237 La nostra rassegna stampa augura a tutti i propri lettori un sereno Natale ed un felice Anno Nuovo. Le pubblicazioni riprenderanno il 17 gennaio 2016 os tr a Milano - Basilica di Sant’Ambrogio con il patrocinio di La n Rassegna Stampa 20 dicembre 2015 A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano” Con sede in Milano, via Locatelli, 4 www.agenziaculturale.it Questa rassegna stampa è scaricabile integralmente anche dal sito www.agenziaculturale.it Estratti da: Ciclostilato in proprio 11/12/2015 «Il presepe è pace e fraternità» Il Presidente Sergio Mattarella ha inaugurato la mostra delle Natività al Quirinale È nato in Italia, in piccolo borgo tra le montagne, un po' lontano da tutto e tutti. Per mano di un uomo, Francesco, diventato il santo forse più popolare e amato di tutta la storia del cristianesimo. E da Greccio, sulle falde del reatino, piano piano è diventata nei secoli la più emblematica rappresentazione planetaria di un'umanità dolente che si riscatta grazie alla salvezza portata da Dio tra gli uomini. Simbolo di identità per i credenti, messaggio di pace e di fratellanza per tutti. Il presepe è forse il più innocuo tra i vessilli della cattolicità, ma certamente dalla formidabile carica evocativa. Un emblema nazionale, comunque, tanto che la Presidenza della Repubblica per la prima volta ha deciso di allestire la mostra «Presepi d'Italia. Le tradizioni regionali al Quirinale», inaugurata ieri dal Presidente Sergio Mattarella. «Il presepe esprime un intenso sentimento religioso e trasmette un messaggio di pace e di fraternità universale» scrive il Capo dello Stato nel messaggio di saluto del catalogo della mostra, dove erano presenti i presidenti delle regioni. «Proprio la profondità e l'universalità del suo significato hanno reso questi simboli dialoganti con le coscienze, con le fedi, con le culture, con le tradizioni popolari. E oggi il dialogo tra credenti e non credenti, il dialogo tra fedi e culture diverse rappresenta una condizione indispensabile per costruire un futuro di sviluppo e di pace». Un'iniziativa pensata mesi fa ma che arriva a compimento in un momento in cui il tema della rappresentazione natalizia sale di nuovo alla ribalta e diventa terreno di stucchevole polemica politica a seguito di decisioni discutibili, per nondire altro, L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 prese in alcune scuole di non realizzare i presepi o di non insegnare ai bimbi i canti tradizionali in nome di un presunto rispetto per le altre fedi. Tralasciando le reazioni di alcune frange della politica in "difesa" dei valori della nostra civiltà spesso messi in scena da persone che non entrano in una chiesa neppure per sbaglio - il presepe in sé offre una risposta fattuale alle esasperazioni del concetto (giusto) di laicità. La rappresentazione della nascita di Gesù nella mangiatoia di Betlemme, così come la trasmette la tradizione del vangeli (compresi quelli apocrifi), al di là delle numerose varianti geografiche, culturali e storiche, ha un denominatore comune indelebile: quella di un mondo sofferente, emarginato, che vede in uno come loro la luce. «Pensiamo che Gesù è stato un rifugiato, è dovuto fuggire per salvare la vita, con San Giuseppe e la Madonna ha dovuto andarsene in Egitto» ha detto Papa Francesco, più volte riprendendo un concetto che la Chiesa cattolica ha sempre tenuto fermo davanti agli occhi del mondo. Una famiglia che scappa, quella di Giuseppe e Maria giunta alla fine del tempo di gravidanza, che non sa dove ripararsi, e trova nella "periferia" degli ultimi, dei poveri, degli emarginati il primo di segno di vicinanza. E l'iconografia, che cambia di continuo, casa per casa, chiesa per chiesa, scuola per scuola, non erode mai questa messaggio, che è di unità e fratellanza. Non c'è nulla di discriminatorio verso le altre fedi rappresentare questi valori, tantopiù verso i fedeli delle altre religioni monoteiste: Gesù era ebreo, ed era di Palestina. © RIPRODUZIONE RISERVATA. pagina 2 10/12/2015 Perché oggi più che mai "non possiamo non dirci cristiani", come Croce di Umberto Minopoli della modernità. Che si sostanzia in un rovesciamento rispetto agli Ce ne siamo dimenticati. Parlo di quel piccolo libretto che Croce antichi: la rivoluzione cristiana, scrive Croce, porta il pensiero del- scrisse di botto, a suo dire, in un'inquieta notte del 1942: "Perché l'uomo "al centro dell'anima". La centralità della "coscienza mora- non possiamo non dirci cristiani". Sarebbe un ottimo testo le", rispetto all'oggettivismo, alle mitologie, all'estraniamento delle scolastico breve di storia della filosofia. E un'utile lettura, oggi, per vecchie religioni, è il prodotto umanistico della rivoluzione cri- alcuni improvvisati "laici". E per lo strabico cotè che, in ossequio al stiana: il suo frutto più progressivo. La spiritualità cristiana, carbu- multiculturalismo, si affloscia a concedere valore di provocatorietà rata dalla centralità della "morale" e dal concetto di "amore" per il alla esibizione dei simboli cristiani. Simboli religiosi, al pari di altri, prossimo diventa, scrive Croce, la base di un potente progresso ci- che andrebbero espulsi dalla sfera pubblica e rintanati in quella vile e culturale che supera anche le resistenze buie dell'in- privata. Ma sono veramente, solo, residuali simboli religiosi quelli tolleranza, delle persecuzioni, delle intransigenze. Croce abbozza, cristiani nella nostra sfera pubblica? Croce stimola, con il suo in poche righe, il viaggio europeo che dall'Umanesimo, al Rinasci- scritto una rappresentazione diversa, laica e civile, dei significato, mento, dal pensiero scientifico del Settecento all'Illuminismo alla per noi, del cristianesimo. Che non può non riguardare anche la riforma luterana e all'idealismo tedesco coronerà l'esito dello sua simbologia. Il libretto del grande padre liberale del nostro "spirito" liberale come tributario della originaria "rivoluzione Novecento è una risposta alle strampalate semplificazioni, al clima morale" del Cristianesimo: una sorta, per Croce, di rivoluzione di sincretismo relativista, di banalizzazione, di svalutazione copernicana che spiega la specificità e le ragioni della comparata di "tutte" le religioni e delle loro simbologie che episodi civilizzazione europea. Il Cristianesimo, conclude Croce, in quanto come quelli di Padova hanno sollevato. Croce era "inquieto" quella prospettiva e spiegazione della storia civile e culturale europea è in notte del '42, certamente, per gli esiti della guerra, per la tragedia qualche modo oltre la Chiesa. E non "scriviamo", dichiara Croce, italiana e per il ruolo della chiesa cattolica di cui gli interessava ali "per gradire o sgradire gli uomini di Chiesa" quando rivendichiamo mentare il distacco dalla dittatura. E la speranza di un arruo- "l"uso di quel nome, cristiani, che la storia ci dimostra legittimo e lamento motivato dei cattolici nella ricostruzione liberale dell'Italia necessario" ma per richiamare l'acquisizione del Dio cristiano del futuro. Ma lo scritto va oltre. Traccia un affresco della storia come logica dello Spirito. Che, com'è noto, nel linguaggio idealista culturale europea. E finisce per caricare la chiesa, implicitamente, del liberale Croce non è altro che quella costruzione umana che di una responsabilità più vasta: di incarnare, pur con ritardi e trascende l'uomo: cultura, costume, stili di vita e di pensiero, storia. contraddizioni, non tanto una comunità credente ma il corpus Di quella parte del mondo che ha conosciuto la "rivoluzione istituzionale di una civiltà, lo "spirito" europeo. È dichiaratamente morale" del cristianesimo. Croce deve oggettivare il significato del non strettamente religiosa e laica la inevitabilità del dirsi "cristiani" Cristo e non lo dice ma l'umanesimo come "rivoluzione dello che Croce rivendica. Egli traccia una versione civile, laica, spirito", umanistica e tollerante, e centralità della coscienza culturale del cristianesimo che lo spoglia dei connotati dei riti, della umana è la stessa tensione che anima il tormentato cammino del credenza e dei "dommi". E ne richiede la funzione, universalistica e giudaismo e la sua storia "europea": una grande cultura dell'uomo, laica, di origine e lievito dello spirito "liberale" europeo. La pro- risposta allo spaesamento della diaspora, che fa dire che lo spirito spettiva "cristiana" è sintetizzata dal filosofo idealista nella "rivo- europeo è, certamente, giudaico-cristiano. Ecco: mi ricorderei del luzione morale" rappresentata dal cristianesimo rispetto alle civi- libretto di Croce e della sua idea civile, laica, culturale del "dirsi lizzazioni e alle culture che l'avevano preceduto. Anche rispetto al- cristiani" quando discettiamo della simbologia cattolica nei nostri la grandezza del pensiero, dell'arte e della cultura dell'ellenismo luoghi pubblici. Che è un richiamo di umanesimo, di cultura classico da cui il cristianesimo trae origine. Echeggiando in anti- dell'amore e della tolleranza. E quando, stancamente e cipo il Papa di Ratisbona, Croce specifica la "rivoluzione morale" volgarmente, concediamo ragioni al carattere "offensivo" di un del Cristianesimo come la più potente rottura filosofica e culturale crocefisso o di un compassionevole canto di Natale. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 pagina 3 10/12/2015 CHI È OGGI ERODE? di Camillo Ripamonti (*) Settecento i bambini morti da inizio anno. Una nuova «strage degli innocenti » si consuma ormai da mesi davanti a un'Unione Europea indifferente e sorda al grido di un'umanità che cerca giustizia. Quest'Europa chiusa in se stessa, sempre più ripiegata sui propri confini e sulle proprie paure sta rinunciando alla vocazione di baluardo di civiltà e democrazia. Controlli, divieti, muri, hotspot, respingimenti alle frontiere... non può essere questa la soluzione al complesso fenomeno delle migrazioni. È assurdo pensare di poter fermare chi si mette in cammino in cerca di salvezza. Bisogna agire, programmare e regolare per accogliere e integrare in maniera costruttiva ed efficace. Ostinarsi a discriminare e 'classificare' con una pervicace mancanza di visione rischia di diventare la nostra condanna. L'ultima strage di bimbi è avvenuta pressoché simultaneamente all'apertura del Giubileo della Misericordia. Si tratta di un tragico ossimoro. Le istituzioni, la società civile aprano gli occhi: non c'è Giubileo finché c'è ingiustizia. Non c'è misericordia finché restiamo indifferenti davanti al dolore di chi non può che fuggire. Nella cappella degli Scrovegni a Padova c'è un celebre affresco di Giotto che raffigura la strage degli innocenti, episodio raccontato nel Vangelo di Matteo: Erode, reso cieco dalla paura di perdere il trono, ordina l'uccisione di tutti i piccoli per eliminare Gesù, il Messia. A volte viene da pensare se non siamo forse noi gli Erode di oggi! Un vero e proprio massacro di innocenti, e dei loro fratelli e sorelle maggiori e delle madri e dei padri, si consuma da mesi davanti a tutti noi cittadini di un'Europa accecata da sospetto, paura ed egoismo. M a come è possibile che ci siamo ridotti a sentire il bisogno di difenderci anche da bambini che scappano senza sapere da chi e da che cosa? È così complicato capire quanto sia assurdo e profondamente sbagliato che una madre, senza avere alternative percorribili, metta sé e i propri figli in mano a trafficanti che vendono morte, spacciandola per speranza? «La mistica della misericordia è una mistica degli occhi aperti, aperti per vedere la miseria dell'altro, per vedere i bisogni che oggi cambiano molto velocemente», commentava il cardinal Kasper, presidente emerito del Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, alla vigilia dell'apertura dell'Anno Santo. Apriamo gli occhi, destiamo le coscienze, risvegliamoci dal lungo sonno in cui siamo deliberatamente caduti per non sentire il richiamo di un'umanità dolente che chiede giustizia dalle vessazioni, pace dopo anni di guerre e persecuzioni, diritti e democrazia. I migranti oggi sono il luogo esistenziale della nostra coscienza, della nostra memoria, sono baluardo dei nostri valori. Li trattiamo come nemici da respingere ma in realtà sono la nostra unica ancora di salvezza. Sono l'antidoto al più cieco egoismo, alla memoria troppo corta, alla superficialità delle idee, alla mancanza di visione. Loro più di noi sono vittime del terrorismo, della paura, di logiche di sopraffazione e abuso. Tracciare una via insieme e decidere di percorrerla fianco a fianco è l'unica possibilità che abbiamo per sconfiggere chi ci vuole soggiogati alla violenza e alla paura. Musulmani e cristiani sanno bene che Misericordia è il nome del loro comune Dio; sanno che senza misericordia non c'è salvezza, sanno declinare da secoli - pur tra errori e orrori della storia umana - il vero significato di questa parola così bella e complessa, troppo poco usata prima che papa Francesco le desse nuova L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 dimora nel lessico quotidiano di ciascuno di noi. Una parola così bella racchiude in sé una ricchezza etica, politica, antropologica che di per sé basterebbe applicarla per risolvere molti dei problemi che affliggono l'umanità. È una parola che dà significato alla politica prima che alla religione. Facciamo in modo che a partire da questo Giubileo non resti solo una parola. Usiamo misericordia per salvare chi fugge da guerre e persecuzioni. «Ero forestiero e mi avete accolto...». Questa non è solo un'opera di misericordia, ma è l'indice del senso di umanità di una società. (*) Camillo Ripamonti Presidente del Centro Astalli Servizio dei Gesuiti per i rifugiati in Italia RIPRODUZIONE RISERVATA. 11/12/2015 Lo sbancato di MASSIMO GRAMELLINI Di fronte ai miasmi della finanza tossica che spingono i risparmiatori più fragili al suicidio, il presidente dell'Abi non può continuare a dire: chi si sente danneggiato vada dai carabinieri. Uno va dai carabinieri per difendersi dai ciarlatani, non dai banchieri, e si spera che le due categorie non siano sinonimi, almeno per il presidente dell'Abi. Nell'immaginario collettivo le banche conservano una dimensione umana che sfugge ai ragionamenti algidi di una classe dirigente sganciata dal mondo reale. Il mondo reale è composto da persone semplici che assomigliano al signor Luigino. Persone che entrano in banca come in ospedale: con la speranza e la necessità di fidarsi. I soldi e la salute sono i loro pensieri fissi e li consegnano a professionisti che ritengono in grado di prendersene cura. In un rapporto così sbilanciato il medico dei soldi ha il dovere di mettersi nei panni del paziente e consigliargli una terapia adeguata. Non basta trincerarsi dietro le formulette burocratiche e i contratti scritti in lillipuziano per lavarsene le mani, dal momento che «il cliente sapeva». Certo che il cliente Luigino sapeva di correre dei rischi. Ma poiché non aveva gli strumenti per valutarli e forse neanche per rendersene conto, andava indirizzato diversamente. Invece gli hanno fatto firmare delle carte in cui sgravava la banca da ogni responsabilità. E lui le ha firmate, perché a un certo punto sprofondi dentro un meccanismo infernale da cui non sai come uscire se non immergendoti sempre di più. Eppure il compito di una banca resta difendere i soldi degli altri. Altrimenti non è più una banca, ma una banda. pagina 4 16/12/2015 Rispetto delle fedi altrui non significa negare a noi la libertà religiosa di BRUNO FERRARO (*) Da quando si è dilatato il fenomeno dell'immigrazione, con conseguente massiccio arrivo nel nostro Paese di migliaia di migranti di fede islamica, si assiste ciclicamente al riemergere di fondamentalismi che si ritenevano superati dalla storia. In questa occasione mi sento dunque obbligato a fare chiarezza, soffermandomi a parlare del fondamentalismo a sfondo etnicoreligioso, della giusta collocazione dei simboli religiosi nel quadro della libertà di culto, facendo tesoro dei principi costituzionali che mi sembrano (malgrado la Costituzione risalga al 1948) moderni, lungimiranti e al passo con i tempi. Afferma dunque l'art. 19 che tutti, senza distinzione, hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di diritti contrari al buon costume. Ancor prima l'art. 3 afferma la pari dignità sociale e l'eguaglianza davanti alla legge, senza distinzioe di religione, facendo obbligo alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il raggiungimento della parità. Qualora si rifletta sul significato dei richiamati principi, tanti atteggiamenti si condannano da soli e prese di posizione basate su un malinteso senso di rispetto per il diritto al dissenso rivelano l'assoluta fragilità delle premesse che sono alla loro base. Valga il vero. "L'Assessore mette un crocifisso e il Sindaco Pd lo caccia via" (ottobre 2012) per finire (si fa per dire) ai giorni nostri: "Il Preside nega il concerto di Natale" (a Rozzano); "Il Preside non autorizza la visita del Vescovo" (nel Sassarese); "Il Vescovo di Padova invita a fare tanti passi indietro per mantenerci nella pace". Il perché del mio aperto dissenso, da giurista e non da credente, è presto detto. Intanto, come ho ricordato, libertà religiosa e libertà di culto sono massimamente tutelati dalla Costituzione, la quale non sceglie affatto di L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 trasformare in un valore la cosiddetta laicità. Lo Stato è laico ma i cittadini fanno bene, per se stessi e per i figli, a coltivare una formazione religiosa. In secondo luogo, escludere i simboli religiosi dalle scuole, violando consuetudini che si perdono nel tempo, ha il significato di un atto di violenza nei confronti dei più piccoli che alla festa del presepe e alla presenza del crocifisso sono da sempre abituati, al pari dei canti natalizi e dell'albero di Natale. In questo i bambini sono andati oltre ogni pregiudizio, a prescindere dal credo religioso, come pure gli adulti musulmani interpellati che hanno convenuto sulla "non offensività" dei simboli cristiani. In terzo luogo, l'idea dell'integrazione non presuppone la cancellazione della propria identità, né questa può costituire una "provocazione". Se così fosse, dovremmo bandire la libertà di culto, che è invece garantita dalla Costituzione. In quarto luogo, non si capisce il nesso tra pace, amicizia e fratellanza da una parte ed il bando del Natale e del crocifisso dall'altra: dobbiamo allora abolire le feste scolastiche natalizie? Infine, presepe e crocifisso non sono simboli che dividono: il primo evoca il ricordo di una società bucolica fatta di persone semplici e timorate; il secondo è un clamoroso esempio di "risarcimento" nei confronti della più illustre vittima di un errore giudiziario nella storia (Gesù Cristo). L'Associazione Genitori (AGE) ha affermato che «l'inclusione non passa per la cancellazione della storia, delle tradizioni e dei simboli fondanti e identitari di un popolo e di un Paese». Tolleranza e reciproca conoscenza sì, ma non bollando il cristianesimo, che ha contrassegnato e permeato la storia e le manifestazioni artistiche e letterarie della nostra Italia. Tuteliamo quindi la libertà di culto e di religione degli altri, ma senza negare la stessa a noi medesimi! (*) Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione pagina 5 14/12/2015 La Conferenza sul clima di Parigi ha fruttato un accordo storico per fermare il surriscaldamento globale. Cosa succederà ora? Non sappiamo se gli obiettivi saranno rispettati, ma il percorso fissato si preannuncia doloroso, costoso e controverso Dovremo far sparire 7 miliardi di tonnellate di Co2 dall'atmosfera. E inventare sistemi creativi per non frenare la crescita La Terra a dieta di energia di FLAVIO POMPETTI IL BILANCIO NEW YORK Stringiamo la cinghia e allacciamo le cinture: il mondo sta per affrontare dopo la conferenza sul clima di Parigi la più ambiziosa dieta di energia che sia mai stata concepita. Non sappiamo ancora se riusciremo a rispettarla ne se ci darà i risultati auspicati; sappiamo invece che nella migliore delle ipotesi sarà dolorosa, costosa e controversa. A Parigi i rappresentanti di 195 paesi si sono impegnati a mantenere per la fine del secolo il surriscaldamento del pianeta entro il limite dei due gradi dall'inizio della rivoluzione industriale, anzi si è detto che la soglia è troppo vicina al baratro del disastro ambientale, quindi sarà meglio contenerla entro un grado e mezzo. È questo un traguardo ambizioso, e infatti fino ad oggi era stato avversato da molti dei partecipanti; essere riusciti a concordarlo è forse il migliore risultato della conferenza. Negli ultimi 150 anni un intero grado di temperatura è già stato aggiunto alla media globale; invertire la marcia in piena corsa, con un numero sempre più grande di paesi in piena crescita economica, e che quindi producono e consumano più energia, sarà molto difficile. Il presidente americano Barack Obama, che è stato la forza trainante dietro il summit parigino, ha ottenuto il consenso dopo aver accettato di cancellare dall'accordo i vincoli legali che avrebbero obbligato i firmatari alla sua realizzazione, e che avrebbero costretto ad una verifica parlamentare destinata almeno negli Usa al fallimento. L'obbligo è stato sostituito da autocertificazione da parte di ogni stato, con una verifica quinquennale dei traguardi raggiunti e dei piani per il futuro. Più che un accordo vincolante, la carta di Parigi è quindi una presa di coscienza collettiva, la prima in 25 anni di dibattito. C'è solo da augurarsi che questo ritardo non ci sarà fatale. OBIETTIVI Dovremo far sparire 7 miliardi di tonnellate dell'anidride carbonica che oggi emettiamo nell'atmosfera per arrivare ad un punto di equilibrio del sistema terrestre, nel quale l'uomo smetterà di contribuire all'effetto serra. Dobbiamo farlo entro il 2050 per contenere il surriscaldamento a 1,5 gradi, o il 2070, se potremo permetterci due gradi di calore aggiunto. Per arrivare alla meta possiamo sperare in un miracolo, come l'improvviso arresto del disboscamento globale (gli alberi assorbono l'anidride, ma l'uomo ha L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 sempre più bisogno di terra coltivabile per sfamare la popolazione che cresce). Forse riusciremo a produrre micro-alghe ad alto contenuto ferroso che arrestino l'acidificazione degli oceani, oppure a costruire giganteschi specchi spaziali che deflettano parte dei raggi solari che colpiscono la Terra. «Nella migliore delle ipotesi queste conquiste tecnologiche ci permetterebbero di risolvere il 10% del problema» ha commentato dopo la firma dell'accordo Kevin Anderson, vice direttore del britannico Tyndall Center per la ricerca sul clima. Al momento il metodo più sicuro, efficace e doloroso per indirizzare il restante 90% è la riduzione delle emissioni. Spegnere la luce, rallentare la crescita. La grande novità dopo Parigi è che Cina e India per la prima volta hanno accettato l'idea di dover essere parte della soluzione, dopo aver preteso per due decenni di essere esentate da qualsiasi misura restrittiva. Le loro economie sono cresciute al punto in cui inquinamento e surriscaldamento sono percepiti come un problema maggiore rispetto a quello della povertà. Ma la crescita dei due paesi asiatici, così come la ripresa dell'economia americana dopo la crisi del 2008, è stata ottenuta con un enorme utilizzo delle risorse fossili, che sono la prima fonte di emissioni dei gas serra. Mentre a Parigi si discuteva di come ridurre il consumo di petrolio e l'attività delle centrali a carbone, i paesi produttori di greggio nel Golfo Persico come a Washington deciso di abolire ogni tetto ai volumi delle estrazioni, anche di fronte ad una caduta dei prezzi senza precedenti negli ultimi quindici anni. Consumare meno energia fossile vuol dire fermare le macchine o investire sulle fonti rinnovabili, due misure che alle orecchie dei governanti suonano come una perdita di profitto o un aumento della spesa, entrambi impopolari nelle cabine elettorali. E per i paesi meno ricchi queste scelte sono ancora più onerose. Per questo avevano chiesto di rendere vincolante il finanziamento del fondo da 100 miliardi di dollari che li aiutasse nel passaggio. Un fondo già approvato nel 2009 a Copenaghen, che in sei anni ha raccolto appena 4 miliardi, e che nel testo di Parigi è finito nel preambolo senza poi tradursi in disposizioni attuative. Un fondo che rischia di restare una dichiarazione di intenti, così come potrebbe accadere alla lotta contro la catastrofe climatica. © RIPRODUZIONE RISERVATA. pagina 6 16/12/2015 Noi genitori e l'età giusta per Facebook di MASSIMO RUSSO Non importa se i nostri figli a otto anni hanno in tasca telefonini con una potenza di calcolo superiore di un migliaio di volte a quella della sonda spaziale Rosetta. Secondo quanto ha stabilito ieri l'Europa, prima dei 16 non potranno aprire un profilo su Facebook, avere una casella di posta elettronica, usare Instagram o Twitter. Va detto che nel suo bizantinismo e per far contenti tutti, l'Unione - nella riforma della normativa sui dati personali - ha previsto comunque che gli Stati membri possano stabilire età diverse, visto che ad esempio i polacchi, insoddisfatti, volevano il limite fosse fissato alla maggiore età. La regola sul consenso informatico comunque rimane, e ci vorrà il permesso esplicito dei genitori perché gli adolescenti possano registrarsi online. Ancora una volta l'Unione non perde occasione per dimostrare quanto sia lontana dalle abitudini dei suoi cittadini, visto che circa il 70% dei tredicenni è iscritto a Facebook. Anzi, l'età media di apertura del profilo, secondo un sondaggio di qualche anno fa, è di dodici anni, prima ancora di quanto preveda la stessa piattaforma. Ma la velleità di un legislatore che ritiene di poter cambiare il mondo a colpi di Gazzetta ufficiale in fondo interessa poco. La questione di quale sia l'età giusta per la cittadinanza digitale invece è un problema vero, avvertito in tutte le famiglie. E ciò avviene anche se la giornata dei ragazzi si svolge ormai più in rete che fuori. Guardate gli adolescenti che abbiamo a casa: dopo scuola si scambiano i compiti via messenger, organizzano il tempo libero con i gruppi su WhatsApp, commentano le foto della gita o il regalo che sognano di ricevere per Natale su Instagram e Pinterest, si confidano su Snapchat o Tumblr, si sfidano ai videogame con coetanei che stanno dall'altra parte del pianeta e probabilmente non vedranno mai. Non conoscente nemmeno di nome alcuni dei servizi elencati? Ecco, è proprio L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 questo il punto. Il primo giorno delle elementari, mio padre mi accompagnò a scuola, mi fece vedere il semaforo dove attraversare, percorremmo insieme la strada che dal giorno dopo avrei dovuto fare da solo. Così avveniva nella città di provincia in cui sono cresciuto. Oggi molti genitori non sono in grado di fare altrettanto per la vita digitale dei loro figli. Vedono pericoli in rete perché loro stessi non la conoscono, vietano in modo arbitrario e incomprensibile l'uso dello smartphone che essi stessi hanno regalato, e così facendo dimenticano un principio fondamentale: dare responsabilità è il modo migliore per ricevere in cambio maturità. Proviamo a farla insieme, invece, questa strada. Sediamoci a fianco a loro e perdiamo un po' di tempo a scoprire come è possibile modificare le impostazioni della privacy delle piattaforme digitali per tutelare la riservatezza e fare in modo che foto e commenti rimangano solo tra coetanei, raccontiamo di quanto sia importante pensare prima di premere il pulsante pubblica, di come dietro lo schermo ci siano altre persone, che meritano e ci devono rispetto, argomentiamo che forse non tutto va condiviso e che non sempre bisogna farlo. Internet è una rete di reti, locali e globali, e questo ai ragazzi non sempre è chiaro. Credono di parlare solo agli amici, qui e ora, e non si rendono conto di comunicare nello spazio e nel tempo, perché il pensiero di un istante può rimanere online per anni. Recita l'articolo due della Dichiarazione dei diritti in Internet, approvata dal Parlamento italiano, che «l'accesso a Internet è diritto fondamentale della persona e condizione per il suo pieno sviluppo individuale e sociale». Come osservava qualche tempo fa Danah Boyd, una delle più autorevoli studiose in tema di ragazzi e social network, più che rinforzare o estendere «un regime di norme che produca restrizioni basate sull'età», dovremmo fare tutti un passo indietro, e capire come insegnare ai nostri figli a diventare «cittadini digitali responsabili». pagina 7 PAPA FRANCESCO ANGELUS Piazza San Pietro III Domenica di Avvento, 13 dicembre 2015 Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Nel Vangelo di oggi c’è una domanda scandita per tre volte: «Che cosa dobbiamo fare?» (Lc 3,10.12.14). La rivolgono a Giovanni Battista tre categorie di persone: primo, la folla in genere; secondo, i pubblicani, ossia gli esattori delle tasse; e, terzo, alcuni soldati. Ognuno di questi gruppi interroga il profeta su quello che deve fare per attuare la conversione che egli sta predicando. La risposta di Giovanni alla domanda della folla è la condivisione dei beni di prima necessità. Cioè, al primo gruppo, la folla, dice di condividere i beni di prima necessità, e parla così: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto» (v. 11). Poi, al secondo gruppo, agli esattori delle tasse, dice di non esigere nulla di più della somma dovuta (cfr v. 13). Cosa vuol dire questo? Non fare “tangenti”, è chiaro il Battista. E al terzo gruppo, ai soldati, domanda di non estorcere niente a nessuno ma di accontentarsi delle loro paghe (cfr v. 14). Sono le tre risposte alle tre domande di questi gruppi. Tre risposte per un identico cammino di conversione, che si manifesta in impegni concreti di giustizia e di solidarietà. E’ la strada che Gesù indica in tutta la sua predicazione: la strada dell’amore fattivo per il prossimo. Da questi ammonimenti di Giovanni Battista comprendiamo quali fossero le tendenze generali di chi in quell’epoca deteneva il potere, sotto forme diverse. Le cose non sono cambiate tanto. Tuttavia, nessuna categoria di persone è esclusa dal percorrere la strada della conversione per ottenere la salvezza, nemmeno i pubblicani considerati peccatori per definizione: neppure loro sono esclusi dalla salvezza. Dio non preclude a nessuno la L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 pagina 8 possibilità di salvarsi. Egli è – per così dire – ansioso di usare misericordia, usarla verso tutti, e di accogliere ciascuno nel tenero abbraccio della riconciliazione e del perdono. Questa domanda – che cosa dobbiamo fare? – la sentiamo anche nostra. La liturgia di oggi ci ripete, con le parole di Giovanni, che occorre convertirsi, bisogna cambiare direzione di marcia e intraprendere la strada della giustizia, della solidarietà, della sobrietà: sono i valori imprescindibili di una esistenza pienamente umana e autenticamente cristiana. Convertitevi! È la sintesi del messaggio del Battista. E la liturgia di questa terza domenica di Avvento ci aiuta a riscoprire una dimensione particolare della conversione: la gioia. Chi si converte e si avvicina al Signore, sente la gioia. Il profeta Sofonia ci dice oggi: «Rallegrati, figlia di Sion!», rivolto a Gerusalemme (Sof 3,14); e l’apostolo Paolo esorta così i cristiani di Filippi: «Siate sempre lieti nel Signore» (Fil 4,4). Oggi ci vuole coraggio a parlare di gioia, ci vuole soprattutto fede! Il mondo è assillato da tanti problemi, il futuro gravato da incognite e timori. Eppure il cristiano è una persona gioiosa, e la sua gioia non è qualcosa di superficiale ed effimero, ma di profondo e stabile, perché è un dono del Signore che riempie la vita. La nostra gioia deriva dalla certezza che «il Signore è vicino» (Fil 4,5): è vicino con la sua tenerezza, con la sua misericordia, col suo perdono e il suo amore. La Vergine Maria ci aiuti a rafforzare la nostra fede, perché sappiamo accogliere il Dio della gioia, il Dio della misericordia, che sempre vuole abitare in mezzo ai suoi figli. E la nostra Madre ci insegni a condividere le lacrime con chi piange, per poter condividere anche il sorriso. © Copyright 2015 - Libreria Editrice Vaticana L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 pagina 9 quaderno 3953 7 marzo 2015 SIAMO SOLI NELL'UNIVERSO? Giandomenico Mucci S.I. Qualche anno fa è stato pubblicato in italiano un volume di Armin Kreiner, professore di teologia alla Ludwig Maximilians Universitât di Monaco di Baviera, sull'esistenza di forme di vita intelligente nell'universo. Se si esclude una segnalazione del card. Ravasi, non pare che in Italia il libro abbia avuto un'eco apprezzabile. Forse perché il mercato è saturo su un argomento ciclicamente riproposto dalla stampa e dal cinema e, quindi, caduto nell'indifferenza da sazietà. Infatti, è dal 1947 che si parla di Ufo (Unidentified Flying Objects), delle cosiddette «religioni ufolologiche», come i Raeliani con le loro teorie sugli 'elohîm extraterrestri, dei rapimenti di esseri umani su navi spaziali pilotate da strane creature simili a ectoplasmi. Ed è subito fiorita una lunga serie di spettacoli terrificanti cinematografici e televisivi. Quasi non L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 c'è stato giornale o rivista che non abbia dato spazio a discussioni pseudo-scientifiche e pseudoteolo-giche, all'olismo quantistico, alla fantascienza, al para-normale e agli studi psicofisici preternormali, a esperienze eso-teriche e di morte apparente: «una miscela imbandita in allettanti contenitori da immettere sulle bancarelle digitali di Internet», come scrive Ravasi. Ma non c'è stata soltanto paccottiglia. Sono ormai molti anni che, sul piano scientifico, opera il Seti (Search for Extraterrestrial Intelligence), il progetto creato con lo scopo di captare segnali radio provenienti dal cosmo e indizi di vita intelligente extraterrestre. Finora però nessun segnale e nessun indizio. La domanda resta e non data da oggi: siamo soli nell'universo? Kepler e Kant erano convinti esistesse una pluralità di mondi abitati. Nel Settecento, pagina 10 quaderno 3953 7 marzo 2015 Swedenborg diceva di aver raccolto addirittura messaggi non di provenienza terrestre, sulla base dei quali fondò una « religione», tenuta ancora oggi dalla Swedenborg Foundation di West Chester in Pennsylvania. Anche la nostra rivista, poco dopo il boom giornalistico, si interessò all'argomento e dall'articolo di un nostro collega di quegli anni traiamo i dati storici e le osservazioni teologiche seguenti. Gli extraterrestri nella storia della teologia Molto prima dell'epoca moderna, i teologi si erano posti il problema della possibilità della vita intelligente fuori della Terra e lo avevano risolto in senso negativo. Il geocentrismo impediva ai teologi medievali di pensare, e anche soltanto di immaginare, una vita intelligente fuori del centro dell'universo, del pianeta sul quale era avvenuta l'Incarnazione. Con il Rinascimento, si fece strada l'idea che potessero L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 esistere altri mondi abitati da creature ragionevoli, perché l'eliocentrismo aveva fatto crollare la concezione che faceva della Terra il centro del sistema cosmico. Il primo che ebbe tale idea fu Nicola Cusano (1401-64), filosofo e matematico tedesco, cardinale vescovo di Bressanone, che ipotizzò l'impossibilità di escludere dalle stelle la vita di esseri da noi differentissimi, ma come noi aventi vita intellettuale. Per la prima volta, ciò che era stato oggetto delle fantasticherie mitologiche degli antichi, si imponeva, dopo Copernico e Galileo, alla considerazione dei teologi e dei dotti come realtà possibile. Sorse allora lo storico conflitto tra lo scienziato pisano e quanti, nelle sue scoperte, videro un pericolo per la conservazione delle verità rivelate. «Considerati nell'atmosfera spirituale del tempo, i timori dei teologi appaiono comprensibili. Un modo di pensare formatosi in secoli di storia non può cambiare in un momento. Anche le idee più giuste, prima pagina 11 quaderno 3953 7 marzo 2015 d'inserirsi nel patrimonio ordinario dell'uomo colto, hanno bisogno di un periodo di tirocinio perché vengano assimilate senza generare squilibri e reazioni troppo violente. D'altra parte, lo studio della Bibbia non era così sviluppato come oggi e non erano state ancora affrontate alcune ardue e delicatissime questioni di ermeneutica e di esegesi, risolte solo in epoche posteriori». Fu soltanto nel secondo Ottocento che i teologi ebbero la certezza che l'ipotesi della pluralità dei mondi abitati non si opponeva né alla Rivelazione né alla fede della Chiesa. Anzi, in quell'arco di tempo, celebri predicatori, come il gesuita Félix e il domenicano Monsabré, si fecero apologisti di quella ipotesi e la usarono come correttivo di questo o quel punto meno chiaro o più problematico della tradizione teologica: e l'antica diffidenza si trasformò in ottimismo perfino esagerato. E non fu solo entusiasmo di predicatori. Il padre Angelo Secchi (1818-78) - gesuita e L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 astronomo di professione, autore di importanti osservazioni su Marte, classificatore delle stelle secondo il colore e precursore delle classificazioni spettrali sostenne fermamente che le regioni celesti non sono deserti disabitati, ma sedi di creature dotate di ragione. Si interessò particolarmente all'argomento il teologo tedesco Joseph Pohle. A suo giudizio, la stessa teologia depone a favore dell'esistenza di esseri intelligenti nei mondi celesti abitabili. Per questo motivo, Dio ha creato per la sua gloria. Ma questa gli deriva dalle creature intellettuali, che sono capaci di conoscerlo come creatore e di lodarne le opere. «A questo scopo non basta l'intelligenza dell'uomo di quaggiù, perché molti dei mondi stellari sono del tutto fuori del suo occhio e dei suoi strumenti di osservazione. Anche se in avvenire riuscirà a perfezionare al massimo i suoi telescopi, non potrà mai raggiungere le stelle più remote la cui luce si spegne prima di arrivare a noi. Una quantità di pagina 12 quaderno 3953 7 marzo 2015 astri gli rimarrà, quindi, sconosciuta per sempre. Chi conoscerà allora quei mondi per renderne gloria al Creatore?». Inoltre, secondo il Pohle, la sapienza e l'onnipotenza di Dio non si esauriscono certo nella pur immensa varietà delle cose create sulla Terra. Poiché gli attributi divini sono infiniti, ammettono combinazioni infinite. Allora, è bello pensare che essi si siano espressi magnificamente nell'universo in moltissime forme di organizzazione e di vita. Il discorso del teologo di Breslavia ha un suo valore, ma si presta ad alcune fondate obiezioni, una specialmente: se la gloria del Signore e il fine dell'universo dipendessero, in ogni luogo, dall'esistenza di creature ragionevoli, ne seguirebbe che queste dovrebbero esistere anche negli abissi degli oceani e nelle profondità dei vulcani. «In realtà, perché il fine della creazione venga raggiunto, al Signore basta la gloria che gli rende l'uomo del nostro pianeta, quando nelle notti chiare L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 contempla la volta stellata del cielo e pensa che oltre a ciò ch'egli vede c'è un'infinità di mondi invisibili perfino ai telescopi. Dio li ha creati perché l'uomo potesse nello stesso tempo paragonare l'immensità del suo autore con la propria infinitesimale piccolezza. In questo atto di umiltà e di amore, emesso liberamente da una creatura intelligente, c'è per il Signore degli spazi una gloria purissima, il cui valore sfugge alla capacità limitata delle nostre facoltà». Esemplare, per intendere la gloria che anche una sola creatura umana può rendere al Signore, è un celebre passo di Dante: Paradiso , XXIII, 25-33. Gli argomenti teologici non valgono né ad affermare né a escludere la presenza di esseri intelligenti sui corpi celesti. Ognuno la può ammettere o negare come meglio gli piace. Il Magistero della Chiesa non si è mai pronunciato su questa materia, sia perché la Rivelazione non la tratta, sia perché i problemi religiosi e morali dell'umanità hanno avuto come pagina 13 quaderno 3953 7 marzo 2015 loro teatro la Terra, almeno finora. Comunque, l'abitabilità teorica e pratica dei mondi è oggetto della scienza, non della teologia. Tre ipotesi Se la scienza riuscisse a dimostrare l'esistenza di creature intelligenti fuori della Terra, ancorché diverse dagli uomini per caratteri somatici e qualità psichiche, esse non apparterrebbero alla famiglia umana, che, secondo la Scrittura, ha in Adamo il suo capostipite, a meno che non si prenda sul serio la stolta idea di un'emigrazione degli uomini su qualche mondo stellare. A tali creature non si potrebbero, quindi, applicare le dottrine rivelate del peccato originale e della redenzione. Per queste creature, se esistono, Dio potrebbe aver offerto e attuato un piano di fini e di mezzi, a noi ignoto, pari alla loro natura intellettuale. In proposito, la teologia manualistica ha elaborato tre ipotesi. Prima ipotesi. Se tali creature, L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 dotate di intelletto e di volontà, sono state adornate altresì di doni preternaturali (immortalità del corpo, immunità dalla concupiscenza ecc.) e soprannaturali (grazia santificante), come i progenitori degli uomini, e se hanno superato un'eventuale prova di obbedienza, come quei progenitori non fecero, si può pensare che esse vivano in un benessere spirituale e materiale che gli uomini non conoscono, non siano soggette alla malattia e alla morte, e abbiano raggiunto un livello di progresso scientifico molto superiore al nostro. Seconda ipotesi. Se quelle creature hanno peccato come i nostri progenitori, allora o sono state abbandonate alla loro colpa, o sono state redente in un modo che noi non conosciamo, o sono state redente per i meriti di Cristo, come noi. Dell'applicazione di questi meriti, esse avrebbero potuto sapere mediante una rivelazione, individuale o collettiva, da loro accettata per fede come condizione della salvezza. Se così è avvenuto, esse hanno le stesse pagina 14 quaderno 3953 7 marzo 2015 nostre difficoltà spirituali, morali e sociali. Quanto al progresso scientifico, potrebbero essere superiori o inferiori agli uomini, a seconda della loro costituzione somatica e psichica e delle condizioni, più o meno favorevoli, del loro ambiente. Terza ipotesi. Il Signore potrebbe aver creato gli esseri intelligenti extraterrestri senza la destinazione soprannaturale, in uno stato puramente naturale, con il solo fine di conoscere e amare Dio come loro è permesso dall'esercizio delle loro facoltà. Gesù e gli extraterrestri Il volume del Kreiner mette al centro della discussione una cristologia in prospettiva cosmica. Così il card. Ravasi riassume la tesi dell'autore tedesco: «Se vogliamo accogliere la sfida lanciata alla teologia cristiana dall'eventuale esistenza di un'umanità extraterrestre, dobbiamo rielaborare il concetto classico di "Incarnazione", liberandolo dal suo nesso col peccato umano che verrebbe per questa L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 via redento. Dovremmo, invece, impostarlo sulla tesi di san Bonaventura e Duns Scoto per i quali l'Incarnazione è la pienezza del rapporto tra Dio e il mondo, iniziato con la creazione. Detto in altri termini, Dio entra nell'umanità non tanto per la contingenza della scelta peccatrice della creatura libera, quanto piuttosto per portare a compimento il suo progetto creativo globale e il suo legame con le creature, in particolare quella umana». Questa posizione fa dell'Incarnazione non più una precisa realtà storica irripetibile, ma una realtà moltiplicabile dovunque nell'universo esistono creature intelligenti. Non più l'applicazione dell'evento unico di Cristo ad altri mondi abitati, come prevede la seconda ipotesi che abbiamo sopra presentato, ma una pluralità indipendente di epifanie di Dio che annulla la centralità dell'evento Cristo. Una bomba per la cristologia classica. È corso ai ripariAndreaAguti, dell'Università di Urbino, con 1a sua introduzione critica al pagina 15 quaderno 3953 7 marzo 2015 saggio del Kreiner nell'edizione italiana. Riprendiamo la sintesi che ne ha fatto il card. Ravasi. L'evento Cristo, «pur essendo "puntuale", a causa della sua matrice trascendente, non avrebbe solo un valore "localistico" ma cosmico, come suggerisce per altro l'apostolo Paolo: "È piaciuto a Dio che abiti in Cristo tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato col sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli" (Colossesi 1,19-20); la tesi è ribadita in Efesini 1,10 ove Cristo è visto come l'asse "capitale" che unifica e salva l'intero essere. Si avrebbe, quindi, come dicono i teologi, una cristologia "inclusivista", che coordina nell'evento dell'Incarnazione tutta la relazione tra Creatore e creazione, la quale può avere modi L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 237 del 20 dicembre 2015 espressivi diversi che le differenti religioni del nostro pianeta e le ipotetiche differenti umanità extraterrestri riflettono». Per far meglio intendere questa ardita opinione, si ricorre a un parallelo: «La celebrazione della Messa applica in tempi e luoghi diversi i frutti di un unico evento storico salvifico, la morte e risurrezione di Cristo, senza moltiplicarlo, e questo è possibile perché in quell'evento storicamente "unico" è in azione Dio che è eterno e infinito e può, quindi, estendersi con la sua azione in tutto il tempo e lo spazio». Siamo ancora, con termini moderni, nell'ambito della seconda ipotesi, ma non senza una qualche ambiguità. Altro è parlare di frutti o meriti, altro di «modi espressivi», e passando sotto silenzio il senso puramente sacramentale della Messa.