenziali.
6 Diana Saqeb
Afgana, leader di un movimento femminile, punta di diamante della campagna internazionale
contro la legge scandalo di Karzai che condonava lo stupro agli sciiti. Modificata anche grazie a lei.
7 Andrea Jung
Al vertice di Avon Products, insidia la leadership alla Ceo della Pepsi Indra Nooyi (segnalata nel
2008 al 58° posto): sono quasi ex aequo nella lista del Financial Times delle donne che contano nei
mercati mondiali.
8 Rosy Bindi
La "credente capace di parlare a tutti" si guadagna la presidenza del Pd dopo aver affrontato in
diretta le offese del presidente del Consiglio. Perché la Rosy (imparate ragazze) «non è a
disposizione di nessuno».
9 Lalla Salma
Moglie del sovrano marocchino, ingegnere informatico e madre di due bambini, si batte per
l’emancipazione delle arabe quasi quanto la "collega" Rania di Giordania.
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10 Rita Levi Montalcini
Fedele a uno dei suoi motti preferiti («Meglio aggiungere vita ai giorni, che giorni alla vita»), la
scienziatasenatrice più "giovane", benché alle soglie dei 101 anni, e controcorrente, non ha dubbi:
candida al Nobel Internet. Perché è l’invenzione più importante del Novecento.
11 Rama Yade
Nata in Senegal, 32 anni, musulmana, bellissima ministro francese dello Sport, è la spina nel fianco
di Monsieur Sarkozy. Lo supera in popolarità e dice sempre quel che pensa. Anche su Sarkò junior a
capo del quartiere degli affari parigino.
12 Rosalba Casiraghi
Ha fondato Rating, società di analisi finanziarie a livello internazionale. Ed è fra le trenta donne che
influenzano l’economia italiana, l’unica a far parte di un consiglio di Sorveglianza, quello di Intesa
Sanpaolo.
13 Herta Müller
Vince a sorpresa il Nobel per la letteratura. Ma questa scrittrice tedesca di origine romena, fuggita
dal regime di Ceausescu, in realtà in Europa aveva già molti lettori. Complimenti a Keller, lo
sconosciuto editore di Rovereto che l’ha pubblicata.
14 Federica Pellegrini
In acqua è la più veloce del pianeta: ai Mondiali di Roma è stata la prima donna a scendere sotto i 4
minuti nei 400 stile libero. Ma ha vinto anche la bulimia, gli attacchi di panico e il dolore, enorme,
per la morte del suo allenatore.
15 Johanna Sigurdardottir
Leader socialista, lesbica felicemente sposata, dal primo febbraio guida l’Islanda. Non sono state le
quote rosa a farla primo ministro, ma i conti in rosso: dopo la bancarotta l’Islanda sembrava non
credere più a nulla. Ma a lei sì: in piena bufera registrava un gradimento del 70 per cento. Che
resiste.
16 Elinor Ostrom
Nell’anno della crisi, il Nobel per l’Economia va per la prima volta a una signora. Insegna
all’Indiana University di Bloomington, negli Usa, non è una specialista in macrosistemi ma una
studiosa del rapporto tra uomini e ambiente, in particolare della gestione delle risorse comuni. A
partire dall’acqua.
17 Yoani Sanchez
La 34enne blogger dell’Havana racconta, nonostante le minacce, le botte e i divieti del regime, la
difficoltà di vivere a Cuba oggi. Aggirando da hacker le barriere on line imposte da Fidel.
18 Penélope Cruz
Strano, ma l’Oscar come non protagonista (quello da protagonista è andato a Kate Winslet) lo ha
vinto con un film di Woody Allen, Vicky Cristina Barcelona, e non con Almodovar. Caliente e
sensuale, inizia il 2010 con Nine, remake di 8 ½.
19 Zeynep Fadillioglu
Architetto e designer turca, ad aprile ha inaugurato Sakirin, la prima Moschea del suo Paese a
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Post/teca
sorgere sul progetto di una donna. Lei, ovvio, non indossa il velo. E nel suo studio assume solo
donne.
20 Barbara Hogan
Prima bianca accusata di alto tradimento nel Sud Africa dell’apartheid, condannata a 8 anni di
carcere, 27 anni dopo l’arresto è ministro della Sanità. In prima linea contro l’Aids, ha molto da
fare: chi l’ha preceduta sosteneva che contro l’Hiv basta mangiare aglio e limoni...
21 Elizabeth H. Blackburn
Bush la escluse brutalmente dalla Commissione per la Bioetica. Il Nobel per la Medicina è stata la
sua vendetta.
22 Carol W. Greider
La scoperta della funzione dell’enzima antinvecchiamento le fa guadagnare, a pari merito con la
Blackburn, il Nobel per la Medicina.
23 Noerina Kaleeba
Medico ugandese, è stata la prima in Africa a preoccuparsi dei sieropositivi e della prevenzione
dell’Aids. Presidente di ActionAid International, a giugno il Quirinale l’ha nominata Grande
ufficiale Ordine al merito della Repubblica italiana.
24 Ada E. Yonath
Israeliana, intasca con due colleghi il premio Nobel per la chimica. I suoi studi sulle cellule che
trasferiscono le informazioni del Dna servono anche a potenziare alcuni antibiotici.
25 Veronica Lario
Impermeabile alle critiche non sempre signorili dei giornali della sua ex famiglia, la "dama di cuori"
di Macherio va alla guerra coniugale. Nel nome della dignità offesa da un marito «bisognoso di
cure». E degli interessi disattesi dei tre rampolli. Tre milioni di euro di alimenti al mese basteranno?
26 Ilaria Cucchi
Esile e risoluta, continua a credere nella giustizia. Nonostante il corpo sfigurato del fratello e il
mistero che ha accompagnato le sue ultime ore. Ma chiede risposte chiare.
27 Flavia Pennetta
«Noi donne siamo più forti e determinate dei maschi, per questo vinciamo». Non le manda a dire la
bella tennista brindisina, prima italiana della storia a entrare nella top ten del ranking mondiale.
28 Rania di Giordania
Bella, colta, intelligente, si batte per migliorare la condizione delle donne nel suo Paese. Ama i
social network e comunica con i sudditi attraverso twitter. Lanciando una bomba: «Nell’Islam non
c’è posto per i delitti d’onore».
29 Flavia Perina
Il direttore del Secolo d’Italia, finiana di ferro, modera, con una chiarezza inconsueta nella politica
italiana, il dibattito all’interno della destra. Senza preoccuparsi di dispiacere a Berlusconi.
30 Taslima Nasreen.
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Medico, attivista per i diritti umani. Sulla testa dell’intellettuale bengalese insignita del premio
Sakharov, pende una taglia di 500 mila rupie per la decapitazione, offerta dai fondamentalisti
islamici. Lei vive nascosta in India.
31 Mu Sochua.
Parlamentare dell’opposizione in Cambogia, candidata al premio Nobel per la pace, in lotta aperta
con il discusso primo ministro Hun Sen dal 2004, si è dimessa da ministro delle Donne accusando il
governo di corruzione. Ora rischia la vita.
32 Catherine Ashton
L’inglese che ha soffiato a D’Alema il posto di ministro per la politica estera Ue. Sconosciuta fuori
dal suo Paese, laburista, curriculum politico opaco. Milady, ora ci stupisca.
33 Clotilde Reiss
La giovane ricercatrice francese partecipa alle proteste post-elettorali a Teheran e finisce in galera
per spionaggio. Ora aspetta la sentenza chiusa nell’ambasciata francese.
34 Milena Gabanelli
La Rai minaccia di togliere a Report la tutela legale, mettendo a rischio la trasmissione. Lei
risponde a suon di scoop e scova persino il tesoretto di Calisto Tanzi, sedicente nullatenente che in
cantina nasconde Monet, Picasso e Van Gogh.
35 Anne Lauvergeon
Incoronata di nuovo "donna più potente di Francia" da Forbes, a cinquant’anni si mantiene più
salda che mai sul trono di Areva, la società che Oltralpe controlla il settore nucleare.
36 Emma Marcegaglia
Copenhagen, la crisi, l’occupazione, la Finanziaria: Emma non perde un colpo e fa sapere la sua ai
giornali e a Tremonti. Che ha sempre un filo d’ansia quando passa da viale dell’Astronomia.
37 Petra Reski
Nel suo libro Santa Mafia, un viaggio da Palermo a Duisburg passando per Calabria, Campania e
Nordest, la giornalista tedesca racconta gli intrecci della "comunità mafiosa europea". Perché «la
mafia non è un problema solo italiano».
38 Esther Dyson
Svizzera, guru dell’hightech, attivissima nel mondo delle start-up. Non soddisfatta, quest’anno si
allena per un viaggo sulla Stazione spaziale internazionale a bordo di una Soyuz.
39 Elif Shafak
Scrittrice turca, processata in patria (e poi assolta) per aver denunciato il genocidio degli armeni in
La bastarda di Istanbul, con il nuovo libro, Le quaranta porte, ha già venduto mezzo milione di
copie.
40 Joana Carneiro
Nata 33 anni fa a Lisbona, direttrice d’orchestra, da gennaio è a capo di quella di Berkeley in
California. A settembre ha diretto un concerto alla Fenice di Venezia, acclamata dagli stessi
musicisti. In genere ossi duri con le donne.
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41 Irina Bokova
Ex ministro degli Esteri della Bulgaria, 57 anni, a fine settembre batte per quattro voti il ministro
della Cultura egiziano Farouk Hosni ed è eletta direttore generale dell’Unesco. La prima volta di
una donna.
42 Michelle Obama
Imponente e ipertonica, continua a regnare sul cuore del fascinoso consorte e sulle piantine
biologiche della White House. Qualcosa di più, inutile negarlo, da lei poteva arrivare, perciò dalla
top ten dell’anno scorso l’abbiamo retrocessa. Si svegli signora; torni a essere l’avvocato che era.
43 Roxanne Saberi
Quattro mesi di carcere a Teheran, 15 giorni di sciopero della fame, l’ospedale. La giovane
giornalista iranianoamericana, condannata a otto anni per spionaggio, diventa un caso diplomatico.
Finché con il processo d’appello esce finalmente di prigione.
44 Whitney Houston
A 46 anni, la cantante di colore seconda solo a Michael Jackson per successo e vendite si getta alle
spalle la droga e un matrimonio violento. E rinasce sul palco degli American Music Awards.
45 Benedetta Tobagi
In Come mi batte forte il tuo cuore ricostruisce la figura storica e privata del padre Walter, firma
prestigiosa del Corriere della sera, ucciso dalle Br nel 1980 quando lei aveva solo tre anni. Un
viaggio nel passato tra emozioni, archivi, testimonianze. Che riguarda lei. E anche tutti noi.
46 Anna Maria Artoni
Riacclamata presidente degli imprenditori dell’Emilia Romagna, mantiene posti di comando in
società importanti. Una delle rare first lady del panorama economico italiano.
47 Mina Gregori
A Firenze, l’austera storica dell’arte è stata tra i primi a lanciare l’allarme: le vibrazioni del tram
avrebbero potuto danneggiare i mosaici del Battistero. La prof è scesa in piazza. E alla fine ha vinto.
48 Livia Pomodoro
Prima (e finora unica) donna presidente di tribunale in Italia: in meno di due anni ha trasformato il
kafkiano Palazzo di Giustizia di Milano. Inaugurando il processo civile telematico.
49 Christine Lagarde
Per gestire il triplo dicastero francese Economia-Finanze-Industria e per farlo al punto da essere
nominata "miglior ministro all’Economia d’Europa", ci vuole una signora con i muscoli. Lagarde se
li è fatti da giovane, quando era campionessa nazionale di nuoto sincronizzato.
50 Miuccia Prada
Time Magazine la consacra come una potenza nel campo della moda. Ma Prada non è solo fashion.
Insieme al marito Patrizio Bertelli ha curato un libro, appena uscito, che racconta trent’anni di vita
attraverso i progetti del marchio nel mondo dell’architettura, dell’arte, del cinema.
51 Yoko Yamaguchi
Eccentrica designer giapponese è la mamma della gattina rosa Hello Kitty. Un fenomeno che
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Post/teca
stupisce per il fatturato da capogiro e la somiglianza tra Yoko e la sua creatura.
52 Luciana Littizzetto
È il grillo parlante di Che tempo che fa. Il ruolo le sta così bene che lo ha interpretato anche nel
Pinocchio televisivo. La sua irriverenza dimostra che la tv non è solo per showgirl desnude.
53 Michelle Bachelet
Il Cile si prepara alla successione della Presidenta: qui non si corre per un secondo mandato e
Michelle si è fatta diligentemente da parte. Nonostante un gradimento dell’80 per cento.
54 Diana Bracco
La ripresa fa capolino, ma la vicepresidente di Confindustria non gongola. E dice: «Mettiamo la
ricerca al centro della politica e sarà un nuovo miracolo economico».
55 Amalia Ercole
Finzi Ordinario di meccanica orbitale al Politecnico di Milano, decana dello spazio, nel 2012 vedrà
in azione la trivella da lei progettata, che perforerà la Luna.
56 Silvia Colasanti
Romana, compositrice classica, emergente ma già richiestissima: a 34 anni trionfa nella capitale con
l’Orfeo e a Milano con l’Orchestra Verdi.
57 Kim Clijsters
L’ultima delle mamme vincenti, si fa immortalare con la coppa degli Us Open mentre accarezza la
figlia Jade, 18 mesi. Dopo aver battuto le due sorelle Williams in uno stesso torneo.
58 Serena Dandini
Non urla, è pacata, usa le armi dell’ironia. Mette a suo agio perfino il silenzioso allenatore Zeman.
Ma Parla con me dà fastidio a parecchi, e con molti colleghi, soprattutto di RaiTre, è nella lista nera
del Premier.
59 Lucrezia Reichlin
In risposta alle critiche di chi la contestava quando guidava la Ricerca alla Banca centrale europea,
la prestigiosa London Business School la ingaggia come Professor of Economics.
60 Renata Polverini
Membro del Comitato economico e sociale europeo, la Segretaria dell’Ugl, il sindacato vicino al
centrodestra, avrebbe dovuto candidarsi alle regionali del Lazio. «È bravissima» dicono nel Pdl. Ma
la silurano.
61 Francesca Pasinelli
Importa in Italia i sistemi internazionali di valutazione della ricerca e trasforma l’assegnazione dei
fondi Telethon in un modello di efficienza. Ora la ricercatrice prestata al management è diventata
direttore generale di Telethon.
62 Ghada Abdel Aal
Farmacista egiziana, trentenne, single, affida a un blog la sua rocambolesca ricerca di un uomo da
sposare e pubblica un bestseller, Che il velo sia da sposa (Epoché). Per tutti, ormai, è la Bridget
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Post/teca
Jones del mondo arabo.
63 Aminatou Haidar
Incarcerata e torturata, è la "Gandhi del Sahara Occidentale", il territorio rivendicato dal popolo
saharawi. Da tre anni girava il mondo per raccontare il dramma della sua gente. Da novembre, il
Marocco non la fa più entrare e lei è confinata alle Canarie.
64 Concita De Gregorio
Prima donna al timone dell’Unità, nel settembre scorso il suo predecessore Antonio Padellaro si
porta via la star Marco Travaglio e manda in edicola Il Fatto quotidiano. La sfida sembrava persa.
Invece no: il giornale fondato da Antonio Gramsci vende il 10 per cento in più rispetto al 2008.
65 Beyoncé
Eletta "Donna dell’anno" dall’industria del disco Billboard, è la terza cantante più pagata al mondo.
Si è esibita per Barack Obama nel giorno dell’insediamento, ha partecipato a un film e vinto un
American music award. Cos’altro?
66 Anna Finocchiaro
Capogruppo del Pd al Senato, membro del comitato nazionale del partito. Non perde mai le staffe.
Ma a volte questa sua calma sembra un po' troppo d’apparato.
67 Zhang Ziyi
Paparazzata mentre fa l’amore con il fidanzato, l’attrice cinese più richiesta in Occidente ha resistito
al gossip, prodotto il primo film e vinto il premio Huabiao.
68 Sonia Gandhi
La vedova "italiana" di Rajiv per dare il buon esempio vola in classe economica. Il governo
(indiano) l’ha imitata.
69 Debora Serracchiani
Il 21 marzo 2009 attacca la dirigenza Pd e si guadagna un’improvvisa notorietà. In aprile si candida
alle europee: vince, doppiando i voti di Berlusconi. Poi scompare.
70 Gina Trapani
Informatica, guadagna fama sul web con il blog Lifehacker: oltre 25 milioni di visite al mese.
71 Stefania Faggi
insegnante della periferia milanese, da un anno e mezzo portava a scuola i suoi alunni rom. Ora di
molti di loro non si sa più nulla: la "pulizia" voluta dal Comune ha cancellato il campo in cui
vivevano.
72 Skin
Dopo due sdolcinati dischi da solista la pantera nera del rock e icona lesbo si riunisce agli Skunk
Anansie. E torna a incendiare i palcoscenici.
73 Bianca Berlinguer
Grinta da vendere e charme riconosciuto dagli avversari. L’ultimo direttore del Tg3, cresciuta alla
scuola di Minoli e Curzi, ora promette «un nuovo modo di raccontare la politica».
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Post/teca
74 Anita Rachvelishvili
Sembra una favola, quella del soprano venticinquenne nata in Georgia. Si lava con la neve, i
genitori credono nella sua voce e ipotecano la casa per farla studiare. Si presenta all’audizione con
il maestro Barenboim per un ruolo minore, ne esce come Carmen e debutta alla Scala.
75 Alessia Montagnoli
Coordina un gruppo di ricerca al Nerviano Medical Sciences. Quando la proprietà minaccia di
chiudere, con le colleghe blocca la tangenziale per Milano. Il Centro, ultimo istituto italiano a
brevettare farmaci antitumorali, si salva.
76 Zhang Xin
Il patrimonio di questa 43enne che sta trasformando Pechino è di due miliardi di dollari: al 19esimo
posto della classifica di Forbes dei 400 paperoni del mondo.
77 Sonal Shah
Indiana, emigrata negli Stati Uniti a quattro anni, è stata la prima responsabile del nuovo Office of
Social Innovation appena creato dalla Casa Bianca per sostenere lo sviluppo di programmi sociali.
78 Giovannella Mascheroni
Produttrice di vino in Chianti, il suo Puro è la prima etichetta italiana "a impatto zero". Fa bene
anche ai bambini etiopi, che avranno scuole e pozzi grazie ai fondi destinati per ogni bottiglia.
79 Evghenia Chirikova
Giovane madre russa, diventa leader del movimento in difesa del bosco di Khimki contro
l’autostrada finanziata da una multinazionale francese. E diventa il volto della società civile
sopravvissuta a Putin.
80 Aziza Mustafa Zadeh
Ha cominciato a vincere premi a 17 anni; oggi, a 40, la "principessa del jazz", pianista, cantante e
compositrice dell’Azerbaijan da 15 milioni di copie, è uno dei migliori talenti musicali al mondo.
81 Emma Dante
La sua Carmen ha suscitato applausi e fischi. Come si conviene agli innovatori. La regista ha
ricevuto l’anatema di Franco Zeffirelli («Questa Carmen è il diavolo»). All’istante, su Facebook è
nato un forum in sua difesa.
82 Kazuyo Sejima
Archistar giapponese, classe 1956, prima donna alla guida della Biennale architettura. Il suo debutto
è per il 29 agosto 2010.
83 Samantha Cristoforetti
È la prima astronauta donna italiana. Due lauree, quattro lingue, molte qualità. Tanto che "rischia"
di essere la prima donna ad andare sulla Luna.
84 Arline Kercher
Oppone una dolente discrezione alla battaglia mediatica dei coniugi Knox. Ritiene equa la sentenza
che condanna Amanda e Raffaele a 26 e 25 anni per l’omicidio di sua figlia Meredith e non
accampa le "scarse capacità della giustizia italiana".
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85 Ann E. Dunwoody
Paracadutista in Arabia Saudita durante la prima guerra del Golfo, ora è Generale a quattro stelle.
Un inedito nella storia delle forze armate americane.
86 Nicole Kidman
L’abbiamo messa in copertina, ma piuttosto in basso nella classifica. Perché è una delle attrici più
belle di Hollywood, recita, canta e ha cervello. Ma era necessario il ritocchino?
87 Noemi
L’hanno eliminata alla 12° puntata ma lei l’X-Factor ce l’ha davvero. Da allora ha pubblicato 2 cd.
E il primo album, Sulla mia pelle, vince due dischi d’oro.
88 Yang Mianmian
È considerata la cinese più potente al mondo. Dal 2005 presiede il gigante degli elettrodomestici
Haier, prima donna ad arrivare così in alto senza avere studiato all’estero.
89 Patti Smith
Festeggia a Firenze un trentennale di cui solo lei può andare fiera: il concertone che segnò il suo
ritiro dalle scene, la fine di Patti rockstar e l’inizio di Patti poetessa e artista.
90 Serena Williams
Multata per 175mila dollari e sospesa per due anni, dopo l’ennesima scenata agli Us Open si
riscatta: crea una Fondazione, offre borse di studio. E vola in Kenya, dove ha aperto una scuola
sportiva.
91 Lady Gaga
Più sexy che bella, trasgressiva, è stata la rivelazione musicale dell’anno: i suoi tormentoni Poer
face e Paparazzi fanno parte della colonna sonora 2009.
92 Elisabetta Canalis
Vero amore o operazione a tavolino? La love story con George Clooney l’ha messa al centro del
tritatutto mediatico. Eli ne approfitta. E fa rodere mezza Italia.
93 Justine Masika Bihamba
Una delle poche, nella Repubblica Democratica del Congo, ad aver denunciato gli stupri commessi
dai militari. Ha fondato un movimento per dire basta all’effetto collaterale più crudele della guerra
nel Kivu.
94 Chiara Turati
Elabora un progetto sullo sviluppo dei neuroni specchio, che permettono di comprendere le azioni
altrui e di rifletterle reagendo. E ottiene dal Consiglio europeo delle ricerche un finanziamento di €
1.208.400.
95 Sarah Palin
Risorta dalle ceneri non sta mai zitta: polemizza con Newsweek, vende un milione di copie del suo
libro e torna prepotentemente sulla scena.
96 Arisa
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Post/teca
Look anni 30, occhialoni quadrati: la Gigliola Cinquetti del terzo millennio vince a sorpresa
Sanremolab con Sincerità, 70.000 copie vendute.
97 Carla Bruni
Già modella e cantautrice, la signora Sarkozy dice sì a Woody Allen per il nuovo film e confessa:
«Non sono un’attrice ma non posso perdere quest’occasione». Si annoiava?
98 Chulpan Khamatova
Attrice russa di cinema e teatro, la migliore dell’Est Europa. Con una vocazione per il sociale: la
sua fondazione "Regala la Vita" aiuta bambini affetti da leucemia.
99 Marina Berlusconi
Quasi non fa più notizia: è fissa nella classifica di Forbes delle 100 donne più potenti del mondo.
Quest’anno sale al posto numero 33. Ma la novità del 2009 per lei è aver incrinato la sua
riservatezza per difendere papà.
100 Fiorenza Vallino
Scelta per acclamazione dalla redazione intera la numero 100: il nostro direttore che dopo 13 anni di
successi lascia la guida di Io donna. Con affetto (e un po’ di sana piaggeria) diciamo che per noi è la
numero 1: signora Merkel, si faccia più in là.
(a cura della redazione attualità)
17 dicembre 2009
Fonte: http://www.corriere.it/cronache/09_dicembre_17/marina_terragni_cento_donne_606e0c04eb0f-11de-9f53-00144f02aabc.shtml
-------------------------articolo di lunedì 21 dicembre 2009
Il boom dei libri elettronici fa sgobbare gli
editori
di Antonio Armano
I "lettori" digitali hanno venduto bene nel 2009 nonostante i pochi titoli disponibili. E si
firmano i primi accordi per rimpolpare i cataloghi. Per Natale sono tra i doni più
gettonati: in molti negozi sono esauriti
Piccolo mondo antico. Fermo e Lucia. E poi, oltre a Fogazzaro e Manzoni, Salgari. E
Mastro Don Gesualdo del Verga. Questi i titoli in cui s’incappa cercando libri in lingua
italiana, formato elettronico, sul web. Il romanzo dell’800 fuori copyright. Oppure
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Post/teca
Kafka, La metamorfosi. E naturalmente Eco, ma solo un convegno: Autori e autorità.
Persino su eMule, programma per piratare, non c’è niente a parte qualche ricettario
ispirato da trasmissioni Rai. Al contrario su Amazon.com: oltre 350mila titoli in inglese.
Da Philip Roth a Dan Brown. Del resto vende uno degli e-book-reader (lettori digitali)
più diffusi, il Kindle. Si collega wireless da tutto il mondo senza costi di connessione,
scarica in 60 secondi un libro. Prezzo basso: sui 200 euro. Unico inconveniente: non
legge il formato standard degli e-book, l’ePub, ma quello Kindle.
Non diversamente da altri Paesi europei, l’Italia è indietro sul tema degli e-book rispetto
a Stati Uniti e Regno Unito. Non per niente il Sony, uno dei più popolari e-book-reader,
manco è distribuito in Italia. Eppure il 2009 è stato l’anno del boom: sotto Natale, nelle
principali librerie di Milano gli e-book-reader erano esauriti, in attesa di arrivare, in
tempo per gli ultimi regali. Vedi Feltrinelli e Mondadori. Alla Fnac era rimasto solo un
modello, il Cybook Opus, prodotto dalla francese Bookeen, il più economico e diffuso in
Italia: «Abbiamo cominciato a vendere davvero a partire da quest’estate», dicono alla
Fnac. Siamo lontani dai tre milioni di pezzi venduti negli Stati Uniti nel 2009 ma
qualcosa si muove. «Chiudiamo l’anno con una vendita totale di circa 30mila e-bookreader» dice Luigi Passerino, direttore commerciale di Simplicissimus. La società, nata
nel 2005, si trova sopra al santuario di Loreto, ubicazione che riflette una certa fiducia
nel miracolo, è l’unica che distribuisce in Italia lettori di libri elettronici: tra cui Cybook,
BeBook e il più costoso iLiad, dal nome omerico. Il dato del 2009 è pari alle vendite
totali dei precedenti anni.
Ma gli editori sono ancora «in fase di studio». Soprattutto i più grandi. Mondadori ha
messo online gratis alcuni titoli tipo Dickens. Classici inglesi soprattutto. Ma il 2010
riserva novità: «Abbiamo stretto un accordo - dice Passerino - con gli editori associati a
Fidare che riunisce i marchi indipendenti. A partire dai primi mesi dell’anno inizieremo a
commercializzare sul nostro sito i primi titoli». Ma chi sono questi editori indipendenti?
Dando un’occhiata all’elenco scorgiamo nomi poco noti, a parte Instar, Pequod, Fratelli
Frilli, e soprattutto Iperborea, editore milanese che pubblica scandinavi come Björn
Larsson (Il pirata Long John Silver), Arto Paasilinna (L’anno della lepre), Johan Harstad
(Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?).
Gira poi voce che Nottetempo, non associata a Fidare, stia mettendo il catalogo in
formato elettronico. Basta fare una telefonata per ottenere smentita. «Guardiamo con
crescente interesse il fenomeno e-book, come tutti in questo momento. Ma siamo ancora
alla fase di studio, non a quella progettuale». Per un editore la metamorfosi digitale del
catalogo non è impresa da poco. Uno pensa: ma i libri, da diversi anni, non sono già tutti
su file, già tutti scritti al computer? «Negli ultimi anni i libri sono in un formato grafico
molto comune, il pdf» dice Pietro Biancardi, che si sta occupando in Iperborea del
progetto e-book. «Ma il pdf è un formato rigido che non si adatta bene allo schermo di
un e-book-reader. Bisogna ingrandire o diminuire continuamente. Una rottura di scatole.
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Post/teca
Il formato internazionale più diffuso per gli e-book, l’ePub, si adatta automaticamente
allo schermo». Convertire dal formato pdf a quello ePub quanto costa? «Un euro a
pagina. Mentre, per i libri più vecchi, quelli su pellicola, siamo intorno a 2,5». Se
teniamo conto che un libro ha mediamente sulle duecento pagine il costo per libro è
duecento euro, non tantissimo... «Ma bisogna moltiplicare per l’intero catalogo e
considerare i testi più lunghi». Dunque un editore per cento titoli deve sborsare sui
50mila euro.
«L’offerta di Simplicissimus ci ha spinti ad accettare. Loro si accollano il costo della
conversione che poi detraggono dalle vendite». E a che prezzo venderete? «Il prezzo
medio di un e-book è simile a quello d’un tascabile». Dovrete concedere a
Simplicissimus.it la vendita in esclusiva? «No, possiamo vendere anche sul nostro sito.
Sarà l’occasione per rinnovarlo creando una community, un blog».
Probabilmente i grossi editori si faranno da soli la conversione e sembrano orientati
verso portali di vendita come Ibs. Si parla pure di un ingresso nella vendita online di
Feltrinelli. Ce ne vorrà di tempo prima che i big mettano online l’intero catalogo ma
l’importante è partire. «Una delle sfide è decidere quali titoli convertire in e-book» dice
Biancardi. In genere qual è la scelta? «I bestseller, poi i longseller, ovvero i libri che si
continuano a vendere da anni, e naturalmente le ultime uscite». Si dice che la
manualistica, dalle guide di viaggio ai libri scolastici, sarà la più toccata dal fenomeno ebook, per la possibilità di aggiornamento continuo del testo.
«Eppure su Amazon la narrativa è la più venduta. Certo la manualistica sarà toccata dal
fenomeno e-book in modo consistente. C’è un decreto ministeriale che impone la
conversione al digitale dei testi scolastici». Un e-book-reader da un paio di etti al posto
dello zaino da venti chili! Gli alberi ringraziano e pure le schiene degli studenti. In un ebook-reader come il Kindle stanno 1.500 volumi. Una tonnellata di testi. Bisogna essere
tecno-ottimisti? Altra difficoltà del caso è quella dei diritti. «Stiamo contattando i nostri
autori e i loro agenti per proporre la conversione digitale» dice Biancardi.
Come hanno risposto? Gli scandinavi dovrebbero essere aperti alle novità tecnologiche.
«Alcuni hanno accettato. Altri pongono condizioni troppo onerose, chiedono anticipi.
Altri ancora preferiscono aspettare, vedere come si evolve la situazione». Per il
momento quello degli e-book in italiano resta un piccolo mondo antico, un universo
scandinavo, kafkiano o un convegno con Eco. Forse solo per poco.
Fonte:
http://www.ilgiornale.it/cultura/il_boom_libri_elettronici_fa_sgobbare_editori/e_booklibri_elettronici/21-12-2009/articolo-id=408595-page=0-comments=1
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Post/teca
Ebook e segnali deboli
Editori, siete pronti? L’onda è in arrivo
di Giuseppe Granieri
Jeff Bezos e il Kindle di Amazon in copertina su Newsweek il 26/11/2009
21
dic
2009
Quel che è stato per la musica molto presto sarà anche per il libro. Dietro alla diffusione
degli ebook, giunti alla soglia della maturità, c’è un mercato in rapida e irrimediabile
evoluzione
Sin dai primi tempi della diffusione del web siamo sempre stati accompagnati da una
certezza, un punto di riferimento solido tra le mille cose destinate a cambiare con
l’arrivo di Internet nelle nostre società. «I libri», ci dicevamo, «non saranno mai attaccati
da questa trasformazione dei media». A nostro reciproco conforto vantavamo gli
argomenti più vari: dalla comodità del supporto (un amico mi ripeteva sempre che il
libro puoi portartelo a letto e persino in bagno, il computer no), all’affetto romantico per
l’oggetto, alle sue virtà di arredo, alle tante pratiche sociali che un libro accompagna.
C’è tutta una ritualità intorno al libro rilegato, importantissima per ogni bibliofilo. Una
ritualità che assomiglia molto a quella che un tempo, con modi e forme diverse, si
associava alla lettura del quotidiano di carta. Attività che pure oggi ci pare già un po’
vintage, superata dai tempi di un’informazione più ricca e veloce.
Evoluzione lenta
Sono passati quasi tre lustri e oggi cominciamo a vedere segnali molto diversi. Segnali
che abbiamo incominciato a riconoscere perchè li abbiamo già visti in passato. Prima li
abbiamo decodificati a posteriori con il cambiamento del mercato musicale, travolto da
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Post/teca
una profonda mutazione che nessuno ha avuto tempo di diagnisticare prima che
avvenisse. Poi li abbiamo rivisti, fin troppo simili nel dare indicazioni, con l’editoria di
informazione. Per anni si sono lette, più in rete che fuori (com’è ovvio), analisi e
previsioni che indicavano quanto stava per accadere. Analisi che l’establishment dei
grandi news media considerava incompetenti e naïf, salvo poi cominciare da un annetto
a rifare dall’interno le stesse analisi dopo aver subito i primo duri colpi della crisi.
Oggi tocca all’editoria libraria. In uno sguardo di breve periodo non sta succedendo
nulla di particolarmente allarmante. È la lenta evoluzione delle cose che si combatte
come tutte le lente evoluzioni combattute dalle organizzazioni difensive: si cerca di
difendere il consolidato senza farsi troppe domande. In quest’ottica non predittiva ci
sono degli aggeggi nuovi, i cosiddetti ebook reader, che hanno una piccola porzione del
mercato. Negli Stati Uniti tra il 5 e il 10%, e qui da noi cifre risibili e non pervenute
all’attenzione della cronaca. Ci sono librai online che si fanno la guerra al ribasso dei
prezzi, ma nulla che esuli particolarmente dalla norma.
Tutto più o meno come sempre, le solite schermaglie di mercato. Eppure, se in Italia
nessuno sembra percepire nulla (se ne parlerà come al solito con due anni di ritardo
rispetto agli Stati Uniti), oltreoceno il mercato viene definito nervoso, gli operatori sono
tesi e si parla apertamente di guerra anche su testate mainstream come il New York
Times. Per capire cosa sta succedendo occorre ampliare lo sguardo e ragionare sul medio
periodo.
Segnali deboli
Ci sono diversi segnali deboli all’orizzonte. Un insieme di fattori convergenti che, se
individualmente significano poco, messi insieme annunciano un grande problema in
arrivo. Il primo di questi filoni di preoccupazione è lo sviluppo dei dispositivi elettronici
che consentono di leggere libri. Questi device hanno ormai superato la fase di protostoria
e sono diventati competitivi, offrendo un’esperienza di lettura diversa ma affatto
inferiore al libro di carta. Hanno inoltre alcuni vantaggi funzionali non trascurabili:
possono immagazzinare centinaia di titoli in pochi grammi, consentono di operare sul
testo e di fare ricerche, si arricchiscono di nuovi titoli acquistati in pochissimi secondi.
C’è ancora qualche problema, come in tutte le tecnologie giovani, ma fa parte del gioco:
il catalogo non è onnicomprensivo, si lotta per affermare standard diversi. C’è
potanzialmente anche una grande capacità di farli dialogare con il computer e con un
altro fronte di dispositivi in forte crescita: gli smartphone (che hanno una crescita media
annuale del 200% su diversi mercati nazionali e sono già una realtà negli States). E
presto comunicheranno anche con i tablet.
Roba per geek, apparentemente. E in effetti i primi dati disponibili raccontano che sono
proprio i lettori forti, in America, i geek che sostengono un costo iniziale alto per dotarsi
di questi lettori. Ovvero: i maggiori acquirenti di libri sono quelli che guidano la
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Post/teca
transizione. L’esperienza dice che, quando una tecnologia arriva a questo punto, il passo
successivo è facile da predire: i prezzi scendono e la diffusione aumenta. C’è sempre un
momento in cui una cosa che abbiamo fatto per tutta la vita in un certo modo ci sembra
di colpo vecchia rispetto al modo in cui possiamo farla oggi.
Prezzi al ribasso
Il secondo segnale arriva da lontano. Le grandi librerie online, in particolare Amazon e
Barnes&Noble, hanno aumentato la spinta verso il basso dei prezzi. Questa
competizione al ribasso ha portato anche distribuzioni tradizionali e grande distribuzione
(come Wal-Mart) a cercare di essere competitive. Molte novità, che prima erano vendute
anche a 30 dollari, oggi sono prezzate a meno di 10. Da questa battaglia non si torna
indietro, ed è una battaglia che erode profondamente il sistema di ricavi e quindi tutta la
logica tradizionale del business e di sostegno ai costi. A questo, tuttavia, va aggiunto il
contributo degli ebook, che si innestano nella concorrenza tra i prezzi a un livello più
basso e che per molti lettori rappresentano una scelta già valida. Solo a settembre gli
ebook negli Stati Uniti valevano già una quindicina di milioni di dollari di fatturato. E se
alcuni editori provano a giocare di rimessa ritardando l’uscita della versione ebook, il
New York Times li bacchetta dicendo che giocano contro il loro futuro.
Ma lo scenario è ancora più complesso, perchè la crescita degli ebook porta con sé
significati molto più dirompenti. Se Amazon ha vinto la battaglia per gli ebook reader (il
Kindle non ha rivali e tenderà a consolidare la sua posizione perchè da questo dominio
deriverà una maggiore offerta di contenuti), gli editori hanno perso quella per il controllo
delle piattaforme di distribuzione e di vendita, che per la natura digitale del prodotto
possono facilmente diventare piattaforme anche di edizione. Dovranno sempre più
venire a patti con Amazon, se vorranno vendere, e corrono anche il rischio di essere
saltati allegramente. L’ultimo dei segnali deboli, infatti, riguarda il primo caso di autore
di bestseller che si accorda direttamente con Amazon. Un precedente assai significativo,
che potrebbe aprire una strada molto redditizia
per gli autori. E per Amazon.
Fattori di cambiamento
Cosa succederà dunque? Difficile da dire con previsione certa. Le certezze sono poco
confortanti. I primi a soffrire probabilmente saranno i librai e i distributori. Gli editori
dovranno reagire con molta prontezza, perchè i cambiamenti nelle organizzazioni sono
cosa lunga e conviene farli per tempo. I libri, quelli di carta (ma la distinzione sfumerà e
anche il ricordo), resisteranno, se è vero che ci sono ancora appassionati musicofili che
comprano il vinile. Ma, come dice Stefano Bonilli, che nel settore ci sta da una vita,
difficilmente saranno ancora il business principale. Il vero fattore di cambiamento,
infatti, non è il confronto tra libro digitale e libro rilegato, che è persino un finto
problema. Il dato con cui bisogna scendere a patti è il cambiamento del sistema, in cui se
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cambiano le relazioni tra alcuni elementi cambiano le relazioni tra tutti.
Quale potrà essere il ruolo dell’editore se il 90% dei ricavi passerà per le piattaforme
digitali che l’editore non controlla? Gli autori avranno ancora bisogno di un editore se
potranno accordarsi direttamente con l’Amazon di turno per vendere i loro testi? Come
si riconfigurerà l’economia dell’abbondanza nel mercato editoriale? Secondo alcuni sarà
la fine della professione dell’editore. Secondo altri questo è il decennio in cui tutto può
venire giù, ma c’è anche molto spazio per inventare strade nuove. Per il momento,
Amazon rischia di diventare per gli editori quello che è Google oggi per i news media: il
nemico che ruba loro potere e ricavi. Il Kindle ha vinto la sua battaglia più difficile,
grazie al ritardo del Nook dei rivali di Barnes&Noble. Più il Kindle si diffonderà, più
richiamerà contenuti, più continuerà a diffondersi mentre gli altri perderanno terreno.
Inoltre l’azienda di Bezos sta lottando duramente, vendendo gli ebook sottoprezzo (e
perdendo circa due dollari a titolo a favore del margine degli editori), per rafforzare la
sua forza sul mercato. E la battaglia è anche tecnologica, perchè comprare un lettore di
ebook da un fornitore o dall’altro significa poter leggere solo i titoli venduti sul sistema
di chi te lo ha venduto. Quindi, ancora una volta, se il Kindle avrà maggior offerta, sarà
sempre il più appetibile sul mercato. E gli editori (e i lettori) dovranno adeguarsi.
In uno scenario simile, se continua su questa linea, far emergere un nuovo competitor
assomiglierà più o meno a cercare di creare l’anti-Google (cosa che hanno provato in
tanti). Non è dunque più una questione di preferenze: possiamo amare i libri quanto
vogliamo, ma sono cambiate le regole del gioco. Come è stato per la musica e per i
giornali di carta. E, per chi fa del settore un’attività imprenditoriale, è più urgente che
mai correre ai ripari. Anche in Italia, perchè – sebbene ancora non si vedano i segnali –
l’onda arriverà.
Giuseppe Granieri è tra i maggiori esperti italiani di comunicazione e culture digitali.
Scrive di tecnologia e società da molti anni su testate quotidiane e periodiche. È autore
per Laterza dei saggi Umanità accresciuta (2009), Società digitale (2006) e Blog
Generation (2005).
Fonte: http://www.apogeonline.com/webzine/2009/12/21/editori-siete-pronti-londa-e-inarrivo
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"No al ponte che unirà due mafie"
Ma l'oratore muore per infarto
A Villa San Giovanni interrotta la manifestazione contro l'opera sullo Stretto: un cinquantottenne ha
avuto un malore mentre interveniva sul palco. Gli organizzatori: "Soccorsi tardivi"
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VILLA SAN GIOVANNI (REGGIO CALABRIA) - Si sono ritrovati per protestare contro il ponte
sullo Stretto, ma la giornata non è andata come speravano. Uno degli oratori della manifestazione di
Villa San Giovanni, Franco Nisticò, cinquantottenne di Badolato (Catanzaro), è morto dopo avere
avvertito un malore mentre interveniva sul palco nella località di Cannitello. Nisticò era il
responsabile del Comitato per la statale 106 jonica costituito per chiedere la messa in sicurezza
dell'arteria.
Alcuni medici sono intervenuti per prestargli soccorso, praticandogli anche un massaggio cardiaco,
ma l'uomo è morto poco dopo il ricovero in ospedale, dove è stato portato con un'ambulanza della
polizia. La manifestazione è stata subito sospesa: una decisione presa dagli organizzatori in segno di
lutto ma anche di protesta perché, secondo loro, l'ambulanza del 118 che era stata chiamata dopo
che Nisticò aveva avvertito il malore, è arrivata in ritardo. Sempre secondo gli organizzatori,
l'ambulanza della polizia che ha soccorso Nisticò non era attrezzata per gli intervento di emergenza
necessari.
"Abbiamo fatto tutto il possibile e non c'è stato alcun ritardo nell'invio dell'ambulanza", ha invece
riferito il responsabile della Centrale operativa del 118 di Reggio Calabria. "Quando la nostra
ambulanza è arrivata - ha aggiunto - il suo intervento non si è reso necessario perché la persona da
soccorrere era già stata portata in ospedale con un mezzo della polizia di Stato. Ci siamo attivati nel
modo più rapido possibile e abbiamo fatto con tempestività quanto era necessario per salvare la vita
del paziente. Qualsiasi accusa nei nostri confronti, dunque, è priva di fondamento".
Nisticò, che negli anni scorsi era stato sindaco di Badolato, si batteva da tempo per l'attuazione di
interventi di ammodernamento e messa in sicurezza della statale 106, nota anche come "la strada
della morte" per i numerosi incidenti stradali che vi si verificano.
Prima della tragedia, la giornata è stata un susseguirsi di cori e slogan. "Il ponte unirà due mafie", è
una delle scritte tracciate sugli striscioni innalzati dai partecipanti. All'iniziativa hanno aderito, tra
gli altri, la Regione Calabria; la Fiom-Cgil, rappresentata dal segretario nazionale, Giorgio
Cremaschi; il Wwf, Legambiente e altre associazioni ambientaliste e il Comitato civico Natale De
Grazia, intitolato al capitano della Marina militare morto mentre indagava sulla presenza nei mari
calabresi di navi contenenti rifiuti tossici. Presenti anche ambientalisti provenienti dalla Sicilia e da
altre regioni.
Su un altro striscione riportata la frase "Fermiamo i cantieri del ponte, lottiamo per le vere priorità".
A Cannitello, frazione di Villa San Giovanni, il 23 dicembre è prevista la posa della prima pietra dei
lavori per la realizzazione dello spostamento della linea ferroviaria, opera funzionale alla
costruzione del ponte.
19/12/2009
Fonte: http://www.lasiciliaweb.it/index.php?id=32595&template=lasiciliaweb
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Post/teca
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22 dicembre 2009
Letteratura, conflitti e utopie. Intervista a Wu Ming
di Monica Mazzitelli
"Altai" è il nuovo romanzo del collettivo Wu Ming, appena uscito per Einaudi Stile Libero. Dopo la
fatica del romanzo americano “Manituana”, una pausa nella progettata trilogia per tornare alle
atmosfere del primissimo romanzo del collettivo (al tempo denominato “Luther Blissett”): il
celeberrimo “Q”, campione di vendite in Italia e tradotto in svariate lingue.
La storia di "Altai" (il nome ornitologico di una razza di predatori) si svolge a partire dal 1569,
qualche anno dopo la conclusione di “Q”, mettendo a confronto le due grandi potenze del
Mediterraneo: Europa e Impero Ottomano. Un agente segreto della Serenissima nascostamente
ebraico viene usato come capro espiatorio per un attentato incendiario all’Arsenale ed è costretto
a fuggire a Costantinopoli. Lì viene accolto dal suo supposto nemico, Giuseppe Nasi, giudeo
alleato del Sultano Selim II, che vuole conquistare una terra per crearvi un regno rifugio per gli
ebrei di tutto il mondo. Dal suo sogno, un assedio scellerato alla città cipriota di Famagosta e, a
seguire, la disfatta ai danni degli Ottomani nella battaglia navale di Lepanto, che segnerà l’inizio
del declino del Regno d’Oriente.
Quale urgenza narrativa o di altro tipo vi ha portati a scrivere questo romanzo invece che il
secondo libro della serie nordamericana iniziata con “Manituana”?
Il termine urgenza è quello giusto. All'inizio avevamo pensato a un momento commemorativo del
decennale di "Q", un racconto che riprendesse i personaggi che avevamo lasciato a Istanbul,
nell'epilogo di "Q". Ma qualcosa premeva, il materiale chiamava a gran voce e voleva essere
pensato, meditato e narrato. Abbiamo scritto in tempi ristretti, spinti da un senso di ineluttabilità.
C'era l'esigenza di confrontarsi con il nostro romanzo più venduto e famoso, la necessità di
elaborare il lutto causato dalla fuoriuscita di Wu Ming 3 dal collettivo, la voglia di focalizzare lo
sguardo su una vicenda lineare, conchiusa, in cui i personaggi si risolvessero all'interno di un arco
narrativo netto, più lineare rispetto a quanto avevamo fatto in precedenza. "Altai" è nato così.
Il legame politico con "Q" è molto forte, anche se in "Altai" la tonalità malinconia è più
preponderante rispetto a quella di dieci anni fa. C’è una delusione politico-sociale verso quell’
“altro mondo” che prima di Genova 2001 sembrava a portata di mano, ma che alla fine non pare
ancora possibile?
È troppo facile lasciarsi deludere dalla storia. Spesso è un modo per non ammettere d'aver deluso
se stessi. Il movimento altermondialista aveva ragione quando criticava i meccanismi di
finanziarizzazione dell'economia e le tendenze liberiste del capitalismo globale. Dopo Genova c'è
stato l'11 settembre, il tentativo di procrastinare lo scoppio della crisi attraverso la guerra.
Tentativo di ben corto respiro e a conti fatti fallimentare. Anche questo il movimento lo aveva
previsto, qualcuno addirittura lo aveva scritto già nel 2003. Quella stagione politica è stata l'ultimo
grido d'allarme prima della recessione planetaria che ha fatto mimetizzare i liberisti di tutto il
mondo. Avere avuto ragione però non può essere una consolazione. Oggi ci si pone il problema di
come riuscire a essere seminali. Dieci anni fa raccontavamo la storia di un rivoluzionario di
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Post/teca
passaggio; in "Altai" i personaggi si interrogano su come far sedimentare le proprie esperienze, su
cosa resterà “dopo” il loro passaggio.
Ci sono molti riferimenti all’attualità nel romanzo, dai barconi clandestini alla religione come
arma e contrapposizione di poteri, più molti altri. C’è stata una volontà di essere ancora più
esplicitamente politici rispetto a "Manituana", dove certi significati erano più nascosti
nell’allegoria?
Non credo. Quelli che citi sono i motivi più immediati alla superficie della trama. In realtà le
tematiche cruciali del romanzo si trovano probabilmente negli strati profondi della vicenda
narrata. Riguardano la questione dell'identità personale, il rapporto tra individuo e comunità, il
conflitto tra i generi, l'espiazione delle colpe. Sono temi che hanno evidentemente a che fare col
presente, ma che non si legano a una contingenza politica immediata.
In "Altai" è molto consapevole la ricerca linguistica. Oltre a trovare nel lessico numerosi lemmi
stranieri di almeno cinque lingue diverse, hanno spazio i libri pilastro delle 3 grandi religioni
mediterranee: cattolicesimo, islam e ebraismo. Si ha l’impressione che questa par condicio
linguistico-teologica sia fortemente voluta. È così?
Non ci sediamo a tavolino cercando di scrivere storie politicamente corrette. L'equilibrio e
l'attenzione per ognuna delle religioni del Libro era necessaria, quasi doverosa, parlando di quel
Mediterraneo e di quell'impero. Sul versante linguistico, abbiamo sempre guardato con interesse
alle lingue minori e ai cosiddetti dialetti. L'intreccio linguistico serve a rendere conto della
complessità e dell'intreccio culturale nel Mediterraneo di quei tempi - e anche di questi, a dire il
vero.
Luther Blissett e Wu Ming sono stati – mediante l’utilizzo di internet – tra i grandi teorizzatori e
anticipatori della riappropriazione dal basso dei media e della diffusione orizzontale dei saperi,
anche attraverso l’utilizzo del copyleft. Al tempo dei social networks (e del successo di una
manifestazione nata dal web come il No B Day), quali pensate siano oggi le potenzialità della
rete?
Le potenzialità della rete rimangono elevate e in buona parte ancora inespresse. Ma non è una
tecnologia a essere di per sé liberante. Il mondo della rete riflette le dinamiche di dominio e i
conflitti del mondo "reale". Internet non è un'utopia realizzata, è il medium più potente che
l'umanità abbia mai conosciuto.
(20 dicembre 2009)
Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/letteratura-conflitti-e-utopie-intervista-a-wuming/
---------------------------------------di Tonino Perna
PONTE SULLO STRETTO
Il Faraone e la Fata Morgana
Si racconta che quando i Normanni nell'XI secolo arrivarono sulla punta estrema dello stivale si
trovarono di fronte a una inattesa visione: la terra dei Siculi si era unita a quella dei Bruzi. Stupiti,
spronarono i cavalli recalcitranti ad attraversare lo Stretto e così finirono nelle sue gelide acque,
vittime di un effetto ottico di rifrazione della luce. Intuirono subito che lo scherzetto non poteva che
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Post/teca
essere stato organizzato dalla Fata Morgana , la quale doveva abitare necessariamente nel suo
castello di vetro in mezzo allo Stretto. D'altra parte, di fronte sorge l' Etna, il gigante che sputa
fuoco e nelle cui viscere viveva Re Artù.
Lo Stretto di Messina è un luogo peculiare in tutto il Mediterraneo, un concentrato di miti e di
effetti speciali, di culture arcaiche, di paesaggi mozzafiato e di straordinari fenomeni fisici. Qui
avviene lo scontro/incontro tra lo Jonio ed il Tirreno che genera le correnti più forti del mare
nostrum, nelle quali importanti studi del Cnr individuano un enorme potenziale di produzione di
energia pulita. Qui spiaggiano i pesci abissali, uno spettacolo unico della natura, oggetto di
ricerca da parte di studiosi provenienti da tutto il mondo. Qui si ambienta e si rinnova una delle
pagine più belle del viaggio di Ulisse che Omero ci ha regalato: Scilla è tutt'ora una grande roccia
con aspetti mostruosi, oggi inabissata a circa cinquanta metri di fronte al castello dei Ruffo;
Cariddi è un vortice tutt'ora pericoloso se ci si avvicina con una piccola imbarcazione.
Di fronte a queste meraviglie della natura chi poteva pensare di costruirci un ponte? E chi poteva
solo pensare di progettare un ponte che per essere collegato alle ferrovie ed alle corsie autostradali
esistenti deve mettere a soqquadro due territori di straordinaria bellezza e fragilità? Passare sopra
la testa dei messinesi, bucare colline di sabbia friabile, coprire con una colata di cemento Ganzirri
e i suoi laghetti salati, devastare le montagne di Scilla, gettare un'orgia di bretelle autostradali e
ferroviarie per portare macchine e treni a novanta metri di altezza.
Solo un novello Faraone poteva accanirsi per realizzare un'opera così devastante, che distrugge
l'economia locale , riduce l'occupazione e cancella uno dei paesaggi più belli al mondo.
Naturalmente il Faraone ha al suo fianco un'ampia schiera di cortigiani, capi tribù, astrologi che
non sbagliano mai. Per questo il costo complessivo dell'opera non è mai stato calcolato, la stime
variano di anno in anno, in base alla configurazione degli astri e al mutare delle stagioni. Questa
volta però non si tratta di costruire una piramide in un deserto, ma un'opera gigantesca in un'area
ricca di natura e cultura. Soprattutto, il Faraone non sa, come non lo sapevano i celti-normanni,
che questo è lo spazio della Fata Morgana, che è ancora viva e vegeta e non finisce di
sorprenderci. E' lei che unisce Reggio e Messina, il nord ed il sud di questo paese, portando oggi
decine di migliaia di persone di fronte alla magia dello Stretto, spostando le nuvole minacciose che
incombono, inabissando nelle sue acque l'idea stessa del Ponte. Un'idea malefica, che è costata
finora centinaia di milioni di euro per accrescere la platea dei servi e dei cortigiani allevati dalla
Società Stretto di Messina. Un'idea malvagia, che ha provocato già lo smantellamento dei servizi di
trasporto tra le due sponde, con un grave danno agli oltre seimila passeggeri che quotidianamente
prendono la metro del mare, cioè l'aliscafo che unisce le due città.
Attento Faraone, sembra dire la Fata Morgana dal profondo blu dello Stretto, qui si sono inabissati
i Normanni, qui in un attimo, nel 1908, si sono sbriciolate le case a cinque piani che sorgevano sul
mare, qui il mito prometeico della nostra civiltà trova il suo limite invalicabile. Qui possiamo
ritrovare la strada che porta alla salvaguardia degli ecosistemi e della vita sul nostro pianeta.
Fonte: http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/inedicola/numero/20091219/pagina/01/pezzo/267317/
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23 dicembre 2009
L’invenzione del nemico e la politica dell’odio
di Gianni D'Elia
L’aggressione sanguinosa a Silvio Berlusconi, la sera del 13 dicembre 2009 a Milano in Piazza
Duomo, ad opera di un disturbato mentale di nome Massimo Tartaglia, è stata subito spiegata dagli
uomini di governo e di potere come un effetto della campagna d’odio sviluppata dall’opposizione
contro il presidente del Consiglio italiano. A pochi giorni di distanza, e nonostante gli appelli
ripetuti del capo dello Stato Giorgio napolitano, la recriminazione per quell’atto folle e violento non
cessa di abbattersi su politici d’opposizione e giornalisti, magistrati e uomini della televisione,
critici con gli atti del governo e con le sue politiche di violento attacco alle garanzie costituzionali.
Contro questo utilizzo strumentale diun fatto tragico, che ha colpito tutti i cittadini che abbiamo un
cuore pulito, perché la visione del sangue e del dolore sulle facce di unuomofanno dimenticare
persino l’avversione per la sua politica, per il suo comportamento, per le sue parole dure e offensive
più volte patite a sinistra com un insulto implacabile e reiterato - comunista! - vorremmo riflettere.
Si può riflettere, oggi, in Italia? Forse è troppo tardi, ma dobbiamo provarci, nonostante la doppia
scena della recriminazione ideologica di regime, da un lato, e dell’idiozia elettronica di massa di chi
plaude alla violenza di sangue, dall’altro, su quel Libro delle Facce che pare l’altro corno di quella
Stoltezza dall’enorme fronte di toro, che Baudelaire assegnava alle gazzette del suo tempo e che noi
incarniamo nell’abuso della Televisione, che ne è oggi il corno generalista. Secondo il poeta
Umberto Saba, che ne scrisse nel 1945, gli italiani non erano e non sono parricidi, ma fratricidi.
Questo ammonimento, confermato dal fascismo e dal terrorismo degli anni Settanta del Novecento,
dovrebbe metterci in allarme continuativo, e tanto più oggi, perché quella storia del sangue del
«fratello contro fratello» non sembra finita. Cos’è stata la politica degli ultimi tre lustri in Italia, se
non una replicazione aggiornata della Guerra Fredda, nonostante che il muro fosse caduto nel 1989?
La radice dell’odio italiano odierno non è responsabilità di una sola parte, come dicono gli uomini
di governo,ma di entrambe le parti. Anzi, la responsabilità maggiore risiede proprio nell’azione di
chi ha trasformato la politica di partito di una volta, che non era certo una mammola e fruttò anche
il «doppio Stato» (Bobbio) e le stragi ancora impunite e oscure, in politica di fazione.
La trasformazione del partito in fazione, se si è onesti, si deve in Italia proprio al genio cattivo di
Berlusconi. È stato Dante a spiegare il nostro attuale ritorno al medioevo, in piena crisi
postmoderna: la ragione della discordia risiede ancora in quella «gente nova» (allora mercanti e
banchieri) inurbata a Firenze, che aveva accumulato in rapidissimo tempo enormi ricchezze,
impossessandosi della città con l’orgoglio e la dismisura che le erano propri, e che assomigliano
implacabilmente - per quei corsi e ricorsi storici vichiani, che ci schiacciano come italiani - a questo
orgoglio e a questa dismisura di oggi. Fino a che punto arriveranno i cittadini della città partita,
chiede Dante a Ciacco, nel sesto canto dell’Inferno; e si risponde da solo nel sedicesimo canto dei
tre nobili fiorentini poderasti: la discordia della città, l’odio fazioso, derivano dalla smisurata
ricchezza e dall’orgoglio partigiano di pochi. E la fazione ha trovato una reazione pari e contraria.
Se usciamo per un attimo almeno dall’ideologia, che ci fissa tutti e a quel che pensiamo da ciò che
siamo, ma nella distanza tra ciò che siamo e ciò che diciamo di essere, non possiamo non
riconoscere l’origine vera, la radice antropologica dell’odio italiano, che è la fazione. Negli esercizi
ginnasiali, traducendo Cicerone, sarà capitato a molti di incontrare l’espressione: «quod erat odium,
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Post/teca
quae superbia! ». Quale contegno odioso, quale superbia! I classici ci hanno insegnato che il male
dell’odio non è soltanto nel provarlo, ma nella capacità di suscitarlo di attirarlo di spingere qualcuno
all’odio, al rodimento interno, che nasce dal dolore di un’ira condensata e invecchiata nell’animo,
insaziata, inacquietabile, se non con il disfacimento del nemico. L’ultima fazione in Italia è nata
proprio dagli enormi interessi privati di sopravvivenza economica e politica alle azioni giudiziarie
che incombevano su di essa, prima dell’ingresso in politica attiva. Quando si farà la storia, che ora
abbozziamo, accanto all’interesse smisurato, si elencherà l’invenzione del nemico su cui la fazione
nuova, Forza Italia, si è costituita: l’espediente retorico del comunista. Il contegno odioso e la
superbia sfrenata di Berlusconi, che patiamo tutti da un quindicennio, cercando di opporci a questo
con le parole di verità e con l’azione politica pacifica, sono di certo risuonati anche nell’animo
sconvolto del suo aggressore, che non per questo può essere né scusato né assolto.
La violenza è orribile, il sangue osceno, se ci ha portato alla sconfitta più completa di oggi, per
quella prosa delirante e presuntuosa degli anni Settanta, in cui si inserì il terrore; ed è per questo che
il raffronto coi padri della Resistenza è ancora più urticante: perché l’antifascismo fu poesia e
ragione e unità per la libertà e la giustizia e l’uguaglianza, che difendiamo oggi con la Costituzione.
Quando Berlusconi, dal suo letto di ferito, chiede e si chiede perché lo odiano, qualche vero amico
della verità dovrebbe forse invitarlo all'autocoscienza, alla memoria delle sue parole, al ripasso di
quel clima fazioso, che lui per primo ha ereditato dalla storia brutta del fratricidio nazionale,
proseguendo, come un giapponese su un’isola del Pacifico, la guerra finita: contro i comunisti
annidati ovunque, nei partiti, nei giornali, nella televisione, nei tribunali, nella Corte Costituzionale,
nella Costituzione; anche se poi, in lui, questa ossessione ideologica èmenoforte dell’interesse
all’impunità per i reati che da cittadino ha commesso, se li ha commessi, e di cui è imputato. Noi gli
auguriamo di riprendersi, di stare bene, e di rispondere davanti alla legge dei suoi atti, facendo
decadere così la sua odiosità, che non è scesa dal cielo o dalla cattiveria degli avversari, ma dai suoi
comportanti. È il nostro sogno, il sogno degli italiani, la fine della faziosità applicata; non la fine
dell’uso della giustizia a fini politici, ma la fine dell’uso della politica a fini giudiziari, con tutti gli
auguri sinceri di guarigione.
22 dicembre 2009
Fonte: http://www.unita.it/news/culture/92949/linvenzione_del_nemico_e_la_politica_dellodio
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Il galateo dei telefonini durante le feste
La maggior parte degli adulti non sopporta di essere disturbata in chiesa, a tavola e durante gli
appuntamenti galanti ma usa tranquillamente il cellulare stando in bagno.
[ZEUS News - www.zeusnews.com - 22-12-2009]
La maggior parte degli adulti statunitensi (l'80%) ritiene che esistano regole non scritte per l'uso
della tecnologia mobile e circa 7 su 10 (il 69%) considerano inaccettabile la violazione di tale
etichetta come controllare l'email, inviare messaggini e effettuare telefonate mentre si è in
compagnia di altre persone.
113
Post/teca
A rivelarlo è uno studio dal titolo Holiday Mobile Etiquette condotto da Harris Interactive e
sponsorizzato da Intel.
L'idea alla base è che l'etichetta nell'uso di tecnologia mobile rivestirà particolare importanza nel
corso dei prossimi giorni festivi: la metà degli intervistati (il 52%) ha affermato che si riterrebbe
offesa qualora, a tavola, qualcuno tentasse di utilizzare di nascosto un dispositivo collegato a
Internet.
Gli americani diventano invece più tolleranti quando si parla del bagno: il 75% ritiene
perfettamente appropriato utilizzare dispositivi collegati a Internet - tra cui notebook, netbook e
cellulari - in bagno.
Per la maggior parte (il 62%) i dispositivi mobili fanno ormai parte della vita quotidiana e la società
deve adattarsi al loro utilizzo in qualsiasi momento.
Molti adulti considerano l'esigenza di una connettività costante come implicazione della moderna
cultura aziendale: il 55% concorda sul fatto che oggi il business imponga alle persone di essere
sempre connesse tramite dispositivi mobili, anche se questo significa portare un notebook con sé in
vacanza o rispondere a una telefonata a tavola.
La stragrande maggioranza sostiene di non avere alcuna tolleranza per chi fa uso della tecnologia
mobile nel corso di cerimonie religiose: l'87% ritiene inappropriato utilizzare un dispositivo mobile
in un luogo di culto.
La maggior parte degli adulti (il 62%) trova infine normale inviare o ricevere biglietti d'auguri
elettronici invece di quelli tradizionali ma pressappoco la stessa percentuale (il 60%) considera del
tutto fuori luogo l'uso di un dispositivo mobile nel corso di un appuntamento galante.
Fonte: http://www.zeusnews.com/index.php3?ar=stampa&cod=11276&numero=999
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La Russa ha mandato 800 militari a Milano, per pulire le
strade. Io avrei usato il napalm.
Ho visto in Apocalypse now che fa delle fiammate enormi, in poco tempo scioglierebbe
tutta la neve ed il ghiaccio.
A Milano non lo sanno che d'inverno puo' nevicare o fare un freddo cane, la nostra
amministrazione si intende solo di mostre e mercati, cemento e abusi edilizi.
Nonostante le previsioni a portata di mano il sindaco, il vice sindaco e tutta la materia
grigia del comune si e' limitata ai buoni consigli.
Non usate l'auto, usate i mezzi pubblici e, se quelli in superfice non vanno, prendete la
metropolitana. Anche se vi porta dove non dovete andare.
Chiuse le scuole e qui entra in ballo anche l'informazione, il popolino che non si interessa,
ho visto arrivare mamme con i bambini e gli zaini. Evidentemente qualcosa non funziona.
L'anno scorso hanno chiesto il sale a Genova, citta' di mare, Milano ne era sprovvista
mentre a Genova l'avevano, hanno una amministrazione piu' previdente della nostra.
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Post/teca
Non ci sono mezzi spargisale, non ci sono mezzi spartineve, non ci solo spalatori.
Autobus, ambulanze, mezzi di servizio si devono arrangiare. Alla radio dicono che i mezzi
spalaneve sono usciti, spero solo che non siano andati in discoteca o a farsi una birra.
Il Napalm sarebbe una bella soluzione, farebbe godere il ministro fascista e si renderebbe
utile almeno per questa volta.
Pare che oggi i grandi collegamenti provinciali funzionino, le tangenziali pure ma su questo
non avevo dubbi, non dipendono dal comune di Milano.
Non so come sono messi ad Arcore, non vorrei che avesse un malore e che si trovasse
bloccato dal traffico.
Spero che le pale dell'elicottero siano sgombre di neve e con il motore caldo, non vorrei che
20 cm di neve gli alzassero il gradimento di mezzo metro.
Gli unici contenti sono i pendolari, questa volta i ritardi sono dovuti alla neve, non e' colpa
della disorganizzazione giornaliera. Hanno una variazione sul tema.
Fonte: http://slasch16.splinder.com/post/21920630/La+Russa+ha+mandato+800+milita
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Libri per Natale: idee regalo da cinque euro
pubblicato da sara
Allora, ci siamo: dovete fare ‘giusto un pensierino’ a qualcuno. E non vi va, come gli scorsi anni, di
buttarvi sul solito bagnoschiuma. Regalategli/le un libro! Non è affatto impossibile, e noi siamo qui
per consigliarvi qualche titolo.
Come Nessun giorno ritorna di Lia Levi (ed. Perrone, 5 euro), ma anche ‘Il cielo in una stalla’, di
Erri de Luca, brevissima storia di un’avventura di suo padre partigiano (Infinito ed., 4,50 euro)
oppure i mitici della serie‘Il fu Mattia Bazar’ (le richieste più assurde ricevute da librai, 5 euro,
Orme ed.) o anche ‘La via dell’umorismo. 101 burle spirituali’ di Gianluca Magi (Il punto
d’incontro, 6,90 euro). Ma anche, se colei/lui a cui fate il regalo non è permaloso, l”Arte di tacere’
dell’abate Dinouart (6 euro, Castelvecchi).
E’ molto bello, da leggere d’un fiato, i ‘Trentatre nomi di Dio’, di Yourcenar (sassi Nottetempo, 3
euro), oppure, se è un/una idealista, consolatela con ‘L’uomo che piantava gli alberi’, di Jean Giono
(in economica Salani 6 euro). Se ha la passione per i gatti, una ‘chicca’ che vi consiglio è il libretto
di Hyppolite Taine ‘Vita e opinioni filosofiche di un gatto’ (3 euro nei ‘Sassi nottetempo’), oppure
l’indimenticato Carlo Coccioli con lo splendido ‘Requiem per un cane” (questo però dovete
cercarlo nei remainder o fra i libri usati, perchè non lo ristampano da molto tempo).
Hyppolite Taine
Vita e opinioni filosofiche di un gatto
Sassi nottetempo
3 euro
Fonte: http://www.booksblog.it/post/5594/libri-per-natale-idee-da-cinque-euro
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Post/teca
24 dicembre 2009
A colloquio con la cantante e scrittrice Tonka Sasaki
La donna in Giappone
tra modernità e tradizione
di Elisabetta Galeffi
Le donne giapponesi possono sembrare più tranquille e conformiste delle loro coetanee europee,
soprattutto le più giovani. Poi capita di leggere storie di vite femminili - la letteratura giapponese
contemporanea è ben distribuita nelle librerie di tutta Europa - e si scoprono aspetti quasi
sconosciuti di questa antica società, dove il ruolo della donna è sospeso tra tradizioni antichissime e
una modernità che sembra correre più velocemente. Soprattutto in metropoli come Tokyo. Le donne
giapponesi hanno conquistato un posto di rilievo nella società nipponica solo alla conclusione della
seconda guerra mondiale. Di strada ne hanno percorsa tanta e molto rapidamente. Trovare un
equilibrio non deve essere stato facile. Tonka Sasaki è una cantante jazz giapponese che ha
conquistato una buona notorietà internazionale. Vive nella frenetica Tokyo ed è autrice di una
raccolta
di
storie
di
donne,
tutte
nate,
come
lei,
a
Hiroshima.
È
stato
molto
difficile
nel
suo
caso
intraprendere
la
strada
dell'artista?
Devo dire di sì. Anche da noi per una donna è molto più difficile che per un uomo esprimere se
stessa e seguire le sue attitudini. La società giapponese all'estero può sembrare molto moderna,
perché Tokyo è una città all'avanguardia tecnologicamente. Ma non è sempre stato così. Ho dovuto
lottare molto con la mia famiglia per trovare la mia strada, mi sono anche sentita spesso in colpa per
le mie decisioni. Potrei dire che per anni ho tirato di boxe con la mia famiglia, soprattutto con mia
madre. Le regole delle famiglie giapponesi erano molto severe. Abbiamo tradizioni antichissime da
rispettare.
Lei crede che nella società giapponese moderna, una donna abbia le stesse possibilità di un uomo?
Sicuramente più di prima, anche se gli uomini sembrano avere paura delle molte abilità femminili.
La situazione sta comunque migliorando. Ancora oggi però, soprattutto nelle campagne, le donne
sono preoccupate di disturbare l'orgoglio maschile. Anche gli uomini, in realtà, iniziano a essere più
flessibili.
Crede che la moderna società giapponese abbia perso la sua antica cultura e i suoi valori ?
Ci sono tradizioni di incredibile bellezza che non sono mai cambiate. A noi piace rispettarle e le
conserveremo. Ma questo non è per nulla contrario al rispetto dovuto ai diritti delle donne.
Lei ha quarantuno anni. Pensa che ci siano rimarcabili differenze tra la sua generazione e quella di
sua
madre
o
con
quella
delle
ventenni
oggi?
Nella generazione di mia madre, sessantenne, dopo il matrimonio una donna diventava yome: figlia
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Post/teca
adottiva della famiglia di suo marito. Il nuovo cognome cambiava la vita della donna. La devozione
alla nuova famiglia valeva più di ogni altra cosa, più del suo lavoro per esempio. Oggi per le donne
è più facile scegliere la loro strada Non devono più lottare, come noi, con le loro famiglie, perché
una
scelta
di
vita
non
necessariamente
esclude
l'altra.
Ha apprezzato la recentissima legge giapponese che permette alle donne di continuare a portare il
proprio
cognome
anche
dopo
il
matrimonio?
Sì, al cento per cento. La dice lunga su quanto si voglia cambiare il ruolo della donna nel Giappone
di
oggi
rispetto
alla
società
di
un
tempo.
Lei ha messo insieme le testimonianze delle figlie e delle nipoti delle donne della tragedia di
Hiroshima. Qual è il filo che tiene insieme tutte queste donne dopo più di sessant'anni?
Queste donne pregano profondamente per la pace. Quando io ho intervistato le donne di Hiroshima
ho immediatamente notato una grossa affinità tra di loro. Ognuna, raccontando la sua storia, fa
trasparire una grossa ferita che non riesce a sanare. Molte hanno perso le madri, i padri, i nonni o i
fratelli quando erano piccole e non sanno dove trovare le informazioni di quella parte della loro
famiglia. I giovani non hanno avuto esperienza dei nonni e hanno perso la loro storia. La bomba
atomica è caduta sulla città e non ha lasciato nulla, ai sopravvissuti non sono rimaste neppure le
case dove rintracciare i ricordi dei loro avi. Non gli sono rimaste le vecchie strade della città,
nessuna prova di quanto è stato e di chi vi aveva vissuto prima. Nulla che testimoni la vita
antecedente la bomba. Molti non sono neppure certi delle loro origini. Per questo le donne di
Hiroshima si sentono parte di un'unica grande famiglia. Solo loro possono capire l'immensa lacuna
che è nella mente di chi ha avuto la loro stessa tragedia.
(©L'Osservatore Romano - 24 dicembre 2009)
-----------------------L’urina di politici e giornalisti
5 Dicembre, 2009 di Luca
Politici e giornalisti urinano? Se sì, come?
Walter Veltroni: si domanda se impugnarlo con la destra o la sinistra. Mentre argomenta gli scoppia un rene.
Vittorio Feltri: esce sul pianerottolo e annega i cactus del portiere bamba.
Antonio Di Pietro: sfrega la schiena nuda sulla corteccia di quercia ululando. Poi sprigiona per quaranta minuti
filati ed è a posto per settimane.
Luigi De Magistris: come Di Pietro. Ma con perizia linguistica.
Pier Ferdinando Casini: battezza il cesso disegnando croci col getto mentre fischietta Jesus Christ Superstar.
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Post/teca
Vittorio Sgarbi: riempie ampolle di cristallo che rivende a prezzi milionari su ebay. A sé stesso.
Rosy Bindi: ha detto basta molti anni fa.
Maurizio Gasparri: pinza l’adipe attorno l’ombelico mentre il caldo gli avvolge le cosce. Crede sia una
coincidenza, non stupitelo.
Massimo D’Alema: no, non è ancora il momento. Vedremo domani. O dopodomani.
Daniele Capezzone: un rabbocco alla boccetta della lacca.
Giulio Andreotti: per pochi secondi i rubinetti di Palermo tornano a erogare.
Niccolò Ghedini: ha stabilito il pisello in bagno. Gli scrive una diffida ad adempiere quando ha tempo.
Marco Ferrando, Nichi Vendola, Paolo Ferrero: si riuniscono ogni martedì per raggiungere i 4 cl. Un giorno
riusciranno.
Bruno Vespa: con una mano regge la telecamera, con l’altra plasma piscio e bozze dei suoi libri nel prossimo
plastico. Purtroppo ride e l’inquadratura viene mossa.
Sandro Bondi: va a Ballarò e gli suda la pelata.
Silvio Berlusconi: con doppio battito di ciglia attiva un arcangelo siderale che gli sugge la vescica e si vaporizza
nell’etere.
Emilio Fede: corre felice per prati rotolandosi nella rugiada divina. Alza una gamba e si fonde col Tutto.
fonte: http://satiratrascendente.wordpress.com/2009/12/05/lurina-di-politici-e-giornalisti/
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Una pioggia di giocattoli nel bosco E Babbo Natale?
Sabotato
di Capossela - Cervetti
In una stanza di un regno a due passi, c’era un bambino che disegnava dei tasti bianchi e neri su una
tavola di legno con i suoi due compagni immaginari. Egli infatti tanto desiderava uno strumento per
suonare che se l’era disegnato: era un grande organo fantastico per dare musica a tutte le sue
fantasie. E così, si rivolgeva ai suoi due amici, il gigante e il mago, interrogandosi: «Come potrò
mai suonare per davvero un organo della meraviglia?». Questi, interpellati, subito uscirono dal
sacco e il gigante, sempre protettivo e premuroso, così gli spiegò: «Caro... non ti
preoccupare...lascia fare! Ci penso io...! Conosco bene la persona che fa al caso tuo. Ho alloggiato a
lungo da lui, dopo che mi mangiai il mio regno. Devi sapere che nella tundra sconfinata del grande
nord c’è una piccola cittadina chiamata “la grande Ustiuc”. Lì è una casetta di legno solo in
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Post/teca
apparenza. In realtà è la residenza di Gelo - il Ded Moroz - un meraviglioso palazzo di ghiaccio che
solo alle persone di buon cuore è dato di vedere». «Come hai detto che si chiama?». «Ded Moroz, si
chiama!». «E se gli scrivo la lettera poi lui la riceve?». «Eh sì. E vedrai che troverà anche il modo di
esaudire il tuo desiderio». Si destò allora il mago e molleggiandosi sulle ginocchia, esclamò
entusiasmandosi: «Troppo v’loceeeee...Sì, si... tanti regali... scrivi, scrivi che lui porta da “on la
montana”, una montana di regali. Tutti arrivare qui come per magia magia magia - TA.DA!»...E
sparì con il solito vecchio trucco, facendo cadere il bambino addormentato all’istante nel sogno di
un grande strumento illuminato, un organo delle meraviglie che risuonasse della magia fiabesca
dell’inverno perduto, dato che erano oramai molti anni che non si vedeva più un fiocco di neve.
Una Grande città, grandi magazzini aperti, luci artificiali. Musica distorta, temi natalizi fatti dai
giocattoli cinesi. Schiere di babbi natali ubriachi vagano padroni della città nella notte di Natale.
Usurpatori, grassatori natalizi che non danno niente a nessuno ma si prendono ogni cosa. Tra queste
figure si distingue un essere incappucciato dal lungo naso, a cui tutti i babbi natale color vinaccia
obbediscono con deferenza... Una coda grigia gli spunta da sotto la mantella: egli è il lupo grigio... e
grigia è la sua voce mentre sussurra beffardo: «Un giorno tutto questo... sarà tutto mio!» Siamo
nella natura invernale più fatata e incontaminata: il palazzo di ghiaccio del Ded Moroz. Lì egli si
prepara ad assolvere al suo compito. Il Ded Moroz è infatti il nonno inverno. Ha in sé il mondo del
letargo, del ghiaccio, della lunga notte del nord. È una specie di gene della natura, e così si prepara
alla sua stagione, una volta arrivata. (Musica di cristallarmoni).
Nella purezza di gelo si pulisce ogni cosa. Ogni ansia viene stemperata. Restano solo il freddo e il
bianco. Il freddo cauterizza le passioni, le virulenze, gli eccessi e porta alla purificazione. Nel suo
palazzo d’inverno luce se ne vede poca. Il sole non si alza mai davvero sopra la linea dell’orizzonte,
si leva molto tardi e subito si vedono le stelle. La casa di gelo è in apparenza una miserabile isba
ma, quando lui batte il suolo tre volte, ecco che diventa un palazzo, il palazzo di Gelo. Nulla è più
elegante del ghiaccio, nemmeno il diamante, il cristallo più puro, arriva a tanta altera eleganza. Nel
palazzo di ghiaccio vi sono diversi strumenti cristallini: un’arpa, una celesta e uno xilofono fatto di
tante melodiose barrette di ghiaccio. Essi fanno la sottile e incorporea musica dell’inverno, quella
che accompagna lo scricchiolio dei rami e dei fiumi su cui si muove Gelo. Il bosco s’imperla e Gelo
muove su ogni cosa trasformandola, seguito da questa musica inconsistente e celeste... Ricopre
Gelo le acque, le rende solide e le seppellisce sotto il suo bianco manto d’ermellino. Dona il letargo
alla terra, la veste da sposa e le dona ogni ricchezza. Gli alberi perdono tutto. Riducono al minimo
la loro superficie e Gelo li custodisce nel suo abbraccio. La linfa vitale scricchiola dentro di loro
come dentro a nervi di cristallo. Gli animali sono confortati dal ventre della terra e dai cavi vuoti
degli alberi. Su tutto veglia il Ded Moroz. Il grande spirito dell’inverno si incarna in lui e gli affida
il soccorso, la buona azione e la fantasticazione che il fuoco procura quando si unisce a Gelo. Come
il grano è il frutto del grembo della terra in estate, così le strenne sono il frutto dell’inverno. Nel
palazzo di ghiaccio i doni maturano per essere consegnati. Egli li raduna per renderli al focolare.
Può esaudire un solo desiderio alla volta e il desiderio deve maturare a lungo, per questo deve
essere scelto con cura. I doni non sono solamente dei giocattoli. Sono la sublimazione dell’attesa,
del sacrificio, del sapere andare oltre sé. C’è chi è generoso nel donare, e chi lo è nel ricevere. Al
Ded Moroz non importa. Lui fa solo i regali di una volta. Regali belli di per sé. Regali assoluti che
non badano né all’utilità né all’inutilità. L’era dei regali del Ded Moroz non era ancora contaminata
dal consumo. Erano doni belli per sempre e, una volta diventati grandi, si potevano ridonare ai
propri figli. Giocattoli quasi umani che si muovono solo quando non sono visti. E, dato che nessuno
li vedeva, per ingannare l’attesa, iniziarono a scambiarsi tra loro opinioni. (Sigla dei pupazzi)
Giocattolo: «Cosa c’è di meglio di un regalo inutile?», disse il pupazzo del piccolo aborigeno Dum
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Post/teca
Dum, il regalo utile intristisce sempre. Come quando da piccolo ti regalano le canottiere di lana o le
mutande o i quaderni. Che tristezza. Il regalo utile toglie la poesia...Tu, cosa vorresti trovare sotto
l’albero?...Un treno di gomme da macchina forse? Mago: «Io capito, ma… come è fatto the Ded
Maroz?» Domandò spazientito dall’attesa il mago mentre stava impettito come tutti gli altri
aspettando la rassegna di Gelo. Il gigante, che gli era di fianco, iniziò a spiegare: Gigante: «Lo si
può incontrare nel bosco. Se sei una persona buona ti fa un regalo, se sei malvagio batte il bastone
di ghiaccio e ti surgela, poi ti porta nel suo palazzo e non ne esci fino a che qualcuno non ti riscatta
con una azione buona. È vestito di pelli di renna e calza alti stivali che gli rendono veloce la strada.
La pelle è conciata di blu, una specie di vestaglione ampiamente foderato. Ha una cintura bianca in
vita e uno zuccotto orlato di pelliccia in testa. Si muove su una slitta trainata da cani siberiani.
Oppure direttamente su nubi di vento. Tra i suoi compiti principali: fare gelare i rami degli alberi
quando viene l’inverno così che siano belli da vedere. Ghiacciare i fiumi e i laghi per farne gemme
preziose. Trasformare il bosco in smeraldo. Fare discendere il manto bianco di neve sulla pelliccia
d’orso della terra. Egli è insomma il signore dell’inverno del bosco. Pensate che terribile cosa se per
qualche ragione dovesse sparire..?» Egli porta doni anche agli animali: al leprotto procura la carota,
allo scoiattolo la ghianda. Ogni tanto succede però che gli si buchi il sacco ad opera di qualche
maligno, e i giocattoli si perdano in luoghi sconosciuti e che, da quel momento, facciano di tutto per
ritrovarlo. Ma il Ded Moroz ha un nemico, ineluttabilmente appioppatogli dalla Natura: il lupo
grigio. È lui che gli fa il buco nel sacco per andare a mangiarsi i personaggi delle fiabe e farsi aprire
la porta al suo posto.
24 dicembre 2009
Fonte:
Una pioggia di giocattoli nel bosco E Babbo Natale?
Sabotato
di Capossela - Cervetti
In una stanza di un regno a due passi, c’era un bambino che disegnava dei tasti bianchi e neri su una
tavola di legno con i suoi due compagni immaginari. Egli infatti tanto desiderava uno strumento per
suonare che se l’era disegnato: era un grande organo fantastico per dare musica a tutte le sue
fantasie. E così, si rivolgeva ai suoi due amici, il gigante e il mago, interrogandosi: «Come potrò
mai suonare per davvero un organo della meraviglia?». Questi, interpellati, subito uscirono dal
sacco e il gigante, sempre protettivo e premuroso, così gli spiegò: «Caro... non ti
preoccupare...lascia fare! Ci penso io...! Conosco bene la persona che fa al caso tuo. Ho alloggiato a
lungo da lui, dopo che mi mangiai il mio regno. Devi sapere che nella tundra sconfinata del grande
nord c’è una piccola cittadina chiamata “la grande Ustiuc”. Lì è una casetta di legno solo in
apparenza. In realtà è la residenza di Gelo - il Ded Moroz - un meraviglioso palazzo di ghiaccio che
solo alle persone di buon cuore è dato di vedere». «Come hai detto che si chiama?». «Ded Moroz, si
chiama!». «E se gli scrivo la lettera poi lui la riceve?». «Eh sì. E vedrai che troverà anche il modo di
esaudire il tuo desiderio». Si destò allora il mago e molleggiandosi sulle ginocchia, esclamò
entusiasmandosi: «Troppo v’loceeeee...Sì, si... tanti regali... scrivi, scrivi che lui porta da “on la
montana”, una montana di regali. Tutti arrivare qui come per magia magia magia - TA.DA!»...E
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sparì con il solito vecchio trucco, facendo cadere il bambino addormentato all’istante nel sogno di
un grande strumento illuminato, un organo delle meraviglie che risuonasse della magia fiabesca
dell’inverno perduto, dato che erano oramai molti anni che non si vedeva più un fiocco di neve.
Una Grande città, grandi magazzini aperti, luci artificiali. Musica distorta, temi natalizi fatti dai
giocattoli cinesi. Schiere di babbi natali ubriachi vagano padroni della città nella notte di Natale.
Usurpatori, grassatori natalizi che non danno niente a nessuno ma si prendono ogni cosa. Tra queste
figure si distingue un essere incappucciato dal lungo naso, a cui tutti i babbi natale color vinaccia
obbediscono con deferenza... Una coda grigia gli spunta da sotto la mantella: egli è il lupo grigio... e
grigia è la sua voce mentre sussurra beffardo: «Un giorno tutto questo... sarà tutto mio!» Siamo
nella natura invernale più fatata e incontaminata: il palazzo di ghiaccio del Ded Moroz. Lì egli si
prepara ad assolvere al suo compito. Il Ded Moroz è infatti il nonno inverno. Ha in sé il mondo del
letargo, del ghiaccio, della lunga notte del nord. È una specie di gene della natura, e così si prepara
alla sua stagione, una volta arrivata. (Musica di cristallarmoni).
Nella purezza di gelo si pulisce ogni cosa. Ogni ansia viene stemperata. Restano solo il freddo e il
bianco. Il freddo cauterizza le passioni, le virulenze, gli eccessi e porta alla purificazione. Nel suo
palazzo d’inverno luce se ne vede poca. Il sole non si alza mai davvero sopra la linea dell’orizzonte,
si leva molto tardi e subito si vedono le stelle. La casa di gelo è in apparenza una miserabile isba
ma, quando lui batte il suolo tre volte, ecco che diventa un palazzo, il palazzo di Gelo. Nulla è più
elegante del ghiaccio, nemmeno il diamante, il cristallo più puro, arriva a tanta altera eleganza. Nel
palazzo di ghiaccio vi sono diversi strumenti cristallini: un’arpa, una celesta e uno xilofono fatto di
tante melodiose barrette di ghiaccio. Essi fanno la sottile e incorporea musica dell’inverno, quella
che accompagna lo scricchiolio dei rami e dei fiumi su cui si muove Gelo. Il bosco s’imperla e Gelo
muove su ogni cosa trasformandola, seguito da questa musica inconsistente e celeste... Ricopre
Gelo le acque, le rende solide e le seppellisce sotto il suo bianco manto d’ermellino. Dona il letargo
alla terra, la veste da sposa e le dona ogni ricchezza. Gli alberi perdono tutto. Riducono al minimo
la loro superficie e Gelo li custodisce nel suo abbraccio. La linfa vitale scricchiola dentro di loro
come dentro a nervi di cristallo. Gli animali sono confortati dal ventre della terra e dai cavi vuoti
degli alberi. Su tutto veglia il Ded Moroz. Il grande spirito dell’inverno si incarna in lui e gli affida
il soccorso, la buona azione e la fantasticazione che il fuoco procura quando si unisce a Gelo. Come
il grano è il frutto del grembo della terra in estate, così le strenne sono il frutto dell’inverno. Nel
palazzo di ghiaccio i doni maturano per essere consegnati. Egli li raduna per renderli al focolare.
Può esaudire un solo desiderio alla volta e il desiderio deve maturare a lungo, per questo deve
essere scelto con cura. I doni non sono solamente dei giocattoli. Sono la sublimazione dell’attesa,
del sacrificio, del sapere andare oltre sé. C’è chi è generoso nel donare, e chi lo è nel ricevere. Al
Ded Moroz non importa. Lui fa solo i regali di una volta. Regali belli di per sé. Regali assoluti che
non badano né all’utilità né all’inutilità. L’era dei regali del Ded Moroz non era ancora contaminata
dal consumo. Erano doni belli per sempre e, una volta diventati grandi, si potevano ridonare ai
propri figli. Giocattoli quasi umani che si muovono solo quando non sono visti. E, dato che nessuno
li vedeva, per ingannare l’attesa, iniziarono a scambiarsi tra loro opinioni. (Sigla dei pupazzi)
Giocattolo: «Cosa c’è di meglio di un regalo inutile?», disse il pupazzo del piccolo aborigeno Dum
Dum, il regalo utile intristisce sempre. Come quando da piccolo ti regalano le canottiere di lana o le
mutande o i quaderni. Che tristezza. Il regalo utile toglie la poesia...Tu, cosa vorresti trovare sotto
l’albero?...Un treno di gomme da macchina forse? Mago: «Io capito, ma… come è fatto the Ded
Maroz?» Domandò spazientito dall’attesa il mago mentre stava impettito come tutti gli altri
aspettando la rassegna di Gelo. Il gigante, che gli era di fianco, iniziò a spiegare: Gigante: «Lo si
può incontrare nel bosco. Se sei una persona buona ti fa un regalo, se sei malvagio batte il bastone
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di ghiaccio e ti surgela, poi ti porta nel suo palazzo e non ne esci fino a che qualcuno non ti riscatta
con una azione buona. È vestito di pelli di renna e calza alti stivali che gli rendono veloce la strada.
La pelle è conciata di blu, una specie di vestaglione ampiamente foderato. Ha una cintura bianca in
vita e uno zuccotto orlato di pelliccia in testa. Si muove su una slitta trainata da cani siberiani.
Oppure direttamente su nubi di vento. Tra i suoi compiti principali: fare gelare i rami degli alberi
quando viene l’inverno così che siano belli da vedere. Ghiacciare i fiumi e i laghi per farne gemme
preziose. Trasformare il bosco in smeraldo. Fare discendere il manto bianco di neve sulla pelliccia
d’orso della terra. Egli è insomma il signore dell’inverno del bosco. Pensate che terribile cosa se per
qualche ragione dovesse sparire..?» Egli porta doni anche agli animali: al leprotto procura la carota,
allo scoiattolo la ghianda. Ogni tanto succede però che gli si buchi il sacco ad opera di qualche
maligno, e i giocattoli si perdano in luoghi sconosciuti e che, da quel momento, facciano di tutto per
ritrovarlo. Ma il Ded Moroz ha un nemico, ineluttabilmente appioppatogli dalla Natura: il lupo
grigio. È lui che gli fa il buco nel sacco per andare a mangiarsi i personaggi delle fiabe e farsi aprire
la porta al suo posto.
24 dicembre 2009
Fonte:
http://www.unita.it/news/culture/93031/una_pioggia_di_giocattoli_nel_bosco_e_babbo_natale_sabo
tato
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